Raggiunto il tremendo record di suicidi in carcere nella storia della Repubblica Italiana di Luca Cereda vita.it, 25 novembre 2022 I suicidi in carcere non sono più un’emergenza, nonostante siano 80 i detenuti ad essersi tolti la vita nel 2022, sono normalità. E nessuna istituzione ne parla. Da inizio 2022 ad oggi sono 80 detenuti che si sono tolti la vita dentro le carceri: si tratta della cifra più alta nella storia della Repubblica Italiana. Ottanta, è bene scriverlo anche con le lettere, è il triste record, quello precedente si era registrato nel 2009, quando a fine anno, non a novembre, i suicidi erano stati 72. A far raggiungere questa cifra drammatica sono stati i casi di due detenuti che lunedì si sono suicidati nel carcere di Foggia e in quello fiorentino di Sollicciano. Ma a far impallidire - e vergognare uno Stato che si professa “di diritto” - sono anche i dati che riportano oltre mille tentativi di suicidio sventati nell’anno in corso grazie all’intervento degli agenti di polizia penitenziaria. Di fronte a questo dramma senza fine, va registrato il silenzio delle istituzioni e della politica. Oltre al valore in termini assoluti, l’indicatore principale per valutare l’andamento del fenomeno è il cosiddetto tasso di suicidi, ossia la relazione tra il numero dei casi e la media delle persone detenute nel corso dell’anno. Non essendo ancora terminato il 2022, possiamo oggi calcolare il tasso di suicidi solo tra il mese di gennaio e settembre, ossia a quando risale l’ultimo aggiornamento sulla popolazione detenuta. Con un numero di presenze medie pari a 54.920 detenuti e 65 decessi avvenuti in questi nove mesi, il tasso di suicidi è oggi pari circa a 13 casi ogni 10.000 persone detenute: si tratta del valore più alto mai registrato. In carcere ci si uccide oltre 21 volte in più che nel mondo libero. Quando nel 2009 si suicidarono 72 persone, i detenuti erano circa 7.000 in più. Un altro dato drammatico è quello dei suicidi nella popolazione detenuta femminile. Finora sono stati cinque. Con un tasso superiore a quello degli uomini, pari a quasi il 22%. Nel 2021 e nel 2020 “solo” due si erano tolte la vita. Nessuna nel 2019. “Quasi il 50% dei casi di suicidi sono poi stati commessi da persone di origine straniera. Se circa un terzo della popolazione detenuta è straniera, vediamo quindi come l’incidenza di suicidi è significativamente maggiore tra questi detenuti - spiegano da Antigone. Dalle poche informazioni a disposizione, sembrerebbe che circa un terzo dei casi di suicidi riguardava persone con una patologia psichiatrica, accertata o presunta, e/o una dipendenza da sostanze, alcol o farmaci”. Le Case Circondariali di Foggia e di Milano San Vittore restano i due istituti con il maggior numero di suicidi nel corso dell’anno, con 5 e 4 decessi. Seguono con tre decessi, gli istituti di Roma Regina Coeli, Monza, Firenze Sollicciano, Torino e Palermo Ucciardone. La follia di lasciar morire Alfredo Cospito al 41 bis di Luigi Manconi Il Riformista, 25 novembre 2022 L’anarchico recluso a Bancali ha perso oltre 20 kg nella sua lotta contro l’applicazione del 41bis. E non intende smettere. Le autorità continuano a ignorarlo. Il 1° dicembre la decisione sul reclamo dei legali Alfredo Cospito è arrivato al trentasettesimo giorno di digiuno. Il suo corpo ha perso oltre 20 kg. Il prossimo primo dicembre è prevista la decisione relativa al reclamo presentato dai suoi legali in merito all’applicazione del regime di 41-bis. Intanto, la vicenda dell’anarchico che digiuna contro il regime speciale di detenzione comincia, finalmente, a suscitare qualche interesse: un certo numero di articoli e interviste e interrogazioni parlamentari da parte di deputati e senatori (Peppe De Cristofaro, Ivan Scalfarotto, Nicola Fratoianni, Riccardo Magi e Silvio Lai); e una settimana fa la visita del Garante nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma. Ma la gran parte del sistema mediatico e dei canali radiotelevisivi, per non parlare delle autorità politico-istituzionali, continua a ignorare il fatto. E questo è molto grave, perché la vicenda di Cospito evidenzia, con tutta la forza di un corpo che si espone alla prova crudele del digiuno, un paio di cruciali questioni di giustizia. La prima richiama il problema della ostatività, prevista dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, che interdice ai condannati che non abbiano collaborato con la magistratura il godimento dei benefici penitenziari e, in caso di ergastolo, la possibilità di accedere alla liberazione condizionale dopo 26 anni (oggi, a seguito dell’intervento del governo Meloni, dopo 30) di reclusione. La seconda questione è rappresentata dal regime di 41-bis, la cui esclusiva finalità è, per la legge, quella di interrompere i rapporti tra il detenuto e l’organizzazione criminale di appartenenza, ma la cui applicazione trascende di frequente i limiti previsti dalla norma. Così che la reclusione in 41-bis tende a tradursi in un sistema di privazioni e afflizioni che nulla hanno a che vedere con la ratio della legge e che rischiano di trasformarsi in altrettanti provvedimenti persecutori. Il caso di Cospito è, sotto questo profilo, esemplare. La corrispondenza a lui destinata viene trattenuta e questo limita fortemente la sua possibilità di comunicazione, di relazione con familiari e amici, di rapporto con la propria area politica, di collaborazione all’attività di ricerca e di elaborazione. Altrettanto limitata è la sua possibilità di socializzazione, dal momento che i rapporti consentitigli con altri tre detenuti sono ormai ridotti a quelli, occasionali, con una sola persona. D’altra parte, le ore d’aria cui ha diritto possono essere trascorse esclusivamente all’interno di un cubicolo dai muri molto alti, che permettono di guardare il cielo solo attraverso una grata posta sul soffitto. Contro tutto questo Cospito ha deciso di intraprendere lo sciopero della fame, perché - così ha scritto - “La vita non ha senso in questa tomba di vivi”. Ieri, giovedì, la dottoressa Angelica Milia, su incarico del difensore Fabio Rossi Albertini, ha potuto visitare il detenuto e l’ha trovato “in condizioni discrete”, pur se patisce assai il freddo e se, per precauzione, non usufruisce dell’ora d’aria. La dottoressa lamenta “alcune trascuratezze nel trattamento medico”, come il fatto che non gli sia stata garantita una copertura gastrica e che il numero e la qualità degli integratori, per altro concessi con grande ritardo, non siano adeguati. Inizialmente al medico di fiducia erano state frapposte numerose difficoltà persino nel consultare la cartella clinica del paziente. Oggi, dal momento che quello di Cospito - come ha detto un sanitario del carcere - “è diventato un caso mediatico”, c’è stata maggiore collaborazione. Il detenuto ha detto alla dottoressa Milia di avere fiducia nell’udienza del primo dicembre; in ogni caso, si dichiara fermamente intenzionato a continuare il suo digiuno. Anche perché dalle autorità e, segnatamente, dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, non è giunta finora alcuna risposta. E nemmeno il più piccolo segnale. La solitudine del 41-bis può essere davvero assoluta. Trentasettesimo giorno di sciopero della fame per l’anarchico al 41 bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 novembre 2022 È da oltre un mese che Alfredo Cospito, l’unico anarchico recluso al 41 bis, è in sciopero della fame. Sta male, ha perso oltre 20 kg, con gravi conseguenze parzialmente mitigate dall’assunzione di integratori alimentari che gli sono stati concessi solo dopo la visita al supercarcere sardo di Bancali della delegazione del Garante Nazionale composta dal Presidente Mauro Palma e da Daniela de Robert. Ma la questione è grave sotto ogni punto di vista, tanto che il legale di Cospito, l’avvocato Flavio Rossi Albertini, si è rivolto all’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr). “Lo sciopero della fame che ha intrapreso per protestare contro questa forma estrema di isolamento sta danneggiando gravemente la sua salute e potrebbe portargli conseguenze irreversibili, compresa la morte. Ricorrere all’Ohchr per sospendere questa crudele e disumana forma di detenzione è attualmente l’unica possibilità che ha”, così si rivolge accoratamente all’alto commissario dell’Onu. Ricordiamo ancora una volta che di tratta del primo caso, senza precedenti, di un anarchico che è al 41 bis per via delle sue lettere e articoli pubblicati su riviste e siti on line durante la detenzione. Non i pizzini, o messaggi criptici, ma pensieri politici pubblici trasmessi quando era nel circuito differenziato dell’alta sicurezza (AS2) trascorsi nella quasi totalità senza alcun vincolo di censura nella corrispondenza. “Un paese liberale tutela tutte le ideologie, anche le più odiose”, hanno sottolineato l’avvocato Albertini e la collega Maria Teresa Pintus che l’assiste al carcere duro di Bancali. Cospito è uno dei due condannati per strage contro la pubblica incolumità per due ordigni a basso potenziale esplosi presso la Scuola Allievi Carabinieri di Fossano senza causare né morti né feriti. Un reato che prevede la pena non inferiore ai 15 anni. Poi il colpo di scena. La cassazione ha riqualificato il reato a strage contro la sicurezza dello Stato. Parliamo dell’articolo 285 che prevede l’ergastolo. Si tratta del reato più grave del nostro ordinamento che non è stato nemmeno applicato per le stragi di Capaci e Via D’Amelio. Reato introdotto dal Codice Rocco che prevedeva la pena di morte (ora l’ergastolo, in questo caso ostativo). In sostanza, parliamo di un reato introdotto per evitare la guerra civile. Ergo, con quelle azioni dimostrative, Cospito avrebbe messo in pericolo l’esistenza dello Stato. Chiaro che tutto ciò appare spropositato. D’altronde lo stesso neo ministro della giustizia Carlo Nordio ha ricordato che il nostro codice penale ancora porta la firma di Mussolini e che andrebbe, in prospettiva, modificato. Così come appare spropositato il ricorso al 41 bis disposto dalla ministra della giustizia precedente. L’attuale ministro della giustizia, gli revocherà il regime duro che appare ingiustificabile a diversi operatori del diritto, intellettuali come Massimo Cacciari e Luigi Manconi, e numerosi avvocati che hanno sottoscritto l’ennesimo appello? Il prossimo primo dicembre, il Tribunale di Sorveglianza di Roma tratterà il reclamo al 41 bis proposto dai difensori di Cospito che si oppongono alle motivazioni con le quali l’allora ministra di Giustizia Marta Cartabia, d’accordo con il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, ha deciso di sottoporre il detenuto al carcere duro. Un regime concepito, a seguito dell’onda emergenziale delle stragi dei corleonesi, per impedire i legami tra il recluso e l’organizzazione criminale di appartenenza. Da quando Cospito è in 41 bis, è privato di ogni diritto ed in particolare di leggere, studiare, informarsi su ciò che corrisponde alle sue inclinazioni e interessi, non riceve alcuna corrispondenza, quelle in entrata sono tutte trattenute e quelle in uscita soffrono dell’autocensura del detenuto stesso. Di fatto, al Bancali, le ore d’aria si sono ridotte a due, trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadri, il cui perimetro è circondato da alti muri che impediscono alcuna visuale o semplicemente di estendere lo sguardo all’orizzonte, mentre la visuale del cielo è oscurata da una rete metallica. Un luogo caratterizzato in estate da temperature torride e in inverno da un microclima umido e insalubre. La mancanza di profondità visiva incide inoltre sulla funzionalità del senso della vista mentre la mancanza di sole sull’assunzione della vitamina D. La socialità è compiuta una sola ora al giorno in una saletta assieme a tre detenuti, sottoposti al regime da numerosissimi anni, che in realtà si riducono ad uno in considerazione del fatto che un detenuto è sottoposto ad isolamento diurno per due anni e un secondo ormai tende a non uscire più dalla cella. Il Bancali, inoltre, ha una peculiarità stigmatizzata a suo tempo dal Garante nazionale. Nel rapporto si può apprendere che le sezioni del 41 bis sono state realizzate in un’area ricavata, scavando, al di sotto del livello di quota dell’Istituto e degli altri manufatti che lo compongono complessivamente. Le cinque sezioni scendono gradatamente, con una diminuzione progressiva dell’accesso dell’aria e della luce naturale, che filtrano solo attraverso piccole finestre poste in alto sulla parete, corrispondenti all’esterno al livello di base del muro di cinta del complesso. Per tale motivo, sia le persone detenute nelle proprie stanze che il personale nei propri locali devono tenere continuamente la luce elettrica accesa per sopperire alla carenza di quella naturale. In sostanza, vivono sotto il livello del mare. Come si può pensare di rieducare le persone isolandole per anni dal mondo? di Alice Depetro* Quotidiano Nazionale, 25 novembre 2022 Il carcere è uno di quei temi che non solo non ci interessano, ma ci danno fastidio perché riguarda gli ultimi, e nello specifico gli ultimi che in qualche modo hanno fatto del male a noi o alla nostra società. La frase più ricorrente quando arriva la notizia di un suicidio in carcere è “uno di meno”, ad indicare che almeno è venuta a mancare una persona così negativa che la sua morte non può che risollevare di un po’ le nostre vite. Sono due gli elementi che portano a questa frase, e mi vorrei in particolare soffermare sul secondo. Il primo è la deumanizzazione del detenuto, compiuta facendo coincidere l’intera sua identità con la colpa imputatagli. In questo caso, che sia anche un essere umano con dei diritti e dei bisogni passa in secondo piano. Quando ci viene fatto un torto o commesso un reato, lasciamo che sia il senso di vendetta mascherato da quello di giustizia a gestire le nostre emozioni, che alla fine rivelano la convinzione che chi ha sbagliato deve pagare, meglio se con la sofferenza. Il senso di giustizia è quello della vendetta mediato dalla razionalità, che ci fa capire come un essere umano possa sbagliare, come debba essere responsabile di ciò che ha commesso ma in modo bilanciato al suo reato, non spropositato, e che dovrebbe farci riflettere su come sia dimostrato che mettere in punizione un bambino non serva assolutamente a nulla per farlo crescere e fargli assumere la responsabilità di ciò che ha fatto, quindi di sicuro non può funzionare con una persona adulta. Il secondo elemento riguarda l’efficacia del carcere. Prendendo in esame i dati riportati dall’Associazione Antigone, si evince che il tasso medio di sovraffollamento delle carceri italiane è del 107.4%; il 74% degli istituti non fornisce alcun accesso a Internet ai detenuti: davvero si può pensare di rieducare le persone e di reinserirle in una società dopo che queste sono state isolate per anni in condizioni orribili senza avere alcun accesso al mondo reale neanche attraverso la rete? Infatti, ben il 62% dei detenuti è a più di una esperienza in carcere, è recidivo. Questo porta a chi è fuori dalle mura carcerarie a vedere i detenuti come persone intrinsecamente irrecuperabili, quando invece è il sistema a non permettere loro di uscire dal circolo vizioso dei reati. È quindi palese che un sistema del genere, visti i numeri, abbia obiettivamente fallito, se più della metà delle persone che transitano in carcere vengono poi spinte a commettere altri atti illeciti. Al di là delle oggettive mancanze in tema di formazione e reinserimento in società dei detenuti, il dato del sovraffollamento e dei suicidi (nel 2022 si sono tolte la vita, ad oggi, 80 persone) aggrava di molto la situazione. Una persona che arriva ad uccidersi è una persona disperata e abbandonata alla sua malattia mentale, non curata. E per ogni persona che si uccide, molte di più sono quelle che non arrivano a compiere quel gesto ma stanno comunque molto male e presentano un disagio psicofisico ed esistenziale enorme. Cosa sarà mai portata a fare, una volta fuori dal carcere, una persona disperata? Come mai potrà comportarsi in una società che non le appartiene più, una persona che ha toccato il fondo e non riesce a risalire, imbruttita dalle esperienze, che non sente più appagamento nella sua vita e sente che tutto le è stato tolto? Pare decisamente palese che gli ex detenuti in queste condizioni di salute non abbiano gli strumenti per potersi reintegrare da soli. Se non arriviamo con l’empatia e la razionalità a voler trattare i detenuti in modo umano, allora pensiamo a cosa possa favorire noi e la nostra società fuori dal carcere: se le persone in stato di detenzione riescono ad avere condizioni di salute che non le facciano sentire disperate e pronte a tutto pur di sopravvivere, se riusciamo a farle sentire integrate e non marginalizzate, la nostra sicurezza è più tutelata. Loro saranno invogliati a non commettere ulteriori reati, proteggendoci, noi saremo un po’ più umani nel gestire la loro permanenza in carcere. Trattare in modo umano chi è in carcere è un guadagno per tutti. *Membro di Direzione di Radicali Cuneo “Gianfranco Donadei” e Presidente di +Europa Granda Quando il carcere diventa un’opportunità di Paola Sireci proposte-uils.it, 25 novembre 2022 Da un’idea di Flavia Filippi nasce il progetto “Seconda chance” per il reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro. “Questi sono ragazzi normali, non me lo aspettavo”. Una frase ricorrente per gli imprenditori che visitano le carceri di tutta Italia alla ricerca del lavoratore adatto per la loro azienda. Sembra un’utopia ma fa parte di quel progetto di integrazione e di pari opportunità messo in atto da Flavia Filippi, telecronista giudiziaria di La7 che, nel 2020, ha dato il via al suo progetto, divenuto associazione, Seconda Chance, finalizzato al reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro, una cerniera tra imprenditori e detenuti che applica la Legge Smuraglia, entrata in vigore nel 2000, in materia di sgravi fiscali e lavoro. In particolare, essa introduce delle norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti, assegnando sgravi contributivi e crediti di imposta alle cooperative o alle imprese che assumono o svolgono attività formativa nei confronti dei detenuti. Un segnale importante dato dall’associazione che, partendo dalla Regione Lazio, sta espandendosi in tutte le regioni d’Italia per dare, non solo, pubblicità alle aziende che decidono di aderire facendogli risparmiare risorse, ma anche un segnale di emancipazione morale all’interno di una società che marca sempre di più il divario tra le classi sociali, definendo e affermando gli emarginati. I detenuti scontano la pena per il crimine commesso - o non commesso - all’interno delle carceri e, scagionati, continuano a pagarne il prezzo attraverso la stigmatizzazione e l’esclusione che in alcuni casi li fa ricadere nel circolo vizioso della criminalità. Seconda Chance nasce con l’idea, appunto, di dare una seconda opportunità a quelle persone che, prima di essere detenute, sono esseri umani. Dietro il progetto si cela grande fiducia nella rieducazione dei detenuti, argomento poco discusso a livello sociale e in particolare nei programmi politici, specie in questo periodo di forte crisi governativa in cui non c’è spazio per la questione giudiziaria. Abbiamo intervistato l’ideatrice e la fondatrice dell’associazione Flavia Filippi per comprendere meglio lo scopo del progetto e le modalità di attuazione. Quando e da quale idea nasce Seconda Chance? Il progetto nasce quasi due anni fa, quando la garante dei diritti dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni, mi ha portato dal provveditore delle carceri del Lazio e, al seguito di quell’incontro, mi sono messa a disposizione rendendomi collante tra gli imprenditori e le carceri. Ho avviato protocolli di intesa con la Rai, Crossa, con l’Associazione Costruttori Edili, con l’Unione Artigiani Italiani - per citarne qualcuna - e con altre grandi aziende. Come è nata l’associazione? Non appena l’economia ha iniziato a riprendersi, dopo il lockdown iniziale, ho iniziato a girare per ristoranti e varie imprese, parrucchieri e altre aziende per cercare imprenditori che supportassero il progetto. Arrivata a un certo punto, in particolare, dopo la mia ospitata Radio Carceri, al seguito della quale hanno iniziato a contattarmi da tutta Italia sia imprese che famiglie di detenuti ed ex detenuti, ho pensato di costituire un’associazione del terzo settore insieme ad Alessandra Ventimiglia Pieri e Beatrice Busi Deriu, ognuna delle quali si occupa di zone specifiche del territorio. Con l’Associazione stiamo procurando lavoro a Napoli, Terni, Rimini e, in generale, a livello nazionale e sto identificando delle figure che possano rappresentare Seconda Chance nelle varie regioni. Come avviene il processo di selezione dei detenuti da parte degli imprenditori? L’imprenditore mi contatta per dirmi che sta cercando dipendenti, chiamo il direttore delle carceri, presento il progetto e, se d’accordo, porto l’imprenditore a Rebibbia, in una stanza in cui sono presenti tutti i detenuti mentre noi in un’altra stanza facciamo i colloqui. La sera stessa mando una scheda del detenuto all’imprenditore e poi scriviamo alla Direzione chi è stato scelto tra i candidati. Si mette subito in moto tutta la burocrazia e dopo due mesi, quando il magistrato di sorveglianza approva, il titolare dell’azienda farà una convenzione col carcere e il ragazzo firma un contratto di lavoro. Qual è, dunque, la giornata tipo di un lavoratore/detenuto? La mattina il lavoratore va al lavoro seguendo un percorso tracciato. Finito il turno torna in carcere, posa il cellulare dentro un armadietto e torna a dormire in un reparto specifico in quanto, secondo l’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario, i detenuti ammessi al lavoro esterno, alloggiano in reparti diversi dagli altri detenuti. Ci può spiegare in cosa consiste la Legge Smuraglia e, se possibile, anche spiegare l’excursus della sua applicabilità in Italia? La legge Smuraglia c’è da ventidue anni. Con questo tipo di assunzione, si abbattono i contributi del 95% e il credito di imposta è di euro 520,00 al mese quindi il costo del lavoro non si paga. In Lombardia so che è sfruttata la legge ma nessuno ne parla e posso dire che da quando ho avviato questo progetto - e sono entrata in contatto con moltissime aziende - non ho mai incontrato nessuno che la conoscesse e quindi sto avviando questa associazione anche per farla conoscere. Un progetto, che conta sul supporto dell’ex Governo, finalizzato a dare un sostegno concreto alle aziende, sia in termini economici, sia pubblicitari e che, dall’altra parte, aiuta i detenuti a reinserirsi nella società dopo e durante la detenzione, contribuendo alla loro rieducazione, al sostegno psicologico e al loro rendimento professionale. Il motto che chiude l’intervista con Flavia Filippi e che riassume il fine ultimo dell’associazione è “guadagnare in termini di soldi, di pubblicità e come essere umani”. Meloni ai sindaci: “Pronti a modificare l’abuso d’ufficio” di Simona Musco Il Dubbio, 25 novembre 2022 La presidente del Consiglio conquista i sindaci all’assemblea dell’Anci: “Basta paura della firma, ora regole certe”. Gli amministratori locali rappresentano un “avamposto di umanità” che spesso si scontra con una burocrazia farraginosa e contorta. Ed è proprio per questo motivo che tra le prime mosse del governo ci sarà una revisione della norma sull’abuso d’ufficio, per sgravare i sindaci dalla “paura della firma che inchioda una nazione che invece ha un disperato bisogno di correre”. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni non ha tradito le aspettative dei sindaci presenti ieri a Bergamo per la 39esima assemblea di Anci. Assemblea alla quale il presidente Antonio Decaro, sindaco di Bari, poche settimane fa aveva invitato il ministro della Giustizia Carlo Nordio, dopo la sua apertura ad una modifica del reato più temuto dagli amministratori locali. E il governo, a partire dalla sua leader, non ha fatto alcun passo indietro, convinto della necessità di “dare una nuova centralità ai Comuni”. Meloni ha rilanciato il presidenzialismo e l’autonomia differenziata, temi che di certo dividono la politica, ma ha messo tutti d’accordo - a prescindere dalle appartenenze - nel lungo spezzone di discorso dedicato alle responsabilità in capo a chi amministra direttamente tra la gente. “È assolutamente necessario definire meglio, a partire dall’abuso di ufficio, le norme che riguardano i pubblici amministratori, il cui perimetro è oggi così elastico da prestarsi a interpretazioni che sono troppo discrezionali”, ha detto in video-collegamento. Troppe norme, troppi vincoli e così di fronte alle scelte spesso si sceglie di rimanere immobili. La cosiddetta paura della firma, appunto. E il risultato è sconfortante: tanti i sindaci che finiscono sulla graticola, spesso vedendo andare in frantumi la propria carriera politica, salvo poi essere assolti. Le statistiche sono infatti drammatiche: “Il 93 per cento delle contestazioni di abuso d’ufficio si risolve con assoluzioni o archiviazioni - ha sottolineato Meloni -. Però dal momento dell’avviso di garanzia al momento dell’assoluzione passano anni. Reputazione e famiglia vengono distrutte, perché per una persona per bene il processo è già una pena. Ed io penso che noi non possiamo lasciare i nostri amministratori in balia di norme così elastiche da prestarsi ad interpretazioni così arbitrarie”. Anche perché di mezzo, ora, ci sono anche i fondi del Pnrr, che in un Paese burocratizzato e pieno di regole come l’Italia rischiano di andare persi, a causa di paralisi spesso generate proprio dalla paura. E per tale motivo “bisogna mettere sindaci e amministratori nelle condizioni di firmare serenamente, di sapere oggi per domani se la firma costituisca o meno reato, di avere certezze sul perimetro del lecito e dell’illecito”. Non si tratta di regalare patenti di impunità, ma dare una mano agli “onesti che vogliono fare il proprio dovere bene e dare risposte ai cittadini”. Il governo, dunque, interverrà sul campionario di reati che riguardano la pubblica amministrazione, a partire da questa norma, “perché noi vogliamo garantire regole certe”. Ma anche “pene certe”, refrain che non può mai mancare nei discorsi della leader di Fratelli d’Italia. “A questi primi interventi ne seguiranno altri, però sottolineano l’importanza che i comuni hanno per questo governo. È necessario dare maggiore stabilità ai sindaci in tema di finanza locale”. Meloni non fa mai riferimento alla legge Severino, tema caro al ministro Nordio, secondo cui “non serve assolutamente a nulla e confligge con la presunzione di innocenza che è prevista dalla Costituzione”. Punto sul quale la premier ha invece un’opinione opposta, tant’è che durante la raccolta firme per i referendum ha “eliminato” dai suoi gazebo il quesito sul punto. Cancellare questa norma, aveva evidenziato, sarebbe infatti “un passo indietro nella lotta alla corruzione e rischierebbe di dare il potere ad alcuni magistrati di scegliere quali politici condannati far ricandidare e quali interdire dai pubblici uffici”. Ma ieri a rilanciare la questione è stato il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, secondo cui “la legge Severino ingiustamente penalizza pubblici amministratori condannati con sentenza di primo grado e che devono subire conseguenze prima che la sentenza diventi definitiva”. Dopo le parole di Meloni è arrivato subito l’invito del Pd a mettere a frutto il lavoro già svolto dal Parlamento. Un lavoro che, aveva ricordato nei giorni scorsi la vicepresidente del Senato Anna Rossomando, era andato perso “perché la destra ha preferito fare propaganda sui referendum invece che trovare soluzioni per i sindaci”. E anche in questa legislatura, ha commentato ieri Piero De Luca, della presidenza del gruppo Pd alla Camera, “abbiamo presentato una proposta di riforma complessiva. Si parta da qui. Se così sarà, troverà il Partito democratico disponibile a rendere più ragionevole e preciso il quadro normativo esistente che grava sui sindaci nel nostro Paese”. Tutti d’accordo, dunque. Soprattutto i sindaci. “Il presidente Meloni ci ha chiamati coraggiosi per poter fare questo mestiere - ha concluso Decaro -. Ecco noi vorremmo essere ricordati per il coraggio e gli impegni che prendiamo con i nostri concittadini che affrontano la criminalità a testa alta. Non vorremmo essere considerati coraggiosi perché abbiamo il coraggio di firmare delle carte che poi magari ci portano direttamente a un’imputazione per abuso di ufficio. Come ci ha ricordato il presidente nel 93% dei casi quelle imputazioni poi finiscono in un nulla di fatto. Questo dimostra che quella norma ha bisogno di una modifica per rendere più chiare le responsabilità dei sindaci”. L’emergenza nazionale è il salvaladri per i potenti di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2022 Limitazione dell’abuso d’ufficio, modifica della legge Severino per i sindaci condannati in primo grado, una nuova stretta sul “processo mediatico”. Ma soprattutto il possibile colpo di spugna sugli autori dei reati contro la Pubblica amministrazione che potrebbero tornare a beneficiare delle misure alternative al carcere azzoppando la legge “Spazzacorrotti” voluta dall’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e approvata nel gennaio 2019 dal governo Conte-1 (Lega-Movimento 5 Stelle). Sono questi i primi progetti del governo di Giorgia Meloni e del suo ministro della Giustizia Carlo Nordio sul processo penale: provvedimenti che in teoria sarebbero ispirati dal “garantismo” della maggioranza di centrodestra ma che, nei fatti, hanno l’obiettivo di tutelare i “colletti bianchi”, a partire da politici e funzionari dello Stato. Spazzacorrotti Forza italia prova il blitz in commissione - A spingere su questo fronte è soprattutto Forza Italia, partito della maggioranza particolarmente sensibile al tema della giustizia. Gli azzurri stanno provando a modificare il primo decreto del governo Meloni che introduceva un nuovo reato con pene fino a 6 anni contro i rave party, rimandava di due mesi l’entrata in vigore della riforma Cartabia e “salvava” l’ergastolo ostativo dalla decisione della Corte Costituzionale che sarebbe dovuta arrivare l’8 novembre scorso. Un decreto che non è piaciuto a Forza Italia che, in commissione Giustizia al Senato, proverà a modificarlo presentando diversi emendamenti. Non sul rinvio della riforma Cartabia dovuto a ragioni tecniche. Sulla norma anti-rave invece il senatore azzurro Pierantonio Zanettin presenterà lunedì una serie di emendamenti per abbassare la pena da 6 a 4 o 5 anni e rendere così impossibili le intercettazioni preventive ma anche per “tipizzare” il reato circoscrivendolo ai soli casi di raduni “musicali”. Inoltre, Forza Italia chiederà anche che il codice antimafia - con annesse misure di prevenzione personale - non si applichi a chi partecipa ai rave party. Il governo potrebbe accogliere queste proposte per evitare che la norma si estenda a tutte le altre forme di manifestazione, come i picchetti in fabbrica o le proteste studentesche. Ma Forza Italia proverà a modificare anche la norma sull’ergastolo ostativo, che ricalca quella approvata dalla maggioranza del governo Draghi. A quanto risulta al Fatto, Zanettin presenterà un emendamento per eliminare i reati contro la Pubblica amministrazione - dal peculato alla corruzione fino all’abuso d’ufficio - dalla lista di quelli per cui non si potrà accedere ai benefici penitenziari e alle pene alternative al carcere. Nel 2019, infatti, era stata la Spazzacorrotti a equiparare questi reati a quelli di mafia, terrorismo ed eversione sulle pene alternative: l’obiettivo era isolare i condannati per corruzione. Forza Italia l’ha sempre considerata “un’abnormità” e così proverà il blitz in commissione Giustizia a Palazzo Madama. L’emendamento è già stato in parte annunciato dallo stesso Zanettin durante la discussione generale sul decreto avvenuta in commissione. Il senatore ha spiegato che il testo sull’ergastolo ostativo è frutto di “una mediazione molto delicata” tra i partiti che sostenevano il governo Draghi e che la posizione dei berlusconiani “è più garantista rispetto al testo contenuto nel decreto-legge”. Sui reati contro la pubblica amministrazione, Zanettin ha aggiunto che equipararli a quelli per mafia e terrorismo “ha comportato la perdita del concetto del doppio binario in relazione alla possibilità di concedere o meno benefici penitenziari”. Per questo, presenterà un emendamento per modificare la norma. Una posizione che ha creato qualche imbarazzo nella maggioranza: il senatore di FdI, Sergio Rastrelli, ha spiegato che ogni “inasprimento della legislazione antimafia” troverà il partito di Meloni favorevole ma allo stesso tempo, rispetto all’equiparazione con i reati dei colletti bianchi, ha aggiunto che “sarà fatto un ulteriore sforzo di sintesi delle diverse sensibilità politiche”. Insomma, il ministero della Giustizia dovrà decidere se accogliere o meno l’emendamento di Zanettin rischiando di spaccare la maggioranza di centrodestra. Abuso d’ufficio la premier: “Va modificato per i sindaci” - Non c’è solo questa tra le norme allo studio del governo. Ieri la presidente del Consiglio Meloni, intervenendo all’assemblea Anci a Bergamo, ha spiegato che l’esecutivo sta studiando un modo per modificare il reato di abuso d’ufficio: un reato che, secondo Meloni, è troppo “elastico”, porta alla “paura della firma” perché “un amministratore oggi non sa se il suo comportamento verrà domani giudicato come criminoso” aggiungendo che il 93% delle indagini per abuso d’ufficio finiscono con assoluzioni o archiviazioni. Proposta condivisa da Nordio che ne aveva già parlato col sottosegretario di FdI, Andrea Delmastro Delle Vedove: “Convoco i sindaci e abolisco l’abuso d’ufficio”. Il ministro ne ha parlato anche con Meloni, tant’è che gli uffici legislativi del ministero della Giustizia stanno preparando un testo per limitare ancora di più l’abuso d’ufficio. Anche il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi è d’accordo: “C’è un’aspettativa dei sindaci - ha detto a Bergamo - va garantita una maggiore agibilità ai sindaci”. Severino e “bavaglio” Sisto: stop processi sui media - All’assemblea Anci è intervenuto anche il viceministro Francesco Paolo Sisto che ha spiegato che il governo agirà anche per limitare il “processo mediatico”: “Il Paese vive nel timore di essere indagato”. Inoltre ha aggiunto che l’esecutivo presto interverrà per modificare la legge Severino che penalizza “ingiustamente” gli amministratori condannati con sentenza di primo grado. Sisto: “Il Paese vive nel timore di essere indagato, il governo combatterà il processo mediatico” Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2022 L’attacco alla legge anticorruzione Severino e un nuovo bavaglio contro la libertà d’informazione: il viceministro della Giustizia ha scelto il palco dell’Anci per illustrare provvedimenti ben accetti da parte degli amministratori locali. A cominciare dalla legge Severino, prima vera legge anticorruzione italiana, approvata 10 anni fa. L’attacco alla legge anticorruzione Severino e un probabile nuovo bavaglio per combattere quello che definisce il “processo mediatico”. Una promessa in piena regola anche perché per il viceministro della Giustizia il “Paese vive nel timore di essere indagato”. Toni che ricordano il periodo dei governi di Silvio Berlusconi e infatti appartengono a Francesco Paolo Sisto, senatore di Forza Italia. Intervenuto all’assemblea dei comuni italiani a Bergamo il viceministro ha spiegato che strada intende battere il governo di Giorgia Meloni sulla Giustizia. A cominciare da alcuni provvedimenti graditi agli amministratori locali. Come l’abuso d’ufficio definito “un passaggio ineliminabile perché si possa provare ad allentare questa morsa. Dobbiamo liberare i pubblici amministratori dalla burocrazia difensiva e dalla paura della firma e lo dice anche la Corte Costituzionale”. Cosa intende fare il governo su questo fronte? “Non so se sarà possibile un intervento di tipo abolitivo o modificativo ma si potrebbe pensare, lo dico come ipotesi, a intervenire sull’abuso d’ufficio di vantaggio, quello è un momento in cui il legislatore deve intervenire decisamente Si potrebbe pensare come ipotesi a un intervento per lasciare l’abuso di danno, queste sono ipotesi allo studio del ministero”. Il dibattito sulla Severino - Ma nel menù di Sisto c’è anche altro. A cominciare dalla legge Severino, prima vera legge anticorruzione italiana, approvata esattamente dieci anni fa. “La Legge Severino ingiustamente penalizza pubblici amministratori condannati con sentenza di primo grado e che devono subire conseguenze prima che la sentenza diventi definitiva e questo vale anche per l’abuso d’ufficio, un reato scivoloso non per come è scritto, ma per come è giudicato”, ha detto il viceministro della Giustizia all’evento dell’Anci. Il riferimento è per quella parte della Severino che impone la sospensione dalla carica per sindaci e governatori condannati in primo grado. Una modifica nella norma era prevista dai sei referendum sulla giustizia promossi dalla Lega di Matteo Salvini e dai Radicali, che proponevano di abrogare il divieto di ricandidatura per i politici condannati in via definitiva. Quel quesito, però, non fu appoggiato da Giorgia Meloni, che decise di sostenerne soltanto quattro su sei. I referendum di Salvini e i Radicali, in ogni caso, vennero bocciati dal voto. All’epoca Meloni disse che abrogare la legge che sancisce l’incandidabilità per i condannati definitivi sarebbe stato “un passo indietro nella lotta alla corruzione e rischierebbe di dare il potere ad alcuni magistrati di scegliere quali politici condannati far ricandidare e quali interdire dai pubblici uffici”. Meloni e la paura della firma - Oggi Meloni ha usato toni diversi. Parlando dallo stesso palco di Sisto ha spiegato che è “arrivato il momento di affrontare il tema della responsabilità dei sindaci: bisogna definire meglio a partire dall’abuso d’ufficio le norme penali per i pubblici amministratori che oggi hanno un perimetro così elastico che” lasciano spazio a “interpretazioni troppo discrezionali”. La premier ha rispolverato il concetto di “paura della firma” che “inchioda la nazione”. E a proposito della Severino, Meloni ha aggiunto: “Dobbiamo mettere i sindaci e gli amministratori in condizione di firmare serenamente, di sapere se la firma costituisce o meno un reato: non si reclamano impunità ma regole certe sul perimetro della legalità: non si tratta di salvaguardare i furbi ma di tutelare gli onesti che vogliono fare bene il proprio dovere. Il governo si metterà al lavoro per modificare alcuni reati contro la Pubblica amministrazione, a partire dall’abuso di ufficio”. “Il Paese teme di essere indagato” - Ma all’evento dell’Anci si è parlato anche d’altro. Il viceministro Sisto, infatti, ha annunciato che intervenire sul “processo mediatico sarà uno degli scopi di questa fare del governo per evitare che ci sia un processo parallelo a quello nelle aule giudiziarie da parte dei mass media da cui non c’è difesa”. Secondo Sisto “il Paese vive nel timore di essere indagato in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione, la presunzione di non colpevolezza fa sì che in questo Paese possa essere considerato colpevole soltanto chi è stato condannato con sentenza definitiva, ma così non è: per i pubblici amministratori una informazione di garanzia costituisce un elemento di condanna e questo è un dato che va registrato con molta chiarezza e molta franchezza da cui dobbiamo prendere le mosse, il processo è già pena. Questa presunzione di colpevolezza è una inversione senza difesa perché non c’é possibilità di difendersi da un marchio unilaterale di un pubblico ministero”. Oltre il bavaglio Cartabia - Resta da capire come si tradurranno in termini di legge le parole del viceministro della Giustizia. Un bavaglio per limitare il cosiddetto “processo mediatico” è stato già approvato dal governo di Mario Draghi e dalla guardasigilli Marta Cartabia, recependo alla direttiva europea sulla presunzione d’innocenza. Una norma che dà una stretta alla comunicazione di investigatori e pm e che vedeva in Sisto - sottosegretario in via Arenula durante il precedente esecutivo - uno dei primi sostenitori. Evidentemente, però, il berlusconiano pensa di poter fare ancora meglio, o peggio, dipende dai punti di vista. E se quello di Sisto è stato solo un antipasto per le portate principali bisognerà aspettare il primo dicembre, quando il guardasigilli Carlo Nordio presenterà in Parlamento le sue linee programmatiche del governo sulla giustizia. Riforme, peso del Foro, carceri: prime intese fra Nordio e il Cnf di Errico Novi Il Dubbio, 25 novembre 2022 Aperture del ministro sulla salvaguardia del diritto di difesa nel “nuovo” processo. E sulla tenuta dei tribunali, anche l’Anm lancia un alert al titolare della Giustizia. Primo incontro. Ricco di contenuti. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio riceve a via Arenula una delegazione del Consiglio nazionale forense, composta dalla presidente Maria Masi, dalla vicepresidente Patrizia Corona, dalla segretaria Rosa Capria e dal tesoriere Giuseppe Iacona. E si fa il punto su diversi argomenti, con alcune significative aperture del guardasigilli alle sollecitazioni degli avvocati. Due in particolare: la verifica sugli snodi delle riforme appena introdotte in ambito processuale, per valutare se vi siano aspetti che comprimono il diritto di difesa, e la disponibilità a un confronto su una presenza più “diffusa” della professione forense nella gestione della macchina giudiziaria, sia a via Arenula che nei tribunali. Si tratta di prime risposte di un certo rilievo, che non esauriscono certo l’intero spettro delle richieste rappresentate al guardasigilli dall’avvocatura istituzionale, ma che creano i presupposti per un confronto che dovrebbe continuare a essere “cordiale e costruttivo”, per citare l’espressione usata dal Cnf nel proprio comunicato. La verifica sul diritto di difesa nel nuovo processo - Una nota in cui si riassumono i diversi temi toccati nell’incontro di ieri mattina, e in particolare il fatto che la presidente del Cnf Masi ha “rappresentato al ministro della Giustizia” la necessità di “intervenire sulle riforme approvate e in itinere per correggere alcune evidenti criticità e per garantire l’effettività dell’esercizio di difesa”. Preoccupazione che il vertice della massima istituzione forense ha riferito innanzitutto alla riforma del processo civile, e in particolare alla fase introduttiva del giudizio. L’apertura di Nordio sulla necessità che le novità appena approvate non comprimano i diritti di difesa, d’altra parte, non può che iscriversi nella più generale previsione di una verifica tecnica a cui le leggi delega di Cartabia prevedono di sottoporre i nuovi riti civile e penale. Il coprotagonista del foro nella macchina giudiziaria - Sempre nella nota del Cnf si segnala che “nel corso dell’incontro sono stati affrontati gli aspetti legati al rafforzamento del ruolo e delle funzioni degli avvocati nei Consigli giudiziari e a un loro maggiore coinvolgimento anche nell’organizzazione dei tribunali e negli uffici ministeriali, nell’ottica di un senso di comunità della giurisdizione e di un migliore equilibrio nel rapporto tra avvocatura e magistratura nell’amministrazione della giustizia”. Si tratta di un argomento particolarmente caro al Cnf e all’avvocatura nel suo complesso. Riguardo al diritto di voto sulle carriere dei magistrati, che la riforma del Csm riconosce ai rappresentanti del Foro nei Consigli giudiziari, sarà decisivo il contenuto del decreto attuativo, che sarà l’attuale governo a emanare. È invece più affidata a scelte del ministro e dei capi dei singoli uffici giudiziari la maggiore presenza dell’avvocatura negli uffici di via Arenula e nelle “cabine di regia” che cominciano a fiorire nei tribunali italiani, soprattutto per monitorare il nuovo “Ufficio per il processo”. Anche su questo punto le aperture di Nordio sono incoraggianti. D’altronde, sollecitazioni analoghe a quelle espresse ieri direttamente al guardasigilli, la presidente Masi aveva rivolto una settimana fa anche a Francesco Paolo Sisto, quando il viceministro è intervenuto al plenum del Cnf, e al sottosegretario Andrea Ostellari, esponente della Lega: entrambi avevano riconosciuto la necessità di una maggiore presenza degli avvocati “soprattutto negli uffici in cui si preparano materialmente i testi normativi”, per citare le parole di Ostellari. Appello Cnf sul carcere, vera spina per il governo - Infine, si legge nel comunicato del Cnf, “la rappresentanza dell’avvocatura istituzionale ha manifestato al ministro l’impegno e la sensibilità degli avvocati sul tema della progettazione di un nuovo modello di esecuzione penale, rispettoso della Costituzione e dei diritti umani delle persone detenute”. Nordio ha ascoltato e ha riconosciuto che si tratta di uno dei problemi più delicati da affrontare per il governo. Rispetto alle scelte che Nordio potrà compiere sul versante carceri, è presto per fare previsioni, considerato anche che, come riferito ieri dal Dubbio, due partiti di maggioranza, Fratelli d’Italia e Lega, si riservano di valutare modifiche alla riforma Cartabia proprio sul fronte dell’esecuzione penale. Un restyling che potrebbe essere proposto dopo che le aule di Camera e Senato avranno superato la congestione tipica della sessione di Bilancio. E certo, l’orientamento dei due partiti di maggioranza, e di FdI in particolare, non tende a un ampliamento della filosofia “extracarceraria” parzialmente accolta nella riforma Cartabia: casomai si ipotizzano correttivi in chiave meno “deflattiva”. La convergenza dell’Anm sull’alert per il civile - Se sul carcere dunque non sembra esserci un margine d’azione incoraggiante per la svolta auspicata da gran parte della comunità dei giuristi, diverso discorso è da farsi sui rischi che la riforma del processo, e del civile soprattutto, finisca per ingessare anziché fluidificare la “macchina”: ieri infatti, oltre al Cnf, il guardasigilli ha incontrato, separatamente, anche una rappresentanza dell’Associazione nazionale magistrati. Ed è significativo che nella nota diffusa, dopo il colloquio, dal “sindacato” dei giudici, si sia dato un certo peso ad “alcune criticità della nuova disciplina sull’udienza cartolare, prevista per il rito civile”. Una parziale convergenza con le perplessità del Cnf che potrebbe favorire forse l’anticipazione di qualche correttivo alla riforma Cartabia. Riguardo al resto, l’Anm di Giuseppe Santalucia ha dato priorità agli “interventi ritenuti più urgenti per assicurare piena funzionalità al servizio giustizia, anche nell’ottica del perseguimento dei target del Pnrr”. Il riferimento è all’impatto problematico che anche l’altra riforma, quella penale, rischia di avere sugli uffici giudiziari, scenario che ha spinto il governo a congelare l’entrata in vigore del testo Cartabia fino al prossimo 30 dicembre. E, riferisce la stessa Associazione magistrati, “il guardasigilli, consapevole delle esigenze degli uffici giudiziari sottese alle istanze dell’Anm, ha fatto presente che è allo studio in tempi rapidi un intervento su alcuni nodi organizzativi e per colmare le lacune della disciplina transitoria del decreto legislativo 150/2022”, il decreto attuativo della riforma penale, appunto. Si tratta dell’emendamento che via Arenula presenterà nelle prossime ore, in Senato, al decreto legge 162, con cui si è appunto rinviata l’entrata in vigore della riforma Cartabia. L’Anm, si legge ancora nella nota dei magistrati, “ha espresso, inoltre, le sue preoccupazioni per le gravi scoperture degli organici del personale amministrativo, segnalando gli uffici in maggior difficoltà e prospettando l’esigenza di un intervento strutturale di revisione delle piante organiche, ivi comprese quelle del personale di magistratura, mediante il quale soltanto si potrà ottimizzare l’impiego delle risorse umane disponibili”. Anche da parte del sindacato dei giudici si parla di incontro che si è svolto “in un clima cordiale e costruttivo”. Si aggiunge che il ministro “si è dichiarato disponibile ad approfondire, in prossime occasioni di confronto, alcuni dei temi affrontati”. Di certo, come su alcune delle questioni proposte dal Cnf, anche sul nodo degli organici Nordio ha davanti un quadro molto difficile, che non potrà certo essere ricomposto con un colpo di bacchetta magica. La Consulta senza mandato popolare ha cercato la legittimazione mediatica di Andrea Morrone Il Domani, 25 novembre 2022 La Corte costituzionale è davanti a due decisioni su questioni politiche rilevantissime: l’ergastolo ostativo e il conflitto di attribuzioni che vede contrapposti il senatore Matteo Renzi e la procura di Firenze. Si tratta di un giudizio delicatissimo, che mette i giudici dentro un’irrisolta contesa tra potere politico e magistratura, apertasi dopo Tangentopoli. La Consulta sente il peso di svolgere una funzione di garanzia al limite e la mancanza di una legittimazione diretta, analoga a quella dei rappresentanti del popolo, l’ha spinta a cercare una legittimazione mediatica. Si chiamano political questions. Riguardano il confine, delicato e sottile, tra politica e giurisdizione. La Corte costituzionale sta per varcare quella soglia, nelle decisioni imminenti su due questioni politiche rilevantissime. La prima è sull’ergastolo ostativo, che la Corte aveva dichiarato illegittimo senza stabilire gli effetti immediati del suo dire. Rispetto ai precedenti - in cui sulle questioni politiche la Consulta evitava di pronunciarsi, anche di fronte a violazioni della Costituzione, se riconosceva al legislatore il diritto alla prima parola - ora la Corte ha cambiato strategia. Dichiara l’illegittimità della legge e, con la stessa decisione, assegna al parlamento un tempo determinato per modificarla, avvertendo che, in caso di inerzia, la legge sarà definitivamente abolita. Il governo ha approvato un decreto-legge di modifica della pena perpetua, rendendo non più assoluto il divieto di accedere alla libertà che, per i condannati di mafia, era subordinata all’unica condizione della collaborazione con la giustizia. Di conseguenza, la Consulta ha restituito gli atti alla Cassazione, per valutare se anche la nuova disciplina è contraria al principio costituzionale di risocializzazione del reo. È molto probabile che la questione ritorni all’attenzione della Consulta. Il punto critico è che il giudizio non è neutro. Tocca nel vivo le scelte di politica criminale riservate dalla Costituzione al potere legislativo, e la decisione dovrà compiere difficili bilanciamenti di valori. La seconda questione è l’ammissibilità di un conflitto di attribuzioni che vede contrapposti la Procura di Firenze e il senatore Matteo Renzi nell’inchiesta che riguarda la Fondazione Open e il presunto finanziamento illecito a Italia Viva. Si tratta di un giudizio delicatissimo, che mette i giudici dentro un’irrisolta contesa tra potere politico e magistratura, apertasi dopo Tangentopoli e la modifica dell’articolo 68 della Costituzione. È in gioco la prerogativa della insindacabilità parlamentare, e i limiti che la Costituzione stabilisce ai magistrati di intercettare i parlamentari per fatti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni. La Consulta ha elaborato una giurisprudenza molto creativa, che la costringe a disvelare caso per caso le situazioni in cui l’attività politica dei parlamentari, libera in linea di principio, si trasforma in illeciti perseguibili dai giudici. Nel caso Renzi, la questione riguarda il contenuto di alcuni messaggi whatsapp e la riconducibilità alle comunicazioni parlamentari coperte dall’immunità costituzionale. La Corte dovrà stabilire se i pubblici ministeri possono acquisirli nel processo o se, invece, ciò gli è vietato dalla Costituzione. La Consulta sente il peso di svolgere una funzione di garanzia al limite, che la stessa Costituzione colloca sul precario crinale che dovrebbe separare la politica e la giurisdizione. Giudicare sulla legittimità delle leggi, dirimere i conflitti tra poteri, sciogliere i conflitti tra lo stato e le regioni espone la Corte alla critica di una politicizzazione della giurisdizione. Un tema antico, ben noto negli Usa, in cui la Corte Suprema pur individuando le political questions come zone franche dal suo giudizio, non ha mai rinunciato in nome della Costituzione a interferire negli spazi della politica e del governo. Il fatto è che non sempre la custodia della Costituzione basta a coprire gli sconfinamenti dei giudici. La mancanza di una legittimazione diretta, analoga a quella dei rappresentanti del popolo, ha spinto la nostra Corte costituzionale a cercare una legittimazione mediatica. Si spiegano così i sempre più frequenti comunicati stampa che anticipano le proprie decisioni, le conferenze interne rese pubbliche, i viaggi nelle carceri e nelle scuole in funzione pedagogica, il ricorso massiccio ai media usati della generazione Z per farsi conoscere nella comunità dei social. Tutto ciò fa perdere ai giudici quell’aurea di sacralità che li caratterizzava. Immette la Corte costituzionale nella vita della società. Le conferisce una sovraesposizione politica che rischia di minacciarne la terzietà e l’indipendenza. Sono temi cruciali sui quali la rivista Quaderni costituzionali ha aperto una discussione tra giuristi e giudici costituzionali. “In piena rivoluzione digitale, anche per la Consulta è un dovere essere aperta e trasparente con i cittadini” di Liana Milella La Repubblica, 25 novembre 2022 La costituzionalista Tania Groppi: “In tempi di regressione democratica e nuovi autoritarismi anche le Corti sperimentano difficoltà e tensioni nei rapporti con le maggioranze politiche”. È un dovere, anche per la Consulta, comunicare le sue decisioni? “Certo che lo è, perché si tratta di un dovere costituzionale”. Non ha dubbi Tania Groppi, ordinaria di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Siena, dove insegna anche Diritto comparato, che venerdì sarà a Bologna per partecipare al seminario “Corte costituzionale e opinione pubblica”, promosso dalla rivista Quaderni costituzionali e dal Mulino, e che con Repubblica affronta i temi più caldi del dibattito su Consulta e informazione in questo scorcio d’anno.   È in subbuglio la nostra Corte costituzionale. Dopo cinque anni di “dialogo” con il mondo esterno - grazie alla guida di una giornalista come Donatella Stasio - ecco prevalere la linea fedele all’assunto “la Corte parla solo con le sentenze”. Che impressione le fa, visto che lei ha studiato proprio i meccanismi di apertura delle Corti nel mondo? “Senza dubbio, nei cinque anni trascorsi, la Corte costituzionale ha fatto il suo ingresso nella nuova epoca della comunicazione, quella della rivoluzione digitale, andando ad affiancare le più importanti e autorevoli giurisdizioni costituzionali del mondo, come la Corte suprema del Canada e il Tribunale costituzionale tedesco. Anzi, ha utilizzato strumenti innovativi, penso ad esempio ai podcast, che l’hanno portata all’avanguardia in uno scenario in rapida evoluzione ovunque”. Le sentenze forti della Corte, il suo peso determinante, ovviamente infastidiscono una politica che vorrebbe mani libere nello scrivere le leggi, senza alcun obbligo di rispetto della Carta. Soprattutto se parliamo di chi vuole cambiarla. Da qui, al “fastidio” per una Corte che non solo scrive, ma anche “parla”, il passo è breve. Lei crede che il “silenzio” della Corte possa danneggiare anche la tutela della Costituzione? “Le giurisdizioni costituzionali sperimentano sempre difficoltà e tensioni nei rapporti con le maggioranze politiche, che ovviamente preferirebbero agire indisturbate. In questi anni di regressione democratica e nuovi autoritarismi la situazione è ancora più complessa. Credo che le corti stiano perfezionando e sviluppando le loro strategie comunicative proprio per rafforzare la democrazia costituzionale in tale contesto, con lo scopo di dare il loro contributo alla diffusione della cultura costituzionale tra i cittadini”. Veniamo al “borbottii”, ai distinguo, alle lagnanze per una Corte che, appunto, parla. Sostiene chi vuole il silenzio: la Corte non può affidare le sue decisioni a dei comunicati stampa perché non hanno valore, e comunque possono alterare il significato stesso della sentenza. È così? “Nell’epoca della rivoluzione digitale, è un dovere per le corti rendere accessibili le proprie decisioni, comunicandole con tutti gli strumenti oggi disponibili, rivolgendosi non solo alla stampa, ma anche direttamente ai cittadini. Deve essere chiaro, come lo è dovunque, che una cosa sono i comunicati stampa e le altre attività di comunicazione, un’altra cosa le sentenze. A ciascuno il suo. Ma non mi sembra sia mai stato un problema in Italia, finora”. Mi scusi, ma una Corte costituzionale, oggi, può davvero avere “paura” di un comunicato stampa che comunque rinvia alla sentenza scritta? Non dovrebbe invece preoccuparsi dei destinatari di quella decisione, che non stanno solo nel palazzo della politica, ma per le strade del nostro Paese? “Mah, non credo che la nostra Corte, al pari delle altre giurisdizioni costituzionali, abbia paura dei comunicati. Certamente occorre che queste nuove attività comunicative siano disciplinate da norme interne, come stanno iniziando a fare alcune corti, a partire da quelle che citavo all’inizio, in Germania e Canada. Sono attività nate in via di prassi, che necessitano di procedimenti più precisi che individuino bene le competenze dei vari soggetti coinvolti”. Ovviamente esistono, nelle questioni affrontate dalla Corte, grandi e piccole decisioni. E alla stampa, com’è ovvio, interessano le prime. Eppure c’è chi sostiene adesso, nella nostra Corte, che tutte le questioni debbono avere lo stesso peso, quindi non si può solo segnalarne alcune alla stampa perché così si fa torto alle altre. Non è un modo, secondo lei, per fare di tutt’erba un fascio e non mettere in evidenza nulla? “Spetta alle corti decidere quali decisioni comunicare e con quali strumenti. Pensiamo a corti come quella tedesca o colombiana, che decidono migliaia di casi ogni anno: fanno comunicati stampa, da diffondere tramite i social, soltanto per alcune decisioni, ritenute più importanti. Si tratta di strategie comunicative che fanno parte delle attività non giurisdizionali delle corti. A chi spetta decidere, all’interno del collegio, dipende dalla organizzazione di ciascuna corte: ci sono corti che rimettono queste scelte al presidente, altre invece coinvolgono il collegio, altre ancora lasciano campo libero ai portavoce e agli uffici comunicazione. Dipende”. Vede, è un po’ come la questione degli esperti. Anche in questo caso scattano i distinguo, perché chiamarne alcuni e non altri? Ma così non si va verso la paralisi? Perché i troppi paletti a una scelta diventano di fatto il diniego della scelta stessa... “A me sembra che ci sia una difficoltà, anche in una parte della dottrina, che non è abituata a leggere la giustizia costituzionale in una prospettiva globale, a inquadrare una serie di attività, come l’apertura agli amici curiae, o l’audizione di esperti, o la comunicazione, andando oltre la dicotomia giurisdizione-politica. Le corti costituzionali sono istituzioni di tipo nuovo, che necessitano di uno sguardo nuovo: per la loro, legittimazione, apertura, trasparenza, dialogo, sono le parole chiave”. La Consulta ha aperto le sue porte, è andata nelle scuole e nelle carceri. I giudici hanno guardato negli occhi i giovani e i detenuti. Si sono sovraesposti? O finalmente hanno affrontato la società italiana con i suoi drammatici problemi? “Guardando a quello che fanno le giurisdizioni costituzionali, nel mondo, mi pare di poter dire che anche la Corte costituzionale italiana è entrata pienamente nell’ambito della promozione della cultura costituzionale, quella che viene chiamata ‘constitutional literacy’“. Lei trova eccessiva una Corte che parla attraverso i suoi podcast? “Senza dubbio no. Le corti debbono utilizzare gli strumenti che via via si rendano disponibili. Quel che rileva davvero sono le finalità della comunicazione e i suoi contenuti: la promozione della cultura costituzionale, da parte del soggetto deputato alla garanzia della Costituzione (garanzia che include protezione e promozione) può avvenire con tanti mezzi. Alcune corti si servono anche di fumetti e cartoni animati”. Politicamente, le sembra un caso che questo arretramento nella comunicazione della Corte costituzionale coincida con l’arrivo al governo di Giorgia Meloni e con la vittoria delle destre in Italia? “Non saprei, direi che dopo gli importanti e innovativi sviluppi della comunicazione della Corte avvenuti negli ultimi anni al di fuori di un quadro normativo, forse adesso c’è bisogno, come è accaduto in altre corti, di provare a disciplinare questa materia, anche per dare stabilità alle best practices realizzate. Con la consapevolezza che il futuro non può che essere della comunicazione e della promozione della cultura costituzionale”. Violenza contro le donne: le leggi ci sono, i fondi ancora no. “Più formazione per giudici e agenti” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 25 novembre 2022 Dall’inizio del 2022 le vittime sono 88, circa 2mila gli orfani dei femminicidi. La senatrice Valeria Valente: “I braccialetti ci sono, ma il meccanismo richiede la capacità del giudice di leggere la pericolosità del soggetto e di credere alle denunce delle donne”. Le ombre e le luci. I successi, ma anche, purtroppo, i numeri del lutto. Le donne continuano a morire, uccise dai loro mariti, compagni, ex, fidanzati, a volte padri o fratelli, addirittura figli. Il femminicidio è questo: morire per mano di chi in teoria dovrebbe volerti bene, in famiglia, in un matrimonio, in una relazione. La statistica sì, cala lievemente, però il sangue delle donne uccise, 88 nei primi undici mesi del 2022, ci ricorda che siamo di fronte a una strage incessante che causa una catena di lutti che si protraggono per generazioni, pensate ai duemila orfani di femminicidio. Cosa funziona dunque e cosa non funziona tra le tante leggi messe in campo, nella battaglia sul territorio e nei tribunali per fermare e punire gli assassini delle donne? Insieme a Valeria Valente, senatrice del Pd, ex presidente della commissione d’indagine del Senato sul femminicidio, abbiamo provato a capire le ombre e le luci di questa battaglia. Partendo da un dato: “Senza specializzazione della magistratura e delle forze dell’ordine sulla violenza contro le donne, la strage continuerà”. Il Codice rosso - Approvato il 19 luglio 2019, ha rappresentato per certi versi una “rivoluzione” nella presa in carico delle donne che denunciano da parte del sistema giudiziario. Prevede, sintetizzando, che entro tre giorni la vittima di violenza venga ascoltata dal giudice. Spiega Valente: “Vuol dire, ed è meritorio, che gli uffici giudiziari non possono più lasciare le denunce abbandonate nei cassetti. Ma non basta. Perché se poi quella denuncia finisce in mani non specializzate, di chi la violenza non sa leggerla e magari la sottovaluta, non ha formazione specifica, applica ancora quegli stereotipi che portano a non credere alle donne, la velocità di questa presa in carico è di fatto vanificata”. Il problema non è quindi l’ingolfamento di denunce, ma la certezza di capirle. E c’è una ulteriore criticità. Nella legge di riforma del processo penale è stata inserita finalmente la norma che prevede l’arresto in flagranza per chi viola i divieti di avvicinamento. “Però le attuali pene correlate ai reati che compie chi viola quel divieto sono al di sotto della soglia che permette ai giudici di trattenere i violenti in carcere”. Infine, il tema dei fondi: “Il Codice rosso è una legge che nasce senza finanziamenti. E questa nella lotta alla violenza di genere è davvero un’ombra pesante”. Il braccialetto elettronico - “Oggi i braccialetti ci sono, non è vero che non siano disponibili. E sono utilissimi. Dov’è l’elemento critico? Nella possibilità di applicarli”, chiarisce Valeria Valente, che con la commissione d’inchiesta sul femminicidio ha fatto un lavoro d’indagine mai realizzato prima sulla strage delle donne. “È il meccanismo di applicazione del braccialetto ad essere così complicato da renderne difficile un uso massiccio. Richiede una capacità del giudice di leggere la pericolosità del soggetto e di credere alle denunce delle donne. Nella scorsa legislatura, il disegno di legge delle ministre Cartabia, Bonetti, Carfagna, Lamorgese, Stefani e Gelmini aveva previsto una semplificazione delle norme, ma quel ddl non è stato poi approvato. Ecco perché i braccialetti elettronici sono così pochi”. Ammonimenti e centri recupero - “Sono una misura che funziona, se seguita da un periodo di vera riabilitazione in un centro per uomini maltrattanti” dice Valeria Valente. Secondo la Direzione anticrimine della polizia, la lieve flessione dei femminicidi va correlata “con l’aumento degli ammonimenti da parte dei questori”. Su indicazione della vittima, il violento viene chiamato dal questore, “ammonito” e indirizzato verso un centro di recupero. “È una misura che funziona nel 30% dei casi. È qualcosa. Il problema è: chi riesce a stabilire, davvero, quando un uomo non è più pericoloso? O quanto deve durare il suo percorso? C’è chi ha bisogno di sei mesi, chi di sei anni, chi deve continuare a frequentarli sempre. In questo caso, ciò che manca è il monitoraggio”. Il reddito di libertà - Per uscire dal circuito della violenza, dopo essere rinate nelle case rifugio, le donne hanno bisogno di lavoro, casa, stabilità. Per questo è nato il Reddito di libertà, finanziato oggi con 15 milioni di euro. Ossia quattrocento euro al mese per provare a farcela da sole. Arduo davvero e destinato di fatto a pochissime donne. “Secondo i nostri calcoli, di milioni ce ne vorrebbero 40. Con questi fondi è soltanto una misura di emergenza. Bisogna attuare percorsi di lavoro per le vittime di violenza, alloggi a prezzi umani. Soltato così le donne possono ritrovare la loro libertà”. Violenza contro le donne. Le misure di prevenzione già operative vanno perfezionate di Simona Rossitto Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2022 Dal divieto di avvicinamento al braccialetto elettronico: l’applicazione delle norme può essere risolutiva. Una donna nel settembre scorso chiede il divieto di avvicinamento per l’ex marito, richiesta respinta. Poco tempo dopo lui le mette le mani al collo e le causa 25 giorni di prognosi. Arriva il divieto di avvicinamento ma all’ex marito viene consentito di andare a lavorare nel garage sotto casa quando la donna non c’è. Questo comporta che lei debba avvisare quando è o meno in casa. Il caso è aperto, lei non vuole aderire alla richiesta, non vuole far sapere quando è in casa, ha paura. Divieto di avvicinamento, allontanamento dalla casa familiare d’urgenza, braccialetto elettronico: le misure per fermare violenza e femminicidi esistono; il problema, come dimostra questo caso, è lavorare sull’applicazione. “Il quadro normativo può essere ancora migliorato, rafforzando le misure preventive, ampliando ad esempio la portata dell’ammonimento del questore”, afferma il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, aggiungendo che la grande sfida è “proteggere le vittime, che vanno aiutate nel difficile percorso della denuncia”. I provvedimenti amministrativi - Ancora prima di arrivare nel campo penale, sono in effetti oggi a disposizione provvedimenti amministrativi come l’ammonimento e l’ingiunzione trattamentale. Il primo è una sorta di “cartellino giallo” col quale la questura avverte il maltrattante del disvalore della condotta. Con l’ingiunzione si esorta a iniziare un trattamento per gestire le emozioni. Secondo gli ultimi dati, sono 54 le questure (il 47% del totale) che hanno firmato protocolli o avviato interlocuzioni per l’invio e la presa in carico delle persone ammonite da parte di centri specialistici. I risultati sono positivi, visto che la percentuale di recidive è scesa dall’11% del 2020 all’8% del 2021 al 6% del 2022 (dati a ottobre scorso) per gli ammoniti per violenza domestica; dal 20 al 18 al 9% per gli ammoniti per stalker. “Abbiamo notato - spiega Nunzia Brancati, vicequestora alla questura di Napoli - una risposta importante. Leggendo i dati, ma anche alla luce dell’esperienza, c’è una differenza tra stalker e maltrattante, il primo tende a essere più incline al percorso di recupero”. Nella direzione di potenziare le misure esistenti va il ddl presentato dalle ministre dello scorso esecutivo per il 25 novembre e ripresentato all’inizio della nuova legislatura dall’ex ministra Elena Bonetti. Amplia, ad esempio, l’istituto dell’ammonimento del questore e potenzia l’uso del braccialetto elettronico, prevedendo che in caso di manomissione scatta il carcere. Per il giudice Fabio Roia, presidente vicario del tribunale di Milano, “sul piano penale mancano due norme che erano inserite nel pacchetto delle ministre, ora riproposto. La prima riguarda la possibilità di emettere il provvedimento di arresto anche al di fuori della quasi flagranza di reato. Esemplificando, nel caso di una donna che va in ospedale dopo la violenza, avvenuta magari 3-4 ore prima, oggi la polizia non può procedere ad arrestare il maltrattante. In secondo luogo, occorre inserire una norma di coordinamento nel caso della violazione delle misure di allontanamento dalla casa familiare o del divieto di avvicinamento. Al momento è possibile l’arresto, ma non l’applicazione immediata della misura cautelare. Ne deriva che la polizia arresta, ma poi il giudice deve scarcerare”. La custodia cautelare - Le misure fin qui descritte non sempre riescono a impedire la reiterazione della violenza. In questi casi l’unica misura idonea a proteggere le vittime è la custodia cautelare in carcere. C’è, inoltre, chi sostiene la possibilità di far applicare un braccialetto elettronico alla vittima, per meglio garantirla. Va in questa direzione, racconta il procuratore aggiunto della procura di Napoli, Raffaello Falcone, il protocollo siglato col comando provinciale dei carabinieri che prevede la consegna alle vittime, che abbiano dato il proprio consenso, di uno smart watch dotato di sensore di movimento e di tasto di allarme. In caso di pericolo la richiesta di intervento viene inviata direttamente ai carabinieri. Per i centri antiviolenza il problema non riguarda tanto l’introduzione di misure e istituti, quanto la loro applicazione. “Le sentenze della Cedu - dice Elena Biaggioni, vicepresidente di D.i.Re - Donne in rete contro la violenza - dicono che non viene fatta la valutazione del rischio non tanto dalle forze dell’ordine quanto da procure e tribunali. Occorre mettere tutte e tutti in condizione di fare un’adeguata valutazione, auspicabilmente con una buona collaborazione con i centri antiviolenza”. Carfagna: “Ora avanti con le nuove norme, braccialetto elettronico e fermo preventivo” di Liana Milella La Repubblica, 25 novembre 2022 L’intervista all’ex ministra delle Pari opportunità. “Dopo il voto di oggi, spero ci sia largo consenso anche sul ddl antiviolenza che abbiamo ideato con il governo Draghi. Ai magistrati dico: la donna dev’essere ascoltata e creduta. E questo non sempre succede”. Dice così la neo presidente di Azione Mara Carfagna, ministra delle Pari opportunità nel Berlusconi 4. E ricorda la storia di Enza Avino, morta dopo venti denunce. Tre donne appena uccise a Roma. E 104 quest’anno in Italia. Non è tempo di smetterla con le belle parole e passare ai fatti? “Certo che lo è. Ma è ingeneroso sostenere che la politica abbia prodotto solo “belle parole”. La mia generazione è la prima ad avere accesso a strumenti di difesa. Quando sono nata, in Italia vigevano ancora le norme sul delitto d’onore, quando sono entrata all’università lo stupro era ancora un reato contro la morale, quando sono arrivata in Parlamento c’erano ancora colleghi che definivano un agguato sotto casa una forma di “corteggiamento”“. Questo è vero, ma le donne sono sempre le “vittime”. Dove sono i passi avanti? “Dobbiamo affinare le norme, imporre un uso più largo delle nuove tecnologie, come i braccialetti elettronici. Ma dobbiamo soprattutto promuovere un approccio della magistratura basato sul più assoluto rigore. La donna dev’essere ascoltata e creduta, e non sempre succede”. Purtroppo è così. Servirebbero più attenzione e tempestività di polizia e pm quando una donna trova la forza di raccontare che è vittima di continue violenze domestiche… “Con il Codice Rosso nel 2019 abbiamo previsto specifici obblighi formativi per le forze dell’ordine, sia sul fronte della prevenzione che su quello del perseguimento dei reati. Quell’azione va accelerata, finanziata, promossa ovunque. E va moltiplicato il sostegno ai centri antiviolenza, che hanno l’esperienza e la solidità per consigliare al meglio le donne in difficoltà”. Ma in troppi casi alla denuncia non segue l’azione decisa dello Stato... “È vero, e ne sono personalmente consapevole. Domani tornerò dopo sette anni a Terzigno, per una manifestazione dedicata a Enza Avino, una giovane madre assassinata dall’ex compagno che aveva denunciato venti volte, fermato e poi rilasciato perché ritenuto non pericoloso. Non era la prima, e purtroppo non è stata l’ultima”. Perché le donne non vengono credute? “In Italia si stenta a riconoscere che la violenza contro di noi è la più grande emergenza di sicurezza del momento, uccide più della mafia, più dello spaccio, e uccide innocenti: agire “dopo” con pene esemplari non è sufficiente, bisogna riconoscere i segnali prima e fermare i violenti con fermezza”. L’ennesima commissione bicamerale è la risposta adeguata? “È un aiuto a capire la vastità e la profondità del fenomeno, la sua connessione con gli stereotipi culturali ancora diffusi nella nostra società e a qualificare i “segnali”. Non è poco. E il voto all’unanimità fa sperare che lo stesso largo consenso possa esserci sul pacchetto antiviolenza che abbiamo messo a punto con il precedente governo e adesso abbiamo ripresentato in Parlamento: prevede l’obbligo del braccialetto elettronico per i violenti e il fermo preventivo ogni volta che si riscontri un concreto pericolo per le donne”. Ma se i vicini sentono liti continue, e se la moglie, fidanzata o compagna esce di casa con il volto tumefatto non basta per allontanare il maschio violento? “Deve bastare. Dovrebbe bastare, soprattutto se la donna si ribella e denuncia. Ma dirò di più: come chiediamo con il nostro disegno di legge, il fermo e la sorveglianza elettronica del maschio violento dovrebbero diventare una prassi ordinaria in ogni caso di aggressione”. Diritto all’oblio, Garante può ordinare a Google la deindicizzazione globale di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2022 Lo ha chiarito la Prima sezione civile della Cassazione, ordinanza n. 34658 deposita oggi, con riguardo alla archiviazione di una indagine su un ex dirigente Eni trasferitosi all’estero. Il diritto Ue non lo impone ma neppure lo vieta. Per dare attuazione al “diritto all’oblio”, le Autorità italiane - e cioè il Garante per la privacy ed anche i giudici - possono ordinare, in conformità al diritto Ue, al gestore di un motore di ricerca di effettuare una deindicizzazione globale: il cd. global delisting o global removal. Un repulisti esteso dunque anche ai Paese extra europei, andando a incidere sulle versioni del motore al di fuori dell’Ue. La decisione dovrà essere presa all’esito di un bilanciamento tra il diritto della persona alla tutela della sua vita privata e alla protezione dei dati personali e il diritto alla libertà d’informazione, tuttavia - e questo è un altro passaggio decisivo - tale valutazione va fatta “secondo gli standard di protezione dell’ordinamento italiano”, senza dunque badare alle regole vigenti nei paesi esteri. Fermo restando, ovviamente, che le altre nazioni (fuori dell’Ue) potranno anche non tener conto di tale ordine, ma ciò concerne la diversa questione di “mero fatto” relativa alla concreta attuazione dell’ordine impartito dall’Italia. Lo ha chiarito la Prima sezione civile della Corte di cassazione (Pres. Genovese, Rel. Scotti), con l’interessante ordinanza n. 34658 deposita oggi, accogliendo il ricorso del Garante della Privacy contro Google Llc, Google Italy Srl e riformando la decisione del Tribunale di Milano del settembre 2020 che, accogliendo parzialmente il ricorso del colosso di Mountain View, aveva limitato il provvedimento assunto dal Garante nell’ottobre 2017 riducendolo all’ordine di rimozione degli Url sulle sole versioni nazionali del motore di ricerca corrispondenti agli Stati membri dell’Unione Europea. Il caso partiva dalla richiesta di un ex dirigente Eni, addetto all’intermediazione di progetti imprenditoriali in Iraq, Kuwait e Abu Dhabi, che dopo l’archiviazione di una indagine penale in cui era stato coinvolto, aveva chiesto al Garante una completa deindicizzazione delle relative notizie considerato che ormai risedeva a Dubai e operava professionalmente fuori dall’Europa. Nel 2017 il Garante aveva ordinato a Google di rimuovere entro venti giorni gli URL “oggetto di richiesta anche dalle versioni extraeuropee del motore di ricerca”, avendo accertato che Google aveva già “spontaneamente provveduto alla rimozione degli URL dalle versioni europee del suo motore in accoglimento della richiesta dell’interessato”. Tornando alla decisione, per la Cassazione non sono pertinenti le osservazioni del colosso californiano sull’efficienza del sistema di delisting adottato, “capace di prevenire in sostanza l’impiego di motori di ricerca extraeuropei da parte di utenti dello Spazio Economico Europeo, della Svizzera e del Regno Unito”, in quanto - spiega la Corte - “non era questo il pericolo paventato dal ricorrente che aveva invece dedotto il proprio interesse a che le notizie in questione non pervenissero a conoscenza dei fruitori, fuori Europa, dei motori di ricerca extraeuropei”. Certamente, si legge nella decisione, occorre un bilanciamento del diritto all’oblio con il diritto alla libertà di informazione. Tuttavia, per l’ordinamento costituzionale italiano, “a fronte delle modalità liquide e pervasive della circolazione dei dati sulla rete di Internet, non è consentita una limitazione della tutela assicurata alla tutela della vita privata e alla protezione dei dati personali mediante deindicizzazione alle sole versioni dei motori di ricerca corrispondenti a tutti gli Stati membri dell’Unione Europea”. E lo standard di valutazione a cui ci si deve ispirare nel bilanciamento “non può essere che quello europeo e nazionale e non viene invece in considerazione il quadro giuridico di contemperamento fra i due diritti previsto in altri Paesi il cui diritto nazionale non è applicabile al rapporto giuridico oggetto della pronuncia, per il solo fatto che al destinatario sia imposto di provvedere alla deindicizzazione anche sulle versioni di quel Paese del suo motore di ricerca”. Come si è già affermato, infatti, se in quei Paesi vigesse uno standard di tutela dei diritti della personalità meno protettivo, “ciò potrebbe comportare solamente il mancato riconoscimento della decisione italiana o una difficoltà di esecuzione del provvedimento”. Ma si tratta di piani distinti: da un lato, quello della potenziale portata extraterritoriale delle norme e dei provvedimenti nazionali; dall’altro, quello del loro riconoscimento da parte degli Stati esteri nell’esercizio della loro sovranità. “Tale sovranità - spiega la decisione - non è certamente compromessa dalla efficacia extraterritoriale del provvedimento del Garante, restando impregiudicata la possibilità per lo Stato straniero di non riconoscere il provvedimento o della decisione giurisdizionale che lo ha ritenuto legittimo”. Tornando invece al diritto dell’Unione, se è vero che esso “non impone agli Stati membri di far sì che la persona interessata che si avvalga del diritto alla deindicizzazione possa ottenere il risultato di incidere su tutte le versioni, anche extraeuropee, del motore di ricerca”, tuttavia “neppure vieta agli Stati membri di consentire questo risultato”. “Ciascun Stato membro - e così l’Italia - è libero di effettuare nella sua disciplina nazionale, conformemente agli standard nazionali di protezione dei diritti fondamentali, un bilanciamento… per richiedere all’esito al gestore di tale motore di ricerca di effettuare una deindicizzazione su tutte le versioni del proprio motore, incluse quelle extraeuropee”. Ragion per cui la tesi della inammissibilità degli ordini di rimozione/deindicizzazione globale (ossia destinati a produrre effetti anche sui motori di ricerca extra UE) “per ragioni di diritto internazionale consuetudinario”, sostenuta dalle società controricorrenti, “è in contrasto con il diritto della Unione europea, così come interpretato dalla Corte di Giustizia”. “È pur vero - conclude la Corte - che si potrebbero delineare conflitti con gli ordinamenti di altri Stati e le decisioni delle loro giurisdizioni potenzialmente contrastanti con quelle dell’Unione Europea e italiane, come del resto può accadere in ogni altro caso di conflitti fra le regolazioni provenienti da distinti ordinamenti giuridici, non mediati da convenzioni internazionali; ma si tratta però di obiezione e di controindicazione di mero fatto che non incide sull’ammissibilità astratta dell’ordine, ma semmai sulla sua effettiva possibilità di esecuzione e sul riconoscimento della decisione italiana in altri ordinamenti”. Milano. Panchine di design e un giardino. “Così San Vittore e la città si parlano” di Laura Mosca Il Giorno, 25 novembre 2022 Ilaria Scauri guida progetti di rieducazione per i detenuti: “C’è interesse a scoprire la realtà oltre le mura”. Nascono all’interno delle mura di San Vittore e hanno attivato un contagio positivo con la città; pezzi unici, come le vite stesse di chi li ha ideati. Panchine di design sociale, pronte ad approdare al prossimo Fuorisalone. Oppure, in senso inverso, un giardino, curato dai detenuti, che chiama il pubblico per concerti, letture e incontri. Il carcere che si apre verso Milano, Milano che entra in carcere, non più luogo di esclusione, ma parte attiva di un tessuto che deve essere rigenerativo per tutti. Solo qualche settimana fa il sindaco Beppe Sala aveva sottolineato la necessità di interventi strutturali, denunciando ancora una volta il sovraffollamento della casa circondariale e le condizioni di degrado con cui si confrontano uomini e donne. Ilaria Scauri, responsabile di alcuni dei progetti di rieducazione sociale che si svolgono a San Vittore, racconta la realtà del carcere da una prospettiva diversa. Perché San Vittore deve rimanere all’interno della città? “Quando si parla di questo contesto lo si fa quasi sempre in termini negativi. Suicidi, celle troppo piene, ambienti vetusti. Io concordo con Sala, bisogna intervenire ed evitare un trasferimento della struttura. Una casa circondariale è un servizio alla comunità, non va nascosta, deve essere accessibile ai familiari dei detenuti, a chi ci lavora, ai volontari e chi ci vive non si deve sentire ghettizzato. La distanza fisica crea anche distanza sociale”. Come si accorcia questa distanza? “Lo stiamo già facendo e funziona. Da anni portiamo avanti dei progetti che vogliono far emergere le risorse che sono racchiuse all’interno di San Vittore per riuscire a condividerle con la città. Un tassello importante è stata la creazione e il recupero nel 2018, con l’azienda Nespoli Vivai di Carugo, di un giardino nell’ala clinica del carcere, interamente curato e coltivato dai detenuti. È stato un seme che ha attecchito, dando vita a sua volta a un luogo generativo di tanti progetti”. Chi fa vivere oggi il giardino di “Parole in Circolo”? “Non è solo uno spazio verde dove trascorrere l’ora d’aria, è un giardino a tutti gli effetti con fiori e piante perenni, dove si tengono corsi di giardinaggio per i detenuti, sedute di mindfulness, letture. Prima del lockdown ha ospitato anche eventi aperti al pubblico per le rassegne di Bookcity, Pianocity, JazzMi, questo ottobre per la GreenWeek”. Cosa si è innescato? “Un circolo virtuoso. La città è entrata in carcere per godere di un momento di bellezza. Anche se può sembrare una dissonanza, nei fatti non lo è. C’è tanto interesse nello scoprire cosa avviene al di là delle mura, nell’avvicinarsi a questa realtà. Abbiamo avuto sempre liste di attesa per partecipare alle varie iniziative proposte ed è stato confortante accorgersi di come il carcere sappia, lo ripeto, produrre bellezza e attività di rieducazione”. All’inverso il carcere in che modo ha condiviso con la società i suoi pezzi unici? “Un esempio sono i lavori realizzati durante il nostro laboratorio di Economia circolare. Da materiali di scarto alcuni detenuti sono stati in grado di assemblare delle opere di design, come delle panchine urbane molto belle che hanno attirato l’attenzione di designer di fama internazionale. Stiamo valutando di esporne alcune al prossimo Fuorisalone, altre erano già state oggetto di mostre ed esposizioni. In carcere la creatività è essenziale per sopravvivere e può farsi ponte verso l’esterno e occasione di riscatto”. Milano. Il carcere è duro, per le donne di più di Davide Ripamonti unibocconi.it, 25 novembre 2022 Rappresentando una minoranza della popolazione carceraria, le risorse messe in campo per loro sono esigue. Aumentando il senso di distacco e abbandono. Ma c’è chi le aiuta a guardare al futuro, come i docenti e gli studenti coinvolti nel progetto Cliniche Legali della Bocconi. Se la detenzione in carcere rappresenta, per sua natura, una situazione di fragilità, nel caso della detenzione femminile la fragilità è ancora maggiore. Lo racconta Melissa Miedico, professoressa associata presso il Dipartimento di studi giuridici dell’Università Bocconi e responsabile del progetto cliniche legali dell’Ateneo di via Sarfatti, nell’ambito del quale docenti e studenti del corso di laurea magistrale in Giurisprudenza prestano la loro opera di “supporto e orientamento” in alcuni contesti difficili quali, per esempio, il carcere di Bollate. Difficili nel loro complesso, per le donne ancora di più. “Le donne nel carcere di Bollate vivono una situazione di grande sofferenza”, spiega Melissa Miedico, “perché, oltre ai problemi legati alla detenzione in sé, rappresentando meno del 10% della popolazione carceraria sono anche marginalizzate, soprattutto dal punto di vista delle risorse loro offerte. Parlo di opportunità professionalizzanti, oppure corsi di cinema, teatro, lettura. Per loro, essendo tra l’altro non previste attività trattamentali miste, le risorse messe in campo a questi scopi sono molto poche rispetto a quelle offerte ai detenuti uomini”. E il carcere di Bollate, nel panorama carcerario italiano, costituisce comunque un’eccellenza. In più, la detenzione femminile ha spesso ricadute pesanti sul nucleo familiare, essendo proprio le donne a occuparsi con maggiore frequenza di bambini e anziani. E questo genera sensi di colpa. Altra caratteristica della detenzione femminile è che una gran parte delle donne recluse sono straniere. “Molte provengono da ulteriori contesti di fragilità, come, per esempio, la comunità rom, nella quale le donne vanno incontro a una sorta di ‘inesorabile destino’, quello cioè di essere costrette a commettere reati. La loro propensione a delinquere è indotta dal contesto culturale di cui fanno parte. Va anche precisato che quasi sempre si tratta di reati con una bassissima componente di violenza”, continua Miedico, “e la pena alla carcerazione loro inflitta è, a mio parere, spesso spropositata”. L’attività della clinica, in questa situazione difficile, è di fondamentale importanza e di grande impatto: “Siamo presenti in carcere una volta a settimana nel reparto femminile. Svolgiamo una sorta di mediazione per spiegare le tappe della detenzione e aiutiamo le donne a chiedere i benefici, anche quelli di lungo periodo come l’affidamento in prova. In questo ci coordiniamo con i loro avvocati e con gli educatori del carcere. Il fatto che molte di loro siano straniere aggiunge ulteriore complessità, perché i problemi della detenzione si sommano e si intrecciano con quelli legati al permesso di soggiorno. Noi le supportiamo e le aiutiamo a comprendere tali complessità”, dice ancora Miedico. Una sorta di finestra sul mondo esterno. Con questa definizione concordano tre degli studenti coinvolti nel progetto, Francesco Mauri, Antonio Maria Traversaro e Aurora Zamagni, tutti iscritti al quarto anno del corso di laurea in Giurisprudenza: “La nostra è anche un’attività di ascolto, non solo consulenza giuridica. Recepiamo le loro istanze, i loro bisogni, e ci adoperiamo per trovare delle soluzioni. Può sembrare poco, ma invece è importantissimo dimostrare che qualcuno si interessa dei loro problemi”, spiega Antonio. Problemi che sono all’apparenza banali, per chi è fuori. Ma assumono tutt’altra dimensione in una realtà deformata e parallela come quella del carcere. “Penso per esempio al caso delle macchinette che erogano bibite e merendine”, continua Antonio. “In effetti, nella sala in cui le detenute ricevono le visite dei familiari sono assenti, mentre nel reparto maschile c’è addirittura un bar. Questo perché, vista la considerevole inferiorità numerica della popolazione carceraria femminile, i bisogni fanno più fatica ad essere soddisfatti”, interviene Aurora. Piccole cose, o forse no se si vuole che anche dietro le sbarre la vita abbia un senso. In attesa di tornare là fuori. “Lo sportello giuridico è importante perché colma un vuoto”, dice Francesco, “e purtroppo non in tutte le carceri c’è. Comunicare con l’esterno è difficile, ci sono dei limiti stabiliti dai regolamenti. Noi siamo lì anche per questo ed è una grande soddisfazione, un arricchimento, vedere che funziona”. Prato. “La Farmacia delle Parole”: in carcere il potere curativo della poesia di Costanza Baldini intoscana.it, 25 novembre 2022 Il nuovo progetto di Teatro Metropopolare e della regista Livia Gionfrida: una nuova serie di manifesti affissi per la città di Prato e incontri con artisti del teatro italiano, col pubblico detenuto ed esterno, alla ricerca del potere terapeutico delle parole. Le parole come una cura in questi tempi incerti, è questo l’obiettivo del progetto del Teatro Metropopolare della regista Livia Gionfrida “La Farmacia delle Parole” che parte dal carcere di Prato per coinvolgere poi tutta popolazione della città. Dopo il successo dello scorso anno della rassegna “Anche i poeti hanno una loro legge”, che ha portato la compagnia teatrale pratese a dialogare con alcuni trai più importanti poeti contemporanei come Franco Arminio e Mariangela Gualtieri, prosegue la ricerca sulla potenza della parola e sulla poesia come antidoti ai mali della nostra società. Da ottobre sono iniziati una serie di dialoghi pubblici tra Livia Gionfrida, che quest’anno è stata finalista in ben due categorie per il prestigioso premio “Le Maschere del Teatro Italiano”, e alcuni artisti della scena teatrale italiana. Sparsi per le periferie della città di Prato, intanto, sono apparsi una serie di nuovi manifesti curati da Metropopolare in collaborazione con la visual poetry Francesca Ballarini con una serie di messaggi poetici realizzati dai detenuti del carcere di Prato, rafforzando il filo che la compagnia pratese cerca di tessere da qualche anno tra chi risiede all’interno del penitenziario pratese e la cittadinanza che viene invitata a riflettere su quali siano le parole “che curano”, attraverso queste suggestioni poetiche e grafiche. La poesia non è qualcosa di alto, lontano, intellettuale, è qualcosa di pratico, qualcosa che fisicamente ci può aiutare a stare meglio - “Sono entusiasta - ci ha raccontato la regista Livia Gionfrida - di proseguire anche quest’anno la nostra ricerca legata alla parola poetica tra carcere e città, uno sviluppo di un lavoro che Metropopolare porta avanti da quattordici anni nel tentativo di aprire il carcere alla città e la città al carcere. Con le nostre azioni, affissioni e incontri, vogliamo porre l’attenzione, soprattutto in questo periodo post pandemico, sul valore terapeutico che le parole, scritte o messe in scena con il teatro, possono avere nella nostra società”. Livia le parole curano, lo sappiamo, ma com’è nato questo progetto? L’esigenza di usare la poesia come strumento di cura (da cui il termine “Farmacia”) nasce durante la pandemia che ci ha portato a utilizzare termini medici, a medicalizzare ogni cosa e a parlare tanto di rimedi. Noi abbiamo immaginato la poesia come cura e abbiamo visto praticamente gli effetti benefici e curativi della poesia nel senso più stretto ma anche nel senso lato, nel teatro e nel carcere. Dopo tanti anni di esperienza posso dirti che io ho visto detenuti che abbandonano gli psicofarmaci per dedicarsi alla poesia. Trovo ragazzi ai primi incontri laboratoriali distrutti dalla situazione devastante della detenzione e poi man mano che fanno teatro riprendono colorito, vita. L’anno scorso abbiamo invitato in carcere poeti in carne e ossa, perchè volevamo proprio ascoltarli, toccarli e abbiamo ripetuto l’esperienza anche quest’anno con la Farmacia. Tra tutti i laboratori che avete fatto c’è una frase o un episodio che ti è rimasto in mente? Abbiamo fatto scrivere al pubblico e ai detenuti delle parole che secondo loro avevano il potere di curarli. Tra le parole più scritte ci sono ovviamente “libertà”, “destino”, “speranza”, “famiglia”. Però ci ha fatto tanto ridere un detenuto che ha scritto “arancino”. La poesia non è qualcosa di alto, lontano, intellettuale, è qualcosa di pratico, qualcosa che fisicamente ci può aiutare a stare meglio. I prossimi appuntamenti - Lunedì 28 novembre la regista Livia Gionfrida dialogherà con Chiara Lagani, attrice, drammaturga, fondatrice - insieme a Luigi De Angelis - della compagnia Fanny&Alexander e autrice della prima graphic novel tratto da “L’Amica Geniale” di Elena Ferrante. Il pomeriggio all’interno del carcere di Prato e alle ore 18,30 col pubblico esterno al Ridotto del Teatro Politeama Pratese. L’ultimo appuntamento de “La Farmacia delle Parole” sarà poi mercoledì 14 dicembre con l’attore Melino Imparato della compagnia Franco Scaldati. “Franco Scaldati è un poeta siciliano morto nel 2013 e io sto lavorando con la compagnia Scaldati, è un sodalizio molto forte, abbiamo parlato di lui anche in teatro- ha aggiunto Livia Gionfrida - Il 14 dicembre parleremo con Melino Imparato che è stato il suo braccio destro, un attore anziano, famoso e molto importante. Reciteremo insieme a lui anche vari testi”. Il progetto dei manifesti è realizzato con il contributo di Creazione Urbani 2022 del Comune di Prato. La rassegna “La Farmacia delle Parole” è realizzata grazie al contributo della Fondazione Cassa di Risparmio Di Prato, col patrocinio del Ministero della Giustizia. Tutte le azioni fanno parte del Progetto Teatro in Carcere 2022 della Regione Toscana. Verona. Convegno sul tema della violenza sulle donne organizzato dal gruppo Sbarre di Zucchero Ristretti Orizzonti, 25 novembre 2022 Sabato 26 novembre alle ore 14,30 nella Chiesa di San Luca Evangelista in corso Porta Nuova 12 a Verona, parte degli eventi promossi dagli Assessorati Pari Opportunità e Parità di Genere sul tema della violenza sulle donne connessi alla giornata mondiale del 25, si terrà un convegno organizzato dal gruppo Sbarre di Zucchero (nato dalle compagne di detenzione di Donatela Hodo, la ragazza 27enne suicidatasi in carcere a Montorio pochi mesi fa) dal titolo “...nemmeno con un fiore” nel quale il discorso violenza di genere sarà affrontato sotto tutti gli aspetti possibili, anche quello della violenza istituzionale oltre che dei maltrattamenti in famiglia, dello stalking, del femminicidio. Dopo i saluti del parroco don Carlo Vico, Garante comunale dei diritti dei detenuti, i moderatori dell’evento Umberto Baccolo e Elisa Torresin (entrambe di Nessuno tocchi Caino) presenteranno il libro a tema “L’amore non è” di Giampaolo Trevisi, quindi inizierà un dibattito diviso in due tempi. Il primo, dal titolo “Dalla parte delle donne”, vedrà come ospiti Sara Gini, avvocata di Telefono Rosa, Chiara Stella, del direttivo dell’associazione Isolina E..., Petra del Centro Antiviolenza del Comune di Verona e le ragazze di Sbarre con le loro testimonianze. Il secondo tempo, “Rinascere si può”, avrà come protagonisti Marco Scarpati, avvocato di diritto minorile, già presidente di Ecpat Italia, Barbara Bononi, psicologa e criminologa forense, CTU e docente, Michele De Lucia, giornalista, politico e direttore artistico di Parole liberate, Anthea Di Benedetto, presidente Associazione Aurea Caritate, Otello Lupacchini, Procuratore Generale emerito e giusfilosofo e Laura Massaro del Comitato Madri Unite contro la violenza istituzionale. L’evento sarà ad ingresso libero, si potrà seguire in diretta sulle pagine Facebook di Sbarre di Zucchero, Folsom Prison Blues e Voci di dentro e anche in differita nei giorni successivi sul sito web di Radio Radicale e su AracneTV. Per informazioni: sbarredizucchero@gmail.com Roma. “Arte Digitale” le opere dei detenuti di Rebibbia esposte a Spazio5 romatoday.it, 25 novembre 2022 Sabato 26 novembre alle 18:30 presso l’Istituto Quinta Dimensione - Spazio5 (via Crescenzio 99d) sarà presentata la mostra delle opere dei detenuti della Casa di Reclusione di Rebibbia. Le opere sono state realizzato durante il progetto “Arte Digitale” realizzato su iniziativa della Direzione della Casa di Reclusione Rebibbia di Roma, con il supporto e il sostegno dell’area educativa e della polizia penitenziaria. Il corso si è svolto a partire dal mese di febbraio 2022, con il finanziamento ottenuto con la Legge Regionale “Interventi a sostegno dei diritti della popolazione detenuta della Regione Lazio” e realizzato dalla Società Cooperativa Sociale Onlus “Il Melograno” in collaborazione con Roma Bpa - Mamma Roma ed i suoi figli migliori. L’attività, è durata nove mesi e si è svolta in un’aula all’interno della Casa di Reclusione di Rebibbia, allestita con attrezzature per svolgere attività di pittura e fotografia. Lo staff del progetto “Arte Digitale” era composto da: Alessandro Reale esperto arte grafica e digitale, Riccardi Maurizio esperto arte grafica e fotografica, Terzuoli Massimo, esperto arte grafica e digitale, Montaldi Massimo responsabile empowerment e counseling, Eliodori Antonella responsabile sostegno psicologico, Bacco Ilena Monica assistente attività trattamentali e Corrado Francesca progettazione e rendicontazione. La mostra sarà visitabile fino a sabato 3 dicembre dal lunedì al venerdì dalle ore 16:00 alle ore 20:00 e il sabato dalle ore 11:00 alle ore 19:00.  Pistoia. Progetto di pet teraphy: un tocco di...Viola tra le mura del carcere di Samantha Ferri La Nazione, 25 novembre 2022 La meticcio labrador è stata “adottata” dal penitenziario pistoiese: “Gli effetti sull’umore dei detenuti sono più che positivi”. Al carcere di Santa Caterina in Brana è arrivata una novità... a quattro zampe. Si chiama Viola ed un meticcio simil labrador di un anno che da questa estate è stata adottata dal penitenziario pistoiese. In Santa Caterina la cucciola è arrivata per un progetto di pet therapy concordato dalla direzione del penitenziario insieme al canile Enci di Firenze. “Ci siamo mossi un paio di anni fa per richiedere l’idoneità a ospitare un cane di cui potessero prendersi cura i detenuti - ha spiegato al direttrice del carcere Loredana Stefanelli -. Enci ha effettuato dei sopralluoghi sul posto e tenuto degli incontri con i detenuti per sensibilizzare alla cura e al rispetto degli animali e, finalmente, questa estate abbiamo accolto Viola”. Un cane che si è dimostrato fin da subito affettuoso con tutti e ben presto si è ambientato alla sua nuova ‘casa’. Nel penitenziario ha degli spazi tutti suoi e tre volte al giorno i detenuti fanno a turno per occuparsi di lei portandola al guinzaglio, nutrendola e per giocare con lei. “Viola ha accesso a tutte le aree del carcere - aggiunge la direttrice -, passa del tempo in sezione con tutti i detenuti, stando al guinzaglio per rispetto di tutti, soprattutto di coloro che hanno timore degli animali. Ma tutti la apprezzano e sono felici di poter interagire con un cane”. Gli effetti sull’umore del personale e in particolar modo dei detenuti è stato più che positivo. “I detenuti che si prendono cura del cane dicono che per loro è una sensazione bellissima poter accarezzare un cane e sapere che devono prendersi cura di lei - fa sapere Stefanelli -. Si sentono meno soli. Lo scopo della pet therapy nel contesto carcerario è quello di creare momenti di riflessione e crescita delle competenze relazionali e sensibilizzare al rispetto e alla cura di un animale”. La presenza di Viola in carcere aiuta a smorzare anche i momenti più difficili. “Ci sono detenuti che trovano difficile parlare di se stessi durante i colloqui con la psicologa - sottolinea -; per alleviare la tensione permettiamo ai detenuti che lo desiderano di effettuare i colloqui con il cane vicino a loro e questo li aiuta molto”. Il progetto di pet teraphy adottato dal carcere pistoiese è stato realizzato anche con la collaborazione di Almo Nature, che fornisce il cibo per Viola. Anche altri carceri della Toscana si stanno attivando per attivare un progetto di pet therapy come a Pistoia. “A Volterra c’è un progetto simile, anche Lucca si sta muovendo. Dipende molto dagli spazi e dalla sensibilità delle diverse direzioni - conclude Stefanelli. Noi ci siamo iniziati a muovere nel 2020 e devo dire che tutti siamo molto entusiasti di aver accolto Viola”. Un libro smaschera i professionisti del bene recensione di Maria Brucale Il Riformista, 25 novembre 2022 “L’inganno. Antimafia, usi e soprusi dei professionisti del bene”, di Alessandro Barbano, si interroga sull’antimafia e su un metodo di contrasto alla criminalità organizzata troppo spesso espressione del “diritto penale del nemico”. La Costituzione intesa come Carta fondamentale nasce a presidio di uno Stato liberale che offra a ogni individuo strumenti per difendersi dal potere. L’uomo è posto al centro quale soggetto di garanzia a tutela della sua libertà, il più alto dei diritti, protetto dalla doppia riserva di legge e di giurisdizione e della sua dignità, al cuore del sistema costituzionale e convenzionale. Dignità è parola di ampissimo respiro che inalvea ogni aspetto della sfera individuale e della vita di ognuno come singolo e nelle relazioni sociali: la sua rappresentazione nel privato e nel pubblico, la sua esistenza e il suo svolgersi quotidiano nel lavoro, nella famiglia, nei rapporti con la legalità e con le regole, con il potere, appunto. Ma una regola è tale se è chiara, prevedibile, ragionevole, proporzionata, se il cittadino, qualunque cittadino in egual misura, non dovrà subirla ciecamente ed esserne travolto ma sarà posto nelle condizioni di rispettarla e di essere colpito da una punizione solo a fronte di una responsabilità certa rispetto alla quale abbia avuto ogni strumento per dibattere, contestare, offrire la propria verità. Ogni distorsione da tali concetti, essenza di una democrazia, può trovare giustificazione unicamente in comprovate situazioni di straordinarietà e di emergenza e soltanto per tempi limitati pena l’interruzione dello Stato di Diritto e la creazione di sacche di arbitrarietà oscure e violente perché pongono la persona che le subisce nella condizione di oggetto di diritti collocata in un cuneo cupo e incontrollabile di sostanziale illegalità. Il fraintendimento dell’emergenza e dell’esercizio del potere statale per contenerla è tema centrale della coraggiosa analisi che Alessandro Bar bano, giornalista, scrittore e saggista, da sempre fine osservatore di fenomeni politici, offre dei nostri tempi nel suo ultimo libro, “L’Inganno. Antimafia, usi e soprusi dei professionisti del bene”, edito da Marsilio Edizioni. Uno scritto rigoroso e capillare nutrito di accadimenti degli ultimi anni raccontati con la lente dello storico che si interroga e che interroga il lettore su un metodo di contrasto alla criminalità organizzata troppo spesso espressione del “diritto penale del nemico” alimentato dalla paura sociale e teso a insinuarla, sorretto dalla esibizione di icone del male che legittimano il concetto tutto demagogico del fine che giustifica i mezzi, teso a “inserire come elemento ordinario e strutturale del sistema misure che potrebbero giustificarsi solo in quanto risposte all’emergenza, provvedimenti eccezionali legati a stagioni di particolare allarme sociale. La normativa che riguarda i reati di mafia altro non è che una deviazione dell’ordinamento oltre lo spirito della Costituzione”. Barbano attraversa lo strazio di vicende umane e giudiziarie, di vite interrotte e spente dall’arbitrarietà dei meccanismi ablativi delle misure di prevenzione patrimoniale, dal giogo delle inchieste spettacolo di chi vorrebbe smontare un’intera regione e ricostruirla con i Lego sbandierando l’idea di un calderone di illegalità e di promiscuità nel quale gettare quasi a caso tutta una comunità. Entra nell’abominio dei regimi speciali e privativi dentro e fuori dal processo che rendono del tutto ineffettiva la difesa; di un doppio binario che pone l’imputato fuori dall’aula, distante dal suo difensore e ammette la formazione della prova per i reati più gravi nei colloqui segreti delle procure con i collaboratori di giustizia senza alcun contraddittorio. Percorre i corridoi delle carceri, delle opportunità negate, di un non luogo dimenticato e nascosto tanto più per chi sia accusato o condannato per un reato ostativo disegnato per negare il ritorno in società e assurto a contenitore delle più varie fattispecie penali da gettare in pasto al popolo come un boccone ristoratore di una fame scomposta e indefinita di sicurezza. Si spinge nel silenzio del 41 bis, della negazione di ogni anelito di umanità, di affettività, di aspettativa di riabilitazione e di reintegrazione, di speranza. il crimine più grande è stare con le mani in mano, direbbe Marco Pannella. Ed è il principio guida di chi affronta consapevolmente le battaglie scomode, quelle che nessuno vuole intestarsi, se ne occupa. Un libro da leggere senza pregiudizi ideologici, scrollandosi di dosso la bulimia del diritto penale quale unico strumento di difesa sociale, le bandiere polverose dei simboli, il subdolo e ottuso bisogno di nemici da sopprimere, per la riaffermazione di un concetto di giustizia che è trasparenza, uguaglianza, controllabilità, accessibilità, in ultima analisi legalità. “Dove non batte il sole” il nuovo romanzo di Carmelo Sardo tra mafia e malagiustizia recensione di Lorenzo Rosso agrigentooggi.it, 25 novembre 2022 Ogni anno nelle carceri italiane si suicidano decine di detenuti. Nel 2022 sono già 70, le persone che si sono tolte la vita in carcere. Molti erano giovani, avevano una vita davanti. O forse no. Il nuovo romanzo di Carmelo Sardo, in uscita il prossimo 25 novembre, intitolato “Dove non batte il sole” (Bibliotheka Editore, 336 pagine, 17 euro) è anche dedicato alla loro memoria. Il tema del nuovo lavoro editoriale, infatti, da sempre molto caro al giornalista agrigentino, è quello del carcere e dell’ergastolo ostativo. “Sono più di dieci anni, da quando nel 2010 è uscito il mio primo romanzo, “Vento di tramontana”, ambientato in un carcere di massima sicurezza - spiega Carmelo Sardo - che, fatalmente e inevitabilmente, mi sono appassionato alle storie di chi ha sbagliato e paga con la detenzione e in cella avvia un serio percorso di resipiscenza, attraverso la cultura, la restituzione (come mi ha insegnato il mio amico empedoclino Giuseppe Grassonelli con cui ho scritto “Malerba”) la collaborazione sociale”. “Ho visitato decine e decine di carceri - continua Sardo. - Vi ho presentato i miei libri. Ho partecipato a convegni e a dibattiti nei nostri penitenziari, da nord a sud. In uno, in particolare, il carcere di Sulmona, con il regista Toni Trupia, abbiamo girato alcune riprese e raccolto la preziosa testimonianza di Giuseppe Grassonelli per il docufilm “Ero Malerba”. Ho conosciuto centinaia di detenuti. Con alcuni di loro ho una fitta corrispondenza. Con altri ho fatto lunghi colloqui. Molti mi hanno affidato le loro confidenze. Le loro storie. Alcuni mi hanno mandato manoscritti per esorcizzare il proprio passato di orrori. Altri ancora mi hanno proposto di scrivere un libro sulle loro vite. Confesso che mi sono ritrovato sommerso e immerso in mille storie diverse, tutte tormentate e dolorose, ma cariche di speranza. Ho letto, ho ascoltato, ma non riuscivo a decidermi sulla storia che meritasse di diventare un libro. Alla fine, ho fatto una scelta: ho isolato tre di queste storie, di altrettanti detenuti, le ho miscelate e costruite attorno a personaggi fittizi, ma non troppo. Ed è venuto fuori questo libro. Tutto quello che ho narrato in “Dove non batte il sole” è, più o meno, accaduto realmente, anche se in contesti diversi, a persone diverse, con sviluppi diversi. Chiunque abbia vissuto storie analoghe si potrà riconoscere, ma nessuno dei personaggi che ho creato esiste davvero. Sono esistite e continuano ad esistere le loro storie. Storie di omicidi efferati, di giustizia negata, di errori e di soprusi. Di condanne spropositate, se non immeritate. Storie di uno Stato qualche volta distratto, qualche altra complice; che avalla patti scellerati, insensibile e tracotante; che non sa difendere i propri figli, anche e soprattutto coloro che sbagliano. Ma che sa riconoscersi anche nei suoi uomini e nelle sue donne migliori, che si battono per far trionfare infine la vera giustizia”. Il romanzo, composto da 55 racconti che sostanzialmente formano i capitoli della storia, è ambientato nella località siciliana immaginaria di Rammusa, “una via di mezzo - spiega Carmelo Sardo - tra Ragusa e Ravanusa, così come soleva fare, ambientando i suoi romanzi in Sicilia, il nostro Andrea Camilleri”. A Rammusa, nella Sicilia barocca dove la mafia non spara e non ammazza più da anni, vengono assassinati marito e moglie nella loro gioielleria. Si pensa a una rapina finita male, ma il magistrato che indaga sospetta di Stefano, il giovane figlio della coppia, studente universitario. Per lui comincia un pesante calvario. Confidava nello Stato per fare giustizia, invece, è costretto a liberarsi di un’accusa infamante. Per farlo, Stefano è tentato di cedere a logiche che ha sempre eticamente respinto. Sa che esistono ancora uomini potenti, che si muovono nell’ombra per garantire tranquillità nel proprio paese. Don Tano Culella è uno di questi. È un boss vecchio stampo che vuole scoprire chi abbia osato fare una cosa simile nel suo paese. E quando viene a sapere che il principale sospettato è Stefano, capisce che qualcosa non quadra. Conosce quel ragazzo da quando era un bambino, abitano nello stesso palazzo. Fatalmente, i destini di don Tano e di Stefano si incroceranno, perché hanno lo stesso obiettivo: la ricerca della verità, a qualsiasi costo. Nella vita tormentata di Stefano, spunta Costanza figlia di un appuntato della Penitenziaria, che fa volontariato in carcere e si batte per l’affermazione dei diritti dei detenuti e del loro recupero. Un romanzo come detto, che prende spunto da storie realmente accadute, in cui emergono le storture di una giustizia con le sue lacune e le sue incongruenze. Un romanzo civile, di impegno sociale che affronta ed elabora i temi di scottante attualità del sistema penale italiano che contempla il fine pena mai: una pena di morte in vita. “Quel che sappiamo - continua il giornalista scrittore - è che ci sono quasi mille e trecento persone condannate all’ergastolo “ostativo” sepolte nelle nostre carceri. C’è perfino chi è andato ben oltre i trent’annidi galera. E non solo si è recuperato, ma ha preso non una, ma due lauree. Sono altri uomini, non sono più il reato che hanno commesso. Ma non ancora per lo Stato italiano”. La bella e accattivante foto in copertina è di Giusi Bonomo e riprende un’opera artistica situata a Scicli. La prima presentazione ufficiale del nuovo romanzo avverrà quasi contestualmente all’uscita del libro, a Roma, in occasione della fiera “Più libri più liberi”. Poi Carmelo Sardo, com’è consuetudine, partirà per una lunga tournée letteraria in giro per l’Italia, in particolare al Sud dove annovera il maggior numero di lettori. Naturalmente tra le prime località dove si presenterà il romanzo, ci sarà Agrigento, città che ha visto nascere l’autore e formarsi professionalmente presso l’emittente televisiva “Teleacras”. Carmelo Sardo, particolarmente amato dai lettori, è uno dei più acuti e appassionati scrittori di storie di mafia e di riscatto. Da quasi quarant’anni si occupa di cronaca. Per quindici anni lo ha fatto dalla Sicilia. Successivamente, dopo due stagioni come inviato del programma Rai “Cronaca in diretta”, il passaggio al “Tg5” dove lavora da venticinque anni ed è oggi caporedattore cronache. Ha esordito nella narrativa con il romanzo “Vento di tramontana” (Mondadori 2010). Nel 2014 con il memoir “Malerba” (Mondadori), scritto con l’ergastolano Giuseppe Grassonelli in cui si narra la sua potente storia, vince il prestigioso “Premio Sciascia”. La sua terza opera di narrativa “Per una madre” (Mondadori 2016), si ispira al suo romanzo d’esordio. Nell’aprile 2017 esce il suo quarto libro “Cani senza padrone. La stidda. Vera storia di una guerra di mafia” (Melampo editore). Nel luglio del 2021 pubblica con Zolfo editore “L’arte della salvezza - storia favolosa di Marck Art”. Infine il 25 novembre, è atteso il suo ultimo “Dove non batte il sole”. Come la lotta contro l’eroina è diventata una guerra contro le persone recensione di Antonella Soldo Il Riformista, 25 novembre 2022 Il testo “Eroina”, di Vanessa Roghi, tiene insieme una storiografia robusta, la cronologia delle scoperte e degli utilizzi medici della sostanza, le vicende politiche, le piccole storie di uomini e donne. “Quando è stato che hai perdonato tuo padre?”. Ogni volta che pensiamo a un drogato, a un tossicodipendente, a un eroinomane non riusciamo a immaginare questo come una persona con i suoi sentimenti, paure, desideri. Un drogato è generalmente descritto come un oggetto di statistiche, di contabilità asettica, di auto-valutazione di una società che reputa sé stessa tanto più sana quanto più riesce a espellere questi soggetti devianti. Eppure Valentina, che si fa di eroina da quando aveva 13 anni e che sconta una pena nel carcere della Giudecca a Venezia, è una donna con sentimenti, paure, desideri. E i suoi sono tutti per sua figlia. Si chiede in continuazione se quella bambina potrà mai perdonarla: per il carcere per la droga, per l’abbandono, per non riuscire a farcela. Se lo chiede e chiede a Vanessa Roghi quand’è che è riuscita a perdonare il suo di padre. Le fa questa domanda il giorno in cui, nel 2018, la scrittrice entra nel penitenziario per presentare “Piccola città. Una storia comune di eroina” (Laterza, 2018). A Valentina è dedicato “Eroina” il nuovo libro di Roghi, appena pubblicato da Mondadori, un vero e proprio compendio umanizzato sulla sostanza più temuta e più stigmatizzata. “Ho iniziato a studiare la storia dell’eroina e della costruzione culturale della figura del drogato qualche anno fa - scrive Roghi - volevo affrontare in prospettiva storiografica l’esperienza che aveva vissuto mio padre insieme a tanti ragazzi e ragazze della sua genera-zione. Ho scoperto che avrei dovuto partire quasi da zero, per quanto riguardava gli studi storici”. E lo fa. Così il testo tiene insieme una storiografia robusta, la cronologia delle scoperte e degli utilizzi medici della sostanza, le vicende politiche che hanno scatenato la guerra alla droga ma anche - e soprattutto - le piccole storie delle persone, quelle che nella narrazione pubblica finiscono sempre con lo sparire sullo sfondo. Leggendo Eroina si scoprono cose interessanti, come il fatto che il consumo di oppio e dei suoi derivati - e pure quello di cocaina - è stato perfettamente legale per molto tempo. Nel XIX secolo queste sostanze hanno goduto di grande fortuna e diffusione presso medici e pazienti, soprattutto nel mondo anglosassone. Forse qualcuno ricorderà come pure in Italia il “papagno” una bevanda ricavata dal papavero veniva dato dalle contadine del Sud Italia ai figli per addormentarli mentre loro lavoravano campi. Dell’uso pediatrico del papavero, del resto, come ricorda Roghi, ne parlavano già Galeno ed Avicenna. L’eroina, come nuovo derivato dell’oppio, arriva in commercio a fine Ottocento come analgesico. Il nome deriva dall’aggettivo con cui l’azienda farmaceutica tedesca Bayer la brevetta: eroica, perché potentissima in minuscole quantità. Perché dà un benessere mai conosciuto prima, lenisce ogni male e soprattutto è meglio della morfina. È così, insomma, che nasce l’eroina, la droga per antonomasia, quella il cui paradigma interpretativo ha condizionato lo sguardo su ogni sostanza. Questo nel nostro Paese prende forma negli anni Ottanta quando Bettino Craxi si fa sedurre dalla war on drugs americana e anche in Italia comincia a diffondersi l’idea che usare droghe fosse sempre moralmente inaccettabile e quindi perseguibile. Tutte le droghe, pure la cannabis. Ma non l’alcool, per esempio. E insieme alla proibizione di una sostanza sorge, inevitabile, lo stigma contro chi la usa. “Perché proibire una sostanza non ha alcuna efficacia se contemporaneamente non si afferma un tabù culturale condiviso”, osserva l’autrice. Fare uso di eroina deve essere percepito come sbagliato da un punto di vista morale e sociale e non semplicemente individuale, sanitario. Occorre affermare che chi si droga non fa male solo a sé stesso. Fa male alla società: è un ladro un assassino, una minaccia per tutti. Ma questa guerra alla droga, infine, si è rivelata essere una guerra alle persone. E quando si è in guerra vale tutto. Si spiega così, forse, anche come è stato possibile che l’informazione su questi temi invece di fornire una cronaca obiettiva e imparziale, ha finito con l’essere un formidabile strumento di diffusione di quel panico morale che permea opinione pubblica e politica. Uno strumento di guerra contro le persone, contro le loro piccole storie. Uno schiacciasassi su vicende come quella di Desirée Mariottini, di cui Vanessa Roghi parla in chiusura del suo libro. La giovane, sedici anni appena, lasciata morire a Roma, a San Lorenzo, in stato di incoscienza dopo essere stata stuprata dagli spacciatori che le avevano dato metadone, eroina e altre sostanze. Sul corpo martoriato di questa ragazza si è svolta una battaglia ideologica che ha visto partecipare tutti: un Ministro dell’interno, manco a dirlo Matteo Salvini, che ha voluto recarsi sul posto per lasciare un fiore e rilanciare la sua guerra alla droga e all’immigrazione clandestina. E in questa tragedia la stampa non ha tardato a ricostruire il profilo di predestinata a quella fine della ragazza. Perché in fondo era una tossica. Dei sentimenti, delle paure, dei desideri di Desirée che aveva solo sedici anni non si è interessato nessuno. Eppure bisognerebbe far capire alle persone che non esistono predestinati a questa fine, che non si è salvi e non si è migliori di quelli che davanti alle domande essenziali della vita una risposta buona non ce l’hanno. E la cercano altrove. Una “proposta bizzarra” per scendere dalle navi e uscire dalle nostre carceri di Francesca de Carolis ultimavoce.it, 25 novembre 2022 Dalla parte di chi lotta per essere riconosciuto, dell’essere umano e dei suoi diritti. “Un evento tutt’altro che “bizzarro” (questo l’aggettivo usato da Giorgia Meloni) e di straordinaria importanza perché professionisti sanitari, sulla base della rilevanza della dimensione della “salute mentale” nella vita quotidiana degli esseri umani, hanno evidenziato i gravi rischi che comporta per la stessa una condizione di restrizione, di detenzione di fatto per settimane su una nave di persone impedite di scendere a terra”. Parole di Luigi Benevelli, psichiatra (fra l’altro fra i protagonisti del movimento dei diritti civili per i portatori di handicap e della costruzione del servizio sanitario nazionale) che, in un intervento pubblicato sul Forum della Salute mentale, controbatte alle dure parole del governo contro i sanitari che nel porto di Catania hanno disposto lo sbarco di tutte, ma proprio tutte, le persone migranti che si trovavano a bordo della “Humanitas” e della “Geo Barents”. Anche di quelle che il governo avrebbe voluto rimandare in mare perché “non fragili e non affette da malattie organiche”. Insomma, il “carico residuale” (quando le parole sono puro orrore…). E forse non si è capita abbastanza la grande novità che Benevelli sottolinea: l’intervento di una squadra di sanitari per accertare anche le condizioni di sofferenza mentale e i rischi per la salute mentale delle persone in una condizione di restrizione, di detenzione di fatto. Che è cosa che riguarda anche chi malato e fragile non è. E come non pensare anche a chi in condizione di restrizione, di detenzione lo è perché incappato, per un motivo o per l’altro, nel meccanismo del nostro sistema penale, che fa fatica a vedere altro che carcere, e carcere e carcere… Come non pensare alle condizioni di sofferenza mentale e ai rischi per la salute mentale di chi è detenuto? Come non pensarlo per tutte, ma proprio tutte le cinquanta quattromila 609 (dato al 31 marzo) persone ben serrate nelle nostre prigioni. Perché in carcere, anche se si arriva sani, ci si ammala, nel fisico e nella mente. E’ cosa che chiunque abbia a che fare con il carcere sa bene. Come tutti sanno che la stragrande maggioranza delle persone detenute fa uso di psicofarmaci. Anche chi prima di mettervi piede magari gli psicofarmaci non sapesse proprio cosa fossero. La detenzione già di per sé può comportare disturbo da adattamento (e sono psichiatri a dirlo) e sappiamo che in genere per ogni istituto di pena è previsto un solo consulente psichiatra, al massimo due negli istituti di grosse dimensioni… Pensando dunque alle prigioni, come navi lasciate alla deriva in acque extraterritoriali, dove i diritti di chi è sulla terraferma qui sono tutt’altro che riconosciuti… e basta scorrere le cronache di un giorno qualsiasi, fra suicidi, denunce, violenze… tutte riassunte oggi dalle parole di Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà, in un’intervista a L’Essenziale: “Il carcere è la risposta a tutto: alla malattia psichiatrica, alla dipendenza da alcol o droghe, alla povertà. E quando le sbarre non bastano, si usa la violenza”. La proposta bizzarra dunque. Tanto per cominciare riportare subito “le navi” in “acque territoriali” e lasciare che attracchino in porto, giusto per chiarire “sotto quale giurisdizione”… e poi ingaggiare squadre di psichiatri che ne varchino i cancelli col preciso compito di valutare i rischi, per la salute anche psichica, di chi è dentro. Esattamente come è stato fatto per i migranti della “Humanitas” e della “Geo Barents”. Un rapporto onesto valuterebbe bene quanto male faccia il carcere all’equilibrio e alla salute mentale di chiunque vi abbia a che fare. Di chi è controllato come dei controllori, oserei dire, senza con questo voler giustificare le violenze dai controllori inflitte ai controllati, come cronache recenti ci dicono… Un rapporto onesto farebbe replicare il “bizzarro evento”, che tanto ha scandalizzato il nostro presidente del consiglio, e potremmo vedere tutti scendere dalle nostre navi/carceri… nella speranza di imbarcarsi in un sistema di pena, non sarà mai troppo presto quando vi si metterà mano, che rispetti i diritti fondamentali delle persone, che ristabilisca la decenza, che restituisca alla pena quel che è della pena, che dovrebbe essere tutt’altro che minaccia alla salute fisica e mentale, tutt’altro che malattia e tortura. Migranti. Ingressi legali e più rimpatri: il piano Piantedosi all’esame Ue di Alessandra Ziniti La Repubblica, 25 novembre 2022 Al Consiglio europeo straordinario dei ministri dell’Interno il capo del Viminale si presenta con una proposta in venti punti. Roma pronta ad accogliere 100 mila migranti con approdi regolari. L’appello alla redistribuzione. Quote di ingressi legali che potrebbero anche arrivare a 100.000 con il decreto flussi 2023, se (e solo se) le filiere produttive lo richiederanno, e forte stretta sui rimpatri. Nella speranza che gli impegni sulla redistribuzione si concretizzino e che il Piano Marshall per l’Africa prenda forma, questo è quello che l’Italia intende fare nell’immediatezza per governare i flussi migratori. E soprattutto questo è quello che l’Italia vorrebbe facesse anche l’Europa. Meccanismi centralizzati condivisi per gestire sia gli ingressi legali che i rimpatri: ecco la proposta che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi porterà oggi sul tavolo del Consiglio straordinario dei ministri dell’Interno della Ue nel tentativo di incanalare verso soluzioni concrete il piano d’azione in venti punti per il Mediterraneo presentato dalla Commissione europea ma che rischia di scivolare giù nella lista delle priorità in vista di un’ondata di nuovi profughi dall’Ucraina. I rimpatri dei cosiddetti migranti economici sono la spina nel fianco del governo. Tanto che - pur nella sostanziale assenza di accordi con i paesi di origine che consentano di rimandarli a casa - il primo provvedimento adottato dal Consiglio dei ministri in tema di immigrazione è stato lo stanziamento, nella legge di bilancio, di 42 milioni di euro per ampliare la rete dei Cpr, i terribili centri di permanenza per il rimpatrio dei migranti espulsi. Veri e propri centri di detenzione amministrativa, quasi sempre in condizioni poco dignitose, dove la vita è scandita da rivolte e suicidi e dove in attesa di un volo che non arriva quasi mai, i migranti vengono trattenuti per periodi che possono arrivare fino a quattro mesi. Non un euro per l’accoglienza, nonostante proprio ieri a Milano il ministro Piantedosi abbia ribadito che “il sistema garantito dai sindaci è in forte difficoltà e necessita di una programmazione adeguata”, e invece 42 milioni in tre anni per l’ampliamento e l’adeguamento dei centri di rimpatrio e per le spese di gestione. Una scelta quella del governo che la dice lunga sulla strategia che l’Italia intende portare avanti per contrastare i flussi migratori: trasformare in detenuti di fatto, in strutture affidate a privati fuori dalla giurisdizione di qualsiasi magistrato di sorveglianza, i migranti che non presentano i requisiti per ottenere l’asilo. Cercando allo stesso tempo di frenare i movimenti secondari verso gli altri Paesi che l’Europa ci rimprovera di favorire e facendo leva su un altro elemento di dissuasione a mettersi in mare per chi non ha diritto a rimanere. Attualmente in Italia i Cpr attivi sono dieci per 1.100 posti che, per lo più, ospitano soggetti ritenuti pericolosi, con precedenti penali, condannati e comunque originari dei pochissimi Paesi con cui l’Italia ha stretto accordi per il rimpatrio. E più di 3.000 persone all’anno non si è mai riusciti a rispedire indietro. Per tutti gli altri (circa 50.000 nel 2022) il provvedimento di espulsione equivale ad un foglio di via verso la libertà in clandestinità. “Quello fondato su hotspot, Cpr, rimpatri, è un sistema caratterizzato da molte sofferenze inutili e grande dispendio di denaro”, dice Danielle de Robert, componente del collegio del Garante nazionale dei detenuti. Nel 2021 meno della metà degli immigrati chiusi nei Cpr sono stati effettivamente rimpatriati, gli altri dopo 3 o 4 mesi di (a quel punto) illegittima detenzione sono stati lasciati liberi. La china di una vecchia fallimentare stagione che l’Italia si appresta a risalire. Migranti. Morì di fatica raccogliendo pomodori. Condannati imprenditore e “caporale” di Claudio Tadicini Corriere del Mezzogiorno, 25 novembre 2022 Inflitti 14 anni e mezzo a testa. La tragedia avvenne nel 2015. Due condanne e ventinove anni di carcere complessivi per la morte del bracciante sudanese Mohammed Abdullah, stroncato all’età di 47 anni da un malore fatale, mentre - per pochi euro all’ora - raccoglieva pomodori nelle campagne di Nardò, sotto al sole cocente ed una temperatura che sfiorava i 40 gradi. Senza un contratto, senza sosta né riposo. E senza essere stato sottoposto ad alcuna valutazione medica sul suo stato di salute, che avrebbe potuto evitare il dramma. Sul banco degli imputati erano finiti un imprenditore ottantenne di Porto Cesareo, ed un quarantaduenne sudanese, ritenuto un mediatore per gli arrivi in Salento dei braccianti. Per entrambi, i giudici della Corte d’Assise di Lecce hanno emesso una condanna a 14 anni e 6 mesi di carcere ciascuno. Erano accusati di riduzione in schiavitù ed omicidio colposo, per i quali la pubblica accusa aveva chiesto la pena di complessivi 23 anni, equamente divisi tra i due imputati. Il collegio composto dal presidente Pietro Baffa, dalla collega Maria Francesca Mariano e dai giudici popolari, tuttavia, ha aumentato la pena di tre anni per entrambi in relazione alla prima accusa: il perché si scoprirà col deposito delle motivazioni. La tragedia si verificò nel primo pomeriggio del 20 luglio 2015, in località Pittuini. Mohammed Abdullah era un bracciante stagionale, marito e padre. Uno dei tanti lavoratori extracomunitari che, per 50 euro, si spezzavano la schiena anche per dodici ore al giorno. A volte pure senza acqua per dissetarsi, al punto che accusa e parti civili, nel ricostruire la vicenda in aula, usarono espressioni come “schiavitù moderna” e “mortificazione della persona umana”. I due imputati erano accusati di avere costretto i braccianti a lavorare “in stato di soggezione continuativa, in una condizione analoga alla schiavitù, costringendoli a prestazioni lavorative nei campi in condizioni di assoluto sfruttamento”. Ed anche senza alcuna valutazione medica sul loro stato di salute, che avrebbe potuto salvare la vita allo sfortunato sudanese, risultato affetto da una polmonite virale che avrebbe contribuito a determinare il tragico epilogo. I giudici hanno inoltre disposto una provvisionale di 50.000 euro in favore della moglie e della figlia della vittima nonché il risarcimento del danno (in separata sede) alle stesse e alle altre parti civili Flai-Cgil Brindisi e Cgil Lecce, Cidu (centro internazionale dei diritti umani) insieme a “Mutti” e “Conserva Italia”, le due aziende alle quali erano destinati i pomodori raccolti dai lavoratori stagionali. Russia. “Multe e carcere”: la Duma approva la legge anti Lgbt di Enrico Franceschini La Repubblica, 25 novembre 2022 L’omosessualità viene criminalizzata: “Virus occidentale contro di noi”. Nel mirino anche media e letteratura. La Russia apre un nuovo fronte, in parallelo a quello in Ucraina: la guerra contro gay, bisessuali e transessuali. Contro chiunque manifesta atteggiamenti diversi dalla “famiglia tradizionale”, secondo la definizione della nuova legge approvata ieri dal parlamento di Mosca. Il provvedimento colpisce la “propaganda” a favore della comunità Lgbt con divieti, pesanti multe e per gli stranieri l’espulsione, in certi casi preceduta dal carcere. Amare una persona del proprio stesso sesso non è equiparato a un crimine, ma le conseguenze sono simili. L’iniziativa espande una legislazione analoga esistente già dal 2013 solo per i minorenni, allargandola agli adulti. Rappresenta una minaccia non soltanto per gli individui, ma pure per associazioni, media, web, pubblicità, cinema, narrativa e ogni forma di comunicazione, che rischia la censura. In teoria opere come Lolita di Nabokov e I demoni di Dostoevskij potrebbero essere messe al bando, anche se i parlamentari affermano di non volere vietare i classici. Ma è un confine labile. L’obiettivo apparente è attaccare i diritti Lgbt come parte dell’offensiva contro l’Occidente, visto alla stregua di un virus che contagia i valori tradizionali della Russia. In sostanza, è un’altra faccia dell’invasione dell’Ucraina. “Questa decisione proteggerà i nostri figli e il futuro del nostro Paese dalle forze oscure diffuse da Usa ed Europa”, afferma Vjacheslav Volodin, il presidente della Duma. “Abbiamo le nostre tradizioni e i nostri valori”. Approvata all’unanimità, la legge vieta espressamente “la propaganda e la promozione” dei valori Lgbt, della pedofilia e del cambio di genere. Per la violazione del divieto di promuovere “rapporti sessuali non tradizionali” è prevista una multa in rubli per l’equivalente da 800 a 80 mila euro, a seconda che l’infrazione sia commessa da persone fisiche o giuridiche. Le società potranno incorrere nella sospensione delle loro attività fino a tre mesi. Stranieri e apolidi possono essere espulsi, in determinate circostanze dopo l’arresto e quindici giorni di prigione. Film e altre opere che “promuovono relazioni non tradizionali” non riceveranno il permesso di distribuzione. Già in precedenza, del resto, una pellicola come Rocketman, sulla vita di Elton John, era stata largamente tagliata in Russia per cancellare ogni riferimento all’omosessualità del cantante. Passata dalla Duma, la nuova legge deve essere approvata dal Consiglio della Federazione e firmata da Vladimir Putin, ma sono formalità. Se c’era qualche speranza di una pur minima opposizione fra i deputati, ai quali il segretario di Stato americano Antony Blinken aveva rivolto un appello, la votazione all’unanimità l’ha smentita: “È la migliore risposta all’interferenza degli Usa”, commenta sdegnato Volodin. “La lotta contro l’Occidente non si svolge soltanto sul campo di battaglia”, gli ha fatto eco il suo vice Pjotr Tolstoj, pronipote dell’autore di Anna Karenina, alludendo alla guerra in Ucraina, “ma anche nella sfera dell’informazione e della cultura: è in corso una battaglia per i cuori e le menti dei nostri giovani. La propaganda Lgbt è diventata un killer silenzioso che distrugge le anime”. Parole analoghe a quelle usate recentemente dallo stesso Putin: “Vogliamo insegnare ai nostri bambini che, oltre a donne e uomini, esistono i generi? Vogliamo avere anche qui, invece che un padre e una madre, un genitore 1 e un genitore 2? Siamo ammattiti?” Ma è la Russia, nella crociata antioccidentale condotta dal capo del Cremlino, che sta perdendo la testa. Insieme alle libertà conquistate dopo il crollo del comunismo. Malesia. Dal carcere per “sodomia” al governo: Anwar Ibrahim il riformista non fa più paura di Emanuele Giordana Il Manifesto, 25 novembre 2022 Processi-farsa per 23 anni prima della rivincita: è il nuovo primo ministro della “tigre”. La sua visione: un islam liberale e democratico che sia modello di giustizia sociale. Le turbolenze politiche post elettorali della Malaysia non meriterebbero forse un particolare approfondimento se il vincitore finale della partita, Anwar Ibrahim, non fosse un personaggio davvero particolare. Che, da tre decenni, ha alternato il potere alla prigione riuscendo sempre a riemergere nel panorama politico locale mettendosi alla testa di movimenti progressisti. Islamista modernista, intellettuale raffinato, parlamentare già vicepremier e più volte ministro, Anwar Ibrahim, classe 1947, fu accusato nel 1999 e incarcerato per sodomia, “reato” ancor più grave - da cui è stato assolto uscendo di galera nel 2004 - in un Paese governato dalla morale islamica e dove la sua supposta “devianza” fu un evidente grimaldello politico per rimuoverlo dalle stanze del potere: le sue riforme avrebbero messo in difficoltà un’economia che non ne voleva certo sapere di finanza islamica dove gli istituti di credito - nella testa di Anwar - dovevano funzionare da volano popolare e non da generatori di profitto per le banche stesse. ERA TANTO SCOMODO che nel 2015 un secondo processo per sodomia lo vide di nuovo dietro le sbarre, cosa che non gli impedì di correre alle elezioni 2018 (dal carcere) e di vincerle, mossa che gli consentì di ottenere il perdono reale per uscire definitivamente di galera. Ma andiamo con ordine. Anwar è da ieri il nuovo primo ministro della Malaysia, la federazione del Sudest asiatico conosciuta in passato come “tigre” di un boom economico senza precedenti nonché per la capacità non scontata di essere un Paese multietnico (malesi, cinesi, indiani, indigeni) che è sempre riuscito, benché su una fragile faglia, a mantenere un certo equilibrio tra nazionalismo malese, radicalismo islamico e scontento delle minoranze. Nelle ultime elezioni, dopo un avvicendarsi di “governi del re”, repentini cambi della guardia, bizzarre alchimie nelle coalizioni, è stato il sultano, cui la Carta di questa monarchia costituzionale dà diritto all’ultima parola, a scegliere il primo ministro. E ha scelto Anwar Ibrahim. La cronaca recente racconta che la coalizione Pakatan Harapan (PH) guidata da Anwar vince 82 seggi ma gliene mancano 30 per ottenere la maggioranza di 112 in parlamento. La coalizione conservatrice Perikatan Nasional (PN), guidata dall’ex primo ministro Muhyiddin Yassin, ne ottiene 73. Entrambi reclamano la presidenza del governo e segue una situazione di stallo. IN PARLAMENTO c’è dunque da corteggiare sia la coalizione Barisan Nasional (BN), che ha dominato la scena politica malaysiana fino al 2018 ma ha raggranellato solo 30 seggi, sia altri che vanno da uno a 23 scranni. Scampoli per fare la differenza. Lo stallo viene risolto dal sultano Abdullah, un re a “rotazione” con altri del suo rango, cui spetta il titolo di Yang di-Pertuan Agong. Incontra sia Muhyiddin sia Anwar e propone un governo di unità nazionale ma il primo rifiuta. Altro giro col Barisan Nasional e gli altri partiti. Alla fine della verifica nomina Anwar. Il suo passato “sodomitico” è ora alle spalle e così una vicenda piena di lati oscuri, menzogne, propaganda e un processo criticato aspramente per le trame politiche di corridoio. Ma la Malaysia è anche un Paese di paradossi: l’artefice della prigionia di Anwar è sempre stato visto nel suo ex mentore Mahathir Mohamad, uno dei leader più inossidabili della Storia. IL VECCHIO BURATTINAIO malese (classe 1925), che ha appena ricevuto una batosta alle ultime elezioni in cui non è stato eletto, ha accumulato oltre settant’anni di attività politica di cui 24 come premier (da luglio 1981a ottobre 2003 e da maggio 2018 a marzo 2020) il che ne fa uno dei più longevi primi ministri del mondo. È lui che dà ad Anwar la possibilità di emergere. Ma quando il rampollo emerge troppo gli tarpa le ali. La popolarità di Anwar però cresce anche quando è in galera. Le voci su una possibile montatura, l’attivismo di sua moglie Azizah, la sua vocazione riformista e la scelta di fare della Malaysia un Paese sempre più inclusivo gli fanno guadagnare consensi. La sua visione è quella di un islam democratico e liberale che possa essere modello di giustizia sociale basato sui bisogni e non sull’appartenenza etnica in un Paese dove i malesi (bumiputra) sono sempre stati favoriti. Un altro paradosso? Nel 2018, mentre Anwar era in cella, fu Mahathir, dopo un accordo, a guidare la sua Pakatan Harapan alla vittoria. Ora però la scena è tutta per lui.