La pena oltre il carcere. “Prova” di comunità di Giulio Sensi Corriere della Sera - Buone Notizie, 29 novembre 2022 Cresce il numero di chi chiede l’affidamento all’Ufficio di esecuzione penale esterna. La possibilità di scontare il periodo fuori dal carcere è prevista per i reati non gravi. Le aspettative per la legge Cartabia e l’emergenza sulle condizioni di detenzione. Ma i dati di Antigone dicono che le misure alternative non risolvono l’affollamento. Scontare la pena fuori dal carcere o vedersi sospeso il processo con una misura come la cosiddetta “messa alla prova” per i reati non gravi non è un’utopia, favorisce il recupero e il reinserimento del condannato e può garantire un notevole risparmio per le casse dello Stato, evitando il sovraffollamento delle strutture penitenziarie. In Italia è in crescita il numero di persone che chiedono la sospensione del procedimento penale e l’affidamento all’Ufficio di esecuzione penale esterna (gli Uepe, organizzati su scala regionale). I numeri della messa alla prova hanno raggiunto i 25.000 individui (erano quasi 24.000 alla fine del 2021) e sono cresciuti esponenzialmente dal 2014 quando, la legge 67del 28 aprile modificò il codice penale con la previsione di questa misura, per reati puniti con pene fino ai quattro anni, anche per gli adulti dal momento che è utilizzata da sempre per i minori. Nonostante tale importante novità nel sistema penale italiano, i numeri della popolazione carceraria rimangono alti perché coinvolge persone con pene che difficilmente si sarebbero scontate in carcere. Ma la legge proposta dall’ex Ministro della giustizia Marta Cartabia per l’efficienza del processo penale, approvata ad agosto e che è in attesa di attuazione, favorirebbe le sanzioni sostitutive. Il nuovo governo ne ha sospeso l’entrata in vigore fino a fine anno, annunciando modifiche al testo. “Le misure dell’area penale esterna - spiega la coordinatrice dell’associazione Antigone Susanna Marietti - sono tante. Ci sono le classiche alternative che sono la semilibertà, la detenzione domiciliare e quella che è la più aperta di tutte perché garantisce un contesto socializzante incline al recupero: l’affidamento in prova ai servizi sociali. Sono misure possibili con il modello italiano di pena, un modello flessibile, dato che il giudice in sede di condanna infligge un certo numero di anni di reclusione che non sono per forza gli stessi che il condannato sconterà. Dopo subentra quello di sorveglianza che può far guadagnare pezzi di libertà in caso di buona condotta e in risposta ad un piano di reintegrazione sociale”. “Il dato a cui guardare con attenzione quando si valuta con favore l’esecuzione penale esterna - aggiunge Marietti - è quanto tali misure vadano a erodere i numeri del carcere. Tutto in Italia è parametrato al carcere e le sanzioni sostitutive previste fino ad oggi, semidetenzioni e libertà controllata, non hanno funzionato”. Se guardiamo ai numeri, contenuti annualmente nel rapporto di Antigone, in effetti la crescita delle misure alternative non ha abbattuto quelli della popolazione carceraria. “Dal 2010 - precisa Marietti - l’Italia, con i ministri della giustizia Alfano prima e Severino poi, ha iniziato a tagliare la popolazione carceraria, favorendo soprattutto la detenzione domiciliare per parte della pena, in genere quella finale. Ma è la misura più vuota di contenuto riabilitante perché reclude in casa il detenuto e lo inserisce poco nel contesto sociale e lavorativo”. Oltre alla messa alla prova, in Italia ci sono anche i lavori di pubblica utilità che sono sostitutivi alla pena e vengono dati direttamente in sentenza. È una misura che riguarda soprattutto, ma non solo, la grande massa di persone responsabili di reati in violazione del codice della strada, circa 10.000 in questo momento. C’è molta attesa rispetto a quello che sarà l’impatto della riforma Cartabia che vuole rivitalizzare l’ambito delle sanzioni sostitutive alla pena le quali potranno essere assegnate dal giudice di merito. Prevede l’innalzamento di limite di pena che può essere rimpiazzata da esse e un loro allargamento, anche per andare a sanare l’enorme problema dei “liberi sospesi”: una popolazione stimata di oltre 80.000 persone che, condannati ad una pena carceraria bassa, sono ancora in attesa della alternativa che i Tribunali di sorveglianza, sovraccarichi di lavoro, impiegano molto tempo ad assegnare. Abbattere la recidiva La scommessa, seppur sia ancora timida in Italia, non si vince però senza favorire la rieducazione. “E soprattutto senza il Terzo settore - afferma Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia che riunisce enti, associazioni e gruppi impegnati quotidianamente in esperienze di volontariato nell’ambito della giustizia - in Italia non ci sarebbe rieducazione. Significa per gli autori di reato mettersi in gioco, lavorare sul tema della responsabilità perché la società deve sperare che le persone non escano incattivite dal carcere o dallo sconto di pena, ma consapevoli del danno e del dolore che hanno provocato. Parliamo di una popolazione carceraria composta in maggioranza da persone disagiate, che vivono condizioni di povertà o di dipendenza”. In Italia sono migliaia le realtà attive in ogni territorio: fanno attività educative dentro alle carceri e promuovono percorsi di reinserimento sociale e lavorativo. “Percorsi - conclude Favero - che garantiscono l’abbattimento della recidiva perché l’accompagnamento è fondamentale per il recupero”. Guardiamo i dati, non le ideologie. così si valuti la reale efficacia di Filippo Giordano* Corriere della Sera - Buone Notizie, 29 novembre 2022 La relazione tra forme di esecuzione penale e comportamenti recidivanti è oggetto di studio da anni. I Paesi anglosassoni hanno prodotto una corposa letteratura circa l’efficacia delle misure alternative al carcere (“misure e sanzioni di comunità”) comparate alla detenzione. In Italia, tuttavia, si riscontra una preoccupante carenza di studi e analisi comparative che possano informare le politiche pubbliche rispetto alle azioni da intraprendere per far fronte ai problemi strutturali di sovraffollamento e recidiva. Buona parte della letteratura disponibile è composta da studi di impronta prettamente giuridica, che valutano le modifiche avvenute a livello legislativo. Tra le poche ricerche quantitative sul tema è da segnalare quella del 2007 di Fabrizio Leonardi che, pur con molte criticità dal punto di vista metodologico, riscontrò evidenze a favore delle misure alternative alla detenzione. Nel 2020, con alcuni colleghi dell’Università Bocconi, abbiamo svolto uno studio sui dati gestiti dall’Uepe Lombardia volto a dimostrare la validità della misura alternativa rispetto alla detenzione per i casi che ne consentono l’applicazione. L’analisi di regressione condotta sull’intero database, composto da oltre 24mila incarichi gestiti tra il 2007 e il 2018 in Lombardia, ha messo in luce i fattori più significativi che influenzano la revoca della misura e che confermano la letteratura internazionale: 1) l’esperienza detentiva deteriora le “condizioni di partenza” individuali e l’andare in misura alternativa dopo il carcere incrementa il tasso di revoca della misura; 2) l’affidamento in prova si dimostra più efficace in termini di reinserimento sociale e meno rischioso in termini di probabilità di revoca rispetto alla detenzione domiciliare. Per giungere a indicazioni solide e generalizzabili lo studio andrebbe replicato in altri territori (il contesto sociale è un fattore determinante per l’efficacia delle misure) ampliando la base dati e migliorando la qualità delle informazioni. Infatti la cosa emersa inequivocabilmente nei mesi di lavoro a stretto contatto con l’Uepe è la necessità per l’amministrazione di strutturare un’efficiente sistema di raccolta, gestione ed elaborazione dei dati, perché il potenziale informativo “intrappolato” e la perdita di informazioni nelle procedure quotidiane degli operatori è significativo. Il beneficio che deriverebbe dall’esistenza di un sistema informativo più efficiente è evidente. Se non si misura non si apprende, non si migliorano i processi organizzativi e non si possono valutare fenomeni complessi come la recidiva. Per questo è necessario promuovere nel nostro Paese una cultura dell’evidence-based policy nell’ambito dell’esecuzione penale, tema spesso solo oggetto di sterili contrapposizioni ideologiche che impediscono la ricerca di reali soluzioni ai problemi. Pertanto il lodevole lavoro di disclosure che Antigone svolge sul mondo dell’esecuzione penale è solo un punto di partenza e deve essere da stimolo per sviluppare ulteriori percorsi di ricerca e approfondimento, condizione necessaria per un dibattito politico fattivo e la predisposizione di interventi mirati. *Università Bocconi La linea d’ombra della prigionia, dove si smarrisce il senso del tempo di Francesco Greco* Il Dubbio, 29 novembre 2022 Un avvocato tra i detenuti del carcere di Palermo per capire cos’è la vita senza libertà. Quando ero presidente dell’Ordine degli Avvocati di Palermo organizzavo tutti gli anni una visita nelle due carceri palermitane, “Ucciardone” e “Pagliarelli”. Avvertivo, difatti, l’esigenza di dare attuazione a quello che, ritengo, è un compito ben più ampio di noi avvocati nel contesto della giustizia, che non deve fermarsi alla difesa nel processo, che ovviamente costituisce la funzione primaria e costituzionale del difensore, ma che - quali componenti essenziali ed indispensabili nel processo di attuazione della democrazia e dei principi costituzionali - si deve estendere anche alla verifica delle condizioni carcerarie, della funzione emendativa della pena, della funzionalità degli istituti alternativi alla detenzione e, quindi, anche a verificare che la carcerazione, seppur deve essere seria e grave, non si trasformi in occasione (e luogo) di tortura psicologica e fisica. Dunque, ogni anno giravo le due carceri palermitane, insieme ai colleghi del Consiglio dell’Ordine e delle associazioni degli avvocati penalisti. Il primo anno cominciai con il carcere “Ucciardone”. Riconosco che ero molto prevenuto: ero certo che la direttrice dell’istituto ci avrebbe fatto vedere le parti “migliori” del carcere, quelle nuove, ristrutturate, con le celle più grandi e meno affollate. E quando all’inizio di quello che immaginavo avrebbe cercato di trasformare in un veloce tour, inaspettatamente, mi chiese quali sezioni avrei voluto vedere, risposi senza esitare: “tutte”. “Benissimo” - replicò con mio stupore la direttrice - “se ha tre o quattro ore di tempo gliele faccio visitare tutte, tranne quelle con detenuti in isolamento od in regime speciale.” E così fu. Ricordo - tengo a precisarlo prima di ogni altra cosa - che mi colpì la grande preparazione, sul piano umano e professionale della polizia penitenziaria, il cui comandante, alla fine della visita, chiesi di incontrare per complimentarmi e ringraziarlo per il lavoro che gli agenti svolgono, difficile, difficilissimo, che comporta il saper ottenere, dimostrando umanità e comprensione ma anche quando serve rigore, il rispetto delle regole carcerarie proprio da chi si trova in stato di detenzione per aver violato le regole del vivere nella società. La mia prima visita, come tutte le successive, fu durissima, per le emozioni negative che provai, che non ho più dimenticato. Girai tutte le sezioni, percorrendo i corridoi lungo i quali, sul lato destro e sinistro si trovavano le celle dei reclusi, che si arrampicavano su più piani, tra i quali ci si muove attraverso scale strette e ripide, separate da pesanti cancelli di ferro chiusi con le grandi chiavi che si vedono nei film, che i secondini (una volta si chiamavano così) aprivano e richiudevano al nostro passare. Le pesanti porte in ferro delle celle erano aperte e i detenuti erano fuori, raccolti a discutere in capannelli lungo i corridoi di ciascun piano. Solo i cancelli che separava un piano dall’altro o un corridoio dall’altro erano chiusi. Sostanzialmente, i detenuti potevano entrare od uscire dalle singole celle e discutere con quelli delle celle adiacenti o vicine. Il confine era il cancello che separava un corridoio da un altro. Al nostro passare, apprendendo che eravamo avvocati, i detenuti mostravano stupore, ma al tempo stesso rispetto e riconoscente compiacimento. Mi spiegarono i collegi penalisti che il rispetto che i detenuti visibilmente esprimevano al nostro avanzare nasceva dal fatto che per chi è recluso l’avvocato rappresenta l’unica speranza di ottenere qualche sconto di pena, qualche concessione, qualche beneficio di qualunque genere, perché in quelle condizioni anche ciò che “fuori” può apparire insignificante, costituisce una conquista. Qualcuno, guardandoci, sussurrava con un tono sufficiente a farcelo sentire “l’avvocato lo vedo solo ai colloqui”; qualche altro riconosceva tra i colleghi penalisti che mi accompagnavano il loro difensore e lo salutavano con ossequio, domandando con sorriso “avvocá quando mi fa uscire?”. Già alla mia prima visita, così come nelle successive, non mi limitai a osservare le celle dall’esterno: chiesi subito all’ufficiale di polizia penitenziaria che insieme ad un sottufficiale e due agenti ci accompagnavano, di entrare nelle celle perché volevo capire cosa i provano detenuti, quali odori respirano, quali sensazioni percepiscono, quali immagini riproduce la loro mente ed il loro subconscio, quali emozioni prova un uomo in quelle condizioni. Io, dentro la cella per qualche minuto, loro per giorni, mesi, anni. L’ufficiale, essendo evidentemente stato preventivamente autorizzato dalla direttrice, che sicuramente immaginava che l’avrei richiesto, acconsentì il mio ingresso. Le sensazioni furono tremende: mi sentivo oppresso, compresso, schiacciato. Stanze di poche decine di metri ove vivevano 8, 10 o 12 uomini adulti, con una unica latrina aperta, senza la porta di chiusura, per ovvie ragioni di controllo, che però produceva una totale assenza di riservatezza ed il diffondersi degli odori. Chiesi il permesso ad un detenuto di sedermi, per un istante, nella sua branda. Non sono in grado di descrivere quello che provai. Sensazioni durissime: costernazione, oppressione, mancanza d’aria ma, lo ricordo bene, anche rabbia verso gli stessi detenuti, che quello stato di reclusione lo subivano per avere, con la loro condotta illecita, sostanzialmente accettato il rischio di finire lì. Il giro mi consentì persino di comprendere l’assurdità di alcune regole del carcere, che fuori possono apparire illogiche ed incomprensibili, ma che dentro servono a regolare la vita di migliaia di uomini che si trovano chiusi e costretti a vivere in pochi metri per avere offeso il vivere nella società. Il ricordo più duro che mi è rimasto scolpito è legato alle risposte che mi diede un detenuto, apparentemente anziano, al quale chiesi: “Da quanto è in carcere ?”. Mi rispose : “Non lo ricordo”. Allora lo incalzai: “Come mai non ricorda, in che anno è entrato e quanto ancora ha da scontare?” Mi rispose con un sorriso: “non lo so!”. Quell’uomo, volutamente uso il sostantivo “uomo” e non quello di detenuto, aveva perduto la dimensione del tempo passato, del tempo presente e del tempo futuro. Ho ripetuto quella esperienza ogni anno nei successivi in cui ho rivestito la carica di presidente dell’Ordine degli Avvocati e posso dire, con assoluta certezza, che mi ha aiutato a comprendere meglio la realtà carceraria. Ho quindi pensato, caro Direttore, in occasione della campagna lanciata dal Dubbio sulle condizioni delle nostre carceri, di raccontarle questa mia esperienza per dire a chi ha sbagliato, a chi ha violato le regole, a chi è responsabile di qualcosa, che è giusto che paghi per intero e senza sconti, dal primo all’ultimo giorno la sua pena, frutto della condotta che ha tenuto, accettando il rischio della risposta sanzionatoria dello Stato. Ma è altrettanto giusto, e questa volta mi rivolgo alla coscienza di chi ha le responsabilità giuridiche e politiche, che il luogo di detenzione non sia un luogo di tortura. *Vicepresidente del Cnf Gratteri al Dap? Grazie, anche no di Valter Vecellio L’Opinione, 29 novembre 2022 Un approccio, per come viene riferito da “Il Dubbio”, che già appare bizzarro: il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, dice di aver parlato con l’attuale ministro della Giustizia, Carlo Nordio “di arte”. Nordio “è un grande conoscitore di Storia” e lui si considera un garantista: “Io e il mio ufficio osserviamo in modo ortodosso le norme del codice”. Parlano d’arte. Nordio conosce bene la storia; Gratteri è un “garantista ortodosso”. Ci sarà senz’altro un filo logico, ma si fatica a scorgerlo. Lacuna sicuramente di chi scrive. Il procuratore Gratteri aggiunge che ci sono “diffamatori quotidiani che scrivono notizie false” e lui intenta cause civili. Scuola Piercamillo Davigo, che aveva sulla sua scrivania un’apposita cartellina con la dicitura: “Per una serena vecchiaia”. Messaggio recepito: nessun commento (questo timore di commentare lo si intenda comunque come commento). Il dottor Gratteri assicura che “da quando sono a capo della procura di Catanzaro non c’è una sola condanna per ingiusta detenzione, lo dice il presidente della Corte d’appello. Non ci sarebbero le carceri piene in Calabria se le mie indagini fossero tutte un bluff”. Lorenzo Cesa non ha fatto una sola ora di carcere; tuttavia, è una vicenda che anch’essa da sola si commenta. Qualche altro esempio, a volersi applicare, lo si può trovare; ma non è tanto questo. Neppure interessa soffermarsi sulla sicurezza del procuratore circa il gradimento o meno dei calabresi per quel che riguarda il Ponte sullo Stretto, e se ne abbiano davvero bisogno i siciliani; con timoroso silenzio, senza commentare, si registra l’invito a Francia e Inghilterra a non interloquire per quel che riguarda gli immigrati (“non possono parlare per il loro passato coloniale”). Ci si limita solo a osservare, incidentalmente, che se questo è l’argomento, praticamente nessuno può aprire bocca: schiavisti gli arabi, colonialisti della peggior specie i belgi (qualche lettura di Mark Twain su re Leopoldo sarebbe utile); tacciano Spagna e Portogallo, Germania. Anche l’Italia in Libia, Etiopia, Somalia, Eritrea a suo tempo ha combinato. No, su questo non vale la pena di perdere tempo. Piuttosto ecco l’ipotesi Gratteri a capo del Dipartimento per l’Amministrazione della Giustizia, che circola da qualche giorno. “Nessuno mi ha chiesto di fare il capo del Dap”, dice Gratteri. “Forse è un desiderio della polizia penitenziaria ma dipende da che libertà mi danno, devo avere mani libere”. Ci si augura che si continui a non chiedergli nulla, di non incappare nei fulmini del Procuratore se si è dell’opinione che se gli venisse conferito quell’incarico, sarebbe la persona sbagliata nel posto sbagliato. Come a suo tempo fu sbagliatissima l’intenzione di Matteo Renzi di candidarlo a ministro della Giustizia, per fortuna stoppato dal Presidente della Repubblica. Per ragioni e motivi addotti dallo stesso Gratteri: “Dipende da che libertà mi danno, devo avere le mani libere”. No, procuratore. Né lei né nessun altro deve avere “le mani libere”. Lei, come tutti, ha “solo” la libertà che le concede la legge. Prefetti alla Cesare Mori, grazie anche no. Carceri: basta con i santoni del mattone ad ogni costo di Domenico Alessandro De Rossi* L’Opinione, 29 novembre 2022 Dalla sentenza della Cedu agli Stati generali nulla è cambiato nelle carceri. Indirizzando il suo avvertimento al presidente del Consiglio e al ministro della Giustizia, il penitenziarista, nonché presidente onorario del Cesp, Enrico Sbriglia in un suo articolo recente così scriveva a proposito dello stato delle carceri e degli esperti in edilizia penitenziaria: “Diffidino dei Santoni del mattone ad ogni costo, si insospettiscano (Giorgia Meloni, Carlo Nordio e forse anche il Dap, osservo io) verso quanti vogliano cancellare l’esistenza degli istituti malmessi, per farne dei nuovi e, in tal modo, distruggere la prova provata di decine di anni di malgoverno e di cattiva programmazione, rifacendosi così la verginità forse mai posseduta; abbiano i nuovi conductores tale civico coraggio!”. Più chiari di così non si poteva essere in merito al “trust” di cervelli intorno al malato-carcere. E, citando di fatto la sentenza della Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’uomo) con la quale si sanzionava pesantemente l’Italia per il modo come non avesse rispettato i diritti umani dei detenuti costringendoli in carceri invivibili, aggiungeva “negli ultimi anni, in molti istituti, è stato violato ogni principio di proporzioni tra cubature detentive e spazi aperti, stuprate le poche aree verdi ancora disponibili, cassate le superfici libere, che ben avrebbero potuto essere impiegate per realizzare centri di formazione professionale per i detenuti, aule scolastiche, fattorie, laboratori artigiani, luoghi di culto, locali attrezzati per le attività trattamentali in genere, preferendosi, invece, realizzare ulteriori padiglioni penitenziari e così trascurando le conseguenze di un accresciuto carico antropico sulle strutture, sui servizi e sottoservizi, con continue problematiche per le reti fognarie, gli impianti elettrici, le centrali termiche, già stressate e sull’orlo del collasso; scopriranno così che da anni, in tante realtà, non venivano puntualmente eseguite le periodiche manutenzioni ordinarie, preferendo che anche il più modesto graffio si trasformasse in una ferita profonda e deturpante, necessitando poi della sala operatoria, per poi dichiarare come l’intervento fosse perfettamente riuscito, ma il paziente, perché poco collaborativo, invece morti”. Nonostante i ripetuti tavoli tecnici e le più diverse Commissioni di esperti fatte nel tempo, oltre ai più reclamizzati “Stati generali dell’esecuzione penale” voluti dall’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, ecco allora emergere da queste considerazioni una preoccupante carenza di valutazione e di merito rispetto all’intero patrimonio edilizio penitenziario. Laddove tuttora si registrano le inefficienze in termini di qualità del servizio riguardanti lo stato delle carceri, si presenta con tutta chiarezza nonostante i non pochi anni trascorsi, l’assenza di un benché minimo programma basato su una seria metodologia tecnica riguardante la manutenzione ordinaria del patrimonio edilizio. In questo caso mancando purtroppo una cultura sistemica in merito alla funzione e ruolo del carcere anche in termini contestuali. Nelle varie occasioni promosse dal Ministero, oltre alle prestigiose conferenze, ai tavoli tecnici, agli inutili dibattiti tra i “Santoni del mattone ad ogni costo” e alle proposte di futuribili e costosi mega carceri (vedi Nola), emerge il sospetto che tali riunioni, a fronte dell’indifferenza circa la penosa situazione penitenziaria, siano servite più a vantaggio dell’autoreferenzialità piuttosto che per risolvere i reali problemi di chi è detenuto e in carcere si ammazza. Durante il lungo tempo inutilmente trascorso dagli Stati generali del 2015 ad oggi, anche a seguito dell’umiliante condanna dell’Italia da parte della Cedu, suppongo che si sarebbe potuto promuovere uno studio sullo stato delle carceri in Italia, redigendo delle schede operative, caso per caso, atte a promuovere le azioni necessarie per rimodulare in termini di efficienza funzionale i singoli istituti. Il programma una volta deciso avrebbe potuto anche avvalersi di quanto già elaborato dal Ministero della Giustizia di una ricerca compiuta dai suoi tecnici già nel lontano 1997 (!) con lo studio Repertorio del patrimonio edilizio penitenziario in Italia per redigere finalmente una sorta di manuale sistematico e puntuale su quanto occorreva risolvere, separando e ordinando le diverse tematiche in base al tempo e alle risorse disponibili, così come ampiamente già illustrato nel testo Non solo carcere, norme storia e architettura dei modelli penitenziari di Autori vari, Mursia 2016. Sarebbe bastato affrontare nei termini giusti il problema reale su cosa fare per le carceri esistenti sul territorio, invece che promettere altisonanti progetti avveniristici per le “nuove” carceri, per nuovi salati appalti, per nuovi incarichi a più diretto beneficio degli autonominatisi “archistar” della carcerazione. *Vicepresidente Cesp Umanizzare il carcere di Antonino Sala L’Opinione, 29 novembre 2022 L’ultimo dato dei suicidi in carcere, 79 dall’inizio dell’anno, è il peggiore che si registra da 13 anni. Questo fatto dovrebbe aprire in Parlamento una seria riflessione su questa umanità perduta. Recentemente Il Dubbio ha rilanciato un appello firmato da diverse personalità per chiedere l’applicazione di alcune misure per rendere la vita nelle strutture di detenzione meno difficili come: aumentare il numero di telefonate verso i familiari; alzare a 75 giorni i 45 previsti a semestre per la liberazione anticipata; creare spazi da dedicare ai familiari; aumentare il personale per la salute psicofisica; giustizia riparativa e sanzioni sostitutive delle pene detentive. Purtroppo ancora oggi in Italia la detenzione è vista come la più efficace misura di protezione e prevenzione dal crimine da far scontare ad un condannato, nonostante la nostra Costituzione parli di pena e non di carcere. Certamente ci sono soggetti tra gli ospiti nelle patrie galere aggressivi e potenzialmente molto pericolosi, ma questo non giustifica la non predisposizione di misure alternative alla reclusione per tutti gli altri. Infatti, la differenza tra i provvedimenti di stampo ottocentesco (il carcere) e quelli del terzo millennio dovrebbe stare proprio nell’alternatività tra i vari dispositivi, che vanno dal bagno penale alla libertà vigilata e con l’aiuto delle nuove tecnologie informatiche in qualche caso anche a quella autocontrollata. Il nodo della questione è assolutamente politico e sta nel fatto che la sanzione dovrebbe da un lato punire e contenere e dall’altro rieducare e riumanizzare il soggetto, altrimenti si configura come un totale fallimento la sua espiazione tanto da potere parlare più di vendetta che di giustizia. È una questione semplicemente di grado di civiltà della nostra società. Seppur ci possano essere isole meno tristi, con case circondariali meno oppressive e affollate, resta il fatto che la privazione della libertà per l’uomo, sia a tempo determinato che non, è la più atroce delle condanne, che spesso non raggiunge lo scopo rieducativo, ma anzi non fa altro che esacerbare i rapporti dell’individuo con se stesso e con gli altri. E allora che fare? non condannare più nessuno? non proteggere la persona e la proprietà dai criminali? certo che no. Bisogna ripensare tutto il sistema delle pene in senso più umano e meno coercitivo. Permettere di scontare la condanna fuori dalle mura circondariali per i soggetti non aggressivi e pericolosi, ma anche per tutti coloro che hanno commesso reati non significativi dal punto di vista della violenza, attraverso l’utilizzo della geolocalizzazione in libertà vigilata ed anche, per coloro che ne fossero idonei, quella autocontrollata con l’utilizzo di una applicazione informatica di certificazione della posizione e dell’attività. I docenti di ogni ordine e grado lo fanno tutti i giorni utilizzando il registro elettronico: in esso autodichiarano dove sono e cosa hanno svolto o stanno facendo in quel determinato istante. Basterebbe utilizzare lo stesso metodo per coloro che devono scontare una sanzione minore o che sono quasi alla fine del loro percorso carcerario e ormai non necessitano di stare in una cella quasi sempre sovraffollata. Magari anche pensare a dei luoghi all’aperto controllabili attraverso sensori rilevatori per evitare allontanamenti o avvicinamenti fraudolenti, come per le auto nel sistema delle zone a traffico limitato, permettendo al condannato di muoversi liberamente dentro un perimetro ben delimitato, per esempio in un quartiere di una grande città o nel territorio di un piccolo comune. D’altronde nell’era in cui si utilizzano i droni per colpire obiettivi militari a distanza di molte centinaia di chilometri non penso sia un’attività complicata da realizzare e soprattutto da controllare che potrebbe pure essere affidata anche a imprese private specializzate. Contemporaneamente però il soggetto dovrebbe essere seguito dal punto di vista culturale e psicologico, in maniera che lui stesso si possa rendere conto del danno effettivo che le sue azioni hanno arrecato agli altri ed anche a se stesso. Sarebbe poi utile prevedere percorsi di reinserimento lavorativo, dando a lui la possibilità di scegliere autonomamente magari consigliandolo adeguatamente. Già poter avere davanti diverse opzioni di vita sarebbe un modo per responsabilizzarlo, rendendolo protagonista consapevole, come scrive Antoine Garapon in Lo Stato minimo, il neoliberalismo e la giustizia “i diritti rappresentano per l’individuo un capitale, che quest’ultimo dovrà poter rivendicare, utilizzare, eventualmente scambiare o addirittura svendere (come nel patteggiamento penale, ove egli rinuncia ai propri diritti a un processo equo in cambio di una diminuzione di pena), per massimizzare i propri vantaggi e minimizzare i propri rischi. Il neoliberalismo individua nel singolo, che si tratti di una persona o di un’impresa, il soggetto di ogni obbligazione giuridica. Se l’individuo è diventato medico di se stesso, l’insegnante di se stesso, consigliere spirituale di se stesso, è diventato anche avvocato di se stesso e forse anche giudice di se stesso!”. Forse riusciremo a mitigare gli effetti negativi pre e post carcere con questo processo di autoresponsabilizzazione; sarebbe comunque un tentativo utile per trovare un’alternativa concreta alla galera. Ogni detenuto inoltre soffre per la mancanza di affettività e di socialità dentro e di “straniamento” ed “estraniamento” una volta fuori, che è il senso di inadeguatezza e di incomprensione della realtà circostante che lo colpisce al momento del ritorno in libertà, specialmente se è stato sottoposto ad una lunga carcerazione. Essendo essa una istituzione sociale e non naturale, la soluzione più efficace per minimizzare questi effetti, come afferma Daniel Gonin in Il corpo incarcerato è comunque quella di permettere ai detenuti la possibilità di avere una vita affettiva, perché avrebbe esiti benefici sul suo corpo-mente con riduzione del senso di vuoto, di superficialità nei rapporti e di frustrazione. La coltivazione dei rapporti emotivi renderebbe anche più “sopportabile” il ritorno allo Stato libero, e permetterebbe una continuità nei rapporti con le persone più significative, alleggerirebbe di molto la coercizione che l’istituzione “detentiva” esercita e essa stessa ne gioverebbe di una nuova rifunzionalizzazione. È necessario uscire dalla logica che un crimine va ripagato comunque secondo la massima biblica “dell’occhio per occhio, dente per dente”, si corre il rischio di diventare orbi ed edentuli. Il carcere all’oggi, continua ad assumere fondamentalmente la funzione solo di una pena corporale, perché fisicamente “totalizzante”. Se immaginassimo i benefici, sia in termini sociali che economici, di una nuova riumanizzazione del detenuto, riusciremmo a individuare le alternative alla reclusione che si possono implementare. Ne avrebbe vantaggio il nostro sistema giudiziario in generale perché diminuirebbero le recidive, come dimostrano i dati degli altri paesi europei dove le misure sono meno legate alla reclusione. E soprattutto non sarebbe avvertita la casa circondariale, come un luogo in cui relegare il male o ciò che non ci piace della natura umana. In genere infatti le carceri sono state costruite in luoghi lontani dai centri delle città, quasi a voler separare questa umanità dal resto della civiltà, posti di cui ci importa poco e che vengono alla ribalta solo quando qualche disperato si toglie la vita. Sono considerate dai “liberi”, passatemi il termine, come “discariche” umane di cui non ci si vuole occupare, solo perché lì abbiamo sepolto ancora vivo la personificazione della cattiveria del mondo, e dai reclusi come un “inferno” da cui scappare anche con l’autolesionismo, che in certi casi arriva fino alla morte. Addirittura viene messo in rapporto solo con essa persino nei detti popolari: per esempio a Palermo per indicare la fine di un criminale si usa ancora dire “o carrozza (il carro funebre) o Vicaria (il nome dell’antico carcere della città)”, e per indicare un particolare soggetto ritenuto perfido, lo si appella “vicarioto” (ex carcerato) in termini dispregiativi. Un orrore senza fine che si perpetua nel tempo, che non è degno di una “res pubblica” civile. Che umanità è quella che difronte alla sofferenza chiude gli occhi o si gira dall’altro lato? semplicemente non lo è. E per quelli che comunque devono rimanere dentro l’altro aspetto che fa parte di un processo di rifunzionalizzazione, è quello delle strutture da ammodernare da un alto e da “umanizzare” dall’altro, sia dal punto di vista degli spazi fisici che per quelli più ampiamente culturali. E cosa c’è di più umanizzante della cultura e dell’arte? Perché non pensare ad una efficace interazione in tema tra il Ministero della Cultura e quello della Giustizia (a cui peraltro in maniera significativa è stata tolta anni fa la “Grazia” dalla denominazione)? Basterebbe poco. Infatti i magazzini dello Stato sono pieni di opere d’arte che difficilmente verranno esposte al pubblico per mancanza di luoghi ed anche di tempo e allora perché non far diventare gallerie permanenti i grigi corridoi delle case detentive? Perché negare la possibilità ai reclusi di potere cambiare il proprio punto di vista sulla realtà anche attraverso l’arte? Sicuramente tutti coloro che vivono in quelle realtà, sia operatori che ospiti, ne trarrebbero beneficio, il potere evocativo dell’arte è superiore rispetto alle altre forme sensoriali, educheremmo così la mente e lo spirito alla bellezza e ne stimoleremmo a sua volta una positiva creatività. Sarebbe un processo di culturizzazione senza eguali. Un ambiente più “salubre” da questo punto di vista, sarebbe di aiuto nella rieducazione del soggetto, che è l’autentica e civile finalità di una sentenza di condanna, che speriamo comporti finalmente una pena senza un inutile e disumana sofferenza. Alfredo Cospito è al 41° giorno di sciopero della fame contro il regime carcerario del 41 bis di Federico Rucco contropiano.org, 29 novembre 2022 La scorsa settimana su incarico dell’avvocato difensore Flavio Rossi Albertini, un medico - la dottoressa Milia - ha potuto visitare il detenuto e l’ha trovato “in condizioni discrete”, pur se sofferente per il freddo e dunque, per precauzione, non usufruisce dell’ora d’aria. Alfredo Cospito ha già perso oltre 20 kg di peso. Il primo dicembre è prevista la decisione relativa al reclamo presentato dai suoi legali in merito all’applicazione del regime di 41-bis. Nel reclamo presentato, l’avvocato difensore scrive che la difesa reputa “che la sottoposizione del proprio assistito al regime speciale di detenzione di cui all’art. 41 bis commi 2 e 2 quater O.P. sia illegittima per l’insussistenza, nel caso di specie, dei presupposti applicativi di cui al comma 2 della norma in esame, ovvero, in particolare, per l’attuale insussistenza “dell’associazione criminale, terroristica o eversiva” rispetto a cui la norma de qua mira ad impedire i collegamenti tra i sodali ristretti in carcere e quelli che si trovano all’esterno”. Cospito, è un militante anarchico detenuto che dallo scorso aprile è sottoposto dal regime di 41-bis, dopo sei anni passati regime in Alta Sicurezza. È stato condannato per il reato di strage - anche se la strage non è avvenuta né ci sono stati morti - perché così prevede il dispositivo del reato utilizzato dai magistrati, anche se l’attentato in questione non ha provocato conseguenze letali. La vicenda nasce con i due pacchi-bomba esplosi nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 2006, alla scuola Allievi Carabinieri di Fossano (Cuneo), i quali non provocano morti, feriti o danni gravi. “Fortunatamente non ci sono stati feriti né danni gravi, anche se il secondo ordigno avrebbe potuto uccidere. Le bombe erano nascoste in due cassonetti dell’immondizia. L’esplosione ha danneggiato la recinzione esterna di una abitazione privata nei pressi della caserma” scriveva la Repubblica del 2 giugno 2006 a proposito dell’attentato. Eppure la Corte d’Assise d’Appello ha qualificato il fatto come strage (art. 422 del Codice penale): delitto contro la pubblica incolumità, che prevede una pena non inferiore ai 15 anni. Successivamente, nel luglio scorso, la Cassazione ha modificato l’imputazione nel ben più grave delitto (contro la personalità interna dello Stato) di strage, volta ad attentare alla sicurezza dello Stato (art. 285 del Codice penale), condannando due militanti anarchici, Alfredo Cospito e Anna Beniamino all’ergastolo. Infine, da aprile 2022, venti anni dopo, per Cospito le condizioni di detenzione vengono ulteriormente peggiorate con il passaggio al regime del 41 bis. La questione è rappresentata dal regime di 41-bis, la cui esclusiva finalità è, per la legge, quella di “interrompere i rapporti tra il detenuto e l’organizzazione criminale di appartenenza”, ma la cui applicazione trascende di frequente i limiti previsti dalla norma. “Così che la reclusione in 41-bis tende a tradursi in un sistema di privazioni e afflizioni che nulla hanno a che vedere con la ratio della legge e che rischiano di trasformarsi in altrettanti provvedimenti persecutori” scrive in articolo Luigi Manconi, per molti anni Garante dei detenuti. La corrispondenza destinata ad Alfredo Cospito viene trattenuta. I rapporti consentitigli con altri tre detenuti sono ormai ridotti a quelli, occasionali, con una sola persona. Le ore d’aria cui ha diritto possono essere trascorse esclusivamente all’interno di un cubicolo dai muri molto alti, che permettono di guardare il cielo solo attraverso una grata posta sul soffitto. Contro questo trattamento detentivo Alfredo Cospito ha deciso di intraprendere lo sciopero della fame, perché - ha scritto – “La vita non ha senso in questa tomba di vivi”. Il nuovo Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, una decina di giorni fa ha visitato in carcere Alfredo Cospito, mentre sul caso sono state presentate alcune interrogazioni parlamentari da parte dei deputati e senatori Peppe De Cristofaro, Ivan Scalfarotto, Nicola Fratoianni, Riccardo Magi e Silvio Lai. Ma nella “tomba di vivi” non è sepolto solo Alfredo Cospito. Anche altri prigionieri politici - arbitrariamente accomunati ai mafiosi ma spesso trattati nei tribunali e nelle carceri assai peggio dei mafiosi - sono da anni sottoposti alle vessatorie restrizioni del 41 bis pur non ravvedendosene alcuna necessità. È dal 2005 che il 41 bis venne applicato ai prigionieri politici arrestati nel 2003 e successivamente condannati per appartenenza alle Nuove Brigate Rosse. Sono i casi di Nadia Lioce, Marco Mezzasalma, Roberto Morandi. Un’altra detenuta politica, a cui è stato applicato il 41 bis per parecchi anni, era Diana Blefari; dopo quasi quattro anni di carcere duro e di totale isolamento il 41 bis gli venne revocato, ma le sue condizioni psico-fisiche erano ormai definitivamente compromesse e nel 2009 si tolta la vita. L’avvocato Caterina Calia, che ha seguito molti di questi casi, definisce tutto questo come Il “diritto penale del nemico”, il che come indica la stessa definizione, “presuppone l’esistenza di un nemico assoluto nei cui confronti non si applicano le norme ordinarie, ma si applicano invece norme speciali giustificate dalla ragion di stato”. Va da sé che questo accanimento carcerario, oltre quello giudiziario nei processi, si configura più come spirito vendicativo da parte degli apparati dello Stato verso i detenuti politici che come esercizio della giustizia. Dobbiamo augurarci che questa contraddizione, per essere portata all’attenzione che merita, non abbia necessità che un prigioniero politico muoia in carcere per lo sciopero della fame (come accaduto spesso in altri paesi come Irlanda e Turchia) per poter procedere finalmente all’abrogazione o alla revisione dell’art. 41 bis. Morire di carcere. Cosa racconta lo sciopero della fame di Alfredo Cospito di Giulia Galzigni dinamopress.it, 29 novembre 2022 Alfredo Cospito, anarchico, è in sciopero della fame da un mese. Vuole denunciare le condizioni della pena di chi è condannato al 41bis, come lui. Soprattutto se il verdetto è emesso per opinioni politiche e come strumento di repressione È passato più di un mese da quando Alfredo Cospito ha intrapreso uno sciopero della fame a oltranza per denunciare le disumane condizioni detentive a cui è sottoposto, ergastolo ostativo e regime speciale 41 bis. Alfredo è recluso dal 2012 per la sua attività politica di matrice anarchica, ovvero il coinvolgimento in azioni dimostrative e la diffusione di idee e contenuti sovversivi. Dall’inizio della sua protesta sono stati scritti vari resoconti dei reati che gli sono imputati e dei diversi processi in cui è coinvolto (come ad esempio il testo uscito su “Napoli Monitor”). La lotta estrema di Alfredo è occasione per un dibattito pubblico più ampio sul senso della pena, sulle attuali tendenze politiche in materia di giustizia e sullo stato delle carceri in Italia. Da qualche settimana prendono la parola in sostegno alla sua denuncia esponenti della giurisprudenza, dell’università, della cultura e della società civile, e si organizzano numerose e diffuse iniziative di solidarietà in Italia e all’estero. Proviamo a tracciare qui sotto gli elementi più significativi del dibattito, con alcuni rimandi a risorse esterne utili all’approfondimento dei diversi aspetti. Strage politica e ergastolo ostativo. Il 6 luglio 2022 la Cassazione ha riqualificato una delle accuse, che vede Alfredo Cospito co-imputato insieme ad Anna Beniamino nell’ambito del processo Scripta Manent, da strage contro la pubblica incolumità (strage comune) a strage contro la sicurezza dello stato (strage politica). La vicenda in questione riguarda l’esplosione di due ordigni a basso potenziale davanti a una scuola carabinieri, di notte e in un’area extraurbana, che non causò feriti né tanto meno decessi. Il reato di strage politica è il più grave del nostro ordinamento giuridico, nel quale è stato introdotto dal codice Rocco del 1930. Secondo l’Avvocato Gianluca Vitale la scelta di riqualificare l’accusa in tal senso solleva un problema giuridico e politico noto come diritto penale del nemico: “è il classico reato che disegna un diritto penale diverso per il nemico: io ti condanno a una pena così alta perché tu sei un nemico dello stato. […] Prevedere l’ergastolo al di là della concreta pericolosità dell’azione è fuori del perimetro costituzionale”. È utile inoltre ricordare che l’anarchismo non contempla né rivendica in alcun modo lo stragismo tra le sue pratiche. Risulta quindi paradossale e indicativo che si sia deciso di ricorrere a questa accusa per un reato come quello contestato ad Anna Beniamino e Alfredo Cospito, e che invece non sia stata utilizzata per le grandi stragi degli anni 80 e 90 come quelle di Piazza Fontana, della stazione di Bologna, di Capaci, di via D’Amelio, di via dei Georgofili, seppure abbiano causato molti morti e rappresentato effettivamente una minaccia per lo stato. La riqualificazione in strage politica implica la trasformazione della pena in ergastolo ostativo, il regime detentivo del “fine pena mai” che impedisce alla persona condannata di accedere a misure alternative e altri benefici come liberazione condizionale, lavoro all’esterno, permessi premio, semilibertà. Il “fine pena mai” confligge con la finalità rieducativa della pena, ed è stato contestato dalla Corte costituzionale che nel 2021 ne aveva stabilito l’incostituzionalità, e dalla Corte europea per i diritti umani che nel 2019 aveva invitato l’Italia a rivedere la legge, ritenendola in contraddizione con la Convenzione europea che proibisce “trattamenti inumani e degradanti”. Pochi giorni dopo l’inizio dello sciopero della fame di Alfredo, proprio l’ergastolo ostativo era al centro del primo consiglio dei ministri del nuovo governo Meloni, la cui decisione è stata in sostanza quella di confermarne l’esistenza e anzi di restringere ulteriormente le condizioni di accesso ai benefici penitenziari, con il beneplacito delle opposizioni. Il regime speciale 41 bis - Dal mese di aprile scorso Alfredo è stato trasferito nel carcere di Bancali (Sassari) in regime di 41 bis. Forma più estrema tra i regimi speciali di Alta Sorveglianza, il 41 bis è stato inizialmente introdotto per combattere le associazioni mafiose ed è volto a impedire la comunicazione tra il detenuto e l’associazione criminale all’esterno. Il 41 bis non è una condanna, ma una modalità di trattamento penitenziario, caratterizzata da restrizioni molto pesanti in cui tutto è sottratto tranne le funzioni biologiche primarie. Il regime prevede un’afflizione sensoriale, cognitiva e affettiva estrema: è vietato leggere, studiare, informarsi e comunicare con l’esterno tramite corrispondenza. Le ore d’aria sono ridotte a due in un cubo di pochi metri quadri con alte pareti che impediscono qualunque profondità visiva, e il cielo è coperto da una rete metallica. Un’ora di socialità al giorno insieme a tre altri detenuti sottoposti al medesimo regime da numerosi anni, indicati ovviamente dall’amministrazione penitenziaria. Come racconta l’Avvocata Caterina Calia, il 41 bis viene applicato per reati politici dal 2003. Un caso eclatante è quello che vede sottoposti a questo regime da 17 anni Nadia Lioce, Roberto Morandi e Marco Mezzasalma per il loro coinvolgimento nelle nuove Brigate Rosse. Questo caso è particolarmente significativo in quanto non sussiste il presupposto minimo che giustifica l’applicazione del 41 bis, ovvero l’esistenza di un’organizzazione di appartenenza all’esterno con cui si intende impedire la comunicazione, visto che da anni nessuna azione viene rivendicata con la sigla BR. Calia osserva come “già con questi i tre prigionieri in realtà la finalità è rompere qualsiasi vincolo di solidarietà, di classe, impedire il passare di idee, di un confronto di qualsiasi natura tra interno ed esterno. […] Siccome il conflitto sociale è ineliminabile, vengono mantenuti come ostaggi con la finalità di prevenzione che non è più sul singolo, ma è diretta a chi all’esterno porta la solidarietà, denuncia le condizioni di vita del 41bis. Questo è scritto nero su bianco sui decreti fatti dal ministero per questi tre prigionieri quindi già lì si capisce che la volontà è non far uscire fuori le idee. Con l’applicazione per la prima volta del 41 bis ad un anarchico si è sdoganata ulteriormente, c’è stato un passaggio che è ancora più esplicito: tu non devi più comunicare col mondo, non devi più sapere nulla, devi essere sepolto vivo”. Nel caso di Alfredo, il pretesto per la disposizione 41 bis è la sua appartenenza al sodalizio FAI, la cui esistenza in quanto gruppo terroristico però non è dimostrata giuridicamente, ma solo ipotizzata. È cosa nota tra l’altro che l’anarchismo non prevede l’esistenza di organizzazioni strutturate e gerarchiche a cui fare riferimento. Accanimento giudiziario e repressione - L’accanimento penale contro Alfredo Cospito non è un caso isolato. Negli ultimi anni c’è stata a una proliferazione di processi e di condanne contro imputate e imputati di area anarchica: nel luglio di quest’anno sono stati dati 28 anni a Juan Sorroche per un attentato senza feriti alla sede della Lega Nord; nel 2020 cinque ordinanze di custodia cautelare in regime di Alta Sorveglianza per terrorismo, nonostante reati minori quali manifestazioni non preavvisate e imbrattamenti; due processi a Perugia qualificati come istigazione a delinquere aggravata dalla finalità di terrorismo per diffusione di slogan violenti anarchici; e altre iniziative giudiziarie a Trento, Torino, Bologna e Firenze, con diffusa applicazione di misure cautelari in carcere. Da notare che molte di queste sentenze fanno riferimento al reato di propaganda sovversiva, fattispecie però abrogata nel 2006, sulla base dell’assunto che la diffusione di idee, anche di sovversione violenta, debba essere tollerata da uno stato che si dica democratico, pena la negazione del suo stesso carattere fondante.  Queste ricorrenze allarmanti hanno spinto decine di avvocate e avvocati a esporsi sottoscrivendo una lettera aperta. La denuncia degli avvocati rileva una torsione giuridica in atto, finalizzata allo spegnimento di qualcosa che sta ben oltre il ruolo della magistratura, segno di “un pericoloso slittamento verso funzioni meramente preventive e neutralizzatrici degli strumenti sanzionatori”. Emerge infatti un doppio binario nella valutazione delle condotte, non più legate ai fatti ma agli autori, in cui le garanzie dell’imputato subiscono un deterioramento in vista di un risultato da raggiungere. Lo scardinamento delle garanzie costituzionali e la sproporzione della pretesa punitiva sono emblematici di “una deriva giustizialista che rischia di contrapporre a un modello di legalità penale indirizzato ai cittadini, con le garanzie e i tre diritti tipici degli stati democratici, uno riservato ai soggetti ritenuti pericolosi, destinatari di provvedimenti e misure rigidissimi, nonché di circuiti di differenziazione penitenziaria”. L’utilizzo di misure repressive come strumento per contrastare fenomeni sociali è una pratica in uso allo stato fin dalla stagione del terrorismo degli anni ‘80. La risposta a un fenomeno sociale, che dovrebbe situarsi su un piano politico, affrontando le condizioni che tale fenomeno fa emergere, viene invece demandata alla magistratura. Lo strumento giuridico viene quindi usato in maniera impropria, soprattutto nei confronti delle categorie rispetto alle quali si è sviluppata una politica di emergenza: il terrorismo, la mafia, le tossicodipendenze, i migranti. Il carcere fa parte di un complesso sistema repressivo e punitivo che negli ultimi anni viene rinforzato senza sosta dai governi di ogni colore, per mezzo di decreti e ordinanze che producono morti in mare, chiusura dei confini, criminalizzazione della socialità, limitazioni a diritti fondamentali come la libertà di circolazione e di espressione. Tanto più è forte questa tendenza giustizialista, tanto più la controparte dei movimenti conflittuali sociali dal basso si indebolisce, e questi rapporti di forza entrano nelle aule di giustizia alterandone i processi. Strage di Stato - Nelle carceri italiane si sta consumando una vera e propria strage. A novembre 2022 si contano 79 suicidi dall’inizio dell’anno, il numero più alto da quando si registra questo dato. Gli ultimi tre casi proprio negli ultimi giorni: ad Ariano Irpino un ragazzo quarantenne arrivato da una settimana soltanto, tossicodipendente; a Firenze un detenuto marocchino, anche lui con problemi di dipendenze e con un noto disagio psicologico; a Foggia un detenuto nigeriano.  L’osservatorio Antigone ha pubblicato lo scorso 2 settembre il rapporto “Suicidi. Persone, vite, storie. Non solo numeri” aggiornato al 2022, che rileva che il tasso di suicidi più elevato è tra persone giovani (tra i 20 e i 39 anni), e mette in luce la presenza massiccia di persone carcerate con disagi psichici e problemi di dipendenza da farmaci o da sostanze. I dati raccontano che il carcere è un luogo che crea isolamento e disperazione, e che la finalità di accompagnare il condannato nel reinserimento sociale, prevista dall’articolo 27 della Costituzione, è completamente mancata. Il record macabro dei suicidi di quest’anno si aggiunge al triste elenco di tragedie, abusi e violenze in ambito penitenziario, tra i quali ricordiamo i morti per le rivolte nel marzo 2020, a inizio pandemia, e le torture sui detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. È importante segnalare come proprio dall’area anarchica arriva da anni una delle rarissime voci di denuncia sulla questione carceraria e sulle lotte condotte all’interno dei CPR - Centri di Permanenza per Rimpatri, vere e proprie galere per migranti. Movimento di opinione e iniziative di solidarietà - La storia di Alfredo e più largamente ergastolo ostativo, 41 bis e condizioni di detenzione sono oggetto di una crescente attenzione da parte del mondo accademico e culturale, di cui citiamo alcuni esempi che ci sembrano rilevanti, senza alcuna pretesa di esaustività. “Il Dubbio”, giornale degli avvocati, ha condiviso le riflessioni dei professori universitari Spangher e Fiandaca, che denunciano lo stravolgimento dello strumento penale dall’epoca dello stragismo in avanti. Massimo Cacciari ha scritto un articolo su “La Stampa” in cui sottolinea la sproporzione tra reato commesso e pena inflitta. “Il post” invece si concentra sullo sciopero della fame come unica forma di protesta rimasta alle persone prigioniere e ne traccia i precedenti. Su “Ristretti Orizzonti” inoltre si più consultare una rassegna stampa quotidiana sul tema carcerario. L’Avvocato Flavio Rossi Albertini, che segue personalmente il caso Cospito insieme a Maria Grazia Pintus, ha rilasciato nelle ultime settimane diverse interviste, tra le quali segnaliamo questa perché più recente su Radio Città Fujiko. Nella puntata del 20 novembre di Zazà su Radio3 prende la parola il giornalista e docente universitario Luigi Manconi, che ha anche curato un articolo uscito su “Repubblica”. Moltissime anche le iniziative di solidarietà organizzate nel corso degli ultimi mesi. Qui una raccolta in costante aggiornamento delle azioni e dei presidi in Italia e all’estero, tra cui citiamo l’occupazione della sede di Amnesty International a Roma, che mette in risalto il parallelo tra l’indignazione verso il sistema carcerario degli altri paesi e il silenzio su quello che succede nel nostro. Il 1° dicembre è fissato a Roma il riesame della disposizione di 41 bis nei confronti di Alfredo Cospito. Il 5 dicembre a Torino ci sarà l’udienza in appello per la conferma della pena. Tagli su carcere e intercettazioni: polemiche sulla Manovra di Valentina Stella Il Dubbio, 29 novembre 2022 Meno soldi per intercettazioni e polizia penitenziaria: agenti e pm furiosi, accuse da Pd, M5S e Italia viva. Nelle 310 pagine della bozza di legge di Bilancio ci sono capitoli dedicati alla giustizia. L’art. 150 prevede che il “Fondo per il finanziamento di interventi in materia di giustizia riparativa di cui all’articolo 67, comma 1, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (il testo attuativo della riforma penale di Cartabia, ndr) è incrementato di 5 milioni di euro annui a decorrere dal 2023”. Su questo ci spiega il consigliere dell’ex guardasigilli Marta Cartabia, Gian Luigi Gatta: “Si tratta di un atto dovuto, che fa seguito a un impegno preso dal governo con l’Anci. Nel parere favorevole reso lo scorso 8 settembre dalla Conferenza Stato-Regioni sullo schema di decreto legislativo in tema di giustizia riparativa, poi sfociato nel d.lgs. n. 150/2022, si dà conto di come l’Anci abbia sottolineato l’esigenza di aumentare le risorse economiche, 4 milioni di euro, messe a disposizione dei Comuni per la gestione dei centri di giustizia riparativa, e di come il parare favorevole sia stato reso anche a fronte dell’impegno di integrare quelle risorse”. Ma è l’art. 154 della Manovra, relativo a “‘Misure di razionalizzazione della spesa e di risparmio connesse all’andamento effettivo della spesa”, quello che sta suscitando le più forti polemiche. “A decorrere dall’anno 2023 - si legge - il Ministero della giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, assicura, mediante la riorganizzazione e l’efficientamento dei servizi degli istituti penitenziari presenti su tutto il territorio nazionale, in particolare con la ripianificazione dei posti di servizio e la razionalizzazione del personale, il conseguimento di risparmi di spesa non inferiori a 9.577.000 euro per l’anno 2023, 15.400.237 euro per l’anno 2024 e 10.968.518 euro annui a decorrere dall’anno 2025”. Inoltre, presso il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, si prevede “la razionalizzazione della gestione del servizio mensa per il personale”. Ebbene, i sindacati di Polizia penitenziaria sono sul piede di guerra. “Hanno disatteso tutti gli impegni presi in campagna elettorale verso le forze di polizia. Siamo dinanzi a una profonda scorrettezza istituzionale nei nostri confronti”, ci dice Donato Capece, segretario generale del Sappe. E si annuncia la discesa in piazza: “Nonostante il nostro acclarato senso di responsabilità”, si legge in una nota dei segretari generali dei sindacati Siulp, Sap e Siap (per Polizia di Stato), Sappe (per Polizia Penitenziaria) e Cocer-Carabinieri, “dovremo aggiungere, alla delusione, la convinzione che l’unica strada rimasta per tutelare la sicurezza dei cittadini e i diritti e la dignità di chi la garantisce anche in tema di esecuzione e certezza della pena, sarà la protesta”. Anche la Uilpa, con il segretario Gennarino De Fazio, è molto critica nei confronti del governo Meloni: “Al peggio non c’è mai fine”. Secondo il sindacalista, “a fronte di 18mila unità mancanti al corpo di Polizia penitenziaria, 85 suicidi (80 fra i detenuti e 5 fra gli operatori) dall’inizio dell’anno, strutture degradanti, penuria e inefficacia di automezzi, equipaggiamenti e strumentazioni, siamo letteralmente esterrefatti e increduli. Se poi mettiamo tutto ciò in relazione a quanto affermato dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel discorso sulla fiducia alla Camera e con le ripetute dichiarazioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio e dei sottosegretari, che promettono il miglioramento delle condizioni di lavoro, ci sembra di trovarci su scherzi a parte”. Pure dall’opposizione arrivano critiche. Il senatore Ivan Scalfarotto (Az-Iv) da twitter: “Assurdo che si legga di tagli al personale penitenziario contenuti nell’ultima bozza della Manovra: nell’anno degli 80 suicidi nelle carceri non ci si aspetterebbero tagli, ma investimenti su strutture e personale. Nordio si opponga a questo scandalo”. Dal Partito democratico raccogliamo la dichiarazione del senatore Franco Mirabelli: “Leggo che un taglio significativo dei fondi per la Polizia penitenziaria viene catalogato come spending review. In realtà siamo in presenza non di una razionalizzazione dei costi, bensì della negazione di un’esigenza drammatica che c’è nelle carceri italiane, dove servirebbe investire di più da un lato per garantire il lavoro della Polizia penitenziaria e dall’altro per gestire le misure alternative al carcere, che sono uno dei fondamenti della riforma Cartabia. Su quest’ultimo punto purtroppo non vedo scritto nulla nella bozza della legge di Bilancio. Insomma è una manovra che mi pare metta davvero in discussione la tenuta del sistema penitenziario e dall’altra parte renda più complicato riuscire a governare le riforme che abbiamo appena fatto con l’ex guardasigilli”. Dal M5S interviene la deputata Valentina D’Orso, capogruppo in commissione Giustizia: “Se veramente il governo intende tagliare oltre 35 milioni di euro al Dap nei prossimi tre anni, la scelta è profondamente sbagliata e irresponsabile. Che questo taglio giunga da chi come FdI per anni si è riempito la bocca di retorica in difesa del personale che lavora nelle nostre carceri, è semplicemente grottesco”. Nella bozza si prevede anche che “le spese di giustizia per le intercettazioni e comunicazioni sono ridotte di 1.575.136 euro annui a decorrere dal 2023”. Secondo il pm romano Eugenio Albamonte, segretario di Area Dg, “sembra che il tema sia trattato come una bandierina che si vuole piantare per dare continuità alle promesse elettorali, senza una attenzione specifica alla questione. Leggo dai dati ministeriali che il bilancio speso per le intercettazioni è già pari al 2% dell’intero stanziamento sulla giustizia. Ora si prevedono altri tagli, senza alcuna valutazione reale in termini di impatto economico”. Per il pm “il tema delle intercettazioni è nevralgico soprattutto per lo svolgimento di un certo tipo di indagini. Io mi occupo anche di reati commessi in rete: le intercettazioni telematiche costituiscono gli unici strumenti che abbiamo a disposizione per contrastare fenomeni come cyberterrorismo e attacchi informatici”. Il commento finale è amaro: “Ci eravamo abituati alla mancata attenzione verso le disfunzioni della giustizia nei nostri uffici, da un certo momento dell’anno in poi non c’è più carta igienica, né carta per fare le fotocopie, né toner per la stampante, ma non vorremmo abituarci a veder esaurite le spese per le attività investigative”. Carcere, tagli su mense e personale penitenziario. Salvi i percorsi riparativi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 novembre 2022 Per gli agenti 35 milioni in meno, altri 2,5 risparmiati sulla “refezione” e sul “minorile”. I sindacati: “Pronti a protestare”. Sul fronte razionalizzazione della spesa pubblica, in merito al carcere, si risparmia sul personale penitenziario e sul servizio mensa. Nel contempo si apre un piccolo spiraglio: per attuare la giustizia riparativa, contemplata dalla riforma Cartabia, si prevede un incremento di 5 milioni di euro annui a decorrere dal 2023. Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria (di cui riportiamo dichiarazioni anche in altro servizio del giornale, ndr), sul risparmio dei fondi per il personale ricorda tra l’altro che “già mercoledì scorso avevamo lanciato l’allarme a causa dell’assenza di qualsiasi misura di supporto per le carceri”. Stupore e sconcerto che arriva anche dalle altre sigle sindacali della Polizia penitenziaria. Nella bozza, in effetti, si legge che, a decorrere dall’anno 2023, il ministero della Giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, assicura, mediante la riorganizzazione e l’efficientamento dei servizi degli istituti penitenziari presenti su tutto il territorio nazionale, in particolare con la ripianificazione dei posti di servizio e la razionalizzazione del personale, “il conseguimento di risparmi di spesa non inferiori a 9.577.000 euro per l’anno 2023, 15.400.237 euro per l’anno 2024 e 10.968.518 euro annui a decorrere dall’anno 2025”. Tagli a mense e personale penitenziario, sindacati sul piede di guerra - Non solo. A decorrere dall’anno 2023, il ministero della Giustizia, Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, assicura, l’efficientamento dei processi di lavoro nell’ambito delle attività per l’attuazione dei provvedimenti penali emessi dall’Autorità giudiziaria e la “razionalizzazione della gestione del servizio mensa per il personale, il conseguimento di risparmi di spesa non inferiori a 331.583 euro per l’anno 2023, 588.987 euro per l’anno 2024 e 688.987 euro annui a decorrere dall’anno 2025”. E dalla denuncia del segretario generale della Uilpa emerge che con l’ultima bozza della Manovra, sotto forma di razionalizzazioni, si prevedono riduzioni al personale carcerario per quasi 11 milioni di euro (15.400.237 nel 2024), nonché tagli alle mense degli operatori del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità per circa 700mila euro. Manovra, 5 milioni annui per la giustizia riparativa - Ma com’è detto, nel contempo, all’articolo 150 della bozza, si prevede il Fondo per il finanziamento di interventi in materia di giustizia riparativa di cui all’articolo 67, comma 1, del decreto legislativo 10 ottobre 2022. La norma dispone, appunto, un importo pari a 5 milioni annui a decorrere dal prossimo anno. La giustizia riparativa è la parte più innovativa della riforma Cartabia, considerato che definisce una cornice normativa per esperienze in realtà già praticate in tutto il mondo, anche in Italia (fino a ora di nicchia), per ogni tipo di reato. L’incremento è vitale per garantirne il funzionamento. Non a caso l’articolo 67 della riforma Cartabia dispone al comma 1 che nello stato di previsione del ministero della Giustizia è istituito un Fondo per il finanziamento di interventi in materia di giustizia riparativa, con una dotazione di euro 4.438.524 annui. I soldi servono. Ricordiamo che l’articolo 53 stabilisce che i programmi di giustizia riparativa si devono conformare ai principi europei e internazionali in materia e che vengano svolti da almeno due mediatori. Essi comprendono la mediazione tra la persona indicata come autore dell’offesa e la vittima del reato, anche estesa ai gruppi parentali o con la vittima di un reato diverso da quello per cui si procede; il dialogo riparativo; ogni altro programma dialogico guidato da mediatori, svolto nell’interesse della vittima del reato e della persona indicata come autore dell’offesa. Il comma 2 dell’articolo 63 prevede che per ciascun distretto di Corte d’Appello è istituita la Conferenza locale per la giustizia riparativa cui partecipano. Per quanto riguarda l’esecuzione penale esterna, invece, per ora non c’è nessuna voce di spesa nella bozza della legge di Bilancio. Risparmi con i tagli alla Polizia penitenziaria di Eleonora Martini Il Manifesto, 29 novembre 2022 Carceri, la scure del Bilancio. La manovra abbatte la spesa su agenti, mense e intercettazioni. Sindacati increduli. Il paradosso di un governo di estrema destra che taglia sul personale di Polizia penitenziaria è contenuto in poche righe, nelle Disposizioni finanziarie e finali (titolo XVI), delle 310 pagine in cui si sviluppa la legge di bilancio. L’ultima bozza circolata ieri sera prevede che dal 2023 il ministero della Giustizia debba assicurare “mediante la riorganizzazione e l’efficientamento dei servizi degli istituti penitenziari”, in particolare “con la ripianificazione dei posti di servizio e la razionalizzazione del personale”, il conseguimento di “risparmi di spesa non inferiori a 9.577.000 euro per l’anno 2023, 15.400.237 euro per l’anno 2024 e 10.968.518 euro annui a decorrere dall’anno 2025”. Il successivo paragrafo è invece dedicato a tagli relativi al servizio mensa del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, con un risparmio di spesa non inferiore a 331.583 euro per l’anno 2023, 588.987 euro per l’anno 2024 e 688.987 euro annui a decorrere dall’anno 2025”. Altri tagli sono previsti anche sulle intercettazioni e sulle comunicazioni, ridotte di 1,57 milioni di euro all’anno. I primi a darne notizia sono stati il sindacato di polizia penitenziaria Uilpa e il senatore Ivan Scalfarotto, di Azione. “A fronte di 18 mila unità mancanti al Corpo di polizia penitenziaria, 85 suicidi (80 fra i detenuti e 5 fra gli operatori) dall’inizio dell’anno, strutture degradanti, penuria e inefficacia di automezzi, equipaggiamenti e strumentazioni, siamo letteralmente esterrefatti e increduli”, commenta Gennarino De Fazio, segretario generale Uilpa, che riguardo la scelta politica sintetizza così: “Che sia una manovra di destra lo si vede dal fatto che incide negativamente sui lavoratori e taglia i servizi. Ma in generale mi sembra che per qualunque tipo di governo, quando c’è da fare economia, carceri e lavoratori vengono trattati come bancomat”. Ma quello che ferisce di più i sindacati penitenziari è il “tradimento” della premier Giorgia Meloni, del Guardasigilli Carlo Nordio e dei Sottosegretari che più volte, a cominciare dal “discorso sulla fiducia alla Camera”, hanno promesso “il miglioramento delle condizioni di lavoro” del personale che occupa “posti di servizio” (come indicato nella manovra): “Dunque non operatori, educatori o psicologi, ma proprio gli agenti”, fa notare De Fazio che conclude: “Ci sembra di trovarci su scherzi a parte”. Una delusione che ferisce anche l’Associazione sindacale professionisti militari dell’Esercito: “Le promesse elettorali e i lunghi applausi di ringraziamento, nelle aule del Parlamento, per il continuo impegno dei militari italiani, non trovano riscontro nel testo di Bilancio 2023”. Ivan Scalfarotto, che ieri ha visitato l’istituto San Vittore, si dice “sdegnato” dal taglio al personale dell’amministrazione penitenziaria che fa “un grandissimo lavoro e si sobbarca la gestione di una realtà complicatissima” come quella del carcere milanese dove è rinchiusa “una numerosa popolazione carceraria che spesso è l’effetto dei fenomeni di marginalità della nostra società più ancora che della delinquenza e del crimine”. Anche la deputata di Avs Ilaria Cucchi Ilaria Cucchi censura il governo Meloni che taglia “invece di investire sull’Ordinamento Penitenziario per migliorare efficienza a vantaggio dell’intera collettività. Tutto questo è incredibile. Evidentemente al peggio non c’è mai fine”. Tagli sulle carceri: è rottura tra la Polizia penitenziaria e la destra di Angela Stella Il Riformista, 29 novembre 2022 Nella bozza della manovra la sforbiciata alla spesa per il personale negli istituti di pena, i sindacati degli agenti annunciano battaglia: “Increduli”. Critiche dall’opposizione. Silenzio di Lega e FdI. Rotto il patto di fiducia tra le forze di polizia penitenziaria e i due azionisti del Governo, Lega e Fratelli d’Italia, che da sempre si sono messi al fianco degli agenti per difendere le loro prerogative. Lo scontro è la bozza di legge di bilancio circolata in queste ore. In particolare vi si legge: “A decorrere dall’anno 2023, il Ministero della giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, assicura, mediante la riorganizzazione e l’efficientamento dei servizi degli istituti penitenziari presenti su tutto il territorio nazionale, in particolare con la ripianificazione dei posti di servizio e la razionalizzazione del personale, il conseguimento di risparmi di spesa non inferiori a 9.577.000 euro per l’anno 2023, 15.400.237 euro per l’anno 2024 e 10.968.518 euro annui a decorrere dall’anno 2025”. A ciò si aggiunge presso il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità “la razionalizzazione della gestione del servizio mensa per il personale”. Non è chiaro se i tagli riguardino solo la polizia penitenziaria o anche educatori e psicologi. Né come verranno attuati. Comunque le sigle si sono fatte subito sentire e hanno annunciato la protesta di piazza. “Nonostante il nostro acclarato senso di responsabilità - si legge in una nota dei Segretari Generali dei sindacati Siulp, Sap e Siap per (Polizia di Stato), Sappe per (Polizia Penitenziaria) e Cocer-Carabinieri - dovremo aggiungere alla delusione la convinzione che l’unica strada rimasta per tutelare la sicurezza dei cittadini e i diritti e la dignità di chi la garantisce anche in tema di esecuzione e certezza della pena, sarà la protesta”. Anche la Uilpa con il Segretario Gennarino De Fazio è molto critica nei confronti del Governo Meloni: “al peggio non c’è mai fine”. Per il sindacalista “a fronte di 18mila unità mancanti al Corpo di polizia penitenziaria, 85 suicidi (80 fra i detenuti e 5 fra gli operatori) dall’inizio dell’anno, strutture degradanti, penuria e inefficacia di automezzi, equipaggiamenti e strumentazioni, siamo letteralmente esterrefatti e increduli. Se poi mettiamo tutto ciò in relazione a quanto affermato dal Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nel suo discorso sulla fiducia alla Camera dei Deputati e con le ripetute dichiarazioni del Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e dei Sottosegretari, che promettono il miglioramento delle condizioni di lavoro, ci sembra di trovarci su scherzi a parte”. Lo sconcerto è grande. Abbiamo cercato di capirci di più sentendo i colonnelli di Carroccio e Fdi in tema di giustizia ma tacciono. Sembrerebbe comunque che l’indirizzo dei tagli non sia partito da via Arenula. Ma allora da chi? Intanto il rischio è quello di aumentare le tensioni in carcere. L’allarme lo lancia pure il senatore dem Franco Mirabelli: “È una manovra che mi pare metta davvero in discussione la tenuta del sistema penitenziario e dall’altra parte renda più complicato riuscire a governare le riforme che abbiamo appena fatto con l’ex Guardasigilli, a partire dalle misure alternative al carcere”. Critiche arrivano anche dal senatore Ivan Scalfarotto (Az-Iv) che ha scritto su Twitter: “Assurdo che si legga di tagli al personale penitenziario contenuti nell’ultima bozza della manovra: nell’anno dei 79 suicidi nelle carceri non ci si aspetterebbero tagli, ma investimenti su strutture e personale. Nordio si opponga a questo scandalo”. Anche per Luana Zanella, capogruppo di Alleanza Verdi-Sinistra alla Camera, “sono insensati i tagli alle spese di giustizia. La popolazione carceraria ne risentirà gravemente: non è una Manovra economica ma una mannaia a spese dei più deboli”. Intanto ieri sei agenti della polizia penitenziaria in servizio a Reggio Calabria sono stati raggiunti da un’ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari emessa dal gip su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri e del pm Sara Perazzan. Tortura e lesioni personali aggravate ai danni di un detenuto dell’istituto penitenziario “Panzera” sono le accuse contestate ai sei agenti. Tra questi, ha riferito l’Ansa, c’è anche il comandante della polizia penitenziaria in servizio al carcere di Reggio Calabria. Per altri due indagati, il gip ha disposto la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio. “A questo punto - ha detto sempre De Fazio - ammonta a qualche centinaio il numero degli agenti sospesi dal servizio con infamanti accuse, con ulteriori problemi per l’operatività”. E tutto questo, appunto “mentre il Governo con la manovra di bilancio pensa a ulteriori tagli al personale. Per noi si sta oltrepassando l’assurdo. Il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, apra subito un confronto permanente con le Organizzazioni Sindacali rappresentative degli operatori del Corpo di polizia penitenziaria”, conclude il sindacalista. Forza Italia depotenzia la norma anti-rave voluta dal governo di Giulia Merlo Il Domani, 29 novembre 2022 Gli emendamenti presentati dagli azzurri circoscrivono la norma, inserendo la parola “musicali” per specificare il tipo di raduni e anche “con spaccio di sostanze stupefacenti”. Inoltre abbassano la pena “da 2 a 4 anni” per gli organizzatori, eliminando la possibilità di intercettare. Come anticipato subito dopo la sua controversa approvazione in consiglio dei ministri, Forza Italia ha depositato i suoi emendamenti contro il cosiddetto reato “anti-rave party”. Il partito di Silvio Berlusconi, che aveva criticato la norma perché troppo generica e con una pena esagerata, ha confermato in commissione Giustizia tutte le sue perplessità, anche a costo di entrare in conflitto con la sua stessa maggioranza. “Noi riteniamo che vada certamente punito il rave party ma quel tipo di situazione illegale e non manifestazioni di altro tipo. Per questo abbiamo proposto una serie di emendamenti che circoscrivono la fattispecie, oltre a ridurne la pena”, ha spiegato il capogruppo in commissione, Pierantonio Zanettin. La scelta è stata oculata, in modo da evitare rotture formali con il governo pur attestando in modo chiaro la posizione degli azzurri. Gli emendamenti prevedono infatti l’inserimento del termine “musicali” accanto a “raduni”; la locuzione “con spaccio di sostanze stupefacenti”; si aumenta il numero di persone da 50 a “superiore a 100”; si distingue la pena per chi partecipa “da uno a tre anni” e per chi organizza “da due a quattro anni”, rispetto alla pena minima di 3 e massima di 6 prevista nel testo votato in cdm. Infine, riguardo poi alla multa da “1000 a 10mila” euro per gli organizzatori, si prevede che “i proventi della sanzione sono attribuiti, in misura pari al 50 per cento ciascuno allo Stato e al Comune sul cui territorio si è accertata la violazione, anche al fine di far fronte alle spese di ripristino dei luoghi”. Per evitare il muro contro muro con gli alleati in commissione, però, ognuna di queste proposte di modifica è stata proposta in emendamenti separati: FI vorrebbe che il governo li recepisse tutti, ma è aperta al dialogo. Tuttavia, l’intenzione degli azzurri è chiara: depotenziare e circoscrivere un reato che era subito suonato come una inaccettabile limitazione del diritto di riunione, che si prestava a inglobare anche eventi che nulla hanno a che fare con le feste illegali. Con gli emendamenti di FI, infatti, si elimina la possibilità di intercettare gli organizzatori e i frequentatori dei rave e si aggiunge nella fattispecie un reato a sé stante come lo spaccio di droga. Se questa specificazione venisse accolta in commissione, infatti, il reato di rave party dovrebbe avvenire necessariamente in concorso con quello più grave di spaccio. Spazzacorrotti e ricorsi - Non solo, però. In sede di conversione del decreto legge, infatti, Forza Italia tenterà di includere anche alcune proposte di modifica su un raggio molto più ampio, che fanno parte della proposta politica del partito e molto meno di quella della coalizione. In particolare, Zanettin ha firmato un emendamento che introduce il divieto di ricorso del pubblico ministero in caso di sentenza di assoluzione.  Inoltre, viene assestato un colpo anche alla Spazzacorrotti, legge simbolo del Movimento 5 Stelle. Un emendamento alle norme che riguardano l’ergastolo ostativo, infatti, prevede di escludere i reati contro la pubblica amministrazione dal catalogo dei delitti “ostativi”, ovvero quelli che impediscono l’accesso ai benefici penitenziari a meno che il condannato non collabori con la giustizia. I Cinque stelle, nel 2019, avevano voluto l’inserimento anche di questi reati accanto a quelli di mafia e terrorismo.  I 14 emendamenti degli azzurri, tuttavia, indicano un indirizzo politico: quello di far pesare in parlamento le posizioni che in consiglio dei ministri sono state superate. Sarà così anche per la finanziaria, accolta freddamente, e segna la via che FI ha intenzione di seguire nella gestione dei rapporti con gli alleati, che rischia di diventare simile a una latente opposizione interna. Spazzacorrotti, ergastolo e norma anti-pm: Forza Italia all’assalto di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2022 Meno carcere e niente appello dopo l’assoluzione. Niente carcere, di fatto, per i corrotti e niente impugnazioni in appello per i pm. Forza Italia torna a rumoreggiare con i suoi cavalli di battaglia. In commissione Giustizia del Senato ha depositato, a firma del capogruppo Pierantonio Zanettin, 14 emendamenti: tra questi, uno punta a escludere i reati corruttivi dall’elenco degli ostativi ai benefici se un detenuto non collabora come, invece, prevede la legge spazzacorrotti dell’ex ministro M5S, Alfonso Bonafede. Un altro emendamento impedisce ai pm di ricorrere in appello in caso di assoluzione di un imputato. Si tratta di proposte care a Silvio Berlusconi, che vogliono modificare il primo decreto legge del governo, che contiene anche la riforma dell’ergastolo ostativo. Riforma, come noto, imposta dalla Corte costituzionale, che ha trasformato l’ostativo da assoluto a relativo. Solo che, per i permessi premio, ha stabilito da sola i paletti per accedervi, mentre per la libertà condizionata ha chiesto nel 2021 al Parlamento di varare una riforma. L’ha approvata, però, solo la Camera; il Senato, con la scusa dell’elezioni anticipate, ha dato buca. Così, il nuovo governo il 1º novembre è intervenuto per decreto, in modo da evitare che l’8 la Consulta potesse decidere in autonomia per detenuti, pure stragisti non collaboratori, le regole per ottenere la condizionale. Il decreto è ora all’esame dei senatori della commissione Giustizia e FI ha colto la palla al balzo: ha proposto che venga modificata la Spazzacorrotti, la quale nel 2019 ha inserito i reati contro la Pubblica amministrazione nell’elenco degli ostativi insieme a quelli di mafia e terrorismo. Per Zanettin è “una enormità” e quei reati dei colletti bianchi vanno eliminati dalla lista. Ma FI nel marzo scorso, con il governo Draghi, aveva votato la riforma dell’ostativo a impronta del M5S. Oggi, però, gli azzurri ricordano la loro contrarietà alla Spazzacorrotti e la proposta di modifica piace pure a Calenda e Renzi. Ora si aspetta la posizione del governo: la manica larga per corrotti non verrebbe capita dall’elettorato di FdI e la premier potrebbe farsi scudo dell’Europa: nel 2020 la Commissione europea ha lodato la legge Bonafede per “la crescente contiguità tra corruzione e criminalità organizzata”. Ma Meloni non può spaccare la sua già agitata maggioranza e allora pare che la soluzione “diplomatica” allo studio è che il governo presenti in commissione un nuovo testo sull’ostativo che assorba gli emendamenti di tutti i partiti in modo da evitare il voto su quelli di FI. Il M5S, intanto, annuncia una opposizione durissima: “Da FI arriva puntuale il solito attacco alla legislazione anticorruzione, e la proposta per la fuga dai processi”, riferendosi anche all’emendamento che prova a far rivivere una legge bocciata oltre 15 anni fa dalla Corte costituzionale, la legge Pecorella che stabiliva, appunto, l’inappellabilità del pm a un’assoluzione. Per quanto riguarda le norme sui rave, la presidente Giulia Bongiorno vorrebbe, come tutte le altre forze, tipizzare la norma, parlando di raduni o manifestazioni musicali, collegati a spaccio e pericolo per l’ordine pubblico. A differenza di FI, vuole, però, che la pena per gli organizzatori resti da 3 a 6 anni, dunque al via le intercettazioni. Zanettin chiede una pena massima di 4 anni. Forza Italia prova a cancellare la legge “Spazza-corrotti” e i grillini vanno su tutte le furie di Simona Musco Il Dubbio, 29 novembre 2022 Depositati gli emendamenti al dl Meloni. Zanettin: reati contro la Pa via dalla lista di quelli ostativi. E spunta l’inappellabilità delle assoluzioni in appello. Il senatore Pierantonio Zanettin lo aveva detto in Commissione: “La linea di Forza Italia è più garantista” di quella degli alleati di governo. E la conferma arriva dagli emendamenti depositati da FI al dl Meloni che hanno più di un obiettivo: da un lato evitare che il decreto rave si trasformi in una norma liberticida, dall’altro archiviare definitivamente l’epoca Bonafede, con la modifica della Spazzacorrotti. Ma la “visione” di Zanettin va oltre, approfittando della discussione in Commissione Giustizia per rilanciare un grande classico di Forza Italia, ovvero l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Tra le proposte emendative relativamente alla riforma Cartabia, infatti, spunta il divieto di appellare le sentenze di assoluzione con formula piena, per le quali il pm potrebbe fare ricorso in Cassazione, ma solo in casi limitatissimi, cioè “per manifesto travisamento od omesso esame di fatti o documenti decisivi per il giudizio che hanno formato oggetto di un punto controverso sul quale la sentenza si è pronunciata”. Sono 90, in totale, le proposte di modifica presentate dai partiti e che la Commissione Giustizia guidata dalla leghista Giulia Bongiorno dovrà ora analizzare. E i 14 di Forza Italia partono da una sostanziale modifica: eliminare i reati contro la pubblica amministrazione dal catalogo dei reati ostativi. “L’eccessivo ampliamento del novero delle fattispecie - aveva infatti spiegato Zanettin in plenaria - ha comportato la perdita del concetto del doppio binario in relazione alla possibilità di concedere o meno benefici penitenziari”. Restringere il campo, dunque, è il primo passo, così come propongono anche Sinistra Italiana e Terzo Polo. Ma significative sono anche le proposte di modifica al nuovo articolo 434 bis. Zanettin propone di renderne quanto più possibile specifico il perimetro: a dover essere punita è l’invasione di terreni ed edifici per raduni musicali - escludendo, dunque, ogni altra forma di riunione - da parte di più di 100 persone (e non più 50) e dove si realizzi lo spaccio di sostanze stupefacenti, raduni dai quali derivino pericoli non per l’ordine pubblico, ma per motivi di sicurezza o di incolumità pubblica. E la proposta è anche quella di ridurre la pena attualmente prevista con quella da due a quattro anni per gli organizzatori (forbice che la Lega invece vuole introdurre per i partecipanti, per i quali FI vuole invece una pena non superiore ai tre anni), così da rendere impossibili le intercettazioni. Inoltre, Zanettin mira ad escludere tale reato dal codice antimafia. La Lega punta a qualche piccolo correttivo sull’ostativo: il pm potrà partecipare anche da remoto alle udienze del Tribunale di sorveglianza in cui si decide sulla concessione o meno dei benefici, mentre altri due emendamenti intervengono sulla composizione collegiale o meno del Tribunale di sorveglianza, che potrebbe essere monocratico in caso di reiterazione, ma nel primo intervento di concessione dei permessi premio o del lavoro esterno dovrebbe essere collegiale. Ma tra i garantisti c’è chi vuole di più. Azione e Italia Viva, infatti, non si accontentano di circoscrivere meglio il reato di rave, ma puntano a ridurlo ad illecito amministrativo, definendo un “obbrobrio” il dl 162. In tal modo, secondo il vicesegretario di Azione Enrico Costa, si offrirebbe “alle forze di polizia la facoltà di ordinare lo sgombero e la confisca del materiale utilizzato per commetterla”, senza la necessità di inventare un nuovo reato davanti ad ogni problema. “È ora di finirla con la consuetudine che, per dare un segnale di “rigore” e di “pugno duro”“ sia necessaria una nuova norma, ha dichiarato, “senza minimamente preoccuparsi degli effetti che ciò può produrre sull’intero ordinamento”. Per quanto riguarda l’ergastolo ostativo, gli emendamenti del Terzo Polo perseguono “il principio costituzionale della rieducazione della pena”, ha aggiunto il senatore di IV Ivan Scalfarotto, mentre per quanto riguarda la riforma Cartabia “abbiamo presentato un emendamento volto a ripristinarne l’entrata in vigore, insieme a un altro che si propone di confermare l’immediata applicabilità delle sue norme, anche sui processi penali in corso, ferma l’applicazione del principio del favor rei”. Categorica sul no al rinvio della riforma Cartabia è anche Sinistra Italiana, che chiede anche la soppressione del reato di rave. E il gruppo della vicepresidente della Commissione Ilaria Cucchi mira anche a rendere meno estesa la disciplina sull’ostativo, con la possibilità di riconoscere i benefici già dopo 26 anni di carcere e anche in caso di limitata partecipazione al reato o nel caso in cui la collaborazione sia impossibile o oggettivamente irrilevante, alleggerendo l’onere probatorio a carico del detenuto. A dire no alle norme anti rave è anche il Pd, convinto che “non c’è nessuna toppa che la possa migliorare”, ha spiegato la vicepresidente del Senato Anna Rossomando. Ma i dem “approfittano” del rinvio della riforma Cartabia per introdurre modifiche in materia di spese di giustizia, prevedendo, per le vittime di delitti commessi in ambito familiare in danno dei minori, l’accesso al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito e l’esclusione dell’assegno di mantenimento dal computo del reddito complessivo familiare ai fini dell’ammissione al gratuito patrocinio: “La priorità - ha aggiunto Rossomando - sono i tempi della giustizia, quindi ci opporremo a qualsiasi tentativo di affossamento”. Sull’ostativo, la proposta dei dem è quella di concedere i benefici nei casi in cui sia esclusa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata o nei casi in cui la collaborazione non sia comunque utile o rilevante. Più dura, sul punto, la linea del M5S, che punta anche il dito contro Forza Italia. “L’obiettivo di FI dopo 30 anni è ancora sempre lo stesso: ammiccare in tutti i modi a corrotti e corruttori”, affermano i capigruppo in Commissione alla Camera e al Senato, che annunciano un’opposizione “la più dura possibile”. Ribadendo poi la propria linea sull’ostativo: “Il fatto che la mancata collaborazione del condannato non possa più essere condizione ostativa assoluta fa correre il rischio di vedere uscire dal carcere boss di primo piano e di indebolire l’arma di pressione grazie alla quale lo Stato negli ultimi 30 anni ha convinto molti mafiosi a collaborare”, affermano Roberto Scarpinato, Ada Lopreiato e Anna Bilotti. La proposta dei grillini è di non far uscire dal carcere “mafiosi che non abbiano maturato un pieno ravvedimento”. Chi non collabora, dunque, dovrà essere obbligato “a spiegare le motivazioni”. E non basterà “la volontà di non comportarsi da “infami” o la paura delle ritorsioni, perché in questi casi è evidente il mancato ravvedimento. Inoltre queste persone dovranno comunicare tutti i beni posseduti o controllati”. Franco Coppi: “Giustizia irriformabile. Dopo tanti anni volevo mollare tutto” di Felice Manti Il Giornale, 29 novembre 2022 Il legale: “Processi mediatici e diritti calpestati. La riforma Cartabia? Non cambierà nulla”. “Dopo l’esito del processo di Avetrana celebrato nei confronti di Sabrina Misseri e della sua anziana madre Cosima, ho sentito assai forte la tentazione di abbandonare tutto ciò che fino a quel momento aveva costituito, con l’Università, la ragione della mia vita”. È un Franco Coppi durissimo a vergare queste parole nell’introduzione del libro Il delitto di Avetrana (Rino Casazza, Algama editore) in uscita in questi giorni. Al telefono con Il Giornale il legale che in passato ha difeso tra gli altri Silvio Berlusconi e Giulio Andreotti rincara la dose. “La successione ininterrotta di errori, pregiudizi, falsità e di incomprensibili sentenze di condanna avevano generato uno sconforto, uno smarrimento e quasi la paura dell’inutilità e della vanità dell’opera della difesa, mai prima provati tanto intensi e così forti da spingermi all’abbandono”. Queste sono parole sue, le conferma? “Guardi, ho vinto processi che pensavo di perdere e viceversa. Sono così convinto dell’innocenza di queste due malcapitate che questo processo mi colpisce così dolorosamente per le pressioni mediatiche che hanno portato a una sentenza ingiusta, che non coglie la verità. È vero, la voglia di mandare tutto a quel Paese è stata molto forte”. Eppure, ai più la condanna sembra scritta nel granito. Chiederà la revisione? “Revisione? Per chiederla è necessario che ci siano nuovi fatti. Se qui non si fa avanti nessuno ad ammettere di aver detto il falso non è possibile. Abbiamo fatto ricorso alla Corte europea, ma è un discorso diverso dalla revisione”. Avetrana è stato un processo mediatico, lo sappiamo. Contro le storture c’è la riforma firmata dall’ex Guardasigilli Cartabia, no? “Mah, ho molte perplessità. Dopo più di 50 anni passati nei tribunali vedo con preoccupazione il futuro dell’avvocatura, che mi sembra molto sacrificato rispetto ai diritti della difesa in Appello e in Cassazione. Non credo possa contare su contributi significativi alle storture della giustizia, anche perché sono così tante e tali che non si può pensare di risolverli con questo tipo di provvedimento”. Che cosa andrebbe riformato, secondo Lei? “Per esempio, servirebbe la riforma dell’udienza preliminare ma non un semplice gioco di parole. Bisogna prendere atto che l’istituto è fallito. Bisogna pensare a come sostituirlo, anziché ritoccarlo”. Cosa ne pensa del Guardasigilli Carlo Nordio? “È un magistrato di grandissima esperienza, so che affronterà il tema della giustizia con cognizione di causa. Posso solo augurargli buon lavoro”. Il prossimo 13 dicembre il Parlamento deciderà i 10 membri laici del Csm. Mai come questa volta il suo peso sarà decisivo per riscrivere le regole del funzionamento della giustizia... “Il ruolo del Csm è certamente delicatissimo ma io sono convinto che tutto dipenda dalle persone: c’è da sperare che vengano scelte persone che siano in grado di assolvere al loro compito. Credo poco ai pronunciamenti astratti, voglio vederli all’opera”. La magistratura ha gli anticorpi per chiudere i conti con il passato? Penso al caso Palamara, ai casi Davigo-Storari ecc... “Se penso a tutta una serie di magistrati che ho conosciuto sono ottimista, se penso a un’altra serie di magistrati sono pessimista”. Marche. Il Garante: “Carceri, situazione deficitaria per chi ha problemi psichiatrici” di Paola Pagnanelli Il Resto del Carlino, 29 novembre 2022 L’avvocato Giulianelli: non ci sono posti sufficienti per chi ha bisogno di assistenza specifica. “La situazione per i malati psichiatrici è sicuramente deficitaria. I posti purtroppo non sono più sufficienti per chi ha bisogno di una assistenza specifica che in carcere non può ricevere”. Non usa mezzi termini il garante dei diritti delle Marche, l’avvocato Giancarlo Giulianelli, che si occupa anche delle condizioni del personale e dei detenuti delle carceri regionali. Avvocato, cosa succede quando una persona con grave disturbo psichiatrico viene arrestata? “Dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, ogni Regione avrebbe dovuto avere una o più Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza in base alle necessità calibrate sulla popolazione regionale. Le Marche chiesero venti posti, fu istituita una Rems a Macerata Feltria in attesa di completare quella a Fossombrone, sulla quale c’è un contenzioso. Attualmente, Macerata Feltria ha 25 posti, e sebbene siano più di quanto previsto ci sono liste d’attesa molto lunghe per entrare. Il problema è identico a livello nazionale, anche perché chi entra in quelle strutture spesso a una prognosi di pericolosità sociale, che va rivalutata nel corso del tempo, ma che molto spesso permane a lungo. I posti non bastano, e c’è un aumento incredibile di soggetti che ne hanno bisogno”. Nelle carceri ci sono spazi adatti a queste persone? “Ci sono sezioni per psichiatrici. Ma mentre Macerata Feltria è una struttura nuovissima, gestita in maniera eccelsa e specializzata per questi detenuti, nelle carceri gli psichiatrici sono accolti in condizione di estrema precarietà, nel senso che pur essendoci le sezioni sono sistemazioni improvvisate. Questo è un problema da affrontare con determinazione. Il malato psichiatrico è incapace di intendere, pericoloso socialmente, e necessita di una cura”. Qual è il problema se va in un carcere normale? “È assolutamente inopportuno tenerlo in una struttura non idonea. Ne crea al personale di polizia penitenziaria e agli altri detenuti, perché magari è a rischio suicidario e va monitorato sempre. Ma pensiamo che ad esempio oggi a Montacuto ci sono 112 agenti di polizia penitenziaria, quando l’organico sarebbe di oltre 170: manca il personale per il controllo che sarebbe necessario. Poi un malato psichiatrico ha bisogno di cure specifiche”. Perché nel caso di San Severino il detenuto non è stato portato subito a Macerata Feltria? “Perché serve un provvedimento del magistrato, una volta letti gli atti sul caso specifico”. Oggi, il gip dopo la convalida potrebbe disporne il trasferimento a Macerata Feltria, o non c’è posto? “Nei casi di urgenza, il posto si trova: oggi il tribunale potrebbe disporre per lui la Rems. Quella struttura comunque va ampliata, oppure bisogna investire sulla prevenzione perché purtroppo aumenta il numero di detenuti con gravi criticità che necessitano di cure”. Reggio Calabria. Detenuto spogliato e massacrato di botte, sei agenti ai domiciliari per torture di Alessia Candito La Repubblica, 29 novembre 2022 Il pestaggio è avvenuto il 22 gennaio 2022, quando in visita c’era l’ex ministro Cartabia. L’uomo aveva solo messo in atto una protesta pacifica, rifiutandosi di ritornare in cella dopo l’ora d’aria. Hanno massacrato di botte un detenuto, autonomamente hanno deciso di metterlo in isolamento e hanno aggiustato carte, relazioni e referti per nascondere il pestaggio. A Reggio Calabria, un gruppo di agenti della penitenziaria aveva trasformato il carcere in un inferno senza legge, dove si rischiava di essere massacrati a manganellate anche solo per una protesta. Per questo motivo sei agenti della polizia penitenziaria, incluso il comandante del reparto, sono stati arrestati dalla squadra mobile e sono finiti ai domiciliari, due sono stati interdetti dal servizio, altri quattro sono indagati, insieme al medico del carcere accusato di depistaggio per aver mentito ai magistrati in fase di indagini e per il quale toccherà al giudice valutare la sospensione dall’attività professionale. A vario titolo, la lista di accuse contestate è lunghissima: torture, lesioni, una serie di falsi in atto pubblico, calunnia, tentata concussione. Si tratta della seconda, pesantissima, tegola che cade sull’istituto penitenziario reggino, dopo l’arresto dell’ex direttrice, a processo per aver di fatto delegato la gestione del carcere a boss e luogotenenti dei clan, cui tutto era permesso. Ma evidentemente, anche alcuni agenti della penitenziaria erano convinti di poter gestire l’istituto come se fosse territorio loro, soggetto unicamente alle loro leggi e regole. Imposte con i manganelli. A far partire l’inchiesta, le denunce dei familiari di alcuni detenuti campani che ai magistrati hanno raccontato di abusi e violenze. Solo un episodio al momento è stato interamente ricostruito, ma sufficientemente grave da convincere la procura diretta da Giovanni Bombardieri a chiedere e ottenere i domiciliari e altre urgenti misure cautelari. Risale alla fine del gennaio di quest’anno, per la precisione al 22, quando in visita c’era l’ex ministro della Giustizia, Marta Cartabia. Un detenuto napoletano - svela l’inchiesta coordinata dal pm Sara Pezzan - aveva messo in atto una protesta pacifica: si era rifiutato di tornare in cella dopo l’ora d’aria, il cosiddetto “passeggio esterno”. La risposta degli agenti della penitenziaria è stata brutale. In malo modo e con la forza lo hanno trascinato in una cella di isolamento, dove è stato massacrato con pugni e manganelli, quindi lo hanno spogliato e lasciato seminudo per ore. Al gelo. E ovviamente si sono adoperati per coprire tutto. False relazioni di servizio, false accuse contro il detenuto, una montagna di carte aggiustate per coprire un vero e proprio pestaggio. Nei giorni successivi, il comandante del reparto avrebbe tentato di costringere un altro agente a mostrargli le relazioni di servizio relative alla sorveglianza dell’uomo. E quando le indagini sono partite, tutti gli indagati hanno tentato di occultare quanto successo, incluso il medico del carcere accusato di aver mentito spudoratamente al pm che lo stava interrogando. Ma le telecamere hanno parlato, la vittima anche, così come alcuni detenuti che erano con lui e non hanno esitato a puntare il dito contro gli autori del pestaggio, oggi tutti ai domiciliari. Ma gli indagati - che nei prossimi giorni dovranno essere sentiti dal giudice per le indagini preliminari - sono tanti e l’inchiesta potrebbe allargarsi. Bari. Violenze in carcere, la procura insiste: “È stato un crescendo” di Chiara Spagnolo La Repubblica, 29 novembre 2022 La difesa contesta la tortura: “Non c’è stata la volontà di incutere soggezione”. Fu violenza gratuita per creare soggezione o un pestaggio fine a se stesso? Si gioca sul riconoscimento del reato di tortura - o la derubricazione in quello meno grave di lesioni - la battaglia davanti al Tribunale del Riesame tra la Procura di Bari e la difesa di uno degli agenti di Polizia penitenziaria arrestati l’8 novembre per le botte a un detenuto 42enne con problemi psichici. Il ricorso è stato presentato dall’avvocato Antonio La Scala, per conto del 57enne G.D., finito agli arresti domiciliari insieme ai colleghi D.C. e R.F. Sono stati incastrati dalle immagini delle telecamere interne all’istituto, che li hanno ripresi mentre tiravano calci all’uomo bloccato a terra. “Il video mostra il crescendo di violenze”, hanno sostenuto il procuratore aggiunto Giuseppe Maralfa e la pm Carla Spagnuolo durante l’udienza al Riesame, opponendosi alla richiesta di revoca della misura cautelare. Per il difensore, invece, in quei gesti - innegabili davanti ai filmati - “non c’era volontà di incutere soggezione psico-fisica” e dunque non può essere contestato il reato di tortura ma quello di lesioni. L’avvocato ha anche evidenziato il clima difficile in cui, la notte del 27 aprile scorso, è maturato l’episodio finito al centro dell’inchiesta, dopo che il 42enne aveva incendiato il materasso e reso necessario lo spostamento di altri detenuti dalle loro celle. Lo stesso avevano fatto precedentemente altri difensori, compresi quelli dei sei agenti interdetti dal servizio e dei due per cui la sospensione è stata chiesta dalla Procura ma rigettata dal gip. No all’interdizione anche per il medico in servizio quella notte, Gianluca Palumbo, indagato di rifiuto di atti d’ufficio perché avrebbe visto che il detenuto veniva picchiato senza poi denunciarlo e perché, dopo averlo visitato, non avrebbe dato conto delle lesioni causate dal pestaggio. “Non ho visto l’aggressione” e “non avevo motivo di ritenere che fosse stato picchiato”, ha detto il medico durante l’interrogatorio e il giudice ha creduto a questa versione, precisando che negli atti non c’è la prova che l’uomo sia arrivato in infermeria in condizioni diverse da quelle descritte nel diario clinico ovvero solo con “un forte stato di agitazione”. Rispetto alla mancata interdizione del medico, la Procura farà appello. Milano. Luigi Pagano: “Il carcere di San Vittore rimanga in città, ma è urgente ridurre il numero dei detenuti” di Brunella Giovara La Repubblica, 29 novembre 2022 San Vitùr, “come diciamo noi milanesi”, e lo dice uno nato a Cesa, provincia di Caserta. Luigi Pagano, 68 anni. Nel 1989 è entrato nel cuore di Milano come direttore del carcere più grosso d’Italia (con Poggioreale, record di sovraffollamento). Ne è uscito 15 anni dopo. Si è trasferito cento metri più in là, al Provveditorato per l’amministrazione penitenziaria, abitando peraltro a metà strada. Dalle finestre vede i merli in stile medievale, i torrioni in cemento armato. La galera. Eppure così familiare, anche per chi non ci abita. Dal Kriminalbar (non si chiama così ma lo chiamano tutti così), si vede così bene, l’incombente struttura penitenziaria piantata lì dal 1879 nel “cuore di Milano”, ed è una citazione. “Sono le parole del cardinale Martini. La sua prima visita fu nel 1983, durò 4 giorni. Volle salutare tutti i detenuti, che erano 1800, compresi i brigatisti. Ma io sono arrivato quando nel post terrorismo, San Vittore era un carcere pacificato; nel 1986 era stata varata la legge Gozzini, con cui era stata rimossa ogni pregiudiziale che impediva la concessione delle misure alternative a condannati per lotta armata. Nel 1990 ci furono il nuovo codice di procedura penale e la nascita del nuovo corpo di Polizia Penitenziaria. Un “New Deal”.   Lei aveva 35 anni, ed esperienza, ma era un incarico enorme... “In quel momento c’erano 2 mila detenuti. Con Mani Pulite siamo arrivati a 2.400. Non c’era posto per i notabili, figuriamoci per i poveri cristi. Io arrivavo dal carcere di Taranto, e prima ancora da Nuoro, Asinara, Pianosa, Alghero, Piacenza, Brescia. Ho cominciato a 25 anni... Quando mi hanno offerto San Vittore ho detto subito sì. Era un segno di stima, senza dubbio”.   Mai stato a Milano, prima... “A Brescia, ma Milano era un posto mitico. Avevo i miei retaggi culturali, Totò e Peppino alla Centrale, e quella nebbiolina romantica... E Marotta: “A Milano non fa freddo”, infatti io qui non ho mai usato il cappotto”.   Lei è criminologo, di formazione. Ricorderà il primo colpo d’occhio... “Meglio di quanto immaginassi. Trovai il laboratorio di serigrafia, quello di pelletteria, e ricordo che mi fece una certa impressione vedere taglierini e lame nelle mani di persone definite pericolosissime. Il maresciallo comandante fu il mio Virgilio, disse: “Non tocchi ancora niente, prima cerchi di capire”. Feci una lunga full immersion. Dormivo, mangiavo, vivevo dentro. Pensavo alla città, mi accorsi che esisteva già un rapporto con Milano, grazie al cardinale, a certa intellighenzia, a Giorgio Bocca, a padre Turoldo, a Franco Mussida della Pfm, che faceva corsi professionali di chitarra. E ho aperto di più le porte alla società. Non è stato poi difficile, trovare altri che volessero entrare, tra volontari, terzo settore, esperti di formazione. Una forzatura necessaria perché San Vittore, così come Poggioreale e Regina Coeli, erano concepiti come luoghi di contenimento. Muri possenti, cancelli, il “panottico”. Era passata l’epoca dei banditi a Milano, del terrorismo, però erano tutti qui, penso a Vallanzasca e ai Br. Persone con cui ti potevi confrontare un po’ su tutto, compreso il problema carcerario. Molti erano anche validi interlocutori. Oggi le cose sono diverse. Il “tasso” criminale è basso”.   Chi c’è in carcere oggi... “Persone su cui puoi lavorare poco per il reinserimento. Gente per cui il carcere è casa, famiglia, polo psichiatrico. Una comunità di persone in difficoltà. Delinquenti, certo. Ma fuori non hanno niente. Allora invece c’erano persone intelligenti, che per ideologia e per convenienza spingevano per cambiare il carcere. Molti avevano partecipato all’omicidio di chi si era battuto per la riforma penitenziaria. Bachelet, Galli, Paolella, che è stato uno dei miei docenti di criminologia. In carcere ho poi incontrato chi lo ha ucciso. E ho pensato: sei progressista finché non vieni colpito, ma lo devi essere anche dopo”.   Chi è passato, da qui? “Tutti. Sono arrivato con la Milano da bere, poi c’è stata Mani pulite, i colletti bianchi che quasi sempre si adattavano bene al carcere. Ma ci sono state tragedie, suicidi... Il suicidio in carcere è una delle cose peggiori, e puoi prevenire fino a un certo punto, perché è la stessa detenzione che può scatenare il passaggio all’atto e per prevenirlo non è che puoi mettere il detenuto nudo in una cella. Un direttore vive con l’assillo che qualcosa può succedere da un momento all’altro, io ci ho convissuto sempre. E ogni tanto qualcosa succede. Rivolte, suicidi, omicidi, nonostante le precauzioni. Ricordo il caso di Sindona, che morì a Voghera, eppure era l’uomo più controllato del mondo”.   Ogni tanto si pensa di chiudere San Vittore... “Ho sempre pensato che è giusto tenerlo in città, ma non così com’è. Facciamone un posto per la metà dei detenuti attuali, 400 o 500 almassimo. La struttura ottocentesca non andava bene quando ci sono entrato la prima volta, e non va bene adesso. La legge vuole un carcere orizzontale, in cui il detenuto non viva in cella, ma ci vada solo a dormire, potendo accedere di giorno a spazi esterni per studiare, mangiare, lavorare. Qui non si può. E un carcere affollato, con spazi angusti che incidono sulla dignità delle persone. Nonostante il grande impegno di tutti gli operatori, non lo ritengo degno di un Paese civile. C’è il dovere di andare oltre, e mi riferisco all’amministrazione e agli enti locali”.   Perciò avete poi costruito Bollate, tuttora carcere modello... “Bollate l’abbiamo fatta come volevamo noi. C’era una palestra, l’abbiamo trasformata in laboratori. Servivano spazi in cui la gente potesse imparare un lavoro e lavorare. Poi, il carcere rieducativo non c’è, perché è una struttura chiusa per definizione. Ma visto che esiste, cerchiamo di trasformarlo nel migliore mondo possibile”.   Venne Strehler, chiese ai detenuti: “Com’è il direttore?”. “Non ricordo cosa risposero, ma io gli dissi: “Sto ccà’. Con loro, in un incontro fino a poco prima inimmaginabile. Abbiamo avuto momenti magici, di teatro, musica. Il carcere invitava ad entrare... E c’è venuto anche papa Francesco, che si sedette a mensa con noi. I grandi ti mettono a tuo agio. Quella volta un detenuto mi disse: “È la prima volta che sono contento di stare in carcere”.   Lei ha sempre avuto la fama di direttore umano... “... ed è vero che ho sfruttato più le doti umane che la tecnica e la criminologia. È che sono sempre stato guardato con rispetto da agenti e detenuti. Vuol dire che ho lavorato bene, credo. Se dai fiducia, ti ritorna tutta indietro. E la dignità poi, è fondamentale. C’è la persona, e c’è la sua dignità. Guai a non rispettarla”. Porto Azzurro (Li). Presto un nuovo Garante dei diritti dei detenuti di Nunzio Marotti elbareport.it, 29 novembre 2022 Mercoledì 30 novembre si celebra la Festa della Toscana, che quest’anno è dedicata alla libertà d’espressione sancita dall’articolo 21 della Costituzione. “Tutti hanno diritto di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Come è noto, il 30 novembre del 1786 la Toscana adottò un nuovo codice penale in cui, per la prima volta al mondo, veniva abolita la pena di morte. E la festa della Toscana vuole ricordare quell’evento straordinario e affermare l’impegno per la promozione dei diritti umani, della pace, della giustizia e della libertà, come elemento costitutivo dell’identità della Toscana. Anche per questa concomitanza, leggo con soddisfazione che il Comune di Porto Azzurro ha pubblicato la delibera di giunta con cui viene emesso il bando per la nomina del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Dopo la valutazione dei curricula dei candidati, il Sindaco procederà alla nomina del terzo garante del carcere elbano. Questa figura, infatti, è stata istituita dal Consiglio comunale nel 2015. Vale la pena ricordare che, secondo lo Statuto comunale (art. 58 bis), il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale è istituito “al fine di promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone comunque private della libertà personale o limitate nella libertà di movimento”. Quindi svolge attività a tutela di tali persone domiciliate, residenti o comunque presenti nel territorio comunale con riferimento alle competenze dell’Amministrazione. Tra i compiti stabiliti dal regolamento ci sono quelle di osservazione e vigilanza, di sensibilizzazione pubblica, di promozione di iniziative con altri soggetti, di richiesta di informazioni e di segnalazioni sulla base di istanze che gli pervengono. Periodicamente relaziona agli organi del Comune e avanza proposte agli stessi. Nell’attesa che qualcuno decida di candidarsi a questa carica, un ringraziamento lo voglio rivolgere al dottor Tommaso Vezzosi per il lavoro di garante svolto finora. Mi permetto di aggiungere, conoscendo la portata e la responsabilità di questo incarico (sono stato il primo garante nominato), la proposta di valutare se modificare l’art. 7 del regolamento, che afferma la totale gratuità dell’incarico di garante (fatto salvo, ovviamente, il “rimborso delle spese sostenute e documentate”). La previsione di una qualche indennità di carica - come previsto in altri comuni sede di penitenziari - rafforzerebbe il riconoscimento sociale del servizio e, in qualche caso, potrebbe risultare di incoraggiamento. Bari. Giustizia riparativa, si promuove l’incontro tra reo e vittima. “C’è una strada più umana” di Marianna Colasanto La Repubblica, 29 novembre 2022 Un percorso di accompagnamento che permetta di far incontrare il reo e la vittima, affinché si possa ricostruire, lì dove possibile, una riparazione del danno, sia per chi lo ha causato e sia per chi lo ha subito. È la giustizia ripartiva un paradigma di giustizia, nato negli anni settanta, che approda a Bari trent’anni fa per iniziativa della cooperativa C.R.I.S.I. (Centro Ricerche e Interventi sullo Stress Interpersonale nella coppia e nella famiglia). La referente, la 48enne barese, Ilaria De Vanna ha organizzato un incontro sabato 26 dicembre nel bistrot Honest, in via Sparano, per far conoscere quest’occasione di riscatto e rimettere in moto l’orologio della vita, a curiosi, studenti di criminologia e persone vittime di violenza domestica. Presenti anche protagonisti in prima persona che hanno fatto ricorso alla giustizia ripartiva. Come Pinuccio Fazio, papà di Michele venuto a mancare nel 2001, quando aveva sedici anni. Fu ucciso per errore a Bari vecchia da un colpo di pistola, sparato nel corso di un regolamento di conti tra clan mafiosi. Benevento. Carcere e Cam rinnovano protocollo per spazi dedicati ai figli dei detenuti cronachedelsannio.it, 29 novembre 2022 Dal mese di aprile del 2022 presso la Casa circondariale di Benevento è stato realizzato il progetto “Il mondo degli affetti padre-figlio” in collaborazione con il CAM - Centro di Aiuto al minore Telefono Azzurro, rivolto alla tutela dei minori, figli dei detenuti. Il carcere pur essendo un luogo che i bambini sentono estraneo, potenzialmente traumatico, deve necessariamente essere frequentato dai minori pur di mantenere il legame con il genitore, un legame fondamentale per la loro crescita psico-affettiva. All’interno di uno “Spazio Azzurro” attraverso il gioco e i disegni, i bambini hanno scelto di raccontare le loro paure, i dubbi, la gioia e tante altre emozioni. I volontari di Telefono Azzurro, in posizione empatica, hanno cercato di rispondere ai loro bisogni, accompagnando e sostenendo i bambini nelle delicate fasi, prima del colloquio, per aiutarli ad esprimere le emozioni che vivono; tutelare il legame continuativo ed affettivo con il genitore detenuto; aiutarli a gestire la separazione forzata e le situazioni di disagio. Visto il buon andamento del progetto ed il successo riscosso anche da parte delle mamme accompagnatrici dei bambini, che raccontano del benessere dei figli dal frequentare lo “Spazio Azzurro”, la direzione il giorno 30 novembre 2022 alle ore 10.30 procederà alla stipula del rinnovo del protocollo di intesa con Centro di Aiuto al Minore - Telefono Azzurro di Benevento. Milano. “La musica salva dal carcere”, il rap come percorso educativo di Andrea Conti Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2022 Ecco “232 Mixtape”, il progetto discografico di 13 ragazzi in cerca di riscatto. Un progetto ambizioso e importante. L’etichetta indipendente Carosello Records ha dato l’opportunità a 13 ragazzi, provenienti da situazioni di disagio e dalle carceri minorili, di incidere un brano. Il progetto discografico “232 Mixtape”, appoggiato dall’Associazione 232, ha un messaggio importante: la musica può salvare dalla strada e dalla delinquenza. La musica come opportunità di rivalsa. Il rap visto non come espressione di violenza, ma al contrario linguaggio per esprimere un disagio e liberarsene. Sono i concetti emersi durante un confronto alla Milano Music Week tra l’etichetta indipendente Carosello Records e l’Associazione 232, che promuove percorsi educativi attraverso la musica tra il carcere Beccaria, le comunità e i quartieri di Milano. Il risultato di questa collaborazione è il progetto discografico “232 Mixtape” di 13 giovani ragazzi, 10 rapper e 3 producer provenienti dall’Associazione. Il disco non è in vendita, ma è disponibile sul canale YouTube della 232. L’album raccoglie il lavoro dell’Associazione 232, frutto dell’impegno costante nell’istituto penale per minori “Cesare Beccaria”, nella comunità penale “Kayros” Onlus, nelle scuole, nei quartieri, nei laboratori rivolti a ragazzi e ragazze in difficoltà e a chi chiede di essere aiutato. “La musica contribuisce alla conoscenza e alla consapevolezza di sé stessi - ha affermato Fabrizio ‘Otis’ Bruno, educatore, rapper, consulente pedagogico e fondatore dell’Associazione 232 - Non è solo rap quello che sentirete in questo progetto, ma il frutto di quello che è stato il lavoro al laboratorio musicale del Carcere minorile Beccaria di Milano. Un lavoro importante che tiene impegnati i ragazzi che, presi dall’entusiasmo, si dimenticano anche di essere in carcere. È importante sensibilizzare i ragazzi nelle carceri di tutta Italia e molto dell’operatività dipende anche dai fondi e dalla distribuzione della ricchezza e dei fondi città per città. Trovo assurdo che un ragazzo di Milano abbia la giornata piena in carcere di attività e lavoro, mentre chi sta a Bari no. Ci sono troppi intoppi burocratici ancora oggi e vorrei che i direttori delle carceri capiscano quanto le attività musicali di questo genere siano importanti”. Gli fa eco Dario Giovannini, dg di Carosello Records: “La musica e il rap hanno un potere salvifico. Questo messaggio viene travisato da certi media che fanno titoloni su alcuni personaggi che hanno problemi con la giustizia, sottolineando che sono dei rapper. Penso al ‘caso’ Baby Gang. Quando il rap, dicevamo, può essere invece strumento per uscire da una situazione difficile. Quindi è tutto il contrario. Si è cercato di dar a questi ragazzi una opportunità, anche banalmente uscire dal carcere per andare in studio per lavorare con un produttore serio. È stato un modo per riflettere e capire che si può fare qualcosa di diverso con la musica. Vedere gli sguardi dei ragazzi contenti e felici di aver avuto questa opportunità è stato emozionante e appagante. Tutto questo è stato fatto senza fine di lucro e non c’è alcun guadagno da parte nostra, ma vorrei fosse inizio di un percorso e spero che si possano vedere sempre di più iniziative del genere. Mi auguro anche che le carceri possano snellire procedimenti burocratici che non fanno altro che rallentare queste idee e queste iniziative. Noi stessi ci abbiamo messo più di un anno, non è stato facile. Spero che le istituzioni comprendano appieno questo messaggio”. Infine tra i tredici ragazzi protagonisti del progetto discografico c’è il giovanissimo Torricelli Posse che ha inciso “Scrivo per rinascere”. Per proteggere la privacy degli aspiranti rapper si è ricorso a nomi d’arte. “Per me l’Associazione 232 ha rappresentato casa e un posto sicuro - ha affermato Torricelli Posse con un filo di commozione -, dopo un periodo difficile contrassegnato da diversi miei episodi di depressione. Solo un anno fa non avrei mai immaginato che avrei avuto l’opportunità di andare in Carosello e incidere un brano. Scrivo da cinque anni e non avevo mai avuto una occasione del genere, fino a quando non ho incontrato l’Associazione. Il futuro? Non mi aspetto nulla, se non migliorare nella scrittura”. Perugia. Dalla poesia alla musica per dare voce ai detenuti, prodotto un cd umbria7.it, 29 novembre 2022 Un progetto musicale per esprimere le emozioni dei detenuti con versi di poesia trasformati in canzoni, poi raccolte nel cd “Parole liberate”. Quattordici i brani, frutto di un lungo lavoro iniziato tempo indietro nelle carceri italiane. Il disco, prodotto dall’etichetta sarzanese Baracca & Burattini di Paolo Bedini, è nato due anni fa con l’associazione di promozione sociale “Parole liberate: oltre il muro del carcere” di Beverino che, tra le varie iniziative, proponeva proprio ai detenuti la scrittura di un testo che sarebbe poi stato interpretato da esponenti della canzone d’autore. Il cd musicale contiene al suo interno anche tre testi delle poesie di detenuti di Capanne, scelti nel 2019 in occasione dell’omonimo premio. Lunedì 29 novembre, nella sezione femminile della casa circondariale perugina, l’associazione “Nel nome del rispetto” ha organizzato un momento di condivisione di questa esperienza con l’ascolto di alcuni brani. Hanno partecipato all’evento le detenute che frequentano il corso di scrittura creativa, tenuto da Francesca Gosti dal titolo “Quando la poesia germoglia in carcere”. Presenti, tra gli altri, la direttrice del carcere Bernardina Di Mario, la presidente dell’associazione Maria Cristina Zenobi, la sua vice Cristina Virili, la consigliera della Provincia di Perugia Erika Borghesi. In sala anche il soprano Federica Balucani, il discografico Paolo Bedini, il pianista compositore Giampaolo Giurioli, Andrea Imberciadori, che ha realizzato un videoclip del brano “Sbagliato”, e la cantautrice Elisa Giorello. Durante l’incontro è emersa l’importanza dell’arte e della sua espressività quale veicolo per far uscire dalle spesse mura di un carcere le emozioni che, anche a fatica, trovano nei versi di una poesia la loro voce. Come sottolineato dalla Borghesi, progetti di reinserimento di questo genere danno: “L’opportunità di scavare dentro di sé per far emergere anche sentimenti negativi e trasformarli in emozioni”. L’inganno del sistema dell’antimafia che è diventato eccezione democratica di Alessandro Barbano Il Foglio, 29 novembre 2022 Il paradosso della giustizia che si è trasformata in una macchina del dolore ingiustificabile. Il muro della menzogna di una legislazione speciale che tutti ci invidiano ma che, stranamente, nessuno imita. Raccontare la giustizia da dentro, con gli occhi di fuori. Vuol dire riconnettere la coerenza delle sue condanne, o piuttosto delle sue confische, alla realtà. E scoprire, per esempio, che Riccardo Greco, l’imprenditore di Gela che denunciò i mafiosi a cui pagava il pizzo da anni, e che per anni fu perseguitato dallo stato, non aveva altra scelta che quella di togliersi la vita, per sottrarre la sua stessa vita, e quella dei suoi famigliari, alla ferocia kafkiana di un processo capace di inseguirlo per ogni dove. E per ogni tempo. Con “L’inganno”, in uscita stamane in libreria, voglio spiegare il paradosso civile di una giustizia trasformatasi in una potente macchina del dolore non giustificato e non giustificabile. Ho due obiettivi: confutare l’idea che la crisi della giustizia si esaurisca nel rapporto tra la magistratura e la politica, e quindi si risolva, come pure si dice in questi giorni, modificando il reato di abuso d’ufficio o piuttosto abolendo la legge Severino; e dimostrare invece che tutto origina dallo sconfinamento dell’intero sistema nell’eccezione. Dove ciò che, visto da fuori, sarebbe “arbitrio”, “abuso” e “assurdo”, qui è legittimato da una logica dell’emergenza che prevale su ogni altra ragione. È il diritto dei cattivi, introdotto “dopo l’Unità d’Italia per combattere i briganti, usato a piene mani dal fascismo per perseguitare i dissidenti, ignorato dai repubblicani” e riportato in auge dai moderni paladini della giustizia. È l’antimafia, un universo che fa della deroga la regola, e dell’emergenza permanente l’altare sul quale sacrificare la libertà in nome della lotta al crimine. Un universo fatto di leggi speciali. Di sentenze che anticipano leggi e poi diventano leggi. Di pene che aumentano a dispetto del diminuire dei reati. Di procure che hanno accresciuto il loro potere fino ad assumere un ruolo politico e ad assegnarsi il compito di bonificare la democrazia. Di confische e sequestri con cui lo stato espropria enormi patrimoni privati a cittadini spesso mai processati o, addirittura, assolti. Di imprenditori interdetti nella loro attività in nome di un sospetto, che si diffonde per contagio, come un virus. Di prefetti, amministratori giudiziari e associazioni di volontariato, la cui funzione o il cui profitto dipendono, a vario titolo, dalla crescita continua del sistema stesso. E, infine, di una retorica che accompagna l’avanzare dell’antimafia nella democrazia. Mi chiedo se questa enorme sovrastruttura fosse indispensabile per sconfiggere la mafia, se e in che misura ha adempiuto al suo compito, perché è cresciuta oltre ogni previsione, qual è oggi la sua funzione e quali effetti collaterali produce per la società, chi la promuove e perché, che rapporto ha con la crisi della giustizia italiana e quali sono i vantaggi, o piuttosto gli abusi, i lutti e l’inquinamento civile perpetrati fuori da ogni autentico controllo di legalità e di merito. E da ultimo quali sono i rischi di una sua ulteriore espansione in Italia, dove sempre più spesso con i rimedi dell’antimafia si affronta e si reprime ciò che mafia non è. Ma più di tutto mi interessa mettere a confronto la coerenza logica di dentro con quella di fuori, e dimostrare il divorzio insanabile che si è prodotto tra la giustizia e la vita. Nella prima si può allo stesso tempo assolvere un cittadino perché il fatto non sussiste, e confiscargli tutti i beni, l’azienda, i conti correnti, la casa, le auto e perfino i regali ricevuti dai figli per la prima comunione. Si può fare e dire che le due azioni, assolvere e confiscare, sono possibili, compatibili, coerenti e, in certi casi, consequenziali. Nella vita l’idea di un’azione così violenta e così afflittiva dello stato suona invece come la più atroce delle sopraffazioni. Se tra la logica della giustizia e quella della vita si è aperto un cratere così ampio, vuol dire che la prima non è più funzione della seconda, ma esiste per se stessa. C’è un disegno di potere, visibile, che si traduce nell’idea di mettere la società sotto tutela, grazie a una delega che la magistratura ha ricevuto dallo stato e che ha la genesi nella lotta all’emergenza mafiosa. Se ne parla e se ne discute da anni, ma questo disegno non esaurisce e non spiega da solo il deragliamento della giustizia. C’è di più. C’è un progetto ideologico di matrice rivoluzionaria, che si assegna il compito di redistribuire la ricchezza, perseguendo quella che si ritiene prodotta ingiustamente. L’obiettivo di questa crociata sono i beni illeciti. I colpevoli sono tali in quanto possessori di patrimoni che si presumono acquisiti ingiustamente, quindi non solo gli autori di reati, ma anche i terzi coinvolti nella proiezione della pericolosità dei beni, e perfino le vittime della mafia, come gli imprenditori che pagano il pizzo. La qualificazione della colpevolezza sfuma nell’idea che chiunque si trovi, per qualunque ragione, ad aver beneficiato di un ingiustificato possesso di ricchezza debba risponderne penalmente. Nella giustizia del riscatto sociale non esistono più i colpevoli, in quanto autori del fatto, ma piuttosto i coinvolti. Per questo mafiosi e corruttori stanno sullo stesso piano, in quanto beneficiari di ricchezze ingiuste. La loro responsabilità non è verso lo stato o verso la comunità, e neanche verso le vittime dei reati commessi, ma prima di tutto verso la storia. Questo paradigma ha una serie di conseguenze per la giustizia. La più grave è una torsione illiberale dell’azione penale, per cui nel suo radar il reo sostituisce il reato, il sospetto la prova, il risultato le garanzie, la morale il diritto. Di questa sostituzione si coglie un’eco nel rapporto tra il diritto penale ordinario e il diritto speciale dell’antimafia. Non a caso il primo pone il limite a premessa della potestà punitiva: “Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge”, recita l’articolo 1 del Codice penale. Il secondo invece non assegna vincoli alla volontà. “I provvedimenti del presente capo si applicano a coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi”, recita l’articolo 1 del Codice delle misure di prevenzione. Dove prima era il limite, ora c’è l’obiettivo. Il programma culturale moderno del diritto penale parte dalla protezione dell’innocente. Quello delle misure di prevenzione, all’esatto opposto, parte dalla definizione del bersaglio della potestà punitiva. Nel racconto de “L’inganno”, l’antimafia mostra la sua evoluzione in una concrezione insieme ideologica, politica, burocratica e affaristica, protetta da un muro di cinta e da un fossato, come nella tradizione di ogni architettura di potere feudale. Il muro è la menzogna di una legislazione speciale che tutti i paesi del mondo vorrebbero imitare. Nelle pagine di questo libro ho provato a scavalcarlo, dando una risposta alla seguente domanda: perché, se tutti ci invidiano i rimedi delle norme eccezionali, nessuno li adotta? Il fossato è la gogna in cui rischia di cadere chiunque osi criticare il sistema, da Leonardo Sciascia ai giorni nostri. Non a caso, nell’anno di gestazione del libro, mi sono imbattuto in consigli per così dire scoraggianti, del tipo “ma chi te lo fa fare”, o piuttosto semplicemente in apprezzamenti che, a rigor di logica, risultano immotivati. Come quelli che fanno dire a taluno: “Che coraggio hai avuto a scrivere un libro così”. Ma coraggioso sarebbe raccontare una guerra o, al limite, smascherare un’organizzazione criminale, sfidare per esempio la mafia. Perché dovrebbe essere coraggioso, invece, sfidare l’antimafia, cioè criticare un apparato di contrasto pubblico e legale, fondato su leggi, istituzioni e autorità legittimate? Senza alcun autocompiacimento rilevo che una buona parte delle persone che, per motivi diversi, hanno avuto l’occasione di leggere le bozze de “L’inganno”, mi hanno espresso questo pensiero. Credo che anche in questa percezione diffusa ci sia la prova di uno slittamento civile che coincide con un’anomalia della nostra democrazia. Su cui riflettere. “L’Inganno - Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”, edito da Marsilio, sarà presentato con l’autore mercoledì 30 novembre a Milano, ore 18.30, al Centro internazionale Brera in via Formentini 10, con Maria Brucale, Giovanna di Rosa, Mauro Magatti, Vinicio Nardo e Venanzio Postiglione. A Roma la presentazione avrà luogo giovedì 1 dicembre all’Auditorium Parco della Musica, teatro studio, alle ore 18: interverranno Giuliano Amato, Giovanni Fiandaca, Giovanni Melillo e Paolo Mieli, coordinerà il dibattito Monica Maggioni. I professionisti del bene che rovinano innocenti in nome dell’Antimafia di Alessandro Barbano Il Dubbio, 29 novembre 2022 “L’Inganno - Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”, Edizioni Marsilio. L’assurdità delle misure di prevenzione: non si basano su prove ma su indizi e sospetti. “La pena, per chi è stato condannato da innocente, è un’ingiustizia. Per chi è stato assolto, o mai processato, è un assurdo. Una Giustizia che la infligge, non per errore, ma per legge, è una macchina di dolore umano non giustificato e non giustificabile. Ad azionare quella macchina è un potere arbitrario, radicato nel cuore della democrazia, che ha trasformato l’eccezione nella regola, imponendo in nome dell’emergenza permanente, proclamata come un dogma, un diritto spiccio, che dismette le prove per il sospetto, confisca aziende e beni senza un giudicato, commina squalifiche e interdizioni civili. È il “diritto dei cattivi”, fondato dopo l’Unità d’Italia per combattere i briganti, usato a piene mani dal fascismo per perseguitare i dissidenti, ignorato dai costituenti repubblicani, che ne immaginavano l’abolizione, e ripristinato dal legislatore negli ultimi quarant’anni. Quel diritto è arrivato a noi, come un’anomalia che è diventata la norma. Come un rimedio peggiore del male che si propone di combattere. Qui si raccontano gli abusi, gli sprechi, i lutti, il dolore e l’inquinamento civile perpetrati, in nome della lotta al crimine, da un sistema burocratico, giudiziario, politico e affaristico cresciuto a dismisura e fuori da ogni controllo di legalità e di merito. Questo sistema è ciò che conosciamo con il nome di “Antimafia”. È fatto di leggi speciali. Di sentenze che anticipano leggi e poi diventano leggi. Di pene che aumentano a dispetto del diminuire dei reati. Di procure che hanno accresciuto il loro potere fino ad assumere un ruolo politico e ad assegnarsi il compito di bonificare la democrazia. Di confische e sequestri con cui lo Stato espropria enormi patrimoni privati. Di imprenditori interdetti nella loro attività in nome di un sospetto, che si diffonde per contagio, come un virus. Di prefetti, amministratori giudiziari e associazioni di volontariato, la cui funzione o il cui profitto dipendono, a vario titolo, dalla crescita continua del sistema stesso. E, da ultimo, di una retorica che accompagna l’avanzare dell’Antimafia nella democrazia. Nelle pagine che seguono mi chiedo se questo sistema fosse indispensabile per sconfiggere la mafia, se e in che misura ha adempiuto al suo compito, perché è cresciuto oltre ogni previsione, qual è oggi la sua funzione e quali effetti collaterali produce per la società, chi lo promuove e perché, che rapporto ha con la crisi della giustizia italiana e quali sono i vantaggi, o piuttosto i rischi, di una sua ulteriore espansione. La genesi di questo libro ha quella che chiamerei una scintilla personale. Nell’estate del 2017 mi trovo a Napoli ormai da sei anni per dirigere “Il Mattino”, quando in Parlamento e nel dibattito pubblico si discute se equiparare i corrotti ai mafiosi. Mi pare un’aberrazione. Il fatto che la mafia persegua i suoi traffici facendo sempre meno ricorso alla violenza, e sempre più alla trama di relazioni inquinate che riesce a stabilire con il Palazzo, non significa che tutti i corrotti debbano essere considerati alla stregua dei mafiosi. E invece proprio in quei mesi questa confusione illogica sta per realizzarsi con una legge che estende il Codice antimafia ai reati contro la pubblica amministrazione, fino al peculato. Chi non sa che cosa sia il Codice antimafia non può capire quanto sia grave questa decisione. Cominciamo con il dire che si tratta di una legge che disciplina un giudizio sommario, chiamato “procedimento di prevenzione”. È un rito in cui l’accertamento della verità non si fonda su prove, ma è supposto sulla scorta di indizi, sospetti, valutazioni probabilistiche che non hanno alcuna incontrovertibilità. Sulla base di accertamenti superficiali il procedimento di prevenzione sequestra e confisca beni e aziende e commina misure che limitano la libertà, con effetti non molto diversi da quelli prodotti dalle condanne penali e dalle misure cautelari, previste dal diritto ordinario. Con una differenza sostanziale: i destinatari delle misure di prevenzione spesso non sono colpevoli, cioè persone giudicate e condannate. E talvolta non sono neanche sospettati per un reato specifico. Sono però considerati soggetti pericolosi. E come si valuta la pericolosità? Dalla loro abituale condotta, dal tenore di vita, dall’idea che si mantengano con i proventi di delitti, ancorché non ci sia prova di alcun delitto specifico. Ma non finisce qui. Perché accade che la pericolosità si estenda dalle persone alle cose. Cosicché le misure di prevenzione si applicano anche nei confronti di quei beni che rischiano di finire nelle mani di persone pericolose. Con questa giustificazione vengono sottratti ai legittimi proprietari, che non sono pericolosi, ma che siano venuti in contatto, anche del tutto involontariamente, con altri soggetti giudicati a rischio. Talvolta i cittadini a cui sono stati confiscati i beni vengono anche giudicati innocenti, cioè sottoposti a un processo penale e assolti dal diritto ordinario, ma nel frattempo il patrimonio o l’impresa gli sono stati già confiscati dal diritto speciale di prevenzione. Pensate all’assurdo logico che si realizza quando una persona viene, allo stesso tempo, riconosciuta innocente e colpita da una misura afflittiva come la confisca di una casa o dell’azienda di una vita. Per trent’anni l’assurdo è stato spiegato così: tu non c’entri niente ma Io, Stato, mi prendo la tua proprietà per proteggerti, cioè per impedire che la mafia possa infiltrarsi. Con l’estensione delle misure di prevenzione l’equazione logica diventa: non so se tu sia persona onesta o corrotta, ma Io, Stato, mi prendo la tua proprietà per impedire che possa diventare oggetto di corruttela…”. “Talent”, “rating”, “like” se l’ossessione valutativa trasforma anche la scuola in addestramento di Paolo Giordano Corriere della Sera, 29 novembre 2022 Non sarà che ogni ragazzo o ragazza merita il contrario? Un campo libero per sperimentare. È un’età sacra che non riavrà. La passione per il giudizio assomiglia sempre più a un feticismo. Nel corso dell’ultimo decennio si sono moltiplicate le situazioni in cui abbiamo la possibilità di esprimere valutazioni: non solo i “Mi piace” dei social e i pollici di YouTube, ma tutti i rating che esprimiamo di continuo, sui ristoranti, i taxi, gli alberghi, i medici, i trasporti pubblici, le sconosciute e gli sconosciuti delle app d’incontri. Il nostro è il tempo dell’ossessione valutativa. Il massimo del godimento lo raggiungiamo guardando qualcuno che valuta qualcun altro. I talent di cucina, quelli di canto e ballo: l’attrazione che suscitano in noi non è tanto legata alla gara - come tradizionalmente negli sport competitivi - quanto all’ascolto dei giudici e all’osservazione dei concorrenti sottoposti alla loro sprezzatura, alla loro condiscendenza, al loro sporadico plauso. Il concorrente rimproverato provoca in noi una scarica di piacere singolare, ma non è nulla in confronto a quella che avvertiamo quando lo stesso concorrente viene invece “graziato”. Se il talent è un rito moderno - ed è difficile negare che lo sia -, qualcosa del suo meccanismo parla della nostra epoca, di noi e del sentirci continuamente misurati. Soppesati, confermati, disconfermati, minacciati da stellette e rating fra l’uno e il dieci: non ha mai fine. Nell’osservare gli altri esaminati con il massimo rigore assaporiamo il sollievo di non essere, per una volta, al loro posto. E quando la grazia, così capricciosa, scende su uno di loro, il sollievo è aumentato dal sapere che a riceverla potremmo essere, la prossima volta, noi. Da alcune settimane assisto allo sforzo di un laureato ventiquattrenne di inserirsi nel lavoro - le application (a decine), le interview, gli step successivi, i feedback - e provo un misto di rispetto e preoccupazione: rispetto per com’è capace di ricostruire sé stesso dopo ogni fallimento, preoccupazione per la sua tenuta psichica sulla lunga distanza. La pressione selettiva alla quale è esposto mi sembra perfino superiore a quella che abbiamo sperimentato i miei coetanei e io non troppi anni fa. Eppure, se gliene parlo, se gli confesso quanto mi appare irragionevole la fatica di Sisifo dei suoi colloqui, lui mi oppone un realismo venato di rassegnazione: così è, non puoi cambiare l’ecosistema che abiti, puoi solo adattarti per sopravviverci al meglio. Mi sono ritrovato a pensare insistentemente a tutto questo da quando si è deciso di dare risalto, fra le innumerevoli parole legate all’istruzione, proprio a “merito”. Mi sono ritrovato a pensare, più precisamente, a quanto il giudizio incessante e la pressione selettiva che noi adulti subiamo c’entrino con la scelta di quel termine specifico, a come c’entrino in uno strano modo vendicativo. La società che cerca una rivalsa contro i suoi più piccoli. D’altra parte, se dai vent’anni non esiste più molta scelta, se da allora in poi si è dentro il mondo con la sua ossessione di giudizio, perché dovrebbe essere così anche prima? Siamo davvero costretti a immaginare gli anni di formazione come un addestramento inevitabile, come l’imitazione di un’esistenza adulta che poi tenteremo di esorcizzare la sera, guardando talent in tv? Le riforme della scuola che si sono susseguite negli ultimi anni sembrano rispondere di sì, sempre di sì. E perché, invece, il prima non potrebbe essere semplicemente diverso? Poi mi vengono in mente il Covid e la pessima figura che noi adulti stiamo facendo mentre discutiamo se il merito sia “di destra o di sinistra” (idiozia), invece di occuparci di cos’è successo nell’interiorità, nelle stanze chiuse dei più giovani per due anni consecutivi - due anni! - e di come porvi rimedio. Ed è forse lo sconcerto per la nostra noncuranza a rendere l’idea che si è affacciata un attimo fa ancora più radicale, più di quanto io stesso mi sarei aspettato: nella prospettiva di una vita adulta che non offrirà riparo dalla valutazione incessante di sé, dai rating e dai mesi di selezione selvaggia come “capitale umano”, non sarà che ogni bambino o bambina, ragazzino o ragazzina merita esattamente il contrario? Non un addestramento, non delle prove generali di quella vita, bensì un campo libero, in cui sperimentare con meno giudizio possibile, oltre al sapere, anche la creatività, la latenza e l’indeterminatezza di un’età sacra, che non riavrà più? Le culle della diseguaglianza: se un bambino al Sud rischia di più che al Nord di Chiara Saraceno La Repubblica, 29 novembre 2022 In Italia non conta solo da chi si nasce, ma anche dove. I piccoli nel Mezzogiorno sono penalizzati rispetto al resto del Paese su salute, scuola, opportunità di crescere in modo adeguato. Sono dati su cui si dovrebbe riflettere quando si parla di autonomia differenziata. “Lotteria della nascita”, con questa efficace e drammatica immagine nel suo annuale Atlante dell’infanzia a rischio Save the Children mette a fuoco le diseguaglianze nella salute, in rapporto con altre diseguaglianze, appunto di contesto, ambientali, educative (con quelle che gli epidemiologi chiamano le determinanti sociali della salute) e nelle loro conseguenze sul benessere psicofisico delle bambine/i e adolescenti. L’Atlante descrive le profonde diseguaglianze a tutti i livelli - salute, sviluppo, opportunità di crescita - che caratterizzano le bambine/i e adolescenti oggi in Italia per il fatto di nascere in famiglie di diversa condizione sociale e di abitare in una zona del Paese. L’origine di nascita continua a essere un destino sociale difficilmente modificabile nonostante l’Italia sia un Paese democratico e a economia avanzata, la cui carta fondativa, la Costituzione, sancisce solennemente (all’articolo 3) l’obbligo della Repubblica a eliminare gli ostacoli che si sovrappongono allo sviluppo della personalità. Ostacoli che per un bambino possono voler dire anche morire precocemente, se la sua mamma non ha avuto accesso a cure e alimentazione adeguate in gravidanza e se alla nascita e nel primo anno di vita non trova le necessarie risorse alimentari, le cure parentali, abitative, mediche. La “lotteria della nascita” nel nostro Paese si intreccia con la “lotteria territoriale”. Non conta solo da chi si nasce, ma anche dove, a partire dalle stesse chance di sopravvivenza. Lo diamo fatalisticamente per scontato quando consideriamo le diverse possibilità di vita che incontra chi nasce in un Paese povero e in via di sviluppo rispetto al ricco Occidente. Ma vale anche per l’Italia, uno degli otto Paesi più sviluppati e ricchi al mondo. Non più tardi di un anno fa una ricerca di due studiosi pediatri (De Curtis e Simeoni) ha documentato che ancora oggi, nonostante il tasso di mortalità neonatale e infantile (entro il primo anno di età) sia in Italia comparativamente basso, oltre il 45% di tutte le morti nel primo anno di vita avviene nel Mezzogiorno. E un bambino che nasce da genitori residenti nel Mezzogiorno ha un rischio del 50% maggiore di morire prima di compiere un anno rispetto a uno che nasce nel Centro-Nord. La situazione è ancora peggiore per i neonati stranieri. All’origine di questo drammatico divario nelle chance di sopravvivenza, che si accompagna a peggiori condizioni di salute nel corso della vita per chi sopravvive, sta la maggiore incidenza della povertà nelle regioni meridionali, ma anche la carente distribuzione dei servizi sanitari, a partire dai pediatri (a livello nazionale mancano all’appello nel sistema sanitario nazionale almeno 1.400 pediatri), che a sua volta si somma a minori risorse educative pubbliche, dagli asili nido al tempo pieno scolastico - più in generale a una dotazione più bassa di infrastrutture sociali, dai consultori, per altro progressivamente smantellati e “asciugati” nel personale e prestazioni sul territorio nazionale, alle assistenti sociali. Un bambino che vive nel Mezzogiorno, se si ammala, ha un rischio di dover migrare in altre regioni per curarsi più elevato del 70% rispetto a un bambino che vive nel Centro o Nord Italia. Tra i bambini più poveri, su tutto il territorio nazionale, molti non vedono mai un pediatra nel corso dell’anno, perché non c’è il pediatra di base o è sovraccarico. La scuola a tempo pieno, mensa inclusa, è pressoché assente in gran parte del Mezzogiorno, talvolta a partire dalla scuola per l’infanzia, anche se la povertà alimentare è in crescita soprattutto, anche se non solo, in quelle regioni. Si aggiunga anche la diseguale dotazione a livello sia regionale sia infra-territoriale di cinema, teatri, piscine, centri sportivi, ovvero di risorse non solo sanitarie e scolastiche ma fondamentali per una crescita adeguata e in salute. Sono dati su cui si dovrebbe riflettere quando si parla di autonomia differenziata e di distribuzione delle risorse comuni tra regioni sulla base della spesa storica. Si parla tanto di inverno demografico e della necessità di favorire le scelte positive di fecondità. Ma un Paese che lascia sistematicamente, anche tramite le proprie scelte politiche e amministrative, così tanti bambini e adolescenti privi delle risorse necessarie per crescere adeguatamente se lo merita per intero. Anzi, se lo è preparato sistematicamente da sé. Allarme caporalato: nei campi un lavoratore su 3 è irregolare di paolo baroni La Stampa, 29 novembre 2022 Il nuovo rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai: punte del 40% al Sud e del 20-35 al Centro Nord. Incidenza doppia tra gli stranieri. Un lavoratore su 3 impiegato in agricoltura è irregolare. In tutto, stando ai dati più recenti, parliamo di circa 230 mila addetti, oltre 55 mila le donne, in larga parte “concentrati nel lavoro dipendente, che include una fetta consistente degli stranieri non residenti impiegati in agricoltura” denuncia iI VI Rapporto agromafie e caporalato realizzato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil. Che classifica come irregolari ben 300 milioni di ore lavorate su un totale di 820 milioni. E se è vero, come segnala lo studio, che il lavoro agricolo subordinato non regolare è radicato soprattutto in Puglia, Sicilia, Campania, Calabria e Lazio con tassi di irregolarità che superano il 40%, è anche vero che in molte regioni del Centro-Nord gli occupati non regolari rappresentano una quota ugualmente rilevante, compresa tra il 20 e il 30%. Percentuali, al Nord come al Sud, che raddoppiano quasi prendendo in considerazione il peso dei lavoratori migranti, in particolare quello dei cittadini comunitari. In oltre il 70% dei casi si tratta di lavoratori dipendenti e, tra questi, in larga parte occupati in regime di part-time col risultato in queste fasce di lavoratori i tassi di irregolarità assumono valori decisamente più elevati rispetto a quelli dell’intero settore agricolo. Il lavoro povero - Altra caratteristica del comparto agricolo è quella di generare “lavoro povero” ove prevalgono individui, che pur avendo lavorato, mostrano redditi personali e familiari decisamente al di sotto dei valori medi. In particolare, in Italia circa 8,6 milioni di individui hanno in Italia un reddito disponibile familiare equivalente annuo inferiore alla metà del reddito mediano misurato su tutti i residenti (cioè inferiore a 8.300 euro). Escludendo i lavoratori stranieri non residenti, poco meno di un terzo dell’occupazione agricola (pari a oltre 300 mila unità) ricade in questa area a bassissimo reddito, con un’incidenza che è il triplo di quella media, senza contare un ulteriore 3,7% di occupati agricoli che vive in famiglie prive di segnali di redditi emersi. Estendendo l’analisi anche alle famiglie degli occupati in nero in agricoltura, la ricerca dell’Osservatorio Placido Rizzotto mette in evidenza il fatto che questo tipo di occupazioni non siano in grado di svolgere un ruolo di paracadute in termini di sostegno economico: infatti, la vulnerabilità economica individuale non sembra essere affievolita dalla presenza di un contesto familiare di sostegno sia a causa della ridotta numerosità dei componenti del nucleo, sia del loro stato occupazionale. Se, in generale, le famiglie con almeno un occupato nel settore agricolo sono mediamente piuttosto numerose (circa il 40% di esse ha almeno quattro componenti e, in oltre il 55% dei casi, si tratta di coppie con almeno un figlio), il sottoinsieme di famiglie con almeno un occupato non regolare è mediamente di dimensione assai più contenuta e, in particolare, si tratta in prevalenza di famiglie monocomponente e, a seguire, di coppie senza figli con soggetto di riferimento ultra sessantaquattrenne e poi di famiglie monogenitore. Le inchieste - L’estrema vulnerabilità della parte più fragile dell’occupazione agricola secondo la ricerca dell’Osservatorio della Flai è, peraltro, evidenziata anche dal numero di procedimenti e di inchieste avviate per motivi di sfruttamento lavorativo che sono stati censiti. Nel quinquennio 2017-2021, infatti, su un totale di 438 casi ben 212 (oltre il 48%) hanno riguardato il solo settore primario. “Aspetto interessante, ma non sorprendente - sottolinea la Flai-Cgil - è che le inchieste sull’agricoltura sono prevalentemente incardinate presso le Procure del Sud Italia: questo aspetto emerge chiaramente per gli anni 2017-2018 (per il 2017, su 14 procedimenti relativi al settore agricolo, ben 12 riguardavano il Meridione; nel 2018, il rapporto era di 23 inchieste su 43) ma, a dire il vero, trova conferma anche nel monitoraggio dal 2019 al 2021, anche se con una leggera flessione, per cui le vicende del Sud Italia sono poco più della meta? di tutte quelle che coinvolgono lavoratori agricoli (31 su 55 per il 2019; 24 su 51 per il 2020; 28 su 49 per il 2021)”. Appalti illeciti - Il VI Rapporto agromafie e caporalato, con gli approfondimenti territoriali in Friuli-Venezia Giulia, nel Veneto e con il caso Italpizza, quest’anno mette in luce anche l’evoluzione del caporalato nelle filiere produttive agroalimentari puntando il dito contro appalti e sub appalti illeciti, “sapientemente orchestrati da “colletti bianchi” senza scrupoli, con girandole di pseudo imprese, spesso false cooperative, ma anche Srl farlocche quasi sempre intestate a compiacenti prestanomi, rappresentano l’evoluzione dell’intermediazione illecita di manodopera, che può essere definita “nuovo caporalato” o caporalato industriale”. Un’evoluzione diventata un modello d’organizzazione del lavoro per imprese senza scrupoli - viene denunciato dal sindacato - che, pur di essere più competitive e di aumentare le proprie marginalità, calpestano contratti di lavoro, la dignità delle persone e le Leggi dello Stato. Un “modello” che non interessa solo le imprese dell’agroalimentare, ma che parte dai campi ed arriva fino agli ospedali, passando dai macelli e, come nel caso scrutato in quest’ultimo Rapporto, fino in Italpizza. Alto tasso di evasione - Il sistema degli appalti e dei sub appalti consente infatti a committenti spregiudicati di avvalersi di manodopera a costi bassissimi, in alcuni casi oltre il 40%, con improprie applicazioni contrattuali (logistica e multiservizi per lavorazioni del processo produttivo dell’industria alimentare), con orari e ritmi di lavoro pesantissimi, ma che genera anche imponenti evasioni da parte delle pseudo imprese appaltatrici che non saldano i propri debiti con lo Stato (Iva, Irap, contributi Inps) o con le banche (per gli anticipi fatture che non vengono negati quando c’è una facoltosa e sicura committenza). L’evasione dell’Iva e di tutte le altre imposte che gravano sulle imprese per questo viene così definita “la vera forza” motrice del sistema degli appalti irregolari. Cosa prevede la proposta europea per un regolamento in difesa dei media di Vitalba Azzollini* Il Domani, 29 novembre 2022 Lo scorso 16 settembre la Commissione europea ha approvato una proposta di regolamento e una raccomandazione sulla libertà dei media, aprendo una consultazione pubblica che si concluderà il prossimo 20 gennaio. La proposta dovrà poi essere adottata dal parlamento e dal Consiglio europeo. Mira a creare un quadro di regole comuni, per proteggere il pluralismo e l’indipendenza dei media nell’Unione europea rispetto a interferenze politiche, pressioni o spionaggio. Va premesso che la libertà dei media e il loro pluralismo sono tutelati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (articolo 11) e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 10). Tuttavia, le relazioni sullo stato di diritto predisposte dalla Commissione europea nel corso degli anni e il “Media Pluralism Monitor” del Centre for Media Pluralism and Media Freedom, centro cofinanziato dall’Unione europea, evidenziano problemi legati alla politicizzazione dei media, alla mancanza di trasparenza della loro proprietà, all’attenuazione della tutela al diritto all’informazione. Nel 2022 la Commissione ha adottato una raccomandazione sulla protezione dei giornalisti e dei difensori dei diritti umani attivi da procedimenti giudiziari manifestamente infondati o abusivi (Raccomandazione 2022/758, Strategic Lawsuit Against Public Participation, Slapp). La raccomandazione intende contrastare le “azioni legali strategiche”, vale a dire intentate per “sottoporre a vessazioni e mettere a tacere i convenuti”. In sintesi, per intimidire le voci critiche, incidendo sulla loro credibilità, ed “esaurire le loro risorse finanziarie e di altro tipo”. È bene dare conto della nuova proposta di regolamento, specie in questo momento. Com’è noto, Domani è destinatario di denunce da parte di esponenti politici. La proposta di regolamento - La proposta di regolamento europeo intende creare le condizioni affinché i media - pubblici e privati - possano operare più facilmente a livello transfrontaliero nel mercato interno dell’Unione europea, attraverso un quadro normativo che, superando le differenze nazionali, fornisca garanzie e meccanismi comuni a tutela del loro buon funzionamento. “Le ingerenze pubbliche e private indeboliscono l’indipendenza dei media”, scrive la Commissione. Le scelte editoriali non devono essere influenzate da parte degli stati membri, delle autorità di regolazione e di altri soggetti. Inoltre, non devono potersi realizzare attività di sorveglianza o intercettazione a carico dei fornitori dei media, dei loro dipendenti o familiari. La proposta impone agli stati di migliorare la protezione delle fonti giornalistiche e vieta di perseguire penalmente i giornalisti che tutelano la riservatezza delle proprie fonti. Sempre a fini di indipendenza editoriale, si prevede che i fornitori di servizi di media, con esclusione delle micro-imprese, assicurino la trasparenza di proprietà e finanziamenti. L’obiettivo è quello di fare emergere elementi idonei a influenzare operazioni e decisioni strategiche, nonché di rilevare conflitti di interessi attuali o potenziali. Le misure di trasparenza, tuttavia, non sono vincolanti, essendo rimesse alla raccomandazione che accompagna il regolamento. La proposta contiene, inoltre, tra le altre cose, norme relative all’indipendenza e al finanziamento stabile dei media del servizio pubblico; alla pubblicità su tali media; alla trasparenza e all’obiettività dei sistemi di misurazione dell’audience, dato l’impatto che essi hanno sugli introiti pubblicitari dei media, in particolare online. Inoltre, gli stati membri dovranno valutare non solo la conformità delle concentrazioni nel mercato dei media alla relativa disciplina, ma anche l’incidenza delle concentrazioni stesse sul pluralismo e sull’indipendenza editoriale. Ancora, il regolamento prevede che le piattaforme online di maggiori dimensioni (con oltre 45 milioni di utenti nell’UE) che intendono eliminare contenuti considerati contrari alle politiche della piattaforma - ad esempio, in attuazione del nuovo codice di buone pratiche sulla disinformazione - comunichino ai fornitori di servizi di media i motivi della prevista eliminazione prima che la stessa abbia effetto; e che eventuali reclami siano trattati in via prioritaria. Infine, la proposta normativa dispone l’istituzione di un Comitato indipendente per i servizi dei media (European Board for Media Services), costituito dalle autorità nazionali di regolamentazione del settore, con il compito di assistere la Commissione nella preparazione di orientamenti sulla disciplina dei servizi informativi e formulare pareri in merito alle misure e alle decisioni nazionali riguardanti i mercati dei media. Il comitato dovrebbe altresì coordinare le misure normative nazionali relative ai media di paesi terzi che presentano un rischio per la sicurezza pubblica. Il pensiero va alle recenti sanzioni europee nei confronti dei media russi, bloccati nei paesi dell’Unione europea. La libertà dei media - “In numerosi stati membri si registrano crescenti ingerenze nelle decisioni editoriali” - si legge nella proposta di regolamento - “ingerenze che possono essere dirette o indirette, esercitate dallo stato o da altri soggetti, tra cui autorità pubbliche, funzionari eletti, funzionari amministrativi e personaggi politici, ad esempio al fine di ottenere un vantaggio politico”. Il regolamento è destinato a incidere soprattutto su alcuni paesi dell’est Europa, dove i limiti alla libertà di stampa sono palesi. Ma avrà rilievo anche per altri stati. In Italia si riscontrano da anni storture determinate dalla concentrazione della raccolta pubblicitaria su mezzo televisivo, dal controllo del servizio pubblico da parte delle maggioranze dei governi pro tempore, dalle querele presentate contro giornali e giornalisti che provano a svolgere con coraggio il proprio mestiere. E Domani può dirlo con cognizione di causa. Del resto, secondo l’ultimo World Press Freedom Index - una classifica annuale che valuta lo stato del giornalismo e il suo grado di libertà in 180 paesi del mondo - l’Italia occupa attualmente la 58esima posizione, perdendo 17 posti rispetto al 2021 e al 2020. La principale novità rispetto agli anni scorsi è legata all’autocensura. “I giornalisti a volte cedono alla tentazione di autocensurarsi”, per evitare, tra le altre cose, “una denuncia per diffamazione o altre forme di azione legale”, si legge nel report. Il rapporto evidenzia anche “un certo grado di paralisi legislativa”, che “sta frenando l’adozione di vari progetti di legge” finalizzati alla tutela dell’attività giornalistica. Nei giorni scorsi, su queste pagine, sono stati rilevati i ritardi, la lacunosità e la scarsa adeguatezza di una proposta legislativa nazionale su questo tema. Il contrasto alle querele temerarie, cui potrebbe contribuire il regolamento europeo, è destinato a restare una mera dichiarazione di principio, se non realizzato nei fatti dai singoli stati. Si auspica comunque il regolamento sia adottato al più presto. In questo momento, qualunque atto che solleciti interventi concreti può essere importante. *Giurista Julian Assange non è più solo. I media contro l’estradizione di Vincenzo Vita Il Manifesto, 29 novembre 2022 New York Times, Guardian, Le Monde: l’appello del network di giornali che ha lavorato con l’attivista. Forse siamo di fronte ad una svolta decisiva. Gli editori e la redazione di New York Times, Guardian, Le Monde, Der Spiegel, El Pais hanno scritto un appello assai importante sul caso del fondatore di WikiLeaks “…è tempo che il governo degli Stati uniti ponga fine alla causa contro Julian Assange per aver pubblicato segreti di stato”. Si tratta di una pagina rilevantissima della sequenza che iniziò nel 2010, quando i cinque giornali internazionali (un network cui parteciparono gli italiani Espresso e la Repubblica nel periodo in cui sulle testate scriveva Stefania Maurizi, autrice del recente volume Il potere segreto) pubblicarono molte rivelazioni nate dal lavoro del gruppo diretto dal giornalista australiano. Com’è noto, le notizie riguardavano i misfatti delle guerre in Iraq e in Afghanistan, nonché una serie di 251.000 messaggi riservati del dipartimento di Stato Usa. Il cosiddetto Cablegate svelava brutture e arcani indicibili, ivi comprese gesta italiane non commendevoli. I giornali in questione, pur blasonati e interni alle élite internazionali, abbassarono la testa già nel 2011, quando le onde cominciarono ad incresparsi. E Assange fu lasciato solo, salvo l’impegno della citata Maurizi e di pochi altri. Secondo le logiche spietate della repressione, la mannaia non tardò a calare sulla testa di un perfetto capro espiatorio, del nemico pubblico costruito a tavolino. Come si evince dal testo pubblicato dal Guardian, il coraggioso navigatore dei mondi oscuri delle democrazie occidentali (Russia e Cina sono oggetto della polemica sulle libertà più agevoli e consueti) passò sul banco degli accusati. E, con somma ignominia del mondo dell’informazione che lo abbandonò per viltà, venne escogitata l’inverosimile minaccia di condanna per spionaggio in base ad una lontana legge del 1917. Quindi, non essendo riconosciuta l’appartenenza alla categoria professionale, Assange non si vide riconosciuto il trattamento pur con fatica riservato ai protagonisti dei Pentagon Papers ai tempi della guerra del Vietnam: allora il primo emendamento della Costituzione di Washington fu lo scudo salvifico, mentre il ricorso all’Espionage Act travolse ogni certezza ne e del rapporto con la ricerca della verità. Ora i quotidiani fratelli-coltelli fanno un’autocritica operosa, chiedendo alla all’amministrazione Biden di non incriminare Assange, come decise Obama per non vessare i principali organi di stampa coinvolti. In realtà, è una versione alquanto edulcorata della storia, perché i guai giudiziari cominciarono proprio in quella stagione, ancorché fosse poi l’età di Trump a precipitare verso la coercizione, per procura: grazie ai servigi della Svezia con le accuse di violenza sessuale poi ritrattate, e in virtù dell’azione poliziesca della fida Gran Bretagna. Proprio a Londra avvenne l’arresto il 12 aprile del 2019. Assange è rinchiuso nel carcere speciale di Belmarsh nel Regno unito e si stanno definendo proprio in questi giorni le procedure dell’appello contro l’estradizione oltre oceano, grazie al collegio difensivo di cui è componente la moglie avvocata Stella Morris. Sono intervenuti contro la condanna (175 anni in un apposito penitenziario) i presidenti del Brasile Lula e del Perù Pedro. Molteplici voci della cultura si sono levate a favore di Assange e numerosi comitati sono in piena attività. La Federazione internazionale della stampa e la gemella italiana hanno assunto come propria l’iniziativa e l’ordine dei giornalisti ha consegnato al padre John Shipton - in occasione del premio dedicato a Roberto Morrione tenutosi in ottobre a Torino- la tessera professionale ad honorem. Proprio tale riconoscimento, unito all’appello dei quotidiani, costituisce la premessa per la restituzione alle garanzie proprie del diritto di cronaca della vittima sacrificale. Insomma, se una rondine non fa primavera, un’ammissione di colpa così forte da parte di chi ha alimentato le volontà delle istituzioni colpevoli è una rottura della continuità feroce degli ultimi anni. Joe Biden ascolterà? Quanto peserà sulle sue sensibilità l’orrore della guerra in Ucraina con le geopolitiche segnate dal conflitto? Troppo per un’immediata decisione. Tuttavia, all’establishment democratico non è certamente sfuggita la morale delle recenti elezioni di midterm: se si vuole frenare la parabola della destra repubblicana, qualche segnale dovrà pure uscire dalla Casa Bianca. A proposito, ma la Repubblica si associa o no ai vecchi compagni di ventura? “Il giornalismo non è un crimine” Il Manifesto, 29 novembre 2022 L’appello per Assange dei maggiori editori del mondo al governo degli Stati uniti. Il giornalismo non è un crimine, il governo degli Stati Uniti deve porre fine alla causa contro Julian Assange per aver pubblicato segreti di stato. Dodici anni fa, il 28 novembre 2010, i nostri cinque giornali internazionali - New York Times, Guardian, Le Monde, El País e Der Spiegel - hanno pubblicato una serie di rivelazioni in collaborazione con WikiLeaks che hanno fatto notizia in tutto il mondo. Il “Cablegate”, una serie di 251.000 messaggi riservati del dipartimento di stato degli Stati Uniti, ha rivelato corruzione, scandali diplomatici e affari di spionaggio su scala internazionale. Nelle parole del New York Times, i documenti raccontavano “la storia senza veli di come il governo prende le sue decisioni più importanti, le decisioni che costano di più al paese in vite e in denaro”. Anche oggi, nel 2022, giornalisti e storici continuano a pubblicare nuove rivelazioni, utilizzando il tesoro unico di quei documenti. Per Julian Assange, editore di WikLeaks, la pubblicazione del “Cablegate” e diverse altre fughe di notizie correlate ha avuto le conseguenze più gravi. Il 12 aprile 2019, Assange è stato arrestato a Londra su un mandato di arresto degli Stati Uniti ed è ora detenuto da tre anni e mezzo in una prigione britannica ad alta sicurezza di solito utilizzata per i terroristi e i membri della criminalità organizzata. Affronta l’estradizione negli Stati Uniti e una possibile condanna fino a 175 anni in una prigione americana di massima sicurezza. Questo gruppo di giornalisti ed editori, che hanno tutti lavorato con Assange, nel 2011 ha sentito la necessità di criticare pubblicamente la sua condotta, quando sono state rilasciate copie integrali non redatte dei messaggi, e alcuni di noi sono preoccupati per le accuse sulla sua presunta complicità nel tentativo di intrusione informatica in un database classificato. Oggi però ci uniamo tutti insieme per esprimere le nostre gravi preoccupazioni per il continuo perseguimento di Julian Assange per aver ottenuto e pubblicato materiali classificati. L’amministrazione Obama-Biden, in carica durante la pubblicazione di WikiLeaks nel 2010, si è astenuta dall’incriminare Assange, spiegando che avrebbero dovuto incriminare anche i giornalisti dei principali organi di stampa. Quella loro posizione ha difeso la libertà di stampa, nonostante le sue conseguenze scomode. Sotto Donald Trump, tuttavia, la posizione del governo è cambiata. Il Dipartimento della Giustizia si è basato su una vecchia legge, l’Espionage Act del 1917 (una norma pensata per perseguire potenziali spie durante la prima guerra mondiale), che non è mai stata utilizzata per perseguire un editore o un’emittente. Questa accusa stabilisce un pericoloso precedente e minaccia di minare il primo emendamento della Costituzione americana e la libertà di stampa. Ottenere e divulgare informazioni sensibili quando è necessario nell’interesse pubblico è una parte fondamentale del lavoro quotidiano dei giornalisti. Se questo lavoro viene criminalizzato, il nostro discorso pubblico e le nostre democrazie sono resi significativamente più deboli. Dodici anni dopo la pubblicazione dei “Cablegate”, è tempo che il governo degli Stati Uniti ponga fine alla causa contro Julian Assange per aver pubblicato segreti di stato. Pubblicare non è un crimine. Gli editori e la redazione di New York Times, Guardian, Le Monde, Der Spiegel, El País Iran. Alessia Piperno su Instagram: “Ho visto, subìto, e sentito cose che non dimenticherò mai” di Laura Martellini Corriere della Sera, 29 novembre 2022 La travel blogger rompe il silenzio con un lungo post in cui racconta la durezza del carcere di Evin in cui è stata detenuta: “Lunedì la doccia, martedì 5 minuti d’aria. E urla senza interruzione”. Cartoline dall’inferno. Alessia Piperno torna a fare la travel blogger, scrivendo le sue impressioni di viaggio in un post dopo la detenzione per 45 giorni in Iran e il rientro in Italia il 10 novembre scorso dai suoi familiari, a Roma. Persa la spensieratezza dei primi viaggi carichi di colori e di affreschi accattivanti, ora a prevalere sono il dolore e l’amarezza. “Nei primi giorni di settembre andai a visitare per la prima volta nella mia vita una prigione a Teheran - racconta Alessia su Instagram, accompagnando il messaggio, quasi a contrasto, con una foto in cui si riflettono sul suo viso i riflessi di vetrate colorate, indosso una tunica fiorata con cappuccio -. Si trattava del carcere di Ebrat, ormai diventato museo, ma che una volta era utilizzato dalla polizia segreta Savak, per torturare i detenuti. Rimasi tra quelle mura per diverse ore, cercando di immaginare la paura che si viveva all’interno di quelle celle”. E poi: ““Le urla dei prigionieri si sentivano per tutta la prigione”: così mi raccontò la mia guida. In qualche modo sembrava come se quelle grida fossero ancora scolpite nei muri e che viaggiassero tra quei corridoi. “Esistono ancora prigioni così in Iran?” domandai alla mia guida. Lui sospirò: “Purtroppo sì, la prigione di Evin, che si trova proprio nella parte nord di Teheran”. Sentii i brividi corrermi su tutto il corpo, senza lontanamente immaginare che ventuno giorni dopo, sarei stata anche io, una detenuta, proprio in quella prigione”. La trentenne romana che finora aveva preferito il silenzio apre la porta per la prima volta su ricordi dolorosissimi: “Non avevamo fatto nulla per meritarci di essere rinchiusi tra quelle mura, e non posso negare che siano stati i i giorni più duri della mia vita. Ho visto, subìto, e sentito cose che non dimenticherò mai, e che un giorno mi daranno la forza per lottare accanto al popolo iraniano. Al tempo, non avevo partecipato alle proteste, perché ci era stato sconsigliato, e il rumore degli spari mi metteva paura. Adesso è diverso. Sono a casa, tra la mia famiglia e i miei amici, libera sì, ma fisicamente. È la mia mente a non esserlo, perché in quell’angolo di inferno sono ancora rinchiuse le mie compagne di cella, migliaia di iraniani, e il mio amico Louis”. Una confessione ad ampio raggio, che smentisce l’iniziale rassicurazione a tutti, “è stata dura ma non mi hanno maltrattata”: “Sono tornata a una vita normale - prosegue: esco, a volte rido, faccio progetti per il mio futuro, e dormo in un letto. Oggi è lunedì, oggi in prigione si fa la doccia. Domani è martedì, ci sono i 5 minuti d’aria. La mia mente ora vive un po’ così, tra sorrisi, in un letto soffice, un piatto di pasta, e tra mura bianche dove le urla non cessano mai e dove l’aria si respira per cinque minuti, due volte a settimana”.