Morire di carcere. I detenuti si uccidono 18 volte di più delle persone libere: una strage mai vista nell’indifferenza del Paese di Carlo Bonini, Giuliano Foschini, Fabio Tonacci La Repubblica, 27 novembre 2022 Il 2022 segna il macabro record dei suicidi dietro le sbarre. Cronaca di una strage nell’indifferenza del Paese. In Italia, quest’anno, settantanove persone sono morte di carcere. Sotto i nostri occhi. Nelle nostre mani. Perché quelle settantanove persone - un condominio intero, due autobus, venti autovetture cariche di uomini e donne - si sono tolte la vita mentre erano nella custodia e sotto la responsabilità dello Stato. In una cella di un penitenziario ligure o siciliano, in Lombardia come in Puglia: detenuti che si sono impiccati con i lacci delle scarpe, si sono soffocati con buste di plastica, si sono avvelenati con il gas dei fornelli per cucinare. Il 2022 è l’annus horribilis delle prigioni italiane: mai tanti suicidi, un record assoluto. Ma è una strage che non fa rumore, che non trova spazio nei titoli dei telegiornali, non diventa virale sui siti. E che, nei numeri, testimonia un fallimento. Il tasso di suicidi dietro le sbarre è 18 volte superiore a quello del mondo dei liberi. Cifre che sorprendono persino chi di reclusione, pene, condannati e percorsi di reinserimento in società si occupa tutti i giorni. Nel 2011 i suicidi furono 66. In quell’occasione si disse che non bastava sorvegliare i detenuti: era necessario intervenire sulle cause. Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap) il 25 novembre di quell’anno emanò una circolare che istituiva per la prima volta gruppi di lavoro composti anche da medici e psicologi per stilare programmi di prevenzione del rischio suicidario. Qualcosa migliorò. Qualcosa. Ma ancora troppo poco. Nel 2013 si contarono 40 suicidi. Abbastanza per convincere la Corte europea dei diritti dell’uomo a condannare l’Italia per trattamenti inumani e degradanti nelle sue galere. Il caso all’origine della pronuncia, quello di sette detenuti che negli istituti di Busto Arsizio e Piacenza vivevano con meno di quattro metri quadrati a disposizione, era il simbolo di un sistema penitenziario costruito su un circuito di case circondariali, dove finisce chi compie reati con pena inferiore ai cinque anni, e case di reclusione. Dopo la sentenza Torreggiani l’indice di affollamento nel 2014 passò dai 66 mila ai 58 mila detenuti. Ci si convinse che il problema fosse quello lì: il sovraffollamento. E invece no, non esisteva una correlazione così diretta. Il sovraffollamento, come avrebbe dimostrato il tempo, certamente incideva, ma non era e non è decisivo. Prendiamo gli ultimi quattro anni. La popolazione carceraria decresce, i suicidi aumentano. Nel 2019 a fronte di una media annuale di 60.522 detenuti, i suicidi sono 54. Nel 2020, a fronte di 53.579 detenuti sono 62. Nel 2021 se ne contano 58. Poi, il 2022. Al 27 novembre siamo già a settantanove suicidi e 1.639 tentativi di suicidio su 54.841 carcerati. Un dato peggiore persino di quello registrato nel 2009, quando si tolsero la vita in 72 e i giornali, pochi, scrissero che era stato raggiunto un non invidiabile record storico. L’ingresso, il momento più delicato - Affrontare il fenomeno affidandosi ai numeri e alla loro curva nel tempo ha il pregio della documentazione inoppugnabile, ma lo svantaggio della spersonalizzazione. Rende gli esseri umani addendi e percentuali di una tabella. Un po’ come in guerra, con la contabilità delle perdite al fronte. E tuttavia, i dati aiutano a identificare il punto debole del sistema, lì dove le fragilità dell’essere umano si trasformano nell’atto di autolesionismo definitivo. “Tre persone si sono suicidate entro le 24 ore dall’ingresso nell’istituto, tre si sono suicidate dopo due giorni, due dopo tre giorni, una dopo sei giorni…”. Mauro Palma, scrupoloso Garante dei detenuti, non ha più nemmeno bisogno di controllare le cartelle nel suo pc. Sgrana il rosario a memoria. “E non stiamo parlando di condannati in via definitiva, ma di chi era in attesa del giudizio di primo grado. Come si fa ancora a sostenere che la colpa sia del sovraffollamento?”. La burocrazia ha dato un nome a chi arriva dal mondo dei liberi: nuovi giunti. Le carceri hanno dei reparti a loro dedicati, sono camere di compensazione psicologica per attenuare l’impatto della reclusione. Di solito i nuovi giunti vi restano per tre giorni: vengono sottoposti a visita medica, hanno il colloquio con lo psicologo e incontrano i mediatori, prima di essere trasferiti nei circuiti carcerari. Che sono quattro: la “media sicurezza” per i reati comuni, lo spazio più promiscuo e il meno controllato; l’ “alta sicurezza”; il “reparto protetti” (per chi ha compiuto reati efferati o infamanti); il “41 bis” per i mafiosi. Scartabellando però tra le statistiche che descrivono e definiscono l’attuale popolazione carceraria, Palma nota qualcosa di strano. O meglio, qualcosa che in un sistema virtuoso non dovrebbe esistere. “Ci sono 1.492 persone in carcere per reati che hanno una pena inferiore a un anno, altre 2.595 con pene da uno a due anni, 4.079 con pene da due a tre anni. Potrebbero beneficiare dell’affidamento in prova ai servizi sociali, come prevede la legge, ma trattandosi di senza fissa dimora, stranieri, indigenti, non possono pagare un legale né vengono informati dei propri diritti”. Ottomila detenuti che sarebbero fuori, se solo avessero uno straccio di avvocato. Alessandro Gaffoglio, storia di una notte di Ferragosto Di Alessandro avevano detto: “Sta bene, è stato soltanto un attimo”. E un attimo è stato, ma bene non stava affatto. Quando le guardie penitenziarie lo hanno trovato morto, Alessandro era nascosto sotto le coperte, come un bambino, forse per non farsi riprendere dalle telecamere di sorveglianza. Aveva una busta di nylon stretta intorno al collo, che gli copriva naso, bocca e quei lunghi capelli neri a cespuglio che gli incorniciavano la testa per ricordare a tutti che, certo, era di Torino ma arrivava dal Brasile. È morto così, nella notte di Ferragosto, quella che i ragazzi della sua età, Alessandro aveva appena 24 anni, avrebbero il diritto di passare su una spiaggia, sotto il cielo di una montagna, insomma in un posto senza un tetto sulla testa, possibilmente con un po’ di musica nelle orecchie. Alessandro era finito per la prima volta in un carcere, a Torino, la città della sua seconda vita, quella fortunata. Era arrivato dal Brasile a otto anni, adottato da una coppia piemontese. Aveva trovato tutto ciò che non gli era stato dato. E tuttavia le strade hanno la capacità di complicarsi, in alcune esistenze. Dopo l’infanzia disperata dall’altra parte del mondo aveva conosciuto un’adolescenza difficile in Piemonte. Quella rabbia che alle volte prende lo spazio della felicità. Alcuni disturbi di comportamento, le droghe come causa o, forse, conseguenza. Era arrivato così a 24 anni, Alessandro, mentre studiava e lavorava come garzone in un negozio take away. Il 2 agosto scorso era stato arrestato con un coltello in mano mentre tentava di rapinare un supermercato. Era il secondo. Il primo colpo gli era già riuscito. Cercava soldi per comprare stupefacenti. Una volante lo aveva accompagnato al Lorusso e Cotugno, la prigione della città. Nonostante l’incontro coi mediatori, l’impatto con la sezione dei “nuovi giunti” era stato pessimo. Alessandro aveva subito pensato che poteva bastare così, ma dopo il tentato suicidio nessuno aveva avvisato né i suoi genitori né il suo legale. Lo avevano portato nell’infermeria, coi pazienti psichiatrici. Da qui, dopo un consulto con i medici, era stato trasferito nel reparto “Sestantino”, fatto di celle singole dove viene messo chi dev’essere monitorato 24 ore su 24. Le telecamere interne erano accese, gli agenti penitenziari tutto sommato erano tranquilli. E invece Alessandro aveva preso quella busta di nylon e infilato i suoi riccioli neri sotto le coperte. Suicida numero 51. Il giorno dopo avrebbe dovuto incontrare suo padre al colloquio. La procura di Torino, per verificare se ci siano state negligenze da parte del personale e degli operatori, ha aperto un fascicolo d’inchiesta per omicidio colposo. I danni collaterali del Covid: mancano educatori e mediatori “Mancano gli educatori”, sostiene il Garante Mauro Palma. “Ce ne sono 700 sui 900 previsti dalle piante organiche ministeriali e visitano meno di quanto dovrebbero le sezioni: oberati come sono di lavoro, per lo più impiegano il tempo a stilare le relazioni personali per i magistrati di sorveglianza che devono decidere se concedere o meno qualche beneficio. Per colpa della pandemia del Covid, inoltre, la rete di assistenza dei mediatori e dei volontari non è ancora tornata pienamente in funzione”. Tocca dunque ai poliziotti della Penitenziaria supplire alla mancanza e fungere, insieme, da psicologi, mediatori culturali, interpreti. Senza averne i titoli e le competenze.  L’impatto col mondo dei reclusi era il momento più delicato anche prima del Covid. Lo documentò Luigi Manconi una decina di anni fa con un paio di ricerche universitarie condotte insieme col professor Giovanni Torrente. “Oggi come allora rimane uno dei fattori principali del disagio”, spiega Manconi. “Il carcere rappresenta quello che i cartografi definivano terra incognita, universo sconosciuto di cui il detenuto, spesso, ignora tutto. Il linguaggio, in primis: un lessico tutto interno al sistema, che priva il detenuto della lingua che potrebbe aiutarlo ad adattarsi. Ignora poi le gerarchie interne, quelle formali e quelle informali”. Informali come possono essere i rapporti di forza che si instaurano tra gruppi di detenuti, dove contano l’anzianità della reclusione, il prestigio criminale, i legami per ragioni di comunanza di provenienza e di attività illecita. “Chi entra ignora le regole che sono numerose e minuziose, definite dai regolamenti e dalle consuetudini. Ignora anche i propri diritti, così nell’arco di poche ore va incontro all’impatto con un universo che oltre ad essere sconosciuto diventa ostile”. Raccontano che quando hanno visto arrivare il signor Alberto al carcere di Marassi un vecchio secondino lo abbia riconosciuto all’istante, anche se era trasfigurato nel viso, cambiato nei movimenti, alterato nella voce. Ma gli occhi celesti, no, quelli erano sempre gli stessi. Indimenticabili. Alberto Moretti è stato per decenni uno dei signori della movida genovese. Non c’era discoteca dove non avesse piazzato un biglietto per un cocktail, una prevendita, e dove non avesse reclutato almeno una volta una barista, un buttafuori, una ragazza immagine. Alberto non aveva fatto una buona fine. Era lì alle porte del carcere di Genova perché aveva provato a uccidere sua moglie, colpendola alla testa con una chiave inglese mentre dormiva. Era una notte di metà giugno. L’hanno ammanettato e rinchiuso a Marassi. “Qualcuno lo ha riconosciuto dagli occhi, è vero, ma quello che è arrivato non era un uomo. Era un animale imbizzarrito”, ricordano gli agenti penitenziari. Dicono che fosse fuori di sé, ma lo psichiatra che 24 ore dopo lo visitò escluse potesse avere intenti suicidi. In realtà il medico sottovalutò (“perché nessuno me lo ha detto, tantomeno lui”, si è difeso in seguito) un particolare non di poco conto: qualche mese prima Alberto aveva provato a togliersi la vita ingerendo una massiccia dose di psicofarmaci. L’avevano ripreso in tempo, grazie all’intervento dei medici del Pronto soccorso. Ma il carcere è diverso: dopo cinque giorni passati in isolamento, era stato trasferito in una cella videosorvegliata. Aveva più di 70 anni. Nei giorni a Marassi aveva dato segnali inequivocabili della sua fragilissima tenuta psichica, tanto da spingere la Procura genovese a chiedere una perizia psichiatrica per valutarne la capacità di intendere e volere. Era attesa per il primo luglio 2022, il giorno dopo. Il 30 giugno, una notte di estate tra il giovedì e il venerdì, quelle notti in cui i locali da ballo rimettono in pista le bottiglie scadenti di vodka per prepararsi al weekend, Alberto ha deciso che poteva bastare così. Suicida numero 33. Sulla morte di Alberto Moretti è stata aperta un’inchiesta che non ha portato a niente. La procura di Genova, che aveva dubbi sull’opportunità di tenere recluso un uomo della sua età, e con le sue patologie, ha chiesto l’archiviazione. “Non doveva stare in carcere”, ribadisce Michele Lorenzo, segretario per la Liguria del Sindacato autonomo polizia penitenziaria. “Avrebbe dovuto essere destinato a una Rems, le strutture sanitarie adatte per chi ha disturbi mentali. Sarebbe ancora vivo”. Lessico e sbarre - Le carceri italiane hanno gli abitanti di Cuneo e la varietà di Baranzate, il comune più multietnico del nostro Paese con le sue 76 nazionalità. Ancora un po’ dati, necessari a capire: dei 56 mila detenuti attuali, distribuiti nei 192 istituti penitenziari che punteggiano la penisola, 38.531 hanno il passaporto italiano (il 68,3 per cento), 2.710 sono comunitari (il 4,8 per cento), 15.172 sono extracomunitari (il 26,9 per cento). Ebbene, dei 579 suicidi registrati negli ultimi dieci anni, 234 erano stranieri (36 marocchini, 33 romeni, 32 tunisini, 14 albanesi), 344 erano italiani. E la stragrande maggioranza degli episodi di autolesionismo è avvenuta nel circuito di Media sicurezza (497), lo spazio della socialità, dove i reclusi vivono in comune. E dove il lessico cambia, si riduce a un diminutivo, talvolta un vezzeggiativo. Ancora Luigi Manconi: “Chi entra scopre immediatamente quanto vi sia di insensato in carcere: dalle prescrizioni prive di motivazioni fino al linguaggio utilizzato. E’ come se il sistema penitenziario voglia produrre l’infantilizzazione del detenuto, la sua riduzione alla minore età, dunque alla minorità. Per fare una qualsiasi richiesta all’amministrazione, bisogna compilare un modulo universalmente chiamato ‘domandina’. Le ordinazioni del cibo sono gli ‘spesini’. I detenuti addetti alle pulizie gli ‘scopini’. Il compagno di cella si chiama concellino’ “. Paura della libertà - Il fine pena può cogliere impreparati. Il pensiero del rientro nel mondo dei liberi per alcuni è un trauma insostenibile, perché in galera il libero arbitrio quasi si annulla, le mura di cinta limitano e comprimono ma, a lungo andare, proteggono. Lo raccontano le storie di quattro delle settantanove persone che si sono suicidate: sarebbero uscite entro l’anno. Altri sei avevano il fine pena nel 2023. A ottobre si è tolto la vita un uomo che di lì a nove giorni sarebbe tornato a casa. Le linee guida del ministero della Giustizia prevedono percorsi di preparazione al reinserimento nella società, che evidentemente vanno migliorati. “La caratteristica del carcere è la sua immobilità”, ragiona Manconi. “Il passare delle ore segue una sequenza rigida, inamovibile. Si passa da una condizione eterodiretta come il sistema carcerario, che indica i percorsi da fare e gli orari da seguire, a una situazione dove è richiesta l’autodeterminazione delle proprie strategie di vita. Questa è la prima spiegazione. C’è qualcosa di più profondo, però: la vita carceraria si esaurisce in sé, non prevede l’altro, l’esterno, ciò che inizia fuori dalle mura non è immaginato. Ci sono detenuti che dopo una lunga degenza hanno rapporti familiari ridotti al minimo o del tutto esauriti. Quando si sta per uscire, quindi, ci si rende conto che la vita esterna al carcere è una vita non vita, priva di interesse e attrazione e relazione”. Le morti sospette: il caso Fruttaldo - Quando si è dentro non si muore solo per autonoma scelta. Alla statistica aggiornata dei suicidi si aggiungono 81 decessi naturali, 3 decessi accidentali e 27 casi da accertare. Quest’ultimo dato va approfondito. Sotto tale dicitura sono registrate le situazioni in cui il detenuto viene ritrovato senza vita con un sacchetto in testa e la bombola del gas per cucinare in mano o vicino alla bocca. “Succede spesso, e non si capisce se il gas è usato per drogarsi, potenziando l’effetto col sacchetto, oppure se anch’essi sono suicidi”, spiega il Garante Mauro Palma. Sulla sua scrivania, però, c’è un faldone alto dieci dita che raccoglie le carte di una morte sospetta, anzi due morti sospette, su cui sta indagando la procura di Salerno. Si tratta del caso di Vittorio Fruttaldo, nato ad Aversa nel 1986, problemi di tossicodipendenza, rapinatore, condannato in via definitiva. E questa è la sua storia. Il 10 maggio scorso si trova nella stanza numero 10 della sesta sezione (media sicurezza) del carcere di Fuorni, frazione di Salerno. Gli mancano meno di cinque mesi al fine pena. Poco dopo la mezzanotte litiga col suo “concellino” Costantino Fazio, un milanese di 45 anni. Si prendono a pugni. Gli agenti della penitenziaria entrano nella stanza, li dividono e li spediscono in infermeria. Fruttaldo ha un’escoriazione di tre centimetri, ma rifiuta ogni trattamento medico. Poche ore dopo, alle 11.50 della mattina, Fruttaldo muore. “Un infarto”, dicono. “Il detenuto al mio arrivo si trovava in posizione supina, non cosciente, in arresto cardiocircolatorio, polsi periferici assenti”, scrive sul referto il medico che ha provato a rianimarlo. L’amministrazione della casa circondariale di Fuorni inserisce l’evento nel sistema informatico del Dap solo cinque ore dopo, alle 16.43.  Il giorno dopo, l’11 maggio, alle 12.41 nel sistema appare un’altra segnalazione, inspiegabilmente successiva. Si parla di una colluttazione. “Si rappresenta l’aggressione avvenuta nei confronti dell’assistente Nicola Notari, prognosi di giorni 21 con diagnosi di trauma cranico-facciale, e dell’agente Amodeo Pirozzi, prognosi di 10 giorni”. L’informativa, redatta “al fine di una esatta ricostruzione dei fatti”, spiega che Pirozzi e Notari erano entrati nella cella di Fruttaldo per recuperare alcuni oggetti personali di Fazio il quale, dopo il litigio, aveva cambiato stanza. Al tempo imperfetto da verbale di questura, si riferisce: “Il personale entrato nella camera veniva aggredito da Fruttaldo con un coltello rudimentale. Il personale cercava di bloccare il detenuto con non poche difficoltà”. In una successiva integrazione specificano che Fruttaldo ha seguito in bagno l’agente Pirozzi “con atteggiamenti poco promettenti, perché impugna un oggetto di colore nero con l’estremità di colore lucido”. A quel punto l’agente Notari entra nella stanza cercando di bloccare il detenuto. Pirozzi perde l’equilibrio e cade nel box doccia, battendo la testa. “Subito dopo anche Fruttaldo cade e finisce sul corpo di Pirozzi”. La zuffa termina in qualche modo. “Il personale di polizia e Fruttaldo vengono inviati al nosocomio locale. Dove sono stati refertati come descritto in precedenza”. La lettera di Fazio (suicida numero 76) - La versione non collima con quella contenuta nella prima delle segnalazioni, il pomeriggio del 10 maggio, da cui sembra capire che il medico in realtà era stato chiamato d’urgenza nella cella. Ma è soprattutto un altro elemento a rendere l’episodio più opaco ancora. Una lettera olografa, indirizzata al Garante dei detenuti. La scrive Fazio il 20 agosto, quando, trasferito da Fuorni, si trova nell’istituto a custodia attenuata di Eboli. Sono passati tre mesi dalla morte di Fruttaldo e lui si sente sufficientemente al sicuro per raccontare la propria verità. “A Fuorni è accaduto un evento drammatico di inaudita violenza e crudeltà nei confronti di un detenuto il quale purtroppo è deceduto dopo un pestaggio subito da parte di due agenti di custodia della polizia penitenziaria. Il suo nome era Fruttaldo Vittorio. Il fatto è avvenuto sotto i miei occhi e a tutt’oggi sono l’unico testimone oculare. Sono stato sentito dalla procura di Salerno il primo luglio 2022. Signore, lei non può immaginare gli abusi e le vessazioni che ho dovuto subire, sono stato trattato come un appestato solo per aver detto la verità e aver denunciato al Dap di Napoli tutto quello che era successo”. La lettera che Costantino Fazio scrive il 20 agosto 2022 al Garante dei detenuti per denunciare che il suo compagno di cella Vittorio Fruttaldo non è morto per un infarto ma per il pestaggio di due poliziotti della penitenziaria. Il Garante la riceve solo il 2 novembre. Costantino si suicida il 14 novembre nel carcere di Ariano Irpino. La lettera che Costantino Fazio scrive il 20 agosto 2022 al Garante dei detenuti per denunciare che il suo compagno di cella Vittorio Fruttaldo non è morto per un infarto ma per il pestaggio di due poliziotti della penitenziaria. Il Garante la riceve solo il 2 novembre. Costantino si suicida il 14 novembre nel carcere di Ariano Irpino.  La reclusione a Fuorni, per Fazio, è durata altri venti giorni dopo la denuncia, durante i quali lui lamenta di non aver nemmeno potuto chiamare la famiglia, e per questo di essere caduto in depressione. “Hanno cercato di sedarmi con terapie che non avevo mai assunto fino al 10 maggio (giorno della morte di Fruttaldo, ndr), dopodiché ho tentato di farla finita perché non reggevo più una detenzione che ha leso i miei diritti”. Il Garante Mauro Palma riceve la lettera solo il 2 novembre e non si capisce il perché di questo ritardo. In calce al foglio, la firma di Fazio e la data del 30 agosto. La procura di Salerno indaga per omicidio preterintenzionale. Fazio si toglie la vita nel penitenziario di Ariano Irpino l’11 novembre. Suicida numero 76 dall’inizio dell’anno. Donatela Hodo, o del perché abbiamo sbagliato tutto. Tutti - Donatela aveva un orecchino al naso, uno sulle labbra, un neo poco sopra la bocca e dei capelli biondi. Era bella, sbandata e disperata, da quando non aveva più il suo bambino. Era anche innamorata, ma alle volte - e questa era una di quelle - l’amore non basta. Donatela aveva 27 anni. E da dieci faceva dentro e fuori. Droga. Droga. Droga. Poi il problema erano piccoli furti, reati di strada, ma alla fine l’unica parola da leggere, in controluce, era sempre la stessa: droga. In carcere Dona aveva festeggiato i suoi compleanni. “Una torta, ti avevo fatto una torta bellissima”, ha raccontato una delle sue compagne di cella. In carcere Dona aveva trovato tutte le sue amiche. In carcere Dona aveva trovato tutto quello che aveva. E che poi un giorno le è stato tolto. “Fui io a insistere” ha raccontato Annalisa, una sua compagna, al Corriere del Veneto, “per farle effettuare il test. Era incinta! Dona era felice ma spaventata. Il giorno in cui è stata scarcerata era raggiante, bella più che mai. Ma qualcosa poi è andato storto, in poco tempo si è ritrovata di nuovo per strada… ha combattuto e quando le si sono rotte le acque hanno chiamato l’ambulanza, lei è arrivata in ospedale e ha partorito un bel bambino che ha chiamato Adam…”. Dona non era una di quelle che avrebbe potuto fare la mamma, secondo i servizi sociali. “Eppure voleva quel piccolo e ha cercato in tutti i modi di tenerlo andando in terapia, ma non è stato abbastanza”. Gli hanno tolto Adam dopo il primo abbraccio. “È arrivata in cella distrutta, disperata con l’ennesimo fallimento a farle da zavorra. Donatela ha cominciato a morire in quel 2014 e non si è ripresa più. Aveva aspettato il bambino con tutto l’amore che poteva. Non poteva superarlo”. Ci aveva provato, Dona. Il carcere era la sua seconda casa ma da qualche mese aveva trovato una strada: si chiamava Leo, era l’amore, tanto che insieme avevano preso casa, avevano persino cominciato ad arredarla. Sarebbe uscita dalla galera dopo poche settimane. Era il primo agosto, quando Dona ha preso carta e penna. E ha scritto al suo Leo. “Leo amore mio, mi dispiace. Sei la cosa più bella che mi poteva accadere e per la prima volta in vita mia penso e so cosa vuol dire amare qualcuno ma ho paura di tutto, di perderti e non lo sopporterei. Perdonami amore mio, sii forte, ti amo e scusami”. Poi ha acceso un fornello della sua cella. Ed è andata via così. Suicida numero 43. “Mi chiamo Vincenzo Semeraro. E vi devo chiedere scusa perché ho fallito. Perché con Donatela tutto il sistema ha fallito. L’avevo vista entrare in carcere a 21 anni, per furti e altri reati minori. Aveva una storia di dipendenza già pesante, con una vicenda personale drammatica per tanti motivi. Quella situazione mi aveva colpito. Aveva una personalità fragilissima ma nascondeva questa fragilità dietro una corazza. Aveva un carattere che poteva sembrare ostico, irritante. Ma non era così. Bisognava lavorarci a fondo, dedicarci tempo e pazienza. E invece non l’abbiamo fatto. Se una ragazza su uccide, vuol dire che io, che noi non siamo stati in grado di prospettarle dei futuri praticabili. Scusate”. Sulla morte di Donatela Hodo la procura di Verona ha aperto un’inchiesta. Le sue vecchie compagne di cella hanno aperto un’associazione e una pagina Facebook, per denunciare le condizioni delle detenute: “Sbarre di Zucchero”. Le parole del giudice Semeraro sono state lette durante il funerale di Donatela. Il magistrato ha voluto anche incontrare il padre della ragazza, Nevruz. Tra i due c’è stato un lungo abbraccio. In molti, sbagliando, non hanno compreso le sue parole. In questi giorni il giudice Semeraro ha detto all’agenzia Agi: “Voglio chiarire cosa intendevo. Quando ho scritto quella lettera pensavo al legislatore che non ebbe il coraggio di trasformare in legge nel 2018 i suggerimenti per aumentare le misure alternative provenienti dal tavolo di riforma penitenziario, rimasti lettera morta perché di lì a poco si andava a votare e si aveva paura della reazione degli elettori. Ai governi che non rimpolpano il personale della polizia penitenziaria e gli educatori che sono 700 per 55mila detenuti. Alle Regioni da cui dipende la sanità penitenziaria e il numero di psicologi e psichiatri sempre più basso. Per andare via via più giù sino ad arrivare alla magistratura. Ripeto: abbiamo fallito tutti”. Decreto Meloni, frizioni in maggioranza: ma l’abuso d’ufficio mette tutti d’accordo di Simona Musco Il Dubbio, 27 novembre 2022 Zanettin ricorda la “posizione più garantista” di FI, ma la premier incassa la “benedizione” di Calenda sulla revisione dell’articolo 323. Così lontani così vicini: è lo strano mood della giustizia al tempo del centrodestra di governo. Da una parte affiorano di ora in ora le differenze, su carcere, esecuzione penale e nuovi reati, fra l’ala più intransigente della maggioranza, cioè la Lega e soprattutto FdI, e l’enclave garantista di Forza Italia. Dall’altra è bastato l’impegno di Giorgia Meloni davanti all’assemblea dell’Anci sulla modifica dell’abuso d’ufficio per svelare un’assai pragmatica convergenza: la rottamazione del reato che paralizza i sindaci non solo mette d’accordo il centrodestra, ma ottiene anche l’approvazione del Terzo polo. In particolare dei vertici di Azione, Carlo Calenda ed Enrico Costa, che aprono a Meloni e dichiarano il loro appoggio al guardasigilli Carlo Nordio. Ma andiamo con ordine. Partiamo dalle distanze nella maggioranza, affiorate con chiarezza l’altro giorno in commissione Giustizia al Senato, quando l’azzurro Pierantonio Zanettin ha detto: “La posizione politica del gruppo di Forza Italia è più garantista rispetto al testo sull’ergastolo ostativo contenuto nel decreto legge”. Il senatore forzista non si nasconde: le norme che limitano la liberazione condizionale per i detenuti ostativi “non collaboranti”, ereditate dalla precedente legislatura e frutto di una sintesi targata essenzialmente 5 Stelle- Pd, vanno bene, ma non benissimo. Un testo che il governo Meloni ha fatto proprio e che adesso si trova appunto in commissione a Palazzo Madama, in attesa del deposito degli emendamenti, che ipartiti potranno presentare entro lunedì. Zanettin pronuncia quella frase al termine della carrellata di audizioni. Ed è lì, con un evidente lavoro di diplomazia per tenere insieme le posizioni di tutti, che è riemersa la differenza tra i partiti di maggioranza, con gli uomini di Silvio Berlusconi decisi a non tradire la loro ispirazione garantista. L’occasione per smussare il testo viene offerta proprio dalle audizioni, dalle quali “sono emerse alcune criticità che riguardano in primo luogo la mancanza di una disciplina transitoria, nonché la previsione della competenza del tribunale collegiale in materia di concessione dei benefici”. Zanettin fornisce un primo spunto di riflessione per le modifiche da portare in Aula: “Ripensare l’elenco dei reati di cui all’articolo 4- bis della legge n. 354 del 1975: l’eccessivo ampliamentodel novero delle fattispecie, infatti, ha comportato la perdita del concetto del doppio binario in relazione alla possibilità di concedere o meno benefici penitenziari”. E la spiegazione è arrivata ieri: l’intento è smontare la riforma Bonafede, che ha incluso i reati contro la pubblica amministrazione (che vanno dal peculato all’abuso di ufficio, alla corruzione) nella lista di quelli per cui non si potrà accedere ai benefici penitenziari e alle pene alternative al carcere. L’emendamento di Fi punta dunque ad escluderli dalla lista dei reati ostativi, per riportare la situazione a quella precedente alla Spazzacorrotti. L’equilibrio appare dunque instabile, anche se nessuno è disposto ad ammetterlo. Anzi, la parola d’ordine è sempre e comunque unità. Un imperativo, più che una convinzione, anche perché il primo banco di prova che l’esecutivo si è ritrovato davanti riguarda temi sui quali le sensibilità sono molto diverse. E le differenze sono affiorate pure riguardo alle norme anti- rave, contenute in quello stesso decreto 162 che ha accolto il testo sull’ostativo. Nessuna preclusione, ha evidenziato Zanettin, a regolamentare la fattispecie, ma serve cautela, per “evitare di essere accusati dell’introduzione di norme liberticide da Stato di polizia”. Quindi per evitare che in qualche modo la norma possa estendersi ad eventi diversi dai rave, come occupazioni politiche e sindacali. Anche in questo caso sono gli interventi degli esperti auditi dalla commissione a fornire un assist per tenere a bada le distanze. Anche perché il rischio incostituzionalità è dietro le porte sotto diversi punti di vista. Zanettin ha dunque consigliato di “specificare ulteriormente la fattispecie”, suggerendo “un supplemento di riflessione sull’inserimento” del “reato di rave” “all’interno del codice antimafia”. FI punta a specificare il riferimento alla circolazione di droga in eventi manifestatamente musicali e ad abbassare a 4 anni (rispetto ai 6 previsti dal decreto) la pena massima, per rendere impossibili le intercettazioni preventive. Al netto di ciò, il supporto di FI (che presenterà circa 15 emendamenti) va considerato scontato: il senatore garantisce “pieno sostegno” al governo ed alla maggioranza, sottolineando che l’intento degli azzurri è quello di “assicurare che i cosiddetti rave party possano essere repressi con le modalità più adeguate”. Il tentativo di Zanettin di mantenere un equilibrio non sembra essere sfuggito a Sergio Rastrelli,di Fratelli d’Italia, che ha ribadito la posizione del suo partito: “Sulla legislazione antimafia ogni misura di inasprimento vedrà il gruppo di FdI assolutamente favorevole”. Salvo poi rassicurare il collega circa l’eccessivo ampliamento dell’elenco dei reati ricompresi nell’articolo 4- bis: “Su questo sarà fatto un ulteriore sforzo di sintesi”. Ma è sul reato di rave che il senatore meloniano ha piantato i paletti: “Il nuovo reato anticipa la condotta penalmente rilevante ha evidenziato - ed in questo senso la forbice edittale prevista è conferente rispetto all’obiettivo di politica criminale che si intende perseguire: le intercettazioni sono peraltro funzionali proprio a consentire l’attività di prevenzione e impedire praticamente che si svolgano questi raduni illegali”. Insomma, l’intesa sulle politiche della giustizia è work in progress. Ed è per questo che l’unanimità sull’abuso d’ufficio fa tirare un sospiro di sollievo nella maggioranza. La sorpresa, come accennato all’inizio, è che l’intesa sul tema potrebbe coinvolgere convintamente anche pezzi di opposizione. Calenda ha infatti chiesto e ottenuto un incontro con Meloni nei prossimi giorni. “La premier è nuova, pensiamo vada aiutata e non solo contestata”, ha dichiarato, accogliendo con entusiasmo l’idea di rivedere la norma sull’abuso d’ufficio, che “va eliminato perché paralizza l’attività amministrativa dei sindaci: su questo punto condividiamo la linea del ministro Nordio”, ha scritto sui social, seguito a breve distanza da Costa. Un’apertura che per molti prefigura un futuro “patto di via della Scrofa”, le cui ricadute sono tutte da scoprire. Nordio all’attacco del reato di abuso d’ufficio. Quella catena di sindaci rovinati per nulla di Massimo Malpica Il Giornale, 27 novembre 2022 C’è una ricetta contro la paura della firma, che affligge sindaci e amministratori e, a dirla con la premier Giorgia Meloni, “inchioda la nazione”. Abolire, o almeno contenere, l’abuso d’ufficio. Reato indeterminato, dicono tutti, e per i suoi detrattori divenuto “grimaldello delle procure”, alle quali indagando sulla pubblica amministrazione, se cadono corruzione e concussione, resta sempre il jolly dell’articolo 323 del codice penale. L’effetto di questa distorsione, come sottolinea Meloni e come confermano i sindaci, è che nel 93 per cento dei casi le accuse di abuso d’ufficio contro i primi cittadini svaniscono nel nulla alla prova dei fatti. “Si tratta di un reato dai contorni troppo indeterminati”, aveva spiegato l’ex ministro ed ex giudice della Consulta Sabino Cassese in un’intervista al Messaggero un anno e mezzo fa. “La sua interpretazione si presta ad abusi, in particolare ad ampliamenti eccessivi. Va quindi soppresso e sostituito con fattispecie ben determinate”, aveva concluso il giurista. E persino l’ex presidente della camera Luciano Violante, come ha ricordato il presidente dei penalisti Gian Domenico Caiazza, aveva definito quella norma “una sorta di mandato a cercare eventuali irregolarità o illiceità nella amministrazione pubblica”. Anche Draghi aveva ricordato le responsabilità “sproporzionate” che incombono su sindaci, amministratori e pubblici dirigenti. Ma il reato è sempre lì. Ora ci riprovano Giorgia Meloni, il Guardasigilli Carlo Nordio e il vice di via Arenula Francesco Paolo Sisto, che hanno ribadito tutti l’esigenza di ritoccare l’abuso d’ufficio. Stavolta il fronte è compatto, il consenso è largo e sembra che l’esecutivo voglia eliminare quello che rischia di diventare un pericoloso bastone tra le ruote del Pnrr. L’altro giorno, all’assemblea dell’Anci, lo ha detto chiaramente a una platea molto interessata a quel tema, tanto da fare, un anno fa, un appello a Draghi per liberarli da quel reato trappola: “La paura della firma ha detto Meloni - inchioda una nazione che invece ha bisogno disperato di correre e liberare le sue energie. E i sindaci devono avere certezze sul perimetro di ciò che è lecito e di ciò che è illecito”. Sisto ai sindaci ha ribadito l’urgenza di correttivi, a cominciare dalla Severino che costringe alle dimissioni anche chi è condannato in primo grado per questo reato trappola. Ministro e viceministro valutano come intervenire. Tra le ipotesi, una depenalizzazione dell’abuso se a vantaggio di un soggetto, mentre resterebbe perseguibile l’abuso d’ufficio se danneggia un soggetto determinato o nega illegittimamente il rilascio di permessi o autorizzazioni a chi ne ha diritto. Mercoledì Nordio e Sisto incontreranno i sindaci per fare il punto. Ma dal presidente Anci De Caro a Nardella e a Manfredi, i primi cittadini di tutt’Italia e di tutti i partiti, in questa battaglia, sono dalla stessa parte del governo. Troppi i precedenti eclatanti. Tra gli ultimi quelli dell’ex sindaco leghista di Novara, Massimo Giordano, e di Claudio Corradino, primo cittadino di Biella, sempre del Carroccio. Il primo è stato assolto una decina di giorni fa dopo dieci anni di odissea giudiziaria, partita perché avrebbe chiuso un occhio ma appunto è stato assolto -per gli schiamazzi di un bar. Il secondo a giugno s’è visto assolvere con formula piena dall’accusa di aver infilato un’amica in un cda, ma oltre a rischiare il posto (per la Severino), ha ricordato di aver speso, in avvocati, 37mila euro. Bruciati per difendersi da un reato trappola e da un’accusa infondata. Soumahoro e il fallimento della politica delle icone di Giorgio Meletti Il Domani, 27 novembre 2022 Craxi fece eleggere Gerry Scotti, Natta candidò Gino Paoli, La Malfa propose Alberto Arbasino. Ma erano volti solo decorativi per leadership fortissime. Soumahoro è stato cinicamente usato. La storia tristissima del sindacalista è sintomatica perché segna il passaggio dal candidato accattivante come addobbo della lista, o del presepio multicolore, alla protesi di identità politica. Hanno venduto come candidato premier, incarnazione di una linea politica che non c’è, uno di cui, lo ammettono adesso, non sapevano niente. Se c’è una vittima in questa storia è proprio lui. Ci sono due modi per comprendere la tristissima parabola dell’onorevole Aboubakar Soumahoro. Il primo chiama in causa permanenze millenarie delle vicende umane, in questo caso il bisogno di simboli a cui aggrapparsi, prima religiosi, poi, grosso modo a partire dalla rivoluzione francese, anche laici. Il secondo riguarda la cronaca degli ultimi anni e come l’uso delle icone nel marketing politico sia diventato smisurato e cinico, perciò stupido, cioè dannoso a sé e agli altri secondo la definizione ormai classica di Carlo Maria Cipolla. Interessa relativamente se Soumahoro sia colpevole o vittima di un complotto e di un’aggressione mediatico-popolare a sfondo razzista. In ogni caso è stritolato in una storia più grande di lui nella quale le uniche responsabilità specifiche che interessano sono semmai di chi lo ha usato. Una storia più grande di lui - Che sia finito in una storia più grande di lui lo dimostra il fatto che è stata anticipata nei dettagli quasi settant’anni fa da Ennio Flaiano nel celebre racconto “Un marziano a Roma”. Il marziano Kunt atterra con la sua “aeronave” sul prato del galoppatoio di Villa Borghese e il popolo intero, proletari, borghesi e intellettuali, si accende di entusiasmo: “La gioia, la curiosità è mista in tutti ad una speranza che poteva sembrare assurda ieri e che di ora in ora si va invece facendo più viva. La speranza “che tutto cambierà”“. Kunt diventa una celebrità. Viene ricevuto dal papa (come Soumahoro). “Oggi il marziano ha accettato improvvisamente di far parte di una giuria di artisti e di scrittori per l’elezione di Miss Vie Nuove”, scrive Flaiano. Vengono organizzati cocktail in suo onore. Viene usato: “Il marziano ha accettato di fare una particina di marziano in un film che sarebbe diretto da Roberto Rossellini, il quale si sta interessando affinché al finanziamento del film partecipi una società marziana”. Un mese fa, un attimo prima della tempesta, Soumahoro ha partecipato alla trasmissione di Fabio Fazio “Che tempo che fa” insieme a Maurizio Costanzo, Roberto Burioni, Nino Frassica, Cristiano Malgioglio, Gigi Marzullo e altri. Flaiano vede la fine avvicinarsi. “Attilio Riccio afferma che il marziano è un caso tipico di idolatria dell’ignoto. Egli prevede che finirà linciato. Si dice anche, e io lo noto a titolo di cronaca, che il marziano si è innamorato di una ballerina che si fa desiderare e parla di lui in termini ignobili”. La fine arriva quando il marziano si trasforma rapidamente da possibile eroe in solito stronzo, come avrebbe detto anni dopo Alberto Arbasino. “Nel grigio silenzio, qualcuno ha gridato forte: “A marziano!...”. Il marziano si è subito voltato ma ancora una volta il silenzio è stato rotto e stavolta da un suono lungo, straziante, plebeo. Il marziano è rimasto fermo e scrutava nel buio. Ma non c’era nessuno o, meglio, non si vedeva nessuno. Si è mosso per riprendere la sua passeggiata; un suono ancora più forte, multiplo, fragoroso, lo ha inchiodato sull’asfalto: la notte sembrava squarciata da un concerto di diavoli. “Mascalzoni!” ha gridato il marziano. Gli ha risposto una salve di suoni, prolungata, scoppiettante come un atroce fuoco d’artificio”. La sorte dell’onorevole Soumahoro era dunque segnata. La profezia di Flaiano si realizza nelle parole con cui il leader di Sinistra Italiana lo liquida in un’intervista a Repubblica. Alla domanda se, dopo l’autosospensione dal gruppo (che nessuno sa bene che cosa sia), il protettore degli invisibili debba dimettersi dal parlamento, Nicola Fratoianni risponde glaciale: “Autosospendersi è stato giusto, il resto dipende da lui”. Una flaianesca pernacchia sarebbe risultata più umana. È la cronaca politica degli ultimi decenni a farci comprendere il significato di una vicenda che è disastrosa per l’interessato ma soprattutto per le sorti di ciò che chiamiamo sommariamente sinistra. Le candidature acchiappavoti sono state la regola a partire dagli anni ‘80, quando i partiti della prima repubblica hanno interpretato a modo loro l’esigenza di modernizzarsi. Di fatto si sostituivano nuove icone a vecchi santini. Un grande vecchio del comunismo come Pietro Ingrao vide il problema e lo disse a chiare lettere, intervenendo nel dibattito aspro all’interno del suo partito sul cosiddetto “strappo” con Mosca: “Il vecchio socialismo non serve più a niente, è inutile continuare a venerarlo. Non mi inginocchio davanti a quei santini, perché voglio vivere dentro di me il sogno e la speranza”. Il Pci non lo ascoltò e subito inventò nuovi santini. Alle politiche del 1987, le prime dopo la morte di Enrico Berlinguer, mise in lista e portò in parlamento il principe degli avvocati d’affari Guido Rossi e il cantautore Gino Paoli. Il Partito socialista italiano di Bettino Craxi ci dava dentro. Nel 1984 sostituì il comitato centrale con un’assemblea nazionale di oltre 600 membri dove dentro c’erano testimonial di ogni tipo, scienziati illustri, imprenditori, cantati e attori. Un’accozzaglia alla quale un socialista a 24 carati come Rino Formica dedicò l’immortale sintesi “un’assemblea di nani e ballerine”. C’erano lo stilista Nicola, attori come Vittorio Gassman, Ottavia Piccolo e Sandra Milo, cantanti come Ornella Vanoni. Nel 1987 Craxi portò in parlamento il volto televisivo di Gerry Scotti che pure, da deputato, continuò a presentare il Festivalbar. La Dc fece eleggere l’ex calciatore Gianni Rivera. Il Partito radicale di Marco Pannella portò a Montecitorio la pornostar Ilona Staller, detta Cicciolina. Questi volti noti erano dichiaratamente decorativi e politicamente insignificanti. È vero che Guido Rossi, dall’opposizione, dette un contributo fondamentale alla legge Antitrust ma è anche vero che nessuno l’aveva proposto come icona del comunismo. Come è vero che l’unico risultato dell’elezione di Gino Paoli fu far sapere al popolo comunista che aveva votato il parlamentare più ricco, con un reddito di un miliardo e mezzo di lire nel 1991. D’altra parte in Liguria il segretario del Pci Alessandro Natta, che era di Imperia e si candidava a casa sua, fu eletto con 90 mila preferenze, mentre il cantautore d’area ne prese poco più di 7 mila ed entrò alla Camera per il rotto della cuffia. Insomma, l’icona era una cosa, la politica un’altra. E infatti, i l Partito repubblicano nel 1983 fece eleggere in parlamento proprio Alberto Arbasino, grande scrittore che se lo meritava solo per la sintesi definitiva della corsa al successo: “In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro”. Ma il leader del Pri rimaneva un gigante della politica come Ugo La Malfa. Come nel 1976 l’elezione a senatore per la Dc di Umberto Agnelli, insieme al fratello Gianni padrone della Fiat, non mise in discussione che l’anima del partito in quella competizione elettorale rimanesse rappresentata dai suoi leader, a cominciare dal segretario Benigno Zaccagnini, per non parlare di Aldo Moro e Giulio Andreotti. Una diversa stagione dei candidati acchiappavoti è quella inaugurata nel 2008 da Walter Veltroni in occasione delle sue sfortunate e uniche elezioni politiche da leader del neonato Pd. È un’importante tappa di avvicinamento al disastro odierno. Veltroni inventa la tecnica del presepio, dove in nome del “ma anche” mette in lista il falco della Confindustria Massimo Calearo, il giovane imprenditore asseritamente illuminato Matteo Colaninno e l’operaio della ThysseKrupp Antonio Boccuzzi, scampato per un pelo pochi mesi prima al rogo in fabbrica che ha ucciso sette suoi colleghi. Boccuzzi è spaesato: “La scelta di Veltroni di candidarmi dimostra che quello del Pd è un progetto serio, in cui l’operaio ha un ruolo attivo e il mondo del lavoro è al centro”. Il suo collega Ciro Argentino, candidato dal suo partito, il Pdci di Oliviero Diliberto, lo avverte: “Si sta cacciando in un gioco più grande di lui e rischia di farsi male. In Parlamento, se andrà bene, parlerà mezza volta e basta”. Ci pensa Massimo D’Alema a rincuorare Boccuzzi con il linimento interclassista: “Ti troverai in parlamento con Matteo Colaninno, un giovane con cui lavorerai benissimo insieme perché rispetta gli operai. Siete due volti diversi di un’Italia che vuole tornare a crescere. Un grande partito che vuole avere la maggioranza per governare deve trovare il coraggio di mettere insieme operai, imprenditori, intellettuali”. In realtà ha ragione Argentino e Boccuzzi parla come Soumahoro 14 anni dopo: “Spero che saremo in molti in parlamento a dare voce a chi finora non l’ha avuta. Il mio impegno sarà legato alle classi più deboli del paese”. La vera vittima del cinismo - La storia di Soumahoro è sintomatica e preoccupante proprio perché segna il passaggio dal candidato accattivante come addobbo della lista, o del presepio multicolore, alla protesi di identità politica. Lo si capisce quando il leader verde Angelo Bonelli affida al sindacalista nero il ruolo di candidato premier della alleanza Sinistra Italiana Verdi, e presenta la mossa come un suo generoso passo indietro, “nel momento in cui tanti leader politici antepongono egoisticamente se stessi agli interessi del paese”. Hanno venduto come candidato premier, incarnazione di una linea politica che non c’è, uno di cui, lo ammettono adesso, non sapevano niente. Se c’è una vittima in questa storia, a parte i dipendenti della suocera, è proprio Aboubakar Soumahoro. No al rimpatrio dell’extracomunitario che nel suo Paese non può avere un’adeguata terapia del dolore Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2022 Lo ha precisato la Cgue con la sentenza 22 novembre 2022 nella causa C-69/21. Un cittadino di un paese terzo che è affetto da una malattia grave non può essere allontanato se, in mancanza della terapia adeguata nel paese di destinazione, rischi di essere esposto ad un aumento rapido, significativo e irrimediabile del dolore associato a tale malattia. Lo ha stabilito dal Cgue con la sentenza 22 novembre 2022 nella causa C-69/21. Il caso esaminato - Un cittadino russo che ha contratto, all’età di 16 anni, una rara forma di cancro del sangue è attualmente in cura nei Paesi Bassi. La sua terapia medica consiste, in particolare, nella somministrazione di cannabis terapeutica a fini analgesici. L’uso di cannabis terapeutica non è tuttavia autorizzato in Russia. Tale cittadino ha presentato varie domande d’asilo nei Paesi Bassi, l’ultima delle quali è stata respinta nel 2020, e ha adito il Rechtbank Den Haag (Tribunale dell’Aia) con un ricorso contro la decisione di rimpatrio che è stata adottata nei suoi confronti. Egli ritiene che debba essergli rilasciato un permesso di soggiorno o che, quantomeno, debba essergli accordato un rinvio dell’allontanamento in quanto la terapia a base di cannabis terapeutica nei Paesi Bassi è per lui a tal punto essenziale che non potrebbe più condurre una vita dignitosa se tale terapia fosse interrotta. Il Tribunale dell’Aia ha deciso di rivolgersi alla Corte per stabilire, in sostanza, se il diritto dell’Unione osti all’adozione di una decisione di rimpatrio o di un provvedimento di allontanamento in una fattispecie di questo tipo. La decisione della Cgue - Nella sentenza depositata oggi, la Corte dichiara, alla luce della propria giurisprudenza e di quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, che il diritto dell’Unione osta a che uno Stato membro adotti una decisione di rimpatrio o proceda all’allontanamento di un cittadino di un paese terzo, il cui soggiorno è irregolare e che è affetto da una grave malattia, allorché sussistono gravi e comprovati motivi per ritenere che il rimpatrio di tale cittadino possa esporlo, a causa dell’indisponibilità di cure adeguate nel paese di destinazione, ad un rischio reale di un aumento rapido, significativo e irrimediabile del dolore causato dalla sua malattia. Detta condizione presuppone, in particolare, che sia accertato che nel paese di destinazione non possa essergli legalmente somministrata l’unica terapia analgesica efficace e che la mancanza di tale terapia lo esporrebbe a un dolore di tale intensità da essere in contrasto con la dignità umana in quanto potrebbe provocargli disturbi psichici gravi e irreversibili, o addirittura condurlo al suicidio. Foggia. Suicidi nel carcere, pronto piano di prevenzione della Asl foggiatoday.it, 27 novembre 2022 È quanto emerso dal tavolo tecnico sul tema della salute nelle strutture detentive al quale hanno partecipato anche il Commissario Nigri e il Direttore del Distretto socio-sanitario di Foggia Troiano. La telemedicina mira a garantire ai detenuti l’esecuzione di esami strumentali e visite di controllo. Il Commissario Straordinario della Asl Foggia Antonio Nigri e il Direttore del Distretto Socio Sanitario di Foggia Lorenzo Troiano hanno partecipato al tavolo tecnico sul tema della salute all’interno delle strutture detentive pugliesi, convocato dalla Presidente del Consiglio regionale della Puglia, Loredana Capone, d’intesa con l’assessore regionale alla Sanità, Rocco Palese, e il garante regionale dei diritti delle persone private della libertà, Piero Rossi. Un tavolo allargato, che ha visto la presenza del Provveditore regionale della Puglia e della Basilicata, dei direttori generali delle Asl e degli istituti penitenziari, dei presidenti dei Tribunali di Sorveglianza pugliesi, dell’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale ‘Antigone’. All’ordine del giorno le criticità dell’assistenza sanitaria all’interno degli istituti penitenziari pugliesi e, in particolare, la carenza di medici e psichiatri nel sistema penitenziario. La carenza di personale riguarda anche il territorio di Capitanata. Attualmente - ha illustrato Nigri - negli istituti penitenziari della provincia operano diverse professionalità quali i medici Sias (Servizio Integrativo di assistenza sanitaria), due medici referenti sanitari, lo psichiatra responsabile della unità operativa di “Psichiatria penitenziaria e Autori di reato”, gli specialisti ambulatoriali delle varie branche, medici specialisti dei dipartimenti di Salute Mentale e delle Dipendenze Patologiche. In riferimento alla sollecitazione, da parte del tavolo, di una messa a regime della telemedicina negli istituti penitenziari, Asl Foggia avvierà, d’intesa con le direzioni dei tre istituti penitenziari, la sperimentale della ‘telemedicina penitenziaria’ che mira a garantire ai detenuti l’esecuzione di esami strumentali cardiologici e pneumologici e visite di controllo, il tutto attraverso i sistemi di telemedicina. Affrontato anche il tema dei suicidi registrati in particolare nell’istituto penitenziario di Foggia. A tal proposito, la Asl Foggia ha adottato la scorsa settimana il “Piano Locale per la prevenzione delle condotte suicidarie nella casa circondariale per adulti di Foggia”, messo a punto dal Prof. Antonello Bellomo, del Policlinico Riuniti di Foggia, e licenziato dopo una puntuale interlocuzione con la direzione dello stesso penitenziario. L’atto è stato arricchito dal contributo di un gruppo di lavoro multidisciplinare composto da: Lorenzo Troiano, Matteo Giordano, Savino Dimalta, Luigi Pio Esposto, Girolama De Gennaro, Domenico Trombetta, Carmela Fiore; Maria Silvestre; Il Piano Locale risponde alla necessità di dare attuazione al Piano Regionale della Puglia per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti, contemperando le linee guida nazionali e regionali con le risorse umane sanitarie/penitenziarie e organizzative disponibili. Partendo dalla considerazione che la condizione di reclusione sia un’esperienza umana “limite” in cui diverse componenti, tra cui lo stress quotidiano della vita in carcere, possono portare la persona a superare la ‘soglia di resistenza’ e ad avere condotte autolesive o suicidarie, il piano definisce gli interventi organizzativi e sanitari, utili a prevenire atti estremi. Predisposto per rispondere alle esigenze dell’istituto penitenziario di Foggia, sarà ora rimodulato sulle peculiarità degli altri due istituti presenti in provincia di Foggia, quelli di Lucera e San Severo, in collaborazione con la direttrice Patrizia Andrianello. Firenze. Di Puccio nominato consigliere speciale del sindaco per il carcere di Sollicciano comune.fi.it, 27 novembre 2022 Nardella: “In questi anni si è distinto per la sensibilità e l’attenzione mostrata ai temi del carcere e alle condizioni dei detenuti”. Il consigliere comunale Stefano Di Puccio è stato nominato dal sindaco suo consigliere speciale per il carcere di Sollicciano. L’incarico è a titolo gratuito. “Il tema di Sollicciano riguarda molto la comunità locale - ha detto il sindaco -. Anche se il sistema penitenziario è gestito dallo Stato, le città sono direttamente coinvolte dalla vita delle carceri. Le strutture penitenziarie devono assolvere al compito di rieducare i detenuti, mentre invece finiscono per renderli molto peggiori alla fine della pena, quando escono. Tutto questo ha dei costi altissimi, dal punto di vista della sicurezza, dell’economia e della socialità”. “Per questo vogliamo intensificare gli sforzi nei programmi di collaborazione con Sollicciano - ha continuato Nardella -, al fine di dare ai detenuti strumenti concreti per essere reinseriti nella società dopo aver pagato per le proprie colpe e di conseguenza vivere il periodo carcerario in modo non disumano. Allo stesso modo siamo impegnati per aiutare l’amministrazione penitenziaria a migliorare la struttura e quindi le condizioni di lavoro di tutti coloro che vi lavorano, a partire dagli agenti della polizia penitenziaria”. “Il carcere non è un corpo estraneo della città - ha proseguito - e per questo abbiamo bisogno di una squadra coesa di persone impegnate a migliorare il rapporto tra Sollicciano e la nostra comunità. Al lavoro egregio condotto dall’assessore Sara Funaro e dal garante dei detenuti Eros Cruccolini si affianca quello del consigliere Stefano Di Puccio, che in questi anni si è distinto per la sensibilità e l’attenzione mostrata ai temi del carcere e alle condizioni dei detenuti in particolare. Faccio a Di Puccio i miei più sinceri auguri di buon lavoro”. “Ringrazio il Sindaco per questo importante riconoscimento - spiega Stefano Di Puccio - che mi permetterà di lavorare con più libertà di azione a fianco del garante dei detenuti Eros Cruccolini con cui collaboro già dal 2009 quando anche lui era consigliere comunale. Ho sempre svolto questo lavoro con passione perché ritengo che vada rispettata la dignità della persona, anche se privata della libertà. Con questa nomina adesso lavorerò con maggiore impegno per portare a compimento gli atti approvati in Consiglio comunale”. Palermo. Manifestazione in piazza Pretoria per i diritti dei detenuti ilsicilia.it, 27 novembre 2022 Mercoledì pomeriggio una delegazione del Comitato “Esistono i Diritti”, dopo un breve sit-in tenutosi presso Piazza Pretoria, ha consegnato alla segreteria del Sindaco, assente quest’ultimo per motivi istituzionali, una lettera di sollecito per la nomina del Garante Comunale per i diritti delle persone detenute. Al sit-in hanno partecipato i Consiglieri comunali Giaconia, Giambrone, Arcoleo e Imperiale e per il comitato Alberto Mangano, Eleonora Gazziano, Giorgio Lupo, Cesare Mattaliano e Floriana D’Amico. È stato ribadito l’impegno profuso dal Comitato in questi anni , anche attraverso forme di lotta non violenta quale lo sciopero della fame di alcuni componenti, nonché l’impegno stesso del Consiglio Comunale che, in maniera trasversale, ha approvato all’unanimità il regolamento che oggi permetterà al Sig. Sindaco la nomina del Garante. Abbiamo espresso, altresì, la disponibilità a presenziare alla conferenza stampa che il Sindaco vorrà tenere in occasione della predetta nomina. Lettera al Sindaco - Signor Sindaco, desideriamo informarla, nel caso in cui non ne sia già a conoscenza, di un atto amministrativo che richiede soltanto la sua volontà nella qualità di Primo Cittadino di una Comunità che annovera anche le persone private della loro libertà. Il Comitato “Esistono i Diritti” Trans-partito da anni ha lottato fuori ma dentro il palazzo (Consiglio comunale di Palermo) con appelli e scioperi della fame affinché venisse nominato il Garante comunale per i diritti delle persone detenute. Il regolamento è stato approvato il 17 maggio del 2021, grazie all’ impegno dei consiglieri comunali iscritti al Comitato e presenti nello scorso Consiglio, e Il primo febbraio è stato pubblicato l’avviso per la presentazione delle istanze per ricoprire la carica che è opportuno ricordare essere a titolo gratuito. Vogliamo continuare ad essere speranza, non avere speranza (Spes contra spem), appellandoci al nuovo Sindaco della città di Palermo Prof. Roberto Lagalla affinché con urgenza, vista l’emergenza carceri, nomini il Garante comunale per i diritti delle persone detenute. Il carcere in Italia è un inferno, anche là dove le condizioni di vivibilità appaiono migliori che in altri Istituti; le carenze sono culturali e strutturali: la pena non pensata per rieducare e restituire alla società persone migliori, l’affollamento e le condizioni critiche di molti istituti non trovano riscontro nel Ministero della Giustizia. È quindi importante che ci sia una figura di garanzia nei confronti di questi cittadini che soffrono condizioni di invivibilità, causa anche dei molti casi di suicidi che si sono verificati dall’inizio dell’anno. L’Aquila. Ingiusta detenzione, Fina (Pd): “Sostegno e rispetto per la battaglia di Giulio Petrilli” abruzzoweb.it, 27 novembre 2022 “Subire una pena detentiva lunga e severa all’età di 22 anni ruba anni fondamentali per il proprio percorso di vita. E se dopo sei anni ti è riconosciuta l’innocenza e la totale estraneità rispetto ai reati contestati, nessuno ti ridarà quegli anni. Per questo credo che si debba grande rispetto a Giulio Petrilli e alla sua battaglia, per la quale voglio esprimere tutto il mio sostegno umano e politico”: lo dichiara il senatore Michele Fina, segretario del Pd Abruzzese. Fina ricorda che “nel contesto sociale della Milano degli anni 80 Petrilli viene arrestato con l’accusa di fiancheggiare l’organizzazione terroristica Prima Linea subendo la sofferenza del carcere duro per sei lunghi anni. Solo nel 1986 la Corte di Appello di Milano emetterà sentenza di assoluzione, confermata tre anni dopo dalla Cassazione, restituendo alla libertà Giulio. ‘Il carcere è una sofferenza che ti porti 24 ore su 24, la indossi sempre. Mi creda, ci si riduce ad aver paura della propria libertà. È una sensazione indescrivibile, che non auguro a nessuno. Ed è per questo che continuo a lottare’ queste le parole di Petrilli in un’intervista di qualche anno fa”. “A queste parole e a questa sofferenza”, prosegue, “le Istituzioni devono grande attenzione e un dovere di ascolto. Per la storia di chi ha vissuto una vicenda tanto difficile e, ancor di più, per chi in futuro potrebbe farne esperienza. La norma sull’ingiusta detenzione risponde ad un dovere di giustizia e umanità di cui lo Stato si deve far carico, rispondendo all’alto rispetto dei principi fondanti della Costituzione, in particolare di quanto esprime l’articolo 24 in materia di riparazione degli errori giudiziari. Il dibattito sull’articolo 314 del Codice di Procedura Penale è frutto della delicatezza della tematica e degli interessi in gioco. Dottrina e Giurisprudenza hanno approfondito, negli anni, i vari aspetti legati ai contenuti e all’applicazione della norma; tuttavia, sono ancora molti gli aspetti d correggere”. “Troppe le richieste” dice, “respinte a causa dell’ampio margine di discrezionalità che il comma 1 dell’articolo 314 c.p.p. garantisce, lasciando inascoltate le legittime richieste di tanti, troppi, cittadini utenti della giustizia e vittime di errori. È giusto che i giudici d’Appello, a cui è affidato il potere di valutare le istanze, possano esercitare con pienezza di prerogative i casi a loro sottoposti. Ma è legittimo che onesti cittadini possano vedere riconosciuto il diritto al risarcimento per aver patito i disagi di un’ingiusta detenzione. Ritengo sia giunto il momento di tendere l’orecchio alle voci accorate di chi, pur vivendo ancora il dolore di una ferita aperta, personale e civile, chiede allo Stato riconoscimento e, nel chiederlo dimostra di credere ai poteri pubblici. È una occasione per riabilitare fiducia e autorevolezza istituzionale, nonché per lenire quelle ferite e rendere più viva l’attualità della Costituzione. Grazie a Giulio per la sua battaglia: siamo al suo fianco per una Giustizia più umana”. Bologna. La teologia rinasce dietro le sbarre di Giampiero Rossi Corriere della Sera, 27 novembre 2022 La Facoltà dell’Emilia-Romagna organizza un corso di laurea nel carcere della Dozza. Mai successo prima. Il cardinale Matteo Zuppi: “C’è un futuro per chi ha sbagliato”. Il coordinatore Fabrizio Mandreoli: “Cresce la domanda di senso” Il progetto - È in partenza dal prossimo anno accademico il corso di laurea in Teologia all’interno del carcere di Bologna. A organizzarlo, la Facoltà teologica dell’EmiliaRomagna. L’iniziativa è sostenuta dal cardinale Matteo Maria Zuppi (Roma, 1955; in alto), arcivescovo di Bologna dal 2015 e dallo scorso maggio presidente della Conferenza episcopale italiana, ed è coordinata da Fabrizio Mandreoli (Bologna, 1970; qui sopra), docente di Teologia fondamentale. Un corso di laurea in Teologia in un carcere. Ancora non c’è, ma potrebbe partire già con il prossimo anno accademico all’interno della casa circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna. Questione di dettagli, di definizione di un protocollo, di una convenzione. Ma cosa conduce un istituto ecclesiastico come la Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna, che discende da una Bolla firmata nel 1360 da Papa Innocenzo VI in un ambiente ruvido come la Dozza? Come nasce un corso di laurea in Teologia in una sovraffollata babele di lingue e religioni? Si potrebbe dire “a grande richiesta”, ma dal ventre di un carcere, spiega chi lo frequenta, parlare del Mistero, dell’umanità che si interroga sul Divino non può tradursi in una “richiesta” ma piuttosto prende la forma di una ricorrente Domanda. “In effetti è un percorso che nasce dai primi anni Duemila - racconta Fabrizio Mandreoli, docente di Teologia fondamentale tra Bologna e Firenze e coordinatore del progetto - quando, nell’ambito del corso di Scienze politiche, Pier Cesare Boni ha stimolato una serie di riflessioni su temi teologici, spirituali, mistica. Fu una bella esperienza, molto partecipata. Per alcune persone si è poi rivelata determinante: vissero quella che viene definita life changing experience”. Mandreoli conosce bene il carcere, perché prima di entrarvi come insegnante lo ha frequentato per una ventina d’anni da volontario. “Quando sei lì dentro - sottolinea - certi discorsi e certe riflessioni si affinano e si arricchiscono, soprattutto in campo teologico”. E ricorda un’altra esperienza: “Insegnanti e volontari hanno organizzato un corso scolastico sulla Costituzione italiana e i detenuti hanno redatto una loro Carta ideale. Non a caso quel progetto, raccontato in un documentario, si chiamava Dustur, cioè Costituzione in arabo, perché era molto partecipato da ragazzi provenienti da Paesi di lingua araba e religione islamica. Fu una grande occasione di dialogo tra culture e religioni, che affrontava anche i nodi del radicalismo religioso”. Interrogativi che non smettono di aleggiare nell’aria viziata delle celle, soprattutto per chi deve fare i conti con pene molto lunghe. “Abbiamo continuato a intercettare grandi domande filosofiche, quelle che impongono sconfinamenti nelle scienze religiose, un bisogno di riflessioni alte”. Così, nel 2021, la Dozza ospita un primo corso su discipline teologiche, costellato di seminari e gruppi di lavoro interreligiosi che mette a confronto capitoli fondamentali del cristianesimo cattolico e ortodosso, dell’islam e anche sullo sguardo dei non credenti. Non è inserito in un percorso di laurea, ma “di nuovo sono nate riflessioni importanti su temi come la giustizia, l’infrazione e la riparazione con modalità che parlano direttamente alla vita sociale di “fuori” - racconta Fabrizio Mandreoli -, insomma la composizione progressiva di un mondo comune maturata in un contesto potentemente interreligioso”. A quel punto l’idea di convogliare tutto in un contenitore strutturato e di livello accademico si fa ancora più forte: un corso di laurea in Scienze religiose. “Siamo in fase di definizione della convenzione con la direzione della casa circondariale - spiega il coordinatore del progetto - anche perché credo si tratti della prima esperienza di questo tipo all’interno di un carcere”. L’idea è quella di aprire anche ad alcuni studenti esterni, sia in veste di tutor sia come partecipanti ai corsi e ai seminari, ma gli utenti principali saranno i detenuti, “le persone in cerca di senso e di riscatto e che vogliono affrontare il loro senso di sconfitta e i loro desideri di ripresa e ricostruzione”. Un progetto che piace molto al cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna dal 2015 e da maggio presidente della Cei: “Sono molto contento di questo dialogo tra la ricerca teologica e il mondo del carcere. Significa che il pensiero sulla fede cristiana risponde anche alle domande di spiritualità di chi è detenuto. Un progetto come quello che sta per nascere alla Dozza fa bene alla teologia perché la porta più vicino agli interrogativi reali delle persone. Questa iniziativa avvicina la teologia alla vita e la vita alla teologia perché in carcere c’è tanta “vita”, e la riflessione teologica aiuta a “tarare” di nuovo una persona, anche quella che ha sbagliato. Le relazioni con gli altri vengono rovinate dal male che si è compiuto, e di cui si pagano le conseguenze con la reclusione: la teologia può rispondere alle domande grandi che ci si pone quando si vive questa condizione di vita, e dunque in definitiva a ritrovare sé stessi. Inoltre, un’iniziativa come questa, in particolare, risponde a un desiderio che in tanti abbiamo quando si parla di carcere, quello che riguarda la costruzione di un futuro possibile anche per chi ha sbagliato”. Pesaro. Ergastolo ostativo e riforme: il contributo dell’Ateneo alle norme Il Resto del Carlino, 27 novembre 2022 Il punto dopo la condanna della Corte Europea dei diritti dell’Uomo e la posizione della Corte Costituzionale. Ieri mattina si è parlato ergastolo ostativo. Ovvero quella forma di ergastolo che fino al 2019 non consentiva al condannato nessuna possibilità di accedere a benefici di legge. Il workshop “L’Ergastolo ostativo: nodi e snodi per legislatori, giuristi, operatori, società e detenuti” organizzato del Centro Ricerca e Formazione in Psicologia Giuridica “Assunto Quadrio” del Dipartimento Studi Umanistici dell’Ateneo, si è svolto nell’aula magna del Rettorato di UniUrb. “L’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nel 2019 e subito dopo la Corte Costituzionale ha riconosciuto la parziale incostituzionalità di questo istituto - spiega Daniela Pajardi, direttrice del centro di ricerca - dichiarato contrario al principio rieducativo della pena, perché non riconosce un possibile cambiamento delle persone detenute svincolato dalla scelta di collaborare con la giustizia. Sull’ergastolo ostativo pendeva però un’altra questione di legittimità, che la Corte costituzionale non ha affrontato per dare al Parlamento il tempo di rimettere mano alla materia. Dopo un dibattito parlamentare nella scorsa primavera, il Governo ha approvato a fine ottobre un decreto legge che per la prima volta consente agli ergastolani ostativi di chiedere misure alternative e misure liberatorie, al verificarsi di rigorose condizioni volte a dimostrare la definitiva rottura dei legami con le organizzazioni criminali. Su questa complessa vicenda si confronteranno in un dialogo interdisciplinare numerosi esperti del mondo penitenziario”. Cagliari. Un corso per parrucchiere in carcere: consegnati i diplomi alle detenute di Uta linkoristano.it, 27 novembre 2022 Completata la prima fase del progetto dell’associazione Socialismo Diritti Riforme. Una nuova possibilità per un gruppo di detenute nella sezione femminile della casa circondariale di Cagliari-Uta: qualche giorno fa hanno ricevuto un attestato per la prima parte del corso di formazione per parrucchiera, organizzato per iniziativa dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” in collaborazione con la Direzione dell’istituto e realizzata da Francesca Piccioni, titolare della Hair School di Quartu Sant’Elena, con il sostegno della Fondazione di Sardegna. “Il progetto di SDR”, ha detto il direttore del carcere, Marco Porcu, “dimostra ancora una volta il significativo ruolo svolto dal volontariato all’interno dell’istituto. Un impegno costante e concreto che rende il nostro quotidiano lavoro meno gravoso, soprattutto quando produce occasioni di crescita culturale e apre prospettive professionali”. “Seppure si tratti di una prima fase, il percorso di formazione ha consentito alle ragazze detenute di apprendere aspetti della professione fondamentali che hanno spaziato dall’accoglienza della cliente fino al colore passando per il lavaggio e l’asciugatura dei capelli e il montaggio dei bigodini”, ha detto Francesca Piccioni, insegnante del corso. “Abbiamo lavorato sulle testine ma anche con le modelle, con risultati apprezzabili”. La cerimonia di consegna degli attestati si è svolta nel locale della parruccheria alla presenza del direttore Marco Porcu - che ha consegnato personalmente il diploma a ciascuna delle corsiste - e delle funzionarie giuridico-pedagogiche Emiliana Podda e Pamela Cireddu. Hanno partecipato anche l’insegnante Francesca Piccioni, la vicepresidente di SDR Rina Salis, la referente per le carceri Maria Grazia Caligaris e il socio Luigi Demurtas. “Questa iniziativa che oggi si conclude con gli attestati è nata 5 anni fa, quando grazie ad alcune parrucchiere volontarie come Francesca Piccioni fu possibile realizzare un percorso sul benessere”, ha spiegato Maria Grazia Caligaris. “Oggi abbiamo aggiunto un nuovo tassello e speriamo di poter continuare il corso, per garantire una formazione utile a chi, concluso il periodo di perdita della libertà, tornerà nella società con un titolo professionale e con maggiori opportunità di reinserimento lavorativo”. “Siamo particolarmente grate del contributo del volontariato nel percorso riabilitativo delle detenute”, ha aggiunto la funzionaria Emiliana Podda. “Le iniziative di formazione rendono il periodo di perdita della libertà più significativo e favoriscono una migliore relazione con e tra le detenute”. “Il corso è stato un’occasione per noi importante”, hanno concluso alcune detenute. “Abbiamo imparato tante cose e lo abbiamo fatto in un contesto molto positivo. Studiare è stato molto piacevole. Desideriamo quindi ringraziare tutti e in particolare la Direzione per averci data questa opportunità”. Perugia. Il progetto “Nel nome del rispetto” arriva anche in carcere di Patrizia Peppoloni La Nazione, 27 novembre 2022 L’associazione che ogni anno promuove le buone pratiche della convivenza tra i giovani ha organizzato anche una giornata culturale con le detenute. “Nel nome del rispetto” avanza un passo alla volta, da anni ormai, e continua a piantare piccoli semi nelle coscienze di tanti studenti. Quando quei semi germoglieranno forse avremo un mondo migliore, intanto l’associazione guidata da Cristina Zenobi e dalla vice Cristina Virili, continua incessantemente a lavorare con le scuole dell’Umbria di tutta Italia per concretizzare il sogno di un mondo in cui la parola rispetto riguadagni il suo valore. L’associazione si appresta a portare avanti come ogni anno una intensa serie di attività e lo fa con l’aiuto anche di una mascotte che sta catturando sempre di più l’attenzione dei bambini, ‘‘Gatto rispetto’’, protagonista anche di un libro, ‘‘A scuola con Gatto rispetto’’, con i testi di Fiorenza Mosci e le illustrazioni di Matias Hermo. “Siamo andati recentemente in Liguria, dove c’è una nostra ambasciatrice - spiega Cristina Zenobi - per presentare il nostro progetto di ‘‘Gatto rispetto’’. Quest’anno abbiamo aperto a tutte le scuole, lavorando anche sui valori educativi dello sport e siamo partiti dalla Liguria, collaborando con due comuni che avevano organizzato delle iniziative”. E a proposito di Comuni da quest’anno l’associazione lancia anche il ‘gagliardetto del rispetto’, proprio per gratificare e incoraggiare quei comuni che realizzano iniziative su questi temi. “Noi abbiamo 26 ambasciatori dell’associazione in tutta Italia - spiega la dottoressa Zenobi - e coinvolgiamo migliaia di studenti. Il primo dicembre ci sarà la presentazione ufficiale del nostro progetto e del cartone di Gatto Rispetto ad Assisi. Interverranno anche due campioni dello sport e ci sarà il direttore della facoltà di Medicina Vincenzo Talesa”. Ma le iniziative non si fermano qui, raggiungono anche chi è dietro le sbarre. “Quando la poesia germoglia in carcere”, è l’iniziativa che si svolgerà alla casa circondariale di Capanne lunedì, promossa appunto dall’associazione “Nel nome del rispetto”, che ha nella sua ‘mission’ la valorizzazione della cultura della comunicazione, della solidarietà, della comprensione dell’individuo e della personalità di ogni essere umano. Per questo è stata organizzata una giornata in carcere con la premiazione del corso di scrittura creativa a cura dell’insegnante Francesca Gosti. Il programma della giornata prevede gli interventi della presidente Maria Cristina Zenobi e della sua vice Cristina Virili; l’attore Riccardo Monopoli spiegherà il motivo di un premio riservato alle persone detenute; seguirà la presentazione del CD “Parole liberate” con video e proiezione di sei brani. Al termine ci sarà l’intervento della direttrice del carcere Bernardina Di Mario. Sassari. A casa Massidda gli oggetti creati dai detenuti dell’Asinara di Mariangela Pala L’Unione Sarda, 27 novembre 2022 Manufatti artigianali forgiati dalle mani dei detenuti, creazioni nate in solitudine che raccontano spaccati di vita all’interno del carcere. Una vetrina di oggetti originali realizzati negli anni Quaranta e Cinquanta dai detenuti, rinchiusi nelle strutture penitenziarie dell’Asinara, sono custoditi nell’abitazione dell’ultimo guardiano del faro dell’isola, Giorgio Massidda. Un poggiapiedi creato con il legno trascinato dal mare e recuperato nelle spiagge dell’Asinara, un ferma carte in legno di olivastro firmato “F.Butti”, una delle rarità risalenti al 1943, con disegno a mano libera e i colori che hanno mantenuto nel tempo la loro brillantezza, ma anche mobili e quadri firmati da chi in carcere doveva trascorrerci gran parte della sua esistenza. Oggetti che Ida Fusco, madre di Giorgio Massidda, ordinava ai detenuti dietro autorizzazione delle autorità carcerarie, richieste che venivano soddisfatte in base alla disponibilità dei reclusi a Cala d’Oliva. I lavori venivano consegnati alle guardie penitenziarie che facevano da tramite con i clienti esterni, un sistema che consentiva di cogliere speranze e cambiamenti rispetto a necessità e bisogni.  Mughini: “Lotta continua non ha lasciato nulla. Nel sentire comune quella stagione non c’è” di Paolo Morelli Corriere della Sera, 27 novembre 2022 Lo scrittore è fra le voci del documentario “Lotta Continua” (nel programma del Tff): ”Un piccolo gruppo credette di poter diventare attore di una storia. Ma oggi un ragazzo di 25 anni non ha idea di quell’azione politica”. “In quel giornale non sono mai entrato, non lo leggevo neppure tanto, ma ho fatto il direttore responsabile, ho preso 3 condanne e ho subito 28 processi, pagando le spese da me”. Giampiero Mughini, giornalista e scrittore, è fra le voci del documentario “Lotta Continua” di Tony Saccucci, che l’ha scritto con Andrea De Martino e Eleonora Orlandi ispirandosi al libro “I ragazzi che volevano fare la rivoluzione” di Aldo Cazzullo (Mondadori, 1998).  La pellicola è fuori concorso al 40esimo Torino Film Festival, attesa il 2 dicembre (ore 20.30 al Cinema Romano) e racconta la storia del movimento facendo parlare alcuni protagonisti. Ci sono Erri De Luca, Vicky Franzinetti, Marco Boato, Donatella Barazzetti, poi Gad Lerner, Paolo Liguori, Vincenzo Di Calogero, Cesare Moreno, Andrea Papaleo, Marino Sinibaldi e - forse il più critico - Giampiero Mughini, che firmò il loro giornale dopo la richiesta dell’allora leader Adriano Sofri (perché un giornale esca, serve un direttore iscritto all’Albo dei professionisti).  “Ho accettato e lo rifarei adesso, perché i giornali devono uscire e la voce di Lotta Continua era la più autentica”, dice Mughini, molto distante da quell’area. Negli anni ha pubblicato libri molto critici come “Gli anni della peggio gioventù. L’omicidio Calabresi e la tragedia di una generazione” (Mondadori, 2009).  Il film è prodotto da Verdiana Bixio per Publispei con Luce Cinecittà, Rai Documentari e Rai Play, dove andrà come serie dal 4 dicembre, poi come film su Rai Tre il 12 gennaio, ed è definito “equilibrato” da Steve Della Casa, direttore del Tff che prese parte a Lotta Continua.  Mughini, lei nel film attacca i “militanti”. Qual è la differenza fra loro e i leader?  “Adriano Sofri era il capo dei militanti, fra i talenti della mia generazione insieme a Marco Boato, oppure Enrico Deaglio, bravissimo direttore del giornale, Mauro Rostagno e il torinese Guido Viale. Il “militante” è il personaggio medio che nei cortei gridava cose che oggi non ricorda nemmeno più, come “uccidere un fascista non è reato”. Aveva una responsabilità anche chi lasciava gridare queste cose, tante parole erano usate con leggerezza e io ho sempre pensato che le parole fossero importanti”.  Secondo lei il movimento ha sbagliato?  “Sì, credendo che un gruppetto potesse diventare l’attore protagonista di una storia complessa come quella di una democrazia industriale moderna. In Italia, a quell’epoca, c’era il più grande partito comunista europeo e c’era un partito socialista che ai tempi di Bettino Craxi era molto vivo. Il movimento pensava che questa fosse robetta”.  Che cosa ha lasciato Lotta Continua? “Nulla. Le nostre vite sono state segnate, ma nel sentire diffuso non c’è più niente. Oggi un ragazzo di 25 anni non ha idea di cosa sia. I libri di Adriano Sofri, ad esempio, sono importanti, ma sono i suoi libri, non di Lotta Continua”.  Però era un periodo di fermento a tutti i livelli.  “C’era un’ondata generazionale che ha investito tutta Europa con effervescenze non da poco. Ho dedicato la mia vita alla storia della mia generazione e molti dei terroristi li conoscevo già prima, come Valerio Morucci, a lungo mio amico dopo che si era dissociato dal terrorismo. Lo ammiro di più rispetto a quelli di Lotta Continua che prendevano le distanze dall’omicidio Calabresi”.  Erri De Luca, nel film, dice che qualunque militante dell’epoca avrebbe potuto farlo. Cosa ne pensa?  “È stata una caratteristica di un momento della storia italiana, non solo di Lotta Continua, che tuttavia ha all’attivo o al passivo l’omicidio che fa da atto di nascita del terrorismo rosso: quando una mattina una persona attende il commissario Calabresi, va alle sue spalle e gli spara. Molti militanti di Lotta Continua andarono via per fondare Prima Linea, gruppo terrorista che ne ha fatte tante quanto le Brigate Rosse”. La vera apocalisse arriverà con il crollo di Internet di Esther Paniagua Il Domani, 27 novembre 2022 Da anni, se non addirittura da decenni, e dagli ambiti più diversi c’è chi ammonisce del pericolo. Così, nel 2014, il filosofo e teorico della coscienza Daniel Dennett si rivolse al giornalista Toni García: “Internet crollerà e allora sperimenteremo ondate di panico”. Poi arrivò il Covid-19, e cambiò (quasi) tutto. L’accelerazione imposta al processo di digitalizzazione e l’aumento della dipendenza tecnologica buttarono ulteriore benzina sul fuoco. Avevamo ignorato i segnali d’allarme e non eravamo preparati. Il testo fa parte del nuovo numero di Scenari: “La guerra invisibile dei chip”, in edicola e in digitale dal 25 novembre. Nel 1909 lo scrittore britannico E. M. Forster pubblicò un breve racconto distopico, La macchina si ferma. Vi descriveva un mondo inabitabile, ridotto in cenere, i cui abitanti erano costretti a vivere isolati, reclusi in celle sotterranee all’interno di una Macchina da cui erano soggiogati e dominati. Da lei dipendevano il sostentamento e ogni collegamento con il resto del mondo. I rapporti si mantenevano solo attraverso messaggi e ologrammi. Tutti avevano migliaia di contatti, ma nessuna relazione significativa. Il ritmo di vita frenetico, in costante connessione e adorazione della Macchina, impediva l’instaurarsi di qualsiasi legame umano profondo. Si trattava di una civiltà a cui il silenzio era sconosciuto; il brusio della Macchina ad accompagnare in sottofondo qualunque attività. Ogni minima osservazione negativa veniva interpretata come una forma di ribellione “contro lo spirito del tempo”. Una bestemmia. La macchina si ferma è stato scritto oltre un secolo fa, sessant’anni prima della nascita di internet, eppure sembra incredibilmente attuale. Come attuali sono i timori di Forster circa il futuro dell’umanità - e del pianeta - e circa le conseguenze derivanti dalla dipendenza umana dalla tecnologia. Oggi più che mai. Le sue riflessioni a proposito del modo in cui l’uomo ha delegato la propria volontà individuale, della rinuncia alla libertà, dell’indifferenza, della frattura sociale o delle illimitate capacità di un sistema che nessuno è in grado di comprendere appieno ci riportano alla digitalizzazione e all’intelligenza artificiale contemporanee. Nel mondo attuale la Macchina di Forster è la rete delle reti, insieme ai big data e alle tecnologie cui ricorriamo per l’elaborazione di informazioni complesse (ciò che, erroneamente, definiamo “intelligenza artificiale”). Ma anche la Macchina versione aggiornata del XXI secolo si potrebbe bloccare. E in effetti è questa una preoccupazione latente all’interno della comunità tecnologica e tra chi si occupa di sicurezza informatica. Non se, ma quando - Da anni, se non addirittura da decenni, e dagli ambiti più diversi c’è poi chi ammonisce del pericolo. Così, nel 2014, il filosofo e teorico della coscienza Daniel Dennett si rivolse al giornalista Toni García: “Internet crollerà e allora sperimenteremo ondate di panico”. Da allora non riuscii a pensare ad altro. Iniziai a fare ricerche e mi resi conto che quell’ipotesi non solo era sensata, ma anche meritevole di essere raccontata e condivisa. Man mano che mi documentavo, aumentava il senso di urgenza… Poi arrivò il Covid-19, e cambiò (quasi) tutto. L’accelerazione imposta al processo di digitalizzazione e l’aumento della dipendenza tecnologica buttarono ulteriore benzina sul fuoco. Avevamo ignorato i segnali d’allarme e non eravamo preparati. Questo brusco ritorno alla realtà rese ancora più lampante la necessità di prendere consapevolezza di ciò che potrebbe accadere se internet crollasse. Come per la pandemia, anche per il black-out online era solo questione di tempo. La domanda non è se avverrà, ma quando. Ed ecco che allora accadde qualcosa. Il mondo si trovò ad assistere a varie prove su scala ridotta di quello che potrebbe succedere. L’ultimo e piú clamoroso incidente fu quello che, l’8 giugno 2021, mise ko migliaia di siti in tutto il mondo, inclusi quelli di Amazon, Twitter e Spotify, e di giornali come il País o il New York Times. A causare il crollo un errore informatico all’interno di Fastly, il fornitore di servizi cloud che ospita queste pagine web. Durò un’ora appena, un tempo comunque sufficiente per conquistare le prime pagine dei mezzi di informazione di tutto il mondo. Pochi mesi prima era toccato ad Amazon. Un problema con i server di Amazon Web Services (Aws) aveva provocato la chiusura anomala di numerosi siti e l’arresto dei dispositivi connessi come aspirapolvere e citofoni. Nel dicembre 2020 la vittima fu Google: un errore dovuto allo spazio di archiviazione insufficiente nei suoi strumenti di autenticazione rese impossibile l’accesso a tutti i servizi, con la sola eccezione del motore di ricerca. Ciò causò gravi interruzioni che colpirono numerose aziende, impossibilitate a utilizzare la posta elettronica, i sistemi di messaggistica istantanea e le piattaforme di lavoro in tempo reale. Anche i dispositivi per uso domestico di Google (inclusi termostati, luci e rilevatori di fumo) e la piattaforma YouTube smisero di rispondere. Tutto questo per quarantacinque minuti, quanto durò il blocco. Amazon e Google riuscirono a risolvere il problema in tempi piuttosto brevi, ma l’accaduto mostrò quanto sia facile provocare, anche involontariamente, un blackout di gran parte di internet. Questo a causa del fatto che i servizi online sono oggi nelle mani di pochissimi, i soliti noti. Con tutto ciò, l’idea - ormai non più così teorica - del crollo di internet, di quello che potrebbe comportare e tutti gli insegnamenti a proposito del nostro grado di dipendenza dalla connettività a livello individuale ma anche sociale, aziendale, governativo, amministrativo e di infrastrutture critiche, non era la sola cosa importante. Suicidio assistito: Cappato si autodenuncia. E chiede aiuto: “Da solo non riesco ad esaudire tutti” di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 novembre 2022 L’auto speciale per disabili che ha trasportato da Peschiera Borromeo ad una clinica Svizzera il signor Romano, l’82enne affetto da una grave forma di Parkinson che venerdì si è sottoposto al suicidio assistito nel Paese elvetico, l’ha guidata Marco Cappato. Lo ha raccontato lui stesso, il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, ai Carabinieri nella caserma di Milano dove è andato ad autodenunciarsi ieri. Per il signor Romano, ha sottolineato Cappato, quel viaggio è stato un’”agonia” lunga cinque ore. “L’auto - ha raccontato - mi è stata fornita da Felicetta Maltese, punto di riferimento della campagna referendaria a Firenze. Grazie a questa autovettura, che mi è stata portata da Reggio Emilia a Milano, sono andato a prendere Romano, l’ho caricato e ho fissato la carrozzina. La moglie di Romano - ha aggiunto - è salita in macchina con me. Non poteva fare altrimenti perché Romano aveva bisogno di continua assistenza. Per Romano ogni sillaba costava una fatica mostruosa. Mi ha ringraziato più di una volta e mi ha chiesto di mettere musica classica durante il viaggio”. Spiega l’avvocata Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Coscioni, che le condizioni del signor Romano - che non era ancora dipendente da alcun “trattamento di sostegno vitale”, così come non lo era la 69enne veneta Elena Altamira, malata terminale di cancro suicidatasi in Svizzera la scorsa estate sempre con l’aiuto di Cappato, che per questo è indagato - escludevano l’anziano signore dai casi in cui il suicidio assistito è legale in Italia dopo la sentenza 242/2019 della Corte costituzionale sul caso Cappato-Dj Fabo. Eppure c’erano tutte le altre condizioni imposte dalla Consulta: una malattia “fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche” e una piena capacità del paziente “di prendere decisioni libere e consapevoli”. La discriminazione che viene così messa in atto tra malati, cosi come la “tortura” di costringere le persone a dover morire distanti dal proprio letto, sono - afferma Cappato - “la condizione di oggettiva violenza dello Stato”. D’altra parte ha riferito ancora il dirigente radicale, “sono sempre di più le persone che si rivolgono a noi”. Tanto che “devo chiedere aiuto”, afferma. “Questo non è problema che si può nascondere sotto il tappeto, ma è sempre più un problema urgente. Devo chiedere aiuto. Spero che ci siano altre persone pronte ad assumersi questa responsabilità. Non posso farmi carico da solo. È un invito esplicito ad aiutarci con tutti i modi possibili” in questa operazione di “disobbedienza civile”. A dicembre, per esempio, l’associazione Soccorso civile, un’altra delle organizzazioni di cui Cappato è responsabile, aiuterà un’altra persona malata a raggiungere il Paese elvetico dove ha già un “appuntamento” per il suicidio medicalmente assistito. E dalla politica italiana invece nessun aiuto per questi malati. “Tutti zitti - accusa Cappato - mi dispiace per loro, perché queste vicende sono reali e sarebbero occasione di riflessione e di parola ovviamente anche per chi è contro le soluzioni che noi proponiamo. “Noi non chiediamo impunità, non stiamo chiedendo di chiudere un occhio, stiamo chiedendo allo Stato italiano di assumersi le proprie responsabilità. Non è una provocazione, è un’autodenuncia”. Catfishing, chi sono e come operano i bugiardi del “bad web” di Irene Soave Corriere della Sera, 27 novembre 2022 C’è chi ha perso tempo e soldi, a volte tanti. E chi, travolto dalla vergogna per essere stato imbrogliato, si è suicidato. Inventarsi vite che non sono la nostra sta diventando un fenomeno diffuso e pericoloso. Ma perché siamo prede facili dei truffatori? Matteo, sedicente avvocato, ha fatto colpo con una barzelletta un po’ fané. Lei insiste per raccontarmela. “Un moscovita va in edicola, compra il giornale, guarda la prima pagina e poi lo butta. Lo fa tutti i giorni. Un giorno l’edicolante sbotta: ma spreca un giornale così? Lui: sto aspettando un necrologio, ma non c’è mai. L’edicolante: ma i necrologi non sono in prima pagina! Il moscovita: quello che aspetto io sì”. Mi lascia sorridere, poi: “Vedi? Ha fatto ridere anche te”. Sedotta su Tinder da un impostore, Giovanna P. è una traduttrice, innamorata della cultura russa, “certo, prima di questi mesi”, e per un po’ pure di “Matteo”. “Aveva questo umorismo colto, sapeva mille cose; amava persino le stesse strade di Mosca che amo io. Ho poi capito che ne snocciolava i nomi avendoli visti su post del mio profilo, anche di 10 anni fa. Penso fosse davvero un avvocato... Ma che ne so”. Succede in Italia a centinaia di persone ogni anno: le denunce nel 2021 sono state trecento, ma la difficoltà a inquadrare in un reato le truffe sentimentali e la vergogna che inibisce i denuncianti fanno pensare che il dato sia al ribasso. Il 15,3% degli italiani ha subito un raggiro dovuto a una falsa identità e il 13% ha subito un furto d’identità (Eurispes, 2022). Spesso tramite il catfishing : una seduzione in cui uno dei due è un falso. Un gioco antico, dai tempi di Cyrano de Bergerac e delle Relazioni pericolose; reso possibile su larga scala, però, dalle app d’incontri e dai social, piattaforme su cui in Italia, ormai, si stima nasca un amore su due (a Londra e New York l’80%). “Mai visti dal vivo, e poi chi telefona più?” - Giovanna, 37 anni, e “Matteo” non si sono mai visti. “La nostra corrispondenza è durata tre mesi, lui diceva di vivere a Padova, io stavo a Roma, non c’era mai modo di vederci e non ci siamo mai telefonati. Ma onestamente nel 2022 chi è che telefona? Poi ho letto un vostro articolo sul catfishing e mi sono suonati troppi campanelli: le mille scuse per non incontrarci, le foto in posa, la voce strana nei vocali. Gli ho fatto qualche domanda trabocchetto; ha capito che avevo capito e mi ha bloccata. Fine del nostro amore, per così dire”. Giovanna non ha mai dato un soldo al suo falso innamorato, che non gliene ha mai chiesti; non ha mai capito chi fosse in realtà, “né ho denunciato, e cosa, poi? Credo fosse solo un tipo con scarsa autostima che amava fingersi qualcun altro. O qualche conoscente maligno che si prendeva gioco di me. Era perfetto per me. Ma finto”. Ma la colta barzelletta del moscovita l’ha fatta ridere davvero. Giovanna, bella e piena di relazioni, “non sto a casa una sera, ho mille amici, è solo l’amore che mi diserta”, sembra restia a pensare che questa storia, che ci ha scritto dopo la pubblicazione su 7 di una nostra inchiesta sulle truffe sentimentali (Sembrano solo cuori truffati ma è stupro affettivo, 7 del 4 febbraio 2022), sia stata un falso assoluto. Daniele, 24 anni: suicida per l’umiliazione - “Non fate i miei errori, io ho sbagliato tutto”, ha scritto nell’ultima lettera ai suoi Daniele, il geometra di Forlì che a 24 anni, a settembre 2021, si è ucciso per aver scoperto che la sua relazione tutta virtuale con una sedicente modella era stata un inganno. “Non ho mai avuto un amico, mai una ragazza. Sono stato solo tutta la vita”. Una storia immaginaria, con conseguenze (tragiche) molto reali. A illudere il giovane era stato un 64enne di Forlimpopoli, Roberto Zaccaria, che si spacciava per una certa “Irene Martini” e per settimane ha chattato con Daniele promettendogli matrimonio e figli. Ottomila messaggi. Chat lunghe anche 17 ore. Poi l’umiliazione, per Daniele, di sapersi ingannato. “La cosa che mi fa venire voglia di togliermi la vita”, scrive in un messaggio WhatsApp, “è che mi sono sentito preso per il culo da qualcuno che non conosco”. Era il 2021. Il 2 novembre di quest’anno la vicenda arriva alla ribalta tv delle Iene, che allo smascheramento di truffe sentimentali - ricordate il pallavolista Cazzaniga, che aveva donato 700 mila euro a una spregevole falsa fidanzata di nome Valeria Satta? - dedicano uno spazio ormai quasi fisso. Le Iene, in un servizio poi biasimato dallo stesso ad di Mediaset Piersilvio Berlusconi, rintracciano il truffatore, che si difende: “Io non sto bene”. Il suo volto è cancellato con un effetto, i compaesani però lo riconoscono e arrivano insulti e minacce. Domenica 7 novembre Zaccaria si uccide, e nel suo biglietto di addio al mondo ci sono le istruzioni sulle medicine da dare alla madre anziana, con cui abitava. Gli studi e quei 14 mila risarcimenti impossibili - Dalle ricostruzioni della storia, l’impostore Zaccaria - che al giovane che ha ingannato non ha mai chiesto un euro - sembrava emotivamente coinvolto, per primo, lui stesso. Chiedeva foto intime; chattava per giorni interi; il potere che esercitava sul giovane, forse la fantasia di sentirsi una donna stupenda grazie alle foto rubate dai profili social di una modella, erano la ricompensa che Zaccaria traeva dalla recita. Una recita che è proseguita con altri ragazzi, secondo Le Iene, anche dopo il suicidio di Daniele. Non è strano. Secondo i pochi studi disponibili sul catfishing gli scopi del fingersi qualcun altro online sono vari. Certo, in molti casi la truffa sfocia nella richiesta di denaro: un’associazione “contro le truffe affettive e il cybercrime”, Acta, ha ricevuto negli ultimi 8 anni circa 14 mila richieste d’aiuto, da persone che in media hanno perso 20 mila euro in truffe di questo tipo (un solo caso va oltre i 900 mila, irrecuperabili). Ma altrettanto spesso mentire sulla propria identità è un modo di sperimentare un diverso ruolo di genere, o di sentirsi risarciti di insuccessi sperimentati con la propria identità reale. La solitudine del truffatore - “Quando mando le mie foto vere, in genere smettono di rispondermi”, risponde uno degli intervistati in una ricerca del 2018 dell’università del Queensland concentrata sui truffatori sentimentali: la solitudine del truffato è spesso superata da quella del truffatore, che è il suo movente, secondo lo studio, nel 41% dei casi. Così nasce ad esempio una commedia natalizia molto popolare su Netflix, Love Hard (2021): zitellona californiana conosce online alpinista sexy costa Est; attraversa gli Stati Uniti per fargli una sorpresa e scopre di persona che a chattare con lei era un nerd bruttino; la commedia ha un lieto fine, ma la realtà è più brutale. La giurisprudenza italiana, per questi casi, è poi costellata di vuoti. Le indagini a carico di Zaccaria presso la procura di Modena erano state archiviate. Ipotizzata e poi caduta la fattispecie di morte come conseguenza di altro reato (art. 586 c.p.), era rimasta in piedi solo una condanna penale per sostituzione di persona (art. 494 c.p.), reato più modesto. La sanzione in cui la condanna è stata convertita era di 825 euro. Non c’è nemmeno stata estorsione. Che cosa prevede la legge italiana - Le leggi italiane prevedono appunto la sostituzione di persona, che per la prima volta la Cassazione ha collegato a un caso di account Facebook falso (sentenza 9391/2014): “non è reato”, così la sentenza, “la creazione di falsi account (...) ma lo è usarli per molestare altri utenti attraverso la chat”. Se poi per fingersi qualcun altro il truffatore usa foto o dati di altre persone realmente esistenti, lede anche il diritto all’immagine (art. 10 c.c.) e viola la legge sulla privacy circa il trattamento dei dati. Se al catfishing segue un raggiro si va su un terreno ancora più scivoloso. La prima sentenza che riconduce a truffa (art. 640 c.p.) un raggiro affettivo, la 25165 di Cassazione, è del 2019. Poca roba. La storia delle truffe, degli inganni e più in generale delle bugie sfugge alle leggi: si può mentire senza mai violarne nessuna. Sulle app di dating si stima che un profilo su 10 sia falso, cioè gestito addirittura da un bot, o dai soliti truffatori. Ma i profili di persone sposate che si dicono libere sono “veri” o “falsi”? E chi bara sull’età? Inaffidabili i profili sulle app di incontri - L’81% degli italiani (Ipsos Mori per Vodafone) mente sui propri profili di dating; le donne sul peso, gli uomini sull’altezza e sulla professione, e già solo in questo dato - del 2017, ma siamo cambiati molto da allora? - sono riassunti cento manuali di seduzione. Il 54% di chi cerca appuntamenti online, per lo stesso studio, si è imbattuto in profili falsi; solo il 25% dice di “conoscere qualcuno che ha profili falsi”; solo il 4% ammette di averne uno. Contattata dal Corriere non vuole parlare dello “scandalo” che ne ha travolto il profilo Instagram: Giulia Cutispoto, classe 1989, è diventata famosa - cioè ha 670 mila follower, scrive libri per Mondadori, collabora con il Sole 24 Ore - raccontando, a nome Julia Elle, il bello di una famiglia allargata. La sua lo è: un ex compagno, Paolo Paone, e un nuovo compagno, Riccardo Macario. Tre figli i cui nomi - citazione di Kardashian? - iniziano tutti con “ch”: Chloe, Chris e Chiara. I primi due di Paolo, la terza di Riccardo. Così la versione ufficiale. Poi dissapori col primo compagno. Lei lo accusa in tv di essere un padre assente. Lui replica: Chris non è mio. Spunta un terzo uomo, che avrebbe rifiutato la paternità di Chris - che, oggi all’asilo, potrà risparmiare da adulto le prime sedute di psicoterapia comodamente presentando le centinaia di articoli usciti sul caso - e lei controreplica: Paolo è stato un compagno violento. Lui: ma se ti ho accolta mentre eri incinta di un altro. E così via. Cosa c’era di vero nella felicità della famiglia allargata presentata dalla popolare influencer? E chi sono i truffati: i figli? Il pubblico non pagante? I marchi che si associano a “Julia Elle”, dai giocattoli all’aromaterapia, dalle profumerie agli integratori? Periodicamente uno “scandalo” di breve durata rivela l’inconsistenza di molte vite popolari online: dell’economista sedicente Imen Jane, a giugno 2020, il sito Dagospia ha rivelato che non aveva una laurea. In quelle settimane il suo profilo ha perduto qualche migliaio di seguaci; poi ha continuato a crescere. La narrazione ingannevole sui social - Un post su Instagram può valere (dal report 2022 di DeRev, società italiana di comunicazione digitale) fino a 75 mila euro. Quello della pubblicità social - che rispetto ai media tradizionali promettono agli inserzionisti più autenticità e “verità” - è un giro d’affari che in Italia, nel 2022, varrà 335 milioni di euro; nel mondo nel 2022 varrà 16 miliardi, una decina negli Stati Uniti; vere o false, le vicende delle migliaia di Julie Elle del pianeta mobilitano soldi assai concreti. Dov’è la soglia della “verità”? Se una Julia Elle, come trent’anni fa una Wanna Marchi, ci racconta che lo scioglipancia funziona, che la sua felicità è possibile, le dobbiamo credere? “La domanda è malposta” spiega la scrittrice Lauren Olyler. “Crediamo volentieri anche a una narrativa che sospettiamo possa essere vera solo in parte, ma ci seduce. E ci comportiamo di conseguenza. L’influenza dei social sulla politica nell’ultimo decennio lo dimostra. Donald Trump mica voleva davvero sparare ai messicani, lo sapevano tutti. Ma chi sposava questa narrativa l’ha votato, e ha pensato che fosse giusto poter sparare ai messicani”. Un romanzo sui falsi profili online - Olyer, autrice millennial, ha appena pubblicato il suo primo romanzo Fake Accounts (Bompiani, 288 pp., 20 euro, trad. di Marta Barone): la protagonista, curiosando nel cellulare del fidanzato Felix, gli scopre una “vita parallela” da imbonitore complottista con centinaia di migliaia di follower che non credono all’11 settembre. Il vero Felix è intelligente, buffo; il suo alter ego sgrammaticato e violento non gli somiglia, ma spopola. “Volevo mostrare che la truffata è lei: il pubblico di lui crede a un falso, ma ha esattamente quello che si aspetta. Lei si ritrova in una storia basata su presupposti diversi da quelli a cui credeva”. La storia svela una più ampia inconsistenza: quella dei “lavori digitali”, come il sito di contenuti divertenti in cui lavora la protagonista, “che richiedono sedici ore di impegno al giorno e non contribuiscono in niente alla società, se non con informazioni né vere né false, inconsistenti. O l’economia smaterializzata delle criptovalute, che ti fa chiedere: ma io cosa lavoro a fare? In questo senso sì, il falso influenza il vero. E su larga scala”. Migranti. La gestione emergenziale dei ghetti che non libera dallo sfruttamento di Adriana Pollice Il Manifesto, 27 novembre 2022 Le accuse alla Lega dei braccianti nei campi informali del foggiano. Dove la popolazione per la maggior parte è diventata stanziale, molti sono regolari ma non trovano casa. Aboubakar Soumahoro è finito al centro delle critiche non solo per l’attività della famiglia della compagna (con la gestione della coop Karibu e Consorzio Aid sotto indagine della procura di Latina). Da agosto sono cominciate le accuse anche al suo modo di condurre l’attività sindacale e, in particolare, alla gestione della Lega dei braccianti con una delle sedi nello stesso edificio delle cooperative. L’ex socio di Soumahoro, Soumaila Sambare, ha denunciato: “Durante la pandemia con la Lega braccianti abbiamo raccolto 250mila euro per procurare cibo a chi ne aveva bisogno nei ghetti. Circa 60, 70mila sono stati spesi ma quando abbiamo chiesto i resoconti siamo stati fatti fuori”. E ancora: “Per organizzare la protesta di Torretta Antonacci reclutava migranti di Borgo Mezzanone”, i ghetti del foggiano dove risiedono i migranti. L’Usb, con cui Soumahoro ha lavorato dal 2007 al 2020, gli imputa di aver scelto una strada “individuale, che ha prodotto una spaccatura tra i braccianti”. La Flai Cgil ha denunciato aggressioni verbali, spintoni e calci ai sindacalisti che cercavano di entrare nel Gran ghetto di San Severo: “Non erano gradite intromissioni, ci sono state minacce”. Anche la Caritas ha sottolineato il clima di scontro che si era creato e, sulla raccolta fondi del Natale 2021 di 16mila euro per i più piccoli, “nel ghetto di Torretta non ci sono bambini, mentre a Borgo Mezzanone sono molto pochi”. Dai racconti viene fuori un clima di scontro in una realtà gestita come un’emergenza che non deve finire mai. Erminia Ricci è un’operatrice legale in Diritto dell’immigrazione: “Il sistema foggiano è un unicum perché sono diversi insediamenti un una sola provincia. Alcuni sono molto grandi, quasi delle cittadine. Ghetti rurali, a inizio del secolo scorso erano italiani quelli che arrivavano per la raccolta; negli anni Ottanta c’erano già i primi casolari occupati, il Gran ghetto (ribattezzato Torretta Antonacci) e Borgo Mezzanotte ci sono da almeno 20 anni. La popolazione è diventata per la maggior parte stanziale. Tutti gli interventi pubblici sono inefficaci, legati a un concetto di emergenza inaccettabile”. Le ragioni per cui esistono sono tante: “I ghetti - spiega - sono funzionali: ci focalizziamo sulle condizioni igienicosanitarie ma così si spingono interventi di tipo umanitario che non risolvono le cause. Ci sono perché in Italia è difficile accedere alla protezione internazionale o alla richiesta di asilo, diventano il luogo dove aspettare. Se non hai accesso all’accoglienza lì la trovi, rispondono agli interventi normativi che hanno reso le persone irregolari (come i decreti Sicurezza), rispondono a un razzismo diffuso perché se sei nero pure se hai un contratto e un permesso di soggiorno nessuno ti fitta casa. Poi ci sono le richieste di asilo selettive e le sanatorie truffa. Infine rispondono alle esigenze della raccolta di pomodoro, della piantumazione che fanno solo gli stranieri, della raccolta degli ortaggi. Per questo ci sono, per questo esistono le filiere economiche distorte: ci si concentra sul caporale e si ignorano le responsabilità di aziende e grande distribuzione. Per eliminare conflitti e ghetti bisogna intervenire su tutte le cause”. Allora non serve dare in gestione baracche e prefabbricati. Servono case, formazione e avvicinare l’offerta di lavoro. Racconta Fabio Ciconte, presidente associazione Terra!: “Nel foggiano avevamo il progetto In campo! Abbiamo formato una decina di persone del ghetto, trovato un’abitazione (con una fatica enorme), hanno fatto tirocini retribuiti col massimo previsto per 10 mesi, alla fine abbiamo chiamato una grande azienda di trasformazione per un paio di ragazzi, erano talmente qualificati che li hanno assunti nel team di agronomi per i controlli”. Iran, il colpo in canna è italiano di Alessandro De Pascale Il Manifesto, 27 novembre 2022 Le cartucce dell’italo-francese Cheddite, fatte tra Livorno e Bourg-lès-Valence, usate a Tehran e in altre città per sparare sulle proteste. Come già in Myanmar e Siria. Nonostante l’embargo. Un servizio del team investigativo The Observers dell’emittente televisiva internazionale France 24 “ha trovato prove che le cartucce per fucili prodotte dall’italo-francese Cheddite sono state utilizzate nella repressione delle proteste in Iran”, confermando così le risultanze di un’inchiesta su quella società che il nostro quotidiano sta conducendo a più riprese dal marzo 2021. I giornalisti della tv francese hanno ottenuto dagli iraniani oltre 100 foto e video delle munizioni esaurite recuperate dopo le proteste scoppiate in seguito alla morte per mano della polizia della 22enne Mahsa Amini il 16 settembre, e represse nel sangue dalle forze di sicurezza iraniane. Nelle fotografie inviate da cittadini e attivisti iraniani, pubblicate da France 24, tredici cartucce rinvenute a terra dopo le manifestazioni nelle città di Teheran, Yazd, Shiraz, Karaj, Rasht, Sanandaj e Kamyaran sono a marchio Cheddite, tra i più grandi produttori al mondo di questo tipo di munizioni con sedi operative a Livorno e Bourg-lès-Valence (Francia). Circostanza confermata anche dagli esperti in materia interpellati dalla tv. Le foto di 10 cartucce del produttore italo-francese sono state inviate ai giornalisti dell’emittente televisiva da 1500Tasvir, un gruppo di attivisti sceso in campo per documentare le proteste. Ma quelle di altre tre provengono direttamente dagli iraniani scesi in piazza. “Un manifestante ha inviato le fotografie di una cartuccia che ha recuperato nella città centrale di Yazd, dopo che le forze di sicurezza hanno sparato su di lui e altri dimostranti il 28 settembre. Sulla base della munizione è inciso “Cheddite 12” sulla base e “Shahin 2017/24” sull’involucro in plastica verde”, riporta il servizio di France 24/The Observer. Un altro partecipante alle proteste “ha inviato fotografie di una cartuccia recuperata nella capitale Teheran il 3 ottobre, dopo che le forze di sicurezza hanno sparato contro i manifestanti. La cartuccia presenta il logo Cheddite “12*12*12*12*” e una custodia di plastica gialla con la scritta “Iran 2020/01”“. Ci sono poi le immagini di “un residente di Mahabad”, che mostrano “una cartuccia recuperata dopo che le forze di sicurezza hanno usato fucili per reprimere una protesta il 29 ottobre”. In questo caso, l’involucro di plastica verde della cartuccia che contiene i pallini “non aveva scritte”, mentre “il logo presentava sulla base il “12*12*12*12*” della Cheddite”. L’azienda franco-italiana “è l’unico produttore noto a utilizzare quella sigla”, denunciano ancora i giornalisti di France 24. Un membro della milizia iraniana Basij, “che si è occupato della repressione di queste proteste”, ha dichiarato all’emittente televisiva che “l’equipaggiamento standard della sua unità per i fucili sono cartucce a marchio Maham”, aggiungendo però che “hanno anche ricevuto cartucce da caccia da usare non contrassegnate, piene di pallini di metallo, che causano “piccole ferite dappertutto” sui corpi delle vittime”. Come da almeno oltre un mese mostrano le fotografie che circolano in Rete dei manifestanti sui quali sono state sparate. Le cartucce da caccia Cheddite vengono utilizzate per la caccia nel Paese degli ayatollah “almeno dal 2011”, in “apparente violazione delle sanzioni dell’Ue entrate in vigore quell’anno”. Il regolamento del Consiglio dell’Unione europea n. 359/2011, approvato il 12 aprile 2011, “vieta infatti l’esportazione, diretta o indiretta, di attrezzature che potrebbero essere utilizzate per la repressione interna” in Iran, comprese “armi da fuoco, munizioni e relativi accessori”. Cinque esperti di sanzioni hanno dichiarato a France 24 che tale il divieto si estende anche alle cartucce per fucili e ai loro componenti, indipendentemente dall’uso previsto o dalla catena di vendita adoperata. A partire dal marzo 2021, un mese dopo colpo di Stato messo a segno dai militari in Myanmar, questo quotidiano aveva dato conto delle cartucce da caccia della Cheddite trovate dai manifestanti birmani in seguito alle proteste pro-democrazia. Una di queste era stata sparata persino contro un’ambulanza intenta a portar via i feriti. Nei mesi successivi, il manifesto ricostruì anche il possibile percorso che avevano fatto grazie ad una triangolazione con un Paese terzo: in testa ai sospetti la Turchia della Yavascalar YAF (con cui la ditta franco-italiana era in affari), seguita dalla Tailandia. Come confermò in seguito anche il precedente governo Draghi, grazie all’acquisizione da parte delle forze dell’ordine di documenti nella sede della Cheddite a Livorno. “Le forze di sicurezza iraniane usano fucili di fabbricazione turca e gli esperti di sanzioni affermano che la Turchia è nota come punto di riferimento per evitare gli embarghi sulle armi”, dice ora France 24. Aggiungendo inoltre che, da quando nel 2011 sono entrate in vigore le sanzioni dell’Ue sulle attrezzature impiegabili per la repressione interna dal 2011, la Turchia ha esportato in Iran cartucce per fucili da caccia per un valore di circa 7 milioni di euro (dati Onu). Mentre l’Italia, nello stesso arco temporale, per ben 85,8 milioni di euro. Cartucce YAF turca/Cheddite erano state precedentemente rinvenute anche durante la guerra in Siria. La ditta franco-italiana allora preferì non rispondere alle domande del manifesto, come anche a quelle rivoltegli ora da France 24. La quale oltre alla sede di Livorno ha contattato anche quella transalpina di Bourg-lès-Valence. Bocche cucite con entrambe le testate anche in Turchia. Foto di munizioni da caccia di produzione italiana calibro 12, stavolta della Rc Eximport di Forlì, sarebbero poi state trovate durante la repressione di manifestazioni nella capitale thailandese da parte del governo militare al potere. Il tutto in un Paese dove, a differenza dell’Iran o della stessa Turchia, la caccia è poco diffusa. A pubblicarle, il 10 agosto 2021, la corrispondente da Bangkok del network asiatico Channel News Asia (Cna), May Wong. Iran, le donne fanno tremare gli ayatollah di Maurizio Molinari Corriere della Sera, 27 novembre 2022 La rivolta in nome di Mahsa Amini non accenna a diminuire. La Repubblica Islamica attraversa il momento di maggior vulnerabilità dalla sua nascita. A settantadue giorni dall’uccisione a Teheran di Mahsa “Zina” Amini la rivolta delle donne non accenna a diminuire, scuotendo le fondamenta della teocrazia degli ayatollah: per il sociologo Asef Bayat “stiamo assistendo alla nascita di un nuovo Iran”. Estesi blackout di Internet, oltre 8.000 arresti di massa in città e province, l’uso massiccio di armi da fuoco, bastoni e percosse, gli assedi ai campus, gli stupri di donne arrestate e almeno 200 vittime non sono riusciti a fermare una rivolta spontanea, fatta di singoli gesti, senza violenza e senza leader riconosciuti, che si nutre solo del coraggio infinito di giovani donne indomite. Per comprendere cosa intende Bayat quando sottolinea che “ci troviamo davanti ad un movimento nazionale per reclamare il diritto alla vita” di 87 milioni di iraniani - in prevalenza giovani sotto i 25 anni - bisogna analizzare le tre maggiori novità che stanno emergendo dalla cronaca iraniana: il ruolo guida rivoluzionario delle donne; la grande diversità del movimento di protesta; le divisioni interne al regime. La più evidente e determinante novità è che per la prima volta, non solo nella Storia iraniana ma dell’intera umanità, ci troviamo di fronte ad un movimento nazionale innescato dalla rivolta delle donne per il rispetto dei loro diritti. Le donne in Iran erano già state decisive per la vittoria del “riformista” Mohammad Khatami nelle presidenziali del 1997 e nella protesta dell’Onda Verde del 2009 ma ora sta avvenendo ben altro. Si tratta di donne in gran parte giovani e giovanissime, ovvero nate fra il 1997 ed il 2012, appartenenti dunque alla Generazione Z, cresciute in Iran senza avere memoria diretta della rivoluzione khomeinista del 1979 o della lunga guerra Iran-Iraq. Nella loro vita non hanno assistito o subito le asprezze di conflitti sanguinosi, sono vissute in una situazione di sostanziale stabilità, maturando però un grado di educazione superiore alle generazioni precedenti. Se infatti durante gli anni dello Shah il ceto medio preferiva spesso non mandare le figlie all’università, nel timore che i costumi occidentali le allontanassero dalle radici tradizionali, dopo l’avvento della Repubblica Islamica è avvenuto l’esatto opposto ed oggi almeno il 60 per cento degli studenti negli atenei è composto da donne. La disoccupazione femminile invece è il doppio di quella maschile e dopo l’elezione alla presidenza dell’ultraconservatore Ebrahim Raisi nel 2021 la situazione è peggiorata perché le limitazioni ai danni delle donne sono state rafforzate. Se nel 2018 un’indagine del Parlamento di Teheran attestava che la maggioranza delle donne non gradiva l’obbligo al velo, Raisi ha inasprito proprio tali imposizioni islamiche. Le donne che rivendicano il diritto di non vestire i differenti tipi di veli islamici - dal chador all’hijab - e non accettano più di essere trattate dalla teocrazia sciita come cittadine di serie B sono tante, giovani e colte. E conoscono il mondo, sono a proprio agio con le comunicazioni digitali, come dimostrano i video con cui stanno inondando il web. Fra loro ci sono ragazze che si sciolgono i capelli in gesto di sfida davanti alla polizia “della purezza”, donne anziane che lo fanno sul web per denunciare i killer del figlio e artiste popolari come Fatemeh Motamed-Arya che togliendosi l’hijab ha pronunciato la frase-shock: “Nel mio Paese non sono una donna”. La seconda novità di rilievo è che le donne non sono le sole a far parte di questo movimento perché le informazioni che ogni giorno ci raggiungono dall’Iran mostrano almeno altre tre grandi categorie al loro fianco: gli studenti uomini, della stessa Generazione Z; gli insegnanti, impegnati a battersi per i diritti dei loro alunni di ogni sesso e grado in una molteplicità di scuole ed atenei; i gruppi etnici, dai curdi nel Nord - a cui apparteneva la 22enne Mahsa “Zina” Amini - ai Beluci nel Sud, che da tempo mostrano di essere i più insofferenti alla repressione guidata da Teheran sui territori dove i persiani sciiti sono meno presenti. E ancora, ad estendere la protesta c’è il fatto che include una moltitudine di istanze di disagio sociale: dai contadini colpiti dalla siccità ai pensionati che chiedono più benefici, dai giovani che lamentano carenza di occupazione a quelle donne, in età adulta, che rimproverano agli ayatollah di aver inaridito l’offerta culturale in una nazione culla di un’antica civiltà dove teatri, concerti, musiche, film ed altre manifestazioni artistiche sono soggette alla più asfissiante delle censure in nome dell’ostilità verso le “culture nemiche”. È proprio la diversità del movimento di protesta a far comprendere la genesi del motto “Donne, vita, libertà” divenuto una sorta di grido di battaglia dalle strade di Shiraz alle piazze europee, fino agli spalti degli stadi di Doha. La sovrapposizione fra la rivolta senza precedenti delle donne e la diversità del movimento di protesta che la sostiene spiega perché la Repubblica Islamica si trova ad affrontare una sfida assai più pericolosa dell’Onda verde che nel 2009-2010 fu innescata dalla contestata rielezione del presidente Mahmud Ahmadinejad, come anche delle più limitate sollevazioni avvenute nel 2017 e 2019 soprattutto per motivi di tipo economico. È in tale cornice che si pone l’interrogativo su cosa sta avvenendo dentro il regime di Teheran perché se da un lato il Leader Supremo della Rivoluzione, Ali Khamenei, ha ordinato senza battere ciglio la repressione totale e il presidente Ebrahim Raisi la sta coordinando, dall’altro è evidente che le forze di sicurezza esitano ad adoperare tutti gli strumenti a disposizione contro i civili. Perché dare la caccia ad ogni testa senza hijab in una nazione di 1,7 milioni di kmq è un’opera ardua anche per il più brutale apparato di sicurezza. Forse non a caso Gholam Mohseni-Ejei, onnipotente capo del potere giudiziario, ha cambiato almeno quattro volte interpretazione e linguaggio sulla rivolta delle donne, rendendo evidente la presenza di posizioni contrastanti nel regime. Tali tentennamenti possono avere più spiegazioni: dalla presenza di almeno 60 mila coscritti anche dentro i ranghi delle Guardie della rivoluzione - il corpo dei fedelissimi pasdaran, da cui dipendono stabilità e proventi della teocrazia - al fatto che Khamenei ha 83 anni, è molto malato dal 2014 ed è circondato da un sentimento generale di fine-regime che ha tenuto lontano dalle urne delle ultime presidenziali circa metà della popolazione. Il regime ha il problema reale di come rinnovare e far accettare ai giovani la “legittimità” della rivoluzione khomeinista, che risale oramai a 43 anni fa. Da qui l’ipotesi che fra gli ayatollah sia in atto un confronto fra chi vuole usare il massimo della forza militare per schiacciare nel sangue la rivolta delle donne e chi invece forse si rende conto che sarebbe piuttosto preferibile riconoscere alle donne il diritto di non indossare il velo - la cui origine è nei costumi tradizionali delle tribù beduine della Penisola arabica - per poter tornare a garantire alla teocrazia un minimo di stabilità. Quale che sarà la scelta della Repubblica Islamica, è facile dedurre che attraversa il maggior momento di vulnerabilità dalla sua nascita. Forse anche per questo i portavoce di Teheran provano ad imputare alle “infiltrazioni di nemici occidentali” la sollevazione dei diritti mentre i pasdaran impiegano ogni strumento nella repressione: dalle immagini raccolte dai propri droni ai “consigli” forniti dell’intelligence russa. Nel vano, disperato, tentativo di obbligare le coraggiose donne iraniane a tornare ad indossare il velo dell’oppressione.