Suicidi in carcere: l’emergenza che non importa a nessuno di Ermes Antonucci Il Foglio, 24 novembre 2022 Da inizio anno, 80 detenuti si sono tolti la vita: la cifra più alta nella storia repubblicana. Di fronte a questo dramma senza fine, si resta allibiti per il silenzio delle istituzioni e della politica. Ottanta: è il numero dei detenuti che da inizio anno si sono tolti la vita nelle carceri italiane. Si tratta della cifra più alta nella storia repubblicana, o almeno da quando esiste un sistema di monitoraggio (il record precedente si era registrato nel 2009, quando a fine anno i suicidi erano stati 72). A far raggiungere questa cifra drammatica sono stati i casi di due detenuti che lunedì si sono suicidati nel carcere di Foggia e in quello fiorentino di Sollicciano. Ma a far impallidire sono anche i dati che riportano oltre mille tentativi di suicidio sventati nell’anno in corso grazie all’intervento degli agenti di polizia penitenziaria. Di fronte a questo dramma senza fine, si resta allibiti per il silenzio delle istituzioni e della politica. Nessuno infatti, negli ultimi giorni e nelle ultime ore, ha commentato quella che sembra essere ormai un’emergenza democratica. Su questo occorre sgomberare subito il campo da semplificazioni qualunquiste: la colpa delle condizioni di vita incivili negli istituti di pena e del record storico di suicidi tra i detenuti non può certamente essere addebitata al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, insediatosi a ottobre, né al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi, nominato lo scorso marzo. Proprio Nordio, anzi, ha individuato nell’emergenza carceraria una delle priorità della sua azione, come confermano le prime uscite istituzionali al carcere di Regina Coeli e a quello di Poggioreale a Napoli. Dall’altro lato, il capo del Dap Renoldi ha emanato ad agosto una circolare contenente “iniziative per un intervento continuo in materia di prevenzione delle condotte suicidarie delle persone detenute”, indirizzata ai provveditori regionali dell’amministrazione penitenziaria e ai direttori degli istituti di pena. Una circolare che sembra aver avuto comunque scarso effetto. E però c’è qualcosa che colpisce nel silenzio tombale proveniente dal ministero e dal Dap sul bollettino quasi quotidiano dei detenuti che hanno deciso di ammazzarsi sotto la custodia dello stato. Di fronte agli ultimi eventi nessun messaggio, neanche istituzionale, è giunto da via Arenula, mentre il Dap - contattato dal Foglio - fa sapere che il suo presidente, non essendo in sede, non può rilasciare commenti o interviste. Una modalità piuttosto discutibile di affrontare il tema dal punto di vista comunicativo e agli occhi della pubblica opinione. Tra i partiti la situazione non cambia. Persino il Partito democratico, l’unico partito ad aver previsto un capitolo dedicato alle carceri nel proprio programma elettorale, non è intervenuto sul tema. Nel centrodestra a trazione meloniana, i diritti dei carcerati non risultano essere di certo la priorità, tranne rare eccezioni. Come quella del senatore di Forza Italia, Pierantonio Zanettin, che a inizio mese ha presentato un’interrogazione al ministro Nordio per sapere “quali urgenti iniziative di propria competenza il governo intenda assumere per far fronte alla drammatica situazione del sistema carcerario italiano”. Nel frattempo, sono trascorse tre settimane. “Il dato degli 80 suicidi è agghiacciante - afferma Zanettin al Foglio. È del tutto evidente che la condizione carceraria si è aggravata e su questo ha inciso una politica ispirata a una concezione carcerocentrica della pena, che io addebito in particolare al dicastero Bonafede”. “La questione si è posta anche durante le audizioni di martedì che riguardavano il decreto sull’ergastolo ostativo e sul rave - prosegue il senatore di Fi - Tutti gli auditi si sono mostrati critici rispetto all’ampliamento, avvenuto negli ultimi anni, dei reati ostativi alla concessione dei benefici penitenziari. Sta di fatto che ormai le carceri scoppiano”. “Sono convinto che la situazione debba essere monitorata e attenzionata dalla politica, cosa che però non sta avvenendo, nonostante questi numeri agghiaccianti”, conclude Zanettin. Caro Nordio, chiudi quelle carceri punitive di Michele Miravalle* Il Riformista, 24 novembre 2022 Le 190 galere italiane non sono tutte uguali. In alcune, alla privazione della libertà, si aggiungono pene accessorie fatte di soprusi e botte. E c’è pure chi pensa che siano funzionali: è il metodo “bastone e carota...”. C’è una mappa che non si trova su Google né sul sito del Ministero della Giustizia, ma è nota a chiunque si occupi di carcere in Italia. È la geografia delle carceri punitive. Perché gli oltre 190 istituti penitenziari del Paese non sono tutti uguali. E non è solo questione di denominazione normativa (casa circondariale, casa di reclusione, casa di lavoro o colonia agricola), ma di confini invisibili, informali. Ci sono galere dove alla restrizione della libertà si aggiungono una serie di pene accessorie fatte di sopraffazione, violenze, soprusi, botte, tante botte. Non sono tutte, anzi non si avvicinano neanche la maggioranza, ma esistono. C’è addirittura chi ne riconosce una funzione, perché - (s)ragiona - il sistema per funzionare ha bisogno di sticks and carrots, bastoni e carote. Per chi se lo merita, c’è la speranza di finire in carceri perbene, gli altri, l’umanità in eccesso, finisce invece nelle carceri permale. È la riedizione applicata all’esecuzione penale dell’anacronistica strategia dei premi e sanzioni, usata dai pedagogisti conservatori o dagli addestratori di animali da circo. L’inchiesta della procura della Repubblica di Ivrea ha reso - finalmente - di dominio pubblico il fatto che Ivrea è uno dei punti di quella mappa delle carceri punitive. La procura eporediese ha infatti iscritto nel registro degli indagati 45 persone tra appartenenti alla polizia penitenziaria, i direttori che si sono succeduti alla guida di quel carcere, alcuni medici, nonché (ed è la prima volta in un’inchiesta per tortura, triste primato) anche alcuni funzionari giuridico pedagogici, cioè gli educatori, coloro che più di tutti dovrebbero mettere in pratica il principio rieducativo della pena previsto dalla Costituzione. Con Ivrea si aggiunge così una voce all’elenco delle indagini e dei processi per tortura nelle carceri in Italia, una quindicina in tutto dal 2017, anno in cui il reato di tortura è stato inserito nel codice penale. Nell’elenco ci sono il processo per la “mattanza della settimana santa” di Santa Maria Capua a Vetere (120 indagati, 85 capi d’imputazione), ma anche quello che riguarda un altro carla cere piemontese, Torino: anche in quel caso è stata imputata tutta la catena di comando dell’istituto, dagli agenti in sezione, al direttore, al comandante della polizia penitenziaria. C’è però un particolare non irrilevante: Ivrea era già in quell’elenco. Tra il 2015 e il 2016 proprio a Ivrea sarebbero avvenuti almeno tre violentissimi pestaggi a danni di persone detenute, descritti in esposti dell’allora garante comunale delle persone private della libertà e dell’associazione Antigone. L’iniziale indagine della Procura fu lenta e farraginosa, tanto da spingere la procura generale presso la Corte d’Appello di Torino ad avocare l’inchiesta. In quei primi tre procedimenti sono 25 le persone indagate tra agenti e medici compiacenti che attestavano che ecchimosi e ferite delle persone detenute fossero causati da cadute e “scivolamenti” e non da violenti pestaggi. Quell’inchiesta fece ovviamente clamore, ma, incredibilmente, non trasformò per nulla quel carcere. La nuova inchiesta riguarda fatti avvenuti con le stesse brutali modalità e negli stessi luoghi, ma in anni successivi, fino all’ultimo episodio dell’agosto scorso, denunciato da Antigone. Il copione si ripete, identico a se stesso. Ad Ivrea il luogo dove i detenuti vengono portati per essere menati si chiama l’”acquario”. Non immaginatevi una segreta buia in qualche sotterraneo: quella stanza è lì, sotto gli occhi di tutti, accanto all’infermeria, con le pareti trasparenti, proprio come gli acquari, in attesa del prossimo “ospite”. Sono luoghi come l’acquario che rendono indegne le carceri italiane e infangano il lavoro onesto dei tanti operatori penitenziari che ci provano, nonostante tutto. Sarebbe un inaspettato regalo alla nazione se il neo ministro Carlo Nordio chiudesse gli “acquari” sparsi nel Paese. In tanti potrebbero disegnare la mappa di dove si trovano. *Ricercatore in Sociologia del diritto, Università di Torino, coordinatore Osservatorio sulle condizioni detentive, associazione Antigone Melillo: “Carceri panacea? Sono piene di telefonini…” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 24 novembre 2022 Davanti alla commissione Giustizia del Senato, il capo della Direzione Nazionale Antimafia segnala i paradossi del sistema. L’ormai celebre decreto “anti-rave” verrà sicuramente modificato dal Parlamento in sede di conversione. È stata infatti la stessa maggioranza, al termine delle audizioni ieri in commissione Giustizia al Senato, a chiedere al governo di intervenire su alcuni punti del testo, come la tipizzazione del reato, le misure di prevenzione, l’entità della pena in modo che non si debba procedere con le intercettazioni, la previsione specifica della “tutela della pubblica incolumità”. E per gli emendamenti, alla luce delle criticità segnalate da parte di avvocati, magistrati e accademia, ci sarà qualche giorno in più, rispetto alla iniziale scadenza fissata per lunedì prossimo. Soddisfazione a tal riguardo è stata espressa dal capogruppo di Forza Italia in commissione Pierantonio Zanettin. Di diverso avviso le opposizioni. Il dem Walter Verini ha chiesto il “ritiro” del provvedimento: “Permangono fortissimi dubbi di costituzionalità, si rischia di colpire il diritto a manifestare di studenti, lavoratori, perfino dei tifosi”, ha affermato Verini, secondo il quale “è del tutto evidente che non ci siano requisiti di necessità e urgenza che giustifichino la decretazione”. Riguardo la decisione di sospendere la riforma Cartabia, sarebbe stata necessaria, secondo il senatore dem, una sua applicazione “per una giustizia più efficace e per processi più rapidi”. E sullo scottante tema dell’ergastolo ostativo, infine, “ci vorrebbe equilibrio tra i contenuti della sentenza della Corte e la necessità di tutelare la sicurezza dei cittadini, evitando di dare benefici a persone che mantengono legami associativi con la criminalità”, aggiunge Verini. A proposito di carcere, è stata particolarmente “illuminante” l’audizione del procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo. Il magistrato, già procuratore di Napoli, ha raccontato quanto accaduto ultimamente nel carcere di Secondigliano, dove sono detenuti anche esponenti dei clan camorristici. Coloro che, per legge, sono sottoposti a un regime detentivo molto stringente. Durante una attività di controllo, ha affermato Melillo, risultavano “agganciati” alle celle telefoniche ben 260 cellulari. Un numero elevatissimo considerato che la popolazione carceraria di Secondigliano si aggira sulle 1000 unità. In pratica un detenuto su quattro aveva la disponibilità - illecita - di un apparato telefonico. Circostanza che non può non far riflettere i fautori di un regime detentivo sempre più esteso e che però, evidentemente, non costituirebbe la soluzione del problema. Sempre Melillo, poi, ai fini della valutazione del comportamento tenuto in carcere per la concessione dei benefici di legge, ha ricordato che i detenuti appartenenti ai clan mafiosi sono quelli “maggiormente rispettosi delle regole” penitenziarie. Un dato anche questo che non può non essere preso in considerazione alla luce delle nuove attribuzioni a tal riguardo dei magistrati di sorveglianza. Melillo: “Dl sull’ergastolo ostativo va scritto meglio. La Dna abbia accesso ai dati del ministero” di Antonella Mascali Il Fato Quotidiano, 24 novembre 2022 Il decreto legge sull’ergastolo ostativo deve essere più stringente e va pure scritto meglio. Lo ha detto ieri il Procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, ascoltato in commissione Giustizia del Senato. Il magistrato ha evidenziato che per il detenuto mafioso, il quale vuole ottenere la libertà condizionale anche se non ha collaborato, va introdotto l’obbligo di spiegare i motivi del mancato contributo alla giustizia perché “è un profilo essenziale anche per la valutazione sul ravvedimento, oltre che sulla rescissione dei legami criminosi e sul pericolo della loro insorgenza”. Melillo ha messo in guardia sulla “capacità straordinaria” delle mafie “di piegare le strategie processuali a scelte in grado di deformare il significato della dissociazione” che serve “a ridurre il danno per chi ha commesso reati di sangue e stendere un velo impenetrabile sulle componenti più sofisticate del circuito criminoso”. Via dal decreto anche il silenzio consentito a un ergastolano mafioso, sul suo patrimonio: “Mentre il detenuto collaboratore è chiamato a dire quali sono i suoi beni, per accedere al piano di protezione, quello non collaboratore può serbare il silenzio. Si svilisce il valore della collaborazione”. Inoltre, dover dichiarare i propri beni “diventerebbe un profilo verificabile realisticamente” e consentirebbe al giudice “di formulare delle decisioni più avvedute”. Due proposte, quelle del procuratore nazionale, in linea con gli emendamenti a firma dell’ex Pg di Palermo Roberto Scarpinato, senatore M5s., anticipati dal Fatto. Melillo ha anche avanzato una richiesta: ottenere, come procura nazionale antimafia, l’accesso “ai sistemi informatici del ministero della Giustizia. Incrociare i dati sui colloqui, le rimesse in denaro dei detenuti dell’alta sicurezza è essenziale per esprimere pareri qualificati”. A fine audizione, il magistrato ha raccontato di “aver aderito ad alcuni rilievi critici” mossi dalla Sorveglianza perché “il decreto è scritto male, ci sono dei reati considerati” in più commi “e non si capisce bene cosa dovrebbe fare il magistrato di Sorveglianza. Poi ho chiesto la partecipazione da remoto perché nel provvedimento si prevede che i magistrati di Palermo possano partecipare a delle udienze a Sassari. Mi pare difficile che si possano trasferire ogni settimana da una parte all’altra”. Lunedì scade il termine per presentare gli emendamenti anche sulle contestate norme “anti rave” considerate da più parti talmente “generiche” da poter colpire con il carcere il dissenso di piazza. Riforma Cartabia, tregua a tempo: Fratelli d’Italia studia il restyling di Errico Novi Il Dubbio, 24 novembre 2022 Confermata l’impossibilità di introdurre, già nel decreto 162, modifiche ai contenuti “garantisti” del testo firmato dalla ex guardasigilli. Ma dopo la conversione in legge del provvedimento che riguarda anche i rave e l’ostativo, il partito di Giorgia Meloni intende tornare sulle nuove norme in materia di sanzioni e ridurre il ricorso alle pene extracarcerarie. Partiamo dalle certezze: la legge di conversione del decreto 162, meglio noto come “decreto Rave”, non includerà interventi “di merito” sulla riforma Cartabia. Il Dubbio ne aveva dato anticipazione, sul punto arrivano ulteriori conferme: non ci sono le condizioni di tempo necessarie per ridurre subito, ad esempio, le aperture sulle pene extracarcerarie previste dalla ex guardasigilli, spiegano fonti della maggioranza. È confermata dunque la determinazione dello stesso ministro Carlo Nordio nell’emendare il decreto 162, relativamente alla parte sul nuovo processo penale, esclusivamente per sciogliere i nodi applicativi e organizzativi. Nello stesso tempo, dalla maggioranza emerge pure un’altra prospettiva: una volta che il decreto “Rave-Cartabia-Ostativo” sarà convertito in legge, alcuni dei partiti di governo, certamente Fratelli d’Italia e forse la Lega, predisporranno un restyling della riforma penale. In particolare, proporranno modifiche sulle norme che riducono il ricorso alle pene inframurarie. Sembrano scenari in contraddizione fra loro. Ma non lo sono. Spiega una fonte di maggioranza: “Non ci sono le condizioni per modificare ora, nel merito, le parti del testo Cartabia che riguardano le sanzioni, cioè il maggiore ricorso a pene extracarcerarie. Non sussistono le condizioni rispetto all’iter di conversione del decreto 162, che dovrà essere assai rapido, perché sul Parlamento incombe l’esame di altri provvedimenti cruciali”. La stessa fonte però aggiunge: più avanti, di qui a un paio di mesi, le modifiche sul sistema sanzionatorio previsto dalla ex guardasigilli saranno praticabili. Andranno calibrate, certo, con le esigenze del Pnrr: nel senso che, come ha detto il viceministro Francesco Paolo Sisto due sere fa all’iniziativa milanese “Italia direzione Nord”, mettere in discussione la portata “deflattiva” della riforma penale imporrebbe una ricontrattazione con l’Unione europea. Eventuali future modifiche sugli aspetti più “garantisti” della riforma Cartabia andranno dunque studiati in modo da non compromettere le aspettative di Bruxelles sulla riduzione dei tempi processuali. E come si farà? Andiamo con ordine. Intanto oggi i rappresentanti della maggioranza nella commissione Giustizia del Senato hanno chiesto al governo di elaborare quanto prima le necessarie modifiche al decreto 162 relative al “reato di rave”. La presidente Giulia Bongiorno, della Lega, potrebbe concedere una proroga del termine per gli emendamenti parlamentari, adesso fissato a lunedì prossimo. Di sicuro, non ci si potrà allargare molto: il presidente del Senato Ignazio La Russa, sul punto, è stato tassativo. In ogni caso, a parte i tempi troppo stretti per pensare al restyling immediato dell’altra materia contenuta nel decreto 162, la riforma Cartabia appunto, va ribadito che l’ipotesi di provvedervi in un futuro prossimo è concreta ma tuttora subordinata a un “supplemento di riflessione”. Gli esponenti di Fratelli d’Italia e della Lega intendono confrontarsi anche con i tecnici del ministero che, come anticipato sempre dal Dubbio, sono all’opera fin dal giorno in cui il decreto 162 è stato emanato (lo scorso 31 ottobre) per elaborare intanto gli emendamenti necessari alla transizione normativa e alla macchina organizzativa. Si tratta di due gruppi di lavoro, istituiti da Nordio, che per ora hanno una mission limitata ai citati aggiustamenti tecnici. Ma in un secondo momento sarà sempre con loro che FdI e Lega dovranno confrontarsi per valutare in che modo la riforma Cartabia sia modificabile senza creare conseguenze dannose per il Pnrr. Contemporaneamente, Fratelli d’Italia ha affidato una “due diligence” sulla riforma Cartabia al proprio Ufficio Studi e legislazione. L’idea, a quanto risulta, è trovare un punto di equilibrio che consenta di non stravolgere del tutto la riforma penale sul fronte delle misure extracarcerarie ma di evitare comunque che i condannati per reati di un certo allarme sociale possano scontare la condanna fuori prigione. Non sarà facile. Da ultimo, va richiamato un dettaglio non trascurabile, che può essere considerato il sigillo assoluto sull’impossibilità di un restyling immediato: in una relazione trasmessa alla commissione Giustizia del Senato nell’ambito delle audizioni, il professor Gian Luigi Gatta - ordinario di Diritto penale a Milano che è stato fra i più stetti collaboratori di Cartabia e fra gli estensori materiali della riforma - ricorda le pronunce della Cassazione e della Consulta che limitano il perimetro degli emendamenti ammissibili nella conversione dei decreti legge. In particolare, segnala Gatta, non si può esorbitare dal provvedimento di urgenza, che, nello specifico, prevede il solo rinvio dell’entrata in vigore e la contestuale definizione di norme transitorie e organizzative. Ogni intervento sul merito della riforma rischierebbe di produrre persino un difetto di costituzionalità. È un caveat che taglia la testa al toro, se vogliamo. Ma che certo, può rinviare soltanto la decisione del governo e dei partiti di maggioranza sulla politica penitenziaria. E cioè, sulla continuità con l’orientamento deflattivo di Cartabia o su una cesura che ridimensioni quelle aperture. “Dl Rave”, i tecnici bocciano la norma: scritta male di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2022 Magistrati, professori e avvocati penalisti auditi in Commissione Giustizia del Senato : norma troppo vaga. Allo studio diverse ipotesi per modificare il testo: riduzione della pena massima; riferimento esplicito allo spaccio di stupefacenti; innalzamento a 100 persone dei partecipanti; aggiunta della parola “musicali” ai raduni. Troppo vaga la norma con cui il governo ha introdotto il reato di rave party, con il rischio più che concreto che alla fine possa essere punita qualsiasi tipo di occupazione, se un questore o un prefetto vi veda un pericolo per l’ordine pubblico. Davanti alla Commissione Giustizia del Senato, punto di partenza dell’iter parlamentare del primo decreto legge del governo Meloni, sfilano i tecnici, 16 tra giuristi e professori. E vanno giù duri sulle nuove norme che la maggioranza potrebbe parzialmente modificare in sede di conversione del decreto. Un accordo per alcune limature al testo si starebbe profilando tra le forze che sostengono il governo, a partire dalla pena massima di sei anni che verrebbe abbassata nella misura necessaria per evitare che sia possibile il ricorso alle intercettazioni. Ma il tempo stringe: lunedì scadrà il termine per la presentazione degli emendamenti in Commissione. Questa mattina è stata la volta del Procuratore Nazionale Antimafia, Giovanni Melillo. “Ho aderito - ha detto - ad alcuni rilievi critici mossi dai magistrati di sorveglianza perché il decreto è scritto male. Nel senso che ci sono dei reati considerati sia dal primo comma bis, sia dal primo comma ter e non si capisce bene cosa dovrebbe fare il magistrato di sorveglianza...”. Ieri invece era stata la volta del presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia, il primo ad essere ascoltato dalla Commissione presieduta da Giulia Bongiorno. “La norma che introduce il criterio del pericolo per l’ordine pubblico, la salute pubblica e l’incolumità pubblica è troppo generica,” avverte. E per questa sua “vaghezza”, “rischia di non raggiungere il suo obiettivo: soprattutto non viene in alcun modo descritto il pericolo a cui fa riferimento”. Anche il leader dell’Unione delle camere penali Giandomenico Caiazza ha puntato l’indice sulla “assoluta indeterminatezza” del nuovo reato: “il testo parla di tutto fuorché dei rave party,”. E se restasse così, potrà essere colpita “qualunque forma di assembramento riconducibile al concetto di ‘invasione’ di un terreno o di un edificio, per qualunque ragione che un qualunque Questore o Prefetto giudicherà ‘essere pericolosa per l’ordine pubblico”. Non solo: Caiazza, esprime “forti dubbi” sui requisiti di necessità e urgenza che dovrebbero giustificare il dl. Le limature verso cui si starebbe indirizzando la maggioranza andrebbero nella direzione di “tipizzare” il reato per evitare appunto che le nuove norme si possano applicare all’occupazione di fabbriche, università e scuole. Una strada potrebbe essere quella di un riferimento esplicito allo spaccio di stupefacenti che indica tra i terreni di possibile accordo anche l’innalzamento a 100 persone della quota minima dei partecipanti al rave perché possa sussistere il reato. Un’altra ipotesi sarebbe aggiungere la parola “musicali” ai raduni “illegali” che si intendono colpire. E non è escluso che la maggioranza faccia tesoro dei suggerimenti arrivati dai tecnici. Intanto l’opposizione annuncia emendamenti contro una norma che ritiene incostituzionale. Da Pecorella a Valentino, Csm senza donne, ma con gli ex parlamentari. M5s: “Daremo battaglia” di Liana Milella La Repubblica, 24 novembre 2022 Finora una sola auto candidatura femminile per il posto di consigliere laico, quella dell’avvocata lucana Cristiana Coviello, tra la dozzina di legali che hanno presentato la domanda in Parlamento. Gaetano Pecorella tra gli aspiranti ufficiali, ma anche Nino Lo Presti. Innanzitutto è un fatto: a oggi c’è una sola donna tra i dodici aspiranti ufficiali a uno dei dieci posti di consigliere laico al Csm. E solo una tra quelli che passano di bocca in bocca nel chiacchiericcio delle due Camere. Prevalgono i maschi, come al solito. Alla faccia della parità di genere richiesta dalla legge Cartabia che ha cambiato le regole per entrare al Csm. E tra questi nomi ci sono anche vecchie conoscenze della politica, come Pecorella e Longo, già definiti “inaccettabili” dal M5S, pronto a dire: “La maggioranza ha i numeri per eleggerseli da soli, ma è certo che a quel punto noi reagiremo duramente”. Posto top per Gaetano Pecorella, proprio lui, l’ex avvocato di Berlusconi, l’ex presidente della commissione Giustizia della Camera, colui che fece diventare legge - la legge Pecorella per l’appunto - il progetto di rendere inappellabile la sentenza di primo grado in cui il pubblico ministero ”perde” il processo. Bocciata come incostituzionale dalla Consulta. Ma tra gli ex deputati, nell’elenco che compare sul sito della Camera, luogo dove si voterà materialmente per i dieci futuri consiglieri laici di palazzo dei Marescialli, ecco anche Nino Lo Presti, un finiano di ferro. Mentre tra i nomi che corrono tra palazzo Madama e Montecitorio spunta quello di Giuseppe Valentino, anche lui più volte deputato e senatore di An. Il Csm degli esclusi - Ma non finisce qui, perché se davvero va così il prossimo Csm passerà alla storia come quello degli “ex”, oppure dei trombati per un posto di deputato o senatore. Visto che nell’elenco dei papabili figura anche l’avvocato forzista Roberto Cassinelli, già parlamentare del Pdl, e in corsa in Liguria alle scorse elezioni nel collegio plurinominale della Liguria, ma che non ce l’ha fatta. Nonché Fiammetta Modena, la senatrice che ha “salvato” Matteo Renzi dal via libera agli whatsapp dell’inchiesta Open e che ha proposto il conflitto in Corte costituzionale. Candidata in Umbria, ma anche lei rimasta al palo. Tra quelli che non ce l’hanno fatta ecco anche l’ex presidente dell’ordine degli avvocati di Foggia Mario Antonio Ciarambino che correva per il Senato nelle liste forziste. E l’elenco degli ex in corsa non finisce qui. Ci sarebbe l’avvocato Piero Longo, storico difensore di Berlusconi con Niccolò Ghedini. E ancora un paio per i renziani, l’avvocato di Nuoro Giuseppe Cucca, ex senatore uscente, e l’ex deputata Lucia Annibali. Nonché il Dem Franco Vazio. Ma proprio la “questione donna” sta complicando la partita. Perché dopo tanto parlare di parità genere, e con una premier donna, non mandarne neppure una Csm sarebbe una sorta di affronto alla legge Cartabia. Ma tant’è. In fondo entrambi i presidenti delle Camere sono maschi, e tra i presidenti delle commissioni ci sono solo due donne. La battaglia per il gentil sesso non è tra le priorità del centrodestra. Pecorella: “Pronto per il Csm, serve un’alleanza contro il correntismo” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 24 novembre 2022 Gaetano Pecorella è candidato come componente laico del Consiglio superiore della magistratura. L’elezione dei dieci consiglieri non togati è prevista il prossimo 13 dicembre, con il voto del Parlamento in seduta comune. L’avvocato Pecorella, past president dell’Unione Camere penali e già al vertice della commissione Giustizia di Montecitorio, ha un’idea precisa dei “requisiti” che sarebbe necessario assicurare al nuovo Csm, il cui insediamento è atteso per la fine dell’anno. “Occorre aprire - dice al Dubbio - una nuova fase, partendo da una componente laica, non politicamente schierata, in grado di incidere sul sistema correntizio che ha sempre dominato il Consiglio superiore. In questo modo l’organo di autogoverno gioverebbe di più alla stessa magistratura e al rispetto dei diritti dei cittadini”. Presidente Pecorella, una parte della stampa già si è scatenata, esprimendo forti perplessità e critiche, quando ha letto il suo nome tra i candidati laici. Come si spiega una reazione del genere? Probabilmente la mia candidatura al Csm non fa piacere ad alcuni settori della magistratura, dato che io per tutto il tempo della mia professione ho cercato sempre di sostenere i diritti della difesa e i valori legati al garantismo. Mi pare abbastanza ovvio che una parte della stampa, che da sempre esprime le posizioni di certa magistratura, trovi la mia candidatura scomoda. Proprio per questo ho avanzato la mia candidatura. Credo che il Csm debba essere il giudice dei giudici e debba avere una posizione tale da garantire il funzionamento della giustizia secondo i principi costituzionali e secondo la tutela dei diritti che hanno tutti i cittadini. Il Csm nell’ultimo biennio ha subito critiche ed è stato delegittimato. Quale contributo intende dare nel caso di una sua elezione a palazzo dei Marescialli? Io parto da questa considerazione: è molto importante un elemento introdotto dalla riforma del Csm. Mi riferisco al fatto che la scelta dei componenti laici debba essere ispirata alla trasparenza. Questo mi è sembrato il primo passo per depoliticizzare il Csm. Prima, la scelta dei componenti laici avveniva in base a dei patti politici e secondo gli schieramenti politici e non, invece, sulla base dei valori personali, dell’esperienza e della cultura giuridica del candidato. La trasparenza adesso la si deve intendere non più come una divisione per appartenenza di partito, ma come un elemento in grado di prendere in considerazione il valore personale dei candidati. È un primo passo verso la depoliticizzazione del Csm. Il passo successivo dovrebbe essere quello di evitare che anche i magistrati esprimano delle correnti, e che non ci sia un accordo tra parti politiche e parti della magistratura, a discapito dei meriti personali. Bisogna fare in modo che la presenza di una componente laica, che non sia espressione dei partiti, influisca anche sulla rottura del sistema delle correnti, comprese quelle politiche. Nel Csm dovrebbero esserci non delle maggioranze e delle minoranze, ma solo delle scelte sagge sia per quanto riguarda le nomine sia per quanto riguarda l’aspetto disciplinare, in base alla capacità tecnica di chi giudica. Non tralascerei neppure un altro aspetto. A cosa si riferisce? Le denunce disciplinari che gli avvocati fanno alcune volte sono assolutamente infondate, ma altre volte, invece, vengono trascurate e non hanno seguito. Il tentativo è quello di avere un Csm al di sopra delle parti, al di sopra della politica, al di sopra degli interessi di gruppi di magistrati. Il Csm deve essere davvero un giudice terzo ed imparziale. Con l’impostazione che lei suggerisce, il Csm potrebbe realizzare la svolta invocata innanzitutto dal presidente Mattarella? Se queste idee, a prescindere dalla scelta che potrà fare il Parlamento sulla mia persona, permeassero il lavoro del Csm, assicurerebbero un valore maggiore e più pregnante per il cittadino, che vede nel Consiglio un elemento di garanzia. Il famoso giudice a Berlino che tante volte abbiamo cercato. La magistratura italiana, nel suo complesso, è assolutamente rispettabile e lavora con serietà. Ci sono, però, anche delle mele marce, come del resto dappertutto. Se il cittadino sapesse che il Csm non è più dominato dalla destra piuttosto che dalla sinistra, ma è dominato da teste pensanti, da persone che hanno l’esperienza di anni e anni di professione o insegnamento, sarebbe molto più tranquillo. Il Csm deve essere il luogo in cui si fa giustizia nei confronti di chi sbaglia e di chi non fa bene il proprio lavoro. In questo modo può essere un organo che nella scelta dei capi degli uffici dà la garanzia di scelte rapide e di qualità. La magistratura ha avuto momenti di grande crisi, si pensi alla vicenda Palamara, e ora occorre aprire una nuova fase. Come valuta i primi passi del nuovo ministro della Giustizia Carlo Nordio? Il ministro Nordio ha iniziato a lavorare bene. Il rinvio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia era necessario anche per lo studio che tutti noi dobbiamo fare delle nuove norme. L’impegno del ministro e del governo, a mio avviso, dovrebbe essere quello di coprire i posti vacanti e di spostare i magistrati sparpagliati, soprattutto nei ministeri, per colmare i vuoti di organico. Spero che il ministro prenda pure a cuore il tema dell’edilizia giudiziaria. Il nuovo Csm non potrà non tener conto della condizione delle carceri e dei detenuti, considerato il crescente, drammatico numero dei suicidi. Cosa ne pensa? Governo e Parlamento devono intervenire sulle carceri. Il Csm sicuramente può lanciare un grido di dolore sulla situazione barbara alla quale stiamo assistendo, e può essere molto attento nel verificare se i magistrati addetti al mondo carcerario agiscono nel modo migliore. La cronaca ci consegna ogni giorno notizie preoccupanti. Il Csm può incidere, rappresentando ai magistrati che hanno compiti di tutela sui detenuti, di essere più attenti. In questo contesto è lodevole la raccolta firme lanciata dalla vostra testata per fermare la strage dei suicidi in carcere. Apprezzo molto questa iniziativa alla quale ho aderito. Quella dei suicidi in carcere è una vera e propria vergogna nazionale. I detenuti vanno arricchiti in carcere culturalmente e da un punto di vista lavorativo per potersi davvero inserire, una volta liberi, nella società. Porte aperte, giudici tra i cittadini: la Consulta non è più una sconosciuta di Andrea Pugiotto Il Riformista, 24 novembre 2022 “Corte costituzionale e opinione pubblica. Genesi, forme, finalità” è il titolo dell’iniziativa promossa dalla rivista Quaderni Costituzionali e da Il Mulino. Salite con me sulla macchina del tempo: viaggeremo a ritroso fino al 1958. Nel suo terzo anno di vita la Corte costituzionale è coinvolta nella “polemica per la quarta poltrona”: quale posto compete al suo presidente nelle pubbliche cerimonie? Deve precedere o seguire il presidente del Consiglio? Il collegio affronta il problema nella seduta del 16 gennaio. “Lungi dal trattarsi d’una questione di protocollo”, esso rappresenta “una grave questione sostanziale” perché la Consulta è un organo di recente istituzione, priva di tradizione, le forme sono proiezione del suo ruolo costituzionale e “la fiducia dei cittadini dipende anche dalle apparenze”. Consapevole della propria relativa debolezza, il neonato tra gli organi costituzionali della Repubblica si preoccupa fin da subito di “ottenere il rispetto e la fiducia di tutti gli italiani” (così il suo presidente, Enrico De Nicola, nell’udienza inaugurale del 23 aprile 1956). Ritorniamo al futuro. Oggi la situazione appare capovolta: la Corte costituzionale, infatti, ha molto investito nella costruzione di un saldo legame tra il “dentro” e il “fuori” Palazzo della Consulta. Se è vero che non è mai stata un inaccessibile sinedrio, è un fatto però che negli ultimi anni “il senso della Corte per la comunicazione” (Donatella Stasio) risponde a una vera e propria strategia istituzionale. Una policy teorizzata, implementata e rivendicata: sul punto, le relazioni annuali dei suoi presidenti (su tutte, quelle di Paolo Grossi, Marta Cartabia e Giorgio Lattanzi) compongono un memorandum a cielo aperto. Lo attesta il confronto tra passato e presente. Fino a ieri, l’interlocuzione privilegiava quella sezione qualificata di opinione pubblica che è la dottrina giuridica, ed avveniva per canali codificati: la motivazione delle sentenze, la conferenza stampa annuale del presidente, le sue parche esternazioni, i seminari ospitati alla Consulta. Oggi - parafrasando un suo presidente d’antan, Virgilio Andrioli - alla “lussureggiante casistica” delle sentenze di cui dispone, la Corte aggiunge una varietà altrettanto lussureggiante di strumenti comunicativi rivolti all’intera opinione pubblica. Vediamo quali. Segnali di apertura sono venuti dal processo costituzionale, di cui sono state riscritte le norme interne. Attraverso l’allargamento del contraddittorio a soggetti terzi, la possibilità di audire esperti sulle questioni discusse, l’introduzione degli amici curiae (brevi opinioni scritte con cui formazioni sociali e soggetti istituzionali presentano in giudizio elementi utili al caso in esame), “la Corte si apre all’ascolto della società civile” (comunicato dell’11 gennaio 2020). Con la trasformazione dell’udienza pubblica in occasione di interlocuzione tra il collegio costituzionale e le parti del processo, “entra in aula il dialogo tra giudici e avvocati” (comunicato del 31 maggio 2022). Accompagnando - nei casi più rilevanti - la sentenza e il suo deposito con appositi comunicati stampa che ne offrono una sintesi chiara ed efficace, si spiega ai più una decisione altrimenti accessibile ai soli addetti ai lavori. Il processo costituzionale ha così “aperto le porte alle “voci di fuori” (Stasio). L’ellisse comunicativa, poi, si è allargata all’intera attività istituzionale della Corte, attraverso un uso efficace delle nuove tecnologie: il ricco sito web, la pagina per i media al servizio di chi fa informazione, il canale Youtube per “comprendere ciò che avviene all’interno del Palazzo della Consulta”, l’App “per essere aggiornati in tempo reale sull’attività della Corte costituzionale”, il suo profilo Twitter, l’account Instagram, i podcast dei giudici costituzionali che raccontano “le sentenze che ci hanno cambiato la vita”. Parallelamente, è cresciuta l’esposizione mediatica del suo presidente ed è nato l’Annuario della Corte costituzionale, pubblicazione dal format moderno, patinato, divulgativo. Tutto ciò colloca “una Corte sempre più “dentro” la realtà” (così il suo presidente Giancarlo Coraggio). Infine, i giudici costituzionali sono usciti da Palazzo della Consulta, per conoscere e farsi conoscere. La Corte ha così intrapreso il “Viaggio in Italia”: dapprima nelle scuole, poi nelle carceri, quest’ultimo documentato nei relativi “Diari” e in un riuscito docufilm per la regia di Fabio Cavalli, fruibili nel sito web. Forzatamente interrotto dalla pandemia, il viaggio è comunque proseguito in rete attraverso i dialoghi tra giudici costituzionali ed esponenti del mondo culturale, poi raccolti nella “libreria dei podcast della Corte”, finalizzati a promuovere la cultura costituzionale. Né sono mancati grandi eventi pubblici, l’ultimo dei quali il 22 luglio scorso, in Piazza del Quirinale: il concerto Il sangue e la parola, ispirato a Le Eumenidi e ai lavori dell’Assemblea Costituente. Così la Consulta parla a tutti perché fuori incontri tutti, mentre dentro incontri solo chi ti capita (e, se sei al potere, solo chi ti fa comodo). Interloquire, mostrare, capire e farsi capire: questo l’epicentro della comunicazione messa in campo. Una policy ambiziosa che non si esaurisce nella “conoscibilità del ciclo “produttivo” della Corte” (Lattanzi) o nell’acquisizione di dati funzionali all’esercizio delle sue competenze. Semmai, è un’esperienza comunicativa integrale, mossa dalla persuasione che “una Corte aperta sia foriera di una giustizia costituzionale più ricca” (Cartabia). Per capillarità, quantità e qualità comunicativa, si tratta di uno scenario inedito che ha polarizzato i giudizi dottrinali, con argomenti di buona stoffa da una parte e dall’altra: feconda apertura alla società civile o insidia per una Consulta risucchiata nello strepitus fori e nel circo mediatico? Ridefinizione della sua constituency o espressione di un criticabile suprematismo giudiziario? Di questi temi si dibatterà domani, a Bologna, per iniziativa della rivista Quaderni Costituzionali e del suo editore il Mulino, in un apposito seminario dal titolo “Corte costituzionale e opinione pubblica. Genesi, forme, finalità”. Delle tre relazioni introduttive, una (affidata al giudice Francesco Viganò) esprimerà il punto di vista interno alla Consulta, l’altra (Roberto Romboli) illustrerà le differenti valutazioni espresse in dottrina, mentre la terza (Tania Groppi) allargherà l’orizzonte oltre il cortile di casa, guardando alle scelte comunicative di altri Tribunali costituzionali. Seguirà il dibattito con la partecipazione anche di giornalisti che, seguendo per le rispettive testate la giustizia costituzionale, operano come medium tra Corte e opinione pubblica. Tutti - giudici, dottrina, operatori dell’informazione - avranno eguale voce in capitolo: i diversi pareri scateneranno pensieri, i pensieri suggeriranno idee, e le idee favoriranno soluzioni. Questo almeno è l’auspicio dei promotori del seminario, fruibile da chiunque in diretta streaming attraverso il canale digitale di Radio Radicale (www.radioradicale.it). Si possono avere opinioni distinte e distanti sul tema. Ciò che non può sfuggire sono due questioni di sicuro “inter-esse”, cioè importanti e tra loro interconnesse. La prima è che i cittadini hanno bisogno di conoscere la Corte costituzionale. Sono loro i destinatari - diretti o indiretti - delle decisioni attraverso le quali esercita i suoi vastissimi poteri: in 66 anni di giurisprudenza costituzionale, infatti, non c’è settore del diritto (lex) e dei diritti (iura) con i quali la Consulta non abbia dovuto fare i conti. Con essa, i cittadini entrano inevitabilmente in contatto, quando promuovono un referendum o provocano una quaestio contro leggi di dubbia costituzionalità. È interesse collettivo, dunque, guardare dentro Palazzo della Consulta per capirne i meccanismi decisionali e per vedere se c’è qualcosa fuori posto. A sua volta, la Corte costituzionale necessita di entrare in comunicazione con i cittadini. Le serve per disinnescare il rischio dell’autoreferenzialità, sempre incombente su qualunque giudice almeno tanto quanto il pericolo di una sovraesposizione mediatica. Ne ha bisogno per sottrarsi all’abbraccio mortale della politica, cercando in alternativa un consenso diffuso attorno al proprio ruolo istituzionale e alla propria attività complessiva. Le sue sentenze, inoltre, non sono impugnabili (art. 137 Cost.) e ciò ne fa l’organo di chiusura del sistema. Ma “proprio perché la Corte possiede l’ultima parola e, al contempo, non è infallibile, deve mostrarsi particolarmente aperta al dialogo pubblico” (Alessio Rauti). Se così è, chiedere ai giudici costituzionali di risollevare il ponte levatoio di Palazzo della Consulta, più che inutile, è sbagliato. Il problema, semmai, è rendere visibile ciò che, ancora oggi, è relegato negli arcana imperii. Siano consentite, allora, due intenzionali provocazioni sotto forma di altrettanti interrogativi. Perché non introdurre l’istituto della dissenting opinion a garanzia della massima trasparenza nelle decisioni prese dalla Corte costituzionale? Perché non immaginare, almeno per i 5 giudici costituzionali eletti dalle Camere riunite, un esame parlamentare - sul modello statunitense - che ne vagli storia personale e orientamenti scientifici, per testarne l’idoneità al ruolo di garanzia cui sono designati? Attraverso il sito della Corte è possibile acquisire informazioni dettagliate sul suo presidente e i membri del collegio. Ma servirebbe averle prima, non dopo la loro entrata in carica. La risposta positiva alla prima domanda è nella disponibilità diretta della Corte. La seconda, invece, spetta al legislatore costituzionale, se vorrà assecondare una Consulta che si percepisce, e vuole essere percepita, come una casa di vetro. Quando la Consulta “esce dal palazzo” si avvicina davvero a tutti i cittadini? di Enrico Grosso* Il Dubbio, 24 novembre 2022 La Corte costituzionale parla solo attraverso le sue sentenze, si diceva una volta. Oggi i mezzi di comunicazione di cui si serve sono assai più potenti e numerosi. Anche l’interlocutore non è lo stesso. Attraverso le sentenze si parla essenzialmente ai giudici, ai giuristi, agli operatori del diritto. Agli addetti ai lavori, insomma. Oggi la Corte aspira a parlare a tutti, a informare i cittadini della propria attività, a coinvolgerli addirittura nel processo decisionale, a riceverne in cambio sentimenti di vicinanza e fiducia. Non è solo questione di trasparenza e più facile accesso ai propri atti. È questione di consenso. La Corte non crede più che la conoscenza e la diffusione della legalità costituzionale nella vita concreta della società, e il consenso che da ciò può derivare all’istituzione che più di tutte è chiamata a difenderla, possano essere efficacemente trasmesse facendo affidamento solo sulle motivazioni delle proprie decisioni. E quindi “esce dal palazzo” e si sforza di porsi direttamente in sintonia con l’opinione pubblica. Promuove “viaggi” (nelle scuole, nelle carceri …). Realizza e pubblica online podcast nei quali i giudici costituzionali interloquiscono con intellettuali delle più varie discipline su temi di rilevanza pubblica, o illustrano “le sentenze che ci hanno cambiato la vita”. Apre l’aula di udienza ai soggetti portatori di interessi collettivi (i c. d. “amici curiae”), i quali sono chiamati a esporre le proprie ragioni in merito alle singole questioni in discussione I presidenti, che un tempo - tutt’al più - si “concedevano” una volta all’anno nella rituale conferenza stampa, oggi godono di una vasta e regolare esposizione (e talvolta sovra- esposizione) mediatica, rilasciano interviste, accettano volentieri di essere ospiti negli studi televisivi, offrono in presa diretta spiegazioni (interpretazioni autentiche?) delle decisioni assunte. La pubblicazione delle sentenze è ormai costantemente preceduta dalla diffusione di comunicati stampa che ne spiegano in anteprima i passaggi salienti, semplificando il messaggio e aspirando a renderlo “comprensibile” anche al grande pubblico, quello digiuno di nozioni tecniche. Anche al costo di una certa spettacolarizzazione e di qualche titolo sopra le righe. È un cambio di paradigma. Il ruolo, oltre che l’immagine, della Corte, ne risulta inevitabilmente trasformato, se non trasfigurato. Sulla genesi, sulle forme e soprattutto sulle finalità di questa trasformazione si interrogheranno, in confronto tra loro, studiosi di diritto costituzionale, giudici della Corte, giornalisti, in un seminario promosso dalla rivista Quaderni Costituzionali, insieme all’editore Il Mulino, che si terrà a Bologna venerdì 25 novembre. I lavori potranno essere seguiti in diretta streaming audio- video sul canale digitale di Radio Radicale. Quale esigenza muove la Corte a esporsi mediaticamente come mai è successo nel passato? Quali finalità si propone nell’enfatizzare la propria attività comunicativa individuando nell’opinione pubblica un interlocutore necessario, se non privilegiato? Perché tale urgenza, che non si avvertiva nel passato, è esplosa negli ultimi anni? E soprattutto: quali mutamenti è destinato a produrre questo nuovo modo di essere dei rapporti tra Corte e cittadini rispetto al ruolo e della giustizia costituzionale? Particolarmente utile il confronto tra i costituzionalisti (la “dottrina”, come un po’ pomposamente si autodefiniscono gli studiosi di diritto), i giudici costituzionali e gli operatori dell’informazione. I primi, infatti (pur con le dovute distinzioni e sfumature di sensibilità), hanno assistito a questo cambio di paradigma con un misto di perplessità, scetticismo e punte di sbigottimento. I secondi ne hanno (con le medesime differenziazioni) sostanzialmente promosso e assecondato le linee di sviluppo. I terzi ne hanno quasi unanimemente lodato le prassi applicative e i risultati pratici. Finora è mancata una riflessione comune sulle ragioni che lo hanno determinato, e soprattutto sulle implicazioni e sulle conseguenze istituzionali e costituzionali che esso comporta. Non si tratta soltanto di porre in sintonia la Corte con la realtà della “società dell’informazione”. Quando “parlava solo attraverso le sentenze” la società dell’informazione già esisteva, e tale esigenza non era sentita. Cos’è cambiato? Il sospetto, che traspare dalle voci critiche di alcuni, è che sarebbe sempre più arduo giustificare in termini puramente giuridici le sue scelte. Il giudice costituzionale è “sotto osservazione”. La politicità intrinseca delle sue decisioni lo mette continuamente a confronto con la competizione politica che - sui medesimi temi - si svolge quotidianamente fuori dal Palazzo della Consulta. Ciò comporta una serie di preoccupazioni supplementari, di cui egli ha sempre maggiore consapevolezza. La tentazione può dunque essere quella di instaurare con i cittadini un rapporto diretto e “alternativo” rispetto a quello proprio delle istituzioni politico- rappresentative, che in passato si riteneva radicalmente alieno a ogni giurisdizione (a fortiori quella costituzionale). È questa la vera ragione della sempre più spasmodica ricerca non solo di una maggiore “visibilità”, ma anche di una più compiuta e vasta “comprensione” (nell’auspicio della conquista di una vera e propria “approvazione”) delle proprie scelte giudiziarie? Solo da un confronto schietto e sincero, privo di censure e ipocrisie, tra gli attori e gli osservatori del processo costituzionale, potranno emergere le ragioni, i torti, le giustificazioni e gli eventuali eccessi di una stagione della giustizia costituzionale che, in ogni caso, non pare destinata ad esaurirsi. *Ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Torino “Per fermare l’escalation di femminicidi bisogna rinforzare le misure preventive” di Rossana Linguini Elle, 24 novembre 2022 È quanto sostiene con forza Lucia Annibali. Non è stata rieletta in Parlamento, ma la sua battaglia in nome delle donne continua. Da quel 16 aprile del 2013, quando Lucia Annibali fu aggredita con l’acido per volere del suo ex Luca Varani, sono passati quasi dieci anni, venti interventi di ricostruzione al volto e una sofferenza indicibile, che l’ex avvocata di Pesaro ha trasformato un giorno dopo l’altro in impegno contro la violenza di genere. Mostrando le sue cicatrici e raccontandole nel libro autobiografico “Io ci sono. La mia storia di non amore”, incontrando migliaia di studenti e detenuti, lavorando dai banchi del Parlamento, dove è entrata nel 2018 con il Pd per poi passare a Italia Viva. Nell’agosto del 2021, per fare un esempio, ha fatto approvare un emendamento alla legge delega di riforma del processo penale che prevede l’arresto in flagranza per stalker e maltrattanti che trasgrediscano il divieto di avvicinamento alla persona offesa o di allontanamento dalla casa familiare. “È una misura importante, ma per poter essere davvero efficace avrebbe dovuto essere coordinata con un’altra norma contenuta in un disegno di legge contro la violenza sulle donne presentato a novembre del 2021 dalle ex ministre del governo precedente, che purtroppo è rimasto incagliato al Senato”, dice l’ex deputata, che il 25 settembre non è stata rieletta in Toscana, dove era candidata con Azione - Italia Viva. Che cosa prevedeva? “Un pacchetto d’interventi preventivi che rafforzano la protezione delle vittime nella prima delicata fase che segue la denuncia, andando a colmare un vuoto che si verifica dopo la richiesta d’aiuto e anticipando la presa in carico della donna; s’introdurrebbe, per esempio, la possibilità di procedere d’ufficio in caso di atteggiamenti violenti, o il rafforzamento del sistema del braccialetto elettronico. Per fortuna, la deputata Elena Bonetti, ex ministra delle Pari opportunità, lo ha riproposto in questa legislatura”. Malgrado leggi, campagne di sensibilizzazione e maggiore consapevolezza sul tema, i numeri dei femminicidi non diminuiscono: che cosa sbagliamo? “La sensazione è che si arrivi sempre un po’ troppo tardi, che non si sia capaci di dare un aiuto immediato, di capire le storie. Dopo c’è sempre una ragione per giustificare quello che accade, per dire che per un certo caso non si poteva fare di più, e ogni volta quel di più che manca porta a perdere una vita, o a comprometterne la qualità. È come se non ci fosse una lettura consapevole di ciò che sta a monte di queste violenze”. A cosa si riferisce? “Questi rapporti hanno in sé un elemento di potenziale pericolo cui la vittima è esposta quotidianamente, al di là dei singoli episodi violenti. È evidente che davanti a una denuncia bisogna fare tutti gli accertamenti e le indagini necessarie, ma non si può aspettare che succeda qualcosa per agire, perché quel qualcosa è quello che dobbiamo evitare. E quando una donna che aveva denunciato torna sui suoi passi, non possiamo pensare che la situazione sia rientrata, perché di solito è esattamente il contrario: queste storie sono fatte di ripensamenti e di ritorsioni, è il ciclo della violenza”. La Commissione europea propone una legge che unifichi le normative sulla violenza di genere e introduca un inasprimento delle pene: cosa ne pensa? “Un impegno europeo non può che dare maggior vigore alle politiche dei singoli Stati, ma in generale la questione dell’inasprimento delle pene non incide sulla prevenzione: quando arrestiamo chi compie una violenza è già tardi. Nel nostro Paese le leggi ci sono, anche il cosiddetto Codice rosso ha aumentato le pene e introdotto nuovi reati ma, ripeto, credo che quello che serve sia il rafforzamento della protezione di chi denuncia”. Si comincia finalmente a parlare di violenza economica, particolarmente insidiosa in un momento di crisi come questo in cui a pagare il prezzo più alto sono le donne… “Questo tipo di violenza poco riconosciuta, fatta di atti quotidiani che privano la donna delle risorse economiche all’interno di una famiglia, impoverendola e isolandola, è stato ancora più pressante dopo la pandemia, cosa che mi ha portata a spingere per un emendamento al decreto Rilancio che introducesse il “reddito di libertà”, un sostegno economico alle vittime di violenza in stato di necessità per il quale sono stati stanziati complessivamente 9 milioni di euro. E per il quale speriamo la prossima legge di bilancio stanzi nuovi fondi”. La neo ministra della Famiglia, della Natalità e delle Pari opportunità Eugenia Roccella ha detto che il suo dicastero, da tempo riferimento anche per il mondo Lgbtq, tornerà a occuparsi di donne: è una buona notizia? “Penso che una donna si realizzi prima di tutto come individuo, non necessariamente con la natalità e facendo figli, dunque non mi piace molto l’idea che donna e famiglia siano concetti indivisibili. Le Pari opportunità sono tante cose, credo sia importante non separare mai il tema della violenza dal resto, perché la violenza rispecchia la struttura sociale ed economica di un Paese. Detto questo, le auguro di lavorare bene sul tema di diritti e pari opportunità, riuscendo a reperire risorse da dedicare, che resta sempre il vero problema”. Puglia. Carceri, dopo i casi di suicidio in Regione si riunisce task force Gazzetta del Mezzogiorno, 24 novembre 2022 Dopo i cinque suicidi nelle carceri pugliesi nel 2022, è tornato a riunirsi ieri sera il tavolo tecnico sul tema della salute all’interno delle strutture detentive pugliesi, insediato per la prima volta nel febbraio scorso, voluto dalla presidente del Consiglio regionale della Puglia, Loredana Capone, d’intesa con l’assessore regionale alla Sanità, Rocco Palese, e il garante regionale dei diritti delle persone private della libertà, Piero Rossi. Sono intervenuti il Provveditore regionale della Puglia e della Basilicata, i direttori generali delle Asl e degli istituti penitenziari, i presidenti dei Tribunali di Sorveglianza pugliesi, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale “Antigone”. Nel corso dell’incontro, durato oltre quattro ore, sono state affrontati alcuni problemi: dalla carenza di personale medico e infermieristico, a partire da quello psichiatrico, alla mancanza di reparti protetti all’interno degli ospedali; alla condizione infrastrutturale generale degli Istituti penitenziari che deve fare i conti con un numero di detenuti sempre superiore alla capacità di accoglienza; alla necessità di intervenire sulla diagnostica a distanza. L’assessore Palese ha annunciato alcuni provvedimenti, come la recente delibera dell’Asl Bari riguardante i lavori di ristrutturazione del reparto di medicina protetta all’interno dell’ospedale San Paolo; un progetto di fattibilità in corso per infrastrutturare gli istituti penitenziari in modo da consentire prestazioni a distanza: dall’elettrocardiogramma alle analisi, alle ecografie, alle radiografie; la realizzazione una nuova Rems. “Quando bisogna risolvere i problemi è indispensabile ragionarne tutti insieme e insieme trovare le possibili soluzioni. L’assistenza sanitaria nelle carceri è una grave emergenza. Tanti i suicidi, molti dei quali a Foggia”: lo ha dichiarato la presidente del Consiglio regionale pugliese al termine della riunione sullo stato di emergenza degli istituti penitenziari pugliese. “È davvero grande - ha aggiunto - la difficoltà a reperire psichiatri e personale sanitario che possa prendersi cura dei detenuti. Insieme all’assessore Palese abbiamo riflettuto a lungo sulle possibili soluzioni. L’assessore ha assunto degli impegni precisi e io gli sono grata, perché non possiamo assistere inermi di fronte alle necessità. C’è un tema sanitario che riguarda tutta la Puglia rispetto alla carenza di medici, psichiatri, operatori sanitari, e questo negli istituti penitenziari è ancora più rilevante. Occorre intervenire subito e d’altra parte la politica a questo serve: a trovare soluzioni”. Capone si è impegnata a farsi promotrice, presso il ministero della Giustizia, delle “iniziative necessarie a sollecitare risorse finanziarie per l’edilizia giudiziaria e penitenziaria pugliese”. Nel Piano nazionale per la Ripresa e la Resilienza, infatti, 58 sono gli interventi previsti per un totale di 540 milioni di euro ma la Puglia non c’è. “Ormai siamo a un punto di non ritorno - ha aggiunto il garante regionale Piero Rossi - e lo ‘scatto d’orgoglio’ delle Istituzioni regionali, oggi rappresentate dall’assessore Palese e dalla presidente Capone, va nella direzione giusta. Rappresentiamo tutti uno Stato che si rende consapevole di prendersi cura di persone che gli vengono consegnate al fine di espiare una pena”. Campania. Nemmeno un posto ogni 10mila abitanti, così la salute mentale diventa emergenza di Viviana Lanza Il Riformista, 24 novembre 2022 Secondo le stime più recenti sono alla base di una gran parte dei suicidi e degli atti di autolesionismo che si verificano all’interno delle carceri. Sono anche alla base dei disagi e delle emarginazioni sociali più gravi. Parliamo dei problemi di salute mentale, una sfera in cui emergono tutti i limiti e le carenze del nostro sistema pubblico ed anche tutte le terribili conseguenze di tali limiti. “Non parliamo solo di detenuti, ma di tutte quelle persone che di fatto subiscono una limitazione della libertà”, specifica il garante regionale Samuele Ciambriello che ieri ha presentato in Consiglio regionale il report sul trattamento sanitario obbligatorio (il Tso) realizzato in collaborazione con l’associazione “Psichiatria Democratica”. Il report è una sorta di bilancio dell’ultimo anno. “I casi ammontano a 2.911, di cui 596 (distinti tra 374 uomini e 22 donne) ricoverati per il trattamento sanitario obbligatorio - spiega il garante -. L’offerta di posti letto nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura della Regione Campania risulta inadeguato su tutto il territorio regionale”. In pratica, il rapporto è di 0,20 posti letto ogni 10mila abitanti. “Siamo, con tutta evidenza, lontanissimi dal rapporto previsto di un posto letto ogni 10mila abitanti - aggiunge -. Le Asl che risultano essere le più carenti sono l’Asl Napoli 1 Centro, l’Asl Napoli 2 Nord, l’Asl Napoli 3 Sud)”. Da tali dati emerge che l’attuale offerta del servizio sanitario nazionale non può ritenersi del tutto adeguata alle necessità della popolazione, anzi addirittura pare abbia amplificato una carenza preesistente. Lo studio condotto dall’ufficio del garante e dall’associazione “Psichiatria Democratica” ha puntato a evidenziare i punti di forza e di debolezza dell’intera struttura regionale di medicina mentale, circoscritto al trattamento sanitario obbligatorio e volontario, con uno sguardo più attento alla realtà carceraria e ai luoghi in cui vi è la privazione della libertà personale. Nel mondo penitenziario il tema della salute mentale viaggia di pari passo a temi che riguardano i suicidi e i gesti estremi, il diritto all’affettività, la tutela dei minori e dei più fragili. “Con il termine trattamento sanitario obbligatorio si intendono una serie di interventi sanitari che possono essere applicati in caso di motivata necessità ed urgenza e qualora sussista il rifiuto al trattamento da parte del soggetto che deve ricevere assistenza”, dice Ciambriello. “Non pensiamo alla salute mentale da ragioniere soffermandoci sui costi, ma guardiamo anche ai benefici e agli aspetti sociali di inclusione. Il detenuto che perde la libertà ma può perdere anche i diritti e la dignità, in primis la tutela della salute”, ribadisce la presidente della Commissione permanente istruzione e cultura, ricerca scientifica e politiche sociali Carmela Fiola, intervenendo al dibattito sollevato dai dati contenuti nel report annuale. Il sociologo Mario Tolvo, presentando la ricerca di Psichiatria Democratica, sottolinea che “alcuni dati salienti della ricerca confermano realtà consolidate” e ricorda che ci sono “pochi posti letto, prevalenza di uomini su donne, prevalenza dei Tsv sui Tso, pochissimi minori, prevalenza delle psicosi e dei disturbi”. Quello della salute mentale sta diventando la più grande emergenza all’interno delle carceri, quasi come a riflettere un’emergenza che è evidente anche fuori dalle mura detentive. Cresce il numero di persone che fa uso di psicofarmaci. In un recente convegno a cui ha partecipato il direttore dell’istituto minorile di Nisida, Gianluca Guida, si è messo in evidenza come il fenomeno interessi sempre più minori che raccontano di aver fatto uso di psicofarmaci già durante l’infanzia o l’adolescenza. Nelle carceri si stima che oltre il 40% dei detenuti faccia uso di farmaci per contrastare disturbi e psicosi e secondo i reparti dell’associazione Antigone, che periodicamente effettua visite all’interno dei vari istituti di pena, il carcere non ha strumenti per affrontare queste situazioni perché c’è carenza di personale sanitario qualificato e dunque, non potendo garantire un’assistenza diversa, si ricorre allo psicofarmaco. Un’emergenza nell’emergenza quindi. Roma. È malato di tumore ma con il 41bis curarsi è impossibile di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 novembre 2022 È al 41 bis del carcere romano di Rebibbia, a fine maggio gli è stato diagnosticato un tumore alla prostata e i sanitari dell’istituto penitenziario hanno richiesto di effettuare una terapia e l’eventuale operazione chirurgica per scongiurare le metastasi. Sono passati sei mesi, ma ancora non è stato ricoverato presso il policlinico Umberto primo. Ancora nessuna terapia in atto. A ciò si aggiunge il fatto che dal diario clinico di luglio scorso risulta che i medici del carcere hanno chiesto alla direzione di comunicare al magistrato di sorveglianza di non essere più in grado di tutelare la salute del detenuto. L’avvocata Vincenza Pirracchio del foro di Catania, ha fatto istanza di differimento pena per permettere le cure, ma il tribunale di sorveglianza l’ha rigettata affermando che la condizione inframuraria “non pregiudica il suo diritto alla salute né comporta un vulnus alla funzione della pena e senso di umanità”. Differimento pena a parte, rimane però il principale problema dei mesi di attesa per una terapia ed eventuale operazione al cancro al fine di scongiurare l’esito infausto, così come ha allertato il suo urologo visitandolo a settembre. Il detenuto recluso al 41 bis si chiama Vincenzo Aiello e l’avvocata Pirracchio che l’assiste, si è ritrovata costretta a segnalare il problema anche al garante nazionale delle persone private della libertà. Segnala, con tanto di allegati, che gli accertamenti volti alla stadiazione del tumore sono stati effettuati - con un ritardo di 4 mesi dall’accertamento del cancro - a settembre scorso. I familiari hanno provveduto a chiedere il consulto di uno specialista in urologia che ha redatto il referto dove viene evidenziata la necessita di provvedere immediatamente ad iniziare la necessaria terapia e che ogni ulteriore ritardo potrebbe determinare un esito infausto. Ebbene, oggi, a distanza di sei mesi dalla diagnosi di neoplasia cancerosa alla prostata, tutto è rimasto fermo, né risulta che i sanitari del carcere di Rebibbia si siano attivati al fine di predisporre quanto necessario all’esecuzione della necessaria terapia. Inoltre l’avvocata Pirracchio segnala un episodio emblematico. Il 24 giugno scorso, alle ore 4.45, mentre era in bagno, Aiello è caduto e a seguito di una radiografia è stata riscontrata a livello dell’anca una immagine alterata che potrebbe essere riconducibile a metastasi ossea. Ciò nonostante - così segnala al Garante l’avvocata - “nulla da parte della direzione del carcere e dei suoi sanitari è stato fatto”. Viene evidenziato che è ben nota la necessità in caso di patologia neoplastica di procedere con la massima celerità agli accertamenti ed alle procedure chirurgiche e/ o cure e metodiche di radioterapia al fine di evitare la progressione della neoplasia e il pericolo di metastasi. “In tale situazione ben può dirsi che da parte dei competenti organi, tenuti a vigilare sulla salute dei detenuti si stia dimostrando un totale disinteresse”, denuncia al Garante. Com’è detto, tutto è fermo nonostante che siano state avanzate istanze. Il Tribunale di Sorveglianza di Roma con provvedimento del 28 ottobre scorso a seguito dell’udienza del mese precedente, ha rigettato la richiesta di sospensione della pena o di detenzione domiciliare con autorizzazione a recarsi presso le strutture sanitarie per eseguire la prescritta terapia, affermando che Aiello avrebbe ricevuto le cure presso il 41 bis e che comunque si tratterebbe di cure praticabili all’interno della struttura sanitaria. E invece, ad oggi, non risulta ancora effettuata nessuna terapia, né vi sono in atti procedure dirette alla pratica della terapia. Il legale del recluso al 41 bis, chiede quindi di sollecitare il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) affinché intervenga per adottare le necessarie, e non procrastinabili, misure atte ad assicurare al detenuto i necessari esami e cure cui è necessario procedere celermente. Ivrea (To). Antigone aveva già denunciato violenze nel carcere, ma ora qualcosa è cambiato di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2022 Gli indagati di Ivrea, così come tutti gli altri, sono presunti innocenti e come tali vanno guardati. Ma che si indaghi invece di archiviare, che si denunci invece di tacere, che si cerchi la verità invece di voltarsi dall’altra parte è comunque una buona notizia. La Procura di Ivrea ha iscritto nel registro degli indagati 45 persone in relazione a eventi che sarebbero accaduti nel carcere della città negli ultimi anni. Vari i reati contestati, tra cui la tortura e il falso in atto pubblico. Gli investigatori sostengono che le indagini svolte abbiano portato a corroborare con elementi oggettivi le denunce che parlavano di celle di isolamento nelle quali le persone detenute venivano brutalmente picchiate e rinchiuse senza poter comunicare con anima viva, inclusi gli avvocati difensori. Già in passato Antigone aveva presentato tre esposti per altrettanti presunti episodi di violenza che sarebbero avvenuti tra il 2015 e il 2016 sempre nel carcere di Ivrea. Il nuovo procedimento penale ha però due importanti differenze rispetto ai precedenti che vedono sotto indagine 25 persone. La prima è che adesso si indaga per il reato di tortura, che allora non poteva venire contestato in quanto introdotto nel codice penale italiano solo nel luglio del 2017, dopo decenni di inadempienza rispetto al contesto internazionale e dopo molte sollecitazioni da parte degli organismi sui diritti umani delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa. La seconda differenza è che per la prima volta l’accusa di tortura viene mossa, oltre che a poliziotti, direttori e medici, anche a educatori penitenziari. Le figure che in carcere dovrebbero occuparsi di mettere in pratica un percorso risocializzante secondo lo scopo che la Costituzione affida alla pena. La ‘cella liscia’, la ‘cella acquario’: tristi teatri di questi presunti accadimenti, luoghi oscuri dove non arrivano videocamere o altri sguardi e su cui il processo speriamo accerti le verità al più presto. Tristi compagne della ‘cella 24’ di Opera, della ‘cella zero’ di Poggioreale e, ancora, della ‘cella interrata’, della ‘cella nera’, della ‘cella frigorifera’ e via dicendo. I vari nomi che già in un articolo del febbraio 2014 il giornalista d’inchiesta Antonio Crispino ci spiegava riferirsi ad analoghe realtà in giro per le carceri d’Italia. Nello stesso articolo, Crispino riportava la seguente frase di un sindacalista autonomo della polizia penitenziaria: “I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze”. Ecco, su questa ‘moda’ vorrei riflettere. In questo momento sono più di 200 gli operatori penitenziari sotto indagine, sotto processo o condannati in primo grado in procedimenti penali su torture e violenze nelle carceri italiane. Quindici anni fa, quando denunciare andava meno di moda in carcere, questo non accadeva. Ma probabilmente il livello di violenza dietro le sbarre non era inferiore a quello attuale. Semplicemente, le persone detenute non avevano il coraggio di denunciarlo. Non è facile denunciare in un ambiente chiuso, un ambiente totale, un ambiente dove lo spirito di corpo e l’omertà diffusa avevano abituato a non avere quasi mai giustizia e ad avere quasi sempre ritorsioni. Qualcosa è cambiato. Il processo Cucchi, grazie alla costanza strepitosa della famiglia, ha per primo squarciato un velo. E l’inserimento del reato di tortura nell’ordinamento italiano ha costituito un segnale forte di legalità nei luoghi di custodia. Per quanto perfettibile quella legge possa essere, la storia attuale dimostra che sta funzionando. Gli indagati di Ivrea, così come tutti gli altri, sono presunti innocenti e come tali vanno guardati. Ma che si indaghi invece di archiviare, che si denunci invece di tacere, che si cerchi la verità invece di voltarsi dall’altra parte è comunque una buona notizia. *Coordinatrice associazione Antigone Ivrea (To). La lettera del detenuto che aprì l’inchiesta sul carcere: “Sono in un abisso” di Sarah Martinenghi La Repubblica, 24 novembre 2022 Tutto è successo l’8 giugno 2021, nel carcere di Ivrea. “Quel maledetto giorno si è fermata la mia vita. Sono caduto in un abisso profondo. O decido di farla finita e darla vinta a questi soggetti malati, a queste bestie che si vantano di essere lo Stato. Oppure inizio a prendere coraggio e denunciare, anche se ho tantissima paura perché non mi fido più di nessuno. Tantomeno dello Stato”. Otto pagine che sono un pugno nello stomaco, che sei mesi dopo fanno partire l’indagine della pm Valentina Bossi sulle torture dietro le sbarre che ha visto 45 indagati tra agenti penitenziarie, due ex direttori, due medici e tre educatori. L’ha scritta il detenuto italiano (assitito dall’avvocato Gianluca Orlando) a cui è stato spezzato un braccio durante una prova di forza: un incidente fatto passare come un infortunio sul lavoro, che gli ha provocato un’invalidità permanente. A rompergli il braccio era stato un agente soprannominato “Insigne”, come il calciatore, che da un po’ con lui faceva il gradasso. “Che cazzo vai a fare in palestra che non sei buono a nulla?” l’ha stuzzicato quel giorno, sfidandolo a “braccio di ferro”. “Mi sono ritrovato bloccato al muro, ho capito che ero in pericolo, ho tirato fuori tutta la forza che avevo - spiega l’ex detenuto - Non riuscivo a muovermi. Ho sentito il mio braccio spazzato via, come quando tira il vento e le foglie volano via. Poi ho sentito come se fosse scoppiata una bomba carta dentro al braccio”. Il dolore è atroce, la torsione totale. “Vedo tutte facce bianche, peggio dei cadaveri. Sento che urlano: “Porca troia, che cazzo è successo?”. Sto per perdere i sensi, un agente mi sorregge. E mi dicono: “Mi raccomando, devi dire che stavi lavorando, facciamo risultare che sei caduto e ti mettiamo in infortunio”. La situazione è grave: “La dottoressa di turno mi toccava la gamba destra, avevo un male tremendo e lei mi diceva: “Ma se hai male al braccio cosa c’entra il piede?”. Iniziavo a biascicare: non ho mai provato un dolore così atroce. Volevo addormentarmi ma mi tenevano sveglio, erano preoccupati. “Insigne” mi dice: “Mi dispiace, che cazzo ho combinato, non volevo farti male”. Sono rimasto per due ore accasciato terra: piangevo dal dolore”. Il detenuto racconta dell’ospedale, l’operazione, il ritorno in carcere. Dove iniziano le minacce. E l’inferno. “A luglio i miei familiari volevano sapere la verità. Ma sono stato un vigliacco perché avevo paura: dicevo sempre che ero caduto”. A settembre “iniziavo ad avere problemi con le mie cure, erano state interrotte: ho iniziato a innervosirmi e ho provato a ribellarmi”. Ma quando all’agente “Insigne” osa dire che “l’avrebbe pagata”, arriva la prima minaccia: “Mi dice: Fai il bravo che fai la fine del detenuto di Milano, che l’hanno fatto trovare impiccato”. “Divento un pezzo di ghiaccio: non chiudo occhio tutta la notte. Ero terrorizzato, mi sentivo io il colpevole”. La situazione è sempre più tesa: “Un giorno dovevo prendere una busta di caffè dal magazzino, “Insigne” chiude la porta e mi dice: “Fai il bravo che ho l’indirizzo di tutti i tuoi familiari”. Subito rispondo: “Non puoi saperlo”. Ma sono morto quando lui mi ha detto “Vedi che tu fai le videochiamate, è tutto scritto”. Allora lo rassicuro: “Stai sereno che questa cosa non esce fuori”“. Però gli ispettori del lavoro a fine settembre si accorgono che la frattura è troppo grave per una caduta. Gli chiedono se sia stato aggredito: “Ho detto di no, ma capisco che non sono convinti. Lo dico alle guardie e loro mi chiedono di fare un verbale contro queste persone”. Un giorno gli consegnano una busta: “L’infortunio è chiuso. Un brigadiere mi dice: è meglio che stai zitto altrimenti vai tu nei guai, finisci denunciato per falso”. Lui entra in depressione: “Non ho avuto scampo con le loro parole a doppio senso”. Promette di raccontare “altre situazioni”. E chiude così: “È stato un calvario. Si sono impossessati di me. Non so se sia giusto vivere o morire. Chiedo perdono: volevo solo proteggere me e la mia famiglia. Non riesco a scrivere di più perché, nonostante tutto, ho paura di essere io il colpevole, come loro mi hanno fatto credere”. Ivrea (To). Agenti e calunnie: “Denuncia un altro detenuto e avrai permessi premio” di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 24 novembre 2022 È il 23 giugno 2021 quando un detenuto del carcere di Ivrea si presenta “spontaneamente” al personale della polizia penitenziaria, accusando un altro rinchiuso: “Parlando con me - racconta - ha minacciato tre vostri colleghi e il magistrato di sorveglianza che si occupa del suo fascicolo”. Due giorni prima, in una relazione di servizio, un agente riferiva la stessa condotta, di minacce, appresa da “fonte confidenziale affidabile”. E il settembre successivo, un altro agente comunica la notizia di reato alla Procura di Ivrea. Che, nel frattempo, aveva già avviato le indagini su quel che avveniva dentro al penitenziario. Morale, sostengono oggi gli investigatori, coordinati dal pubblico ministero Valentina Bossi, le accuse erano false: totalmente inventate. In sostanza - sempre secondo le indagini del nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria - tre agenti in servizio nel carcere avevano costretto l’uomo ad accusare l’altro detenuto: questo, “in cambio di agevolazioni interne all’istituto di pena, nonché del ripristino dei permessi premio”. O almeno questa è la sceneggiatura criminale contestata dal pm nei decreti di perquisizione che hanno portato al blitz di martedì mattina, all’alba. Da qui, l’accusa di falso in atto pubblico e di calunnia, contestate rispettivamente in concorso a due e quattro agenti della penitenziaria. Di falso rispondono anche alcuni medici a suo tempo in servizio nello stesso carcere, per l’ipotesi di aver riportato il falso in alcuni referti e, cosa ancor più grave, di non aver mai denunciato alcunché, pur avendone l’obbligo. Nell’inchiesta sono indagate in tutto 45 persone, tra agenti, medici, educatori ed ex direttori. Livorno. I colpevoli in mostra: esibiti i condannati per i delitti di genere di Valentina Stella Il Dubbio, 24 novembre 2022 In Tribunale “sfilano” i volti dei femminicidi. Matteucci: “Così viene svilito l’articolo 27”. Al Tribunale di Livorno è stata allestita una mostra con le foto di uomini condannati per femminicidio con tanto di nome, città, anno, arma del delitto e pure il nome della vittima. “E non è tutto - ci dice la presidente della Camera penale di Livorno, Aurora Matteucci. Purtroppo erano effigiati come se fossero essi stessi vittime dell’arma che hanno usato per il delitto commesso. Un “dente per dente occhio per occhio” in chiave contemporanea che evoca antichi supplizi. Il condannato è stato elevato ad esempio, come uno strumento di prevenzione generale”. Come dire, “a chi sale le scale del Tribunale, società civile e imputati che dovranno essere giudicati, che il condannato per quei reati si merita una pena identica a quella inflitta alle persone offese”. Il contrario, per Matteucci, “di quanto afferma l’art. 27 Cost che stabilisce che il condannato è un fine e mai un mezzo, è protagonista di un’opera di risocializzazione complessa che, se funzionasse a dovere, consentirebbe il reinserimento e la restituzione di una persona rinnovata nel tessuto sociale, una persona che non può e non deve mai identificarsi solo con il reato che ha commesso”. “Questo approccio repressivo - prosegue Matteucci - rischia di sfuocare, appiattire, banalizzare e semplificare il complesso fenomeno della violenza maschile contro le donne, riducendola entro lo schema mortificante del paradigma vittimario. Sia chiaro, a scanso di equivoci”. “Non intendo - prosegue Matteucci - negare che le donne sopravvissute (o peggio, non sopravvissute) alle violenze perpetrate dagli uomini non siamo state vittime di un reato, da accertare all’esito di un processo giusto e da punire con una condanna che non deve essere esemplare, ma giusta. Ma intendo stigmatizzare il ricorso a visioni, messaggi e narrazioni ideologiche e politiche che richiamano logiche ispirate ad un “uso strumentale del femminile e della violenza di genere per promuovere e legittimare politiche securitarie e repressive” (T. Pitch)”. Quella del punire, è divenuta, ormai, “una “passione contemporanea” che origina da un’opinione pubblica concentrata sulla necessità di dare sfogo ad istanze repressive. Questo determina, a cascata, un vero e proprio avvitamento che tende ad annullare, mortificare e svilire la complessità dei fenomeni da cui traggono origine e linfa vitale i comportamenti violenti, impedendo di fatto ogni riflessione che sia capace di svelare, prima di tutto, natura ed estensione del gender crime”. Facciamo notare alla presidente che c’è chi sostiene che quella mostra è/ era arte. “Non entro nel merito del valore artistico dell’opera. Il punto per noi è un altro. È ovvio che l’arte veicola messaggi politici. Persino la scelta della sede - un Tribunale penale - contiene in sé un esplicito messaggio politico: deve far da monito, esprimere una forma di prevenzione generale. Un Tribunale dovrebbe, al contrario, rappresentare la sede fisica e simbolica di tutela della nostra Carta fondamentale e nella quale chi è imputato possa sapere che il giudizio sull’accusa che pende a suo carico sia assunto con il rigore, l’equilibrio e l’equidistanza che mancano purtroppo ormai nella narrazione mediatica”. Foggia. Nelle carceri assistenza sanitaria carente. “Difficile reperire psichiatri e personale” foggiatoday.it, 24 novembre 2022 La Presidente del Consiglio regionale si è impegnata a farsi promotrice, presso il Ministero della Giustizia, delle iniziative necessarie a sollecitare risorse finanziarie per l’edilizia giudiziaria e penitenziaria pugliese. Torna a riunirsi il tavolo tecnico sul tema della salute all’interno delle strutture detentive pugliesi, insediato per la prima volta nel febbraio scorso, voluto dalla Presidente del Consiglio regionale della Puglia, Loredana Capone, d’intesa con l’assessore regionale alla Sanità, Rocco Palese, e il garante regionale dei diritti delle persone private della libertà, Piero Rossi. Intervenuti il Provveditore regionale della Puglia e della Basilicata, i direttori generali delle Asl e degli istituti penitenziari, i presidenti dei Tribunali di Sorveglianza pugliesi, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale ‘Antigone’. Nel corso dell’incontro, durato oltre quattro ore, sono state tante le questioni affrontate: dalla carenza di personale medico e infermieristico, a partire da quello psichiatrico (nel carcere di Lucera l’assistenza psichiatrica si riduce, oggi, a sole due ore settimanali), alla mancanza di reparti protetti all’interno degli ospedali; alla condizione infrastrutturale generale degli istituti penitenziari che deve fare i conti con un numero di detenuti sempre superiore alla capacità di accoglienza; alla necessità di intervenire sulla diagnostica a distanza dotandosi della telemedicina e del sistema delle cartelle cliniche elettroniche, così da consentire un monitoraggio costante dei detenuti affetti da patologie e, al contempo, ridurre le procedure di trattamento presso le strutture sanitarie; alle lunghe liste d’attesa pendenti per l’accesso alle Residenze per le misure di Sicurezza (Rems). L’assessore regionale alla Sanità ha annunciato la recente deliberazione dell’Asl Bari riguardante i lavori di ristrutturazione del reparto di medicina protetta all’interno dell’ospedale San Paolo; un progetto di fattibilità in corso per infrastrutturare gli Istituti penitenziari in modo da consentire prestazioni a distanza: dall’elettrocardiogramma alle analisi, alle ecografie, alle radiografie; la realizzazione una nuova Rems. Saranno individuate nuove risorse professionali per l’erogazione di servizi di psicoterapia e incrementato il personale medico-infermieristico.  La Presidente del Consiglio regionale, inoltre, si è impegnata a farsi promotrice, presso il Ministero della Giustizia, delle iniziative necessarie a sollecitare risorse finanziarie per l’edilizia giudiziaria e penitenziaria pugliese. Nel Piano nazionale per la Ripresa e la Resilienza, infatti, 58 sono gli interventi previsti per un totale di 540 milioni di euro ma la Puglia non c’è. “Quando bisogna risolvere i problemi è indispensabile ragionarne tutti insieme e insieme trovare le possibili soluzioni. L’assistenza sanitaria nelle carceri è una grave emergenza. Tanti i suicidi, molti dei quali a Foggia. È davvero grande la difficoltà a reperire psichiatri e personale sanitario che possa prendersi cura dei detenuti. Insieme all’assessore Palese abbiamo riflettuto a lungo sulle possibili soluzioni. L’assessore ha assunto degli impegni precisi e io gli sono grata, perché non possiamo assistere inermi di fronte alle necessità. C’è un tema sanitario che riguarda tutta la Puglia rispetto alla carenza di medici, psichiatri, operatori sanitari, e questo negli istituti penitenziari è ancora più rilevante. Occorre intervenire subito e d’altra parte la politica a questo serve: a trovare soluzioni”. Così l’assessore Rocco Palese: “Si tratta di una delle grandi emergenze del Paese. Come Regione stiamo lavorando all’avvio della terza Rems, e contemporaneamente, attiveremo, attraverso le Asl, una serie di provvedimenti urgenti per potenziare il servizio sanitario carcerario. Ma l’evoluzione non potrà prescindere dalla digitalizzazione, a partire dalle cartelle cliniche elettroniche, che consentirà certamente una facilitazione nell’assistenza. Le carenze sono tante: mancano gli psichiatri e mancano anche medici e operatori perché, ad oggi, persiste ancora molta riluttanza ad andare a lavorare all’interno delle carceri. L’impegno della Regione sarà fare protocolli specifici, così anche da prevenire, per quanto possibile, i casi di suicidio e tutte le altre situazioni difficili che si verificano all’interno del sistema carcerario”. Il garante regionale Piero Rossi ha concluso: “Ormai siamo a un punto di non ritorno e lo ‘scatto d’orgoglio’ delle Istituzioni regionali, oggi rappresentate dall’assessore Palese e dalla presidente Capone, va nella direzione giusta. Rappresentiamo tutti uno Stato che si rende consapevole di prendersi cura di persone che gli vengono consegnate al fine di espiare una pena e che, per questo, per via di quella ‘consegna’, devono essere custodite, preservandone la salute, curandole adeguatamente. Occorre lo sforzo necessario a raggiungere risultati che non ci soddisfino solo sotto il profilo formale e deontologico ma che realizzino l’obiettivo morale di preservare la vita dei detenuti che sono stati affidati al sistema penitenziario”. Caserta. Diritti dei detenuti, patto tra Garante e Università casertanews.it, 24 novembre 2022 Sarà presentato e firmato oggi, giovedì 24, a Caserta, il protocollo d’intesa tra l’Autorità Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ed il dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”. Sarà presentato e firmato domani, giovedì 24, a Caserta, il protocollo d’intesa tra l’Autorità Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ed il dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, per l’avvio di un percorso di cooperazione nei processi di formazione degli operatori impegnati nella tutela dei detenuti. Nell’aula dedicata a Liccardo del polo universitario di viale Ellittico, il direttore Francesco Eriberto d’Ippolito ed il magnifico rettore dell’UniVanvitelli, Giovanni Francesco Nicoletti, accoglieranno il Garante nazionale dei Detenuti, Mauro Palma, per illustrare modalità di attuazione e scopi e finalità del disciplinare di collaborazione tra Authority e dipartimento di Scienze Politiche. “Il protocollo d’intesa che domani presenteremo e sottoscriveremo con il Garante nazionale Palma ed il nostro rettore Nicoletti, rappresenta un altro step fondamentale nel percorso di interazione e sinergia istituzionale che abbiamo avviato da tempo e che vede il nostro Dipartimento avere un ruolo centrale nelle dinamiche formative e da protagonista rispetto alle sfide dell’innovazione che proiettano nel futuro la nostra offerta formativa e accademica”, dichiara il direttore d’Ippolito. Nel corso della conferenza che vedrà gli interventi del rettore Nicoletti, dello stesso direttore del dipartimento di Scienze Politiche e del Garante nazionale dei Detenuti Palma, ci si soffermerà sulla funzione dell’Autorità in favore e a tutela dei diritti delle persone private della libertà personale e sulle ragioni della cooperazione con l’Università nei processi di formazione. Lecce. Detenuti-falegnami per rifare gli arredi delle carceri italiane di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2022 Coinvolte nel progetto 185 persone, 110 detenute nella casa circondariale di Lecce e 75 nella casa di reclusione di Sulmona. Nel progetto Milia la produzione di arredi per 190 istituti nazionali. Detenuti al lavoro, per dare un volto nuovo alle carceri italiane, iniziando dagli arredi. Armadi, tavoli, sedie e sgabelli in legno, destinati a 190 istituti di detenzione del territorio nazionale, saranno prodotte da 185 persone: 110 detenute nella casa circondariale di Lecce e 75 a Sulmona. Questa l’iniziativa portata avanti con il progetto Milia - Modelli sperimentali di intervento per il lavoro e l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale. Un’attività che sarà finanziata grazie al Pon Inclusione 2014-2020 “finalizzata al recupero e al rafforzamento delle competenze delle persone recluse - si legge nella nota del ministero della Giustizia - e all’acquisizione di professionalità richieste dal mercato del lavoro”. La data di avviso della produzione è fissata per gennaio 2023, al termine di una prima fase di adeguamento degli impianti e delle falegnamerie e dopo un’adeguata formazione professionale. A Lecce, 45 detenuti - selezionati fra quelli con fine pena inferiore ai 5 anni - dopo colloqui con gli operatori del locale Centro per l’impiego, stanno già svolgendo attività formativa teorica, che sarà seguita dalla pratica all’interno della falegnameria. A Sulmona, invece, i cinque corsi formativi, ciascuno per 16 detenuti, sono alle battute finali: a dicembre prossimo si svolgeranno gli esami per il conseguimento degli attestati di qualifica ai quali seguiranno le attività di tirocinio. Il progetto sarà illustrato domani a Lecce. Un appuntamento al quale interverranno con i rappresentanti dell’Autorità di gestione del Pon Inclusione e delle Regioni Puglia, Abruzzo, Sardegna e Toscana, interverranno il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Carlo Renoldi, il Direttore generale per il Coordinamento delle politiche di coesione del Ministero della Giustizia Davide Galli, la responsabile dell’Organismo intermedio Paola Giannarelli e la Direttrice dell’istituto penitenziario Mariateresa Susca. Sanremo (Im). I sex-offender diventano sarti in carcere, nasce il progetto “Il foulard del Rispetto” di Lorenza Rapini La Stampa, 24 novembre 2022 Chi ha picchiato le donne, chi le ha abusate, chi ha fatto loro violenza e per questo si trova in carcere ora potrà riflettere sui propri comportamenti anche cucendo foulard che proprio le donne indosseranno. Le stesse mani che hanno colpito, ora faranno i conti con la delicatezza, con ago, filo e seta. L’iniziativa si chiama “I foulard del rispetto” ed è messa in campo a Sanremo dalla maison di moda Daphné, con lo Zonta Club Ventimiglia-Bordighera e ovviamente con la collaborazione del carcere di Valle Armea. La casa di moda Daphné, che non è nuova a iniziative benefiche o di sensibilizzazione, ha creato una linea di preziosi foulard che saranno cuciti appunto dagli uomini sex offender che si trovano in carcere a Sanremo e che partecipano al laboratorio. Un modo di “ricucire” le ferite provocate nel passato, tra l’altro con una attività che da sempre è considerata prettamente femminile. Attraverso la lentezza e la riflessione inevitabili nell’attività di cucito questi uomini potranno forse ripensare a quello che hanno fatto. L’obiettivo resta il recupero, la comprensione dei propri errori, l’insegnamento del rispetto. Ad insegnare a cucire gli orli di seta ai detenuti le stesse Barbara e Monica Borsotto, designer e direttrice della Maison sanremese, azienda di famiglia che porta avanti tradizione e innovazione, attraverso un artigianato di eccellenza. La tecnica è definita “roulottage” e consiste nell’arrotolare la seta sotto le dita, prendendo l’abbondanza di tessuto della cornice del foulard per ottenere un sottile “rotolino” che dovrà essere omogeneo e leggermente rigonfio. I punti devono essere invisibili, ma molto forti, non devono rovinare il tessuto in seta e gli angoli non devono presentare irregolarità. I carré (i tagli) in seta biologica Gost, quadrati da mezzo metro di lunghezza, saranno poi venduti per promuovere il progetto pilota e dare modo a chi ha eseguito l’orlo di ottenere un compenso. I foulard sono chiari con bordo rosso e la stoffa ha tante ciliegie disegnate all’interno: si è scelto questo motivo anche perché la ciliegia rappresenta la coppia e spesso i reati di genere avvengono proprio tra le mura domestiche, coinvolgono mogli e mariti, fidanzati e fidanzate, compagni di una vita o legami più giovani. Questa iniziativa è resa possibile grazie ovviamente alla maison Daphné con Barbara Borsotto, ma anche grazie alla presidente dello Zonta club Ventimiglia-Bordighera Patrizia Sciolla, al direttore della casa circondariale di Sanremo Maria Cristina Marrè e grazie a Rosa Gatto, funzionaria giuridico pedagogica di riferimento del carcere di Valle Armea a Sanremo. A collaborare anche Design072, una agenzia di comunicazione che ha sede a Milano e che ha ideato e sponsorizzato l’immagine coordinata del progetto, utilizzando in particolare carta ecologica ricavata dagli scarti della produzione agroindustriale delle ciliegie. I primi 50 foulard realizzati da questo progetto pilota sono già stati venduti durante una serata organizzata in estate con lo Zonta. Venezia. “Destini Incrociati”: in corso la rassegna sul teatro in carcere di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 24 novembre 2022 Nona edizione di “Destini Incrociati”, una rassegna sul teatro in carcere, in Italia e nel mondo. Si tiene all’università Ca’ Foscari di Venezia, dal 23 al 25 novembre. Vari i contenuti: dagli spettacoli teatrali con le persone detenute - frutto di molti progetti attivi in Italia - alle conferenze, alle rassegne video e fotografiche. L’obiettivo è mostrare alcuni dei prodotti culturali e artistici che nascono nei penitenziari, grazie alla sinergia tra i professionisti del settore e le detenute e i detenuti. La rassegna arriva poco dopo il rinnovo, nel maggio scorso e per altri tre anni, dell’intesa tra il Ministero della Giustizia, il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e l’università degli Studi Roma Tre. L’accordo è funzionale a favorire la creazione e l’implementazione di progetti teatrali nelle carceri. ‘Destini Incrociati’ offre una serie di appuntamenti sui progetti di teatro nelle carceri. Tra questi, mercoledì 23 novembre alle 16, nella casa di reclusione femminile della Giudecca, “Voci e suoni da un’avventura leggendaria”, una reinterpretazione del viaggio di Ulisse nell’isola dei Ciclopi. A salire in scena è la Compagnia “Passi Sospesi” con le detenute del penitenziario veneziano, insieme ad alcuni alunni della scuola media “Torquato Tasso” di Ferrara. Il progetto è dell’associazione culturale Balamòs Teatro, diretta dal sociologo Michalis Traitsis, che promuove la funzione sociale del teatro, portandolo nelle scuole, nei penitenziari e nei luoghi di cura delle tossicodipendenze e dei disturbi psichici. Lo stesso giorno alle 19, l’inaugurazione della mostra “Scatti Sospesi” di Andrea Casari, visitabile fino al 31 gennaio 2023. L’esposizione è un viaggio, lungo 16 anni, nel progetto “Passi Sospesi” di Balamòs Teatro all’interno dei penitenziari veneziani. Alle 20.30 va in scena “I passeggeri”, con i detenuti della casa circondariale di Brindisi, per la regia di Vito Alfarano. Il giorno dopo, 24 novembre, alle 20.30, tocca ai detenuti del penitenziario di Pesaro con lo spettacolo “Testimoni oltre”, diretto da Francesco Gigliotti. Il 25 novembre, alle 20.30 “Al limite” di Grazia Isoardi, interpretato dalle persone recluse presso il penitenziario di Las Palmas, in Spagna. Alcuni numeri da conoscere, per “chiedere salvezza” di Luigi Manconi La Repubblica, 24 novembre 2022 I dati della tredicesima edizione dell’Atlante dell’infanzia raccontano un’Italia divisa e che deve preoccuparsi per i propri cittadini più giovani. Se si è nati in Italia, le possibilità di morire nel primo anno di vita sono tra le più basse al mondo. Il dato di partenza della tredicesima edizione dell’Atlante dell’infanzia (a rischio), di Save The Children (a cura di Cristiana Pulcinelli e Diletta Pistono), è sicuramente positivo. Se non fosse che, proseguendo nella lettura, ci si accorge che quello stesso dato muta in maniera preoccupante da regione a regione: si passa così da 1,45 decessi ogni 1000 nati vivi in Toscana a 3,34 in Sicilia, fino ad arrivare a 4,42 in Calabria. Di conseguenza, anche se nel 2021 l’aspettativa di vita in Italia era di 82 anni, vi sono, mediamente, quasi quattro anni di differenza fra chi nasce a Crotone e chi nasce a Firenze. L’Atlante di quest’anno, complice l’impatto della pandemia, si è concentrato prioritariamente sul diritto alla salute dei minori. Viene stimato che, tra questi, 1 milione e 400 mila vive in una condizione di povertà assoluta: una percentuale, cioè, del 14,2%, che sale al 16% nel Mezzogiorno. L’Italia, sottolinea il rapporto, ha un sistema sanitario caratterizzato da alta professionalità, inclusività e capacità di cura; e, per tutto questo, è considerata fra i paesi più avanzati nella tutela della salute dell’infanzia. Nonostante ciò, nella ripartizione dei fondi pubblici per la salute, solo il 12% è destinato alla prevenzione e alla medicina di base, che dovrebbero essere ritenuti, piuttosto, due fattori imprescindibili della salute del minore. Tra i dati che emergono dall’Atlante, se ne trova uno che merita particolare attenzione: quello sulla salute mentale di giovani e giovanissimi. Secondo la Società Italiana di Pediatria, tra marzo del 2020 e marzo del 2021, in ben nove regioni italiane si è rilevato un aumento del 39,5% di ricoveri per patologie neuropsichiatriche infantili. La causa primaria sembra essere stata la tendenza suicidaria con depressione e disturbo del comportamento alimentare. L’Atlante insiste molto, oltre che sulla necessità di implementare la medicina territoriale, anche sull’importanza dei servizi di supporto alla famiglia e di socialità per il minore, nonché sulla necessità di maggiori risorse ambientali, quali gli spazi verdi. Questo perché, dice il rapporto, “non è solo il sistema sanitario a dover assicurare la salute di un bambino: è l’intero ambiente di crescita, in tanti suoi aspetti, a giocare un ruolo decisivo”. La riflessione sulla salute mentale si allarga all’universo degli adolescenti, acquisendo connotati ancora più drammatici, dove i disturbi alimentari, su un campione di 30.000 studenti, riguardano almeno 1 su 4; e gli episodi di autolesionismo sono aumentati del 15%. Ma dove c’è l’abisso, c’è anche una possibilità di emancipazione. In una scena della serie “Tutto chiede salvezza” (tratta dal romanzo omonimo di Daniele Mencarelli), sulla piattaforma Netflix, il protagonista ventenne, dopo la sua prima notte insonne a seguito di un Trattamento sanitario obbligatorio (Tso), fissa inorridito i suoi compagni di stanza. Tutti gli sembrano dei matti veri: da Mario, il maestro elementare che da anni mangia solo mele cotte, a un tizio con i capelli lunghi schiacciati sul viso - di cui nessuno conosce il nome - che invoca la Madonna. “Io non c’entro niente con voi”, urla il protagonista. Ma poi, quel sentimento di estraneità via via si trasforma in comprensione, in condivisione del dolore e in qualche attimo di reciproca salvezza. Valditara: “Niente reddito di cittadinanza a chi non torna a scuola” di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 24 novembre 2022 Il ministro dell’Istruzione e “del merito” Giuseppe Valditara: C’è il problema della dispersione scolastica? Togliere il sussidio a chi non ha diploma, non lavora, né si forma. Le nuove prede da braccare nella caccia al povero lanciata dal governo Meloni sono 364.101 percettori del “reddito di cittadinanza” che hanno tra i 18 e i 29 anni. Tra di loro ci sono 11.290 che hanno la licenza elementare, o nessun titolo, e 128.710 con la licenza media. Sono entrati ieri nel bersaglio del Ministro dell’Istruzione (e “del Merito”) Giuseppe Valditara. In attesa che perdano il sussidio entro agosto 2023, come gli altri 660 mila “occupabili” fino ai 59 anni, questi “Neet” dovrebbero “completare il percorso scolastico per chi lo abbia illegalmente interrotto o un percorso di formazione professionale nel caso non siano occupate né impegnate in aggiornamenti formativi, pena in entrambi i casi la perdita del reddito”. Ad avviso di Valditara “questi ragazzi preferiscono percepire il reddito anziché studiare e formarsi per costruire un proprio dignitoso progetto di vita”. Per il ministro, che sta manifestando in queste settimane una propensione da ideologo del governo Meloni, non frequentare le lezioni coincide con una “violazione di legge” ed è un atto “illegale”, comunque “inaccettabile moralmente”. Il problema: tutto questo non è penalmente rilevante. La differenza non può essere rimossa da un approccio criminalizzante. Non rispettare l’obbligo scolastico è considerato “reato”, ma solo con riferimento all’istruzione elementare, dove sarebbe prevista una simbolica pena pecuniaria per i genitori, e non per gli studenti. Per quanto riguarda l’obbligo formativo il problema non si può nemmeno porre in questi termini. Nel sistema immaginato dal “reddito di cittadinanza” la mancata partecipazione alla formazione professionale è più che altro responsabilità del sistema delle “politiche attive del lavoro” che non funziona. Senza contare che, ad un’attenta lettura, nella legge attuale è prevista la possibilità, non l’obbligo di completare la propria scolarizzazione. A quanto pare è a questo che vorrebbe tendere il ministro. Usando il reddito come strumento ritorsivo Valditara intenderebbe risolvere sia il problema sociale e sistemico della dispersione scolastica che quello della disoccupazione o inoccupazione giovanile. Non è chiaro come possa avvenire, e con quali strumenti coercitivi e repressivi. Ciò che conta è l’esibizione ideologica del bersaglio in una guerra contro le nuove “classi pericolose”: dopo i ravers, ora i “Neet”. Nel loro caso lo Stato “etico” pensa a fargli costruire un “dignitoso progetto di vita”, con le buone o con le cattive. Questa è la conseguenza quanto Valditara ha detto nei giorni scorsi parlando dei “lavori socialmente utili” ai quali destinare gli “studenti violenti”. In quell’occasione si era soffermato anche sui cosiddetti “Neet”, una categoria statistica malintesa che in Italia comprende persone fino ai 29 anni. Nell’area tra il populismo dei Cinque stelle, e della sinistra subalterna, chi difende l’attuale “reddito di cittadinanza” corre il rischio di rimuovere il fatto che misure analoghe a quelle vagheggiate da Valditara sono già previste nell’articolo 7, comma 9, della legge del 2019 varata da Lega e Cinque Stelle. È già prevista la decadenza del sussidio nel caso in cui un minorenne non frequenti “corsi di formazione e istruzione”. In linea teorica, si vorrebbe punire la famiglia a causa del mancato rispetto di un obbligo scolastico o formativo da parte di un suo componente. Nell’ottica dell’abolizione del “reddito di cittadinanza” Valditara interpreta lo stesso spirito punitivo, quello del Workfare, che va al di là di una legge. Lo fa in nome del “Meritare e punire” che egli intende come un “preciso indirizzo politico” con il quale intende correggere il legno storto di una società di “oziosi”. “Il venir meno del reddito di cittadinanza rafforzerà la possibilità di avere lavoratori in gamba e capaci” ha detto la ministra del turismo Daniela Santanché. Parole rivelatrici. L’eliminazione del “reddito di cittadinanza”, che oggi agisce come un “reddito minimo”, serve a eliminare l’unica e incerta diga contro lo sfruttamento e il ricatto dei lavoratori precari. Nel turismo, ad esempio. Uno dei settori dove l’economia estrattiva capitalistica ha desertificato la vita di città e borghi. Solo una radicale riformulazione del “reddito di cittadinanza” in un reddito di base incondizionato, all’interno di una rivoluzione sociale del Welfare, può contrastare una simile offensiva politica reazionaria. La delega per le Politiche sulle droghe ad Alfonso Mantovano, proibizionista doc di Marco Perduca Il Manifesto, 24 novembre 2022 A neanche un mese dalla composizione del governo la delega per le politiche sulle droghe è stata data ad Alfonso Mantovano. Essendo note le sue posizioni, è forse più appropriato dire “antidroga”. Una “buona notizia”, ha commentato Luciano Squillaci, presidente della Federazione Italiana delle Comunità Terapeutiche, Fict. “Conosciamo e stimiamo Mantovano”, ha dichiarato, ringraziando la viceministra delle politiche sociali Maria Teresa Bellucci per voler avviare “un’integrazione socio sanitaria che oramai non si poteva più attendere”. Il problema della Fict, oltre al rincaro gas e luce, è “una politica nazionale che costruisca una concreta interlocuzione con il nostro mondo, troppo spesso dimenticato, che una volta per tutte entri in connessione con quelle che sono le reali criticità presenti nei territori. Occorre rimettere al centro del dibattito la persona e non la sostanza, perché finora al centro c’è sempre stata la sostanza. È ormai imprescindibile mettere al vertice di tutti gli interessi l’uomo (sic) e fare un ragionamento concreto sulla questione delle dipendenze e dei giovani senza cedere al facile compromesso della ‘normalizzazione’ dell’uso di sostanze”. Laureato nel 1981 in giurisprudenza alla Sapienza con una tesi su “Problemi di legittimità costituzionale della legge 22 maggio 1978 n. 194”, Mantovano entra in magistratura due anni dopo e approda alla Camera nel 1996 entrando in Alleanza Nazionale. Da allora resterà legato al centrodestra come parlamentare o membro di governo fino al 2013 per tornare a fare il magistrato fino in Cassazione. Nei giorni in cui si raccoglievano le firme per il referendum per la legalizzazione della cannabis, incurante del suo ruolo istituzionale, da giudice della Suprema corte Mantovano non fece mancare la sua opinione contraria tanto al referendum quanto alla minima modifica del Testo Unico sulle droghe 309/90 anticipando la totalità gli argomenti usati dal Presidente della Corte costituzionale Amato nella sua sentenza di inammissibilità. Di lì a poco, in qualità di presidente del Centro Studi Livatino avrebbe istituito un comitato per il NO al referendum presentando una memoria contraria in occasione della Camera di consiglio per l’ammissibilità del quesito. A luglio scorso ha curato “Droga le ragioni del NO”, una raccolta di interventi della destra catto-proibizionista col solito approccio: no a “leggi permissive” come negli Usa, i cui studi datati continuano a esser utilizzati per dimostrare danni irreversibili nel cervello, e “droga uguale morte. Insomma una nomina guadagnata sul campo. La delega principale di Mantovano è all’Autorità per la sicurezza della Repubblica, un organo di direzione e indirizzo della Presidenza del Consiglio nell’ambito delle strutture d’intelligence. Sicuramente comporta un lavoro impegnativo e complesso, sarà quindi interessante vedere chi andrà - o resterà - a dirigere il Dipartimento per le politiche antidroga dove, in effetti, si concentra il “grosso” del lavoro anche di relazione con la società civile e distribuzione delle risorse. La differenza tra i governi di centrosinistra e centrodestra in materia di droghe è che se i primi non hanno mai fatto nulla - di buono o di cattivo - i secondi si sono sempre distinti per una serie di piccole e grandi modifiche che dalla Fini-Giovanardi in poi non hanno posto né le sostanze né le persone al centro delle loro politiche ma una visione del mondo per cui è lo Stato che decide quali siano i comportamenti sicuri e sani; uno Stato che, indifferente al radicamento socio-culturale di certi fenomeni, ritiene che il diritto penale sia lo strumento più appropriato per governarli. Il decreto “anti-rave” non è stato che un’anticipazione, il “bello” deve ancora venire. Caro Piantedosi, colpendo le Ong molti più migranti moriranno in mare di Rosario Russo* Il Dubbio, 24 novembre 2022 “Riteniamo che in ossequio a principi di diritto internazionale quando si sale a bordo di una nave in acque internazionale è come se si fosse saliti su un’isola sotto l’egida territoriale di quel paese. E questo dovrebbe far radicare gli obblighi di assistenza”: è stata la tesi del Ministro Piantedosi esposta in conferenza. Tutto vero. Se un africano scelga di salire a bordo di una nave da crociera battente bandiera tedesca, della sua sicurezza è responsabile la compagnia di crociera. Ma - signor Ministro - a meno che lei non possa dimostrare il contrario, stiamo discorrendo di naufraghi provenienti dall’Africa e salvati in mare da una Ong, che naviga sotto la bandiera tedesca! Basta uno sguardo alla carta geografica per comprendere quanto sarebbe lungo e pericoloso, specialmente per persone già così traumatizzate, il viaggio verso le coste tedesche, dalla Sicilia orientale ad Amburgo per esempio. E d’altronde le ONG sono attrezzate per il salvataggio, ma non per tragitti così lunghi e con tanti ospiti infermi o comunque traumatizzati: non sono navi da crociera. Proprio per questo la legge del mare stabilisce ovviamente che intanto i naufraghi devono essere subito accompagnati e sbarcati sul porto più vicino, restando impregiudicata ogni altra successiva decisione. Le aggiungo che la disciplina del mare prevede che, in caso di naufragio, si debbano salvare non solo le persone ma perfino il carico mercantile stivato nella nave. Il procedimento di salvataggio si conclude soltanto con lo sbarco nel porto sicuro più vicino, perché la navigazione marittima è di per sé rischiosa. Se un infartuato viene soccorso da un’ambulanza, il pronto soccorso più vicino può negare ingresso e assistenza, assumendo la propria incompetenza territoriale? E se la nave salvatrice fosse stata australiana? La salvezza dei naufraghi non può dipendere dall’esito della guerra tra ‘ sovranisti’, nella specie soprattutto il ministro Matteo Salvini e l’analoga sponda politica francese (Marine Le Pen?), perché, per dirla con I. Kant, la vita umana non è un mezzo ma un fine (artt. 2 e 3 Cost.). In realtà la tesi ‘giuridica’ del Ministro ha uno scopo pratico evidente: impedire o quanto meno scoraggiare l’attività salvifica delle ONG e allontanarle materialmente dalle rotte degli emigranti. Se le ONG non pattuglino più il Mediterraneo, non ci sarebbero più interventi di salvataggio o quanto meno essi diminuirebbero. Si assisterebbe ad una selezione naturale degli emigranti: si salverebbero soltanto i più forti. Ma gli emigranti più ‘ fragili’ (o meno fortunati) continuerebbero a partire dalle coste libiche, a naufragare e a morire? Il Ministro è pronto a scommettere sulla loro spontanea desistenza, anche perché - duole soltanto pensarlo - bandite le ONG dal Mediterraneo, ... nessun testimone esterno potrà più smentirlo! Ma già di per sé accettare siffatto rischio è moralmente diabolico e costituzionalmente illegittimo! Altrettanto intollerabilmente mistificatorio sembra attribuire proprio alle Ong la colpa di avere trasformato il Mare Nostrum in un cimitero liquido. Il Ministro spera d’impedire la contestazione di delitti (già ampiamente sperimentata da altri Ministri, con vario esito), disponendo che almeno donne, minori e bisognosi di cure siano immediatamente sbarcati nel porto siciliano più vicino. Ma così in realtà dimostra di ben sapere che l’ulteriore protrarsi del lungo viaggio anche per i naufraghi rimasti a bordo è comunque pericoloso e dannoso. No, non è una crociera! E, più che ‘ bizzarro’, non è allarmante che, nel giro di poche ore, tutti coloro che in grande numero erano stati considerati abili a riprendere un lungo viaggio per le coste tedesche, siano stati ridefiniti ‘ fragili’ e fatti sbarcare? A dirla tutta, la politica migratoria italiana brancola tra due diversi indirizzi. Instaurare una costruttiva e positiva trattativa tra i paesi europei per distribuire equamente gli emigranti dopo lo sbarco nel porto più vicino. Oppure impedire tour court (i salvataggi e) lo sbarco sulle nostre coste. L’attuale Governo sembra preferire di fatto questa seconda alternativa. Perché? La prima infatti non ci avvantaggerebbe, giacché l’Italia accoglie stranieri in numero assai inferiore rispetto a molti degli altri paesi europei, specialmente a volere considerare i profughi dall’Ucraina. Italiani, brava gente? *Già sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte Stati Uniti. Quando la pena di morte diventa una tortura di Alessio Marchionna Internazionale, 24 novembre 2022 La sera del 17 novembre l’Alabama ha annullato all’ultimo momento l’esecuzione della condanna a morte nei confronti di Kenneth Eugene Smith, un uomo giudicato colpevole nel 1988 per l’omicidio di Elizabeth Dorlene Sennett. Detta così suona come una notizia già sentita. Negli ultimi anni è capitato spesso che un’esecuzione fosse annullata o rimandata per una grazia concessa all’ultimo momento, per una sentenza della corte suprema o perché lo stato in questione non riusciva a procurarsi i farmaci necessari per l’iniezione letale. Ma la storia di Smith è diversa, ed è il sintomo di una situazione inquietante nelle prigioni dell’Alabama. Il pomeriggio del 17 novembre gli avvocati di Smith erano riusciti a convincere un tribunale a sospendere l’esecuzione. Ma lo stato aveva fatto ricorso alla corte suprema, il massimo organo della giustizia statunitense, che aveva ribaltato la decisione della corte d’appello e dato il via libera all’esecuzione. Così intorno alle dieci di sera il detenuto è stato portato nella camera delle esecuzioni della prigione di Atmore ed è stato legato a una barella. Gli operatori hanno cominciato a inserire gli aghi cannula che servono per iniettare le sostanze letali. Ma sono riusciti a inserirne solo uno. La procedura andava completata prima che finisse il 17 novembre (cioè entro la mezzanotte), così alle 23.21, dopo vari tentativi, gli operatori si sono resi conto di non avere più tempo, hanno annullato l’esecuzione e riportato il detenuto in cella. Niente di insolito? È una situazione che negli ultimi mesi si è verificata più volte, sempre con detenuti che avevano problemi di salute, come l’obesità, che rendevano difficile per gli operatori sanitari trovare le vene. Il 22 settembre è stata annullata l’esecuzione nei confronti di Alan Eugene Miller, condannato a morte nel 2000 per triplice omicidio. Ma il caso che ha fatto più discutere è quello di Joe Nathan James, morto il 28 luglio di quest’anno al termine di una procedura che ha suscitato l’indignazione non solo della famiglia e degli avvocati del detenuto, ma anche dell’opinione pubblica in generale. La sua vicenda è stata raccontata in un articolo dell’Atlantic. “La procedura per l’iniezione letale è andata avanti per circa tre ore. Prima gli operatori hanno provato con una serie di punture con aghi, senza ottenere risultati. Alla fine hanno operato dei tagli in un braccio per arrivare a una vena (una procedura chiamata venous cutdown). Subito dopo l’esecuzione, John Hamm, il commissario del dipartimento delle prigioni dell’Alabama, ha detto che nel corso dell’esecuzione non era successo ‘niente di insolito’. Tutta la vicenda sarebbe potuta passare sotto silenzio se l’Atlantic non avesse pubblicato i risultati di un’autopsia indipendente effettuata poco dopo la morte di James. Ero presente all’autopsia e ho visto con i miei occhi cosa gli avevano fatto, tutti i punti di puntura e le ferite aperte”. Dopo che si è saputo come era morto James, molti detenuti dell’Alabama che si trovano nel braccio della morte hanno presentato dei ricorsi per bloccare le esecuzioni, sostenendo che c’era il rischio di una morte crudele e dunque illegale. È su questa base che nel pomeriggio del 17 novembre era stato accolto il ricorso degli avvocati di Kenneth Eugene Smith poi respinto dai sei giudici conservatori della corte suprema senza una spiegazione dettagliata. Il caso di Smith è insolito anche per come fu emessa la sentenza nei suoi confronti, nel 1988. Undici dei dodici giurati votarono per risparmiargli la vita e condannarlo all’ergastolo senza la possibilità di libertà vigilata. Ma il giudice cambiò il verdetto, sostenendo che i giurati si erano lasciati impietosire dalla testimonianza della madre di Smith. Nel 2017 l’Alabama ha approvato una legge che vieta ai giudici di scavalcare le giurie, ma il provvedimento non è retroattivo, quindi Smith resta nel braccio della morte. Dopo la fallita esecuzione, Kay Ivey, governatrice repubblicana dello stato, ha dichiarato: “Anche se questa sera non è stato possibile fare giustizia a causa di tentativi legali dell’ultimo minuto di ritardare o annullare l’esecuzione, era giusto provarci. Le mie preghiere sono rivolte ai figli e ai nipoti della vittima, costretti a rivivere la loro tragica perdita”. Il 21 novembre Ivey ha annunciato che tutte le esecuzioni saranno sospese in attesa di una revisione della procedura. Turchia. Annullate condanne di 4 difensori dei diritti umani di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 24 novembre 2022 La Corte di Cassazione turca ha annullato la condanna dell’ex presidente e dell’ex direttrice di Amnesty International, Taner Kilic e Idil Eser, e di altri due difensori dei diritti umani, Ozlem Dalkiran (a sua volta cofondatore di Amnesty International Turchia insieme a Kilic) e Gunal Kursun, che nel luglio 2020 erano stati condannati in primo grado, sulla base di accuse inesistenti, in un processo politicamente motivato. Lo ha reso noto l’ong in una nota, precisando che la condanna di Kilic è stata annullata per “incompletezza delle indagini”Il caso è stato rimandato a un tribunale di primo grado. “La sentenza di oggi pone fine a una parodia della giustizia di dimensioni spettacolari. Siamo sollevati per il verdetto, ma rammaricati per il fatto che su Taner Kilic siano state richieste ulteriori indagini - ha dichiarato Agnes Callamard, segretaria generale di Amnesty International -. Per oltre cinque anni abbiamo visto l’ingiustizia all’opera nonostante vari tribunali avessero stabilito l’infondatezza delle accuse. La sentenza di oggi rivela quale fosse il vero intento di un procedimento giudiziario mosso da ragioni politiche: usare i tribunali per ridurre al silenzio le voci critiche” Kilic, avvocato in materia di diritti dei rifugiati e attuale presidente onorario di Amnesty International Turchia, era stato arrestato nel giugno 2017 e detenuto per oltre 14 mesi. Nonostante la totale assenza di prove, nel giugno 2020 era stato condannato a sei anni e tre mesi di carcere per “appartenenza a un’organizzazione terrorista”. Eser, Dalkiran e Gunal Kursun, dopo aver trascorso tre mesi in carcere nel 2017, erano stati condannati a due anni e un mese per “assistenza a un’organizzazione terrorista”. Nel corso di 12 udienze, tutte le prove presentate contro i quattro difensori dei diritti umani si erano rivelate ripetutamente e completamente infondate. Nel maggio 2022 la Corte europea dei diritti umani aveva affermato che le autorità turche non avevano “alcun ragionevole sospetto che Kilic avesse commesso un reato” e che la sua detenzione preventiva per accuse di terrorismo era “direttamente legata alle sue attività di difensore dei diritti umani”. “Se oggi celebriamo il verdetto della Corte di cassazione, non dobbiamo dimenticare che in tutta la Turchia tanti difensori dei diritti umani stanno languendo in carcere oppure vivono col timore di essere arrestati e di rischiare procedimenti giudiziari basati su accuse infondate - ha commentato Callamard. Traiamo forza dalla vittoria di oggi. Resteremo accanto a Taner fino alla fine, lotteremo contro l’incessante repressione dei diritti umani in Turchia e staremo dalla parte di coloro che rifiutano di essere ridotti al silenzio dalle minacce del governo”.