Ora la Rai rilanci l’appello del Dubbio contro i suicidi in carcere di Valter Vecellio Il Dubbio, 26 novembre 2022 Ormai siamo a quota 79, un fenomeno inaccettabile che il Dubbio propone di provare ad arginare non attraverso chissà quale riforma, ma con 5 proposte semplicissime. Lodevolmente Il Dubbio ha promosso un appello sulla situazione nelle e delle carceri. Appello raccolto da un nutrito gruppo di personalità: Roberto Saviano, Gherardo Colombo, Luigi Manconi, Giovanni Fiandaca, Fiammetta Borsellino, Mattia Feltri, Ascanio Celestini, Francesca Scopelliti, Marco Bentivogli, Giuliano Pisapia, Tullio Padovani, Fabio Trizzino, tantissimi altri. Sono persone che per le loro esperienze e il loro lavoro ben conoscono la realtà del carcere in Italia; chiedono cose più che ragionevoli, in linea e coerenza con la Costituzione; è perfino avvilente chiedere siano garantite. Chiedono che si reagisca al massacro in corso nelle celle dei nostri letterali istituti di pena: il 2022 sarà ricordato come l’anno orribile, non è ancora finito e sono oltre 80 i detenuti e gli agenti della polizia penitenziaria che si sono suicidati; questo senza contare i salvati, per il pronto intervento degli agenti o dei compagni di cella; e la quantità di gesti auto-lesionistici. Si chiedono cinque cose minime, ispirate a puro buon senso, per cominciare: 1) aumentare le telefonate per i detenuti; 2) alzare a 75 giorni i 45 previsti a semestre per la liberazione anticipata; 3) creare spazi da dedicare ai familiari; 4; aumentare il personale per la salute psicofisica; 5) attuare al più presto, con la prospettiva di seguire il solco delle misure alternative, quella parte della riforma Cartabia che contempla la valorizzazione della giustizia riparativa. Un giornalismo degno di questo nome già avrebbe dovuto sentire la necessità, il dovere, l’obbligo etico di occuparsi di questi problemi; chiedersi come mai oltre ottanta persone della comunità carceraria nel 2022 hanno scelto questa drammatica, definitiva forma di “evasione”; le ragioni, i contesti. Un servizio pubblico radio-televisivo degno di questo nome avrebbe già dovuto sentire il dovere, l’obbligo, la necessità di invitare in studio in uno degli innumerevoli programmi di approfondimento i firmatari dell’appello e chiedere loro le ragioni di quella firma, cosa li ha spinti ad aderire a quell’appello. Chiedersi perché non accade, perché giornali e televisioni pubbliche e private che siano mostrino un’indifferenza che rasenta la complicità, è qualcosa che prima o poi si dovrà pur fare, una sorta di “processo” all’intero sistema informativo, per capire come mai, perché accade quello che accade. Per l’intanto, dal momento che non ci sono arrivati per loro conto direttori di telegiornali, direttori di rete, responsabili di programmi, è troppo chiedere all’amministratore delegato della RAI Carlo Fuortes, alla presidente Marinella Soldo, ai componenti del Consiglio di Amministrazione Simona Agnes, Francesca Bria, Igor De Biasio, Alessandro di Majo, Riccardo Laganà, che ricordino ai loro dipendenti che servizio pubblico è anche ascoltare le ragioni dei firmatari dell’appello promosso dal “Dubbio”, e la più generale questione del carcere, finora ignorata se non per dolo, certamente per colpa? Il giudice che si scusò per il suicidio di Donatella Hodo in carcere sta mantenendo la promessa di Manuela D’Alessandro agi.it, 26 novembre 2022 In un’intervista Vincenzo Semeraro racconta di come la sua vita sia cambiata dopo che si è assunto la responsabilità della morte della 27enne, una dei 79 detenuti che si sono ammazzati nel 2022, record del millennio La vita di Vincenzo Semeraro è cambiata da quando, nella notte tra l’1 e il 2 agosto scorso, Donatella Hodo si è uccisa a 27 anni nel carcere veronese di Montorio, una delle 79 persone, record nero del millennio, che nel 2022 l’hanno fatta finita in cella. Quattro mesi dopo, il magistrato della Sorveglianza che da anni seguiva la ragazza nel suo percorso di recupero sta cercando di mantenere una promessa in nome di Donatella. “Più cura per le donne recluse” - “Qualcosa è cambiato, ci sto mettendo un maggiore impegno nel cercare di studiare di più i casi - racconta in un’intervista all’AGI nell’ambito della mostra ‘Disagio dentro’ in corso in Tribunale a Milano -. Nella sezione femminile ci sono mediamente all’anno una quarantina di detenute rispetto ai 500 uomini, è ovvio che le maggiori attenzioni siano riservate alla sezione maschile. Per questo sto cercando di mettere ancora più cura sulle detenute donne”. Semeraro è uno dei giudici, una minoranza, che va a incontrare i reclusi di cui si occupa nel loro percorso di detenzione. E’ convinto che il magistrato debba “sentire la puzza” del carcere. Così faceva, vedendola spesso, con la ragazza che ha lasciato prima di morire un biglietto di scuse al suo fidanzato in cui spiegava di non poter più andare avanti nonostante il loro grande amore. “Sono stato criticato perché ho parlato di affetto nei confronti di Donatella perché un giudice dovrebbe mantenersi ‘terzo’, senza farsi coinvolgere troppo. Ma io penso che per fare bene questo mestiere sia necessario provare empatia”. La storia della detenuta col cane in carcere - Fa un esempio: “Quando lavoravo a Venezia, nella Casa circondariale femminile è entrata una giovanissima che non aveva nessuno fuori. Abbandonata dai parenti, viveva in strada con un cagnolino, il suo unico affetto. Grazie al buon senso della direttrice e del personale quel cane è stato adottato dal carcere e, quando la ragazza, che aveva problemi di dipendenza dalla droga come Donatella, aveva l’ora d’aria, poteva giocarci. Circa un mese dopo che ha finito la pena, ho letto su un giornale che è stata ritrovata morta in una calle di Venezia con una siringa ancora infilata nel braccio. Per me è stato un pugno nello stomaco. Mi sembra difficile dire che ci occupiamo di casi, sono persone”. Al funerale di Donatella Hodo, venne letta una lettera firmata dal giudice (“La mandai a una terza persona che la diffuse senza la mia autorizzazione”) nella quale Semeraro parlò di “fallimento” suo e del sistema. “Voglio chiarire cosa intendevo. Molti sono convinti che facessi riferimento al carcere di Verona ma non è così. Pensavo al legislatore che non ebbe il coraggio di trasformare in legge nel 2018 i suggerimenti per aumentare le misure alternative provenienti dal tavolo di riforma penitenziario, rimasti lettera morta perché di lì a poco si andava a votare e si aveva paura della reazione degli elettori. Ai governi che non rimpolpano il personale della polizia penitenziaria e gli educatori che sono 700 per 55mila detenuti. Alle regioni da cui dipende la sanità penitenziaria e il numero di psicologi e psichiatri sempre più basso. Per andare via via più giù sino ad arrivare alla magistratura”. “Nei colloqui non le ho fatto immaginare un futuro” - Semeraro ribadisce: “Prima di tutto il responsabile sono io perché faccio parte di questo sistema. Se una ragazza si è uccisa per mancanza di una progettualità nel futuro dipende anche da me e dal fatto che nei colloqui non sono riuscito a prospettare dei futuri praticabili”. E’ giusto tenere in cella le persone con dipendenze o disturbi psichiatrici? “Il legislatore prevede che ci siano istituti specifici destinati a detenuti con problemi di tossicodipendenza, gli Icat, ma purtroppo sono molto pochi in Italia. Sui malati psichiatrici c’è un vuoto normativo perché chi inizia a soffrirne in carcere non può andare nelle Rems. A volte possono essere sottoposti a 30 giorni di osservazione psichiatrica ma il vero problema è che spesso queste persone fuori non hanno nulla, nemmeno un tetto da mettersi sulla testa”. La maggioranza dei sucidi sono proprio detenuti con dipendenze e disturbi psichiatrici. Semeraro non immaginava che Donatella potesse farlo: “Spesso i segnali di malessere vengono ricostruiti dopo e così è stato anche per lei. Le altre detenute mi hanno detto che nei giorni precedenti aveva voluto a tutti i costi restituire oggetti di poco valore, come le creme depilatorie, che le erano state prestate. Ho avuto un colloquio col padre, dopo il funerale. Non so se ha apprezzato le mie parole ma so che per certo che seppellire un figlio è un dolore contro natura”. Gratteri: “Datemi il Dap, ma voglio pieni poteri” di Davide Varì Il Dubbio, 26 novembre 2022 Il procuratore si candida alla guida del Dipartimento che si occupa di carcere e la cui poltrona vale più di 300mila euro. E si dichiara “vero garantista”. “Con Nordio ho parlato di arte, lui è un grande conoscitore di Storia. Anche io mi considero un garantista, io e il mio ufficio osserviamo in modo ortodosso le norme del codice. Ci sono diffamatori quotidiani che scrivono notizie false, ho iniziato cause civili contro questi diffamatori seriali. Da quando sono a capo della procura di Catanzaro non c’è una sola condanna per ingiusta detenzione, lo dice il presidente della corte d’appello. Non ci sarebbero le carceri piene in Calabria se le mie indagini fossero tutte un bluff”. Così il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7. Dal ponte sullo Stretto - “che i calabresi non vogliono mentre i siciliani non ne hanno bisogno perché i turisti arrivano coi voli low cost” -, alla questione migranti. Insomma, Gratteri, gran frequentatore di salotti televisivi dai quali lancia le sue nuove fatiche letterarie, non smette di stupire e ormai parla come un tuttologo qualsiasi. Non solo, sull’immigrazione e sullo scontro tra Roma e Parigi, veste i panni di ministro degli esteri e invita al silenzio Francia e Inghilterra che, dice, “non possono parlare per il loro passato coloniale”. Poi il velato, ma neanche troppo, apprezzamento al governo Meloni - “l’unico che ha parlato di mafia” - e l’ammiccamento per la poltrona di capo del Dap, che vale più di 300mila euro l’anno: “Nessuno mi ha chiesto di fare il capo del Dap. Forse è un desiderio della polizia penitenziaria ma dipende da che libertà mi danno, devo avere mani libere”. Il che ricorda il poco fortunato voglio pieni poteri di una Salvini convinto di vincere le elezioni, salvo poi scoprire di stare sotto il 10%. Insomma, il solito Gratteri, che tra un giudizio e l’altro, non dimentica di ricordare che lui è un “vero garantista” (sic!), che la separazione delle carriere sarebbe una iattura e che la riforma Cartabia andrebbe cancellata. Punto. Un passaggio il procuratore di Catanzaro lo dedica anche all’annunciata modifica dell’abuso d’ufficio. “L’abuso d’ufficio è un reato difficile da dimostrare, così come è formulato - ha sottolineato -. Ma è un reato spia, e secondo me serve. Non vorrei che alcuni sindaci scegliessero di usare il Comune come casa propria. Dovremmo accorpare i comuni più piccoli, poi i sindaci se vogliono un parere tecnico prima di apportare una firma possono chiederlo, se invece vogliono favorire il parente o l’amico è giusto che gli arrivi l’avviso di garanzia”. Riforma Cartabia: ecco perché la difendo a partire dalla giustizia riparativa di Paola Maggio* Il Dubbio, 26 novembre 2022 Esprime un tentativo di sintesi non agevole fra garanzie ed efficienza, ma significativo di un cambio di passo. Sorprendono non poco le incursioni a pochi giorni dall’insediamento del nuovo governo sulla materia penale. Dal presidio penalistico rafforzato contro i rave, all’ergastolo ostativo, al rinvio della “riforma Cartabia”. Di quest’ultima, nel dibattito pubblico, qualche voce invoca non solo la già ottenuta procrastinazione temporale a opera dell’art. 6 d. l. 31 ottobre 2022, n. 162, subito oggetto di questione di costituzionalità, bensì la cancellazione, rea come sarebbe di un collasso della presunzione di innocenza e di una perdita della funzione cognitiva del processo. Se tutte le opinioni sono sempre meritevoli di considerazione e, anzi, di valorizzazione nel punto in cui auspicano una meditazione più ampia sui molti innesti operati dal d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, a beneficio di una migliore resa normativa, preoccupano invece le contrapposizioni manichee, dimentiche in qualche caso delle ragioni che hanno indotto alle modifiche. Vale allora la pena ricordare il punto di partenza di una manovra che per contenuti e aree di interesse è fra le più capillari degli ultimi anni. Da dove partiamo per lamentare i danni nefasti e futuribili della riforma Cartabia? Da una situazione aurea di rispetto delle tempistiche processuali? Da una realtà irenica del modello, lontana dal panpenalismo asfissiante? Da una proiezione penitenziaria ottimale? Sembrerebbe proprio di sì, a sentire i detrattori delle novità rinviate. Al proposito, “darei qualche numero” per tentare di descrivere la situazione reale, nella quale gli innesti normativi si inseriscono. Partirei dalla fine: dall’output, dalla pena e dal carcere in particolare. Nella relazione annuale dell’Autorità garante delle persone private della libertà, fatta anche di dati e di statistiche, trovano descrizione drammatica un carcere disumanizzante, i difetti di tutela dei detenuti, le dimensioni macroscopiche del disagio psichico fra i ristretti. Tutta la Relazione è tenuta insieme da un comune denominatore: il Tempo. Il tempo non lontano che ci separa dai fatti tragici di Santa Maria Capua Vetere; il tempo scandito dal bollettino giornaliero dei suicidi in carcere (79 persone si sono tolte la vita sino all’11 novembre 2022); il tempo senza fine delle ostatività di taluni reati in relazione ai regimi penitenziari e il tempo delle messe in mora delle Corti rispetto alle disarmonie convenzionali e costituzionali di questa disciplina. Per non perdere di vista la situazione reale, rinvierei al monitoraggio del Comitato del Consiglio d’Europa sulla prevenzione della tortura dal quale emergono i guasti del sovraffollamento quale fattore di grave violazione dei diritti umani in un contesto compromissorio della finalità risocializzativa della pena. Se poi fossimo oltremodo curiosi e volessimo guardare a qualche dato sistemico, spunti di interesse offrirebbe la Relazione sullo stato di diritto per il 2022 della Commissione Ue, nella quale si dà atto del duplice intento di potenziare garanzie ed efficienza del processo penale, introducendo anche una riforma organica sulla giustizia riparativa. Il rapporto dell’Ue evidenzia gli sforzi compiuti dall’Italia con l’ampia manovra riformistica per la celere definizione dei procedimenti penali, anche ampliando l’applicazione di procedure semplificate, promuovendo l’impiego della tecnologia digitale e definendo i termini temporali per le indagini preliminari. Ulteriori dettagli offre la Relazione di sintesi del Primo presidente della Corte di Cassazione per l’anno 2021, dominata dal tarlo dell’eccessiva durata dei processi. Senza trascurare infine un altro frangente particolarmente pruriginoso: la notissima evenienza che la scure del PNRR incombe sulle modifiche. Si fa fatica ad accettare che la pressione economica degli aiuti europei determini interventi sulla giustizia. Ma, ci piaccia o meno, questa pressione originata dalle tempistiche irragionevoli dei nostri processi c’è. Esiste. È impossibile non tenerne conto fra i molteplici fattori che rendono ineludibile la riforma. Il d.lgs. n. 150 del 2022 esprime di certo un tentativo di sintesi non agevole fra garanzie ed efficienza, ma significativo di un cambio di passo su molti versanti. Cito rapsodicamente: la rivitalizzazione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi; i controlli sulla corretta iscrizione della notizia di reato, i criteri di priorità, la mutata regola del non luogo a procedere, l’ampliamento delle ipotesi di improcedibilità, la disciplina della giustizia riparativa. Quest’ultima, già immanente nella prassi, è ora normata in aderenza agli input sovranazionali e ai migliori standard. L’ampia affermazione dell’assoluta consensualità e della volontarietà della partecipazione ai programmi, nonché la valutazione in chiave di esclusivo favor dell’esito riparativo consentono di superare le evocate perplessità sul pregiudizio della presunzione di innocenza. Quanto poi alla paventata fuga dal processo, va detto che l’esito riparativo favorevole ha una ripercussione diretta sull’accertamento, inserendosi fra le varie tecniche di degradazione della risposta penale senza automatica rinuncia alla sanzione. Si abbina così all’impegno personalistico dell’autore un coinvolgimento reale della vittima, nel segno dell’ultima ratio. Un disegno di tale ampiezza sottende inevitabili discrasie. Tutte da sedimentare e da meditare. Ai sensi dell’art. 1 comma 4 l. n. 134 del 2021, il governo fruisce di un’ulteriore delega da esercitarsi entro i due anni dall’entrata in vigore del decreto legislativo n. 150 del 2022 per le opportune correzioni. Dunque, una volta limate nel termine breve che ci separa da fine dicembre, data di entrata in vigore della “Riforma Cartabia”, le incongruenze riferibili alla fase transitoria, già isolate nei principali nodi critici, si potrebbe (e dovrebbe) utilizzare questo biennio per una riflessione approfondita, corale, partecipata fra tutti gli operatori del diritto e gli studiosi di settore. Un dibattito democratico e costruttivo, non lo scomposto berciare di istanze distruttive, cui siamo abituati. Alterare nell’immediato l’impianto globale della Riforma o modificarlo geneticamente, dimezzarne i contenuti che sono stati pensati (e andrebbero colti tutti) in una dimensione sistemica, è rischio da scongiurare. Altrimenti si sarebbe costretti a dare ragione al cinismo di Flaiano quando scriveva: “l’italiano è mosso da un bisogno sfrenato di ingiustizia”. *Docente di Diritto processuale penale Università di Palermo, già componente della commissione Cartabia per la giustizia riparativa Messa alla prova ampliata. Circolare del ministero della giustizia sulla riforma al via da fine anno di Dario Ferrara Italia Oggi, 26 novembre 2022 La messa alla prova può scattare anche alla fine delle indagini preliminari. E può essere il pm a proporre all’indiziato il programma di lavori di pubblica utilità realizzato dall’ufficio esecuzione penale esterna. Ora che vi rientrano reati puniti con il carcere fino a sei anni, la probation assume “un’importanza strategica” per gli obiettivi del Pnrr: anzitutto tagliare i tempi dei processi, ma anche ridurre il numero di procedimenti in cui si arriva a dibattimento. È quanto emerge dalla circolare 3/2022 emessa dal dipartimento per la giustizia di comunità del ministero della giustizia che interviene sulle novità introdotte dal decreto legislativo 150/22, in vista dell’entrata in vigore differita al 30 dicembre. Programma congiunto. Pesa anche la necessità di decongestionare le carceri nell’introduzione del nuovo articolo 464 ter.1 Cpp. Quando le indagini sono concluse, il pm può formulare la proposta di lavoro di pubblica utilità più utile al reato per cui si procede; anche servendosi dell’Uepe, che è tenuto a fornire entro trenta giorni il suo contributo al programma di trattamento. L’indagato deve decidere entro venti giorni se aderire: può farlo personalmente o tramite l’avvocato depositando la dichiarazione alla segreteria del pm, pure via Pec (se non accetta, può in seguito sottoporre al giudice una sua proposta di sospensione del procedimento). Il magistrato inquirente formula l’imputazione e trasmette gli atti al gip, avvisando la persona offesa dal reato, che non ha un potere di veto ma la facoltà di esprimere la sua opinione, depositando entro dieci giorni memorie alla cancelleria del giudice. Il gip vaglia la proposta e, se la ritiene conforme ai requisiti, chiede all’ufficio esecuzione penale esterna di elaborare il programma di trattamento insieme all’interessato, se non ci sono gli estremi per pronunciare la sentenza di proscioglimento. Udienza residuale. L’ufficio esecuzione va coinvolto soltanto se ci sono buone probabilità che scatti la messa alla prova: entro novanta giorni il progetto dei lavori di pubblica utilità deve essere trasmesso al gip, senza la necessità di svolgere le indagini sociali. Ricevuto il programma, il giudice dispone con ordinanza lo stop del procedimento con probation: l’esito sarà valutato come sempre nelle forme previste dagli articoli 464 quater e seguenti Cpp. La procedura è del tutto cartolare: il gip fissa l’udienza camerale soltanto se ritiene necessario chiarire alcuni aspetti della proposta avanzata insieme dalle parti o elaborata dall’Uepe con l’interessato; la celebrazione serve ad acquisire informazioni utili ai fini della decisione o ad acquisire il consenso dell’imputato a integrare alcuni contenuti del programma. Se dopo l’approfondimento il giudice non è convinto, può restituire gli atti al pm per l’ulteriore corso del procedimento. Il pm ha facoltà di proporre la probation anche nella fase processuale, ma nell’udienza preliminare o nella fase predibattimenale l’imputato ormai conosce bene gli elementi che l’accusa ha contro di lui. Violenza sulle donne, Mattarella: “Per troppe donne non c’è il diritto a una vita libera” Adriana Pollice Il Manifesto, 26 novembre 2022 Il discorso del presidente Mattarella nella Giornata per l’eliminazione della violenza. Nel 2022 una vittima di femminicidio ogni tre giorni, dati in crescita per i reati di violenza sessuale, maltrattamenti e atti persecutori. Sono state 19.600 le donne che hanno affrontato nel 2021 il percorso di uscita dagli abusi attraverso i Centri antiviolenza. L’ha picchiata con un bastone dentro un furgone, l’ha malmenata ancora e accoltellata, infine le ha reciso la carotide. Quindi ha scavato una buca e ha nascosto il cadavere poi è tornato a casa, si è fatto la doccia, si è cambiato gli abiti ed è andato dal barbiere: così a Partinico l’imprenditore di 51 anni Antonino Borgia nel 2019 ha ucciso Ana Maria Lacramioara Di Piazza, 30 anni. Lui sposato con figli, lei incinta di 3 mesi e con un altro figlio avuto da una precedente relazione. La Corte d’appello gli ha ridotto la pena (dall’ergastolo a 19 anni e 4 mesi) poiché ha eliminato le circostanze aggravanti riconosciute in primo grado: crudeltà, motivi abietti e futili, premeditazione. “La violenza contro le donne è un’aperta violazione dei diritti umani, purtroppo diffusa senza distinzioni geografiche, generazionali, sociali. Negli ultimi decenni sono stati compiuti sforzi significativi per riconoscerla, eliminarla e prevenirla. Tuttavia, per troppe donne, il diritto a una vita libera dalla violenza non è ancora una realtà”: sono le parole del presidente Sergio Mattarella pronunciate ieri nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. “Ci sono paesi dove anche chi denuncia è oggetto di gravi ed estese forme di repressione - ha proseguito -. Sono narrazioni dolorosissime, sino alle aberrazioni in quei territori che vivono situazioni di guerra dove le donne sono minacciate da violenze che possono sfociare nella tratta di esseri umani o in gravi forme di sfruttamento. Porre fine alla violenza contro le donne, riconoscerne la capacità di autodeterminazione sono questioni che interpellano la libertà di tutti”. E infine: “La violenza di genere, fisica, psicologica, economica fino all’odierna violenza digitale, mina la dignità, l’integrità mentale e fisica e, troppo spesso, la vita. Denunciare è un atto che richiede coraggio. Abbiamo il dovere di sostenere le donne che hanno la forza di farlo, assicurando le necessarie risposte in tema di sicurezza, protezione e recupero. Anzitutto la prevenzione e una cultura del rispetto che investa sulle generazioni più giovani attraverso l’educazione all’eguaglianza, al rispetto, al rifiuto di ogni forma di sopraffazione”. La premier Meloni promette “prevenzione, protezione e certezza della pena”. Mentre Salvini con la parlamentare Giulia Bongiorno lavorano “all’introduzione di nuove misure che garantiscano piena e immediata applicazione Codice rosso”. L’entità del fenomeno resta invariata: “Nel 2021 sono state uccise 118 donne (su 295 omicidi registrati in Italia), la maggior parte delle quali per mano di uomini con cui avevano o avevano avuto una relazione. Il trend è confermato nel 2022 e contiamo ancora una vittima di femminicidio ogni 3 giorni. Dati in crescita vengono registrati anche per i reati di violenza sessuale, maltrattamenti e atti persecutori”: a ricordarlo sono le toghe di AreaDG. L’Istat ieri ha fornito un report relativo al 2021: sono circa 19.600 le donne che hanno affrontato l’anno scorso il percorso di uscita dalla violenza con l’aiuto dei Centri antiviolenza (straniere nel 30% dei casi). OLTRE IL 70% si è rivolto ai Centri dopo aver subito soprusi per anni. Prima di prendere contatto, il 40% ne ha parlato in famiglia, il 29% si è rivolto alle forze dell’ordine, il 19% al pronto soccorso o in ospedale. Minaccia, stalking, violenza psicologica ed economica le forme di abuso più diffuse. Più gravi quando sono coinvolte donne giovani. Tra coloro che stanno affrontando il percorso di uscita, il 66,6% ha subito violenza fisica (soprattutto nella fascia 30-39 anni) e il 19,8% violenza sessuale (il 53,4% under 16; il 33,7% tra i 16 e i 29 anni). Nella maggioranza dei casi le diverse forme di violenza si sommano tra loro. Il 31,5% delle under 16 ha temuto per la propria vita (contro il 20,7% del totale delle donne) e oltre un quarto (26,7%) si è recato al pronto soccorso. Valutate ad altissimo rischio il 46% delle donne con meno di 16 anni e il 40% di quelle tra i 16 e i 29 anni. Elevatissimo il numero di casi in cui i figli assistono alla violenza subita dalla propria madre (72,6% delle vittime che hanno figli) e nel 21,4% dei casi i figli sono essi stessi vittima di violenza. Circa il 16% delle donne ha subito violenza durante la gravidanza. Nel 54,8% dei casi è il partner ad abusare, nel 22,9% un ex, nel 12,5% è un altro familiare o parente; le violenze subite fuori dall’ambito familiare e di coppia costituiscono il restante 9,9%. Il 10% delle donne ritira la denuncia durante le varie fasi del processo mentre quelle che raggiungono gli obiettivi del percorso di uscita sono solo il 22%. Violenza sulle donne, Bongiorno: “Se la vittima non viene sentita in 3 giorni togliamo il fascicolo al pm” di Liana Milella La Repubblica, 26 novembre 2022 La presidente della commissione Giustizia del Senato: “Dopo l’abrogazione del delitto d’onore servirebbe abrogare la mentalità cui era ispirato”. “Se ci sono ritardi od omissioni, se quel termine di tre giorni dopo la denuncia non viene rispettato, allora il procuratore generale può avocare il fascicolo al pm”. E “avocare”, in giuridichese, vuol dire portare via. Ecco la novità che Giulia Bongiorno, senatrice della Lega, neo presidente della commissione Giustizia del Senato, da vent’anni avvocato a fianco delle donne con l’associazione Doppia difesa, mette su tavolo per rispondere ai 104 femminicidi nel solo 2022. Assieme a Salvini lei annuncia novità al Codice rosso. Di cosa si tratta? “Il mio Codice, scritto quando ero ministra della Pubblica amministrazione nel 2019, ha già dato ottimi risultati: rispetto al passato, molte più donne denunciano, tanto che alcuni si lamentano per quello che chiamano “l’intasamento” delle procure. Un’obiezione che considero offensiva: perché più donne denunciano, più donne possono essere salvate. Esiste sicuramente anche un problema legato all’applicazione del Codice rosso: la sua efficacia viene messa a repentaglio ogni qual volta non viene rispettato il termine di tre giorni entro cui la vittima dev’essere ascoltata dagli inquirenti”. Certo, questo è il punto. Lei si è arrabbiata più volte proprio per questo. Ma come se ne esce? Pensate forse di rendere tassativo quel termine di tre giorni in cui polizia e magistrati devono garantire un “intervento obbligatorio” a partire dalla denuncia della donna oggetto di reiterate violenze? “Se il Codice “rosso” diventa “giallo”, perde di senso. Proprio per questo - ed è la novità che annuncio - abbiamo previsto che, in caso di ritardi od omissioni, il fascicolo possa essere avocato dal Procuratore generale. Vuol dire che, rispetto al pm che indaga, potrà intervenire una seconda figura. Questo è molto importante, perché se una donna trova la forza di denunciare, lo Stato non deve abbandonarla: perché questo sarebbe un tradimento”. Ma lei lo sa bene che proprio questo è il punto determinante, perché le donne vittime di violenza denunciano, ma la polizia e i giudici minimizzano il pericolo e non fanno nulla, e poi quell’uomo le uccide di botte... “Non generalizzi: ci sono moltissimi magistrati e rappresentanti delle forze dell’ordine preparati che hanno salvato tante donne, ed è innegabile che alcune lentezze sono a volte ascrivibili anche alla scarsità delle risorse. Ma i ritardi colpevoli e le sottovalutazioni sono altrettanto innegabili. Ci sono donne che hanno presentato decine di denunce senza ottenere giustizia. Questo non è più accettabile”. Lei è una super avvocata, sottoscriverebbe pene più pesanti di quelle attuali di fronte a ripetute percosse sia alla donna che ai figli? È possibile pensare a un obbligo di abbandono del comune domicilio? “Si deve lavorare per accelerare i processi e garantire la certezza della pena. Assisto donne vittime di violenza per le quali a ogni udienza la ferita si riapre e riprende a sanguinare. Inoltre, il sistema penale prevede purtroppo procedure e altri benefici che permettono notevoli sconti di pena: in questo modo si svilisce la funzione repressiva”. Si continua a parlare di corsi per formare poliziotti e toghe. Ma siamo sempre alle parole e agli annunci. Lei sta pensando a una legge? “Già fatta. Sempre da ministro della Pubblica amministrazione ho già inserito proprio nel Codice rosso la previsione di specifici corsi di formazione per le forze di polizia in relazione alla prevenzione e al perseguimento della violenza contro le donne. I risultati, fin qui, purtroppo sono ancora a macchia di leopardo: in alcuni posti ci sono pool specializzati, in altri le donne che denunciano vengono ancora invitate a tornare a casa per rappacificarsi con il marito violento”. C’è una via legale per allontanare da casa l’uomo violento? Una sorta di cambio obbligatorio del domicilio? “A seconda della gravità ci sono diverse misure, tra le quali anche l’allontanamento dalla casa familiare. Ma non sarà certo questa misura a fermare gli uomini violenti. Il braccialetto elettronico può essere una soluzione o il maschio violento se lo toglie? “Il braccialetto è utile solo nella misura in cui funzioni davvero e ne sia disponibile un numero adeguato per soddisfare tutte le richieste. Allo stato però ho proprio l’impressione che nessuno dei due requisiti sia garantito” Lei è sempre molto critica con i magistrati. Dica la verità, nella tutela delle donne hanno delle colpe, perché fanno troppi distinguo e non assumono decisioni drastiche? “Glielo ripeto, non è così. Ho sempre difeso la magistratura da attacchi generalizzati. Ma a volte è difficile non essere critici, soprattutto quando leggo che la gelosia sarebbe una reazione al comportamento ambiguo di una donna e dunque giustificherebbe le attenuanti. Quello stato emotivo riflette in realtà la concezione della donna come “proprietà” dell’uomo: penso che dopo l’abrogazione del delitto d’onore servirebbe abrogare la mentalità alla quale era ispirato. Purtroppo c’è un passato che non passa e che si riverbera ancora sul presente”. Braccialetti ai violenti e tempi più serrati: il piano del governo contro i femminicidi di Alessia Ripani La Repubblica, 26 novembre 2022 Mattarella: “Colpire le donne è un’aperta violazione dei diritti umani”. Meloni: “Basta barbarie. Prevenzione, protezione e certezza della pena”. La condanna e la reazione, perché “la violenza contro le donne è un’aperta violazione dei diritti umani”. Le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e il tweet di Papa Francesco: “Non è un semplice reato, è un crimine che distrugge l’armonia, la poesia e la bellezza che Dio ha voluto dare al mondo”. Tante le dichiarazioni e le iniziative per il 25 novembre. Calato però il sipario sulla celebrazione di rito, l’urgenza è sempre la stessa: proteggere le vittime.  Proteggere le vittime - “Stiamo lavorando a nuove misure che garantiscano piena applicazione del Codice rosso, prevedendo conseguenze processuali in caso di colpevoli ritardi o omissioni”, promettono Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia del Senato, e il vicepremier leghista Matteo Salvini. Ma il governo punta anche sul braccialetto elettronico per aumentare la sicurezza delle vittime.  Rendere obbligatorio il braccialetto elettronico - Il Codice rosso fissa in tre giorni il tempo massimo per ascoltare una donna. “Ma a che serve sentirla subito se poi non viene creduta? O se il carabiniere che interviene non è in grado di raccogliere informazioni serie su quanto accade e si lascia guidare da pregiudizi e stereotipi?”, si chiede il procuratore Francesco Menditto, che a Tivoli ha messo in piedi un modello di azione diventato punto di riferimento, con pm e ispettori dedicati per velocizzare i processi. “Serve formazione a tutti i livelli e specializzazione, oltre a strumenti efficaci per fermare l’uomo maltrattante e mettere in sicurezza la vittima. Il fermo del pm quando c’è un pericolo imminente per la vittima per esempio, e il braccialetto elettronico. Uno strumento oggi solo facoltativo: deve diventare obbligatorio”. Non è vero, spiega, che i braccialetti non ci siano. “Eppure è stata la prima obiezione nella quale mi sono imbattuto. Nel 2019 chiesi chiarimenti agli uffici e la risposta fu: “Certo che ci sono, tutti quelli che vuole”. Nel 2020 ne abbiamo chiesti 15 e ce ne sono stati dati 7, nel 2022, ne abbiamo chiesti 50-60 e li abbiamo ottenuti praticamente sempre. La falsa notizia è stata sfatata, ma è importante che ci sia l’attenzione del pm nel chiederlo e del giudice nel concederlo”. Non solo: a Tivoli, il dispositivo viene utilizzato anche dopo la scarcerazione. “Se la donna comincia a vedere l’uomo maltrattante libero vicino casa sua, senza un motivo, e si crea una situazione di pericolo - aggiunge l’ispettrice di polizia Vincenza Cirillo - noi chiediamo la misura cautelare dell’allontanamento con braccialetto elettronico, e probabilmente siamo l’unica procura d’Italia a farlo”.  Investire in formazione - L’altro nodo è investire nella formazione di operatori delle forze dell’ordine, avvocati, magistrati, medici, assistenti sociali, docenti, personale sanitario. Quella su cui la premier ha impegnato il governo ricordando anche ieri, tra le misure di intervento ispirate a “prevenzione, protezione e certezza della pena” per fermare “la barbarie”, il rifinanziamento di centri antiviolenza e case rifugio. Meloni ha citato anche i fondi per la legge 53 del ‘22 sulla raccolta dei dati statistici sulle violenze subite dalle donne. “Finalmente i ministeri di Salute, Giustizia e Interno sono stati obbligati a rilevare e fornire dati parlanti, con la relazione vittima-autore”, spiega Giusy Muratore, responsabile del gruppo di lavoro Istat sulla violenza di genere. L’obiettivo è misurare il sommerso determinando per ogni reato che relazione c’è tra chi lo commette e chi lo subisce. “Oggi il danneggiamento non viene rilevato come violenza di genere, ma se è stato il tuo ex a romperti lo specchietto dell’auto le cose cambiano. Così le lesioni: riguardano uomini e donne. Ma se a spaccarti la faccia è tuo marito, è un’altra cosa”.  Nordio ascolta i sindaci: presto via l’abuso d’ufficio di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 26 novembre 2022 Contro la cosiddetta “paura della firma” il ministro della giustizia dà appuntamento all’Anci e il governo si prepara alla quinta riforma del reato. Che serve da spia per reati più gravi. Cambierà il reato di abuso d’ufficio, non sarà la prima volta. Sarà la quinta, negli ultimi 32 anni. Questa volta, per chiudere il discorso, il reato potrebbe persino sparire del tutto. Il centrodestra aveva nel programma di intervenire su questa norma del codice penale (articolo 323) che turba i sonni degli amministratori e in generale di tutti i “pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio”. La presidente del Consiglio ha confermato giovedì l’impegno. Ieri il ministro della giustizia ha fatto sapere che mercoledì incontrerà i rappresentanti dei sindaci. Che con il presidente dell’Anci Decaro, sindaco di Bari, precisano: “Vogliamo chiarezza di regole da rispettare, non impunità”. Non che adesso ci siano regole oscure. L’abuso d’ufficio si è espanso e si è contratto, sia nella definizione del reato che nell’entità della pena. Diversamente da altre fattispecie che riguardano gli amministratori pubblici, l’espansione è arrivata prima della stagione di Tangentopoli e la contrazione subito dopo. Da due anni, comunque, i confini del reato sono definiti: perché ci sia abuso d’ufficio occorre che il pubblico ufficiale violi precise e tassative norme di legge (escluso l’ambito di discrezionalità), serve che ci sia il dolo, cioè l’intenzione di commettere il reato, e serve che il vantaggio patrimoniale (o il danno ingiusto ad altri) si sia effettivamente verificato. Eppure, secondo l’Anci (l’associazione dei sindaci) ci sono ancora moltissimi amministratori (addirittura il 90%) che verrebbero indagati e poi prosciolti. Da qui il grido di dolore per la “paura della firma”, raccolto giovedì da Meloni e ieri da Nordio. Grido che approfitta della corsa alle opere pubbliche legate al Pnrr. Questa “paura della firma” viene adesso raccontata dal governo come un ostacolo alla ripresa. Si aspetta allora il disegno di legge che dovrebbe superare le iniziative già in campo di Lega e Forza Italia che sono la riproposizione di vecchie proposte. Enrico Costa di Azione, neo presidente della giunta per le autorizzazioni a procedere della camera, racconta che proprio secondo Nordio, che anni fa era stato da lui nominato in una commissione che doveva occuparsi dell’argomento, “l’abuso d’ufficio non è riformabile, va solo abolito”. L’abolizione però potrebbe aprire nuovi problemi, il reato infatti è tra quelli che funzionano da “spia” per reati più gravi, tipicamente la corruzione. Il Pd, malgrado le intemerate del presidente campano De Luca (uno che è stato assolto dall’accusa di abuso d’ufficio), è per mantenere il reato. Ma la prossima settimana, ha annunciato la responsabile giustizia Rossomando, presenterà due proposte, una per evitare il problema delle cosiddette responsabilità omissive improprie, quelle che ricadono sui sindaci - come nel caso del primo cittadino di Rivarolo Canavese che pochi giorni fa è stato condannato per la morte di un cittadino in un sottopasso allagato. Un altro per cancellare la norma della legge Severino (la cui totale abolizione mediante referendum è pochi mesi fa fallita per mancanza di quorum) che prevede la decadenza e ineleggibilità degli amministratori locali, oggi, dopo una condanna anche solo in primo grado. Mafia, la linea del governo: “Sciogliere meno Comuni” di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 26 novembre 2022 Bisogna rendere più difficile sciogliere i Comuni per infiltrazioni mafiose. Un testo ancora non c’è, ma l’indicazione politica da parte di Giorgia Meloni e dei suoi ministri più vicini è stata chiara: bisogna rendere più difficile sciogliere i Comuni per infiltrazioni mafiose. È questo il dossier su cui il governo vuole lavorare nelle prossime settimane, con il lavoro dei ministeri di Interni e Giustizia. L’ipotesi è quella di modificare il Testo Unico degli Enti Locali il cui articolo 143 regola proprio le modalità di scioglimento e commissariamento delle amministrazioni locali. Politicamente è un dossier molto delicato, perché Meloni ha fatto sempre della lotta antimafia un suo cavallo di battaglia ricordando di aver iniziato a fare politica nel 1992 dopo l’attentato contro il magistrato Paolo Borsellino. Dell’argomento si è parlato a lungo - per più di un’ora - nel Consiglio dei ministri di lunedì sera che in teoria era stato convocato solo per approvare la legge di Bilancio. Ma visto che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, era in ritardo perché impegnato in via XX Settembre a completare le ultime tabelle, la riunione del governo si è aperta proprio con la relazione del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che ha comunicato la richiesta di sciogliere per mafia i comuni di Cosoleto (Reggio Calabria) e Anzio (Roma) e di commissariare per 18 mesi quello di Nettuno (Roma), già sciolto a giugno. Le inchieste hanno dimostrato la presenza e la ramificazione della ‘ndrangheta sul litorale laziale. La proposta di Piantedosi ha provocato un lungo dibattito tra i ministri che hanno posto diversi dubbi. Soprattutto quelli di Fratelli d’Italia (Francesco Lollobrigida, Guido Crosetto, Raffaele Fitto e Nello Musumeci) hanno sottolineato il fatto che gli scioglimenti avvengano con troppa facilità. Crosetto ha spiegato che il problema sono le ricadute economiche: “In Piemonte, una multinazionale doveva venire a investire in un comune ma poi è stato sciolto e ha deciso di rinunciare”. Anche Lollobrigida ha sottolineato gli effetti negativi su diversi settori come il turismo. Meloni si è detta d’accordo, ma l’argomento non è stato affrontato nel dettaglio a causa dell’assenza del ministro della Giustizia Carlo Nordio, in trasferta in Francia per incontrare l’omologo Éric Dupond. La decisione è stata rinviata, ma l’indicazione è quella di rendere più complicato sciogliere i comuni per mafia. In primo luogo, l’idea è quella di evitare un commissariamento nel caso di un’inchiesta che riguardi un solo politico, ricalcando la proposta della Lega in campagna elettorale: servirà che venga dimostrata la collusione di uno o più consiglieri comunali, ma anche che siano coinvolti i dirigenti dell’amministrazione. Insomma, servirà provare la responsabilità di tutta l’istituzione: non solo i politici, ma anche la macchina amministrativa. In questo senso, il prossimo provvedimento servirà anche per favorire una rotazione continua dei dirigenti. La ratio, spiega un ministro, è rispondere alla casistica del passato: Nettuno era già stato sciolto per mafia nel 2005 e i nomi degli amministratori sono sempre gli stessi, è il ragionamento nel governo. In maggioranza, comunque, sono tutti d’accordo a partire dalla Lega. Anche Forza Italia, con Antonio Tajani, in Consiglio dei ministri ha posto diversi dubbi sull’opportunità di sciogliere i comuni laziali per mafia. Poi ha votato lo stesso il provvedimento ma, spiegano fonti di governo berlusconiane, la decisione è stata esagerata e bisogna “ridurre il giustizialismo” su queste questioni: Piantedosi viene considerato un “prefetto di ferro”. A ogni modo, sul provvedimento sullo scioglimento dei Comuni si dovrà trovare un equilibrio, tra le esigenze economiche e il rischio di smantellare la legislazione antimafia. “Questo non avverrà - spiega il ministro dell’Agricoltura Lollobrigida - ma ricordiamoci sempre che il commissariamento è un danno in primis per la democrazia, quindi bisogna sempre stare attenti a come farlo”. Comuni sciolti per mafia. Ventiquattro casi in due anni, quasi sempre giunte di destra di Gacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 26 novembre 2022 “Gli investitori fuggono per colpa di questi provvedimenti”. La lotta alla mafia a parole, sventolando bandiere con effigi di Paolo Borsellino, è un conto; un altro conto sono i fatti e le intenzioni: introdurre paletti per rendere più difficile lo scioglimento dei Comuni per l’infiltrazione di consorterie criminali allargherebbe lo scarto tra chiacchiere e azioni. C’è un altro curioso aspetto che salta all’occhio elencando solo le più importanti delle ultime amministrazioni commissariate (in tutto dieci nel 2022 e quattordici nel 2021), cioè il colore politico, con giunte quasi sempre composte da Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia o da liste civiche comunque legate al centrodestra: il 21 novembre Anzio (centrodestra), il 6 maggio Torre Annunziata (centrosinistra), il 24 febbraio Castellammare di Stabia (centrodestra), il 27 dicembre 2021 Ostuni (centrodestra), il 30 agosto Rosarno (centrodestra), il 6 agosto Foggia (centrodestra). Senza considerare il Comune di Terracina, feudo proprio di Fratelli d’Italia, non sciolto per mafia, ma con il consiglio comunale dimessosi in blocco dopo gli arresti che la scorsa estate coinvolsero anche la sindaca, poi rimessa in libertà. Incomprensibili, poi, le motivazioni echeggiate in Consiglio dei ministri per rendere più complicato lo scioglimento per mafia, anche a fronte di quanto si legge, nero su bianco, a firma ministero dell’Interno nell’apposita relazione del 2021: “L’operato delle commissioni si è incentrato sul risanamento amministrativo, sul ripristino delle regole e del buon andamento nella gestione dell’ente; infatti, le diffuse irregolarità riscontrate, certamente ascrivibili anche alle condotte dei funzionari e dirigenti locali, hanno messo in luce una generale compromissione dell’azione amministrativa che si è discostata sempre più dai principi di legalità e di trasparenza, riflettendosi poi sulla regolarità e sull’efficienza nell’erogazione dei servizi destinati alla cittadinanza. In altri termini, è stata rilevata una diffusa trascuratezza nella tutela dell’interesse pubblico, attribuibile in parte all’operato dell’apparato burocratico ma, soprattutto, alla responsabile inerzia o alla tacita connivenza degli organi politici che, nella generalità dei casi, non hanno esercitato le funzioni loro proprie di controllo e di direzione politico-amministrativa, lasciando spazio ai sodalizi e agli interessi della criminalità organizzata”. Sostenere che gli investitori esteri fuggano per colpa degli scioglimenti e non, casomai, per colpa delle infiltrazioni mafioso-criminali scoperte dalla magistratura, a cui consegue lo scioglimento, non è molto diverso dal sostenere che con la mafia bisogna convivere come auspicò il ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi nel 2001 (governo Berlusconi-2). Altrettanto ardito sarebbe sostenere che un commissariamento costi troppo per le casse dello Stato, posto che democrazia e legalità hanno un prezzo. Soltanto per fare un esempio, a Foggia la cifra prevista per coprire indennità di carica e rimborsi spese della commissione fino al febbraio 2023 è di quasi mezzo milione di euro, ma nello stesso periodo il Comune pugliese in diciotto mesi avrà risparmiato più di un milione (sindaco, assessori e consiglieri comunali sarebbero costati 65 mila euro al mese), denari che potranno essere investiti a beneficio della città e dei foggiani. Dal 1991, anno di istituzione del commissariamento per infiltrazioni mafiose, sono stati sciolti con successivo invio del commissario prefettizio in media dodici enti all’anno (da un minimo di tre nel 1995 al massimo di 34 nel 1993), per lo più Comuni ma anche aziende sanitarie o altre strutture pubbliche. Anche l’associazione Avviso pubblico chiede modifiche alla normativa di scioglimento, come già la stessa Rosy Bindi da presidente della commissione Antimafia, ma con questi obiettivi: “Sono ricorrenti i casi in cui lo stesso Ente locale risulta oggetto di plurimi scioglimenti nel corso degli anni, talvolta anche a breve distanza di tempo l’uno dall’altro. La riformulazione dell’istituto dovrebbe porsi come obiettivo primario quello di creare le condizioni perché l’attività di bonifica che segue lo scioglimento del Comune sia efficace e duratura”. Il Consiglio di Stato ignora la legge Severino: fuori ruolo ok di Ilaria Proietti Il Fatto Quotidiano, 26 novembre 2022 Il tribunale amministrativo fa saltare il tetto di dieci anni per gli incarichi esterni dei suoi magistrati. Ma chi l’ha detto che la legge è uguale per tutti? Tutti tutti no, se c’è chi può interpretarla sino a stravolgerla o sospenderla. Come è successo ieri nel tempio dei mandarini di Stato a tutto beneficio della categoria: per loro la legge Severino non si applica, punto e basta. Con buona pace di convegni celebrativi della norma vergata al tempo dal Guardasigilli che aveva voluto mettere un freno agli incarichi fuori ruolo di Lorsignori, limitando il tempo che nel corso delle loro carriere possono dedicare al servizio della politica come capi di gabinetto et similia. Ma un incarico tira l’altro e si fa presto a cumulare dieci anni fuori dalle aule di giustizia dove intanto si accumula l’arretrato, e sì che mettersi in pari sarebbe l’obiettivo principale del Pnrr per la categoria. Ma che importa? Ieri tagliando la testa al toro, sicché non si trovava un cavillo utile per autorizzare i non autorizzabili, si è deciso di sospendere la Severino ma senza confessarlo, sennò pareva brutto. Il risultato però è quello, e a beneficiarne sarà innanzitutto Italo Volpe, chiamato al fianco del potentissimo e melonianissimo ministro delle Finanze, Maurizio Leo. Che però aveva quel problemino: nel suo curriculum di consigliere di Stato compaiono ben 16 anni di incarichi fuori ruolo. E che problema c’è? Palazzo Spada ha approvato una delibera che con formula etrusca, consente di bypassare l’ostacolo. Sentite qui che musica: “Considerato che il legislatore con la legge 17 giugno 2022 ha dato delega al governo per la rivisitazione della disciplina del collocamento fuori ruolo dei magistrati amministrativi; rilevato che nelle more dell’esercizio della detta delega si registra una situazione di complessità del quadro normativo in ordini ai limiti vigenti per il collocamento fuori ruolo; rilevato che il legislatore ha inteso valorizzare a più riprese la necessità di centrare gli obiettivi del Pnrr introducendo disposizioni derogatorie consentendo un’eccezionale mobilità delle risorse professionali in amministrazioni diverse da quella di servizio; considerate le ampie deroghe…”. Insomma visto, ritenuto, considerato e pure - direbbe il grande Rino Gaetano - nella misura in cui, alternativo, alieno a ogni compromesso, hai lo stress e via cantando. Alla fine della fiera per dire che, al di là dei limiti precisi dettati dalla Severino, intanto gli incarichi possono essere autorizzati. E questo vale per quelli futuri e per quelli freschi freschi come nel caso di Volpe che ha già abbondantemente sfondato il tetto fatale del decennio: già nel 2013, per aggirare il vincolo della Severino, si era ricorso all’escamotage dell’aspettativa. E vale pure per gli incarichi già autorizzati nelle scorse settimane. Ergo, per esempio, il consigliere di Stato Carlo Deodato a cui era stata data una autorizzazione a tempo (essendo in passato stato fuori ruolo per otto anni), non avrà più alcun problema a rimanere anche quando avrà sfondato il limite del decennio sulla poltrona di capo del Dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi a Palazzo Chigi. Grazie alla delibera di Palazzo Spada. Votata coralmente, a parte un’astensione, un solo voto contrario. Quello della consigliera Silvana Bini che ha tuonato contro la nuova disciplina che, con la scusa di un futuribile intervento del governo, intanto da subito ha fatto strame della Severino: “Con questa delibera ci mettiamo nella posizione di chi sperando nel condono edilizio, intanto si mette avanti con il lavoro facendo l’abuso”. Focus sui reati chiamati “ostativi” di Giovanni Cattarino Quotidiano di Sicilia, 26 novembre 2022 Incostituzionale il divieto di concessione di permessi premio ai detenuti per reati ostativi. Sono reati ostativi quei delitti che non consentono a chi li ha commessi di avvalersi dei benefici penitenziari previsti nella legge 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario (lavoro all’esterno e, prima della sent. 253/2019 anche del permesso premio), nonché delle misure alternative alla detenzione e della liberazione condizionale, qualora egli rifiuti di collaborare con la giustizia per l’accertamento dei fatti e la cattura degli autori dei reati. Nei reati ostativi elencati all’art. 4-bis, primo comma, della l. 354, tra i quali vanno ricordati i c.d. “reati di mafia”, la mancata collaborazione da parte dei loro autori viene ritenuta mantenimento dei rapporti con l’organizzazione criminale e pertanto indice di una persistente pericolosità sociale che preclude l’accesso ai benefici. La Corte costituzionale con la sent. n. 253/2019 ha dichiarato incostituzionale il divieto di concessione di permessi premio ai detenuti per reati ostativi non collaboranti ritenendo che la presunzione “assoluta”, cioè non suscettibile di prova contraria, di pericolosità che impedisce tale concessione, potesse invece essere superata a seguito di accertamenti effettuati dagli organi penitenziari, giudiziari e di polizia attestanti l’interruzione, anche per il futuro, di ogni loro legame con le organizzazioni criminali. Nell’ordinanza n. 97/2021 la Corte, su impulso della Cassazione, ha giudicato incostituzionale l’esclusione dalla liberazione condizionale - che consente anche al condannato all’ergastolo che abbia seguito un percorso di recupero e mostri segni di sicuro ravvedimento di lasciare il carcere dopo 26 anni di reclusione - dei condannati all’ergastolo per reati di mafia che non collaborano, il c.d. “ergastolo ostativo”. Per essere compatibile con l’art. 27 Cost. che richiede una pena non contraria al senso di umanità e volta “alla rieducazione del condannato”, l’ergastolo deve potere, a certe condizioni, avere fine. Anche la Corte europea dei Diritti dell’Uomo nella decisione “Viola c. Italia” aveva ritenuto l’ergastolo ostativo contrario all’art. 3 della Convenzione Edu che vieta i “trattamenti inumani o degradanti” proprio perché pena senza fine. In quell’occasione la Corte europea aveva rilevato che, come la collaborazione non è necessariamente sinonimo di ravvedimento potendo essere dettata da motivazioni puramente utilitaristiche così, simmetricamente, la mancata collaborazione di colui che invece ha sinceramente chiuso con il suo passato criminoso può essere dettata dalla paura di ritorsioni per sé e per i propri famigliari. L’avvenuto recupero del condannato va verificato altrimenti. La Corte, accertata l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo ai condannati per mafia, aveva peraltro rinviato per ben due volte la sua decisione per dar modo al legislatore di intervenire sull’intera disciplina dei reati ostativi, ritenendo che una sua pronuncia “demolitoria” della sola norma sull’ergastolo per i condannati per mafia avrebbe creato lacune, disparità di trattamento tra detenuti e rischi per la sicurezza pubblica. Il nuovo Governo, nel suo primo decreto-legge ha previsto che i detenuti per reati ostativi non collaboranti possano fruire dei benefici penitenziari e anche della liberazione condizionale, a seguito di indagini approfondite circa il loro effettivo ravvedimento e a condizioni molto severe. La Corte ha quindi “restituito gli atti “alla Cassazione perché valuti se le nuove norme, suscettibili peraltro di essere modificate in sede di conversione del decreto -legge, conservino profili di incostituzionalità. In tal caso la questione dovrà esserle di nuovo rimessa. *Già Consigliere della Corte costituzionale e Capo Ufficio Stampa Un tedesco messo in carcere invece che in Rems: alla Cedu l’Italia ammette la violazione dei diritti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 novembre 2022 Depositata la decisione Cedu sul caso “Preuschoff v. Italia”: il nostro Paese ha riconosciuto la propria responsabilità per il ragazzo detenuto a Regina Coeli in attesa di una Rems. Promette di risolvere il problema dei posti non disponibili Era trattenuto illegalmente nel carcere di Regina Coeli in attesa di essere accolto presso una residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza (Rems). Il suo avvocato Sonia Santopietro del foro di Roma ha fatto ricorso alla Corte Europea di Strasburgo. Il governo italiano ha ammesso le violazioni contestate riconoscendo un risarcimento di 35mila euro e il 10 novembre scorso la Cedu ha concluso il caso per l’accordo raggiunto tra le parti. Parliamo di un ulteriore riconoscimento di un problema da parte del nostro Paese che però ancora non trova una soluzione per le centinaia di persone trattenute in carcere, in attesa che si liberi un posto presso le Rems di competenza. A Regina Coeli per oltre un anno in attesa della Rems Ripercorriamo la vicenda. Nel 2020, come riportato a suo tempo da Il Dubbio, da più di un anno, Preuschoff, un ragazzo tedesco che all’epoca aveva 31 anni, era di fatto trattenuto nel carcere romano di Regina Coeli nonostante la magistratura di sorveglianza gli avesse disposto una misura di sicurezza presso la Rems. Era un senza fissa dimora, tratto in arresto a maggio del 2019 per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni giudicate guaribili in un giorno. Viene dichiarato incapace di intendere e di volere, ma in quanto ritenuto pericoloso a causa delle sue patologie psichiatriche, gli viene applicata, appunto, la misura di sicurezza provvisoria. Per capire ancora meglio la vicenda, bisogna partire dall’inizio. Quando il giovane tedesco ha commesso quei fatti di resistenza a pubblico ufficiale, sul luogo e nell’immediatezza dell’evento, i medici del 118 richiesti dagli operanti - considerando che alternava momenti di calma a momenti di evidente agitazione - non hanno ritenuto di dover disporre alcuna misura sanitaria e così è stato accompagnato in commissariato. Di nuovo è stato richiesto l’intervento del 118 che, dopo aver rivisitato il ragazzo, non ha disposto alcuna misura sanitaria nei suoi confronti. In stato di arresto viene tradotto in carcere a disposizione dell’autorità giudiziaria. Il giorno successivo in udienza, convalidato l’arresto, gli viene applicata la misura della custodia cautelare in carcere e tradotto a Regina Coeli. Ad agosto 2019, all’esito del giudizio, viene dichiarato con sentenza del Tribunale di Roma incapace di intendere e di volere al momento del fatto e, in quanto ritenuto socialmente pericoloso, gli viene applicata, in via provvisoria, la misura di sicurezza della Rems per la durata di due anni. Senza soluzione di continuità, il Tribunale dispone, in attesa dell’individuazione di una Rems disponibile, la sua traduzione al carcere di Regina Coeli. A giugno 2020 fu rigettata l’istanza per richiedere una valutazione del caso - L’istanza “Il ragazzo - aveva spiegato a Il Dubbio l’avvocata Sonia Santopietro - è affetto da una grave psicosi per la quale il carcere non rappresenta un luogo adeguato ove possa ricevere le cure necessarie. Seguito anche dal dipartimento di salute mentale, alterna alti e bassi e anche la sua “collocazione” inframuraria viene determinata dall’andamento della patologia: “repartino”, sorveglianza a vista e non è mancato un ricovero presso il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura a causa di un episodio di acuzie e a seguito del quale viene riportato in carcere”. Nel frattempo si fa istanza per chiedere una valutazione della pericolosità sociale, ma soprattutto per la revoca della misura di sicurezza detentiva essendo inadeguata la struttura carceraria. Arriviamo a giugno 2020 e il magistrato di sorveglianza ritiene attuale la pericolosità sociale del ragazzo. Ma sempre nell’ordinanza scrive: “Risulta che è in lista di attesa per l’individuazione della Rems dallo scorso agosto, tempo francamente lungo e assolutamente non adeguato alla gravità del disturbo che necessita di urgente trattamento psichiatrico”. Ma non solo. Ricordiamo che il ragazzo non ha nessun legame nel nostro Paese, i familiari infatti vivono in Germania. Quindi non deve essere per forza ospitato in una struttura della regione Lazio, ma anche nel nord dove i familiari lo potrebbero raggiungere più facilmente. A settembre 2020 viene presentato il ricorso alla Cedu - Ma nulla. A quel punto, a settembre del 2020, l’avvocata Santopietro trasmette un ricorso alla Corte Europea dei diritti umani chiedendo l’applicazione di una misura provvisoria ai sensi dell’art. 39 del Regolamento Cedu e assumendo violati una serie di diritti (art. 2 Cedu diritto alla vita, art. 3 Cedu divieto dei trattamenti inumani e degradanti, art. 5 Cedu diritto alla libertà ed alla sicurezza personale e diritto ad un’equa riparazione ed art. 13 diritto ad un ricorso effettivo). Tempo qualche giorno e la Corte Europea dispone che il governo italiano fornisca al ragazzo una diversa sistemazione (sia questa all’interno di una Rems o di altra struttura) ove potergli fornire un trattamento adeguato alle sue condizioni psichiatriche e nel rispetto delle esigenze di protezione e sicurezza per sé stesso e per i terzi. Così è iniziata la procedura “Preuschoff v. Italia”. Curato in una struttura psichiatrica viene dichiarato non più pericoloso - Come spiega a Il Dubbio l’avvocata Sonia Santopietro, il ragazzo viene finalmente trasferito in una struttura psichiatrica di Roma ove, in un ambiente confortevole ed adeguato, viene curato in maniera efficace e comincia un percorso riabilitativo e socializzante che lo porta a essere compensato. Arriva il giorno in cui il magistrato di Sorveglianza di Roma rivaluta la sua pericolosità sociale e alla luce degli esiti del percorso terapeutico svolto conclude che non è più socialmente pericoloso, così consentendogli, come effettivamente ha fatto, di ritornare in patria. Successivamente, il governo italiano rende una dichiarazione di responsabilità ammettendo le violazioni contestate nel ricorso e, per l’effetto, offre una cospicua somma a titolo di risarcimento per tutti i danni patiti dal signor Preuschoff. Il 10 novembre scorso la Corte Europea dichiara conforme e rispettosa dei diritti dell’uomo garantiti dalla Convenzione l’ammissione di responsabilità del governo italiano e la congruità dell’offerta risarcitoria alla luce della giurisprudenza della Corte stessa in materia.Questa decisione è un contributo all’annosa quanto (ancora attuale questione delle Rems e della carenza dei posti letto. “Anche questa decisione europea - spiega l’avvocata Santopietro - deve farci riflettere sul problema della salute mentale e sul fatto che la persona psichiatrica non imputabile e socialmente pericolosa non è una persona colpevole e, dunque, punibile ma una persona che ha il diritto di essere curata ed il diritto di essere curata in strutture adeguate; per questi motivi, è ingiusto che debba subire l’inefficienza di uno Stato che prima la giudica bisognosa di cure e poi la costringe ad un’attesa arbitraria per averle”. Nel caso di Preuschoff, l’Italia ha ammesso quindi la sua responsabilità per tutte le violazioni contestate; ha anche messo nero su bianco di stare “adottando tutte le iniziative per regolare il problema dei posti disponibili nelle Rems”. Vedremo se sarà così. Il piccolo spaccio reiterato non giustifica di per sé l’esclusione dell’attenuante di speciale tenuità di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 26 novembre 2022 Le plurime cessioni di lieve entità possono rilevare ai fini dell’aumento di pena per la continuazione. La Corte di cassazione ha bocciato il ragionamento dei giudici di merito che - in un’ipotesi di ripetute condotte di piccolo spaccio di strada - hanno escluso de plano il riconoscimento dell’attenuante ex articolo 62, n. 4, del Codice penale a causa della reiterazione in molteplici episodi del medesimo reato connotato da lieve entità in base al n. 5 dell’articolo 73 del Dpr 309/1990. La Corte di cassazione ha perciò annullato con rinvio la dcisione di merito affinché il giudice valuti la sussistenza o meno dell’attenuante invocata dal ricorrente e illegittimamente pretermessa in sede di merito. La Cassazione con la sentenza n. 44832/2022 ha dettato il principio cui deve attenersi il giudice su tale specifico aspetto del suo esame: la speciale tenuità di ogni singola condotta penalmente rilevante non è esclusa in caso di reato continuato. L’attenuante nel reato continuato - La speciale tenuità del fatto si valuta, infatti, al fine di riconoscerla o di escluderla, in base all’entità del profitto ricavato o alla gravità di ogni singolo episodio di reato. Quindi nel caso di spaccio di sostanze stupefacenti, se per ogni singola cessione non ricorre né un grande profitto né una particolare gravità nella commissione del reato non può essere negata a priori la valutazione della ricorrenza dell’attenuante della speciale tenuità del fatto commesso, pur se in continuazione. La negazione dell’attenuante non può quindi legittimamente discendere dalla ripetizione nel tempo dei singoli episodi criminosi. La ripetizione nel tempo della condotta illecita può però ben rilevare ai fini della continuazione con il conseguente aumento di pena per i reati continuati. Sicilia. Luci e ombre della vita nelle carceri. Bernardini: “Uno Stato fuorilegge non può essere autorevole” di Umberto Triolo meridionews.it, 26 novembre 2022 “Il sistema delle carceri serve solo a se stesso”. Insomma, un giro autoreferenziale che non conduce alla finalità della rieducazione. È il prof. Salvatore Aleo, ordinario di diritto Penale all’Università di Catania, a sintetizzare le storture insite nel circuito. Affermazione ribadita durante l’incontro “Mai dire mai. Il diritto alla speranza nelle pene” organizzato dall’associazione Nessuno tocchi Caino, della galassia del partito Radicale, dalla Camera Penale etnea Serafino Famà all’istituto per Ciechi Ardizzone Gioeni. E a confermare la sterilità della macchina detentiva sono anche i numeri citati a più riprese da Rita Bernardini, presente al tavolo dei relatori. “Quest’anno - ha detto - e ancora manca più di un mese al 31 dicembre, si sono già verificati ottanta suicidi. Nel 2009 erano stati settantadue. Quasi tutti hanno deciso di togliersi la vita impiccandosi. Ricordo la giovane ragazza a Messina che in carcere si è uccisa”. Ma a confermare questa lettura, interviene anche un altro dato. “Su cinquantaseimila - prosegue - detenuti, solo cinquemila si trovano dietro le sbarre per la prima volta”. Quindi, la carcerazione “specializza” la delinquenza. Di fatto il risultato dimostra come “il carcere - continua - non porta ad essere migliori ma peggiori”. Dunque l’esatto opposto rispetto a quanto previsto. “La nostra - ha dichiarato l’avv. Francesco Antille, presidente della Camera Penale di Catania - Costituzione prevede espressamente che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e risocializzarlo. Questo fa parte di quella considerazione della umanità della pena per distinguerla dalla disumanità e dalla tortura. La pena non è una rappresaglia. La pena è un momento riconciliativo, o così dovrebbe essere, tra l’autore del delitto con il diritto e la società”. Concezione assai distante da chi vede solo la punizione o l’aspetto risarcitorio ma che soprattutto dovrebbe essere associata con la valutazione degli altri fattori che incidono. A cominciare dai disagi legati alla tossicodipendenza e alle povertà. Elementi fortemente insiti nella provenienza da zone disagiate, dalla mancanza di opportunità socio-economiche. Tutti aspetti che dall’ambiente esterno vengono amplificati nella vita interna, ad una struttura, e che si riflettono sul futuro della persona, dopo avere scontato la pena. “I tassi di recidiva - ha affermato il prof. Salvatore Aleo - tra chi ha affrontato la pena detentiva sono superiori rispetto a chi è stato ammesso all’esecuzione penale esterna. Quando sono state modificate radicalmente le norme sul processo minorile, marginalizzando il carcere, molti dicevano che si sarebbe aperta la strada ai baby killer; e invece non è successo. Quando hanno chiuso i manicomi, c’è chi pensava che le persone sarebbero state squartate in strada ma non è accaduto. Stessa cosa con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Ci sono una minoranza di detenuti che sono socialmente pericolosi; per la maggioranza il discorso va affrontato in maniera più sofisticata. Occorre evitare lo schifo, la vergogna, la disumanità e il disprezzo dei simili” che portano ad effetti devastanti evidenziati dall’etichettatura sociale. Un superamento necessario così come ricordato nel libro “La pena di morte nel mondo. Verso la fine dello Stato-Caino” a cura di Antonio Coniglio e Sabrina Renna. Torino. “Le carceri hanno fallito, urgente una riforma”: Magi, Valle e Boni in visita al Lorusso e Cutugno di Irene Famà La Stampa, 26 novembre 2022 “Lanciamo un appello al ministro Nordio: servono sforzi economici che non si limitino alle ristrutturazioni”. Millequattrocento quarantaquattro detenuti su una capienza di 1.100. Più di 600 di loro sono stranieri. E ancora. Il 60% è in carcere su misura cautelare. Più di 500 sono tossicodipendenti. I problemi del carcere di Torino Lorusso e Cutugno li dimostrano i numeri: sovraffollamento, carenza di assistenza sanitaria, detenuti in totale stato di povertà che fuori non vedono futuro e opportunità. “Il penitenziario di Torino è la fotografia dei mali del sistema penitenziario italiano. Un sistema che ha fallito”. La riassume così Riccardo Magi, deputato di +Europa, in visita oggi al Lorusso e Cutugno insieme a Daniele Valle, vice presidente del consiglio regionale e a Igor Boni, presidente dei Radicali italiani. Il problema non è solo di Torino, dove la direttrice Cosima Buccoliero mette in campo ogni strumento per far fronte alle carenze del sistema, “ma è strutturale”. L’appello è al ministro della Giustizia Carlo Nordio: “Ne abbiamo apprezzato la sensibilità quando era editorialista, ora aspettiamo che questa sensibilità si trasformi in qualcosa di concreto. E in uno sforzo economico che non si limiti alle ristrutturazioni. Bisogna porsi l’obiettivo di una riforma di sistema”. Servono, sottolinea Valle, “sostegno e assistenza psicologica, una presa in carico dei carcerati da parte della medicina generale. Serve un confronto e un progetto condiviso con l’Asl, con l’assessorato regionale alla Sanità”. E Magi aggiunge: “Molti detenuti hanno problemi di tossicodipendenza. Queste persone non devono stare in carcere e servono investimenti sulle strutture di accoglienza e assistenza”. Settantasette i detenuti che si sono tolti la vita quest’anno nelle carceri italiane, di cui quattro a Torino. Mille i suicidi sventati. “Questa struttura non rieduca nessuno”. Igor Boni è drastico. “La maggiore carenza è sicuramente quella legata agli aspetti sanitari. E questa responsabilità è una responsabilità regionale”. C’è poi la questione del welfare: “Mi ha colpito la parola povertà, è la prima volta che la sento utilizzata dal direttore di un carcere. Molte delle persone detenute non ha nulla al di fuori, non una famiglia non un lavoro. Questo è indicativo e bisogna tenerne conto per ripensare il sistema. Bisogna investire sulle misure alternative”. Torino. “Senza aiuto psicologico, sanitario e sociale è un supplemento di pena” di Cinzia Gatti torinoggi.it, 26 novembre 2022 “La mancanza di assistenza sociale e sanitaria viene vissuta dai detenuti come un supplemento di pena”. È questa la stringata - ma estremamente reale - sintesi fatta dal deputato di +Europa, Riccardo Magi, che questa mattina ha visitato il carcere Lorusso e Cutugno insieme al vicepresidente regionale Daniele Valle e al presidente di Radicali Italiani, Igor Boni.  Un sopralluogo che arriva nell’annus horribilis del penitenziario delle Vallette, dove si è registrato il record negativo con 80 suicidi, di cui due negli ultimi giorni. A questi si aggiungono mille tentativi, fortunatamente sventati dagli agenti, di togliersi la vita. “La cosa che più mi ha colpito - ha spiegato Valle - è che l’assistenza psicologica ai carcerati non viene garantita: l’Asl di Torino e la Regione non possono sottrarsi alla presa in carico dei detenuti”. Su quest’ultimo fronte, dopo la ristrutturazione, a gennaio sarà riaperto il Sestante, il reparto dedicato ai carcerati psichiatrici.  Mesi per una visita medica - Altro tema è quello delle visite mediche generiche: i detenuti devono attendere mesi prima di poter avere un appuntamento. “È necessario fare pressione sull’Azienda Sanitaria per avere più dottori” ha concluso l’esponente del Pd. “Il Lorusso e Cutugno - ha osservato Magi - rispecchia appieno i problemi delle carceri italiani, dal sovraffollamento alla percentuale drammatica di tossicodipendenti”. Oltre 600 tossicodipendenti - “Sono 600 - ha aggiunto l’esponente di +Europa - le persone con dipendenza, a cui non si riesce a dare una risposta e vivono in uno stato di prostrazione per non riuscire ad avere un primo contatto con il Sert, se non dopo 2 mesi”. “I tossici non devono stare in carcere. Faccio un appello al ministro Nordio perché si faccia qualcosa di concreto: gli sforzi economici non possono limitarsi alla ristrutturazione della struttura, c’è da premere su misure alternative”, ha concluso Magi.  68% di recidiva - L’evidenza è che sono necessari degli interventi la dà il numero di ingressi al Lorusso e Cutugno: ogni anno sono 3mila coloro che varcano i cancelli. Il tasso di recidiva, cioè di chi commette nuovamente reato, è del 68% quindi piuttosto elevato. C’è addirittura il caso estremo di un detenuto che ha commesso una rapina solo per tornare in cella, dove ormai aveva costruito il suo equilibrio.  Sovraffollamento - “Al Lorusso - ha osservato Boni - ci sono 1.444 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 1.118: questo carcere è molto più grande di tantissimi Comuni del Piemonte”. “Ci più di 600 stranieri - ha aggiunto - ed appena due mediatori culturali: lo stesso numero del minorile Ferrante Aporti, per 35 ragazzi. Gli educatori sono solo 14: non siamo sotto organico, ma sono quelli previsti per legge. Questa struttura non serve a rieducare nessuno”. Napoli. Convegno sul tema “Detenuti e lavoro: buone prassi e criticità” napoliclick.it, 26 novembre 2022 Una riflessione comune per trattare un tema centrale nella vita carceraria, quello del rapporto dei detenuti con il lavoro. L’argomento sarà affrontato al Centro penitenziario di Secondigliano “Pasquale mandato” (Via Roma, verso Scampia, 350, Napoli), in occasione della presentazione del Polo delle Arti e dei mestieri, nell’ambito dell’iniziativa del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, che si terrà il 29 novembre 2022 dalle ore 9.30, in collaborazione con l’Osservatorio regionale e la Casa circondariale Pasquale Mandato di Secondigliano. La giornata, i cui lavori saranno moderati dal Garante regionale dei diritti dei detenuti Samuele Ciambriello, sarà aperta dai saluti del direttore della Casa circondariale di Secondigliano Pasquale Mandato; il presidente del Tribunale di Sorveglianza Patrizia Mirra, il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Lucia Castellano; la dirigente dell’Ufficio interdisciplinare di Esecuzione penale Esterna di Napoli Claudia Nannola. Parteciperanno all’incontro con testimonianze di esperienze e di integrazione lavorativa in Campania: Don Vincenzo Federico (Cooperativa Il Sentiero), Maggiore Luca Cruciato (Esercito italiano); Francesco Pedicini (Nuova Cooperativa di Integrazione Sociale), Valentina Ilardi (Cooperativa Articolo 1), Don Carmine Schiavone (Caritas Campania), Imma Carpiniello (Cooperativa Lazzarelle), Massimo Telese (sartoria Palingen), Fiorenzo Vespasiano (Cooperativa Il Germoglio), Marco Botta Museum of Operation A Valanche Eboli). Le conclusioni saranno affidate a Sonia Specchia (segretario generale delle Casse Ammende), Antonio Marchiello (assessore al lavoro della Regione Campania), Giuseppe Pannuti (direttore Ufficio VIII Dipartimento Amministrazione penitenziaria), Massimo Parisi (direttore generale delle Risorse umane al Dipartimento Amministrazione penitenziaria), Armida Filippelli (assessore alla Formazione della Regione Campania). Dopo il coffe break, sarà presentato il Polo delle Arti e dei mestieri, con la partecipazione, tra gli altri, di: Rita Caprio, presidente della cooperativa L’uomo e il Legno; Sergio D’Angelo, presidente del gruppo di imprese sociali Gesco; Ciro Corona, presidente della cooperativa (R)esistenza Anticamorra. Ci saranno testimonianze dei ristretti impegnati in attività lavorative intra ed extra murarie. I saluti finali saranno a cura di Samuele Ciambriello. Previsto un lunch finale. Cosenza. Giornata contro la violenza sulle donne, i detenuti girano un video di sensibilizzazione di Francesca Lagatta cosenzachannel.it, 26 novembre 2022 L’iniziativa è stata portata avanti dal centro antiviolenza “La Ginestra”, presieduto dall’avvocato Teresa Sposato. Uniti per dire no alla violenza sulle donne. Protagonisti del progetto “Nemmeno con un dito” sono lo sportello antiviolenza “La Ginestra”, le scuole Cpia di Cosenza e Iss Cosentino - Todaro di Rende, e i detenuti del carcere Sergio Cosmai, che hanno girato un video di sensibilizzazione in occasione della giornata mondiale per l’eliminazione della violenza sulle donne. L’iniziativa è stata autorizzata dalla direzione del penitenziario che, sempre più spesso, coinvolge i propri ospiti in progetti di reinserimento sociale. Detenuti in difesa delle donne - Gli ospiti della casa circondariale “Sergio Cosmai” di Cosenza, come si vede dallo spot girato nella struttura, hanno realizzato con le loro mani delle scarpette rosse, divenute il simbolo della lotta alla violenza sulle donne. Poi, su alcuni fogli bianchi, hanno scritto frasi e parole di sostegno all’emancipazione femminile, alla libertà individuale e alla libertà di decidere di chiudere una relazione, senza rischi. Al tempo stesso, hanno espresso parole di sdegno nei confronti di quegli uomini che picchiano le proprie compagne, le umiliano, le vessano e le ricattano psicologicamente. Le parole dei detenuti - Agli ospiti della struttura carceraria è stato chiesto di scrivere di proprio pugno delle frasi contro la violenza sulle donne. “Ci dovrebbe essere la giornata dell’amore tutti i giorni, l’amore pulito, sano, nel rispetto reciproco”, scrive uno dei ragazzi coinvolti nel progetto. ”In amore ci si mette in coppia per rendersi felici - scrive un altro -, ma lui preferisce coprirla di lividi. L’amore non è mai stato compagno della violenza. Se vivi questo calvario, denuncia”. Ed ancora: “Penso a quante donne, tante, troppe, avranno delle scarpe rosse - scrive un terzo detenuto - e non lo sapranno mai”. Il progetto sociale - L’iniziativa è stata portata avanti dal centro antiviolenza “La Ginestra”, presieduto dall’avvocato Teresa Sposato. La professionista, da sempre impegnata nelle battaglie civili al fianco delle donne, ha ottenuto le autorizzazioni dalla direzione della casa circondariale, entusiasta del progetto. Gli allievi del carcere hanno anche approfondito il tema della violenza sulle donne con i docenti delle scuole che hanno partecipato all’evento. “La Ginestra” non è nuova a questo tipo di iniziative. Oltre ad assistere le vittime di abusi, da anni conduce una incessante opera di sensibilizzazione sia nelle scuole che nelle carceri, anche laddove ci sono uomini che si sono macchiati di questo terribile reato. Il messaggio di Maria Antonietta Rositano - Lo sportello antiviolenza “La Ginestra” ha dato il suo contributo alla battaglia anche oggi, nella giornata per l’eliminazione della violenza sulle donne, con un convegno nella scuola Ipseoa di Paola. Nel corso della manifestazione, gli alunni hanno ricevuto un video da Maria Antonietta Rositani, bruciata viva dall’ex marito e scampata alla morte dopo numerosi interventi chirurgici e un anno di ricovero in ospedale. Oggi la donna porta nelle scuole la sua testimonianza: “Credevo di aver trovato il principe azzurro - ha detto agli studenti -. Poi il mio ex marito ha cominciato a fare scenate di gelosia, a dirmi quello che potevo o non potevo fare. Poi sono arrivati gli insulti e le aggressioni. Ho capito che non era amore. Chi ti ama, ti tiene per mano. Quando cominciate un rapporto - ha detto ancora ai giovani - e capite che questo lede la vostra libertà, interrompetelo subito. Impariamo a scindere l’amore dalla violenza”. Milano. Il progetto musicale dei ragazzi detenuti al Beccaria milanotoday.it, 26 novembre 2022 Si chiama “232 Mixtape” il primo progetto discografico - presentato alla Milano Music Week - nato dalla collaborazione tra Carosello Records e 232 APS, associazione che dal 2019 promuove percorsi artistici ed educativi rivolti a minori e giovani adulti in difficoltà, all’interno del carcere minorile “C. Beccaria”, di comunità civili e penali, centri di aggregazione giovanile. Al mixtape hanno preso parte 13 giovanissimi ragazzi, 10 rapper e 3 producer. Il disco non è in vendita ma è disponibile sul canale Youtube della 232. Carosello, infatti, facendo fede al suo motto storico “valore alla musica” ha messo la sua conoscenza dell’industria musicale, l’esperienza, la professionalità e gli strumenti di cui è in possesso a disposizione di questi giovani artisti: Kenzoo, Uelboo, Jen, Luchino, Torricelli Posse, Yambore, Perruz, Elija con le produzioni di M.BRA, Lazzino e Nuar. Carosello Records in collaborazione con l’Associazione 232 ha deciso di offrire loro l’occasione di mettersi in gioco, confrontarsi con produttori e professionisti del settore e dare voce alla loro passione registrando un proprio brano nello studio di registrazione dell’etichetta, che è stato prodotto dal producer Renzo Stone. Genova. I detenuti di Marassi in scena, anche il prefetto Franceschelli assiste allo spettacolo genova24.it, 26 novembre 2022 Compagnia teatrale Scatenati sul palcoscenico con “7 minuti”, tratto da un testo di Stefano Massini. Lo scorso 24 novembre il prefetto di Genova, Renato Franceschelli, ha assistito alla rappresentazione teatrale intitolata “7 minuti”, interpretato dai detenuti della sezione di alta sicurezza della casa circondariale di Genova Marassi. Lo spettacolo, messo in scena dalla Compagnia Teatrale Scatenati di cui fanno parte i detenuti, è tratto dal testo dello scrittore e drammaturgo Stefano Massini, vincitore del premio Tony Award 2022, e richiama un fatto di cronaca realmente accaduto in una fabbrica francese. Il prefetto Renato Franceschelli ha espresso grande soddisfazione per il progetto formativo - realizzato grazie al contributo del ministero del Lavoro e delle politiche sociali e della Regione Liguria - che consente di sperimentare ruoli e dinamiche diversi da quelli propri della detenzione, valorizzando lo spirito di collaborazione, di scambio e di condivisione. Il prefetto ha manifestato, inoltre, vivo apprezzamento per la qualità artistica dell’opera e dei suoi interpreti e ha evidenziato come tali iniziative costituiscano per i detenuti occasione per mantenere i contatti con la società e sviluppare in maniera costruttiva e propositiva le competenze artistiche e professionali, rendendo il carcere non solo un istituto di pena, ma anche di cultura. Roma. Emma, carcere, amore e libertà di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 novembre 2022 A Regina Coeli la pièce teatrale “Ad ogni passo” tratto dall’epistolario tra i coniugi Emma e Giulio Turchi, comunisti perseguitati dal regime fascista che li tenne separati per 17 anni. Alla prima lettera dal carcere Giulio le scrisse: “Coraggio Emma, due o ventuno fa lo stesso!”. Arrestato a Roma l’8 aprile 1927 con l’accusa di aver continuato a far parte di un partito (comunista) disciolto per ordine della Pubblica autorità, Giulio Turchi aveva 26 anni quando, nel 1928, venne condannato a ventun anni di reclusione dal Tribunale speciale fascista. Si erano sposati solo il 2 maggio 1926, lui e Emma, giovanissima sarta conosciuta nella comune città natale, Firenze, appena cinque mesi prima del matrimonio. Ma il loro amore sarebbe durato tutta la vita, malgrado il carcere fascista li abbia tenuti separati per diciassette lunghissimi anni. Separati ma non distanti, in continuo confronto e conforto attraverso lettere, cartoline e telegrammi. Un epistolario che Giulio Turchi - che a Firenze si era specializzato operaio metallurgico ma era dovuto scappare a Roma per sottrarsi alla persecuzione - raccolse poi in un libro: “Emma. Diario d’amore di un comunista al confino” (Donzelli editore). Lettere che ispirarono anche Emma Forconi Turchi quando scrisse “La Felicità è la lotta” (Marsilio editore). Ed è attraverso quelle pagine appassionate che si capisce che “per Giulio era importante, non tanto essere marito o perfino padre, ma amante e amico di Emma, e continuare la ricerca della loro affinità e dei loro valori comuni. Una storia d’amore in cui non si dubita mai l’uno dell’altra”. A notare il romantico particolare, indicando - nella Giornata internazionale dedicata alla lotta contro la violenza sulle donne - quello tra i due partigiani come “un bellissimo esempio di sano rapporto di coppia” che “ci insegna più in generale a non dubitare mai degli altri”, è la direzione del carcere romano di Regina Coeli (tutta al femminile: la direttrice Claudia Clementi, che ha avuto “una storia familiare simile”, e la vice Alessandra Bormioli), dove ieri è andata in scena “Ad ogni passo”, la pièce teatrale sceneggiata di Gioia Turchi Carrara, l’unica figlia della coppia concepita nel 1945 quando finalmente i due amanti si rincontrarono liberi. Gioia Turchi ieri ha messo piede per la prima volta nel carcere dove i suoi genitori sono stati detenuti (la madre fu prigioniera alle “Mantellate”). E si è emozionata: “Mi commuovo perché ci sono questi ragazzi”, ha detto rivolgendosi alla decina di detenuti a cui è stato concesso di assistere al toccante monologo interpretato dalla brava Elisabetta Magnani e diretto da Francesco Suriano. “Mio padre diceva che il nemico principale in carcere è la noia e a mia madre, quando l’arrestarono, le raccomandò di non annoiarsi mai. Questo discorso sulla noia ha pervaso le loro lettere per 17 anni. Per sfuggire alla noia - conclude Gioia Turchi Carrara - bisogna però innanzitutto portare rispetto per se stessi”. Una raccomandazione molto importante per chi oggi vive la reclusione e che fu alla base della resilienza dei perseguitati politici del fascismo. La data per questo evento non è stata scelta a caso, perché il 25 novembre 1926 venne istituito, con una delle cosiddette “leggi fascistissime”, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, e venne reintrodotta la pena di morte. Lo ha ricordato Patrizio Gonnella che con Susanna Marietti e l’associazione Antigone ha organizzato l’evento, seguito nella sala teatro di Regina Coeli anche da Michele De Palma della Fiom, Daniela Barbaresi della direzione Cgil e dalla consigliera dem di Roma Capitale, Erica Battaglia. Perché il fiorentino Giulio Turchi, oltre ad essere stato un militante del Partito socialista, dirigente del Partito comunista, segretario della sezione di Impruneta a 19 anni, fu anche un leader sindacale. E dopo il 25 aprile del 1945 fece anche parte del Comitato di liberazione nazionale di Roma. Fu eletto alla Camera dei deputati per la prima volta nel 1948 e in seguito rivestì anche la carica di questore. Ma come prigioniero politico fu rinchiuso in una cella fino al 1937, trasferito da un carcere all’altro: da Roma a Oneglia, e poi Fossombrone, Padova, Castelfranco Emilia, Civitavecchia… Emma lo seguiva ovunque, in attesa di un colloquio. I colloqui tra i due erano concessi soprattutto “ai ferri”, come si usava dire: “I detenuti erano separati dai familiari da un corridoio scuro e opprimente, largo circa un metro, che aveva ai suoi due lati tante finestrelle, protette da una robusta inferriata. Che si affrontava a due a due. Le voci si confondevano in mezzo al brusio”. Poco dopo però “fu Tatiana ad insegnarmi il metodo “della bustarella”, Tatiana Schucht la cognata di Gramsci, che di carceri era più pratica di me: quando il Tribunale mi rilasciava il biglietto del colloquio ai ferri da presentare al cavaliere dalla papalina all’ingresso, dovevo mettere sotto di esso una busta da 20 o 25 lire: lui mi avrebbe apposto in un angolo la scritta “speciale”. Da allora quasi tutti i colloqui furono a viso”. “Io non la rivoglio la mia libertà - protesta un giorno Emma in una lettera - non voglio nessun annullamento di matrimonio… Lo so che sono giovane ma posso aspettare, ti ringrazio per la tua offerta e per tua la comprensione, ma anch’io ho riflettuto e valutato, aspetterò… Anche vent’anni. Senza chiedere consiglio a nessuno - racconta lei stessa nel libro - raccolsi le mie cose, salutai gli amici e partii, il mio capitale consisteva in 450 lire. Direzione Genova. Giulio infatti era stato assegnato alla Casa Penale di Oneglia, cittadina in provincia di Imperia”. La giovane affitta una camera e ricomincia a costruirsi una clientela per i suoi lavori di sartoria. Ma, ogni volta che il suo uomo viene repentinamente trasferito, “tutto quello che avevo costruito andava distrutto”. Nel 1937, l’anno del condono, “Giulio ne ricevette tre e la sua pena fu ridotta a 10 anni, che aveva appena finito di scontare…”. Eppure, poiché venne etichettato come “un anti-italiano pericoloso per la società”, Giulio fu inviato al confino alle isole Tremiti. Da lì scrive: “Noi non dobbiamo essere marito e moglie, dobbiamo essere amici e amanti; fiducia incondizionata. Se il nostro amore sorge su questa base noi saremo non gli amanti di un’ora o di un giorno ma gli amanti di sempre, finché saremo amici…”. E lei: “Per dieci anni avevo sognato di dormire insieme a lui…”. Dopo una rivolta sollevata dai prigionieri e sedata con la violenza, Turchi lascia le Tremiti e torna in carcere a Lucera (Foggia). “Furono gli anni più duri: undici mesi senza vedere Emma”, racconterà poi. E ancora: “Dopo Lucera fui mandato di nuovo al confino a Ponza, e da Ponza a Ventotene dove erano confinati i più importanti esponenti dei partiti comunista, socialista e Giustizia e libertà, tra cui Secchia, Scoccimarro, Terracini, Camilla Ravera, Di Vittorio, Spinelli, Rossi… e poi c’erano gli albanesi, rastrellati dalla polizia fascista dopo l’occupazione militare del loro Paese”. In cella si discuteva di come aiutare gli albanesi ad organizzare la rivolta. Nell’estate del 1941 Giulio Turchi riceve una licenza di qualche giorno per andare al capezzale di suo fratello gravemente malato e per incontrare di nuovo sua madre dopo quindici anni. Una mente sadica stabilisce però che proprio in quell’occasione, non appena riabbracciatisi, toccherà questa volta ad Emma essere arrestata e rinchiusa a sua volta nel carcere femminile delle “Mantellate”, a Trastevere, accusata di cospirazione. “Cara Emma, sia che ci riuniremo fra un mese che fra dieci anni della mia condotta non dovrai mai dubitare”, le scrive lui. Per fortuna lei in quel carcere vi rimarrà “solo” cinque mesi. Racconta Emma: “Mussolini era caduto ma Giulio e gli altri comunisti erano ancora trattenuti al confino. Nella notte fra il 17 e il 18 agosto, una telefonata di Sandro Pertini mi informò che i compagni erano stati liberati”. Giulio si procurò un documento falso che gli permetteva di muoversi dentro “Roma città aperta”. Erano passati diciotto anni da quando era stato arrestato, Roma era stata liberata ma i due amanti e amici non potevano tornare ancora insieme. Andarono a vivere in due case diverse. “Giulio aveva studiato con precisione il modo in cui avvenivano le retate dei tedeschi e dei repubblichini, sapeva quando e dove sarebbero avvenute. Bisognava stare molto attenti perché ci si spostava per la città sempre con le tasche piene di documenti”. Erano i giorni dell’attentato partigiano di via Rasella e della strage delle Fosse Ardeatine. Giorni di paura, di angoscia. E di coraggio. Ma infine, “la sera del 4 giugno, verso l’imbrunire, apparvero i primi carri armati americani…”. Emma aspettava un figlio. Era una figlia, e la chiamò Gioia. Dentro il buco nero di Guantanamo bay dove muore il diritto di Francesca Spasiano Il Dubbio, 26 novembre 2022 C’è un buco nero che ha cittadinanza sulla terra da vent’anni esatti, e non c’è verso di chiuderlo. È un buco nero che risucchia diritti e vite umane, lontano dagli sguardi indiscreti, a Guantanamo bay. Dal 2002 ci hanno messo piede 780 persone, ora ne restano 35. Prigionieri, “nemici combattenti”, quasi tutti rilasciati nel corso degli anni, e sparpagliati in 59 paesi. Per un totale di 8 condanne emesse. Sì, otto. A Guantanamo succede così: ci finisci senza un’accusa, senza un processo, senza una data d’uscita. E così è successo anche a Murat Kurnaz, protagonista della vicenda che ispira il legal thriller tedesco di Andreas Dresen, distribuito in italia da Wanted Cinema con il titolo “Mamma contro G. W. Bush”. Presentato ad ottobre alla Festa del Cinema di Roma, il film sarà in sala dal primo dicembre, con il patrocinio di Amnesty International. Che da anni denuncia le gravissime violazioni dei diritti umani da parte delle autorità statunitensi: dagli interrogatori in regime di isolamento, all’alimentazione forzata durante gli scioperi della fame. Detenuti inginocchiati, ammanettati, bendati. Torturati, come Murat. Della cui vicenda si racconta in questa commedia che mescolando il dramma con l’esilarante ha ottenuto due Orsi d’argento all’ultimo festival di Berlino: uno per la sceneggiatura di Laila Stieler e l’altro per l’interpretazione della protagonista Meltem Kaptan. È lei a vestire i panni di Rabiye, una casalinga turco- tedesca che vive con la famiglia in una casetta a schiera di Brema. È lei ad arrivare fino all’uscio della Casa Bianca, in tasca una fotografia di Murat. Suo figlio, uno dei tre, operaio navale di 19 anni. La cui storia, come tutte le altre, comincia nel 2001, quando gli Stati Uniti dichiarano “guerra globale al terrore” dopo gli attentati dell’11 settembre. In quello stesso anno, dall’altra parte del mondo, Murat decide di lasciare la Germania per volare in Pakistan. Vuole studiare il Corano e rafforzare la sua fede musulmana, prima di portare la sua giovane moglie da Ankara a Brema. Ma le cose non vanno così. “Mamma, stasera non torno a cena”, spiega Murat, prima che se ne perdano le tracce. Dall’altro capo del telefono Rabiye non si raccapezza. E sprofonda nell’angoscia, prima ancora di capire che quello è l’inizio della sua odissea giudiziaria. Dov’è finito Murat? Non lo sa la polizia, e neanche l’imam del quartiere. Lo sa la stampa, che nel frattempo presidia casa di Rabiye: sui giornali suo figlio è già diventato “il talebano di Brema”. La Procura avvia un procedimento. Si muove il governo. Ma Rabye non cede al sospetto. Cosa può fare una mamma contro Guantanamo? Si aggrappa a una lettera, arriva da Cuba. E scrive Murat: “non c’è un solo motivo per il mio arresto”. Ma di che sta parlando? Rabiye lo capirà solo dopo, mettendo piede in uno studio legale: Murat è stato arrestato in Pakistan, lo hanno venduto per 3mila dollari alle forze armate statunitensi. Tanto si paga per un sospetto “terrorista”. L’avvocato Bernhard Docke (Alexander Scheer) lo sa bene. E accetta il caso: comincia la battaglia legale internazionale. Un impasto di diplomazia, aule di tribunale, e pressione mediatica combinate nel nome di un innocente. Così si proclama Murat, a cui nessuno crede. Nemmeno suo padre. Ma Rabiye se ne infischia. E anche il suo legale: tutti hanno diritto a difendersi, spiega Docke. Lo ribadisce a noi spettatori, e persino ai suoi colleghi di studio, tentati anche loro di deporre le garanzie in nome dell’emergenza. Non Docke, non il team di attivisti e avvocati che otterranno il rilascio di Murat nel 2006, cinque anni dopo. Nel mezzo Angela Merkel si era presa la guida della Germania, promettendo il suo sostegno al caso. Si era pronunciata anche la Corte Suprema degli Stati Uniti, a favore dei detenuti. Si era scoperchiato il vaso. Si era saputo del waterboarding, il famigerato annegamento simulato. Dei pestaggi, della privazione del sonno. “Ogni prigioniero viene portato davanti a un tribunale militare che riferisce se un prigioniero è un combattente nemico o meno. Chiunque sia dichiarato nemico combattente può essere internato a tempo indeterminato nel campo con questo titolo, senza che la colpevolezza o l’innocenza siano provate in un procedimento legale, senza prove, senza che ci sia un controllo indipendente - senza mai vedere un giudice. Lo stato di diritto è stato abolito”, spiega Docke in un’intervista del 2007, un anno dopo il “Military Commission Act”, con il quale per la seconda volta ai prigionieri è negato il diritto di appellarsi a un tribunale statunitense. Che quando Murat torna a casa, torna dalla terra di nessuno. Dove il diritto è morto. Ma qualcuno sopravvive, con una barba lunga fin sotto i piedi, e accanto una mamma disposta a fare il giro del mondo partendo dal tinello della propria cucina. Colletta alimentare. Quasi 9 milioni di poveri, ma a dare una speranza c’è un pacco mensile di Marta Ghezzi Corriere della Sera, 26 novembre 2022 Torna sabato 26 novembre in tutta Italia la Giornata Nazionale della Colletta. Oltre 140mila persone impegnate a raccogliere i prodotti davanti a 11mila supermercati. testimonial è il calciatore Giorgio Chiellini. Sulla tavola di Paola - chiede di non indicare il suo vero nome, non comune, riconoscibile -, milanese, 44 anni, due figli di undici e tredici, la carne e il pesce compaiono solo a inizio mese. Appena arriva lo stipendio. “Ho una routine consolidata - svela -, giro i discount di zona con i volantini delle offerte, nella mia condizione anche pochi centesimi in meno fanno la differenza. I ragazzi non si lamentano, sono creativa e ho imparato a camuffare, presento piatti a base di fagioli o lenticchie, non proprio l’alimento preferito degli adolescenti, come nemmeno una chef”. Nella povertà estrema, Paola è scivolata dopo la separazione. “Tutto sulle mie spalle, i figli per il padre non esistono più. Portarlo dal giudice? Inutile: si dichiara disoccupato, vive dai suoi”, racconta. Spiega di essere riuscita a far quadrare i conti finché è stato in vita il padre, “la sua pensione di dipendente comunale aiutava anche noi, quando è mancato è iniziata la corsa verso il basso, senza frenate, senza appigli”. Il pacco mensile - E allora, equilibrismi per riuscire a stare in piedi, ma quanto è difficile comprimere le bollette, l’affitto della casa popolare, il materiale scolastico, l’abbonamento ai mezzi pubblici, dentro a cinquecentocinquanta euro al mese di stipendio, “diciotto ore a settimana per Milano Ristorazione, più tutti gli straordinari possibili, resisto con la speranza del contratto a tempo indeterminato”, fa sapere. Poi ammette, “lotto contro un sentimento costante di vergogna, vorrei tanto smettere di sentirmi in difetto, essere poveri non è una colpa”. Così arriva a raccontare del pacco mensile del Banco Alimentare. Che, parole sue, salva le loro vite. “Non ci campo fino al mese successivo, ma senza non saprei dove sbattere la testa. La bottiglia d’olio, i formaggi, i pelati, riso e pasta. E chi lo porta, ha preso l’abitudine di inserire di nascosto dei dolcetti per i ragazzi, è una gioia vederli raggianti per una merenda golosa”. L’allegria del racconto è contagiosa, la signora non si tira indietro e confessa, “va meglio da quando ho scoperto di non essere l’unica, prima l’idea che i vicini se ne accorgessero era quasi una tortura, sapere che lo riceve anche un’altra mamma della scuola mi ha dato forza, non sono l’unica”. Nell’ultimo sabato del mese, il 26 novembre, torna in tutta Italia l’appuntamento con la Giornata Nazionale della Colletta Alimentare promossa dalla Fondazione Banco Alimentare. Per il secondo anno consecutivo il calciatore Giorgio Chiellini è testimonial dell’iniziativa solidale ed è protagonista di uno spot di lancio. Giovanni Bruno, presidente della fondazione, parla di “un evento di popolo”, ma come dargli torto, i numeri di questa edizione, la ventiseiesima, sono impressionanti: davanti a undicimila supermercati del Paese ci saranno 140mila volontari. “Si porta a casa il risultato grazie al loro impegno - rimarca il presidente -, alla loro capacità di sollecitare chi sta entrando per la spesa a compiere un gesto di solidarietà semplicissimo”. È così: un alimento in più, su uno scontrino, non influisce più di tanto, mentre ogni scatola di tonno, bottiglia di olio, confezione di caffè raccolta, fa la differenza sulla tavola di un nucleo familiare in difficoltà, come quello della signora Paola. Nel 2021, Banco Alimentare ha raccolto 120mila tonnellate di cibo, sia donato che recuperato da eccedenze alimentari di industria e grande distribuzione. “Al momento sosteniamo oltre 1 milione 700mila persone attraverso 7600 strutture caritative convenzionate”, dichiara Bruno, “in futuro saremo chiamati a compiere sforzi maggiori”. La sua analisi è lucida, “i dati Istat indicano 8 milioni 800mila connazionali in povertà relativa e 5 milioni 600mila in povertà assoluta - spiega - ma con l’inflazione e l’aumento del costo della vita vediamo le fila ingrossarsi di continuo e fra i nuovi poveri non ci sono solo persone che hanno perso casa e lavoro, ma anche chi prima viveva in relativa tranquillità e ora si trova ad annaspare. Nuove emergenze a cui fare fronte insieme, grazie a chi parteciperà alla Giornata Nazionale della Colletta”. Colletta alimentare. Quando la spesa fa bene due volte di Marco Fattorini linkiesta.it, 26 novembre 2022 Il 26 novembre è il giorno della colletta alimentare, il gesto più semplice per capire i bisogni delle persone. C’è la signora Anna, 82 anni, che riempie una busta nonostante la sua pensione minima: “Sono stata aiutata e voglio restituire il bene che ho ricevuto”. Poi c’è Armando che ogni anno acquista cento chili di zucchero perché “un po’ di dolcezza serve sempre”. Quindi arriva Edoardo, giacca in pelle e sneakers. All’ingresso del supermercato ferma uno dei volontari con la pettorina: “Vuoi fare un investimento? Dammi un euro per prendere il carrello e io partecipo alla Colletta Alimentare”. Quello, sorpreso, apre il portafoglio e gli porge la moneta. “Adesso vieni con me tra gli scaffali e dimmi cosa vi serve”. Morale della favola: riempie un carrello di alimenti per l’infanzia, biscotti e cibo in scatola. Le storie e le persone che si incontrano alla Colletta stupiscono ogni anno. Nulla è dato per scontato. Così anche sabato 26 novembre in 11 mila supermercati d’Italia più di 140mila volontari della Fondazione Banco Alimentare invitano i clienti a donare parte della loro spesa ai poveri. “Quello che proponiamo da 26 anni - spiega il presidente Giovanni Bruno - è un gesto semplice e concreto che non ha bisogno di discorsi, capace di superare ideologie e pregiudizi. Guardiamo l’altra persona per il bisogno che esprime”. Oggi la spesa solidale è ancora più importante. Ai danni economici della pandemia si aggiungono il caro bollette e l’inflazione alle stelle. Solo negli ultimi dieci mesi 85mila persone si sono rivolte per la prima volta alle strutture del Banco Alimentare in giro per l’Italia. Molte famiglie con bambini, tantissimi insospettabili. “Registriamo sempre più studenti universitari fuorisede”, racconta Bruno. La fondazione assiste 1 milione e 750 mila persone attraverso 7.600 enti caritativi. Nel 2021 gli uomini e le donne della onlus hanno distribuito 120mila tonnellate di alimenti. Il pacco cibo e il pasto in mensa sono diventati una salvezza quotidiana in un Paese in cui quasi 6 milioni di cittadini vivono in povertà assoluta. Alle porte del Banco Alimentare hanno bussato anche quindicimila profughi ucraini, costretti a fuggire dalle loro case dopo la brutale invasione ordinata da Vladimir Putin. Sabato alcuni di loro faranno i volontari. La comunità ortodossa di Milano ha deciso di partecipare alla Colletta Alimentare: davanti ad alcuni supermercati ci saranno cittadini ucraini e russi con la stessa pettorina. Armati di volantini e buste, inviteranno i clienti a fare la spesa per i poveri. “La condivisione e la carità sono le prime condizioni per fare la pace”, racconta il presidente del Banco Alimentare Giovanni Bruno. La Colletta unisce persone di ogni età, religione e provenienza. Ma questa non è una novità. Da diversi anni la spesa solidale entra nelle carceri italiane. Succede anche sabato, da Milano a Taranto, da Verona a Catania. “Nonostante le difficili condizioni in cui vivono, molti detenuti continuano a fare con entusiasmo un gesto che esprime tutta la loro dignità e il loro desiderio di essere parte attiva nella società”. Il momento non è dei più facili nemmeno per chi vive in libertà. La crisi ha svuotato i portafogli, probabilmente quest’anno i carrelli saranno meno pieni. “Ma la Colletta - sottolinea Bruno - non va male se raccogliamo meno, il valore educativo di questo gesto resta immutato: sottolineare a noi stessi e a tutti che è possibile un modo diverso di trattarsi e di essere attenti ai bisogni degli altri”. Se non bastasse, il senso della giornata la riassume Vitaliano Bonacina. Novant’anni anni e una barba bianchissima, ha organizzato la prima edizione nel 1997. Continua a indossare la pettorina del volontario con una certezza: “La colletta fa bene a chi la fa”. Difficile dargli torto. Scuola. Umiliare per educare? L’ancien régime di Valditara di Filippo Barbera Il Manifesto, 26 novembre 2022 Ministro del merito. Con questa “idea” la sfera pubblica diventa una “scena” teatrale dove espiare la colpa; e si vuole recuperare la “credibilità dell’educatore” attraverso strumenti punitivi. Il 21 novembre il Ministro dell’Istruzione e del Merito del governo Meloni, in occasione di un evento pubblico a Milano, ha dichiarato: “Soltanto lavorando per la collettività, umiliandosi anche, si prende la responsabilità dei propri atti. Evviva l’umiliazione”. “Che - ha continuato - è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità, di fronte ai propri compagni. Da lì nasce il riscatto”. Successivamente - a seguito delle polemiche sollevate - si è scusato per il termine utilizzato. Il problema, però, non è il termine, ma il concetto di fondo a cui questo si riferisce. Nell’idea che l’umiliazione comporti un effetto educativo sulle persone, la sfera pubblica diventa il luogo dove il “reo” - a prescindere dal come e dal perché della sua colpa - deve mostrare agli altri la propria colpa. Non è, quindi, una vera e propria sfera pubblica sottoposta a regole di riconoscimento terze e simmetriche, ma una “scena” teatrale dove espiare la colpa. Se il reo non si pente e non si sottopone al rituale dell’umiliazione, merita l’ostracismo della comunità. Nell’Atene della Grecia antica, l’ostrakon era il frammento di terracotta dove gli Ateniesi incidevano il nome del cittadino da mettere al bando. Il ministro Valditara ha ammesso che la sua posizione deriva dalla preoccupazione per la perdita di autorevolezza del ruolo del “maestro”: “Quando io ero un bambino, il maestro era il maestro con la emme maiuscola. Così non si può più andare avanti”. Che il ruolo sociale dell’educatore sia in crisi di legittimità, è noto da molti anni. Ciò che colpisce nella proposta del ministro è l’idea che questa autorevolezza perduta si possa rigenerare attraverso strumenti punitivi che - anche se non ancora corporali - devono fare leva sull’assenza di dialogo e di relazione, tanto con il “reo” che con la comunità offesa. L’esatto contrario di quanto suggerito dalla cosiddetta “giustizia riparativa” che, appunto, richiede che il danno che il soggetto ha cagionato alla comunità sia oggetto di un processo capace di spingere gli autori di reato a porre rimedio al danno e/o alla sofferenza generata. La giustizia riparativa interpreta lo spazio pubblico come quel luogo che valorizza la relazione sociale tra reo e offeso con riferimento a un terzo (la comunità) che media tale relazione all’insegna della necessità di riprodurre il legame sociale che il reato ha spezzato. Le coordinate per istituire modelli di giustizia riparativa si caratterizzano per il ruolo svolto dall’atmosfera informale, dal coinvolgimento della comunità nella gestione del conflitto, dalla verifica del grado di condivisione, da parte della comunità, del punto di vista delle parti in conflitto, dal tentativo di favorire una soluzione consensuale del conflitto, dalla valenza terapeutica del processo di mediazione, dall’interesse alla ricostituzione dell’armonia sociale all’interno della comunità e dall’orientamento del risultato alla comunità e non, in via esclusiva, agli interessi delle singole parti in conflitto (si veda: Mannozzi, Grazia, and Giovanni Angelo Lodigiani. La Giustizia riparativa: Formanti, parole e metodi. G. Giappichelli Editore, 2017). Lo spazio pubblico diventa quindi il luogo per una prestazione pubblica, giudicabile da uno sguardo terzo, tra il colpevole e chi ha subito il danno. Una bella differenza con l’idea che “l’umiliazione strutturi la personalità”. Del resto, gli studi psico-sociali mostrano che le emozioni riflessive come l’umiliazione - cioè quelle emozioni che sortiscono un effetto sull’autocoscienza del soggetto - generano proprio l’effetto opposto. Umiliazione e vergogna creano problemi di autostima e sono causa di aggressività, rabbia e violenza nelle persone. In questo modo, la sfera pubblica viene privata delle sue qualità più importanti: mettere a confronto i cittadini in uno spazio terzo e soggetto a regole di riconoscimento pubbliche, potenzialmente inclusive sulla base dell’adozione di modelli di comportamento e di “pratiche sociali” orientate alla riproduzione del legame sociale. L’idea che i percorsi necessari per ripristinare l’autorevolezza degli educatori passino dal potere delle istituzioni educative di punire e umiliare chi ha commesso un danno alla collettività, è indice di un atteggiamento segnato dalla ricerca di autorità severe e di sanzioni verso comportamenti classificati come “devianti”. Un autoritarismo che nasce come reazione a qualcosa che viene percepito come minaccia, cioè lo sfaldamento di un ordine sociale basato su ruoli sociali una volta dotati di maggiore prestigio e influenza. Una reazione, quindi, da ancien régime, che qualifica una postura politica basata sull’autoritarismo come soluzione alla mancanza di autorevolezza. Migranti. Manovra, 42 milioni per i Cpr. Il governo punta su un modello fallimentare di Giansandro Merli Il Manifesto, 26 novembre 2022 Nei Centri di permanenza per il rimpatrio i migranti sono detenuti senza aver commesso reati. Il sistema alimenta violazioni dei diritti e inutili sofferenze. Una disfatta per tutti. L’articolo 106 della bozza di manovra circolata in questi giorni tratta l’”Ampliamento della rete dei centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr)”. Per il prossimo triennio stanzia 42 milioni di euro per “costruzione, acquisizione, completamento, adeguamento e ristrutturazione di immobili e infrastrutture destinati a centri di trattenimento e accoglienza”. Nei Cpr, però, di accoglienza non c’è nulla. Sono luoghi di detenzione amministrativa, cioè di privazione della libertà personale di chi non ha commesso alcun reato. La loro storia affonda nel decreto Dini del 1995 e nella legge Turco-Napolitano del 1998 (governo Prodi). Nel corso del tempo hanno cambiato nomi e sigle: Centri di permanenza temporanea e assistenza (Cpta), Centri di permanenza temporanea (Cpt), Centri di identificazione ed espulsione (Cie). La denominazione attuale arriva nel 2017 con il “decreto Minniti-Orlando”, allora ministri di Interno e Giustizia del Pd. È quel provvedimento che dispone l’ampliamento della rete dei Cpr a cui il governo Meloni potrebbe ora dare attuazione. A oggi sono 10 quelli in funzione: Bari, Brindisi, Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo (Gorizia), Macomer (Nuoro), Palazzo San Gervasio (Potenza), Ponte Galeria (Roma), Torino, Trapani, Milano. Al 31 dicembre scorso, secondo i dati del Garante nazionale dei detenuti, i posti potenziali erano 1.359. I trattenuti 744. Nel 2020 il tempo massimo di permanenza è stato ridotto a 90 giorni, prorogabili di 30 per chi viene dai (pochi) paesi con cui l’Italia ha accordi di rimpatrio. C’è un dato che ricorre nelle statistiche ufficiali degli ultimi anni: la metà delle persone che finiscono in un Cpr sono private della libertà senza alcuno scopo, perché non possono essere espulse. Nel 2021 su 5.142 migranti trattenuti ne sono stati espulsi 2.519. Aumentati leggermente quest’anno: al 15 ottobre erano 2.853. È il “fallimento funzionale” dell’approccio securitario all’immigrazione e della detenzione amministrativa. Non l’unico, perché il sistema “delle pene senza delitti”, come sintetizza un report sul Cpr milanese curato da Gregorio De Falco e rete Mai più Cpr, costituisce un fallimento anche da altri due punti di vista: quello delle tutele giurisdizionali e dei diritti fondamentali che una democrazia dovrebbe garantire senza discriminazioni. Basti pensare che la convalida del trattenimento amministrativo è disposta per i richiedenti asilo dal tribunale civile e per i migranti “irregolari” dal giudice di pace. Magistrati che in nessun altro caso possono privare qualcuno di un bene fondamentale come la libertà personale. La stessa detenzione, poi, è sottratta al controllo della magistratura di sorveglianza che ha il compito di valutare tutte le questioni legate ai diritti del detenuto. In un convegno della scorsa settimana il giudice Riccardo De Vito ha definito questa situazione “un vuoto intollerabile”. Anche perché, sostiene, nella detenzione amministrativa “i modi mediante i quali le persone sono private della libertà personale non sono disciplinati dalla legge”. “Modi” che nel sistema penitenziario fissano i limiti al potere delle autorità. Altro unicum nel panorama detentivo italiano è che i Cpr sono strutture gestite da privati. Questo, mostra la Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) nello studio Buchi neri, crea una tenaglia intorno alle vite dei trattenuti: lo Stato vuole minimizzare i costi (44 milioni dal 2018), gli enti gestori massimizzare i profitti. Condizioni igieniche terribili, assistenza medica insufficiente, abuso di psicofarmaci, cibo scadente, episodi di autolesionismo sono la regola nei Cpr. “La realizzazione di altri centri non farà che perpetrare lo sperpero di soldi e la sistematica violazione dei diritti umani, senza garantire in alcun modo una gestione del fenomeno migratorio efficace e pragmatica”, afferma la Cild. Migranti. Il piano Piantedosi: arruolare precari per avere più stranieri nei campi di Giovanna Faggionato Il Domani, 26 novembre 2022 Assumere un esercito di precari in deroga ai limiti previsti per il lavoro in somministrazione o a tempo determinato, per sbrigare le pratiche per gli stranieri da far lavorare nei nostri campi, nelle nostre case, nei nostri alberghi e nei nostri ristoranti. L’articolo 109 della legge di Bilancio del governo Meloni - “Misure per la funzionalità del ministero dell’Interno” - illustra il modo paradossale in cui vengono gestite le questioni del lavoro e dell’immigrazione in Italia, proprio mentre il nuovo ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, annuncia al Consiglio Ue che per il 2023 l’Italia potrebbe accogliere regolarmente 100mila stranieri. La legge di Bilancio stanzia fino a 37,7 milioni di euro per il 2023 perché il ministero dell’Interno possa pagare “una o più agenzie di somministrazione del lavoro, prestazioni di lavoro a contratto a termine” per consentire di svolgere rapidamente le procedure del decreto legge del 21 giugno 2022, cioè il decreto che doveva semplificare il rilascio del nulla osta per il lavoro stagionale, e quelle della sanatoria 2020 per la regolarizzazione degli stranieri presenti sul territorio italiano ma lavoratori in nero (mezzo milione di persone dimenticate, secondo la Caritas). È da molti anni che la programmazione dei flussi triennale prevista dalla legge viene accantonata per motivi ideologici, spiega l’avvocato Antonio Savio dell’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. Così il decreto flussi rinnovato di anno in anno è stato per molto tempo insufficiente anche a garantire le richieste delle imprese. Flussi e sanatorie - Si è passati da una quota di 15mila ingressi negli anni 2014-2015 ai 30mila tra il 2016 e il 2020. Nell’anno della pandemia, soprattutto sotto il pressing delle aziende del settore ortofrutticolo, la ministra Teresa Bellanova ha aperto a una mega sanatoria per i lavoratori irregolari del settore agricolo, del turismo e della cura e assistenza della persona, le tante badanti irregolari. Bastavano 500 euro, spesso pagati dagli stessi lavoratori, oppure 150 euro per chi dichiarava di aver trovato un lavoro, e tutto era dimenticato. “Molte di quelle procedure sono in stallo”, dice Savio, dopo anni in cui le istituzioni hanno scelto di non gestire il fenomeno migratorio. In più, mentre si moltiplicavano le denunce di imprenditori del turismo contro il Reddito di cittadinanza che impediva di trovare lavoratori, il decreto licenziato a dicembre 2021 ha aumentato la quota di ingressi di stranieri a 69.700 di cui 42mila per il lavoro stagionale in agricoltura e nel settore turistico alberghiero. E quest’estate anche l’ex ministro del Turismo, Massimo Garavaglia, chiedeva di rispondere alle domande delle aziende, anche se poi smentito dal suo partito. Ora per avere lavoratori per i campi la Coldiretti ha chiesto al governo di aprire a 100mila ingressi, e a breve deve essere messo a punto il nuovo decreto flussi. Il ministero dell’Interno però non sembra attrezzato per gestire i flussi di migrazione regolare. Così nella legge di Bilancio, oltre a ottenere fondi per l’ampliamento dei “centri per il rimpatrio” (5,4 milioni per il 2023, 14,3 per il 2024 e 16,1 per il 2025), il Viminale viene autorizzato a stipulare contratti con agenzie di somministrazione del lavoro anche in deroga alle regole sui bandi di gara pubblici. E cioè in deroga alle norme sulle fasi e sulle tempistiche di procedura dell’appalto, a quelle che regolano i contratti sotto soglia, a tutte le regole che definiscono le varie tipologie di gara, e anche a quelle che regolano la modifica dei contratti già sottoscritti. Un’enorme deregulation che evidentemente serve per rispondere alle emergenze di domanda di lavoratori stagionali. I cui documenti, condizioni di regolarità, certificazione dei requisti saranno vagliati da lavoratori se possibile ancora più precari. La gestione di lavoro e migrazioni modello Italia, modello Meloni. Migranti. Schiaffo della Francia. E il Viminale frena sulle Ong di Anais Ginori e Alessandra Ziniti La Repubblica, 26 novembre 2022 Darmanin: “L’Italia accolga le navi o niente ricollocamenti”. L’Ue valuta un codice sui salvataggi e chiama le organizzazioni umanitarie al tavolo. Piantedosi sulle confische non farà un decreto. Intesa Parigi-Berlino di sostegno reciproco sull’energia. L’Italia “non ha respinto” il principio dello sbarco dei migranti soccorsi in mare nel porto sicuro più vicino. E la Francia pretende “che ogni Stato si assuma le sue responsabilità”. Vit Rakusan, ministro dell’Interno della Repubblica Ceca, fa l’equilibrista con le parole per provare a stemperare la tensione. Ma la verità è che, ben al di là di quel “con la Francia normalissimi e buonissimi rapporti” ostentato da Matteo Piantedosi, la riunione straordinaria dei ministri dell’Interno Ue, convocata a Bruxelles per cercare un accordo sul Piano d’azione della commissione Ue sui flussi migratori, ha confermato che tra Roma e Parigi la crisi scatenata dal caso Ocean Viking è una ferita ancora aperta. Dimostrazione plastica il piglio con il quale il ministro dell’Interno francese Gerard Darmanin si è presentato ai giornalisti subito prima dell’inizio della riunione. Quasi un ultimatum il suo: “Se l’Italia non prende le navi e non accetta la legge del mare e del porto più sicuro niente ricollocamenti. L’Italia rispetti il diritto del mare e gli accordi Ue che ha firmato. Se non verrà approvato il piano della Commissione Ue la Francia andrà per la sua strada”. Come dire: la Francia ha accolto la Ocean Viking in via del tutto eccezionale ma non accadrà mai più. Il rapporto (anche personale) tra Piantedosi e Darmanin sembra compromesso: nessun faccia a faccia chiarificatore. Anzi, i due si sono evitati ritrovandosi lontani al tavolo e alla fine si sono scambiati solo una sfuggente stretta di mano. Piantedosi ha provato a non raccogliere la sfida, nel suo discorso di debutto al Consiglio dei ministri dell’Interno Ue non ha mai citato la Francia, ha puntato tutte le carte sul piano della commissione che definisce “un segnale di attenzione verso l’Italia, in linea con le nostre posizioni, punto di partenza per assumere decisioni” ma ha chiesto di “agire tempestivamente”. Sapendo di tornare a casa con un bicchiere pieno di promesse, annunci di ipotetiche convergenze, impegni decennali che stentano a realizzarsi. E soprattutto sapendo che, molto presto, davanti alle prossime navi umanitarie che torneranno ad affacciarsi davanti ai porti italiani il pallino sarà di nuovo solo nelle sue mani. E stavolta la posizione italiana sarà meno rigida. “Decideremo caso per caso”, la nuova strategia del Viminale che frena anche sull’ipotesi di un decreto che preveda sanzioni amministrative, sequestri e confische per le Ong. Anche perché la proposta italiana di varare un nuovo codice di condotta per le navi umanitarie che ne definisca le regole di ingaggio sembra essere stata accolta con favore dagli Stati. E il vicepresidente Schinas ha proposto di chiamare le Ong al tavolo. Nessuno però, in Europa, ha intenzione di mettere in discussione il principio che i migranti che tentano la traversata sulla rotta del Mediterraneo vadano salvati e portati nel porto sicuro più vicino. E che la strada per la condivisione delle responsabilità sia quella già tracciata dei ricollocamenti e della suddivisione degli oneri di rimpatri. La proposta italiana di un meccanismo centralizzato di rimpatrio di chi non ha diritto all’asilo potrebbe fare breccia. “C’è un orientamento - dice Piantedosi - a realizzare interventi finanziati direttamente dalla Ue per impedire le partenze e rafforzare i meccanismi di rimpatrio”. Se ne riparlerà l’8 dicembre a Bruxelles. Ma intanto che a Parigi non si intraveda l’uscita della crisi con l’Italia nonostante la telefonata di due settimane fa tra Emmanuel Macron e Sergio Mattarella abbia permesso di abbassare i toni, lo sostengono anche nell’entourage di Macron. La “rottura di fiducia” con Giorgia Meloni è profonda. Anche se la questione delle navi delle Ong venisse superata, resterebbe una diffidenza. Nella crisi del rapporto con l’Italia, la Francia ha invece fretta di ritrovare una piena intesa con la Germania. Ieri la premier Elisabeth Borne era a Berlino dove è stata firmata una dichiarazione politica comune per il sostegno reciproco sull’energia. La Francia promette di sostenere la Germania sul gas e, in cambio, la Germania assicura aiuto alla Francia sul fronte dell’energia elettrica. Un patto che si era cominciato a tessere negli ultimi mesi del governo Draghi e che ora diventa ancora di più indispensabile. “Gli amici si sostengono l’un l’altro nei momenti del bisogno” ha detto Olaf Scholz. La giustizia climatica non è solo questione di soldi di Gianfranco Pellegrino Il Domani, 26 novembre 2022 Il risultato principale della Cop 27 è stato l’istituzione di un fondo per compensare le vittime dei danni arrecati dal cambiamento climatico. Come hanno detto molti, una parte della giustizia climatica ancora disattesa finalmente è stata riconosciuta. È un risultato positivo in una conferenza difficile, anche se molti elementi dovranno ancora essere chiariti (quanto e chi pagare, dove trovare le risorse e così via). È stata anche una vittoria politica dei paesi africani, delle piccole isole, di alcune economie emergenti. Il costo del cinismo - Ma è una vittoria che comporta dei costi, e non mi riferisco a quelli sostanziali (i soldi per compensare le vittime sono dovuti). Sono costi ideologici o simbolici: questo risultato potrebbe legittimare una concezione limitata della giustizia climatica e lanciare un messaggio pessimista e cinico. Concentrarsi sulla compensazione delle perdite e dei danni della crisi climatica può indurre a distogliere lo sguardo dalla mitigazione, come si chiama in gergo lo sforzo di ridurre le emissioni future, dando per scontato che il cambiamento climatico pericoloso sia avvenuto, stia avvenendo ed avverrà, e che nulla si possa fare per evitarlo. È come se considerassimo ineluttabile il cambiamento del clima e i danni che ne conseguiranno. Insistere sul risarcimento dei danni è tipico di una certa mentalità - la mentalità del diritto civile o del diritto privato. L’idea è che certi danni si possano sempre riparare pagando le vittime. Da un lato è giusto che chi è responsabile paghi le conseguenze delle proprie azioni, risarcendo le vittime: è il principio del ‘chi rompe paga’. Dall’altro l’idea che si possa comunque compensare in denaro le vittime delle proprie azioni suggerisce che non ci siano danni irreparabili e che tutto si possa risolvere pagando. Molte delle politiche climatiche di cui più si discute funzionano così. Se viaggiamo in aereo, potremo compensare le emissioni pagando per progetti di rimboschimento. Anzi, come ha suggerito fra gli altri Stefano Mancuso, se piantiamo abbastanza alberi potremo riassorbire, almeno per un po’, le emissioni in eccesso che abbiamo creato, guadagnando tempo per trovare delle soluzioni più durature. E, appunto, possiamo stanziare soldi per favorire l’adattamento delle vittime delle catastrofi climatiche che noi stessi abbiamo creato. Possiamo calcolare chi perderà e verrà danneggiato dal cambiamento climatico e rifonderlo. Ma questo vuol dire trattare azioni che causeranno morti e distruzione come semplici danni che possiamo sempre ripagare o risolvere con qualche idea ingegnosa - come se non esistesse né morale né diritto penale, per l’appunto, ma tutto fosse questione di diritto civile o privato, o di tecnologie e gestione dell’ambiente. L’illusione del risarcimento - Credere che i torti che facciamo agli altri si possano riparare pagando, e tutto finisca lì, è una visione sottilmente pericolosa, che può lavarci la coscienza e incentivarci a continuare. Immaginiamo di picchiare qualcuno e che l’apprendista stregone ci proponga una soluzione: per esempio, una prodigiosa medicina capace di rendere le nostre vittime immuni al dolore e allo spavento. Forse ne saremmo sollevati. Ma magari saremmo anche più tentati di ricorrere di nuovo alla violenza. Perché controllarsi, se poi possiamo usare il farmaco miracoloso e tutto torna a posto? Perché smettere di usare combustibili fossili, se possiamo pagare eventuali vittime e continuare a farlo? Ma questa è un’illusione, una fonte di corruzione morale: danneggiare ingiustamente gli altri richiede un risarcimento, ma esige soprattutto di riconoscere l’ingiustizia e di fare di tutto per prevenirla. Probabilmente, i paesi responsabili del cambiamento climatico cercheranno di ostacolare il nuovo fondo di compensazione, riducendo le cifre o il numero degli aventi diritto. L’opinione pubblica e gli attivisti dovrebbero controllare ed evitare un esito del genere. Ma, anche di fronte a un’inaspettata generosità dei paesi responsabili dell’eccesso di emissioni, dovremmo comunque avere chiaro che i soldi non sono tutto. Le conseguenze del cambiamento climatico hanno e comporteranno perdite irreparabili, in termini di biodiversità, qualità della vita e diseguaglianza, a cui dovremmo reagire con rammarico e agendo seriamente per diminuire o evitare danni futuri. La mitigazione è la risposta moralmente e politicamente corretta al cambiamento climatico, è il cuore della giustizia climatica, anche quando la compensazione e l’adattamento siano pragmaticamente e politicamente dovute. La giustizia climatica non può passare solo per conferenze che rinnovano trattati - come sono essenzialmente le Cop. Dovrebbe realizzarsi forse anche in commissioni e corti di giustizia internazionali, che rendano chiare le responsabilità e impongano condotte virtuose.