Non si fermano i suicidi in carcere siamo a quota 74: un tragico record di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 novembre 2022 Siamo giunti a 74 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno, e mancano ancora due mesi alla fine. Nel giro di 48 ore gli ultimi due: uno a Siracusa e l’altro a Caltagirone. Mai in 20 anni, si è raggiunta una cifra del genere. Un macro record che diventa ancora più drammatico quando, come ha spiegato l’associazione Antigone, si fa la relazione tra il numero dei casi e la media delle persone detenute nel corso dell’anno: In carcere ci si uccide oltre 21 volte in più che nel mondo libero. Come sottolinea Antigone, non essendo ancora terminato il 2022, si può oggi calcolare il tasso di suicidi solo tra il mese di gennaio e settembre, ossia a quando risale l’ultimo aggiornamento sulla popolazione detenuta. Con un numero di presenze medie pari a 54.920 detenuti e 65 decessi avvenuti in questi nove mesi, il tasso di suicidi è oggi pari circa a 13 casi ogni 10.000 persone detenute: si tratta del valore più alto mai registrato. Quando nel 2009 si suicidarono 72 persone, i detenuti erano circa 7.000 in più. Un altro dato drammatico che sempre Antigone mette in evidenzia è quello dei suicidi nella popolazione detenuta femminile. Finora sono stati cinque. Con un tasso superiore a quello degli uomini, pari a quasi il 22%. Nel 2021 e nel 2020 ‘solo’ due si erano tolte la vita. Nessuna nel 2019. Quasi il 50% dei casi ha interessato persone di origine straniera. Se circa un terzo della popolazione detenuta è straniera, vediamo quindi come l’incidenza di suicidi è significativamente maggiore tra questi detenuti. Dalle poche informazioni a disposizione, sembrerebbe che circa un terzo dei casi di suicidi riguardava persone con una patologia psichiatrica, accertata o presunta, e/o una dipendenza da sostanze, alcol o farmaci. Le Case Circondariali di Foggia e di Milano San Vittore restano i due istituti con il maggior numero di suicidi nel corso dell’anno, con quattro decessi ognuna. Seguono con tre decessi, gli istituti di Roma Regina Coeli, Monza, Firenze Sollicciano, Torino e Palermo Ucciardone. Ovviamente non è possibile ricondurre l’accelerazione del fenomeno di quest’anno a delle ragioni precise. Ogni storia è a sé, frutto di personali dolori e personali considerazioni. Quello che però Antigone afferma è che la maggior parte delle persone che entrano in un istituto di pena hanno alle spalle situazioni già di ampia complessità: marginalità sociale ed economica, disagi psichici e dipendenze caratterizzano gran parte della popolazione detenuta. In questi ultimi anni, Antigone nelle sue visite ha raccolto un numero sempre crescente di segnalazioni relative all’aumento di persone detenute con patologie psichiatriche e alla difficoltà di intercettare e gestire tali situazioni, spesso per mancanza di risorse adeguate e per l’inadeguatezza del carcere come luogo per la loro collocazione. A tutto questo si è aggiunto negli ultimi anni la pandemia e i vari effetti che essa ha avuto su tutta la popolazione, contribuendo in molti casi ad ampliare e acuire situazioni di solitudine e sofferenza. Per chi era già in carcere e ha subito la chiusura di attività e dei contatti dell’esterno per un lungo periodo, ma anche per chi era fuori e arriva alla detenzione con un affaticamento mentale maggiore di quanto non avvenisse presumibilmente in passato. Arriviamo quindi alle proposte di Antigone. Oltre a favorire percorsi alternativi alla detenzione intramuraria, soprattutto per chi ha problematiche psichiatriche e di dipendenza, è necessario migliorare la vita all’interno degli istituti, per ridurre il più possibile il senso di isolamento, di marginalizzazione e l’assenza di speranza per il futuro. Vanno in questo senso favoriti interventi che hanno in generale un impatto positivo su tutta la popolazione detenuta e che possono ovviamente avere un effetto ancora più forte su persone con profonde sofferenze. Antigone, in questo senso, un anno fa aveva presentato un documento avanzando alcune proposte di riforma del regolamento penitenziario, al fine di sostenere la necessità di dedicare maggiore attenzione ad alcuni aspetti della vita penitenziaria, affinché il rischio suicidario possa essere controllato e ridimensionato. Il regolamento dovrebbe a tal fine prevedere in primis una maggiore cura e apertura ai rapporti con l’esterno: più telefonate (da poter effettuare in qualunque momento, direttamente dalla propria stanza detentiva, non solo ai familiari e alle persone terze che rappresentano legami significativi, ma anche alle autorità di garanzia) e allo stesso modo più colloqui. Andrebbe poi garantita particolare attenzione al momento dell’ingresso e dell’uscita dal carcere, entrambe fasi particolarmente delicate e durante le quali anche quest’anno sono avvenuti numerosi casi di suicidio. L’introduzione alla vita dell’istituto deve avvenire in maniera lenta e graduale, affinché la persona abbia la possibilità di ambientarsi alla nuova condizione e il personale il tempo necessario ad identificare eventuali problematiche e fattori di rischio. Ogni istituto dovrebbe avere reparti ad hoc per i nuovi giunti, un servizio di accoglienza strutturato in cui vengono informati sui diritti e le regole all’interno del penitenziario, la fruizione di colloqui con psicologi e/ o psichiatri e maggiori contatti con l’esterno. Maggiore attenzione, sottolinea sempre Antigone, andrebbe prevista anche per la fase di preparazione al rilascio a fine pena, affinché soprattutto per le persone che non dispongono di una rete solida all’esterno, esso non costituisca un momento traumatico da affrontare in totale assenza di supporto. La persona deve essere accompagnata al rientro in società e dotata dei principali strumenti necessari. Gli istituti devono così dotarsi di un vero e proprio servizio di preparazione al rilascio. Mai così tanti suicidi in carcere: 74 in dieci mesi, 5 anche tra le donne di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 2 novembre 2022 Il precedente drammatico primato era del 2009 quando al 31 dicembre si erano suicidate 72 persone. Settantaquattro suicidi in 10 mesi. Per le carceri italiane è il dato più triste e drammatico degli ultimi 13 anni con i numeri più importanti a Foggia e San Vittore a Milano. A raccontare questa triste conta è Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti che svolte l’attività anche con l’osservatorio sulle condizioni dei detenuti, un organismo che si occupa, tra le altre cose, di analizzare e fare il punto su quanto avviene dietro nelle strutture penitenziarie, con focus anche sui suicidi. Dato peggiore dal 2009 - Ad allarmare i rappresentanti dell’organizzazione presieduta da Patrizio Gonnella, è proprio il numero delle persone che negli ultimi dieci mesi si sono tolte la vita in carcere. Storie distinte e differenti su cui gli esperti fanno un’analisi precisa. “Si tratta del numero più alto “a quando si registra questo dato - scrivono nel documento relativo al punto sulla situazione al primo novembre -. Il precedente drammatico primato era del 2009 quando al 31 dicembre si erano suicidate 72 persone. Oggi, a fine anno, mancano ancora due mesi”. Non solo, un altro elemento sottolineato dal documento dell’associazione riguarda un altro fatto: “Quando nel 2009 si suicidarono 72 persone, i detenuti erano circa 7.000 in più”. Una percentuale preoccupante - Per valutare il tasso dei suicidi i rappresentanti dell’associazione hanno preso in considerazione la media dei detenuti, pari a 54.920 e il numero dei 65 decessi avvenuti sino a settembre. Risultato? “Il tasso di suicidi è oggi pari circa a 13 casi ogni 10.000 persone detenute: si tratta del valore più alto mai registrato. In carcere ci si uccide oltre 21 volte in più che nel mondo libero”. Altro dato preoccupante, a leggere il documento dell’associazione, quello che riguarda la popolazione femminile. Quest’anno si sono uccise cinque donne, mentre nel 2021 e nel 2020 era state due. Nella mappa sugli eventi tragici sottolineati dall’osservatorio, “le Case Circondariali di Foggia e di Milano San Vittore restano i due istituti con il maggior numero di suicidi nel corso dell’anno, con quattro decessi ognuna. Seguono con tre decessi, gli istituti di Roma Regina Coeli, Monza, Firenze Sollicciano, Torino e Palermo Ucciardone. Necessario fermarsi e capire - Per Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione, la situazione merita una riflessione importante. “Di fronte a questo numero impressionante di suicidi bisognerebbe fermarsi tutti e provare a capire il perché - dice -. Sicuramente il sistema penale e penitenziario avrebbe bisogno di una iniezione di umanità e modernizzazione. Altro che mettere tutti in galera, compresi i nostri giovani”. Le proposte - Premettendo che ogni storia è un caso a sé i rappresentanti dell’associazione ricordano le proposte avanzate per arginare questo fenomeno. Con iniziative che possono passare da percorsi alternativi alla “detenzione intramuraria per chi ha problematiche psichiatriche e di dipendenza” e inoltre interventi per limitare senso di isolamento e marginalizzaione. “Andrebbe poi garantita particolare attenzione al momento dell’ingresso e dell’uscita dal carcere, entrambe fasi particolarmente delicate e durante le quali anche quest’anno sono avvenuti numerosi casi di suicidio - è una delle proposte dell’associazione. L’introduzione alla vita dell’istituto deve avvenire in maniera lenta e graduale, affinché la persona abbia la possibilità di ambientarsi alla nuova condizione e il personale il tempo necessario ad identificare eventuali problematiche e fattori di rischio”. Ergastolo ostativo. Così si guadagnano voti e si perde il diritto di Roberto Cota Il Riformista, 2 novembre 2022 La materia del cosiddetto ergastolo ostativo (istituto che non consente di accedere ai benefici carcerari tipo permessi premio o semilibertà) non è delle più semplici perché si presta certamente ad essere strumentalizzata in senso populista: “niente benefici ai mafiosi che non collaborano con la giustizia!”. Detta così, tutti d’accordo! Anzi, il popolo, in particolare quello che si scalda sui social, andrebbe oltre: “buttiamo via la chiave, muriamoli vivi, etc.”. Elettoralmente, quindi, la posizione del governo che ha adottato un decreto legge che sostanzialmente conferma l’ergastolo ostativo per i mafiosi che non collaborano con la giustizia, è perfetta. Per il non collaborante, infatti, l’accesso ai benefici carcerari secondo il testo del decreto diventa molto difficile, se non praticamente impossibile. Oltre ad essere elettoralmente perfetta, tale posizione è anche particolarmente furba in quanto mette all’angolo tutti i detrattori che usano il pretesto della lotta alla mafia esclusivamente per avere visibilità e fare delle battaglie politiche. Sennonché, il diritto e la procedura penale sono materie che andrebbero messe al riparo dalle questioni legate alla ricerca del consenso ed alla tattica politica. Ci sono diritti fondamentali che vanno riconosciuti a tutti, che sono tutelati dalla Costituzione e che, giustamente, la Corte Costituzionale deve far rispettare. Nel nostro ordinamento non esiste la pena di morte, la pena massima è l’ergastolo. Poiché le pene devono avere una finalità rieducativa, ciascun detenuto deve avere almeno la possibilità e la speranza di potersi riabilitare. La previsione della necessaria collaborazione per un mafioso è stata pensata come dimostrazione per il reo di aver rescisso i legami criminosi e, quindi, di non essere più pericoloso. Questa condizione è necessaria per poter usufruire dei benefici penitenziari. La Corte Costituzionale, però, ha stabilito che la collaborazione non può essere l’unico modo per dimostrare di aver interrotto i legami con la criminalità organizzata ed ha invitato il Legislatore a provvedere dando tempo fino all’8 novembre. Da qui, la necessità di intervenire tramite decreto legge. Vi è da dire, che proprio la Corte, in un precedente arresto, aveva chiarito nella sostanza come, da una parte, la scelta di collaborare possa essere legata a ragioni di convenienza momentanea e, dall’altra, come la decisione di non collaborare possa essere determinata non dal mantenimento dei vincoli con l’associazione criminosa, bensì da altre ragioni come il timore di ripercussioni sui familiari. Approvare un testo, come ha fatto il governo, che è così restrittivo nel porre paletti all’accertamento della rescissione dei vincoli criminali ed alla valutazione dell’attuale pericolosità del reo, ripropone gli stessi temi di costituzionalità che hanno portato la Corte ad intervenire. Può far acquisire consenso e tranquillizzare l’opinione pubblica, ma non risolve nello specifico il problema di fondo: che si riproporrà. Cosa fare? I detenuti dovrebbero essere valutati considerando attentamente il percorso compiuto nei lunghi anni di detenzione. Proprio l’osservazione del detenuto, della sua rivisitazione critica dei fatti, dell’adesione ad attività trattamentali ed anche riparative che può fornire fondamentali elementi per riconoscerne l’effettivo cambiamento. Del resto, non dare ad un detenuto neppure una speranza vuol dire riservare un trattamento inumano persino peggiore rispetto alla pena di morte. Ira dei penalisti sul 4bis: “Sfregio alla Corte Costituzionale” di Angela Stella Il Riformista, 2 novembre 2022 Ieri il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge contenente, tra le altre, misure urgenti in materia di ergastolo ostativo e rinvio dell’entrata in vigore della riforma del processo penale al 30 dicembre. Due reazioni opposte da parte di magistratura e avvocatura. Positiva da parte dell’Associazione Nazionale Magistrati, negativa dall’Unione delle Camere Penali Italiane. Giuseppe Santalucia, vertice del sindacato delle toghe, ha infatti dichiarato: “Il ministro della Giustizia e l’intero Governo hanno fortunatamente dato ascolto alle indicazioni della magistratura associata in ordine all’opportunità di una disciplina transitoria per importanti settori della recente riforma del processo penale. Il rinvio dell’entrata in vigore del decreto attuativo si pone infatti come passaggio necessario alla definizione della disciplina transitoria e - questione di non minore rilievo - al riassetto organizzativo degli uffici giudiziari. Nel rispetto del complessivo impianto della riforma, che contiene innovazioni significative specie sul versante del sistema sanzionatorio, occorrerà ora adoperarsi affinché il suo concreto avvio non soffra rallentamenti interpretativi e non patisca ostacoli organizzativi”, ha concluso Santalucia. Per quanto concerne il fine pena mai, lo stesso Santalucia all’Ansa ha detto: “Una normativa ci voleva, credo che abbiano attinto a quella approvata da un ramo del Parlamento con qualche modifica. Capisco l’urgenza perché l’8 novembre ci sarà l’udienza della Corte costituzionale” e dunque “non mi sento di condividere il giudizio tranchant degli avvocati penalisti. Sul merito non mi sento di esprimermi- ha aggiunto-. Una disciplina comunque doveva esserci, ne discuteremo, ci sono 60 giorni di tempo per la conversione e se ci sarà da intervenire lo faremo”. Critiche invece dall’Unione delle Camere Penali Italiane che hanno redatto un duro documento: “Le addotte (seppure del tutto genericamente) difficoltà di ordine strutturale e logistico degli uffici giudiziari certamente non possono riguardare tutta la parte della riforma dedicata al sistema sanzionatorio e della esecuzione penale. La pretestuosa estensione anche a questa importante parte della riforma di esigenze di natura organizzativa, qui del tutto irrilevanti, autorizza la convinzione che detto ingiustificato rinvio preluda ad una riscrittura di questa parte della riforma, attesa la sua evidente incompatibilità con la fosca narrazione identitaria del ‘buttare la chiave’ che, all’evidenza, vuole ispirare i primi passi del nuovo governo in tema di giustizia penale”. Sulla questione dell’ergastolo ostativo la Giunta dell’Ucpi ha scritto: “Il Parlamento è stato inadempiente, ed ora la mera pendenza della udienza fissata dalla Corte per il prossimo 8 novembre non può certo tramutarsi in una ragione di urgenza, trattandosi di un esito chiaro e noto sin dalla pronuncia della ordinanza, e già prorogato una volta. Al contrario, con il pretesto della urgenza in realtà si punta a sterilizzare la decisione della Corte, che peraltro si troverà comunque di fronte ad un provvedimento di natura provvisoria perché in via di conversione”. Riguardo al merito della norma, che ricalca sostanzialmente il testo approvato dalla Camera a marzo, i penalisti sono entrati nel merito: “il d.l. propone un inammissibile peggioramento -rispetto a quello già oggetto della valutazione di incostituzionalità della Corte- del quadro normativo in tema di ostatività ed accesso alle misure alternative alla detenzione. In tal modo si pone in essere un inedito, gravissimo conflitto tra il legislatore ed il giudice delle leggi, un vero atto di ribellione del primo verso il secondo, in spregio degli assetti istituzionali e costituzionali che regolano quel rapporto. Inoltre, si opera una inammissibile manipolazione informativa verso la pubblica opinione, rappresentando le misure adottate come riferibili in via esclusiva all’ergastolo ostativo e ai reati di mafia. le misure peggiorative introdotte riguardano tutti i reati ostativi, a cominciare dai reati contro la pubblica amministrazione”. Sullo stesso piano il commento dell’associazione Antigone: “La riforma approvata è un’occasione parzialmente persa”, ha detto il presidente Patrizio Gonnella, che ha proseguito: “Il governo è rimasto imprigionato nella paura di fare un regalo alle mafie, innovando in modo non sufficiente la legislazione penitenziaria. È mancato un generale ripensamento dell’attuale disciplina della concessione dei benefici ai condannati per una serie del tutto eterogenea ed illogica di reati anche ben distanti da qualsiasi matrice organizzata, mafiosa o terroristica. Nel decreto c’è finanche un inutile aggravamento di tale disciplina”. E ha concluso: “Vedremo se la Corte potrà dirsi soddisfatta. Ricordiamo che sul tema si era espressa anche la Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo (Viola c. Italia) segnalando la necessità di un ripensamento dell’ergastolo ostativo. La sicurezza del Paese non è a rischio se i giudici di sorveglianza, nell’esercizio discrezionale delle loro funzioni, possono in casi ritenuti meritevoli favorire percorsi di rientro controllato nella vita libera dopo decenni di carcere. Uno Stato forte e autorevole non teme i propri giudici né deve auspicare la morte in prigione di nessuno”. Ergastolo ostativo, Bruno Bossio: “Testo populista, anche il Pd ha colpe” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 novembre 2022 L’ex deputata dem: “Le norme sul 4 bis varate lunedì sono peggiorative, e aprono un conflitto con la Consulta e la Cedu”. Enza Bruno Bossio, parlamentare del Partito democratico nella legislatura che si è conclusa da poco, si è sempre battuta alla Camera affinché la legge di riscrittura dell’ergastolo ostativo, cassato dalla Corte costituzionale, fosse in linea con le indicazioni date appunto dalla Consulta. Oggi commenta quanto accaduto due giorni fa in Consiglio dei Ministri. Che cosa pensa di questo decreto legge sull’ostativo? Il cosiddetto “ergastolo ostativo”, cioè l’ergastolo che non ammette l’accesso alla liberazione condizionale in ragione di una preclusione assoluta, una pena di morte mascherata potremmo definirlo, è per la Consulta costituzionalmente illegittimo. La Corte costituzionale ha dato tempo al Parlamento fino al 10 di maggio 2022 per riscrivere la norma, precisando che “compito di questa Corte sarà quello di verificare ex post la conformità alla Costituzione delle decisioni effettivamente assunte”. Alla Camera il provvedimento è stato approvato il 31 marzo scorso. In seguito al ritardo del Senato, la Corte ha poi spostato dal 10 maggio all’ 8 novembre la verifica di conformità costituzionale. È evidente dunque che il carattere di “urgenza” del decreto approvato in Cdm poteva essere motivato solo dalla necessità di modificare la norma attuale nella direzione indicata dalla Corte. Invece, il decreto approvato è “peggiorativo” della disciplina vigente e si pone in conflitto con il contenuto della decisione della Corte costituzionale e con quello della Commissione europea per i diritti dell’uomo. Il presidente Meloni è orgoglioso del testo... La presidente del Consiglio parla in coerenza con la cultura di destra e ribadisce: nessuna funzione rieducativa della pena e spregio assoluto dell’art. 27 della Costituzione. Il dato drammatico è che il Cdm a guida Fratelli d’Italia riprenda i contenuti del testo approvato dalla Camera. Un testo fortemente voluto dal M5S e dal gruppo dirigente nazionale del Pd. Cosa vuole dire? Si manifesta così una contraddizione evidente: come già evidenziato da alcuni di noi all’epoca, anche in quella circostanza il Pd, invece di difendere i principi costituzionali e i diritti umani fondamentali, ha preferito un posizionamento politico subalterno al populismo, come “partito d’ordine” appiattito su posizioni giustizialiste e forcaiole dell’antimafia di maniera. Avevamo provato a modificare questa impostazione. Già nel luglio 2019 avevo depositato una proposta di legge che applicava esattamente le indicazioni della Corte costituzionale, ma questa posizione è rimasta completamente isolata, anzi mortificata dal Pd. Meloni auspica che il testo venga “migliorato” in sede di conversione... Ovviamente al peggio non c’è mai fine soprattutto quando ascoltiamo Meloni dichiarare che ha approvato il decreto per evitare che venga abolito uno degli istituti più importanti della lotta alla mafia che è l’ergastolo ostativo, dimostrando che non ha evidentemente capito cosa accadrà l’8 novembre e a quali domande il Parlamento deve dare risposte. Come giudica la presentazione del provvedimento in conferenza stampa? La delusione più cocente è avere ascoltato l’intervento del ministro Nordio, che ricordo era il presidente dei comitati per i 5 Sì al referendum della giustizia, e che quindi, a differenza del suo presidente del Consiglio, sa bene di cosa si sta parlando. È triste assistere che una personalità come Nordio che prima di diventare ministro, da garantista, si è sempre battuto per i diritti costituzionali, oggi si arrampichi sugli specchi spiegando che il testo del decreto è coerente con le indicazioni della Corte, dando così supporto ad una narrazione sbagliata intorno al tema dell’ergastolo ostativo. Come giudica le reazioni da parte di Anm e Ucpi? Mi pare che Anm non si esprima molto nel merito del decreto su l’ergastolo ostativo ma sia più interessata al rinvio della riforma Cartabia. Condivido invece pienamente il documento della giunta dell’Unione camere penali quando afferma che nel decreto approvato dal governo, l’accettazione del principio fissato dalla Corte costituisce un espediente solo formale poiché “vengono inserite tali e tante modifiche, ed introdotte tali e tante condizioni “impossibili”, da determinare un eclatante peggioramento del regime normativo, in spregio delle indicazioni del Giudice delle Leggi”. Quotidiani, un’unica voce: quella del fasciogrillismo di Piero Sansonetti Il Riformista, 2 novembre 2022 Le prime pagine dei giornali di ieri fanno venire i brividi. Con sfumature varie sono tutti con la Meloni (tranne le mosche bianche del Manifesto e del Dubbio). Anche i giornali che avanzano qualche critica non osano né mettere in discussione la decisione di rafforzare l’ergastolo, in violazione della Costituzione, né quella di rinviare la riforma Cartabia per ordine (è stata questa la giustificazione addotta dal ministro) delle procure generali. I giornali che più colpiscono da questo punto di vista sono quelli della destra. Il Giornale, Libero, la Verità. Che sussumono anche nel linguaggio la spinta fasciogrillina - come l’abbiamo definita ieri su questo giornale, credo senza nessuna forzatura - che è alla base ideologica ed emotiva dell’offensiva reazionaria e di attacco allo Stato di Diritto lanciata da Giorgia Meloni. I grandi giornali, forse in imbarazzo, cercano di aggirare il problema con titoli generici, che non comunicano le notizie clamorose uscite dal Consiglio dei ministri. Che poi sono quattro. Prima: sfida alla Costituzione, alla Consulta e all’Europa sull’ergastolo e sulla necessità di pentirsi e di mettersi a disposizione delle Procure per ottenere i benefici di legge (con l’aggiunta che si deve dimostrare la futura buona condotta). Questa prima sfida, oltre che alla Costituzione, a ben vedere, è anche ad Aristotele e alla logica formale. Seconda: sfida di nuovo alla Costituzione con la decisione di proibire le riunioni di massa previste come legittime dall’articolo 17 della Carta. Terza: inginocchiamento davanti alla magistratura che chiede di bloccare la riforma Cartabia. Quarta: sfida alla scienza, sbeffeggiata per avere ridotto le conseguenze tragiche dell’epidemia di Covid. Come possano politici, intellettuali e giornalisti applaudirle questa raffica di decisioni insensate e repressive, è un mistero. Anzi, è la prova della fine ingloriosa di quella che fu la arrembante intellettualità italiana dei tempi di Calvino, Sciascia, Biagi, Scalfari, Montanelli. Ora il mito di tutti, anche se magari senza dichiararlo, è Marco Travaglio. Ieri è stata la giornata del trionfo di Marco Travaglio. Lui, più di tutti gli altri, si è sempre e con coerenza assoluta battuto per una politica giudiziaria fortemente repressiva e giustizialista. Si è sempre detto convinto, con tutta la sua spavalderia un po’ spocchiosa, che solo una politica fermissima di carcere, e punizioni, e processi duri e talvolta un po’ sommari, e di riduzione di tutte le garanzie dello Stato di diritto (perché gli imputati sono dalla parte del torto e i giudici da quella della ragione), possa un giorno avviare la rigenerazione di questa società e aprire le porte alla modernità. Onore a Marco, che ieri ha stravinto. Ha ottenuto da Giorgia Meloni e da un governo che sicuramente contiene al suo interno delle sfumature fasciste, quello che non era riuscito ad ottenere dai governi dell’avvocato Conte. Ciò che stupisce non è la vittoria di Travaglio: è la corsa al carro di Travaglio. Ma non ci avevano detto che il garantismo è una robaccia della destra? E i giornali della destra, effettivamente, non avevano fatto a gara a dichiararsi garantisti? Tanto che molte volte ci siamo trovati fianco a fianco in molte battaglie, contro lo strapotere della magistratura, contro i processi-persecuzione, contro l’incontrollabilità dei Pm, contro le inchieste ad orologeria, contro una infame politica carceraria e la violazione dei diritti dei condannati e degli imputati? Abbiamo fatto insieme - se non ricordo male - le battaglie per chiedere che Dell’Utri - innocente e vittima delle folli regole sulle aggravanti mafiose, anche in assenza di reato - fosse liberato dal carcere. E non abbiamo marciato assieme - sconfitti - per difendere Totò Cuffaro, anche lui vittima della persecuzione dell’antimafia professionale? E abbiamo denunciati i pentiti che travolsero Tortora, e quelli del depistaggio Scarantino. Ricordo male? Beh, amici miei, dove siete finiti? Scherzavate? Lo facevate solo così, magari perché avevate qualche amico nei guai? Se è così devo dire che avevano ragione tanti amici che mi contestavano. Mi dicevano: guarda i tuoi compagni di viaggio, credi davvero che siano liberali? Io rispondevo di sì, perché davvero lo credevo. Che cretino, che sono stato, che illuso! Noi del Riformista, insieme agli amici radicali e a quelli delle Camere penali, evidentemente, sparuta pattuglia di acchiappanuvole, ci credevamo: non pensavamo di essere finiti dentro una grande finzione e un giochetto politico piccolo piccolo. Ho letto il titolo del Giornale del mio amico Minzolini. A tutta pagina: “Sistemati gli sballati, ora tocca ai fannulloni”. Augusto, che fai? Vuoi scavalcare il Fatto? Vuoi affermare che ormai il fasciogrillismo ha dilagato ed è inarrestabile? Tralascio di copiare i titoli del Tempo, di Libero (che pubblica in prima un titolo superg-iustizialista, ma almeno piccolo piccolo…) della Verità. Diventerei noioso. Semplicemente mi faccio tre domande. la prima dettata dalla disperazione, la seconda e la terza dalla speranza. 1- Sarà possibile continuare a combattere una battaglia liberale - non esiste liberalismo senza garantismo - così isolati? 2 - Possiamo sperare che Forza Italia, che nel centrodestra è l’unica forza con radici garantiste (quasi tutte legate semplicemente alla forza e al pensiero del suo capo rovesci il tavolo e gridi: “ora fermatevi, o vi fermate o noi dal carro fasciogrillino scendiamo perché non è roba nostra”. 3 - Il Pd, ora che è all’opposizione, avrà il coraggio di alzare la voce? Non solo sui rave, per carità. Il garantismo non è solo a favore dei giovani, anche dei disgraziati. Non solo di chi è a piede libero, anche degli ergastolani. Vi prego, amici del Pd, ora che non avete legami di governo, tornate ai vostri ideali, agli ideali di tutte le persone libere di pensiero: lanciate una freccia a difesa degli ergastolani vittime della propaganda dei fasci e dei pentastellati. Amnistia e indulto, Meloni e Nordio: fatevi guidare dal buonsenso di Gennaro De Falco Il Riformista, 2 novembre 2022 Visto che il Signor Presidente del Consiglio ha esaudito sia la mia prima richiesta apparsa sulle pagine de Il Riformista quando ancora non era stata neanche nominata, vale a dire di farsi definire e chiamare come lingua italiana comanda, sia la richiesta di riportare al centro il merito, ora rivolgo un’ulteriore supplica e questa volta la rivolgo anche al signor ministro della Giustizia. La mia supplica è quella di compiere un atto di clemenza e ragionevolezza emanando un’amnistia e un indulto. Chi scrive è uno che frequenta e vive i tribunali italiani e qualche volta anche quelli stranieri da quarantadue anni, consumando in scale, corridoi e ascensori suole su suole delle sue scarpe e, forse immodestamente, afferma di sapere ciò che scrive. Detto ciò, le dico anzi le grido: emani un’amnistia ritornando ad applicare un istituto di quel tanto vituperato codice Rocco che presuntuosa follia spinse di fatto ad abrogare all’inizio di quella che io definisco la seconda guerra civile italiana comunemente detta Tangentopoli. Lo so che sotto il codice Rocco c’era la firma anche di quel tal Mussolini ma non penso che se rintrodurrà l’amnistia le daranno della fascista, del resto come ho scritto, sarebbe solo una manifestazione di clemenza e di buon senso e, secondo me, di forza dello Stato. È un dato di fatto che i tribunali, per una serie di ragioni che qui sarebbe troppo lungo richiamare, scoppiano ed alcune Corti di appello scoppiano ancora di più. Io sono seriamente convinto del fatto che il peso dei fascicoli stazionanti nei Palazzi di giustizia, tanti da aver ormai da tempo letteralmente invaso anche i gabinetti, sia tale da mettere a rischio anche la statica di molti edifici come appunto il Tribunale di Napoli, come sono altrettanto certo che con quelle folli montagne di carte sparse ovunque basterebbe anche solo un mozzicone di sigaretta per innescare immani tragedie. Del resto se la torre A del Tribunale di Napoli andò a fuoco quando ancora non c’era nulla immagino cosa potrebbe accadere oggi ma le motivazioni di questo provvedimento di buon senso e clemenza non sono affatto queste di cui pure si dovrebbe tener conto. La prima motivazione è umana o meglio umanitaria: le carceri, che assai spesso sono più che altro dormitori per senza fissa dimora, scoppiano e sono del tutto ingestibili. Lo dimostrano la vicenda della rivolta del carcere di Santa Maria Capua Vetere e di quello che è seguito e anche quella dei numerosissimi morti in occasione delle rivolte scoppiate nelle carceri nel periodi più acuti del Covid. La verità ufficiale è che sono tutti morti per overdose, e che invece di pensare a scappare si siano precipitati a prendere stupefacenti nelle infermerie che, secondo la vulgata diffusa, avevano scorte da raffineria colombiana e che i detenuti siano morti per questo. Ebbene, io non crederò mai che questa verità processuale corrisponda alla verità storica, del resto le grida dei detenuti si sono sentite anche alla TV dove vennero anche trasmesse delle immagini poi in parte censurate e grida e immagini assolutamente eloquenti. Ma, dovendo, con molto sforzo, fingere di essere del tutto stupido devo anche dire che se le cose fossero andate come si è detto si tratterebbe di morti da disagio carcerario e che lo stato si è dimostrato incapace di assicurare la vita dei detenuti della cui custodia è direttamente responsabile. Secondo alcuni occorrerebbero nuove carceri: ora, a parte il fatto che le carceri ci sono già e in qualche caso sono state dismesse o chiuse per carenza di personale, per riaprirle o costruirle occorre tempo e nell’attesa che si fa? Se le Procure e soprattutto i Tribunali di Sorveglianza fossero efficienti e venissero eseguiti gli ordini di carcerazione che giacciono per ogni dove e che, per lo più, riguardano venditori di qualche pacchetto di sigarette di contrabbando o di cd contraffatti o fascette false per i concerti i detenuti sarebbero talmente tanti che dovrebbero essere messi negli stadi e comunque, nonostante i ritardi nelle esecuzioni, non mi pare che oggi in Italia ci siano i morti per strada. L’amnistia è ed è sempre stata un momento di pacificazione paritario e trasparente ed un mezzo per svuotare carceri e cancellerie dei tribunali di fascicoli privi di ogni senso ed eseguibilità. Come non ricordare l’amnistia emanata da Palmiro Togliatti nel ‘46 che si estese sino al 1953 e i successivi provvedimenti di clemenza che hanno sempre cercato di chiudere le ricorrenti lacerazioni che hanno attraversato il nostro Paese, dalla guerra civile al cosiddetto Autunno caldo. Come la prima guerra civile italiana si è chiusa, almeno nella sua fase più cruenta, con un’amnistia emanata dal vincitore così deve trovare la parola fine la seconda guerra civile iniziata nel 1989 con un’amnistia di cui ora si vedono le condizioni politiche, la necessità e l’assoluta urgenza. So perfettamente che un’amnistia penalizzerebbe non poco gli avvocati cui verrebbe sottratto del contenzioso ma so anche che in questa situazione cambierebbe ben poco perché tanto le cause pendenti non le faranno mai e questo lo sanno anche i loro clienti che, anche per questa ragione, non le pagano. Quindi, meglio per tutti metterci una pietra sopra e ripartire. Mi rendo conto che il problema potrebbe forse essere politico e che potrebbe venire proprio dal fuoco amico ma mi pare certo che la proposta troverebbe seguito anche in ampia parte delle opposizioni, a cominciare da Italia Viva e anche i 5 Stelle che, pur con la spregiudicatezza della loro politica alla fine anche per le “peculiarità” del loro attuale elettorato, non potrebbero opporsi più di tanto. Io non penso che un’amnistia o un indulto siano una resa da parte dello Stato ma che anzi siano una manifestazione di forza e di riequilibrio dei poteri tra loro. Se davvero si vuole aprire una nuova fase, invece di inseguire confuse ed impraticabili innovazioni bisogna voltare seriamente pagina spiegando la situazione alla gente per quella che è, senza far leva su sensazioni di pericolo ed insicurezza ampiamente sopravvalutate anche per l’esistenza di nuovi sistemi di controllo del territorio prima del tutto assenti. Gli strumenti li abbiamo già e sono efficaci e collaudati, dobbiamo solo scegliere di usarli. Gli annunci garantisti di Nordio si scontrano con la realtà del governo di Giuliano Santoro Il Manifesto, 2 novembre 2022 Cattivi consigli. L’imbarazzo del ministro della giustizia: l’ex magistrato si era schierato per la “depenalizzazione” ma arrivano misure securitarie. Secondo i dati elaborati da Open polis, il governo Meloni ha l’età media più alta della storia repubblicana. Dunque non ci sarebbe da stupirsi che nel suo primo atto abbia rastrellato allarmi costruiti ad hoc per scatenare quello che il criminologo Stanley Cohen ha definito “panico morale”. Un’ondata rivolta contro la devianza giovanile che sarebbe rappresentata dai rave party. Contro i quali il governo individua una nuova fattispecie di reato: dagli articoli sensazionalistici di giornale si va direttamente agli articoli del codice penale. Quello che risalta, tuttavia, è che questa operazione securitaria agita sulla spinta di una campagna mediatica avvenga con l’avallo di Carlo Nordio, il ministro della giustizia che ha sempre fatto professione di “garantismo” e che, per limitarsi ai giorni scorsi, subito dopo il giuramento al Quirinale aveva annunciato di voler ridurre i tempi della giustizia attraverso la “riduzione dei reati”. “La velocizzazione avviene con la depenalizzazione - aveva detto Nordio - Quindi va eliminato il pregiudizio secondo cui la sicurezza, o la buona amministrazione, siano tutelate dalle leggi penali”. Al confronto, la misura proposta da Cartabia per scarcerare i condannati a meno di quattro anni appariva meno radicale. Per di più sulla riforma che porta il nome della giurista che l’ha preceduta a Largo Arenula, sospesa l’altro ieri dal governo Meloni, torna alla mente quando Nordio diceva che l’ergastolo ostativo rappresenta “un’eresia contraria alla Costituzione”. L’Associazione nazionale dei magistrati, storicamente contraria all’abolizione delle pene ha provocatoriamente accolto l’obiettivo che il neo-ministro sembrava essersi scelto addirittura invocando il superamento del codice Rocco, risalente all’epoca fascista. “Nordio ha accennato alla depenalizzazione, noi siamo favorevoli - ha detto il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia - Gli faccio tanti auguri, perché in molti ci hanno provato nel passato e in pochi ci sono riusciti”. “Fino ad ora come editorialista ho scritto e parlato molto e fatto poco, d’ora in avanti sarà il contrario”, ha detto il guardasigilli per mascherare l’imbarazzo dopo che il governo di cui fa parte ha svelato il suo volto tutt’altro che garantista. La Lega ha piazzato come sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari. I retroscena descrivono l’imbarazzo di Nordio, ma per lui la via rischia di complicarsi ulteriormente. Ostellari fu relatore della legge sulla legittima difesa, altro provvedimento non proprio ispirato al “garantismo”. Il futuro ministro dovette mettere in campo ogni acrobazia retorica per difenderla. “L’intervento del Pm sarà sempre necessario: dovrà verificare presupposti come l’attualità del pericolo, la proporzionalità dell’offesa e della reazione, lo stato di turbamento”, disse per cercare di salvare la capra garantista e i cavoli della militanza nel centrodestra. Per restare alla sua ammissione, quelli erano tempi in cui parlava molto e faceva poco. Ma adesso deve misurarsi con i fatti, che come è noto hanno la testa molto più dura. Isolare Nordio: già partito il piano di FdI di Errico Novi Il Dubbio, 2 novembre 2022 Dalle norme sull’ergastolo, peggiorative del quadro esistente, al reato di rave, la strategia di Meloni punta a neutralizzare il guardasigilli. Che si gioca tutto nella conversione del Dl Giustizia: i securitari della maggioranza proveranno a eliminare le misure “anti-sovraffollamento” di Cartabia, al ministro toccherà difenderle. Come inizio, per un guardasigilli garantista, non è il massimo: unna legge sull’ergastolo ostativo che riesce persino a peggiorare il testo grillino votato alla Camera nella scorsa legislatura; il nuovo reato di rave party che pure sfida la Costituzione, cioè la libertà di riunirsi sancita all’articolo 17; dulcis in fundo, il rinvio della riforma penale firmata Cartabia, incluse l’estensione delle pene alternative e la giustizia riparativa, ora esposte a modifiche. Giorgia Meloni è soddisfatta: “Sono misure identitarie che ci assicurano consenso”, ha confidato ad alcuni ministri. Ma nel vararle, di fatto, ha reso già complicatissima la posizione di Carlo Nordio. Il ministro della Giustizia è formalmente l’autore delle proposte hard varate l’altro ieri a Palazzo Chigi: serviva davvero una figura del suo calibro e del suo spessore, per una politica giudiziaria del genere? C’è da chiederselo. C’è da chiedersi se davvero ora il guardasigilli rischi di passare per l’abito elegante indossato come paravento delle peggiori intenzioni. Sarebbe una mortificazione, per la storia e il pensiero di un grande teorico del garantismo e del riequilibrio fra i poteri quale Nordio certamente è.Con ordine, vediamo cosa è successo. Nel caso dell’ergastolo, Nordio ha presentato lunedì in conferenza stampa quel segmento del decreto come l’accoglimento degli appelli rivolti dalla Consulta. Ma si tratta di una pietosa bugia. Come ha notato l’Unione Camere penali, si arriva a un peggioramento della preesistente disciplina sul 4 bis, addirittura. Perché intanto la possibilità di accedere alla liberazione condizionale, per gli ergastolani non collaboranti, è subordinata a una selva così fitta di vincoli da rendere l’obiettivo irraggiungibile. A Nordio pare vada bene, ma forse non dice tutto quello che pensa. Come segnalato sul Dubbio di ieri da Damiano Aliprandi, si è arrivati a recuperare spezzoni del vecchio articolato grillino, rimasti fuori dalla legge poi votata, nella scorsa legislatura, alla Camera. Sempre per citare la nota dei penalisti, “si estendono le ostatività anche ai reati connessi non ostativi. In sostanza, chi sia stato condannato per un reato ostativo (es.: concussione) e per reati connessi (es: falso ideologico, truffa), dopo aver scontato la pena principale in regime di ostatività”, spiega l’Ucpi, “dovrà scontare nel medesimo regime anche i reati connessi pur non ostativi”. Prodezza che colpisce tra l’altro non tanto i mafiosi quanto appunto, gli ostativi non ergastolani condannati per reati contro la Pa, con una “retata” che ricorda la spazzacorrotti di Bonafede Nel caso del reato di rave party, vengono smentiti ogni ipotesi di depenalizzazione e i relativi auspici di Nordio: per citare stavolta l’impietoso documento diffuso ieri da Magistratura democratica, la nuova fattispecie non si applica solo alle feste ma si scontra direttamente con l’articolo 17 della Costituzione, giacché affida “la selezione tra l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito (quello di riunione e manifestazione pubblica) e la consumazione di un gravissimo reato (punito con pene esemplari che vanno da 3 a 6 anni) a giudizi prognostici (“…può derivare un pericolo…”), collegati non già a un evento ben definito, ma a valutazioni soggettive (“…per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica…”)”. E quindi, “d’ora in poi, se in una pubblica piazza si riunisce un gruppo di cinquanta giovani, per festeggiare un lieto evento, facendo un po’ di schiamazzi, potranno incontrare un solerte funzionario di Polizia giudiziaria che ritenendo quel raduno pericoloso, decida di intervenire”, fino “all’arresto in flagranza degli organizzatori”. Altro che depenalizzare. Dopodiché, sul terzo segmento del Dl Giustizia di lunedì, il rinvio della riforma penale, già ci si gioca tutto. Perché a essere esposta agli interventi restrittivi di FdI e Lega in fase di conversione sarà soprattutto la norma secondo cui può essere il giudice di merito a irrogare la misura alternativa. Così i securitari della maggioranza, e la premier, potranno affermare che in carcere, per certi reati, ci si entra, e che la pena extramuraria si ottiene al limite solo dopo aver fatto un po’ di penitenza dietro le sbarre. Ecco: considerato che Nordio definisce il carcere “la priorità”, dovrà avere la forza di opporre, alle tentazioni “identitarie” di FdI, l’intollerabile emergenza del sovraffollamento e dei suicidi, che il testo di Cartabia prova a contrastare e che Meloni pare voler risolvere solo con un “nuovo piano carceri”.Ma il ministro può reggere tutto questo? Intanto, con due sergenti di ferro nominati sottosegretari, Andrea Delmastro di FdI e Andrea Ostellari della Lega, è già politicamente isolato. Sì, gli restano il viceministro Francesco Paolo Sisto e Forza Italia. Ma intanto gli azzurri, già prima del blitz, erano rassegnati all’idea che “sull’ostativo” sarebbe passato “il testo grillino”, come spiega riservatamente un ministro in quota FI. In teoria a Nordio restano la separazione delle carriere e qualche intervento sul penale, come il divieto d’appello per i pm e la revisione (almeno) dell’abuso d’ufficio. Ma proprio il guardasigilli, nel suo primo comunicato, ha ammesso che “le priorità sono altre”, cioè l’efficienza. Meloni non ha alcuna voglia di aprire un fronte con l’Anm, come avverrebbe con la riforma sulle carriere. Di fatto, Nordio ha mani legate su tutti i fronti, ed è stato sconfessato, già al primo colpo, su carcere e depenalizzazione. L’idea, per FdI, è che la linea delle ultime ore sulla giustizia resti prevalente. Lo richiede l’asserita “identità” dell’elettorato di destra. Nordio, oltre che isolato, rischia di trovarsi svuotato di poteri e iniziativa. E la legislatura appena iniziata rischia a sua volta di rivelarsi peggiore, per le garanzie, di quella appena trascorsa. Se il governo cede al populismo penale di Giovanni Maria Flick La Stampa, 2 novembre 2022 Il decreto del governo guidato da Giorgia Meloni che introduce il nuovo reato di “invasione di edifici finalizzata ai raduni” (sinteticamente ribattezzato “reato di rave”) prevedendo pene che possono arrivare a sei anni, ha scatenato un inevitabile dibattito che merita alcune osservazioni. Così come merita alcune osservazioni la discussione sull’ergastolo ostativo, alimentata, tra gli altri, da Gian Carlo Caselli con un articolo uscito su questo giornale. Parto dal cosiddetto “reato di rave”, sottolineando la contraddizione di un ministro che annuncia forti depenalizzazioni, ma per prima cosa aggiunge un ulteriore reato, all’insegna del panpenalismo per cui tutto diventa materia penale. Aggiungo che, sorvolando sullo specifico di un dispositivo con evidenti punti di debolezza, è necessario partire da una domanda: c’era davvero bisogno di questo decreto? La “straordinaria necessità e urgenza”, per i quali l’esecutivo non può astenersi dall’intervenire senza aspettare il Parlamento, sono i rave party o le bollette? L’uso dell’arma del decreto, pensato per situazioni non altrimenti risolvibili, è discutibile. Come cittadino resto perplesso e colgo un messaggio che non apprezzo. Come i decreti Salvini sovrapponevano immigrazione e sicurezza, il primo decreto Meloni sovrappone ordine pubblico e sicurezza. Confesso che a me non piace la musica tecno, non amo chi occupa capannoni altrui, non ho mai partecipato a questo genere di eventi. Ma mi pare che si tratti di questioni sociali risolvibili con gli strumenti già esistenti. Sbaglio o a Modena il capannone è stato sgomberato mandando un po’ di poliziotti, senza violenza e con i ragazzi che hanno pulito prima di uscire? Non bisogna mai dimenticare che tutti i reati incidono sulle libertà. Se il diritto penale, anziché extrema ratio, viene usato per contrastare le diversità sociali e culturali, definendo apposite fattispecie criminali, finisce per scivolare sul crinale della democrazia securitaria, traduzione istituzionale del populismo penale. Si alimenta cioè la paura che la società stia crollando sotto una dilagante insicurezza. E si giustifica una modalità che affronta le questioni sociali sempre dalla coda, con il pugno duro: nuovi reati, carabinieri, carcere. Tema, quest’ultimo, totalmente dimenticato a dispetto del record di suicidi. Il connubio tra istanze securitarie e consenso popolare è pericoloso. Lo dico da cittadino che crede nella Costituzione. E l’ergastolo ostativo? Era stato introdotto nell’emergenza delle stragi mafiose degli Anni 90, con la democrazia in scacco. Il presupposto era semplice: se non collabori, non puoi godere dei benefici carcerari. Come per la carcerazione preventiva ai tempi di Mani Pulite, è un dispositivo per cui il giudice non deve accertare fatti specifici e responsabilità individuali, ma contrastare un sistema. Il mafioso, come il corrotto, è l’ingranaggio di un sistema. La Corte ha detto: chi si ravvede ha diritto ai benefici, ma non si può stabilire in assoluto che chi non collabora invece non si è ravveduto. Bisogna dimostrarlo caso per caso. Benché molto saggio, il principio è stato da subito accolto polemicamente dal populismo giuridico, sia a livello politico sia a livello giudiziario. Come se fosse una resa alla mafia. È la teoria di Caselli: il mafioso per definizione si ravvede solo collaborando con la giustizia, perché in quel caso rompe il vincolo con l’organizzazione dimostrandosi inaffidabile, come sostenevano i magistrati del pool di Mani Pulite per la corruzione. Per la Costituzione, però, la persona non può essere mai considerata uno strumento. Pur eliminando l’automatismo, si richiede al detenuto la prova dell’assenza di legami attuali con l’organizzazione. Ma se non ci sono, come fa a dimostralo? E poi gli si chiede anche di provare che questi legami non ci saranno neppure in futuro. Una prova diabolica. La riforma Cartabia aveva superato il tabù che per trent’anni aveva affidato il caotico rammendo del processo penale allo scontro tra magistrati e avvocati, sgomberando il binario dal masso rappresentato dalla pretesa dei magistrati di essere solo loro a decidere “il quale” e “il quanto” delle riforme. Oggi il rinvio totale per due mesi di tutta la riforma per affrontare alcune difficoltà organizzative pone due rischi: che una parte della magistratura riaffermi il suo potere di veto. E che i contrari alla riforma ne approfittino per rimettere tutto in discussione. Si poteva, forse si doveva, limitare il rinvio ai problemi che materialmente esigevano un adeguamento organizzativo. Un rinvio selettivo, anche come messaggio all’Europa sul Pnrr, i cui fondi sono condizionati alle riforme. Basteranno due mesi a organizzarsi, visto che i concorsi per giudici e cancellieri durano anni? Dottor Nordio, questi trucchi non sono da lei di Tiziana Maiolo Il Riformista, 2 novembre 2022 Dalle carceri alle depenalizzazioni, il nuovo Guardasigilli rappresentava per i garantisti un sogno realizzato. Ma in poche ore il governo ha abbracciato le grida di Travaglio sul 4bis e i peggiori tic forcaioli. Il governo ha fatto proprio un testo già approvato dalla precedente legislatura alla Camera dei deputati. Ma è una norma astuta e compilata con il trucco. Che pone mille ostacoli al detenuto, al solo fine di farlo marcire in galera Gentile dottor Carlo Nordio, Lei è il ministro di Giustizia che tutti aspettavamo, che tutti sognavamo. Tutti chi? I tanti che credono nello Stato di diritto, nella società liberale e nelle garanzie per tutti i cittadini. Potrà sembrarle strano che questo tipo di comunità possa aver scelto come proprio rappresentante un pubblico ministero, cioè uno portato culturalmente e istituzionalmente ad accusare più che a difendere (lasciamo perdere l’ipocrisia di dover raccogliere anche le prove a favore dell’indagato), ad agitare le manette più che pensare alle misure alternative al carcere o a una società in cui la giustizia riparativa renda addirittura inutile l’esistenza stessa delle prigioni. La scelta non è casuale. Diversamente avrebbe qualche ragione un qualunque Marco Travaglio, che le ha dedicato un titolo che la definiva come “l’evoluzione di Mancuso, Biondi e B.(erlusconi)”. Stiamo parlando di un giudice, un avvocato e un imprenditore di sicura tempra garantistica, due dei quali, che purtroppo non ci sono più, sono stati ottimi ministri di Giustizia, ambedue vittime del furore giacobino della sinistra e costretti a fare le valigie e abbandonare gli uffici di via Arenula dopo pochi mesi di onorato servizio. Ma non è per qualche rimpianto o somiglianza, che abbiamo individuato Lei come il Ministro di giustizia che aspettavamo e sognavamo. È invece importante, anche sul piano simbolico, la scelta, forse non del tutto consapevole, di cui vogliamo comunque ringraziare la presidente del Consiglio, di un pubblico ministero che è stato inquirente senza mai farsi inquisitore. Di una persona per bene che, pur negli anni in cui, come gli altri, ha avuto la ribalta, non l’ha mai usata per gettare gogne e discredito sugli altri, su quelli che lui stesso aveva messo in difficoltà con le inchieste e il carcere. Un pubblico ministero che per esempio aveva saputo tenere ben stretti i testi delle intercettazioni nei propri cassetti, dimostrando che si può. Il colabrodo era a Milano, non a Venezia. Non staremo a ricordare, perché le sue interviste anche recenti sono tante, quale è la sua visione del processo. Che dovrebbe essere rigidamente di tipo accusatorio, sul modello del sistema anglosassone, mentre in Italia la pur pudica riforma del 1989 è stata inquinata da pesanti interventi della Corte Costituzionale. E soprattutto dalla mentalità ancora fortemente inquisitoria di coloro che la nuova procedura avrebbero dovuto applicare, cioè la gran parte dei pubblici ministeri e dei giudici. Lei, insieme a noi di questa piccola comunità liberale, pensa di metter mano a principi costituzionali come l’obbligatorietà dell’azione penale e l’unicità delle carriere dei magistrati. Siamo sicuri che proverà a farlo, e speriamo che riesca a portare a termine questa importante riforma di tipo costituzionale, ben conoscendo i tempi necessariamente non brevi che saranno necessari. Anche sul codice penale, quello del 1930 di Mussolini, lei ha le idee chiare. Del resto ha anche presieduto una Commissione di revisione, istituita quando presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi e ministro guardasigilli Roberto Castelli, e il cui lavoro è finito in qualche cassetto dopo che le vicende politiche del Paese sono andate come sono andate. Ma le idee chiare sulla necessità di sfrondare l’eccesso di norme penali e di ridurre il numero dei reati Lei le ha ripetutamente e giustamente manifestate anche di recente. Infatti non è una sua personale iniziativa, e supponiamo che la abbia semplicemente subita nel primo recente Consiglio dei ministri, quella di introdurre una nuova fattispecie penale dopo il rave party di Modena. Lei sa benissimo, e lo sappiamo persino noi che non siamo giuristi, che anche quando vi fosse un vuoto normativo, un cerottino come un’aggravante può risolvere il problema. Ammesso che, ma sappiamo che non è così, l’inasprimento delle pene serva a far diminuire il numero dei reati. Lei ha lanciato nei giorni scorsi l’iniziativa di un progetto di depenalizzazione. Il che dimostra non solo che ha elaborato un programma di vera politica liberale, ma anche che si prepara a un’attività di grande pragmatismo. Abbiamo colto la sua sensibilità sincera sul dramma delle carceri e di quei 72 suicidi che potevano essere evitati. Con maggiore attenzione all’uso della custodia cautelare, con un piano sanitario e psicologico sull’infermità mentale e la tossicodipendenza, e sulla fragilità soprattutto dei più giovani quando si ritrovano privati della libertà. Sappiamo che intende visitare le prigioni, ottima iniziativa, troverà un mondo che i pubblici ministeri e i giudici in genere non conoscono, ma che è popolato anche di tanti operatori del settore che conducono un lavoro in modo appassionato pur tra mille difficoltà. Molti dei quali pensano, perché lo sanno, che la prigione è nella gran parte dei casi inutile e dannosa e che l’animale in cattività non può che peggiorare. Se la Presidente del Consiglio avesse mai avuto questa curiosità, magari facendo un giro a Catanzaro o a Poggioreale, forse non avrebbe usato un certo linguaggio quando ha spiegato il perché dei provvedimenti sulla giustizia adottati nel primo Consiglio dei ministri. Noi speriamo in una sua contaminazione, dottor Nordio. Ma vorremmo fare il punto insieme a Lei, prima di tutto sul rinvio “tecnico” dell’intero pacchetto della riforma Cartabia, su cui forse sarebbe stato sufficiente decidere lo slittamento solo delle parti che rendevano difficoltoso il lavoro delle Procure. Lei ha detto di condividerne i contenuti, la preghiamo quindi di vigilare perché nel cammino da qui al 31 dicembre non venga vanificato il lavoro già svolto. Ma soprattutto vorremmo tornare sul tema spinosissimo dell’ergastolo ostativo. È materia complessa, lo sappiamo. Ma vorremmo insieme a Lei rileggere quel monito della Cedu del 2019 che ha messo in mora l’Italia e la conseguente ordinanza numero 97 del 2021 della Corte Costituzionale che, con un pronunciamento di “incostituzionalità differita”, ha dato un anno di tempo e poi successivi sei mesi al Parlamento per sanare una situazione fuori dalle Se Lei va a rileggere quel testo, ricorderà che la stessa esistenza nel nostro ordinamento della pena dell’ergastolo, in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione, ha legittimità solo se non è un “fine pena mai”. L’ordinanza della Consulta è chiarissima sul punto. Spiegava infatti che è solo l’effettiva possibilità di arrivare, dopo aver scontato 26 anni della pena, alla libertà condizionale, a rendere compatibile la pena perpetua con la finalità rieducativa della pena prevista dall’articolo 27 della Costituzione. E anche che il carattere assoluto con cui la normativa attuale pone la collaborazione (in termini giornalistici il “pentitismo”) come unica strada per accedere alla libertà condizionale e quindi al superamento dell’ergastolo, è fuori dalle regole. Incostituzionale. Perché presuppone che l’ergastolano non “pentito” sia oggettivamente pericoloso, anche se avesse fatto un percorso di ravvedimento e presa di distanza dal passato magari superiore alle astuzie di qualche collaboratore. O se non avesse nulla da dichiarare oppure temesse per l’incolumità dei suoi cari. Del resto la stessa Corte aveva già sviluppato questi ragionamenti quando aveva sbloccato la possibilità per tutti gli ergastolani, pentiti e no, di accedere ai permessi premio. E veniamo al momento attuale. Ora il governo ha fatto proprio un testo già approvato dalla precedente legislatura alla Camera dei deputati. Ma Lei sa bene che è una norma astuta e compilata con il trucco. Il trucco è quello di fingere di abbattere quel concetto di pericolosità oggettiva e ammettere tutti alla possibilità di chiedere al giudice di sorveglianza (anzi al tribunale, secondo la modifica introdotta) l’accesso alla liberazione condizionale. Ma si introducono una serie di vincoli-capestro che rendono impossibile il percorso. Non li elenchiamo perché Lei li conosce benissimo, e anche i nostri lettori. Questa norma, signor Ministro, lega mani e piedi al detenuto e anche al giudice. Poi pone sulla loro schiena uno zaino del peso di 50 chili. Poi li porta al mare e dice loro di provare a nuotare. Questo tipo di trucchi non è da lei, dottor Nordio. Uno con la sua storia, i suoi sentimenti prima ancora che i suoi pensieri e i suoi studi, non può essersi specchiato ieri, all’indomani della conferenza stampa seguita al primo Consiglio dei ministri, nell’entusiasmo dei travagli e travaglini. La sacrosanta lotta alla mafia non può distruggere in questo modo lo Stato di diritto. Oltre a tutto con il trucco. Le chiediamo solo di continuare a essere il nostro Ministro di giustizia, quello che abbiamo desiderato e sognato. La buona idea di depenalizzare (piace pure all’Anm) è già fallita di Annarita Digiorgio Il Foglio, 2 novembre 2022 La proposta del ministro Nordio è già stata tentata (senza particolare successo) in passato. Col risultato che il proliferare delle leggi si è oramai trasformato in pura discrezionalità. Non era mai successo finora che un Guardasigilli e l’Anm fossero entrambi contemporaneamente d’accordo sulle depenalizzazioni. Il ministro Carlo Nordio, uscendo dal Quirinale subito dopo aver giurato, si era detto favorevole alle depenalizzazioni e anche all’abolizione di parti del Codice Rocco, il diritto penale ancora in vigore. Il giorno dopo il presidente dei magistrati associati Giuseppe Santalucia gli aveva risposto: “I tentativi di depenalizzazione hanno prodotto poca cosa perché in questo paese è difficile depenalizzare. La norma penale è anche simbolica, se si depenalizza è come se si lasciasse la società priva di difesa. Così non è, ma c’è questo problema di consenso pubblico. Se il ministro ci riuscirà noi saremo con lui. In tanti ci hanno provato nel passato e in pochissimi ci sono riusciti”. In effetti gli ultimi tentativi riusciti risalgono al governo Renzi, quando reati di lieve entità come gli atti osceni o l’ingiuria furono derubricati a illeciti amministrativi o civili. Altre volte tentativi più importanti sono stati interrotti da un’opinione pubblica mobilitata dalle parole d’ordine del populismo penale e del processo mediatico, che li trasformava in veri e propri “regali ai criminali” (se non addirittura in atti di collusione o concorso esterno). Si trovò di fronte a un muro invece l’ex presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte, quando disse: “La sovrabbondante criminalizzazione delle condotte illegali e la sovraproduzione di norme incriminatrici, con la scelta del legislatore di individuare come unica sanzione quella penale, e come unico luogo della tutela il processo penale, porta a un sovraccarico di lavoro e accumulo di procedimenti e ritardi dei processi cui siamo i primi contrari. Un ridimensionamento del penalmente rilevante attraverso una seria depenalizzazione non è più rinviabile”. Infatti l’esigenza delle depenalizzazioni nasce proprio dalla necessità di velocizzare i processi (come richiesto dal Pnrr), ma anche da quella di garantire l’obbligatorietà dell’azione penale, che con il proliferare delle leggi si è ormai trasformata in discrezionalità. Invece tutti i governi, di tutti i colori, l’unica cosa che hanno sempre fatto è ricorrere al codice penale per risolvere allarmi sociali. E così, difronte ad ogni evento di cronaca, la risposta è stata introdurre nuovi reati e nuove aggravanti. Persino Andrea Orlando, che pure durante il suo mandato in via Arenula più volte nei discorsi ufficiali si è espresso contro il panpenalismo, è stato il ministro che ha introdotto più fattispecie di reato negli ultimi anni, uno per ogni evento di cronaca che leggeva sui giornali: omicidio stradale, caporalato, depistaggio, frode processuale, ecoreati, femminicidio, cyberbullismo, autoriciclaggio, falso in bilancio. L’ultimo tentativo di ricorso al penale da parte della sinistra è stato quello del ddl Zan. Ora il meccanismo è passato al governo Meloni. Nel primo Consiglio dei ministri, primo decreto la tipizzazione del reato di invasione. Come risposta al primo evento di cronaca coinciso con l’avvio del governo. Eppure il rave di Modena è stato sgomberato pacificamente e prima che il nuovo reato fosse introdotto, a dimostrazione della sua inutilità. Del resto l’introduzione di nuovi reati quasi mai corrisponde a una funzione deflattiva dei fenomeni. Ad esempio, con l’introduzione dell’omicidio stradale non sono diminuite le vittime della strada. “Siamo al modaiolismo del processo penale”, disse Francesco Paolo Sisto, oggi vice ministro della Giustizia, quando il governo del Pd introdusse il reato di tortura. Il guaio è che le mode passano, i processi aumentano, e le galere scoppiano. Ma gli allarmi non si risolvono con il codice penale, né i fenomeni sociali con lo stato morale. Governo Meloni, Pecorella avvisa: “Prepariamoci a un finto garantismo” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 2 novembre 2022 L’ex presidente dei penalisti italiani: “Quella norma sui Rave sembra scritta da chi ha scarsa conoscenza del diritto”. Senza giri di parole, il penalista ed ex presidente della commissione Giustizia Gaetano Pecorella definisce il decreto uscito dal Consiglio dei ministri due giorni fa una sorta di “controriforma”, connotata da “finto garantismo”. Presidente Pecorella, il decreto legge su ergastolo ostativo e riforma Cartabia segna la rotta del governo Meloni sulla giustizia? Mi augurerei di no, perché se andiamo avanti di questo passo più che fare delle riforme si fanno delle controriforme. Intanto, la riforma Cartabia, seppur sotto certi versi debole ed incompleta, è un piccolo passo avanti e viene sospesa per due mesi per attrezzare gli uffici. Non credo proprio che le riforme del processo richiedano due mesi di tempo, perché gli uffici siano pronti ad applicarle. Piuttosto, temo che sia un modo, come capita in Italia, per rinviare una volta, due volte, tre volte. E comunque per approfittare di questo rinvio per modificare le norme garantiste che la riforma Cartabia otteneva. Il rinvio al 31 dicembre dell’entrata in vigore della riforma penale può portare, in fase di conversione, a interventi restrittivi da parte del Parlamento? Io temo di sì, perché un rinvio di due mesi, con un decreto legge che apre la strada in sede di conversione a fare le modifiche annunciate, rischia davvero di farci fare dei passi indietro. La riforma Cartabia noi penalisti l’abbiamo ritenuta ancora del tutto insufficiente per un nuovo processo penale più rapido, più garantito. Era, però, comunque un passo avanti. Ora il rischio è che, in questi due mesi e in sede di conversione del decreto, si possano cancellare alcune norme o introdurre, come la questione dell’ergastolo fa temere, norme contrarie anche ai principi costituzionali. Io credo che chi ha scritto queste leggi, soprattutto quella sull’ergastolo, o ha frainteso volutamente quello che voleva fare la Corte costituzionale oppure non l’ha capito. Sembra quasi che si sia anticipata la Corte nella direzione che la stessa Corte aveva intervenendo su questa materia. Il ministro della Giustizia sarà in grado di mediare tra le pulsioni giustizialiste, “manettare” sotto certi versi, dei partiti di destra della coalizione di governo e quelle garantiste di Forza Italia? Mi pare molto difficile, perché questi primi provvedimenti vanno in senso decisamente contrario alle garanzie. Sono provvedimenti scritti da chi, secondo me, conosce molto bene le leggi di pubblica sicurezza, ma non conosce affatto bene né il Codice penale né il Codice di procedura penale, ma, soprattutto, non conosce bene la Costituzione. Mi riferisco, in particolare, alla cosiddetta norma sulle feste non autorizzate, sui rave. Il governo ha introdotto misure molto pesanti sulle cosiddette feste abusive, e quello che già viene ribattezzato “reato di rave”. Pensa che ci sarà una tensione permanente nella maggioranza a causa della diversa visione su giustizia ed ordine pubblico? C’è stato l’intervento del ministro degli Esteri per limitare gli effetti di questa norma, scritta, mi permetta di dirlo, da chi ha ignoranza del diritto. Già oggi esiste la norma sull’invasione degli edifici, che è punita nel caso di un numero superiore a cinque persone. Ora, invece, viene richiesto un numero superiore a cinquanta. Io mi domando che cosa succederà con questa norma. Apparentemente, è il segno di quella che chiamavo ignoranza del Codice penale. Apparentemente, sembra una norma restrittiva. L’invasione da parte di cinque persone di un terreno o di un edificio comporta già la pena vicino a quattro anni e richiede soltanto un numero superiore a cinque. Domani dovranno essere cinquanta e ci dovrà essere una messa in pericolo per l’ordine pubblico e la sanità, ignorando, poi, come sia possibile che un rave metta in pericolo l’ordine pubblico visto che si svolge in un luogo chiuso e limitato, come nel caso di Modena. Stiamo assistendo ad una “norma manifesto”, ad alcuni pasticci con l’aggiunta di norme all’interno del Codice. Alla fine avremo difficoltà di interpretazione... La cosa che preoccupa è che la norma, per come è stata scritta, possa essere applicata ben al di là dei rave. Pensiamo al caso delle occupazioni delle università. Teoricamente, ma penso che non arriveremo a questi paradossi, persino la festa dell’Unità potrebbe essere considerata pericolosa per l’ordine pubblico. Stiamo aprendo le porte a valutazioni discrezionali, contrarie al principio di tassatività del Codice penale con interpretazioni a piacimento. Il contrario di un diritto penale liberale, rispettoso del principio della legalità. Vedo un futuro molto oscuro. Secondo lei, qualcuno in Forza Italia già si pente di Nordio in via Arenula? Io credo che il ministro Nordio sia schiacciato dai cosiddetti falchi. In particolare mi sembra che il ministro dell’Interno, avendo un passato da prefetto, ragioni da prefetto e non da giurista al di sopra della sua funzione. Mi pare di vedere in questo governo il ministro Nordio con la bandiera del garantismo, che, però, serve poco. Mostra questa bandiera, ma alla fine le nuove norme e questo decreto legge vanno nel senso del tutto opposto al garantismo. Il ministro Nordio ha più volte rilevato che le intercettazioni costano troppo e vanno ridotte. Sarà un altro cavallo di battaglia del nuovo responsabile della Giustizia? Visto che si è espresso in questo senso, se è un uomo coerente, deve essere un cavallo di battaglia da portare avanti senza esitazioni. Temo, però, che questi cavalli di battaglia siano un modo per salvare la sua dignità di magistrato, di garantista e di uomo di cultura. Poi, alla fine, data la composizione del governo, rischia di trovarsi sempre in minoranza. Credo che dovrebbe avere tutto il sostegno dell’avvocatura. Io penso, al tempo stesso, che davanti a certe norme, introdotte con il recente decreto legge, l’avvocatura dovrebbe reagire non solo con un comunicato stampa di critica. Ma anche con delle iniziative pesanti, come l’astensione o comunque richiedere incontri al presidente del Consiglio e al ministro della Giustizia. Siamo di fronte ad un andare indietro, anziché andare avanti come faceva sperare la ministra Cartabia. Il governo Meloni ha trovato il primo nemico: i rave party di Rocco Vazzana Il Dubbio, 2 novembre 2022 Si scrive rave si legge dissenso. O almeno è questo il timore di buona parte delle opposizioni, convinte che il primo atto del governo Meloni miri a colpire duramente qualsiasi manifestazione non autorizzata con la scusa della “piaga” delle feste da ballo illegali. Perché se basta un raduno di 50 persone per far scattare l’articolo 434 bis del codice penale introdotto dal neo ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, è lecito farsi venire qualche dubbio. A partire dalle modalità con cui il nuovo reato è stato introdotto: il decreto legge. Quello dei rave è davvero un fenomeno sociale emergenziale da richiedere una legislazione d’urgenza su una materia, tra l’altro, già normata dall’articolo 633? E considerati i confini più che sfumati del nuovo articolo del codice penale - “consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati” - il reato verrà contestato solo agli scalmanati giovani danzanti o anche a studenti, lavoratori e contestatori vari? Dal Viminale si affrettano a precisare che la norma “interessa una fattispecie tassativa che riguarda la condotta di invasione arbitraria di gruppi numerosi tali da configurare un pericolo per la salute e l’incolumità pubbliche” e che non “lede in alcun modo il diritto di espressione e la libertà di manifestazione sanciti dalla Costituzione e difesi dalle istituzioni”. Non la pensano così i detrattori del nuovo reato, a partire da Amnesty International, convinta che il “decreto rave” “rischia di avere un’applicazione ampia, discrezionale e arbitraria a scapito del diritto di protesta pacifica, che va tutelato e non stroncato”. E le opposizioni, per nulla rassicurate dalle precisazioni del ministro Paintedosi, rincarano la dose: il governo ha trovato un pretesto per soffocare la libertà di pensiero. Quello dell’esecutivo “è un gravissimo errore. I rave non c’entrano nulla con una norma simile. È la libertà dei cittadini che così viene messa in discussione”, twitta il segretario del Partito democratico Enrico Letta, che ha scelto di schierare il suo partito in trincea dopo la presentazione del decreto. Per i dem quella norma è “un obbrobrio giuridico”, copyright Debora Serracchiani, “lesivo dei principi costituzionali”. “Per di più”, spiega la capogruppo democratica alla Camera, “la fattispecie è così generica da poter essere applicata a qualsiasi mobilitazione dei cittadini e la pena è così elevata da consentire il ricorso alle intercettazioni”. In Consiglio dei ministri, infatti, grazie alle perplessità avanzate soprattutto da Forza Italia, è stata esclusa la possibilità di operare intercettazioni preventive, inizialmente previste dalla norma, non quelle “ordinarie”, garantite dalla pena massima prevista: sei anni di reclusione. Ma per Matteo Salvini, già teorizzatore di “pacchie finite”, il dibattito sulle feste giovanili è già chiuso: “Un Pd ormai in confusione totale difende illegalità e rave party abusivi, chiedendo al governo di cambiare idea. No! Indietro non si torna, le leggi finalmente si rispettano”, scrive sui social il vice premier e ministro delle Infrastrutture, ingaggiando un botta e risposta virtuale con il segretario del Pd. Che controreplica: “No. Il rave party di Modena è stato gestito bene, con le leggi vigenti. Le nuove norme che avete voluto con decreto legge non sono contro “i raveparty abusivi”. Suonano come limite alla libertà dei cittadini e minaccia preventiva contro il dissenso”. Il verde Angelo Bonelli non usa mezzi termini: il reato appena introdotto è “fascista”. E Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra italiana, individua già i veri obiettivi del neonato governo: “Penso ad esempio ai cortei sindacali dei lavoratori sempre più esasperati, alle mobilitazioni studentesche o alle proteste dei comitati e dei movimenti come quelle che in questi mesi si sono sviluppate a Piombino”. Il dubbio resta. E interroga anche intellettuali e artisti. Lo scrittore Erri De Luca commenta lapidario: “Atto primo scena prima: il governo individua il grave pericolo delle manifestazioni musicali libere e gratis. Pene da patibolo contro la gioventù”. Mentre Morgan, pseudonimo del musicista Marco Castoldi per il quale il nuovo sottosegretario al ministero della Cultura, Vittorio Sgarbi, ha proposto la guida di un dipartimento musica “ad hoc”, chiosa: “Ci sono aspetti torbidi e contorti nei rave party: ma il punto non è vietarli, arrestare i partecipanti e metterli in carcere; semmai, bisogna far sì che non siano attraenti per i giovani, proponendo idee alternative migliori”. Dal codice Rocco al codice Nordio: la norma non è solo contro i rave party di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 novembre 2022 Il decreto tocca un articolo già inasprito quattro volte nel corso degli anni. Aumenta ancora la pena e inserisce passaggi vaghi. Solo Forza Italia ha scongiurato l’uso delle intercettazioni dei ragazzi, facendo da argine alla spinta giustizialista del governo. Aumento spropositato delle pene, passaggi vaghi che possono coinvolgere non solo i rave. Se non fosse stata per la componente minoritaria garantista, ovvero Forza Italia, nel decreto anti rave party sarebbe anche passata la possibilità di utilizzare le intercettazioni come strumento di indagine nei confronti dei ragazzi che si organizzano. Almeno dalle indiscrezioni emerge che sarebbe stato Antonio Tajani ad opporsi. Non il ministro Carlo Nordio che, almeno a parole, tra le altre posizioni liberali che per ora vengono smentite dai fatti, aveva condannato l’uso spropositato delle intercettazioni. Reclusione da tre a sei anni e multa da 1.000 a 10.000 euro - Dal decreto licenziato dal Consiglio dei ministri e pubblicato in Gazzetta ufficiale si apprende che dopo l’articolo 434 del codice penale è inserita questa novità: “Art. 434-bis (Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica). - L’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Chiunque organizza o promuove l’invasione di cui al primo comma è punito con la pena della reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro 1.000 a euro 10.000. Per il solo fatto di partecipare all’invasione la pena è diminuita”. Dal 1982 a oggi l’articolo 683 del codice penale è stato modificato quattro volte - In sostanza parliamo di un aggravamento del già esistente articolo 633 del codice penale. Un articolo che, nel corso degli anni, è stato modificato a ogni presunta emergenza. È successo il 13 settembre del 1982 con la modifica di aumento delle pene se il fatto è stato commesso da persona già sottoposta con provvedimento definitivo a misura di prevenzione. Poi arriva la modifica del 13 maggio 1991, prevedendo un ulteriore aumento da un terzo alla metà. Arriviamo nel 2011 con una ulteriore modifica proprio a causa del fenomeno dei rave party vissuto come allarme sociale. Ed ecco che arriviamo ad oggi: si prosegue con la bulimia penale. Se si continua così, tra qualche anno non rimane che introdurre l’ergastolo come ulteriore deterrente. Ancora una volta, si fanno decreti legge sulla spinta dell’emotività dettata da eventi che in realtà andrebbero regolamentati attraverso un profondo ragionamento, magari attraverso una discussione parlamentare. Con la nuova norma si permette l’arbitrio più assoluto da parte dei prefetti - Ma c’è di più nel decreto anti rave party. La modifica proposta dal governo Meloni ha aggiunto un passaggio che allarga il campo: “L’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”. A parte che nella definizione “terreni o edifici altrui, pubblici o privati” può ricadere di tutto, anche le università, i luoghi di lavoro o le piazze, ciò che preoccupa è l’espressione “quando dallo stesso può derivare un pericolo”. Si ritiene pericoloso ciò che ancora attende di essere dimostrato come pericoloso. Un passaggio sufficientemente vago per ricadere nell’arbitrio più assoluto da parte dei prefetti. Nel nostro ordinamento non può esserci un reato se non è chiaro quale sia il bene giuridico da tutelare. Alla libertà di riunione del cittadino (art. 17 della Costituzione) non può essere opposta un generalizzato limite dell’ordine pubblico. Non è un caso che le riunioni in luogo pubblico o aperto al pubblico non richiedano autorizzazione, ma solo preavviso all’autorità competente: la quale può vietarle solo “per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. Comprovati, non supposti. “Norme liberticide. Vogliono solo colpire il dissenso” di Carlo Lania Il Manifesto, 2 novembre 2022 Le opposizioni attaccano il nuovo provvedimento contro i rave. Letta al governo: Ritiratelo subito”. Conte: “Leggi da Stato di polizia”. Non c’è voluto molto perché i dubbi emersi alla prima lettura si trasformassero in certezze. Il tempo di studiare il testo del decreto che sancisce la stretta sui rave, atto primo del governo di centrodestra, e le prime voci critiche dell’opposizione si sono fatte sentire: “Le nuove norme suonano come un limite alla libertà di cittadini e minaccia preventiva contro il dissenso”, scrive su Twitter il segretario del Pd Enrico Letta, che chiede anche all’esecutivo di fare marcia indietro e ritirare il provvedimento. Mentre il verde Angelo Bonelli sintetizza così il malumore che serpeggia nel centrosinistra: “I rave non c’entrano niente. Verranno colpite le manifestazioni di protesta”. Eccolo il punto. Varato lunedì, il decreto è stato pubblicato ieri a tempi di record sulla Gazzetta ufficiale e adesso la paura è che provvedimenti pensati ufficialmente per fermare sul nascere le maratone musicali vengano utilizzati per arginare, o peggio ancora reprimere, eventuali manifestazioni di protesta. E questo alla vigilia di un autunno che, temperature estive a parte, si annuncia più che mai caldo. Lavoratori in sciopero, manifestazioni di studenti, cittadini esasperati che bruciano le bollette, atenei e scuole occupate, ma anche cortei sindacali: da ieri tutto può essere letto come una violazione delle nuove norme consentendo l’intervento della polizia. E questo mentre raduni come quello visto a Predappio con duemila nostalgici del fascismo che celebrano il centenario della Marcia su Roma vengono liquidati dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi come manifestazioni “che si tengono ogni anno”. Proprio dal Viminale, vista la valanga di reazioni contrarie al nuovo decreto, si prova a gettare acqua sul fuoco: “La nuova norma - fanno sapere fonti del ministero - non lede in alcun modo il diritto d’espressione e la libertà di manifestazione sanciti dalla Costituzione e difesi dalle istituzioni”. Parole che sanno di difesa d’ufficio, e in quanto tali deboli al punto da risultare inutili. Nel mirino delle opposizioni, per una volta tanto unite, c’è la scelta del governo di inserire una nuova fattispecie di reato, l’invasione di terreni o edifici altrui - sia pubblici che privati - per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Reato per il quale i trasgressori rischiano fino a sei anni di carcere e multe comprese tra i 1.000 e i 10.000 euro, oltre al sequestro di eventuali mezzi o attrezzature impiegati. Proprio la definizione di terreni o edifici altrui, sia pubblici che privati, è uno dei punti che suscita maggiori perplessità: “Si tratta di una norma talmente generica e a maglie così larghe che potrà trovare applicazione nei casi più disparati e con grande discrezionalità. Una legge dal sapore putiniano”, dice il deputato di +Europa Riccardo Magi. Una norma “da Stato di polizia”, rincara Giuseppe Conte, che pure ammette di non essere contrario per principio ad azioni “mirate” per contrastare i rave. “Ma il modo in cui si è intervenuti è raccapricciante” conclude il leader dei 5 Stelle. Per il pd Andrea Orlando il nuovo reato rischia di entrare in collisione con l’articolo 17 della Costituzione che sancisce il diritto dei cittadini di riunirsi pacificamente e senza armi. “È quindi una norma pericolosa - spiega l’ex ministro - non solo per gli amanti dei rave (che comunque non sono di per sé criminali) ma per tutti, per l’indeterminatezza della sua applicabilità al caso concreto. Ad aggravare la situazione c’è anche il fatto che non è esclusa la possibilità di intercettare i possibili sospetti visto che, come ha ricordato ieri il presidente delle Camere penali Domenico Caiazza, le pene massime sono fissate in più di cinque anni. La dem Debora Serracchiani se la prende con il neo titolare della Giustizia: “Ma il ministro Nordio non voleva depenalizzare (e abbiamo un reato nuovo di larga applicazione) e non voleva ridurre le intercettazioni (e ne consentiremo di più)? È chiaro il messaggio che la destra al governo dà al Paese: non tollereremo il dissenso”. Dubbi condivisi anche da Amnesty International mentre la rete degli studenti parla di decreto “liberticida” “Inaccettabile dare il via a repressione in scuole, atenei e piazze”, dicono gli studenti, che si appellano a “governo e parlamento perché evitino la limitazione delle libertà di manifestare e dissentire”. “La norma anti-rave? Un caso di analfabetismo legislativo”. Parla Tullio Padovani di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 novembre 2022 Per il luminare del diritto penale il decreto contro i raduni illegali approvato dal governo Meloni è un “pasticcio”. Per la sua estrema vaghezza potrà essere applicato anche ai casi di occupazione di edifici scolastici e universitari. “Nordio sarà sicuramente contrario”. “Un caso assoluto di analfabetismo legislativo. Si tratta di un testo desolante, perché non corrisponde a nulla di ciò che si chiede a una norma penale”. Non usa mezzi termini il professor Tullio Padovani, docente emerito di Diritto penale alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, nel commentare i contenuti della norma anti-rave party approvata lunedì dal Consiglio dei ministri. Nelle intenzioni della premier Giorgia Meloni e del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, la norma dovrebbe servire a contrastare i rave illegali, come quello tenutosi a Modena nei giorni scorsi. La norma introduce un nuovo articolo al codice penale, il 343-bis, che stabilisce: “L’invasione per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Chiunque organizza o promuove l’invasione di cui al primo comma è punito con la pena della reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro 1.000 a euro 10.000. Per il solo fatto di partecipare all’invasione la pena è diminuita”. “La norma comincia con una definizione, come fanno i vocabolari”, afferma Padovani. “Il testo, però, stabilisce soltanto che il reato sussiste quando c’è l’invasione di un terreno o di un edificio altrui, e quando ci sono almeno 50 persone. Non viene detto nulla di quando si realizza un pericolo per l’ordine pubblico o per l’incolumità pubblica o per la salute pubblica, che restano nozioni vaghe, vaghissime. In altre parole, viene ripetuto l’oggetto da definire, attraverso un meccanismo tautologico. O è una presa in giro o è un caso di assoluto analfabetismo legislativo”. “Siamo di fronte a concetti che non sono definiti da nessuna parte, a fattispecie che quindi saranno riempiti ex post dall’interprete”, aggiunge Padovani. E proprio per la sua vaghezza, la norma potrà tranquillamente essere applicata anche ai casi di occupazione di edifici scolastici e universitari. Nessun dubbio, comunque, sulla possibilità per la magistratura di realizzare intercettazioni: essendo prevista una pena massima superiore a cinque anni, i pm potranno chiedere ai giudici l’effettuazione di intercettazioni. Ma solo nei confronti degli organizzatori dei raduni illegali: “Di solito nelle norme penali si puniscono i partecipanti e si prevede un’aggravante per gli organizzatori, come nell’associazione a delinquere. Qui invece hanno creato due titoli autonomi, uno per gli organizzatori e uno per i partecipanti. Ne consegue che il partecipante non potrà essere intercettato, perché per lui è prevista una pena inferiore a sei anni”. Come faranno gli inquirenti a distinguere tra organizzatori e partecipanti? Chissà. Per giunta, ricorda il giurista, esisteva già un articolo del codice penale sufficiente a punire i raduni illegali. Si tratta dell’articolo 633, che punisce “chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto”. “E’ sempre stato sufficiente, quando si è voluto utilizzarlo - afferma Padovani - Lo è stato fin da quando io avevo i calzoni corti. Sono arrivato all’università nel 1974 e l’articolo 633 si applicava regolarmente”. Non a caso, ricorda ancora, quando la ministra Lamorgese lo scorso anno dovette giustificare il mancato sgombero del rave party a Viterbo “non disse che mancava la norma, ma che il ripristino della legalità avrebbe comportato troppi rischi per l’incolumità pubblica”. Per Padovani siamo dunque di fronte a un “pasticcio legislativo”, e si fa fatica a immaginare che esso possa aver ricevuto l’avallo del ministro della Giustizia Carlo Nordio: “Per la stima che ho nei suoi confronti e delle sue idee escludo categoricamente che lui possa, non solo riconoscersi, ma persino condividere la struttura e il senso di questa norma. Se così non fosse, non sarebbe il vero Nordio”, conclude Padovani. Calabria. “Il ruolo fondamentale dei Garanti per restituire dignità ai detenuti” di Luca Muglia* Il Dubbio, 2 novembre 2022 L’Ufficio che mi accingo a coordinare è chiamato ad affrontare diverse questioni, meritevoli tutte di attenzione, tenuto conto delle criticità che affliggono il territorio calabrese. Il tema delle condizioni delle persone detenute o private della libertà personale va certamente affrontato avuto riguardo alla tutela della dignità personale, alla presunzione di innocenza, al senso di umanità delle pene e alla idoneità dei luoghi di detenzione. I diritti inviolabili della persona rischiano, tuttavia, di divenire mere affermazioni di principio se non accompagnati da pragmaticità e concretezza. Le emergenze, non solo calabresi, sono piuttosto evidenti: sovraffollamento carcerario, carenze di personale, incremento dei suicidi in carcere, compressione delle libertà fondamentali. Si aggiungano gli effetti della recente pandemia. Si fa largo, quindi, la urgente necessità di riconoscere e garantire un diritto complessivo ed omnicomprensivo all’erogazione effettiva delle prestazioni minime, dal diritto alla salute al diritto a vivere in spazi adeguati, dai diritti al lavoro, all’istruzione e al reinserimento sociale al diritto di praticare il culto religioso, dal diritto alle relazioni e agli affetti familiari alla regolamentazione dei colloqui e delle videochiamate. Ma le priorità del pianeta carcere non potranno essere risolte se non si scioglie, una volta per tutte, il nodo culturale. Invero la percezione collettiva della persona detenuta, o altrimenti ristretta, continua a subire pregiudizi e condizionamenti emotivi in grado di pregiudicare persino l’efficacia delle riforme legislative. La stessa riforma Cartabia, nella parte in cui introduce modifiche di rilievo in materia di esecuzione della pena detentiva e/ o sostitutiva, favorendo anche il ricorso a programmi di giustizia riparativa, rischia di essere del tutto vanificata o ridimensionata dal pregiudizio culturale. Sarà necessario, pertanto, monitorare a stretto giro l’applicazione della nuova normativa. Come affermava l’indimenticato Pietro Barcellona la giustizia statuale viene costruita soltanto sull’esteriorità dei comportamenti osservati, “non sulla loro reale e profonda interiorità”. In realtà una giustizia che voglia realmente accertare le carenze psicofisiche o le altre cause che hanno condotto al reato, come sanciscono le attuali norme sull’ordinamento penitenziario, non può limitarsi ad operazioni formali o di facciata che non scendano in profondità. Se così fosse qualsiasi programma di reinserimento sociale sarebbe già morto in partenza. L’obiettivo di conciliare la tutela dei diritti umani e il recupero sostanziale dell’individuo con le esigenze di sicurezza sociale rappresenta un percorso universale di civiltà, non solo giuridica, che non può e non deve soggiacere ai pendoli emotivi o alle logiche politiche di turno. La posta in gioco è alta. Il diritto del colpevole ad essere punito per quello che fa e non per quello che è, da una parte. Il diritto del condannato ad una seconda chance, dall’altra. Ecco perché un approccio interdisciplinare, “integrato”, in grado di indagare fino in fondo la natura umana, avvalendosi anche del contributo delle neuroscienze, risulta ormai improcrastinabile. Occorre prendere atto finalmente che l’irrogazione della pena nasconde un momento identificatorio collettivo in cui, come dice Alfredo Verde, le parti delinquenti di tutti vengono proiettate sul reo, che diviene così “qualcos’altro”. Ciò significa, a mio giudizio, che l’isolamento sociale delle persone in conflitto con la legge o private della libertà personale, prima ancora che nei fatti, si annida nella nostra mente. Purtroppo, fino a quando la società civile non maturerà in modo capillare e diffuso tale intima consapevolezza, l’unica pena possibile continuerà ad essere il carcere. Al di là degli strumenti operativi, senz’altro importanti, la rete dei Garanti può veicolare un messaggio culturale nuovo e diverso che infonda speranza e restituisca dignità ai detenuti italiani. *Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale della Regione Calabria Torino. Boom di nuovi detenuti. Ma tre su quattro tornano subito in libertà di Federica Cravero La Repubblica, 2 novembre 2022 A Torino 50 nuovi reclusi ogni mese: risultato, sovraffollamento e spese inutili. “Spesso sono solo persone che hanno rubato un pezzo di formaggio o scatolette di tonno aperte e consumate ancora dentro al supermercato” dice Antonio Genovese, avvocato referente dell’Osservatorio carceri. C’è un dato che rende bene l’idea di come viene affrontata la delinquenza in città e sta chiuso in un numero: 77%. È la percentuale di coloro che dopo l’arresto restano in carcere uno o due giorni e poi tornano a piede libero. Lo dimostra uno studio condotto dalla polizia penitenziaria del Lorusso e Cutugno assieme all’ufficio del Garante comunale dei detenuti, che ha monitorato per quattro mesi, da inizio marzo a fine maggio di quest’anno. l’ingresso dei nuovi reclusi nel carcere di Torino. Su 144 nuove matricole, appena 33 sono rimaste in carcere in attesa del processo o comunque per un periodo di tempo superiore al paio di giorni, che è il periodo di tempo in cui si affronta la convalida dell’arresto o il processo per direttissima. E sono il 23%. Gli altri 111 detenuti, invece, sono entrati in carcere e sono subito usciti: 4 scarcerati dal pm entro 24 ore, 6 andati ai domiciliari entro 3 giorni e 101 scarcerati dopo 1 o 2 giorni dopo che è stata definita la loro posizione giuridica, per esempio allentando la misura cautelare e chiedendo l’obbligo di firma. Il carcere dunque è solo una breve parentesi, visto che tutti questi affronteranno il processo a piede libero. “Il codice, anche quando l’arresto è obbligatorio, consente al pm di scarcerare immediatamente se ritiene di non chiedere una misura coercitiva - mette in chiaro Alberto De Sanctis, avvocato a capo della Camera penale del Piemonte Occidentale - Inoltre, tutte le misure alternative sarebbero da incentivare perché responsabilizzano il condannato. Al contrario il carcere è criminogeno. Un passaggio anche breve in cella aumenta le possibilità di trasformare un delinquente occasionale in un delinquente abituale perché la detenzione lo allontana dalla società civile e lo stigmatizza come un criminale”. I dati raccolti al Lorusso e Cutugno colpiscono soprattutto alla luce di quanto avvenuto venerdì in una cella dei nuovi giunti, dove un detenuto del Gambia si è impiccato a meno di 48 ore dal suo ingresso in carcere e mentre era in attesa della decisione del giudice, che avrebbe potuto scarcerarlo per aver portato via delle cuffiette bluetooth da un negozio, valore 24 euro. E le statistiche mostrano che casi come quello, pur con esiti meno tragici, sono all’ordine del giorno per reati come il furto, la resistenza o il piccolo spaccio. La tendenza non è incoraggiante dal momento che in pochi anni gli arresti sono passati dai 2.466 del 2014 ai 3.538 del 2019 (+43,5%) e sono scesi di poco, a 3.285, nel 2020, quando c’era il lockdown. “ Negli ultimi anni per la verità c’è stata una lieve contrazione degli arresti - spiega il questore di Torino, Vincenzo Ciarambino - Il fatto è che quando si è di fronte a un reato, noi interveniamo ed è con la magistratura che si conviene sull’opportunità della custodia in carcere”. In quella fase, tuttavia, il carcere potrebbe essere evitato se si portassero gli arrestati nelle camere di sicurezza che ci sono nelle caserme e nei commissariati. Ma sono poche, a volte inutilizzabili o già piene. E così le forze dell’ordine finiscono per portare l’arrestato al Lorusso e Cutugno. E questo ha ripercussioni sul sovraffollamento cronico e anche sui costi poiché si calcola che le prime due giornate in cella costino alla collettività 350 euro per ogni detenuto tra il lavoro che comporta l’ingresso in cella (immatricolazione, perquisizione, ritiro e catalogazione degli oggetti personali, impronte digitali, visite mediche e colloqui) e la fornitura del kit di primo ingresso e della dotazione personale di piatti, posate, spazzolino, dentifricio, sapone, bicchiere e pettine. Tutto per persone che “hanno rubato un pezzo di formaggio o delle scatolette di tonno, aperte e consumate ancora dentro al supermercato - dice Antonio Genovese, avvocato referente dell’Osservatorio carceri - Non sono esempi fatti a caso, ma situazioni che si sono davvero verificate e che non dovrebbero esister”. Della questione si sta interessando anche l’amministrazione comunale. “Le storie di detenuti che restano in cella per un paio di giorni appena sono la dimostrazione che si è persa ogni possibilità di intervenire con altri mezzi per il loro recupero - spiega la garante Monica Gallo - A volte prima di arrivare alle manette si dovrebbe pensare ad altre strade”. Salerno. Nasce lo Sportello di Orientamento e Formazione per detenuti cilentonotizie.it, 2 novembre 2022 È attivo presso l’Istituto Penitenziario di Salerno lo Sportello di Orientamento e Formazione per utenze speciali con attività formative, laboratoriali e servizi specialistici di orientamento e accompagnamento dei detenuti nel mondo dell’occupazione e del lavoro autonomo profit e no profit. L’attività rientra nel progetto S.O.F.U. a titolarità della E.T.S. Socrates di Sala Consilina in partenariato con la Cooperativa Sociale Fili d’Erba e con l’Associazione Quartieri Ogliara, finanziato dalla Regione Campania nell’ambito della manifestazione di interesse alla individuazione di soggetti del terzo settore interessati alla co progettazione e gestione di percorsi di sostegno ed inclusione socio lavorativa delle persone in esecuzione penale in Campania. L’iniziativa in corso presso Casa Circondariale “Antonio Caputo” di Salerno diretto da Rita Romano è stata organizzata con la referente dell’area giuridico pedagogica del Penitenziario Monica Innamorato, dalla responsabile della ETS Socrates Caterina Di Bisceglie e vede il coinvolgimento di 20 persone detenute nell’ istituto penitenziario salernitano. Lo Sportello ha già in questa fase pianificato le seguenti attività: Profilazione dei destinatari; Affiancamento per la redazione del Curriculum Vitae per presentarsi o richiedere un colloquio di lavoro; Formazione e informazione inerente ad opportunità per avvio di nuove attività; Redazione di un piano di impresa; Brainstorming per stimolare la creatività e lo sviluppo di “business idea” legata alle dinamiche e alle potenziali territoriali; Organizzazione di colloqui di conoscenza con i Responsabili di imprese profit e no profit; Presentazione degli aspetti commerciali, tecnici, finanziari e legali delle nuove attività. I venti detenuti avviati a questo percorso propedeutico all’inserimento lavorativo sono affiancati da un team multidisciplinare costituito dall’Avvocato Angela Quagliano, dall’Assistente Sociale Maria D’Amato dell’Associazione Quartiere Ogliara e da Vincenzo Quagliano della QS & Partners, coach esperto in materia di orientamento e formazione per la creazione di impresa. Sono stati inoltre attivati due laboratori presso l’I.C.ATT di Eboli destinati al Restauro-Intarsio e un Laboratorio Teatrale rivolto a 20 persone presso l’Istituto a custodia attenuata per il trattamento della tossicodipendenza e-o alcol dipendente. Il progetto S.O.F.U. nasce con l’obiettivo strategico di dotare la provincia di Salerno di servizi innovativi di inclusione socio economica rivolti agli autori di reato; dotando il territorio del Vallo di Diano, privato del Tribunale e del Carcere, di una nuova “infrastruttura di servizi per utenze speciali” sostenendo la nascita di un “Osservatorio” quale struttura di servizi sperimentati con successo in altri contesti territoriali della provincia di Salerno. Napoli. In carcere lezioni di cibo: una laurea per i detenuti di Carmine Maione Il Mattino, 2 novembre 2022 In carcere a scuola di cucina. L’iniziativa è del dipartimento di Agraria della Federico II che porta nel penitenziario di Secondigliano il corso di laurea in Scienze gastronomiche mediterranee. Sono diciassette i detenuti coinvolti, tutti in possesso del diploma e iscritti al corso triennale proposto dal Polo universitario penitenziario della Federico II, diretto da Marella Santangelo. Il progetto, frutto di una intesa con il penitenziario diretto da Giulia Russo, vuole offrire ai detenuti la possibilità di conseguire una laurea e coltivare le proprie aspettative di riscatto sociale. Un’offerta didattica integrata per creare una prospettiva professionale e non solo. “La gastronomia diventa un mezzo per costruirsi una professione futura con solide basi tecnico-scientifiche - dice Raffaele Sacchi, coordinatore del corso di laurea in Scienze gastronomiche mediterranee - ma anche per prendersi cura di sé attraverso il cibo, che rappresenta una parte importante delle radici culturali di una vita normale”. Il laboratorio di gastronomia prevede anche una pratica tra i fornelli con un approccio scientifico all’alimentazione. Chimica, nutrizione, botanica, microbiologia, igiene, tecnologia degli alimenti, sono solo alcune delle materie di base previste nel piano di studi proposto dal dipartimento di Agraria diretto da Danilo Ercolini. “Siamo fieri che il corso in Scienze gastronomiche sia tra i più scelti dell’offerta formativa nell’ambito del Polo universitario penitenziario. È una grande occasione - dice Ercolini - non solo per consolidare l’interesse nei confronti dei percorsi didattici di Agraria ma anche per promuovere ulteriormente la cultura del buon cibo e della sana alimentazione, che rappresenta una forza per il nostro Paese”. Il corso di laurea in Scienze gastronomiche mediterranee fu istituito nel 2017 dall’attuale rettore Matteo Lorito, all’epoca direttore del dipartimento di Agraria. A luglio del 2021 ci sono stati i primi laureati. Tra questi, Rosa Castiello, ispettrice di polizia penitenziaria presso il carcere di Poggioreale e oggi collaboratrice al progetto come docente part-time del laboratorio di cucina. “Non si tratta dell’unico corso di laurea attivato - afferma Manuela Rigano, delegata del corso di laurea presso il Polo universitario penitenziario. L’iniziativa rientra in un progetto ben più ampio che testimonia l’attenzione del nostro ateneo nel farsi costruttore di giustizia sociale e promotore della dignità dell’uomo, alla quale in alcun modo e per nessun motivo si può derogare”. Il Polo universitario penitenziario fu costituito nel 2018 grazie a un protocollo d’intesa tra la Federico II e il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria ed è dedicato al conseguimento di titoli di studio sia per i detenuti nelle carceri della Campania sia per i soggetti che stanno scontando la pena all’esterno. Proprio nelle scorse settimane il Polo ha avuto il suo primo laureato, in Scienze sociali. Gli studenti reclusi sono ospitati in due sezioni dedicate, una per l’alta sicurezza (Ionio) e l’altra per la media sicurezza (Mediterraneo). È previsto l’esonero totale dal pagamento delle tasse universitarie e, in accordo con la Regione, gli studenti detenuti sono esentati anche dalla tassa regionale, in considerazione non solo delle loro difficoltà ma anche di quelle delle loro famiglie. La Federico II, fra l’altro, è costantemente impegnata nel penetrare il tessuto cittadino quale presidio di legalità, come testimonia la recente inaugurazione a Scampia della nuova sede dedicata alle professioni sanitarie. Fermo. Domani un convegno sul sistema carcerario e la vita dei detenuti fermonews.it, 2 novembre 2022 Interessante incontro in programma a Fermo il prossimo 3 novembre 2022, presso la sala dei ritratti dalle ore 16, per capire che dietro la generica parola “carcerato” c’è sempre un individuo “in carne ed ossa” con la sua storia e la sua vita, la sua famiglia. La voce dei detenuti attraverso i loro scritti - Conoscere queste storie “ascoltare”, la voce dei detenuti attraverso i loro scritti e attraverso la testimonianza di Italo Tanoni, ex garante regionale dal 2010/2015, che li ha raccolti nel suo libro dal titolo “Lettere dall’inferno”, ci permette di capire meglio questi spaccati di vita relegati ai margini della nostra società “civile”. L’attuale retro pensiero dell’opinione pubblica verso chi deve scontare una pena è “chiudi la cella e butta la chiave”. L’ Iniziativa che l’UNIPOP, in collaborazione con il Comune di Fermo, Learning City, l’ATS XIX propone è una riflessione che, attraverso le storie personali, permetta di guardare il mondo del carcere in un’altra prospettiva. Cosa sappiamo di questo mondo parallelo? Chi sono i detenuti che stanno scontando la pena? Solo il 10% deve scontare pene pesanti. Un dato importante emerge dalle statistiche nazionali: il 90% delle carceri italiane sono popolate da extracomunitari (la maggior parte di colore) e trafficanti di droga, contrabbandieri, piccoli truffatori, zingari, soggetti senza fissa dimora, senza documenti e permesso di soggiorno. Solo un 10% dei detenuti si è macchiato di efferati delitti e si trovano a scontare pene pesanti. Educatori, volontari, giornalisti che hanno frequentato e frequentano diversi penitenziari delle Marche, sono stati invitati all’incontro a raccontare le loro esperienze all’interno del carcere. In particolare Nicola Arbusti da sempre educatore responsabile del carcere di Fermo che insieme a Lucia Tarquini referente dell’attività promossa dall’ATS XIX, sotto la supervisione del coordinatore Alessandro Ranieri, porteranno il loro fattivo contributo. Ascolteremo anche l’esperienza di Angelica Malvatani, che parlerà del progetto L’altra Chiave. Giorgio Magnanelli, Presidente dell’Associazione “Mondo a quadretti” ci farà sicuramente capire meglio come vivono le persone all’ interno del carcere, a volte anche in modo drammatico, considerato l’alto numero di suicidi (ad oggi si contano 172 suicidi per l’anno 2022, dato in crescita costante degli ultimi anni). Un confronto con il personale addetto alla sorveglianza, psicologi, sanitari, insegnanti e avvocati - Sarà anche un momento di confronto con altri soggetti che sono stati invitati a partecipare come il personale addetto alla sorveglianza, gli psicologi, i sanitari, gli insegnanti, gli avvocati, i giornalisti, perché ognuno di questi professionisti svolge un lavoro difficile, ma fondamentale per la buona riuscita del sistema carcerario e la vita del carcerato. A tal proposito si ringrazia l’Ordine degli Avvocati nella persona del suo Presidente Stefano Chiodini per il Patrocinio all’iniziativa ed il riconoscimento dei crediti formativi per gli avvocati iscritti. Si ringrazia Andrea Albanesi Presidente della Camera penale di Fermo per la immediata adesione. Preziosa sarà anche la presenza dell’attuale Garante Regionale Giancarlo Giulianelli che rappresenta il presente di questo mondo. Importante per l’iniziativa anche il riconoscimento del patrocinio da parte del presidente regionale dell’Ordine dei giornalisti Franco Elisei, perché i giornalisti svolgono un ruolo fondamentale come facilitatori della conoscenza della realtà e possono contribuire a superare stereotipi, pregiudizi e generalizzazioni fuorvianti, che non mettono in discussione la pena, bensì un sistema di umanizzazione della sua espiazione. Cosenza. I detenuti portano in scena “Il deserto dei Tartari” cosenzachannel.it, 2 novembre 2022 La rappresentazione teatrale ispirata al romanzo di Buzzati rientra nel progetto “Amore sbarrato” a cura del regista Adolfo Adamo. Arriva al suo quarto capitolo il progetto “Amore sbarrato”, promosso, sin dal 2014, dall’attore e regista cosentino Adolfo Adamo e che anche quest’anno potrà concretizzarsi grazie alla sinergia che si è instaurata tra l’amministrazione comunale e la casa circondariale “Sergio Cosmai”. L’obiettivo è inalterato ed è quello di abbattere, attraverso la funzione sociale e catartica del teatro, lo stato di invisibilità dei detenuti, accorciando le distanze tra il mondo esterno e l’universo carcerario e favorendo quei percorsi rieducativi e riabilitativi previsti dai trattamenti penitenziari dei quali la cultura ed il teatro in particolare rappresentano elementi fondamentali. Anche per questo nuovo capitolo, il quarto, di “Amore sbarrato”, dal titolo “Hic et nunc”, saranno in scena al teatro “Rendano”, giovedì 3 novembre, alle 18, Otto ospiti della casa circondariale, più un ex detenuto che ha finito di scontare la sua pena. Sono gli allievi del laboratorio teatrale cui ha dato vita Adolfo Adamo nella casa circondariale. Il testo riplasmato da Adamo è liberamente ispirato a “Il deserto dei tartari” di Dino Buzzati. Il regista e attore cosentino non è nuovo a rivisitazioni del genere. Per il suo terzo capitolo aveva riletto alla sua maniera il “Moby Dick” di Herman Melville e, ancor prima, per il suo secondo capitolo, aveva “saccheggiato” i drammi shakespeariani. Ora l’autore ambienta l’azione in un luogo non luogo, in un tempo non tempo, dove gli attori-detenuti si ritrovano, in perenne attesa, come i protagonisti del “Deserto dei tartari”, di chissà che cosa. L’attesa, per queste anime in pena, diventerà speranza che si tramuterà in vita, provando a vincere una battaglia epica: quella con se stessi. La pandemia per due anni ha fermato il progetto “Amore sbarrato” che ora riprende vigore. In questa nuova occasione, Adamo ha creato una drammaturgia originale che ha chiamato Hic et nunc (Qui ed ora) richiamando la necessità, dopo le incertezze nel futuro, di dover vivere alla giornata. In “Hic et nunc”, l’autore si sforza di non esprimere la realtà carceraria, perché in realtà i detenuti rappresentano tutta un’umanità che, grazie alla speranza, può rinnovarsi. Migranti. Processo alle Ong, niente interprete per gli indagati: “Diritti ancora violati” di Simona Musco Il Dubbio, 2 novembre 2022 Dopo le intercettazioni a carico di giornalisti e avvocati, nuovo pasticcio a Trapani: il comandante della Iuventa chiede di farsi interrogare, ma l’interpretazione è inadeguata. Negata anche la traduzione degli atti. “Ci hanno dato due paginette...”. Avvocati spiati, giornalisti intercettati e ora anche interpreti inadeguati e atti non tradotti. Il più grande processo contro le Ong, a cinque anni dal sequestro della nave Iuventa, rimane ancora fermo al palo. Il tutto per colpa di una falla sistemica, che mette a rischio i diritti fondamentali degli indagati. L’ultimo capitolo della vicenda risale a sabato, quando Dariush Beigui, capitano della nave Iuventa della tedesca Jugend Rettet (difeso da Nicola Canestrini, Alessandro Gamberini e Francesca Cancellaro), ha chiesto di essere interrogato. Ma una volta arrivato in Questura a Trapani l’interrogatorio si è interrotto dopo pochi minuti, per via dell’inadeguatezza dell’interpretazione. “Ci era stato chiesto di portare un interprete di fiducia - spiega Canestrini al Dubbio -, ma ho evidenziato che tale compito spetta allo Stato. In Questura si è dunque presentata un’interprete di madrelingua tedesca, laureata in pedagogia, etnologia e sociologia, iscritta all’albo da 15 anni, che già in passato ha lavorato per il Tribunale di Trapani, ma di professione guida turistica. E non è stata in grado di tradurre nemmeno parole semplici come imputato, verbalizzante o verbale. Com’è possibile affrontare un interrogatorio in queste condizioni quando si corre il rischio di finire in carcere per 20 anni? Ho inoltre chiesto di predisporre la fonoregistrazione - aggiunge -, ma non c’erano i mezzi tecnici per farlo. Ho dovuto farlo io con il cellulare”. L’interrogatorio è stato rinviato al 12 novembre, col rischio di far slittare ulteriormente il calendario dell’intero procedimento. Il caso fa emergere però problemi ricorrenti che toccano tutti gli alloglotti, i migranti e i soccorritori. Ciò nonostante la direttiva 2010/64/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 ottobre 2010 sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali, che impone che vengano tradotti gli atti fondamentali per garantire che gli indagati siano in grado di esercitare i loro diritti della difesa e per tutelare l’equità del procedimento. “La grande ipocrisia europea - aggiunge Canestrini - è che i governi non hanno indicato quali atti vadano tradotti. E secondo la procura sarebbe bastato il solo avviso di conclusione indagini - due pagine dove venivano indicate le accuse - su 30mila pagine di fascicolo, in un’inchiesta in cui gli indagati vengono accusati di concordare i soccorsi con i trafficanti. Abbiamo dunque fatto ricorso al gip, che ha ordinato di tradurre l’informativa di polizia - 700 pagine - ma non gli allegati, circa 200, che contengono anche le testimonianze dell’undercover. Ci è stato detto che per comprendere l’accusa sarebbe bastato il riassunto della polizia”. Una vera e propria lesione del diritto di difesa, che assieme all’assenza di interpreti adeguati al compito ha spinto Iuventa a lanciare una campagna social con l’hashtag #NoTranslationNoJustice. “Questo diritto è violato in tutta Europa - continua il legale. Se Trapani non riesce a trovare un traduttore per il tedesco, che è una lingua comunitaria, non oso immaginare cosa possa accadere con i dialetti arabi. Poiché questo errore non è nemmeno riconosciuto a livello Ue, chiederemo al Tribunale di Trapani di rinviare il caso alla Corte di Giustizia europea”. Un errore grossolano, che avviene nel più grande processo contro i soccorritori civili in mare, quello sul quale la politica ha puntato tutto per criminalizzare le Ong e che ha dato vita all’infelice espressione “taxi del mare”, che ha di fatto associato i volontari ai trafficanti di uomini. “In questa vicenda - conclude Canestrini - abbiamo assistito ad una plurima violazione dei diritti fondamentali, dopo le intercettazioni che hanno riguardato avvocati e giornalisti. E siamo ancora agli inizi”. Lo scorso anno, dopo lo scandalo relativo alle intercettazioni, l’allora ministra della Giustizia, Marta Cartabia, aveva avviato accertamenti sulla procura di Trapani, suscitando le ire di Fratelli d’Italia, all’epoca all’opposizione. “Gli inquirenti siano lasciati liberi di svolgere il loro dovere senza alcun genere di intromissione e pressione eversiva”, aveva commentato l’allora Questore della Camera e membro della commissione Affari Esteri Edmondo Cirielli. “Ci stiamo assumendo il rischio di un interrogatorio volontario che potrebbe finire per essere usato contro di noi per poter finalmente andare avanti in questo caso - ha commentato Beigui con una nota -. Crediamo che il soccorso in mare e la fuga non siano reati e, quindi, non abbiamo nulla da nascondere. Ma la qualità dell’interpretazione era del tutto inadeguata per chiarire questioni essenziali”. Secondo Daniela Amodeo, presidente di Eulita - Associazione europea di interpreti e traduttori legali -, il problema riguarda l’intera Europa. “La retribuzione ridicola tiene gli interpreti qualificati lontani dalle aule di tribunale, con la conseguenza che le udienze devono essere sospese, si perde tempo e i costi aumentano - si legge in una nota -. Non è tollerabile che gli Stati membri non rispettino le disposizioni sulla formazione e la qualità degli interpreti e dei traduttori legali e sul diritto di indagati e imputati di comprendere la lingua del procedimento penale e di essere compresi”. Droghe. Una strategia per non tornare alla “war on drugs” di Stefano Vecchio Il Manifesto, 2 novembre 2022 Il dibattito che si è sviluppato dopo la Conferenza Nazionale sulle Dipendenze e la stesura del Piano d’Azione Nazionale sulle Dipendenze (Pand) ripropone una domanda: è ancora possibile fare politica sulle droghe nel nostro Paese? Da decenni promuoviamo iniziative politiche e culturali a tutto campo. Come rete di associazioni della società civile, abbiamo elaborato due proposte di legge sulla depenalizzazione di tutte le condotte legate all’uso di droghe e sulla legalizzazione della cannabis, organizzato due conferenze autoconvocate, promosso e vinto il ricorso sulla incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi, messo a punto una proposta per attuare in forma partecipata i LEA/RdD. Come Forum Droghe abbiamo partecipato attivamente alla raccolta di firme per il Referendum sulla cannabis. Ma ci troviamo ancora con la legge Iervolino-Vassalli centrata sul sistema penale. Quando la Ministra Dadone con delega alle politiche sulle droghe, dopo 12 anni di latitanza dei governi, decise di organizzare la Conferenza Nazionale sulle Dipendenze, ricostituimmo la rete per la riforma delle politiche sulle droghe e decidemmo di partecipare attivamente. Aprimmo una negoziazione con la Ministra, ponendo in primo luogo l’esigenza di un cambio della legge penale, e riuscimmo a far inserire tra i tavoli di discussione, la Riduzione del Danno, il riconoscimento delle Persone che Usano Droghe (PUD) e lo spostamento dell’asse dell’azione penale verso le misure alternative limitando il ricorso alla detenzione. La Conferenza si concluse con importanti impegni su queste aree tematiche pur mantenendo diverse criticità. Successivamente abbiamo partecipato attivamente alla stesura del Piano d’Azione Nazionale sulle Dipendenze, con l’impegno di garantire la sua funzione di strumento attuativo dei contenuti emersi dalla Conferenza. Ma dopo la caduta del governo, sono state introdotte alcune modifiche sostanziali alla parte innovativa del PAND, su richiesta non ben chiarita delle Regioni, interrompendo anche il dialogo con la nostra rete. In ogni caso la Ministra non ha adottato un decreto ministeriale ma ha inviato il testo ufficiale del PAND alla Conferenza Stato-Regioni per la sua approvazione. E non è un caso che alcune Regioni di centro-destra, iniziano a muoversi per impedirne l’approvazione criticando duramente la Riduzione del Danno, la sua integrazione nel sistema pubblico e il riconoscimento dei diritti alle PUD, riproponendo un rafforzamento del modello fallimentare della “guerra alla droga”. E le recenti iniziative legislative del Ministro dell’Interno per criminalizzare i rave party rappresentano un primo segnale inquietante del nuovo governo di destra. Che fare in questo quadro politico sfavorevole? Quali azioni mettere in campo per non perdere tutto il lavoro svolto dalle nostre reti nella Conferenza e nel PAND, anche considerando il monito recente dell’ONU sulla violazione dei diritti nel nostro Paese? In attesa di un segnale delle forze politiche progressiste, si ripresenta l’esigenza di individuare i soggetti politici e istituzionali con i quali condividere tale strategia che aprirebbe un nuovo scenario favorevole per rilanciare un cambio delle politiche sulle droghe. Ne indico alcuni: - La rete italiana delle città per innovare le politiche sulle droghe che rappresenta oggi un soggetto politico importante per questi obiettivi nella prospettiva del governo e regolazione sociale del fenomeno. - Le Regioni di centro-sinistra che potrebbero condividere una linea comune nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni per approvare il PAND e predisporre gli Atti di Indirizzo attuativi. - La organizzazione di un primo gruppo di parlamentari che condividono la prospettiva del cambio sostanziale delle politiche sulle droghe. (Il testo del PAND è disponibile su fuoriluogo.it) Diritto e guerra: l’ordine mondiale in crisi di Sabino Cassese Corriere della Sera, 2 novembre 2022 Il presidente della Federazione russa ha messo in chiaro i suoi obiettivi, che vanno ben al di là della conquista di un Paese vicino e riguardano sia la sicurezza dell’Occidente, sia la struttura dell’ordine giuridico costituito dopo la seconda guerra mondiale. C’è qualcosa di singolare nell’aggressione russa all’Ucraina: perché un Paese con un territorio esteso per più di 17 milioni di chilometri quadrati, ricchi di molte risorse naturali, ha mire territoriali su una nazione di dimensioni poco più grandi del 3% del proprio territorio (o su una regione, il Donbass, che ne rappresenta lo 0,3%)? L’evidente sproporzione ha una prima spiegazione nella notizia, data di recente dalla stampa inglese, della rimozione, da parte della Russia, dei resti mortali del principe Grigory Potemkin dalla cattedrale di Kherson. Kherson è una città fondata nella seconda metà del ‘700 proprio dal potente generale, preferito di Caterina II, che sottrasse anche la Crimea agli Ottomani: per la dirigenza russa non contano - come invece contano per tutto il mondo - i trenta anni di indipendenza della nazione ucraina, dal 1991 ad oggi, bensì conta un passato più lontano, al quale, come ha notato Giuliano Da Empoli nel suo splendido romanzo “Il mago del Cremlino”, il presidente della Federazione russa si richiama. Per lui vale quello che scriveva Italo Svevo, che “il presente dirige il passato come un direttore d’orchestra i suoi suonatori”; perciò, il passato “risuona o ammutolisce”. Questo uso politico della memoria storica si nota già nell’articolo 67 della Costituzione russa (come emendato nel 2020 per volontà di Putin), secondo il quale, la Federazione “garantisce la difesa della verità storica”. La storia entra a pieno titolo in questa guerra, anche per i frequenti riferimenti che ad essa, in particolare ai suoi momenti di gloria, quelli di Pietro il Grande e di Caterina II, fa Putin, memore del fatto che - come scriveva Potemkin alla zarina - “la Crimea con la sua posizione minaccia le nostre frontiere”, “la Russia ha bisogno del suo paradiso” e Kherson è “la via per Bisanzio”. A questa prima spiegazione dell’aggressione russa, che sta tra realtà e retorica, se ne aggiunge una seconda, illustrata dal nuovo zar russo in più di una occasione. Nel 2007, alla conferenza di Monaco sulla sicurezza, ha criticato il modello di un mondo unipolare, ritenuto inaccettabile, e l’espansione della Nato, aggiungendo che “la vera sovranità dell’Ucraina è in partenariato con la Russia, perché noi siamo un solo popolo”. Nel 2015, parlando alla 70ª assemblea dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, ha criticato “l’esportazione di rivoluzioni, questa volta cosiddette democratiche”, sottolineandone il potenziale conflitto con il principio, sancito dalla Carta delle Nazioni Unite, dell’autodeterminazione dei popoli, lamentando che “un’aggressiva interferenza straniera ha prodotto una distruzione flagrante di istituzioni nazionali”, e aggiungendo “non possiamo più tollerare l’attuale situazione del mondo”. Ha, inoltre, criticato la “politica di espansione della Nato e delle sue infrastrutture militari” definendo l’offerta occidentale ai Paesi dello spazio post-sovietico una “scelta ingannevole: essere Occidente o essere Oriente”. Nel 2021, a Davos, ha osservato che “l’era dell’ordine mondiale unipolare è finita” e nello stesso anno ha sostenuto l’”unità storica di russi e ucraini”. Ha ripetuto queste frasi il 17 giugno 2022 al Forum economico di San Pietroburgo, aggiungendo che “il dominio dell’Occidente non è eterno”, che “le istituzioni internazionali si stanno rompendo, stanno fallendo” e che bisogna costruire un “nuovo ordine mondiale”. Gli stessi concetti sono stati ribaditi di recente, il 27 ottobre scorso, al Valdai club di Mosca, dove ha osservato che il periodo di dominazione dell’Occidente è finito, che la Russia non è una semi-colonia e difende il suo diritto di esistere, che l’espansione dell’Alleanza atlantica è inaccettabile e che i russi e gli ucraini sono un unico popolo. Dunque, il presidente della Federazione russa ha messo in chiaro i suoi obiettivi, che vanno ben al di là della conquista di un Paese vicino e riguardano sia la sicurezza dell’Occidente, sia la struttura dell’ordine giuridico costituito dopo la seconda guerra mondiale. Quanto al primo aspetto, è quindi bene tener presente che l’aggressione all’Ucraina è un primo passo dimostrativo e che ora, se l’Occidente dà armi agli ucraini, gli ucraini dànno all’Occidente le loro vite. Quanto al secondo aspetto, non c’è dubbio che l’Organizzazione delle Nazioni Unite e il sistema multilaterale sviluppatosi dalla metà del secolo scorso non riescano a mantenere la pace in una zona cruciale dell’Europa. L’articolo 2 della Carta delle Nazioni Unite vieta l’uso della forza contro l’integrità territoriale di uno Stato. In questo caso, la forza è stata adoperata da uno Stato, la Russia, nei confronti di un altro Stato, l’Ucraina, che era entrata lo stesso giorno dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche-Urss, il 24 ottobre 1945, nella famiglia delle Nazioni Unite. Si tratta, quindi, di una guerra che oppone, l’uno all’altro, due membri fondatori delle Nazioni Unite. Essa vi ha provocato una doppia contraddizione: nell’Assemblea, il 2 marzo 2022, 141 Stati su 193, con solo cinque contrari e 35 astenuti, hanno condannato l’aggressione russa. Lo stesso ha fatto il Consiglio di sicurezza, con 11 voti su 15. La Russia ha posto il veto a quest’ultima decisione, mentre quella dell’Assemblea generale non è vincolante. Inoltre, solo quaranta Paesi stanno assicurando aiuti militari, o finanziari, o umanitari all’Ucraina. Un altro segno del fallimento del diritto internazionale è costituito dalla inerzia dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa-Osce e dalla inefficacia delle iniziative di ben tre tribunali internazionali, la Corte internazionale di giustizia, la Corte penale internazionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo. Infine, la guerra russo - ucraina mette in dubbio l’idea kantiana che vedeva nello sviluppo della cooperazione commerciale un mezzo per assicurare uno sviluppo pacifico del mondo. L’inerzia o l’inefficacia di tante istituzioni richiede una riflessione sulla crisi dell’ordine giuridico mondiale, una riflessione che non può fermarsi solo per la capacità delle democrazie di essere efficaci in battaglia (come notato da David Lake, in “Powerful Pacifists: Democratic States and War”, nell’”American Political Science Review” del 1992, con considerazioni riprese da Filippo Andreatta in una interessante relazione tenuta all’Arel il 31 maggio 2022) o per la circostanza che, a differenza di quello che è successo alla Russia nel ‘700, quando le fu più facile inghiottire la Polonia che digerirla (secondo la brillante formula di Jean-Jacques Rousseau), oggi la Russia non riesce neppure a inghiottire l’Ucraina. Non dimentichiamo che un quinto delle frontiere terrestri dell’Unione Europea, 2250 chilometri, che riguardano cinque Paesi (Finlandia, Estonia, Lituania, Polonia e Lettonia), sono comuni con il territorio della Federazione russa. Israele contro Gaza, Amnesty ha documentato crimini di guerra negli attacchi di agosto di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2022 Amnesty International ha pubblicato una nuova ricerca sugli attacchi illegali commessi all’inizio di agosto durante l’offensiva di Israele su Gaza, costata complessivamente la vita a 49 palestinesi. Utilizzando fotografie dei frammenti delle munizioni, analizzando immagini satellitari e intervistando decine di testimoni, l’organizzazione per i diritti umani ha ricostruito tre attacchi: due compiuti dalle forze israeliane e uno, molto probabilmente, da gruppi armati palestinesi. I due attacchi israeliani hanno ucciso complessivamente sei civili palestinesi. Altri sette civili palestinesi sono stati uccisi da quello che è apparso un razzo privo di guida lanciato da gruppi armati palestinesi. L’uccisione di Duniana al-Amour - Duniana al-Amour, 22 anni, studentessa di Belle arti e residente con la sua famiglia in un villaggio nei pressi di Khan Younis nella parte meridionale di Gaza, è stata uccisa nel pomeriggio di venerdì 5 agosto. Alle 15.55 un proiettile esploso da un carro armato israeliano ha colpito l’abitazione uccidendo Duniana e ferendo la madre Farha e la sorella Areej. Al momento dell’esplosione il padre di Duniana, Adnan al-Amour, stava innaffiando gli olivi nel campo mentre gli altri componenti della famiglia stavano bevendo il tè all’interno dell’abitazione, come ogni venerdì. L’abitazione degli al-Amour si trova a solo un chilometro di distanza dalla barriera che separa Gaza da Israele, a 750 metri da una torre di controllo delle Brigate al-Quds e a 360 metri da un’altra torre di controllo delle Brigate Izz al-Din al-Qassam. Venti minuti dopo l’esplosione, le forze israeliane hanno colpito la torre di controllo delle Brigate al-Quds. Le fotografie dei resti delle munizioni hanno consentito agli esperti sulle armi di Amnesty International di identificare il proiettile che ha ucciso Duniana: si tratta di un M339 di 120 millimetri, attualmente prodotto dall’azienda israeliana IMI Systems, di proprietà della Elbit Systems. Il proiettile, di cui nessun gruppo armato palestinese è in possesso, ha “un’alta probabilità di colpire il bersaglio in modo letale con pochi danni collaterali”. Le immagini dell’abitazione degli al-Amour mostrano che il proiettile ha causato un foro solo su una delle pareti. Un’analisi della precisione del proiettile ha permesso ad Amnesty International di determinare quello che doveva essere il suo obiettivo. La maggior parte dei cannoni che esplodono proiettili da 120 millimetri ha una probabilità di errore circolare di solo quattro metri: se usati in modo appropriato, i proiettili dovrebbe colpire entro un diametro di quattro metri dall’obiettivo. È dunque improbabile che il cannone stesse mirando a una delle due torri di guardia quando ha centrato l’abitazione degli al-Amour, altrimenti avrebbe mancato l’obiettivo di centinaia di metri. Amnesty International ha così concluso che le forze israeliane paiono aver volutamente colpito l’abitazione degli al-Amour. L’organizzazione non ha rinvenuto alcuna prova circa il coinvolgimento di membri di questa famiglia nei combattimenti. “Stiamo lungo il confine e loro [i soldati israeliani] sanno tutto di noi e sanno che non ci occupiamo di politica, siamo solo semplici contadini. I loro droni controllano ogni nostro movimento”, ha raccontato Adnan al-Amour. L’attacco al cimitero al-Falluja - Verso le 19 del 7 agosto un missile ha colpito il cimitero al-Falluja di Jabaliya, a nord di Gaza, uccidendo cinque minorenni: Nadhmi Abu Kharsh (15 anni) e i cugini Jamil Najmiddine Nejem (quattro anni), Jamil Ihab Nejem (14 anni), Hamed Haidar Nejem (16 anni) e Miuhammad Salah Nejem (16 anni). Amir Abu al-Mi’za (otto anni) è rimasto gravemente ferito a causa di una scheggia che è entrata nella zona della spina dorsale. Tutti vivevano nell’affollatissimo campo rifugiati di Jabaliya. Secondo Haidar Nejem, padre di Hamed, i ragazzi spesso andavano a giocare al cimitero dove c’è più spazio. Ma lì, soprattutto, si va a commemorare i defunti. Come stava facendo Nadhmi Abu Kharsh, sulla tomba della madre al momento dell’attacco. Inizialmente l’esercito israeliano ha attribuito la responsabilità dell’attacco alla Jihad islamica palestinese. Il 16 agosto, tuttavia, fonti anonime militari hanno riferito al quotidiano Haaretz che un’indagine preliminare aveva concluso che né la Jihad islamica palestinese né le Brigate al-Quds stavano lanciando razzi al momento dell’attacco. Dopo la pubblicazione dell’articolo, l’esercito israeliano non ha confermato né ha smentito. Gli esperti sulle armi di Amnesty International hanno concluso che i pezzi di metallo fotografati sul posto coincidono con frammenti di un missile guidato israeliano. Abitanti del posto hanno dichiarato di aver sentito il rumore di un drone che volava in alto poco prima dell’attacco. L’attacco al campo rifugiati di Jabaliya - Alle 21.02 del 6 agosto un proiettile ha colpito una strada nel campo rifugiati di Jabaliya uccidendo sette civili palestinesi: Momen al-Neirab (sei anni) e suo fratello Ahmad al-Neirab (12 anni), Hazem Salem (otto anni), Ahmad Farram (16 anni), Khalil Abu Hamada (18 anni), Muhammad Zaqqout (19 anni) e Nafeth al-Khatib (50 anni). Secondo Amnesty International, vi sono prove sufficienti per ritenere che l’attacco al campo rifugiati di Jabaliya sia stato causato da un razzo lanciato dai gruppi armati palestinesi, apparentemente destinato a colpire il territorio israeliano. Sono emerse diverse analogie tra questo e precedenti attacchi attribuiti ai gruppi armati palestinesi. Ad esempio, i resti delle munizioni erano stati rimossi, contrariamente a quanto accade quando sul terreno restano parti di armi e munizioni israeliane che vengono conservate ed esibite. Alcuni abitanti del campo, intervistati da Amnesty International, hanno riferito di non avere sentito rumori di droni o aerei da guerra israeliani prima dell’attacco; altri, chiedendo di rimanere anonimi, hanno detto di credere che la responsabilità dell’attacco sia stata di “un razzo locale”. Due minuti prima dell’attacco, le Brigate al-Quds avevano condiviso sui social media la diretta video di quella che veniva definita una raffica di razzi contro Israele. Come altri casi in cui razzi palestinesi hanno causato morti e feriti tra i civili, l’attacco contro il campo rifugiati di Jabaliya dev’essere indagato come un possibile crimine di guerra. Dal 2008 i gruppi armati palestinesi hanno lanciato migliaia di razzi indiscriminati contro le città israeliane, in violazione del diritto internazionale, causando decine di morti tra i civili israeliani. I razzi privi di guida usati dai gruppi armati palestinesi di Gaza, tra cui le Brigate al-Quds, sono inerentemente imprecisi. Il loro uso in aree civili viola il diritto internazionale e può costituire crimine di guerra. Amnesty International ha scritto al procuratore generale di Gaza esprimendo preoccupazioni per la rimozione dei resti delle munizioni dai siti degli attacchi e ha chiesto informazioni su eventuali indagini aperte sull’attacco al campo rifugiati di Jabaliya e sui quattro attacchi in cui erano morti sette civili e di cui non aveva potuto ricostruire le responsabilità. Il procuratore generale di Gaza ha dichiarato ad Amnesty International che le autorità locali stavano indagando su tutti i casi di violazioni verificatesi durante il conflitto, ma non ha specificamente menzionato quello contro il campo rifugiati di Jabaliya e non ha fornito informazioni sugli sviluppi delle indagini. *Portavoce di Amnesty International Italia