Mauro Palma: il carcere moltiplica il male di Giuseppe Rizzo L’Essenziale, 23 novembre 2022 Il Garante nazionale dei detenuti è un matematico che ha cominciato a occuparsi dei problemi delle carceri italiane negli anni settanta. Nel 1991 ha fondato l’associazione Antigone. All’ingresso del ristorante Luna e l’altra, nella Casa internazionale delle donne di Roma, Mauro Palma saluta una persona. I due chiacchierano, poi si augurano buona giornata e quando Palma torna mi chiede: “L’hai riconosciuto?”. Impresa complicata: l’uomo ha una parte del viso coperta da una mascherina e l’altra da un ciuffo di capelli grigi. “È Giorgio Parisi, il premio Nobel per la fisica”. Parisi entra nella sala principale con due persone, mentre Palma mi fa strada verso il gazebo in giardino. È il posto che il garante nazionale dei detenuti ha scelto per questo pranzo. “Un luogo speciale”, dice, “dove può capitare d’incontrare la femminista storica e il volontario di Regina Coeli, la giovane attivista e un premio Nobel”. Sorride, dice che conosce Parisi da tempo: “Io sono un matematico, ci lega il sapere scientifico, lui però ha fatto un po’ più di strada in quel campo”. Palma, invece, ha preso un’altra strada. Dal 2016 è presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, un organismo indipendente che si occupa di carcere ma anche di centri per i migranti, trattamenti sanitari obbligatori (tso) e residenze per anziani. Oggi ha due lauree honoris causa in giurisprudenza ed è regolarmente invitato come giurista a tenere conferenze e lezioni in università in giro per il mondo. La matematica però è rimasta un basso continuo della sua vita: “Le galere sono piene di orrori, i numeri mi aiutano a portare il pensiero altrove”. E non sono solo una distrazione: Palma si è laureato con una tesi sulla formalizzazione del linguaggio e con Walter Maraschini ha scritto un manuale di matematica che ha venduto un milione di copie. “Criticavamo il modo in cui era insegnata nei licei”, dice dopo aver ordinato delle polpette vegetali. “Quel testo è stato un po’ il leader della minoranza nelle discussioni di quegli anni sulla matematica”. Cambio di passo - Nonostante il successo del libro, Palma era combattuto. Classe 1948, capelli grigi, abito blu e camicia a righe bianche e azzurre, dice che non è stato facile decidere quale strada seguire: “Negli anni settanta facevo una ricerca sui frattali, anche se ancora non si chiamavano così, mentre intorno a me il mondo bruciava”. A Roma partecipa alle manifestazioni, dipinge e frequenta la libera scuola del nudo all’Accademia delle belle arti, studia il cinese perché “affascinato dall’idea di una lingua non fonetica”. Ma soprattutto si avvicina al gruppo del manifesto, a Rossana Rossanda e Luciana Castellina, e comincia a scrivere di carcere. La galera non entra nella sua vita come conseguenza dell’impegno politico, ma con uno strappo: “Una mia amica fu uccisa dall’ex fidanzato poco dopo essere stata a casa mia. L’assassino scrisse una lettera a noi amici cercando un confronto. La cosa ci sconvolse, ma accettai di vederlo andando a Regina Coeli, a due passi da qui. Fu quella la prima volta che misi piede in una prigione”. Lì Palma capisce subito che il carcere “non fa altro che moltiplicare il male, perché non ci sono progetti, responsabilizzazione delle persone, alternative alle gabbie”. Parallelamente alle udienze per l’omicidio dell’amica, segue i processi politici degli anni settanta e con altri del manifesto partecipa al dibattito su una soluzione politica alla lotta armata. Quando quell’esperienza si esaurisce, ciascuno prende la sua strada, ma Palma continua a occuparsi di giustizia e carcere, fondando negli anni ottanta la rivista Antigone, che poi diventerà anche un’associazione. “Nel decennio successivo ci fu un cambio di passo fondamentale: per la prima volta a noi di Antigone fu consentito di entrare nelle carceri di tutta Italia come osservatori”. E così Palma e la sua squadra seguono dal vivo la crescita mostruosa del numero dei detenuti, che passano da 24mila nel 1990 a 53mila nel 2000, fino a 67mila nel 2010. “Cifre impressionanti, dovute in parte alla legge sulle droghe approvata proprio nel 1990, ma anche allo smantellamento dello stato sociale e all’affermazione del decoro come strumento per criminalizzare e punire chi non rientra nei ranghi ed è percepito come una minaccia, dai poveri ai tossicodipendenti”. In gabbia - Oggi, ricorda Palma, le persone in cella perché condannate a pene inferiori a un anno sono 1.180. Quelle che devono scontare uno o due anni sono duemila. Tra loro ci sono molti senzatetto, stranieri, autori di reati di poco conto. “Davvero pensiamo che siano una minaccia per la società? Quelli dietro le sbarre per crimini gravi o associativi sono circa 13mila su 53mila. Il resto sono percorsi che non hanno trovato risposte nel territorio e sono finiti in cella”. Il carcere è la risposta a tutto: alla malattia psichiatrica, alla dipendenza da alcol o droghe, alla povertà. E quando le sbarre non bastano, si usa la violenza. “Negli anni duemila, prima come membro e poi come presidente, sono stato al Comitato europeo per la prevenzione della tortura”, dice Palma. “Ho visto i segni della tortura nelle stazioni di polizia in Cecenia, nei campi profughi in Kosovo, nei luoghi per gli interrogatori in Macedonia. Ho imparato a dare un peso a questa parola e a riconoscere violenze diverse”. Secondo Palma c’è un filo rosso che ne lega alcune: “I pestaggi, le umiliazioni e la crudeltà nella caserma Bolzaneto durante il G8 di Genova nel 2001 e nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nel 2020 sono gli strumenti di una violenza di branco, territoriale, che esplode perché l’altro è visto non come una persona che ha commesso un reato, ammesso che l’abbia commesso, ma come un nemico, una minaccia alla propria autorità e perfino alla propria esistenza. Impedire tutto questo non è semplice. Ma se non immaginiamo alternative al carcere, se le gabbie sono l’unica risposta, impedirlo diventa impossibile”. I due uomini della scorta di Palma, che da anni è sotto tutela, gli fanno capire che si è fatto tardi. Sono le due e mezza e il Garante ha un incontro in Senato. Un altro appuntamento per parlare di gabbie e libertà calpestate. Solo a sera ci sarà di nuovo un po’ di tempo per la matematica. Non soltanto suicidi, la sanità in prigione è da terzo mondo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 novembre 2022 Siamo giunti a 79 suicidi dall’inizio dell’anno, gli ultimi due nel giro di un giorno. Uno avvenuto nel carcere di Foggia, il quinto solo in quella struttura. L’altro a Sollicciano, il quarto nel medesimo penitenziario dall’inizio dell’anno e si tratta di un detenuto marocchino. Aveva tentato il suicidio anche in passato e aveva compiuto atti di autolesionismo. Qualche anno fa era salito sul tetto per protesta ed era cascato provocandosi fratture alle gambe. Da settimane il detenuto, in carcere per stalking e con genitori residenti a Firenze, stava dicendo ai volontari che lo seguivano che avrebbe voluto togliersi la vita. Un grido forse inascoltato. Ma i suicidi rappresentano solo la punta di un iceberg che è costituito anche dai limiti cronici della sanità penitenziaria. La Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe) lavora da anni sul complesso sistema delle carceri, in cui ogni anno transitano oltre 100mila persone, alle quali deve essere costituzionalmente garantito il diritto alla salute, obiettivo non semplice, complicato da un’organizzazione disomogenea, dal riferimento a due dicasteri, Giustizia e Salute, e alle organizzazioni sanitarie regionali. La grave carenza di personale sanitario e di formazione specifica, le difficoltà operative per il personale infermieristico, l’assenza di un reale coordinamento tra le regioni sono oggi i problemi principali, che si traducono in un’assistenza sanitaria segnata da gravi criticità, prima fra tutte la carenza di personale. Questo uno dei principali messaggi emersi dal XXIII Congresso Simspe - Agorà Penitenziaria, tenutosi a Roma il 17- 18 novembre scorso. Malattie infettive, psichiatriche e odontoiatriche, accreditamento socio- sanitario nelle comunità confinate tra i temi sotto i riflettori. “Il Covid-19 ha colpito la medicina penitenziaria non solo per un il numero di contagi e le complesse attività di prevenzione e vaccinazione, ma per l’effetto dirompente della pandemia su tutto l’assetto sanitario nazionale e in particolare sulla medicina territoriale di cui la sanità penitenziaria fa parte - sottolinea Luciano Lucanìa, Presidente Simspe - Il passaggio delle competenze dal dicastero della Giustizia al SSN, avvenuto nel 2008 in modo disordinato, ha provocato una frammentazione tra i servizi che le diverse regioni sono in grado di erogare. A questo si aggiunge il complesso problema emerso dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari nel 2015: i soggetti in misura di sicurezza avrebbero dovuto confluire nelle neo istituite Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), ma proprio le carceri ancora ospitano detenuti in attesa di Rems o altra sistemazione residenziale. Queste condizioni incidono non solo sui servizi, ma anche sulla disponibilità dei medici ad accettare di lavorare in un sistema che in questo momento presenta gravissime criticità”. Il Prof. Sergio Babudieri, Direttore Scientifico Simspe, spiega che la pandemia ha sottratto energie e risorse alle attività nelle carceri e “il personale sanitario che opera nelle carceri non è fisso e le altre opportunità emerse hanno ulteriormente depauperato questa categoria. In questi anni abbiamo realizzato importanti risultati: i dati raccolti sull’Epatite C hanno permesso di eliminare il virus nella popolazione carceraria di diversi penitenziari, gli screening per l’HIV hanno consentito di avviare i relativi trattamenti. Gli stessi detenuti si sono rivelati collaborativi, a seguito delle attività informative che gli hanno permesso di comprendere il contributo che si offriva a tutela della loro salute. La pandemia ha interrotto questo processo virtuoso e dopo il lungo stop dovremo ripartire con processi di screening, informazione e formazione”. Sono 79 i suicidi in carcere registrati nel 2022, e mancano ancora quasi due mesi alla fine. Un numero impressionante, senza paragoni in epoca recente. “Questo dato deve farci riflettere, ma ancora più rilevanti sono i dati che abbiamo in modo parziale o che non possiamo reperire - spiega Luciano Lucanìa - Bisognerebbe sapere, ad esempio, quanti siano i detenuti che hanno tentato il suicidio senza riuscirci. O anche le statistiche su italiani e stranieri, su coloro che sono in custodia cautelare e quanti in espiazione di pena, le condizioni nelle quali si vive in carcere, tra sovraffollamento, promiscuità, con sentimenti di disperazione e frustrazione. In queste condizioni non è semplice identificare chi abbia realmente una malattia mentale che può portare al suicidio. Queste lacune non si colmano con la burocrazia, ma con un’azione di sistema, dove Simspe e il personale sanitario possono partecipare, anche se componente minoritaria: affinché il supporto scientifico sia concreto, è necessario che gli istituti siano sicuri per il personale sanitario e dotati delle risorse necessarie. Serve una nuova cultura del carcere, basata su una visione che consenta al detenuto di vivere l’esperienza in maniera corretta”. Fra le varie tematiche affrontate nel Congresso è emerso tra gli altri con particolare significato il problema odontoiatrico quale emergenza reale. Talvolta sottovalutati, i problemi odontoiatrici rappresentano una realtà che grava pesantemente sulla salute dei detenuti. “Il reddito del 90% dei detenuti è inferiore al livello della soglia di povertà e altrettanti hanno un basso livello culturale e di istruzione; il 30- 40% dei detenuti è tossicodipendente e altrettanti fanno uso di psicofarmaci, elementi che portano a una soglia del dolore più elevata con la conseguente indifferenza algica e disinteresse per eventuali cure mediche - sottolinea Mario Zanotti, specialista ambulatoriale Ulss 9 Verona, dentista presso casa circondariale Montorio, Verona - Da questi dati si evince che un numero assai elevato di detenuti necessita di cure odontoiatriche, spesso anche molto più ampie e complesse rispetto alla società civile”. Anche il bruxismo (il digrignamento dei denti) interessa il 30% della popolazione generale ma sale rapidamente al 70% nella popolazione penitenziaria e può rappresentare l’emblema del livello di tensione emotiva dei soggetti privati della libertà. Per far fronte a questo servono professionisti e strutture adeguate. Nello studio su alcune case circondariali (Verona, Cagliari, Potenza, Trento, Milano Bollate) in relazione al periodo 2017- 2018 risulta che nessuna protesi è stata confezionata a livello degli istituti penitenziari; sono state confezionate a carico del SSN solamente 6 protesi mobili (tutte a Potenza), ma non in carcere, bensì in ospedale. “Tuttavia - prosegue Zanotti -, le esigenze protesiche, erano e restano infinitamente più grandi. In breve, un detenuto non ha possibilità di ottenere una protesi che non sia a pagamento. Le conseguenze di questa situazione sono diverse: anzitutto, vi è un aspetto fisico, per cui queste persone non possono alimentarsi correttamente, ma devono ricorrere a cibi tritati o liquidi (dieta semisolida), rinunciando alla capacità nutrizionale oltre che al piacere della tavola. In secondo luogo, c’è un aspetto psicologico: senza denti non si riesce a sorridere, si riduce l’autostima e la considerazione di se stessi, in un ambiente che già di per sé provoca difficili condizioni psicologiche che spesso inducono alla depressione e in diversi casi al suicidio. La mancanza di cure odontoiatriche non è una causa diretta di questi fenomeni, ma può considerarsi una concausa”. Le cure odontoiatriche quindi spesso sono sottovalutate, eppure hanno un effetto sul fisico e sulla psiche dei detenuti. D’altronde basta semplicemente immedesimarsi per comprendere quanto sia devastante. Ergastolo ostativo. “Al detenuto si chiede la prova diabolica” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 novembre 2022 Decreto 162, al via le audizioni in commissione Giustizia: “Testo da cambiare sotto diversi aspetti”, dice il professor Vittorio Manes. Il dl del 31 ottobre (rinvio Cartabia, ergastolo ostativo, rave party) va modificato sotto diversi aspetti. Questa la sintesi delle audizioni informali tenutesi ieri in Commissione Giustizia del Senato. Oggi ultimo round. Ad aprire i lavori il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. Per la sua particolare situazione, ovvero quello di giudice a quo a cui qualche settimana fa la Consulta ha rinviato gli atti sul decreto legge attualmente vigente in materia di fine pena mai, il suo intervento è stato diplomatico e molto tecnico. Nessun accenno ai paletti stringenti a cui saranno chiamati i detenuti che vorranno accedere alla liberazione condizionale. Solo riferimenti molto dettagliati sulla norma, come il “difetto di coordinamento tra il nuovo 1 bis. 2 e 1. ter: ci sono reati che sono previsti sia nell’1 ter, che prevede un regime meno severo per l’accesso ai benefici, che nell’1 bis. 2”. Poi un passaggio sui permessi premio: “Diventano competenza del Tribunale di Sorveglianza ma non per tutti i detenuti e neanche per tutti quelli sottoposti al 4 bis prima fascia. Scelta discutibile perché elimina un grado di merito solo per alcuni. Bisognerà valutare se tale previsione è compatibile con l’art. 3 della Costituzione”. Per quanto concerne il rinvio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia ha chiesto una disciplina transitoria su quattro aree: “Indagini preliminari, udienza pre- dibattimentale nei procedimenti a citazione diretta, procedibilità d’ufficio a querela che tocca reati importanti, trattazione scritta nei giudizi di impugnazione”. Per la norma anti- rave: “Non raggiunge lo scopo e c’è una anticipazione eccessiva della soglia di punibilità”. Tra gli auditi anche il professor Vittorio Manes per cui “la disciplina contenuta nel dl tende ad alterare gli equilibri del sistema”. La norma sull’ostativo amplia il catalogo dei reati a cui si applica il 4 bis “fino a ricomprendere persino reati comuni che risultino collegati con fattispecie ostative (ai reati ostativi di prima fascia) da un nesso teleologico”. Inoltre si va ad “aggravare significativamente i compiti e gli oneri probatori in capo ai difensori e a richiedere una sorta di prova impossibile”. Sull’eventuale estensione del catalogo si è espresso anche l’avvocato Michele Passione: “Si registrerebbe un aumento esponenziale dell’overcrowding penitenziario, certamente concorrente nello spaventoso aumento dei suicidi in carcere”. Il legale poi critica il fatto che tra i requisiti per l’accesso alla liberazione condizionale ci siano iniziative a favore delle vittime, sia in forme risarcitorie che sottoforma di giustizia riparativa. “Tutte le fonti internazionali - ha detto Passione - rendono assolutamente incontrovertibile come la giustizia riparativa non possa mai essere imposta, e tantomeno posta come condizione per ottenere qualcosa”. “Potrebbe rivelarsi importante - se non decisiva - la soppressione dell’avverbio “eventualmente” contenuto nel nuovo comma 1bis”: questa una delle proposte illustrate invece dal giudice di Sorveglianza di Roma Marco Patarnello sull’ostativo. Il magistrato si riferisce “alle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione”. Per lui “se è certo che in linea di principio possono ricorrere situazioni capaci di rendere “lacerante” - e quindi “non esigibile” - la richiesta dello Stato di collaborare, sembra altrettanto evidente che - a fronte della “vastità criminale dell’Antistato” e di condotte associative mafiose o terroristiche capaci di asservire interi territori - solo l’effettivo ricorrere di tale apprezzabile lacerazione personale può legittimamente giustificare la decisione di non collaborare”. Per il costituzionalista Francesco Clementi sebbene gli intenti della norma anti rave party possano ritenersi condivisibili, tuttavia quanto approvato in Cdm risulta ambiguo - non riesce a distinguere tra un rave ed una festa di compleanno - e sproporzionato, non solo per l’entità delle pene previste ma altresì perché adotta misure previste dal Codice Antimafia. L’altro costituzionalista intervenuto è stato Giovanni Guzzetta sempre sull’art. 434 bis: “L’uso di argomenti allarmistici sui profili di presunta incostituzionalità della norma dovrebbero richiedere assai maggiore cautela, anche per non creare eccessiva preoccupazione nell’opinione pubblica”. C’è una violazione delle libertà costituzionalmente garantite di riunione e circolazione? Non per Guzzetta, che spiega: “Il godimento di una libertà non può prescindere da alcuni presupposti, prima tra tutti è che il titolare abbia la disponibilità materiale e giuridica dei mezzi attraverso i quali intende godere di quella libertà. Nessuno potrebbe ritenere che essere titolare della libertà di circolazione sia titolo sufficiente per circolare ovunque, a prescindere dal regime giuridico dello spazio in cui lo si intende fare”. Idem per la libertà di riunione. Insomma il professore fa notare che “la norma colpisce l’accesso arbitrario a luoghi in quali non si ha titolo per accedere: o perché non c’è il consenso del titolare o perché sono luoghi pubblici ma non di uso pubblico”. Non si potrebbe mai andare dentro ad una caserma militare e organizzare un rave party solo perché la caserma è di proprietà pubblica. Infine, “la norma così come è strutturata non si applica alle riunioni in luogo pubblico ai sensi dell’art. 17 della Costituzione, il luogo, cioè, l’accesso al quale non è “arbitrario”. Lì valgono le norme costituzionali e legislative sulla libertà di riunione in luogo pubblico”. “Sono soddisfatta di questa prima giornata di audizioni. Alcuni di questi interventi possono essere utilizzati da noi commissari come spunti di riflessione per gli emendamenti”: così la presidente della Commissione Giulia Bongiorno. Per i detenuti lo sciopero della fame è l’unica protesta non violenta possibile di Luca Sofri ilpost.it, 23 novembre 2022 Il 20 ottobre Alfredo Cospito, anarchico insurrezionalista detenuto in regime di 41-bis, ha iniziato lo sciopero della fame nel carcere di Bancali, a Sassari. Da quel giorno, come spiega il suo avvocato Flavio Rossi Albertini, ha perso 22 chili: “È molto provato e stanco, non riesce più ad andare all’ora d’aria, anche se è assurdo chiamarla così per i detenuti al 41-bis, viste le restrizioni a cui sono sottoposti. Ma è anche determinato ad andare avanti, me lo ha confermato in una lettera che ho ricevuto oggi”. Cospito aveva già scontato sei anni in regime di “alta sicurezza”. L’inasprimento delle misure con il passaggio al 41-bis è dovuto al fatto che la Corte di Cassazione, nel luglio scorso, aveva chiesto di rideterminare la pena a cui era stato condannato, e cioè 20 anni di carcere per strage. Cospito era stato riconosciuto colpevole, in primo e secondo grado, di aver posizionato nella notte tra 2 e 3 giugno 2006 due pacchi bomba davanti alla scuola allievi ufficiali di Fossano, in provincia di Cuneo, la cui esplosione non causò né morti né feriti. Il reato attribuito a Cospito fu quello citato nell’articolo 422 del codice penale che fa riferimento a “strage comune” (perché non esiste il reato di tentata strage). La Corte di Cassazione ha invece modificato l’imputazione in “strage contro la personalità interna dello stato”, previsto dall’articolo 285 del codice penale e che prevede la condanna all’ergastolo. Da questo cambio di imputazione deriva la decisione di mettere Cospito al regime previsto dall’articolo 41 bis, introdotto nell’ordinamento penitenziario dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992, principalmente per impedire ai boss mafiosi di comunicare con i membri della loro cosca all’esterno del carcere.  Il 41-bis prevede l’isolamento nei confronti degli altri detenuti, limiti all’ora d’aria, limitazioni dei colloqui con i familiari, controlli della posta in entrata e in uscita. Con il 41-bis l’amministrazione penitenziaria può anche vietare la ricezione da parte dei detenuti di libri e riviste.  In seguito al cambio di imputazione, Cospito può essere destinato all’ergastolo ostativo, la pena senza fine prevista nell’ordinamento penitenziario italiano che “osta” appunto a qualsiasi sua modificazione e che non può essere né abbreviata né convertita in pene alternative, a meno che la persona detenuta decida di collaborare con la giustizia. Dice Flavio Rossi Albertini: “Cospito ritiene insopportabile questa situazione: la prospettiva è quella di restare in un carcere, con l’ergastolo ostativo, fino alla morte. Ha intrapreso questo sciopero della fame perché è il solo strumento di protesta che ha a disposizione e perché ritiene che non valga la pena vivere in queste condizioni”. Il 1° dicembre al tribunale di Roma verrà discusso il reclamo contro il regime di 41-bis presentato da Cospito mentre il 5 dicembre, a Torino, la Corte d’appello si riunirà per decidere della richiesta della Corte di Cassazione di rideterminare la pena. Le ultime persone ad aver visto Cospito sono state il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e la consigliera Daniela de Robert. L’ufficio del garante ha poi diffuso una nota in cui è scritto: “Non spetta al Garante nazionale alcuna valutazione di una scelta individuale, peraltro oggetto di una vera e libera discussione con la persona interessata, spetta però invece rendere atto dei verificati controlli quotidiani, dell’attenzione rivolta da tutti i soggetti istituzionali all’evolversi delle sue condizioni, dell’effettività della somministrazione a partire da questa giornata degli “integratori” da lui richiesti lo scorso 12 ottobre”. Secondo l’avvocato penalista Davide Steccanella, legale dell’ex terrorista Cesare Battisti, che nel 2021 intraprese uno sciopero della fame contro il regime di isolamento a cui era sottoposto, questa forma di protesta è “l’unica non violenta che i detenuti hanno a disposizione”. Lo definisce “estremo”, ma derivante da una “scelta libera”: e secondo Steccanella un detenuto dovrebbe potere protestare in questo modo “senza che gli venga imposta l’alimentazione forzata” per evitare che le sue condizioni di salute possano aggravarsi troppo, o perfino che possa morire. “Dall’altra parte, l’amministrazione penitenziaria sostiene invece che il detenuto è affidato alla sua tutela, che ne ha quindi la responsabilità e per questo è tenuta a intervenire per salvaguardarne lo stato fisico”.  La questione ruota attorno a una domanda piuttosto preciso: lo stato di persona “in vinculis”, e cioè detenuta, impone allo Stato di riconoscergli un livello di integrità fisica superiore a quella di tutti gli altri individui? In sostanza, se un uomo libero può fare uno sciopero della fame fino a morirne, perché un detenuto non può?  Secondo alcune interpretazioni, il digiuno prolungato farebbe cadere la persona detenuta in uno stato di incoscienza simile allo stato di infermità mentale, quindi non sarebbe in grado di decidere liberamente se sottoporsi alle cure, se cioè essere alimentato o meno. Dall’altra parte invece molti sostengono che quello di autodeterminazione terapeutica è un diritto fondamentale dell’individuo in quanto tale. Di fronte alla libera decisione di rifiutare il cibo, il personale sanitario dovrebbe quindi astenersi da qualsiasi trattamento coercitivo. E non sarebbe quindi responsabile delle conseguenze sulla salute della persona detenuta. “Il detenuto che protesta con lo sciopero della fame rivendica un diritto che secondo lui gli viene negato. Per questo lo Stato, la Giustizia, dovrebbero parlare con quel detenuto, arrivare a una mediazione. Per esempio, perché a un detenuto vengono negati i libri che arrivano dall’esterno? In base a quale principio di di sicurezza?”, dice ancora Steccanella. Concretamente lo sciopero della fame consiste in un rifiuto totale dell’assunzione di cibo, che duri più di tre giorni. Solo in alcuni e rari casi avviene contemporaneamente anche il rifiuto dell’acqua, astinenza che rende le prospettive di sopravvivenza assai più brevi. Lo sciopero della fame viene però attuato dai detenuti come forma di protesta, di rivendicazione dei diritti: l’obiettivo non è certo la morte, quindi l’interesse è quello di prolungare lo sciopero più possibile, per avere risultati concreti. Quello che accade al fisico durante lo sciopero della fame varia a seconda dell’età e dello stato di salute. Nei primi tre, quattro giorni ci sono crampi allo stomaco e una forte sensazione di fame, dopodiché lo stomaco si chiude. Subentrano torpore fisico e indifferenza verso il cibo, la pressione arteriosa cala e così anche la temperatura corporea, a causa del mancato apporto energetico. Il corpo perde, oltre al grasso, anche massa muscolare. Dal ventesimo giorno in poi si iniziano a intaccare le proteine muscolari, dal trentesimo la denutrizione colpisce tutti i sitemi del corpo e la stanchezza può diventare così forte da impedire di parlare. Dal quarantesimo giorno in poi si può arrivare a perdere conoscenza per mancanza di energia. La maggior parte delle morti per sciopero della fame avvengono attorno al sessantesimo giorno di digiuno. Durante tutto il periodo di digiuno, il detenuto deve essere controllato e visitato dai medici penitenziari che, come detto, possono richiedere il trasferimento in ospedale. Come nel caso di Cospito, il detenuto a volte richiede integratori che lo aiutino a prolungare lo sciopero il più possibile e che comunque devono essere autorizzati dalla direzione del carcere. In Italia lo sciopero della fame è usato spesso dai detenuti come forma di protesta e di rivendicazione. Ci sono stati casi di proteste portate fino alle estreme conseguenze e in cui l’alimentazione forzata, decisa dal giudice di sorveglianza, è arrivata quando ormai il fisico del detenuto era troppo debilitato.  Il 16 luglio 2009 Sami Mbarka Ben Gargi, detenuto nel carcere di Pavia per reati di droga e violenza sessuale, cominciò lo sciopero della fame. Il 31 agosto venne trasferito in ospedale per un trattamento sanitario obbligatorio che fu però considerato non necessario, perché Ben Gargi venne ritenuto lucido. Il 2 settembre venne riportato in ospedale, e le sue funzioni vitali furono sostenute attraverso la flebo. Il giorno dopo però Sami Mbarka Ben Gargi, che aveva perso 21 chili, morì. Nel 2012 un detenuto di origine bulgara, Cristian Pop, accusato di reati contro il patrimonio e la persona e condannato a 18 anni di carcere, iniziò uno sciopero della fame dichiarandosi innocente. Fu ricoverato quando era già in condizioni critiche e morì qualche giorno dopo. Nel 2018 morì a Cosenza Gabriele Milito, 75 anni, dopo un lungo sciopero della fame. Nel 2020 è morto, dopo 60 giorni di sciopero della fame, Carmelo Caminiti, detenuto a Messina. Era in attesa di giudizio e aveva ottenuto gli arresti domiciliari per varie patologie, tra cui il diabete. Quando i domiciliari gli erano stati revocati in seguito a una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere, aveva iniziato la sua protesta. Anche all’estero lo sciopero della fame è stato utilizzato come forma di protesta adottata da molti detenuti, soprattutto politici. A settembre, centinaia di detenuti palestinesi nelle carceri israeliane hanno attuato uno sciopero della fame contro la cosiddetta detenzione amministrativa, che consente di imprigionare persone senza comunicare, per sei mesi, i capi d’accusa. Nell’agosto del 2020, in Turchia, l’avvocata Ebru Timtik, appartenente a un partito marxista considerato terrorista dal regime di Erdo?an, morì dopo lunghe settimane di sciopero della fame. In Egitto sta conducendo uno sciopero della fame Alaa Abd El Fattah, giornalista, incarcerato per le sue iniziative contro il regime.  Ci sono stati anche casi di detenuti morti in seguito all’alimentazione forzata. Holger Meins, fotografo e cineoperatore, militante del gruppo terrorista di sinistra della Rote Armee Fraktion, morì il 9 novembre del 1974 dopo molte settimane di sciopero della fame e quando era arrivato a pesare 45 chili. La morte fu provocata dalle lesioni interne, nel fisico debilitato, causate dalla cannula per l’alimentazione forzata.  Gli scioperi della fame più celebri, e più drammatici, furono quelli dei prigionieri irlandesi appartenenti all’Ira, l’Irish Republican Army. Il 7 giugno 1974 Dolours Price, detenuta in Inghilterra, iniziò uno sciopero della fame chiedendo il trasferimento in un carcere sul suolo irlandese. Raggiunse l’obiettivo il 18 marzo 1975, dopo 206 giorni di sciopero durante i quali, per 167 giorni, fu alimentata forzatamente. Il 1° marzo 1981 iniziò, nel carcere nordirlandese di Maze, a Long Kash, il più celebre sciopero della fame mai intrapreso da detenuti. Rivendicavano il diritto di non indossare le divise carcerarie, di non svolgere il lavoro carcerario, di potere ricevere pacchi e posta dall’esterno e di poter usufruire di attività ricreative. Il primo a iniziare lo sciopero fu Bobby Sands, comandante dell’Ira. L’allora prima ministra britannica Margareth Tatcher si oppose a qualsiasi concessione. Sands morì il 5 maggio 1981 dopo 66 giorni di digiuno. Il 9 aprile era stato eletto al Parlamento britannico. Dopo Sands morirono Francis Hughes, Raymond McCreesh, Patsy O’Hara, Joe McDonnell, Martin Hurson, Kevin Linch, Kieran Doherti, Thomas McElwee e Mickey Devine. Lo sciopero fu dichiarato finito il 3 ottobre 1981. Poco dopo il governo britannico annunciò una revisione del sistema carcerario e accolse molte delle richieste dei detenuti di Long Kash. Gratteri capo del Dap? Un segnale ai clan e un problema per Nordio di Davide Ruffolo La Notizia, 23 novembre 2022 La Meloni pensa al procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri come possibile capo del Dap. Ma il pm antimafia ha idee divergenti da Nordio. Se ne parla tra le toghe, tra le forze dell’ordine e, a quanto pare, anche tra le fila del governo. Insomma dopo anni di chiacchiere, l’ambita poltrona di capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) potrebbe finire nelle mani del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri. Un nome che ciclicamente spunta fuori quando c’è da fare qualche nomina pesante ma che fin qui ha avuto sempre poca fortuna. Un destino che, però, questa volta potrebbe essere ben diverso perché in suo favore è arrivato l’endorsement del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe) che sul proprio sito web gli ha dedicato un articolo dal titolo eloquente: “Gratteri! Gratteri! Gratteri!”. Un nome su cui c’è sempre stata grande convergenza – cosa che rende ancor più incomprensibile il perché non sia mai riuscito a spuntarla per gli incarichi in cui veniva proposto – che piace da sempre al Movimento 5 Stelle che lo ha sempre indicato come un perfetto capo delle carceri. Gli altri due papabili per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sono il procuratore di Napoli Riello e l’attuale numero uno Renoldi. La novità, semmai, è che il procuratore di Catanzaro sembra incontrare il favore anche di parte del Governo al punto che oggi Gratteri farebbe parte della short list di tre nomi tra cui verrà scelto il prossimo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Gli altri due sono il procuratore generale di Napoli, Luigi Riello, e l’attuale capo del Dap Carlo Renoldi che potrebbe venire riconfermato in nome della continuità. Difficile se non impossibile fare pronostici su come si potrà chiudere questa delicatissima partita. Ci saranno interlocuzioni nel Governo, probabilmente anche nella maggioranza, e alla fine il ministro della Giustizia Carlo Nordio formulerà la sua proposta al Consiglio dei ministri che procederà con la nomina. E proprio il fatto che a decidere sarà il guardasigilli rende l’intera partita piuttosto complicata. Questo perché su come organizzare il comparto della Giustizia, Nordio e Gratteri hanno spesso palesato opinioni piuttosto divergenti come lo sono anche le loro personalità. Il primo, infatti, è da sempre interprete del garantismo mentre il secondo viene spesso bollato come un giustizialista di ferro. Per non parlare del fatto che il ministro della Giustizia nelle sue dichiarazioni pubbliche è sempre stato piuttosto misurato nelle sue parole, a differenza del procuratore di Catanzaro che viene spesso e volentieri accusato di eccessivo protagonismo mediatico. Differenze che sono palesi anche sul giudizio che i due danno della recente riforma Cartabia, con il guardasigilli eletto con Fratelli d’Italia – come anche tutti gli esponenti della maggioranza – che ne ha dato un parere tutto sommato positivo pur affermando che il testo è migliorabile mentre il secondo l’ha bocciata senza appello in numerose occasioni. Ma le divergenze non si fermano qui. In merito al sovraffollamento dei penitenziari, come spiegato venerdì scorso al convegno svolto nel carcere di San Vittore a Milano, Gratteri ha una ricetta che prevede di “mettere ai domiciliari i detenuti tossicodipendenti, con percorsi di terapia”, cosa che farebbe venire l’urticaria a Matteo Salvini & Co, ma che dovrebbe andare di pari passo con “la costruzione di nuove strutture detentive o l’ampliamento di quelle esistenti” che piace al Centrodestra. Quel che è certo è che Gratteri non è la prima volta che viene proposto per qualche poltrona di peso, salvo poi venire puntualmente – e inspiegabilmente – stoppato. Uno dei casi più eclatanti è quello successo quando Matteo Renzi sedeva a Palazzo Chigi e aveva pensato al procuratore di Catanzaro come ministro della Giustizia. Quando le cose sembravano ormai fatte, al punto che il leader di Italia Viva gli aveva assicurato “piena autonomia per riformare la Giustizia”, qualcosa andò storto nel confronto decisivo con l’allora Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, al punto che la candidatura di Gratteri tramontò. Una storia che si è ripetuta anche a maggio scorso. Quella volta Gratteri sembrava averla spuntata come erede di Federico Cafiero de Raho a Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Ancora una volta quando ormai sembrava tutto fatto, è arrivata la bocciatura dal Consiglio superiore della magistratura che, come troppo spesso è accaduto, ha lasciato il procuratore di Catanzaro a bocca asciutta. Riforma Cartabia “in salvo”, Nordio non la toccherà di Errico Novi Il Dubbio, 23 novembre 2022 A via Arenula due gruppi di studio per definire solo le misure transitorie. Sisto: toccare le norme garantiste fa saltare il Pnrr. Potremmo dire che lo scenario è chiaro. Chiarissimo anzi. Anche se, per carità, le incognite in politica non finiscono mai. Ma insomma, ormai è evidente che Carlo Nordio non ha intenzione di modificare l’impianto della riforma Cartabia. Se non con la invocata disciplina transitoria che faciliti il passaggio da un regime normativo all’altro, e con misure strutturali, in particolare sul fronte dell’esecuzione penale, che consentano di rendere praticabili tutte le novità introdotte dalla ex guardasigilli, soprattutto sul fronte delle pene alternative. Sono due indizi a corroborare tale scenario, e a suggerire dunque che la parte garantista del testo Cartabia non dovrebbe essere “manomessa” nella conversione del decreto 162, ora in Senato. Il primo indizio consiste nelle dichiarazioni rilasciate dal numero due di via Arenula, Francesco Paolo Sisto, l’altro ieri sera a Milano, a margine dell’incontro “Italia direzione Nord”. “La riforma Cartabia, dal punto di vista strutturale, resta esattamente così com’è”, ha detto il viceministro, “non ci possiamo permettere dei divertissement perché l’Europa ha già dato il via libera ad alcuni fondi e dovremmo andare a ricontrattare, e questo non è consentito”. Difficile ottenere, sulla volontà del dicastero di via Arenula, un’interpretazione più autentica. Le considerazioni di Sisto provengono, oltretutto, da chi ha avuto modo di confrontarsi a riguardo non solo con Nordio ma anche con i due sottosegretari, vale a dire Andrea Delmastro e Andrea Ostellari, i quali a loro volta rappresentano, al ministero della Giustizia, Fratelli d’Italia e la Lega, i due partiti che, nella maggioranza, più potevano essere propensi a un ridimensionamento delle aperture contenute nella riforma sul fronte delle pene extracarcerarie. Ma oltre alle parole di Sisto c’è, come detto, un ulteriore dato molto concreto: a via Arenula Nordio ha voluto predisporre due gruppi di studio sulle modifiche tecnico-procedurali da apportare alla riforma Cartabia durante l’esame del decreto 162; ebbene, la prima delle due commissioni è concentrata sulla definizione delle misure transitorie necessarie per gestire il passaggio dal vecchio al nuovo regime normativo, mentre l’altro gruppo ha il compito di mettere a punto gli interventi necessari sul fronte delle strutture giudiziarie, per esempio nelle attività degli Uepe, gli Uffici per l’esecuzione penale esterna. Ecco: da queste due commissioni ministeriali dovranno essere prodotte le proposte di emendamenti governativi al decreto 162, sul quale ieri si sono svolte le prime audizioni in commissione Giustizia al Senato (come riferito dettagliatamente in altro servizio del giornale, ndr), e che seguirà un iter velocissimo. Da via Arenula sono cioè già in fase di scrittura quelle integrazioni necessarie a soddisfare le esigenze di coordinamento tecnico-normativo e organizzativo avanzate dalla magistratura (e ribadite, sempre nelle audizioni di ieri, dal presidente Anm Giuseppe Santalucia). Ma non c’è alcunché - fra quanto i due gruppi di lavoro allestiti al ministero hanno alla loro attenzione - che riguardi il merito della riforma Cartabia. E che possa dunque ridimensionare il provvedimento sul fronte delle misure extracarcerarie. Ora, è evidente che il Parlamento resta sovrano. Ma è evidente pure come interventi del Senato e della Camera che contraddicessero la prospettiva del ministro sarebbero insostenibili, anche considerati i tempi stretti imposti sulla legge di conversione. Va anche detto che, sempre nell’incontro milanese dell’altro ieri sera, Sisto è stato nettissimo anche quando ha spiegato come, nella stessa Manovra del governo Meloni, gli interventi immediati sul fronte giustizia riguardino proprio il rafforzamento dell’esecuzione penale esterna: “In legge di Bilancio abbiamo indicato alcune priorità, come le assunzioni di personale sia nella polizia penitenziaria sia negli uffici giudiziari: c’è un’esigenza relativa alla esecuzione esterna per le nuove pene sostitutive, in modo da garantire delle pene a misura d’uomo, a misura d’imputato, diverse dal carcere, per problemi di sovraffollamento”. La svolta di Cartabia, per quanto suscettibile forse di ulteriori futuri allargamenti, non può essere contraddetta. E tale assioma trova conforto persino nella Manovra che l’esecutivo Meloni si appresta a varare. Il Dl rave mette d’accordo magistrati e avvocati: “Cambiatelo!” di Angela Stella Il Riformista, 23 novembre 2022 In commissione Giustizia le critiche di Santalucia (Anm) e Caiazza (Ucpi). Manes: “Il reato di rave una delega in bianco alla polizia”. Nel mirino anche l’ergastolo ostativo. Il garante Palma: “Disattende le richieste della Consulta”. Termineranno oggi le audizioni informali iniziate ieri nella Commissione Giustizia del Senato in merito al decreto legge del 31 ottobre 2022 (rinvio Cartabia, ergastolo ostativo, rave party). Molti gli interventi di esperti delle materie, condensati solo però in sei minuti. Da qui l’invio di relazioni più corpose ai senatori. Difficile poter trarre una sintesi, soprattutto se ci si è soffermati molto su aspetti tecnici. Potremmo dire comunque che ci sono su tutti i tre versanti richieste di modifica. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ha chiesto una disciplina transitoria riguardo la riforma Cartabia su quattro aree: “indagini preliminari, udienza pre-dibattimentale nei procedimenti a citazione diretta, procedibilità d’ufficio a querela che tocca reati importanti, trattazione scritta nei giudizi di impugnazione”. Per la norma anti-rave: “Non raggiunge lo scopo e c’è una anticipazione eccessiva della soglia di punibilità”. Tra gli auditi anche il professor Vittorio Manes che in pratica ha sostenuto “che la disciplina contenuta nel decreto legge tenda ad alterare gli equilibri del sistema”. Innanzitutto la norma sull’ostativo amplia il catalogo dei reati a cui si applica il 4 bis: oltre ad essere stata confermata l’inclusione di diversi reati contro Pa, il catalogo “è stato ulteriormente dilatato fino a ricomprendere persino reati comuni che risultino collegati con fattispecie ostative (ai reati ostativi di prima fascia) da un nesso teleologico”. Si procede sempre di più verso un “diritto penale non del fatto, ma del tipo di autore”. Inoltre si vanno ad “aggravare significativamente i compiti e gli oneri probatori in capo ai difensori e a richiedere una sorta di prova impossibile”. Quanto al reato di rave-party, “si consegna uno spazio di discrezionalità valutativa e uno spazio di intervento estremamente ampio non al giudice, non al pubblico ministero, ma alle forze di polizia, a cui di fatto si consegna una delega in bianco”. Sull’eventuale estensione del catalogo si è espresso anche l’avvocato Michele Passione che ha messo in evidenza un ulteriore aspetto: “si registrerebbe un aumento esponenziale dell’overcrowding penitenziario, certamente concorrente nello spaventoso aumento dei suicidi in carcere”. Il legale poi ha criticato il fatto che tra i requisiti per l’accesso alla liberazione condizionale ci siano iniziative a favore delle vittime, sia in forme risarcitorie che sottoforma di giustizia riparativa. “Tutte le fonti internazionali - ha detto Passione - rendono assolutamente incontrovertibile come la giustizia riparativa non possa mai essere imposta, e tantomeno posta come condizione per ottenere qualcosa”. “Potrebbe rivelarsi importante - se non decisiva - la soppressione dell’avverbio ‘eventualmente’ contenuto nel nuovo comma 1bis”: farà molto riflettere una delle proposte illustrate dal giudice di Sorveglianza di Roma Marco Patarnello sull’ostativo. Il magistrato si riferisce “alle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione”. Per Patarnello “se è certo che in linea di principio possono ricorrere situazioni capaci di rendere ‘lacerante’ - e quindi ‘non esigibile’ - la richiesta dello Stato di collaborare, sembra altrettanto evidente che - a fronte della ‘vastità criminale’ dell’Antistato e di condotte associative mafiose o terroristiche capaci di asservire interi territori- solo l’effettivo ricorrere di tale apprezzabile lacerazione personale può legittimamente giustificare la decisione di non collaborare”. Critico sul nuovo 434 bis il Presidente dell’Unione Camere Penali, Gian Domenico Caiazza: “Il testo, in primo luogo, di tutto parla fuorché dei rave-party, prestandosi a punire qualunque forma di assembramento di più di 50 persone in terreni privati o aperti al pubblico senza l’autorizzazione del proprietario o la comunicazione all’autorità pubblica”. Sul fine pena mai Caiazza ha aggiunto: “il legislatore, per raggiungere lo scopo di una regolamentazione più severa del regime delle ostatività, e dunque della possibilità di eluderle in assenza di collaborazione da parte del detenuto, introduce condizioni che sono costruite su nozioni a dir poco indeterminate. Cosa si pretende debba significare, ad esempio, la nozione di ‘collegamento con il contesto nel quale il reato è stato commesso’, che il richiedente dovrebbe dimostrare inesistenti sia in termini di attualità, sia in termini di ‘pericolo di ripristino’? La nozione di ‘contesto’ è già semanticamente nebulosa”. Anche il Garante Mauro Palma si è soffermato molto su questo tema: “L’impianto della riforma delle norme che prevedevano le preclusioni automatiche all’accesso ai benefici penitenziari, alle misure alternative e alla liberazione condizionale, appare disattendere i princìpi sottesi all’ordinanza n.97/2021 della Corte costituzionale che hanno fissato l’obiettivo del superamento della presunzione assoluta di pericolosità in assenza di collaborazione con la giustizia”. Questo perché “gli oneri probatori e di allegazione, cui è subordinato il solo accesso a tutti i benefici penitenziari, alle misure alternative e infine alla liberazione condizionale, configurano adempimenti impossibili o pleonastici”. Pure l’avvocato Fabio Anselmo si è concentrato sul reato anti-rave sempre in maniera critica: “Il problema della pena è grave. È assolutamente sproporzionata”. Inoltre alla misura di prevenzione, che “non contempla una fine neppure in caso di assoluzione da questo reato, saranno sottoposte intere generazioni realizzandosi il sogno proibito dello Stato di polizia: sorveglianza speciale di pubblica sicurezza; obbligo di soggiorno dal comune di residenza o dimora abituale”. Dalle feste illegali all’ergastolo, il decreto lascia al giudice un potere che diventa arbitrio di Gian Domenico Caiazza* Il Dubbio, 23 novembre 2022 La considerazione di carattere generale che desta più allarme è la ennesima dimostrazione di una purtroppo ormai consueta attitudine del legislatore a porre in dubbio esso per primo, nei testi legislativi emanati o emanandi, il primato della legge sulla interpretazione giurisprudenziale. Ciò avviene quando il legislatore, per finalità piuttosto mediatiche che di effettiva regolazione di fenomeni sociali, confeziona provvedimenti che sembrano scritti apposta per consentire alla giurisdizione l’esercizio di un potere interpretativo della norma pressoché illimitato ed incontrollabile. Tanto è infatti inevitabile, quando si introducono nelle leggi - come accade doviziosamente nel presente decreto - concetti di indistinto contenuto precettivo, evocativi di messaggi mediatico-politici forse suggestivi, ma del tutto indeterminati, consegnando in tal modo all’interprete dei fogli in bianco, che ciascun giudice riempirà a proprio piacimento, e secondo le proprie personali sensibilità culturali, giuridiche o politiche. Si prenda il caso degli articoli che introducono - o pretenderebbero di introdurre, forse è meglio dire - condotte punitive dei cosiddetti rave-party, assurti misteriosamente a prioritaria urgenza del Paese. Il testo, in primo luogo, di tutto parla fuorché dei rave-party, prestandosi a punire qualunque forma di assembramento di più di 50 persone in terreni privati o aperti al pubblico senza l’autorizzazione del proprietario o la comunicazione all’autorità pubblica. Ma soprattutto, la condotta materiale si pretenderebbe connotata dalla contrarietà all’ordine pubblico (limite al diritto di riunione ignoto all’art. 17 della Costituzione) che -come dovrebbe essere noto- è nozione di una straordinaria vastità. (…) Usando con questa approssimazione nozioni tecniche complesse, si attribuisce al giudice la facoltà pressoché illimitata ed incondizionata di definire la liceità o la illiceità dell’evento che si pretenderebbe di punire. Lo stesso vizio traspare dalla lettura degli articoli dedicati al tema delle ostatività. Qui il legislatore, per raggiungere lo scopo di una regolamentazione più severa del regime delle ostatività, e dunque della possibilità di eluderle in assenza di collaborazione da parte del detenuto, introduce condizioni che, a prescindere ora dal merito, sono costruite su nozioni a dir poco indeterminate. Cosa si pretende debba significare, ad esempio, la nozione di “collegamento con il contesto nel quale il reato è stato commesso”, che il richiedente le misure alternative dovrebbe dimostrare inesistenti sia in termini di attualità, sia in termini di “pericolo di ripristino”? La nozione di “contesto” è già semanticamente nebulosa, figuriamoci cosa potrà accadere in concreto quando il giudice dovrà vagliare collegamenti con un non meglio identificato “contesto nel quale il reato è stato commesso”. Ancora una volta, per dare corpo al “segnale politico” dell’inasprimento di un istituto normativo, si consegna al giudice un potere interpretativo immenso, illimitato, incontrollabile. Sorprende allora che simili pericolosissime dinamiche di accelerazione del processo degenerativo della tipicità del precetto penale vengano innescate da parte di chi poi, in altri contesti, lamenta (ben giustamente, aggiungo), l’irrimediabile squilibrio tra poteri dello Stato in favore del potere giudiziario. Passo ora a qualche sintetica considerazione di dettaglio. Sulla proroga della entrata in vigore della riforma Cartabia, ed a prescindere dalle articolate obiezioni di costituzionalità già sollevate dal Tribunale di Siena, occorre che voi, illustri Senatrici e Senatori, sappiate che essa sta già determinando un caos ben superiore a quello che si proponeva di prevenire: e credo avrete motivo di fidarvi di chi può disporre di un osservatorio costituito da 129 Camere Penali distribuite su tutto il territorio nazionale. La ragione è molto semplice ed intuitiva. Faccio un esempio: se quella legge delega, già in vigore da oltre un anno, ha modificato - e stiamo parlando di una riforma di grande rilievo - la regola di giudizio della udienza preliminare in senso più favorevole agli imputati (altrimenti come sappiamo destinati al rinvio a giudizio nel 97% dei casi) è del tutto ovvio che gli imputati a carico dei quali si devono celebrare udienze preliminari tra ottobre e dicembre del 2022, avranno almeno diritto al rinvio della udienza. Lo stesso vale per quegli imputati nei confronti dei quali il giudice debba pronunciare sentenza, e che avrebbero già beneficiato della modifica del regime di alcuni reati ora perseguibili solo a querela di parte. Ed infatti, è quello che sta accadendo in tutta Italia, con un gran numero di udienze rinviate, che si aggiungono al carico già insopportabile dell’arretrato pendente. (…) *Estratto della relazione esposta ieri dal presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza nel corso delle audizioni svolte dalla commissione Giustizia del Senato sul decreto 162. Glauco Giostra: “C’è un giornalismo giudiziario che offende la dignità e i diritti” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 novembre 2022 “Comunicare il processo penale. Interessi costituzionali in precario equilibrio” è il titolo di un incontro organizzato alla Sapienza di Roma (Aula Calasso - facoltà di Giurisprudenza) per domani alle ore 15.30. Interverranno Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali, Luigi Ferrarella, firma del Corriere della Sera, Giovanni Melillo, procuratore nazionale Antimafia. Oltre a docenti universitari, sono stati invitati a intervenire magistrati, avvocati e giornalisti. “L’evento - ci spiega il moderatore e organizzatore Glauco Giostra, ordinario di Diritto processuale penale - vuole mettere a proficuo confronto, su una tematica che esonda dai confini della giustizia in senso stretto per raggiungere quelli che connotano la civiltà di un popolo, personalità di vertice della magistratura inquirente, dell’avvocatura e del giornalismo giudiziario”. Professore perché quel sottotitolo “pessimista”? L’informazione sulla giustizia penale risponde a un interesse costituzionalmente irrinunciabile, dovendo la collettività conoscere e controllare come giudici indipendenti da ogni altro potere amministrano la giustizia in suo nome. Ma dalle modalità, dai limiti e dai tempi della rappresentazione mediatica dipende anche la tutela di interessi di pari rango: l’accertamento delle responsabilità penali, la presunzione di non colpevolezza, la reputazione, la dignità e la riservatezza dei soggetti coinvolti, il giusto processo. Bisogna cercare di individuare un punto di equilibrio tra esigenze confliggenti. Operazione delicatissima, perché si tratta di garantire la cronaca giudiziaria e di garantirsi dalla cronaca giudiziaria che, per le sue modalità, offende senza necessità quei valori concorrenti. Il legislatore si è mosso negli ultimi tempi: lei ritiene che i passi siano stati quelli giusti? Il legislatore ha, di recente, mostrato sensibilità per il problema, delicatissimo e fondamentale in una democrazia. Si pensi alla riforma concernente il regime di divulgabilità dei risultati delle intercettazioni (d.lgs 216 del 2017) volta a escludere la pubblicabilità di notizie processualmente non rilevanti impigliate nella rete a strascico di questo efficace, ma insidioso mezzo di ricerca della prova. Si pensi, più di recente, al d. lgs 188 del 2021 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza, perseguito soltanto formalizzando an e quomodo della comunicazione ai media da parte delle autorità pubbliche. In entrambi i casi, condivisibili ed apprezzabilissimi gli intendimenti; in entrambi i casi, tecnicamente approssimative e contenutisticamente inadeguate le soluzioni. Anche se questo giudizio, largamente condiviso, viene in genere articolato diversamente a seconda della sensibilità culturale e professionale dei protagonisti del rapporto tra giustizia penale e stampa. Quali sono le criticità? Di certo, l’attuale assetto normativo lascia sostanzialmente irrisolti aspetti nevralgici di questo importante rapporto. Solo per offrire qualche esempio: rimane controverso il diritto del giornalista di ottenere informazioni in ordine ad atti di indagine non più segreti; viene affidato all’autorità giudiziaria il compito di stabilire quando ricorre un interesse pubblico alla conoscenza della notizia, compito che dovrebbe costituire, invece, diritto e responsabilità del giornalista; è sostanzialmente priva di rimedio la pubblicazione di notizie (non provenienti da autorità pubbliche) che indicano come colpevole l’indagato o l’imputato; resta inopportunamente risibile la sanzione per la pubblicazione di atti coperti dal segreto; permane largamente tollerata la barbarie civile della celebrazione dei processi in tv. Non sarebbe stato in generale meglio se a governare certi fenomeni non ci fossero state nuove norme ma la responsabilità collettiva di tutti gli attori in gioco (magistrati, avvocati, giornalisti)? Dipende. L’idea di affidarsi al senso di responsabilità dei diversi protagonisti è stata già perseguita stilando ineccepibili codici deontologici, ma non mi sembra che i risultati siano entusiasmanti; anche perché in nessun settore l’autodichìa ha mai dato frutti soddisfacenti. D’accordo, invece, sul fatto, che il condivisibilissimo obiettivo ispiratore del decreto sulla presunzione di innocenza sarebbe stato se non più facilmente conseguito, di certo più credibilmente perseguito qualora, invece di perdersi in distinguo riguardanti le fonti e l’oggetto della comunicazione, si fosse optato per un approccio a più ampio spettro. Ad esempio: agli operatori dell’informazione si sarebbero dovuti riconoscere maggiori diritti e maggiori responsabilità; invece di perdersi in analitici e settoriali rivoli prescrizionali, si sarebbe potuto prevedere l’illiceità di qualsiasi forma di comunicazione pubblica che rappresenti implicitamente o esplicitamente l’accusato come colpevole, senza cioè che il cittadino possa capire con la normale diligenza che si ha invece a che fare con una ipotesi di responsabilità; si sarebbe potuta istituire una Autorità indipendente in grado di infliggere sanzioni “reputazionali” a chiunque - con la propria, scorretta condotta- abbia ingiustamente compromesso la reputazione altrui. Lei in un altro convegno ha detto una frase che mi ha colpito: “Avete fatto caso che ‘giustizia è fatta’ è esclamazione riservata soltanto alle sentenze di condanna?”. Il problema quindi prima di essere normativo è culturale, educativo? Certamente. Di fronte ad una condotta criminale, l’inconfessata speranza di condanna è dovuta all’ansia di placare le nostre paure, più che di soddisfare il nostro bisogno di giustizia. Quando “nella tv del dolore” si va morbosamente a frugare nella disperazione delle vittime alla ricerca di qualche dichiarazione, la risposta più frequente e scontata è “vogliamo giustizia”, ma in realtà si vuole, comprensibilmente, soltanto un colpevole, e subito. L’individuazione di un responsabile appaga nell’opinione pubblica l’inquietudine suscitata dal fatto criminale: ed è un sollievo che difficilmente si lascia turbare dalla prospettazione del dubbio. Dalla Procura ai giornali: tutto quello che non va nel caso Soumahoro di Ermes Antonucci Il Foglio, 23 novembre 2022 La vicenda che vede coinvolto il deputato di Verdi-Sinistra rappresenta un perfetto caso di studio dei rapporti tra politica, giustizia e informazione: giustizialismo dilagante, garantismo a intermittenza, rigurgiti razzisti, vittimismo da propaganda. La vicenda che da giorni vede coinvolto Aboubakar Soumahoro e i suoi familiari rappresenta ormai un perfetto caso di studio dei rapporti tra politica, giustizia e informazione che animano il paese. Giustizialismo dilagante, garantismo a intermittenza, rigurgiti razzisti, vittimismo da propaganda. Un grande affresco dal quale non sembra salvarsi niente e nessuno. Innanzitutto il diritto dei cittadini a ricevere notizie vere. Occorre chiarire, infatti, che Soumahoro, neodeputato dell’Alleanza Verdi-Sinistra, non è indagato in alcuna inchiesta giudiziaria. La procura di Latina ha aperto un fascicolo per verificare presunte irregolarità denunciate sul conto delle cooperative Karibu e Consorzio Aid, nella cui gestione sono coinvolte anche Marie Terese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro, e la moglie del deputato, Liliane Murekatete. L’indagine riguarda mancati pagamenti e presunti versamenti irregolari nei confronti di alcuni lavoratori impiegati nelle due cooperative che operano nell’agro pontino, oltre che presunti maltrattamenti subiti da ragazzi ospitati nelle strutture per migranti gestite dalle coop.  A dare notizia dell’apertura dell’inchiesta, come spesso accade, è stato un quotidiano. La procura di Latina ha poi fatto sapere di aver avviato accertamenti sulle cooperative, facendo capire però che l’indagine era soltanto “esplorativa”, cioè senza ipotesi di reato né indagati. Domenica, però, un altro quotidiano ha rivelato che la suocera di Soumahoro risulta iscritta sul registro degli indagati con l’accusa di malversazione. Insomma, la procura di Latina sembra essere un colabrodo: il miglior terreno di coltura del processo mediatico. I quotidiani di centrodestra, in particolare Libero e La Verità, intanto si sono lanciati sulla vicenda con prime pagine e articoli di rara ferocia, spacciando denunce ancora da verificare - che non riguardano direttamente Soumahoro - in sentenze di condanne già definitive contro il deputato (“Gli schiavisti in casa sua”, “sfruttamento di minori”, “immigrati maltrattati”). Tutto ciò nelle ore in cui quegli stessi giornali davano notizia, in chiave garantista, dell’ennesima assoluzione ottenuta da Silvio Berlusconi in un filone del processo Ruby-ter, parlando di “infinita caccia” al Cav. e di giustizia ingiusta.  La politica ha seguito lo stesso copione. I partiti di centrodestra, quelli che sarebbero portatori di idee garantiste e che negli ultimi anni hanno denunciato l’uso politico della giustizia, hanno strumentalizzato la vicenda. Fratelli d’Italia e Lega hanno annunciato la presentazione di interrogazioni. Marta Schifone, capogruppo di FdI in commissione Lavoro alla Camera, ha detto che “aumentano gli indizi di colpevolezza nei confronti dei familiari di Soumahoro”. L’ex magistrata, oggi deputata leghista, Simonetta Matone, si è chiesta “se l’onorevole Boldrini oggi premierebbe nuovamente Mukamitsindo, che a Latina lotta contro il caporalato ma poi pagherebbe i suoi dipendenti, quando si ricorda di farlo, a nero, di fatto sfruttandoli”.  Insomma, il trionfo del principio della presunzione di innocenza, quello che invece è stato improvvisamente riscoperto da qualche giornalista di area Rep. (vedasi Concita De Gregorio), ma molto timidamente (in fondo Soumahoro non è esponente del Pd, dunque per quale motivo difenderlo dalla gogna mediatica?).  Mentre gli utenti sui social hanno vomitato il loro odio sul deputato di origini africane, quest’ultimo - proprio sui social - si è lanciato in un pianto disperato (“Cosa vi ho fatto? Voi mi volete morto”, “Mi volete distruggere ma avete paura delle mie idee, avete paura di chi lotta”), per poi tirare in ballo la giustizia a orologeria, cioè proprio uno dei simboli della retorica della destra: “Perché questo tempismo? Perché proprio adesso, a meno di 40 giorni dall’inizio della legislatura? Si ha paura delle mie idee?”. “Vogliono affossare il nostro Aboubakar”, hanno ribadito moglie e suocera di Soumahoro in un’intervista a Repubblica, ammettendo però “errori e leggerezze” nella gestione delle coop. Un caos dal quale sembra non salvarsi nessuno.  Soumahoro, il colpevole perfetto: lapidato a destra, scaricato a sinistra di Simona Musco Il Dubbio, 23 novembre 2022 Il deputato di Verdi-Sinistra italiana non è indagato ma su di lui si è scatenata una tempesta di fango. Costa: “Il processo è già stato fatto”. “Quando si dice voler eliminare l’avversario per via giudiziaria… questo mi sembra uno dei casi di scuola”. Il deputato di Azione Enrico Costa non è un garantista a intermittenza. Per questo, pur essendo “lontanissimo” dall’idea politica di Aboubakar Soumahoro, non può digerire la gogna mediatica che ha colpito il deputato dell’Alleanza Verdi-Sinistra. Il colpevole perfetto, l’uomo arrivato dal nulla, con l’idea di cambiare il mondo, capace di fare ingresso in Parlamento con gli stivali sporchi di fango. Un gesto simbolico che ha illuminato gli occhi di tanti e fatto storcere altrettanti musi. Un eroe o un farabutto, non c’è via di mezzo per Soumahoro, la cui pelle nera è diventata strumento per più fini: da un lato la carta da giocare a sinistra per dimostrare di credere in certi ideali e di essersi schierati tra i buoni, a destra per dimostrare che “quelli lì” buoni lo sono solo a imbrogliare. L’inchiesta della procura di Latina - La vicenda è ormai nota: la procura di Latina ha aperto un fascicolo sulle cooperative Karibu e Consorzio Aid, nella cui gestione sono coinvolte Marie Therese Mukamitsindo, suocera di Soumahoro, e Liliane Murekatete, sua moglie, con lo scopo di approfondire aspetti contabili e verificare presunti maltrattamenti rivelati da alcuni ospiti delle due cooperative. Il deputato, però, non ricopre alcun ruolo in quelle coop e l’inchiesta non lo sfiora nemmeno. Ma sui giornali si è scatenata la caccia al “mostro”, un’occasione d’oro, per alcune testate, per declassare Soumahoro dal ruolo di difensore dei braccianti a quello di sfruttatore senza scrupoli. La reazione di Soumahoro: “Mi vogliono distruggere” - La reazione del sindacalista diventato parlamentare non si è fatta attendere: in un video pubblicato sui suoi canali social, in lacrime, ha accusato chiunque stia speculando sulla vicenda di volerlo “distruggere”, minacciando di querelare chi “sta usando i miei affetti per colpirmi”. Perché attorno alla vicenda giudiziaria ancora tutta da scrivere i giornali si sono riempiti di racconti sul “falso mito” di Soumahoro, uno che, stando alla stampa di destra, sulle sfortune dei braccianti avrebbe costruito la propria carriera politica, altro che paladino della giustizia. Non bastassero questi racconti, a fare notizia è stata anche l’attività social della moglie. Colpevole di indossare vestiti e accessori costosi, di fare foto in posa in alberghi di lusso, di essere stata ribattezzata “Lady Gucci”. “Foto da vamp” che “non aiutano”, ha scritto sul CorSera Goffredo Buccini, come se per essere credibili l’unico abito adatto sia quello da suora. Altrove si chiedeva conto a Liliane di come avesse acquistato quella roba. Domande che forse nemmeno la procura di Latina si è fatta, ma nel circo mediatico ogni lembo di pelle esposto è buono da cannibalizzare. L’inchiesta risale al 2019 e negli ambienti giornalistici non era certo una novità. Ma la bomba è esplosa soltanto poche settimane dopo le elezioni, quando Soumahoro ha iniziato ad occupare un banco che autorizzerebbe chiunque, a quanto pare, a chiedergli conto di cose che probabilmente non conosce. Che forse nemmeno esistono, se esiste ancora la presunzione di innocenza. Ma invece lui dovrebbe sapere tutto. E così il suo silenzio risulta sospetto e non basta che dica di non saperne nulla, cosa magari del tutto vera. Il motto “non poteva non sapere”, che si cuce addosso a chiunque svolga un ruolo pubblico, torna di moda, con l’autorità di un articolo del codice penale. Dimenticando che la responsabilità penale, se c’è, è personale. “Rappresento l’onorevole Soumahoro esclusivamente per delle azioni legali che stiamo valutando di porre in essere per le avvenute diffamazioni nei suoi confronti - ha spiegato al Dubbio l’avvocato Maddalena Del Re. Ribadisco che non è destinatario di alcun tipo di indagine, ma si è trovato costretto ad avere una difesa legale per gli attacchi ricevuti dai media. Quello che gli si chiede è di entrare nei dettagli di una indagine di cui non si conoscono i contorni: la procura di Latina ha rilasciato una dichiarazione stringatissima nella quale si dice espressamente che sta valutando eventuali profili penali di determinate condotte nel massimo di riserbo. Si è creato un cortocircuito mediatico per il quale a un personaggio politico e pubblico che è del tutto estraneo a una vicenda giudiziaria si chiede conto di qualcosa che non conosce, come se fosse una colpa non avere dettagli precisi di date o circostanze. Qualunque condotta assuma, per una malintesa interpretazione della comunicazione, in qualche modo rischia di risultare responsabile”. L’occasione era infatti troppo ghiotta per non lanciarsi sul deputato e dedicargli titoloni da far accapponare la pelle. Ne citiamo uno solo: “Gli schiavisti in casa sua”, copyright di Libero. Perché se il poveretto finito nel mirino - anzi, nemmeno: nei paraggi - di un’inchiesta giudiziaria non è del proprio partito di riferimento, il garantismo - “che è nel nostro dna”, si sente dire di solito - può pure andare a farsi benedire. Soumahoro, lapidato a destra e scaricato a sinistra. Bonelli: “Ho commesso una leggerezza” - Così a destra sono subito partite le macchine delle interrogazioni e l’indignazione senza via di scampo, ma anche nel partito di Soumahoro non si è perso tempo: “Ho commesso una leggerezza”, avrebbe confidato ad amici il leader dei Verdi Angelo Bonelli, dando ragione a chi ha malignato che la scelta di candidare Soumahoro non fosse legata alla sua storia, ma al fatto che fosse una figurina buona da giocarsi alle elezioni. Costa, dal canto suo, non lesina critiche a politica, stampa e inquirenti. “C’è stato un attacco molto feroce a Soumahoro dal punto di vista “giudiziario”, anche se non interessato direttamente, e dalle notizie frammentarie pubblicate si capisce chiaramente che qualcosa è trapelato dagli uffici giudiziari o dagli organi inquirenti. Ed è una cosa non particolarmente edificante. Siamo in fase di indagini - ha commentato al Dubbio -, ma queste persone sono già praticamente passate come responsabili, anche e soprattutto sulla stampa. Il fatto che si tratti di un avversario politico non fa venir meno certi principi, anzi valgono il doppio. E ho letto molti commenti definitivi da parte di persone normalmente “garantiste”, solo perché ad essere coinvolto è uno che siede dall’altra parte. Il processo è già stato fatto e la sentenza è già stata emessa”. La Cedu difende i figli e la “madre malevola” contro i giudici italiani di Katia Poneti e Grazia Zuffa Il Manifesto, 23 novembre 2022 L’Italia riceve dalla Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu) una condanna per il trattamento inflitto a due minori, costretti alle visite col padre (denunciato per violenza domestica) senza adeguata protezione; e inflitto alla madre, addirittura privata della potestà genitoriale per tre anni dal tribunale di Roma e dalla Corte d’Appello perché, a giudizio dei giudici, avrebbe avuto un comportamento ostile agli incontri col padre e “all’esercizio della co-genitorialità”. Da notare, ed è ciò che la Cedu lamenta, che i giudici che hanno sospeso la potestà genitoriale della madre non hanno tenuto conto delle difficoltà negli incontri e della mancata protezione nei confronti dei bambini, segnalata da diversi operatori. Nonostante la donna avesse denunciato il marito e fosse stata costretta a rifugiarsi in un centro antiviolenza, il tribunale di Roma aveva autorizzato gli incontri dei bambini col padre richiedendo condizioni di rigorosa protezione. Ma la sicurezza non è mai stata garantita e la madre aveva ripetutamente protestato per questo. Non solo i giudici non hanno tenuto conto della mancata protezione nei fatti dei bambini, costringendoli a incontri in condizioni inadatte (e con ciò venendo meno “al loro superiore interesse”; in più, con la sottrazione della potestà genitoriale alla madre, hanno paradossalmente penalizzato l’unica persona che, di fronte all’inerzia delle autorità competenti, si è battuta nell’interesse della sicurezza dei bambini. Incredibilmente, l’attenzione verso i figli le si è ritorta contro quale “non collaborazione” al diritto alla genitorialità del coniuge. La vicenda lascia sgomenti: si tocca con mano quanto le madri vittime di violenza in famiglia siano ulteriormente vittimizzate dalle istituzioni, da un lato perché scarsamente difese dal coniuge maltrattante (si noti che il tribunale aveva ordinato che gli incontri si tenessero nella casa di accoglienza, svelando così il luogo di residenza che avrebbe dovuto rimanere segreto); dall’altro perché sottoposte a giudizio di “capacità materna” sulla base di pregiudizi sessisti, che traspaiono attraverso malintesi concetti quali il “diritto alla bigenitorialità”, insieme a psico-costrutti di assoluta inconsistenza scientifica quali la sindrome di “alienazione parentale” o “della madre malevola”. In nome di un astratto “diritto a essere genitore”, i giudici hanno ignorato la concreta relazione che il padre stabiliva coi figli, segnata dalla violenza nei confronti della madre, con l’inevitabile peso di trauma e paura. Quanto alla madre, è stata punita non per eventuali inadempienze nella cura dei bambini, ma per “mancato rispetto” del “diritto” del padre. Infine, ma non certo per importanza, va segnalata la vittimizzazione dei minori, come dimostra questo caso e purtroppo molti altri simili. Anzi, i figli e le figlie sono le vittime più indifese perché ridotte al silenzio. Spesso non sono ascoltati, ma anche quando lo sono, la loro volontà, i loro affetti, le loro paure, le loro reticenze nei confronti del padre vengono stravolti e negati perché attribuiti a condotte alienanti e manipolatorie delle loro madri. Sulla base di questa presunzione di patologico “plagio” materno, non altrimenti verificato se non per assunto ideologico, la soggettività dei minori è calpestata e i bambini e le bambine sono spesso sottoposti a provvedimenti coercitivi- perfino con la forza- di allontanamento dalla casa della madre dove hanno vissuto e dall’insieme delle relazioni che hanno intrattenuto fino al momento. La sentenza Cedu è di grande importanza per allertare l’attenzione pubblica su queste pratiche discriminatorie e autoritarie, che rimangono ancora nell’ombra nonostante le denunce di molte associazioni. Ne discuteremo a Firenze, venerdì 25 novembre, alle ore 17 in presenza nella sede della Società della Ragione e online. Piemonte. Emergenza sanitaria nelle carceri: il Pd chiede una indagine di Andrea Borasio vercellinotizie.it, 23 novembre 2022 Chiesta dal vicepresidente della commissione Sanità Domenico Rossi e del presidente del gruppo consiliare Raffaele Gallo. Di seguito comunicato stampa del vicepresidente della commissione Sanità Domenico Rossi e del presidente del gruppo consiliare del PD Raffaele Gallo in merito alla presentazione di una mozione per la richiesta di svolgere, in Commissione Sanità, un’indagine conoscitiva diretta ad acquisire notizie, informazioni e documenti relativi alla gestione del sistema sanitario all’interno delle carceri piemontesi. La relazione del Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale conferma tutte le criticità della sanità penitenziaria. Dopo quindici anni dalle delega alle regioni è necessario fare una verifica seria. Per questo abbiamo richiesto, con il sostegno delle altre forze di opposizione, che all’interno della commissione Sanità si svolga un’indagine conoscitiva attraverso la costituzione di un apposito gruppo di lavoro con il duplice obiettivo di fare una fotografia dello stato attuale ed elaborare delle proposte concrete di miglioramento. Ci auguriamo che anche la maggioranza sostenga questa necessaria iniziativa. La mancanza di medici specialisti interni, lo scarso ricorso alla telemedicina, la carenza di tecnologie e strutture dedicate sono solo alcuni degli elementi che mettono in crisi l’offerta sanitaria rivolta ai detenuti. Sono i medesimi problemi che esistono fuori dal carcere, con la differenza che i detenuti non hanno nessuna alternativa. Quando manca la risposta pubblica, semplicemente manca la cura. Inoltre, questa situazione, genera anche un aggravio organizzativo e di costi su un sistema già affaticato, perché ogni volta che occorre spostare un detenuto in ospedale, l’amministrazione deve compiere un notevole sforzo.  E’ necessario, inoltre, accendere un faro sul tema della salute mentale in carcere. Non possiamo voltarci dall’altra parte e far finta di nulla in particolare in Piemonte se pensiamo che dei 79 decessi per suicidi dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane ben 5 sono avvenuti nella nostra regione negli ultimi 4 mesi. Non solo secondo i dati diffusi dall’associazione Antigone sulle malattie mentali, dal novembre 2021 allo stesso mese del 2022 in Piemonte si sono registrate 30,49 diagnosi psichiatriche gravi ogni 100 detenuti e più di 24 atti di autolesionismo in media ogni 100 detenuti, senza contare che il 40,22% dei detenuti assume sedativi o ipnotici Numeri quelli sul che insieme a quelli del sovraffollamento (+102% nella nostra regione, +108% la media nazionale) certificano un problema strutturale che il Paese e il Piemonte si portano dietro da anni. Si tratta di questioni emerse anche durante le visite dell’Ufficio di Presidenza della commissione presso le carceri piemontesi, ma ora serve un percorso che approfondisca e metta a sistema tutti questi aspetti, soprattutto nell’ottica di superare le criticità. Per questo riteniamo sia utile e urgente dare il via all’indagine conoscitiva che si concentri sulle maggiori criticità di carattere organizzativo e relative alla mancanza di operatori sanitari per elaborare una proposta da presentare al Consiglio Regionale entro la fine del 2023 con le opportune proposte e soluzioni volte a fronteggiare futuri scenari. Calabria. Aperta la Rems di Girifalco e redatte le linee guida sui suicidi nelle carceri lametino.it, 23 novembre 2022 Aperta, dopo anni di ritardi e rinvii, la Residenza esecuzione misure di sicurezza (Rems) di Girifalco. Il Dipartimento Salute della Regione Calabria si è affidato ad alcuni medici esperti del settore, i quali hanno avviato l’iter per l’attivazione e l’apertura di questa importantissima struttura destinata al ricovero di pazienti giudiziari detenuti. La Rems, si legge in una nota: “rappresenta anche una risposta concreta per affrontare la difficile ed esplosiva situazione in cui versano le carceri calabresi trovandosi a dover gestire anche i detenuti psichiatrici che hanno, invece, diritto a misure alternative. Ora finalmente, in seguito all’intesa con il Ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, i soggetti con provvedimenti giudiziari psichiatrici degli Istituti Penitenziari della Regione Calabria possono, finalmente, essere ospitati nella Rems di Girifalco e seguire percorsi mirati di riabilitazione”. È stata, inoltre, completata la procedura per la realizzazione di un progetto riguardante l’incremento dei Dipartimenti di Salute mentale con l’apertura di una ulteriore struttura intermedia che, al termine del percorso Rems, darà la possibilità di inserimento, sul territorio e nel tessuto sociale, ai pazienti con patologia psichiatrica. In collaborazione con l’Osservatorio regionale sulla Sanità penitenziaria, informano: “è stato fatto un ulteriore passo in avanti anche rispetto ai suicidi e ai tentati suicidi che avvengono nelle carceri calabresi. D’Intesa con il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria e con il Dipartimento Centro Giustizia Minorile, sono state, infatti, redatte le Linee guida sulla prevenzione dei suicidi in carcere, sia per quanto riguarda gli adulti che i minori. Infine, riguardo alle diverse criticità sanitarie rilevate negli Istituti Penitenziari della regione, sono state anche emanate precise disposizioni rivolte ai Commissari delle Aziende sanitarie provinciali”. È quanto si legge in una nota del Dipartimento Salute della Regione Calabria. Calabria. “Carenza di personale sanitario e di reparti per detenuti con patologie psichiatriche” Corriere della Calabria, 23 novembre 2022 La denuncia del Garante Muglia dopo le visite nelle Case circondariali di Catanzaro, Cosenza e Reggio Calabria. Proseguono le visite istituzionali effettuate dal Garante regionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, Luca Muglia, presso gli istituti di pena calabresi. Il Garante regionale si è recato, infatti, presso le case circondariali di Catanzaro, Cosenza e Reggio Calabria, nonché presso l’Istituto Penale Minorile e la Comunità Ministeriale per Minori di Catanzaro. In occasione della visita al carcere di Reggio Calabria il Garante Muglia ha avuto modo di incontrare, tra gli altri, il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Liberato Gerardo Guerriero, il Garante comunale dei detenuti, Giovanna Francesca Russo ed il Garante metropolitano dei detenuti, Paolo Praticò. Nella giornata odierna è prevista la visita istituzionale presso la casa circondariale di Vibo Valentia. Oltre a svolgere colloqui con i detenuti e ad accedere ai luoghi di detenzione, visionando le celle, i servizi e gli spazi ricreativi, il Garante ha incontrato i direttori degli istituti, la Polizia penitenziaria, i funzionari giuridico-pedagogici ed il personale sanitario. Sono state acquisite informazioni utili circa le modalità di funzionamento della sezione di Atsm (Articolazione per la Tutela della Salute Mentale) del carcere di Catanzaro, che opera tra mille difficoltà essendo allo stato attuale l’unica presente nella regione Calabria. “Nei reparti di osservazione psichiatrica la situazione è molto grave” - “Quanto ai reparti di osservazione psichiatrica la situazione è molto grave - dichiara al riguardo l’avvocato Muglia -. Tali reparti, astrattamente previsti negli istituti di Catanzaro e Reggio Calabria, non sono in realtà operativi per mancanza di personale sanitario specializzato. In queste condizioni curare il disagio psichico diventa impossibile. I nodi irrisolti della questione psichiatrica in fase di esecuzione della pena aggravano la condizione dei detenuti e contribuiscono all’incremento esponenziale di atti di autolesionismo che nell’ultimo mese in Calabria si sono moltiplicati. Non si può pretendere che i funzionari e il corpo di polizia penitenziaria continuino a sopperire alle gravi criticità sopra indicate, è a rischio la tenuta dell’intero sistema”. Il Garante prosegue intanto i colloqui istituzionali. Proprio in questi giorni è previsto a Crotone un incontro con il Garante comunale dei detenuti, Federico Ferraro, il Sindaco, Vincenzo Voce ed il Prefetto, Maria Carolina Ippolito, al fine di discutere sulle problematiche che riguardano le persone detenute o private della libertà personale, le condizioni dei centri per l’accoglienza dei richiedenti asilo politico ed il monitoraggio dei rimpatri degli stranieri extracomunitari irregolarmente presenti sul territorio calabrese. Firenze. Suicidio a Sollicciano: noi e il carcere, la cultura dello scarto di Alessio Gaggioli Corriere Fiorentino, 23 novembre 2022 La cultura dello scarto che “trova facilmente alimento nei pregiudizi ai danni di quanti, a torto o ragione, incappano nelle maglie della giustizia”. Era stato trasferito dal carcere di Pisa a quello di Sollicciano. Era stato seguito o lo era ancora dal reparto per la salute mentale perché aveva problemi psichiatrici e di dipendenze. Forse proprio per questo, nonostante la condanna per stalking, non doveva essere in carcere. Fatto sta che in carcere - uno dei peggiori in Italia, quello di Sollicciano - c’è morto. Anzi, ha bloccato la serratura della cella, non perché non volesse uscire, ma perché voleva impiccarsi e non voleva essere salvato. È terminata così la vita di un uomo di 40 anni che prima di quel gesto estremo nella notte tra domenica e lunedì aveva comunque chiesto aiuto. A voce, perché pare avesse detto ai volontari che lo seguivano, che voleva uccidersi. Per iscritto, tramite il suo avvocato, con una lettera mandata ai garanti (nazionale, regionale, provinciale) dei detenuti che definiscono la quarta persona che si è tolta la vita a Sollicciano dall’inizio dell’anno (una ogni tre mesi) “come una vittima del sistema”. I garanti avevano chiesto che uscisse per trovare posto in una comunità. Il detenuto aveva chiesto i domiciliari a Firenze, dove vivono i suoi genitori, ma in una casa occupata. Nulla di tutto questo è stato possibile a causa delle lentezze e delle rigide barriere burocratiche. Il 40enne non aveva la residenza. Il foglio di carta che forse gli avrebbe salvato la vita. Chissà. Così eccoci alla solita tragica contabilità, al bollettino dei record negativi - qual è il carcere peggiore d’Italia? - ai titoli stanchi dei nostri giornali: “Un altro suicidio in carcere”. Alla routine e allo sdegno del giorno dopo, o al massimo di quello dopo ancora. Si assiste agli scarica barile, alla denuncia delle Reims (le strutture di accoglienza per gli autori di reato) che mancano, del carcere che cade a pezzi come se bastasse ricostruire coi mattoni - se mai si farà - quello che ci sta dentro e soprattutto fuori che non funziona. In Italia in un anno i suicidi sono stati ormai 80, è l’anno più tragico. Domandiamoci allora se sia solo un problema di mattoni o sovraffollamento quello di Sollicciano. Tanto più che l’Italia, come ricordava ieri Gianfranco Marcelli su Avvenire, non è il paese europeo in cima a questa triste classifica. C’è la Francia, ci sono Repubblica Ceca, Austria, Lettonia e altri. Forse il problema è per lo meno continentale e forse riguarda noi stessi, la nostra cultura, la cultura dello scarto che “trova facilmente alimento nei pregiudizi ai danni di quanti, a torto o ragione, incappano nelle maglie della giustizia. E quindi non meritano che ci si affanni troppo per loro”. In carcere d’altra parte, come scriveva ieri sui social l’amico radicale Massimo Lensi, si muore anche per malattia e per altre ragioni, guarda un po’. Perché alla fine “la percentuale di morte in carcere è quasi un dato sostenibile rispetto all’utilità sociale della carcerazione”. Rispetto al dogma della sicurezza. Al pericolo più grande che resta sul campo subito dopo lo sdegno della tragedia: l’assuefazione. E nulla cambia. Firenze. Il Garante: “Quel detenuto vittima del sistema che non offre protezione sociale” di Valentina Marotta e Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 23 novembre 2022 Fanfani aveva ricevuto una lettera di richiesta d’aiuto. La procura apre un’inchiesta. Aveva chiesto di poter usufruire della detenzione domiciliare ma non aveva una residenza. E anche i suoi genitori, residenti a Firenze da anni, vivevano in una casa occupata. Per questo il detenuto marocchino 40enne Azdine Essakhi è rimasto in carcere, dove si è impiccato domenica notte. Durissimo il commento del garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani: “Il detenuto marocchino è stato vittima di un sistema che non funziona e che non è in grado di offrire una protezione sociale alle persone recluse”. Il Garante, il cui staff aveva incontrato il recluso suicida a inizio ottobre, si chiede se “fosse stato possibile dar seguito all’articolo 45 dell’ordinamento penitenziario”, secondo cui “il detenuto privo di residenza anagrafica è iscritto, su segnalazione del direttore, nei registri della popolazione residente del comune dove è ubicata la struttura”. Ma non c’è soltanto la questione degli arresti domiciliari. Secondo Fanfani, il detenuto aveva problemi di dipendenze e per questo “aveva chiesto il trasferimento in una comunità” ma senza successo. Inoltre, aggiunge il garante, “neppure il Serd fuori dal carcere poteva prenderlo in cura perché non aveva la residenza”. Ecco perché “questa è la prova che il sistema carcere e tutto quello che è correlato non funziona, questo tipo di carcere ha regole bestiali che non aiutano le persone”. Il pm Giovanni Solinas ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio, al momento senza indagati. Ha inoltre disposto l’autopsia che sarà eseguita all’istituto di medicina legale di Firenze oggi o domani, per accertare le cause della morte. Nelle prossime ore acquisirà anche verbali e relazioni sullo stato del detenuto. Disperati gli anziani genitori del detenuto, che abitano in una struttura occupata senza luce e senza acqua. “Vogliamo vedere la cella dove è morto nostro figlio. Lo abbiamo sentito al telefono pochi giorni prima che si togliesse la vita, stava male, minacciava da giorni di uccidersi, ci diceva che la sua cella era fredda e molto umida. Non doveva stare in carcere ma in una comunità di recupero. E non doveva stare in una cella da solo”. Nelle scorse settimane Azdine, in carcere per il reato di stalking, aveva scritto anche una lettera al garante nazionale dei detenuti, a quello regionale e a quello provinciale, chiedendo loro un incontro. Una vita difficile, quella di Azdine, che era arrivato in Italia al seguito dei genitori ma che, vista anche la condizione economica disagiata dei familiari, ha intrapreso strade sbagliate durante il suo percorso. Si tratta del quarto suicidio dall’inizio dell’anno nel carcere di Sollicciano. L’ultimo risale a metà ottobre e aveva coinvolto sempre un recluso marocchino. Si chiamava Azzedine, era arrivato a Firenze quando era poco più che adolescente e ha finito i suoi giorni a Sollicciano dove saranno adesso riesaminati i protocolli fra Asl e carcere sul rischio di suicidi. Ivrea (To). Le botte nell’Acquario o nella “cella liscia”. Quelle due stanze per le torture in carcere di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 23 novembre 2022 Sotto inchiesta 45 persone tra agenti della penitenziaria, medici in servizio nella Casa circondariale, funzionari giuridico-pedagogici, ex direttori. Un recluso: “Mi spezzarono il braccio”. Quando i colleghi della Polizia penitenziaria hanno bussato alla porta di casa, alle tre del mattino, lo choc è diventato incubo, leggendo le accuse scritte sul decreto di perquisizione: “Aver cagionato acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a detenuti, agendo con violenze, minacce gravi e crudeltà”. Insomma, uno scenario di torture (questa l’imputazione per il codice penale, dal 2017), falsi in relazioni di servizio e calunnie, che all’interno del carcere di Ivrea andava sostanzialmente avanti da sette anni. Almeno secondo la ricostruzione della nuova inchiesta della Procura, perché un’altra - poi avocata dalla Procura generale di Torino (con 25 indagati) - stava già setacciando episodi avvenuti a partire dal 2015. Stavolta, sono finite sotto inchiesta 45 persone, tra agenti della penitenziaria, medici in servizio nella casa circondariale, funzionari giuridico-pedagogici, ex direttori: per gli investigatori, c’erano detenuti picchiati e richiusi in celle di isolamento; e poi alcuni obbligati a denunciare altri reclusi, in cambio di benefici, tra agevolazioni lavorative interne e il ripristino dei permessi premio. Le denunce dei detenuti - Il blitz è scattato all’alba, con perquisizioni nelle abitazioni e nei locali di servizio dentro al peniteziario: “I reati risultavano tuttora in corso, situazione che ha reso ineludibile l’intervento degli inquirenti”, ha spiegato in una nota il procuratore di Ivrea, Gabriella Viglione. Tutto è iniziato oltre un anno fa, dalla denuncia di un detenuto sui trent’anni: finì con un braccio spezzato dopo la sfida a braccio di ferro con un agente della penitenziaria; episodio poi fatto passare per infortunio sul lavoro. Seguirono altre segnalazioni, riscontrate dagli investigatori con “precisi e gravi elementi probatori oggettivi”. Anche se, al momento, non è stata emessa alcuna misura cautelare. L’ipotesi tracciata dall’inchiesta, coordinata dal pm Valentina Bossi, è inquietante: c’era la “cella liscia” (prima era di contenimento, senza mobili, ora è sala d’attesa dell’infermeria) e c’era quella “acquario” (per il colore delle pareti). Entrambe sarebbero state luogo di pestaggi, con i detenuti picchiati e isolati, senza poter avere alcun contatto, nemmeno con i difensori. Sulla traccia di ulteriori indizi - A volte, capitava che fossero costretti ad accusare altri detenuti, raccontando di minacce ad agenti o di insulti al magistrato di sorveglianza: cose mai successe - secondo i pm - il che ha portato alla contestazione di falso e calunnia. “Pensiamo non ci siano elementi per sostenere le accuse”, dice l’avvocato Celere Spaziante, che difende 12 agenti. Dalle 36 perquisizioni - fatte dagli uomini del nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, insieme a carabinieri e militari della guardia di finanza - gli inquirenti sperano di trovare altri indizi e tracce, a partire dai computer sequestrati. Gli ultimi episodi di tortura - per l’accusa - sono avvenuti tra il luglio e l’agosto scorsi, mentre altre condotte vengono collocate tra il 2015 e la primavera del 2022: praticamente, botte e soprusi non si sarebbero mai fermati. Ivrea (To). Altri 45 indagati per “tortura” sui detenuti. Anche in celle lisce di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 novembre 2022 Dopo il fascicolo avocato a sé dalla Procura generale di Torino. Antigone: “Oltre 200, tra agenti e operatori sotto inchiesta per violenze”. Si allarga l’indagine sulle violenze e i pestaggi commessi sui detenuti nel carcere di Ivrea. Dopo quelli che sarebbero stati consumati tra il 2015 e il 2016 sui quali indaga ancora la Procura generale di Torino - che a settembre aveva avocato a sé il fascicolo, dopo che l’allora procuratore capo eporediese Giuseppe Ferrando aveva chiesto l’archiviazione delle indagini - ieri l’attuale procuratrice di Ivrea Gabriella Viglione (nominata a febbraio) ha dato notizia di 36 perquisizioni a casa e in carcere nell’ambito di una nuova inchiesta che coinvolge 45 persone tra agenti della polizia penitenziaria, educatori, medici, funzionari e direttori pro-tempore della locale Casa circondariale. Tutti accusati a vario titolo di reati che vanno dalla tortura alle lesioni, minaccia e falso ideologico, per fatti che sarebbero stati commessi dal 2019 ad oggi. Un arco di tempo che motiva il fatto che i nuovi indagati, a differenza dei 25 raggiunti a settembre dagli avvisi di garanzia della Procura generale di Torino, possono essere accusati anche di tortura, perché questa fattispecie di reato è stata inserita nel nostro ordinamento nel 2017, prima quindi delle violenze contestate dai pm eporediesi. La galassia anarchica “informale” sempre in guerra contro tutti - Sono decine i detenuti, o parenti di essi, che hanno presentato denuncia nel corso degli anni, come ha fatto lo stesso Garante dei detenuti della città piemontese grazie al quale venne aperta l’inchiesta sulle violenze perpetrate nel 2015 e nel 2016. In quel periodo la Casa circondariale di Ivrea venne segnalata anche dal Comitato europeo per la Prevenzione della Tortura, mentre il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma dopo alcune ispezioni stilò un rapporto nel quale menzionava anche una “sala accanto all’infermeria” chiamata “Acquario”, una sorta di “cella liscia” utilizzata come “cella di contenimento di natura afflittiva”. Un luogo sul quale si sono concentrati gli inquirenti: “Le indagini finora svolte - rende noto la procuratrice capo di Ivrea - hanno consentito di raccogliere precisi e gravi elementi probatori oggettivi che hanno fornito riscontro alle denunce prodotte nel corso degli anni, permettendo altresì di individuare la cosiddetta “cella liscia” nonché il cosiddetto “acquario”, celle entro le quali i detenuti venivano picchiati e rinchiusi in isolamento senza poter avere contatti con alcuno, nemmeno con i loro difensori”. “Con queste 45 persone - fa notare Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - sono oltre 200 gli operatori penitenziari attualmente indagati, imputati o già passati in giudicato all’interno di procedimenti che riguardano anche episodi di tortura e violenza avvenuti nelle carceri italiane. Un dato che ci racconta di un problema evidente che si riscontra negli istituti di pena dove, con troppa frequenza, da nord a sud emergono fatti di questo tipo”. Due giorni fa invece i giornali locali davano notizia dello stato di agitazione della polizia penitenziaria del carcere eporediese “per le violenze subite dai detenuti”. E sindacati come la Uilpa Polizia penitenziaria colgono perfino l’occasione per dire che “il reato di tortura è costruito male”. Napoli. Boom di giovani detenuti a Poggioreale di Giuseppe Letizia cronachedi.it, 23 novembre 2022 In carcere arrivano adolescenti e incensurati. Il percorso che cominciano non sempre porta alla rieducazione: qui conoscono delinquenti incalliti e spesso provano a imitare le gesta. Il fine settimana è un bollettino di guerra (in tempi di pace): ragazzini accoltellati, pestati a sangue freddo e gambizzati. Lo rivelano tutti gli indicatori: la violenza giovanile oggi è disarmante. Cosa sta accadendo ai ragazzi a Napoli nel dopo Covid? “Non hanno figure di riferimento, nemmeno i genitori - racconta il cappellano di Poggioreale don Franco Esposito - anche da noi c’è il padiglione Firenze, che accoglie i primari, quelli che non avevano mai messo un piede in cella. E registriamo una presenza di giovani impressionante. In tanti anni, mai visto così tanti ragazzi entrare nell’istituto per la prima volta. Quasi nessuno è legato ad organizzazioni criminali. Tutti cani sciolti, se così si può dire”. Cosa significa? “C’è una perdita di valori collettiva. Non sono curati né in famiglia, né nel sociale. Emarginati dalla scuola e dalle attività. Poi cadono in questi atteggiamenti aggressivi. Anche l’uso degli stupefacenti peggiora il quadro. Vivono nei disvalori. Ecco perché bisogna lavorare sul territorio. Ma i finanziamenti oggi non vanno verso l’attenzione al sociale. Vengono tagliate proprio le risorse, che servono per realizzare iniziative per queste persone”. Poi taglia corto: “Solo la repressione attraverso il carcere non basta”. E spiega perché: “Accade che la detenzione renda criminali quelle persone, che hanno commesso reati di questo genere. Il carcere è una serra per la delinquenza: rabbia che si cova tra le sbarre e contatti con delinquenti abituali. A Poggioreale su 2.200 detenuti abbiamo solo 18 educatori. Tra l’altro super impegnati tra mille mansioni: devono redigere relazioni, valutare permessi. E i contatti con i reclusi si riducono al lumicino. Ragazzi così giovani in cella rischiano di diventare veri criminali da grandi. E dopo sarà ancora più difficile il recupero. Servono strutture alternative al carcere e più incisive nella rieducazione”. Il cappellano riprende dopo una lunga pausa: “Vedo che spesso chi esce dal carcere minorile, prende delle mostrine e se ne vanta, mentre ai nostri occhi non è una cosa buona. Così diventano la manovalanza dei clan. Per avere una rieducazione certa nel carcere, servono forti risorse economiche. A volte la cella aggiunge male ad altro male. Nel mio ultimo libro ‘Luci verso una nuova giustizia’ parlo proprio di questa: una giustizia diversa, riparativa, dove chi ha commesso il male ne prende coscienza”. Sarà presentato mercoledì nella chiesa San Giuseppe dei Ruffi in via Duomo. Siena. Dal carcere al Mercato nel Campo, così i detenuti diventano netturbini controradio.it, 23 novembre 2022 Siena, recupero sociale, reinserimento, solidarietà: queste le parole chiave del progetto, sostenuto dal Comune con la casa circondariale cittadina e in collaborazione con Sei Toscana, che prevede un programma sperimentale per lo svolgimento di attività lavorative extramurarie per detenuti del carcere senese. In particolare il progetto prevede l’impiego di cinque detenuti - scelti tra chi ha i requisiti per l’ammissione al lavoro all’esterno, alla semilibertà, ai permessi o licenze - nel weekend del Mercato nel Campo” che si svolgerà a Siena il 3 e 4 dicembre: svolgeranno attività di pulizia delle zone interessate dal mercato in piazza del Campo, “in coabitazione e in collaborazione con gli operatori di Sei Toscana e secondo orari prestabiliti e concordati”. Il Comune fornirà loro il kit dei dispositivi di protezione personale indispensabili per le mansioni da svolgere nei due giorni. Allo stesso tempo la stessa amministrazione comunale ha previsto lezioni di formazione e tutoring in preparazione dell’evento. Per il sindaco Luigi De Mossi si tratta di una nuova “testimonianza del senso di civiltà e dei valori culturali che la città di Siena sa trasmettere, attraverso iniziative come queste che puntano su reinserimento nella società civile e solidarietà. Il lavoro di pubblica utilità è uno degli strumenti previsti dal legislatore per il perseguimento di questi obiettivi e il Comune di Siena è in questo senso in primissima fila”. “Il lavoro all’interno e all’esterno degli istituti - ha spiegato il comandante del carcere senese Marco Santoro - è uno strumento fondamentale di rieducazione, recupero e reinserimento sociale dei soggetti in espiazione di pena definitiva. L’attività lavorativa a beneficio della collettività può anche costituire una forma di riparazione che si pone in essere della stessa comunità e di indubbia valenza”. “Questo progetto - ha detto il dg di Sei Toscana Gianluca Paglia - porta con sé i valori di inclusione che si coniugano in modo naturale con la nostra responsabilità sociale d’impresa”. Brescia. Carcere e giustizia, oggi il convegno organizzato dalla Ugci Corriere della Sera, 23 novembre 2022 Si terrà mercoledì 23 novembre alle ore 15, all’auditorium dell’istituto Artigianelli, il convegno dal titolo “Dal Giudice Zappa alla riforma Cartabia: quali prospettive per il sistema carcerario?”. Il dibattito, organizzato dal gruppo bresciano della Ugci (Unione Giuristi Cattolici Italiani), sarà introdotto alle ore 15 dall’avvocato Alessandro Bertoli, che dialogherà con il dottor Luigi Pagano e ricorderà il dottor Giancarlo Zappa con l’avvocato Claudio Cambedda. Un’ora dopo, alle 16, moderato da Massimo Lanzini del Giornale di Brescia, alla presenza della dottoressa Monica Calì (presidente del Tribunale di sorveglianza) e dalla avvocatessa Veronica Zanotti (presidente della Camera penale di Brescia), il dibattito sul tema: “Oggi e il futuro. Quale potrà essere l’impatto della Riforma sulla situazione carceraria? Un confronto tra Sorveglianza e avvocatura”. La chiusura dei lavori è prevista per le 17.30. Torino. L’Ipm “Ferrante Aporti” si apre all’esterno con una sala teatro di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 23 novembre 2022 La direttrice: “Nessuna spesa grazie alle associazioni”. “Siamo un po’ tutti in un acquario in fondo! E non ce ne accorgiamo”. Parla di libertà, di sogni e diritti lo spettacolo messo in scena dai giovani detenuti del Ferrante Aporti. Ieri è stata inaugurata, in maniera sobria dopo i disordini delle scorse settimane, la nuova sala teatrale creata in un spazio inutilizzato grazie al progetto Wall Coming. “Non è stato impiegato un solo euro di risorse amministrative - precisa la dirigente dell’istituto Simona Vernaglione - hanno fatto tutte le associazioni che operano all’interno della struttura intercettando sovvenzioni che ci hanno permesso di creare uno spazio fruibile anche ai cittadini”. Le sedie sono quelle dismesse dall’aeroporto di Caselle, mancano le quinte, il paco e le tende ignifughe. Ma l’idea di fondo è aprire le porte del penitenziario minorile con una sala che possa poi diventare anche “teatro di quartiere”, ma anche la “pizzeria del Ferrante”. I primi spettacoli sono in programma a dicembre: “Abbiamo voluto coinvolgere i ragazzi nell’allestimento e nella produzione per farli sentire partecipi del progetto - spiega Pasquale Ippolito di Inforcoop Lega Piemonte-. Non è facile perché la permanenza dei ragazzi non è lunghissima, al massimo 3 mesi, ma siamo riusciti a produrre un video, “Game Over”, che racconta pezzi di queste giovani vite”. L’obiettivo è fornire una speranza ai 36 giovanissimi detenuti: “Offriamo loro uno sguardo su una possibile alternativa - continua Vernaglione. Non una seconda chance perché la maggior parte non ha avuto neppure la prima. Siamo emozionati, perché il Ferrante non è abitato solo da ragazzi che bruciano materassi e vederli tranquilli, attenti e silenziosi è stata una grande soddisfazione”. Nei giorni scorsi all’interno del carcere minorile ci sono state tensioni, celle distrutte e agenti feriti: ““In realtà i giovani coinvolti erano 3 o 4 e sono stati allontanati. Si tratta di soggetti già responsabili di reati violenti, che hanno fatto, fuori di qui, uso di droghe o psicofarmaci, molto difficili da gestire in un luogo chiuso. Il fenomeno delle bande giovanili non può essere affrontato solo con la repressione e sarebbe interessante ragionarne insieme con tutti gli organi istituzionali che se occupano. Le chiamiamo fluide, perché non riusciamo ancora a capirle. Ma restare impreparati sarebbe un errore”. Milano. Artisti Dentro 2022: arte e cultura fuori dalle sbarre L’Identità, 23 novembre 2022 Sabato 3 dicembre, a Milano, la presentazione dell’antologia che raccoglie i lavori migliori dei detenuti. A partire dalle 19.45, l’evento promosso da Artisti Dentro Onlus, l’associazione che promuove arte e cultura nelle carceri d’Italia, nel community hub HUG Milano di via Venini. “L’antologia - raccontaa Sibyl von der Schulenburg, presidente del sodalizio - è l’opera conclusiva di un anno di lavoro, una raccolta dei migliori contributi ai tre concorsi indetti dall’associazione e riservati ai detenuti: racconti, poesie, testi rap, ricette di cucina e piccole opere pittoriche di mail art. Sono tutte espressioni della creatività di persone detenute, voci che escono da carceri sovraffollate, luoghi di sofferenza e mancate occasioni di rieducazione e recupero sociale. Dobbiamo guardare al fenomeno della carcerazione con animo libero da desiderio di vendetta e considerare invece che senza un aiuto, la maggior parte dei detenuti a fine pena tornerà a delinquere. Ed è per questo motivo che abbiamo deciso di usare la creatività come strumento per una crescita personale del detenuto e l’agonismo come mezzo per risvegliare in persone psicologicamente smarrite l’interesse sufficiente a riaccendere motivazione, ambizione e autostima”. “Portare all’esterno le voci dei detenuti attraverso le loro opere d’arte - aggiunge - ha creato un ponte tra il dentro e il fuori degli istituti di pena, una via che permette il contatto tra la società libera e quella detenuta. C’è bisogno di questo contatto affinché la società si renda conto di qualcosa che non per tutti è chiara: la gente cambia; il detenuto incarcerato dieci anni fa non è più la stessa persona, il suo cervello ha modificato il modo di lavorare e i suoi schemi mentali sono diversi. Se la svolta è stata in bene o in male dipende dall’ambiente in cui il soggetto è stato immerso per tanto tempo, questo è un elementare principio di pedagogia. Purtroppo c’è uno squilibrio enorme tra due bisogni: la società libera tende a negligere le carceri mentre i detenuti hanno l’esigenza di essere visti e riconosciuti quali esseri umani appartenenti alla stessa società. C’è, poi, un’altra finalità molto importante di tutte le attività di Artisti Dentro Onlus: combattere la noia nelle carceri, luoghi in cui la definizione di noia mortale si concretizza nel numero di suicidi dovuti al vuoto di obiettivi e speranza. I concorsi offrono scadenze e momenti di attesa che scandiscono il tempo dandogli una dimensione vivibile, in quello che un detenuto ha definito il cimitero dei vivi”. Fine pena mai, storia di un’ingiustizia siciliana ansa.it, 23 novembre 2022 L’ultimo romanzo del giornalista Carmelo Sardo. “Dove non batte il sole” (Bibliotheka Edizioni, 250 pagine, 18 euro). Nell’ordinamento penale italiano è presente il tema molto discusso del “fine pena mai”, associato alla condanna all’ergastolo che nei casi più gravi della criminalità mafiosa diventa perfino ergastolo ostativo. Carmelo Sardo, redattore capo del Tg5 e autore di storie di mafie, cerca di ribaltare il principio della condanna a vita con il romanzo “Dove non batte il sole” (Bibliotheka Edizioni) che sarà presentato il 10 dicembre a Roma alla fiera “Più Libri Più Liberi 2022” con gli interventi dello scrittore Gaetano Savatteri e del procuratore di Marsala, Roberto Piscitello. Il romanzo narra una storia di forte impatto emotivo. In una cittadina della Sicilia barocca, dove la mafia non spara e non uccide più da anni, vengono assassinati marito e moglie nella loro gioielleria. Si pensa a una rapina finita male, ma il magistrato che indaga sospetta del figlio della coppia. Per il giovane comincia così un calvario tra le incongruenze del sistema giudiziario. Confidava nello Stato per avere giustizia per i suoi genitori, invece è costretto a liberarsi di un’accusa infamante. Nella ricerca della verità si ritrova, altro paradosso, a fianco di un boss. I loro destini si incrociano e danno vita a un racconto di impegno civile. Carmelo Sardo ha esordito nella narrativa nel 2010 con “Vento di tramontana” (Mondadori); poi il grande successo con “Malerba” (Mondadori 2014) scritto con il detenuto ergastolano Giuseppe Grassonelli. Le imprese sociali crescono ma ci sono disfunzioni e manca soprattutto personale di Giulio Sensi Corriere della Sera, 23 novembre 2022 Il paradosso di un settore in crescita che non trova manodopera. Le cause? Carenza di formazione e fuga verso l’impiego pubblico. I dati nei report di Legacoop e Federsolidarietà-Confcooperative. Le imprese sociali continuano a crescere e creare occupazione, ma faticano a reclutare personale e, soprattutto al Nord, vivono un’emorragia di risorse umane che passano alla pubblica amministrazione. Legacoop, una delle principali sigle nazionali del mondo della cooperazione sociale, ha condotto un’analisi sugli andamenti congiunturali sulle sue circa 2.500 associate: emerge che il problema principale vissuto oggi è proprio la scarsità di manodopera. “Riguarda 60 realtà su 100 - spiega Mattia Granata, presidente del Centro Studi di Legacoop nazionale - e solo nell’ultimo quadrimestre è salito di venti punti percentuali. Il problema supera perfino la profonda crisi dei costi e dell’energia e rappresenta il principale ostacolo allo sviluppo dell’attività imprenditoriale”. Un fenomeno che ha iniziato a manifestarsi, come in altri settori dell’economia, all’uscita dalla pandemia e oggi assume due forme: la difficoltà a reperire figure professionali adeguate a svolgere i servizi tipici delle imprese sociali e la fuga di persone verso la pubblica amministrazione che, nei concorsi di assunzione, richiede spesso figure con il know how tipico del cooperatore sociale. A entrare nei dettagli è Vincenzo Di Bernardo, direttore di Federsolidarietà-Confcooperative, l’altra grande sigla nazionale con oltre seimila enti aderenti: “Le figure che cominciano a essere più scarse sono quelle sanitarie e sociosanitarie. Molti si stanno spostando nel pubblico, ma al contempo abbiamo anche problemi a reperire gli educatori”. Disfunzioni - Servizi educativi e assistenziali sono infatti fra le principali attività delle cooperative sociali le quali rappresentano ancora in Italia la maggioranza delle realtà definite come imprese sociali. “Il pericolo - aggiunge Di Bernardo - è quello di subire dei rallentamenti in alcuni servizi essenziali come l’assistenza domiciliare o i servizi per l’infanzia”. “La forte ripresa del 2021 - aggiunge Granata - ha reso più evidente il problema. La nostra analisi è piuttosto chiara: dopo anni di stagnazione, non appena l’economia ha cominciato a tirare con decisione, sono emerse le disfunzioni e le arretratezze storiche del nostro mercato del lavoro, e la difficoltà a reclutare personale è divenuta un problema serio anche per le cooperative e più in generale l’economia sociale”. La scarsità di risorse umane rischia di frenare un settore che sta crescendo e consolidando anche il suo rapporto con gli istituti di credito. Secondo i dati dell’XI edizione del rapporto dell’Osservatorio su Finanza e Terzo settore promosso da Intesa Sanpaolo e Aiccon, anche nel 2021 la soddisfazione di cooperative e imprese sociali in merito alla propria relazione con gli istituti bancari è cresciuta (+7,1%), in particolar modo perché le banche forniscono personale dedicato e formato sulle esigenze e specificità delle organizzazioni del Terzo settore e servizi dedicati. “La fotografia è incoraggiante - commenta il direttore di Aiccon Paolo Venturi - ma si registra una domanda di nuove competenze crescente rispetto a quelle storiche tradizionali e si fa fatica a recuperare risorse umane. Per questo il maggiore bisogno che il Terzo settore e in particolare l’impresa sociale rappresentano agli istituti di credito è oggi proprio quello della formazione, che riguarda più di sei organizzazioni su dieci. E per fare le cose nuove in quello che chiamiamo il “terzo tempo” dell’impresa sociale servono nuove competenze, perché la pandemia ha creato una domanda di occupazione e ruoli che sono ancora mancanti. Va ridisegnata l’intera filiera e l’impresa sociale deve svolgere un ruolo nuovo: non solo garantire un giusto compenso, ma riproporre un modo diverso di erogare servizi”. Proprio al tema del “lavoro come opera fra senso e compenso” Aiccon ha dedicato uno studio condotto su un campione di giovani cooperatori sociali under 35. La ricerca ha approfondito in particolare tre dimensioni: il compenso economico unitamente al legame tra senso e motivazione del proprio ruolo; la funzione strategica della formazione; le prospettive inerenti il desiderio di carriera. “Viene fuori - aggiunge Venturi - che c’è un riconoscimento potente del valore del lavoro stesso, ma che i giovani hanno necessità di avere protagonismo non solo di facciata, vogliono fare carriere, avere un ruolo nei cambiamenti”. Le nuove leve rappresentano la speranza di sviluppo per le imprese sociali, ma devono anche aumentare i salari. “Occorrono misure di sistema - aggiunge Granata - per riorganizzare un moderno settore delle politiche attive del lavoro incentrato su una strategia complessiva che faccia dialogare e operare in modo efficiente il pubblico e il privato”. “Serve prima di tutto - conclude Di Bernardo - che sia nei servizi in accreditamento sia nei bandi di gara siano riconosciuti nei tabellari gli incrementi contrattuali definiti da contratti nazionali maggiormente rappresentativi. E naturalmente occorre trovare risorse che consentano agli enti territoriali di offrire servizi di maggiore qualità e più diffusi”. Migranti. Quegli arrivi via terra che spaventano l’Ue più del Mediterraneo di Giovanni Vale Il Manifesto, 23 novembre 2022 La rotta balcanica. Nei primi dieci mesi dell’anno 128 mila migranti hanno percorso i Balcani per arrivare in Croazia. E da lì proseguire verso nord. Chi si ricorda della rotta balcanica? La visita di ieri dei ministri degli Esteri e della Difesa Antonio Tajani e Guido Crosetto a Belgrado e Pristina ha riacceso i riflettori su un fenomeno che da tempo preoccupa Bruxelles, per niente contenta che la rotta balcanica sia diventata nuovamente la prima via di accesso all’Unione europea per rifugiati e migranti, più importante anche del Mediterraneo centrale. I dati di riferimento sono quelli dell’agenzia Frontex, che registra 128mila attraversamenti della rotta balcanica nei primi dieci mesi del 2022. Nello stesso periodo 85mila persone hanno attraversato il Mediterraneo centrale. Si tratta di numeri bassi se confrontati con quelli del 2015, quando Frontex segnalava quasi 750mila attraversamenti in un anno, ma il flusso è più che raddoppiato rispetto all’anno scorso. Siriani, afghani e turchi figurano tra le nazionalità più frequenti. La maggior parte di loro, una volta arrivati in Grecia dalla Turchia, attraversa i Balcani fino alla Bosnia-Erzegovina, per poi entrare nell’Unione europea in Croazia. “È stato un anno strano - commenta Silvia Maraone dell’associazione Ipsia, basata a Bihac nel nord della Bosnia-Erzegovina - da un lato registriamo un numero di arrivi più alto rispetto all’anno scorso, dall’altro la permanenza media in Bosnia è molto bassa. Ecco che i quattro campi profughi bosniaci non sono più pieni”. L’ultimo rapporto dell’ufficio di Sarajevo dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) indica infatti che migranti e rifugiati restano in media al massimo 11 giorni in Bosnia-Erzegovina prima di entrare in Croazia. Fino a pochi mesi fa, la polizia croata era nota per i suoi respingimenti illegali (pushbacks) accompagnati da violenze e persino torture. Chi tentava the game - così è detto il “gioco” crudele dell’attraversare la frontiera - rischiava non solo di essere rispedito in Bosnia con la forza, ma si vedeva anche sottrarre denaro e telefono cellulare. I respinti finivano per essere bloccati per mesi nel limbo dei Balcani, alle porte dell’Ue. La situazione è forse cambiata? “I respingimenti ci sono ancora, ma sono attuati con meno violenza”, risponde Maraone. Da quest’estate, inoltre, la polizia croata consegna ai migranti un foglio di via, che dà loro il permesso di circolare sul territorio croato per sette giorni prima di lasciare il paese. “Non c’è una vera logica per cui alcuni sono respinti mentre altri ricevono questo documento e possono proseguire”, prosegue Maraone. “La Croazia dovrebbe entrare a far parte dell’area Schengen a partire dal 1° gennaio. È per questo, credo, che la polizia croata ha cominciato a rispettare maggiormente le regole”, afferma Tea Vidovic, dell’organizzazione non governativa Centro studi per la pace (Cms) di Zagabria. Grazie al nuovo foglio di via, chi viaggia non deve più attraversare a piedi (e di nascosto) il territorio nazionale, ma può finalmente utilizzare autobus e treni per raggiungere la frontiera successiva, quella con la Slovenia. È per questo che presso le stazioni ferroviarie di Zagabria e Fiume sono stati predisposti dei punti di ristoro (ma non di pernottamento) per i migranti in transito. Passati i Balcani, la rotta porta dunque a Trieste, dove le difficoltà del viaggio non finiscono, anzi. “Gli arrivi sono aumentati sia per il minor numero di respingimenti da parte della Croazia, sia - e direi forse soprattutto - per il peggioramento della situazione nei paesi di origine, come nel caso dell’Afghanistan”, spiega Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio Italiano Solidarietà (CSI) a Trieste. “Tuttavia, questo aumento non ha di per sé un carattere emergenziale. Quello che rende la situazione attuale molto grave è che dal mese di luglio è saltato il sistema dei trasferimenti dei richiedenti asilo sul territorio nazionale. A fronte di circa 2000 arrivi mensili a Trieste, di cui diverse centinaia fanno domanda di asilo, appena 50/70 persone vengono trasferite ogni settimana”, prosegue Schiavone, che accusa: “Il governo rallenta di proposito i trasferimenti per creare una situazione insostenibile e poter dire che l’Italia è invasa e che l’unica soluzione sono i respingimenti”. In viaggio a Belgrado, Tajani e Crosetto hanno probabilmente cercato rassicurazioni di questo tipo. Il governo serbo deve interrompere - come ha promesso a fine ottobre - la sua politica di esenzione del visto nei confronti dei cittadini di Cuba, Tunisia e Burundi (molto numerosi quest’anno tra i migranti lungo la rotta balcanica) e deve attuare controlli più severi alle frontiere. A fine ottobre, la Commissione europea ha predisposto un assegno da 39,3 milioni di euro per “rafforzare la gestione dei confini nei Balcani occidentali” e Bruxelles ha annunciato anche un aumento del 60% dei fondi destinati ai paesi della regione per aiutarli a “sviluppare dei sistemi efficaci di gestione delle migrazioni, compresi l’asilo e l’accoglienza, la sicurezza delle frontiere e i rimpatri”, come ha detto il Commissario europeo all’Allargamento Olivér Várhelyi. La svolta arriverà probabilmente a inizio 2023, con l’ingresso della Croazia in Schengen. Nel frattempo, nell’attesa che la Fortezza Europa serri nuovamente le sue porte, chi arriva a Trieste e fa domanda di asilo entra in un “tunnel della disperazione”, per usare le parole di Gianfranco Schiavone. “Almeno 340 aspettano oggi una risposta alla loro domanda d’asilo. Metà di loro lo fa da almeno un mese. Aspettano per strada, al freddo, sotto la pioggia e il vento”. Stati Uniti. Un’isola della tortura a New York. “Rikers, chiudete quel carcere” di Gianluca Diana Il Manifesto, 23 novembre 2022 Record di suicidi e diritti negati nella prigione che organizzazioni comunitarie come Freedom Agenda cercano da anni di mandare in pensione. “È l’ultima colonia penale Usa, troppo spesso la detenzione qui è una condanna a morte”. Continua a salire drammaticamente il numero dei decessi nella prigione di Rikers Island. Il complesso carcerario rintracciabile nell’omonima isola newyorkese a sole sette miglia da Central Park, conta il diciottesimo morto dall’inizio del 2022: si tratta del ventiseienne Gilberto Garcia, deceduto lo scorso 31 ottobre per una sospetta overdose all’interno dell’Anna M. Kross Center, la più grande struttura carceraria di Rikers. Qualche giorno prima, il 22 ottobre, era toccato a Erick Tavira, 28enne in custodia dal 15 giugno 2021 che si è tolto la vita impiccandosi. Il suicidio è avvenuto presso l’unità di valutazione di salute mentale dell’edificio George R. Vierno Center, una della dieci strutture di Rikers. Louis A. Molina, commissario del New York City Department of Correction, oltre a manifestare “le più sentite condoglianze alla famiglia, agli amici e ai cari del signor Tavira nel momento del dolore”, ha sottolineato che il dipartimento sta “prendendo sul serio la salute e la sicurezza di tutti coloro che sono in custodia” e che condurrà “un’indagine preliminare su questa morte”. Oltre le dichiarazioni formali dell’alto dirigente, che ricordiamo essere subentrato nel ruolo il 16 dicembre 2021 su indicazione dell’allora neo eletto sindaco Eric Adams, resta un totale dei decessi di estrema gravità. Basti pensare che a Rikers si registrò lo stesso numero di morti a fine 2013 con una popolazione media giornaliera di 11.696 unità, mentre quest’ultimo dato oggi ruota attorno alle 5.560. Nonostante nell’ultima decade il quantitativo di persone condotte in prigione sia diminuito le condizioni di gestione del complesso sono peggiorate drasticamente: incuria e scarsa attenzione ai diritti dei detenuti hanno reso Rikers un posto invivibile e senza regole, dove le gang controllano parte delle strutture. Esemplare in tal senso la “Fight Night” documentata dal New York Times nel gennaio 2022. A bilanciare il tutto è da anni un movimento composito, costituito da familiari dei detenuti, cittadinanza, associazionismo e parte della classe politica locale, che spinge per la chiusura di Rikers. La discussione ha portato, nell’ottobre del 2019, il consiglio comunale di New York e l’allora sindaco Bill De Blasio a decretare la fine del complesso carcerario nel 2026. Decisione, slittata poi al 2027, che non ha certo minato la dedizione di donne e uomini che da tempo lavorano per chiudere una prigione assurta nella parte finale del secolo scorso a simbolo dell’incarcerazione di massa che interessa in particolare la comunità african-american. In queste settimane gli appuntamenti pianificati dalle tante organizzazioni impegnate sullo stesso obiettivo si stanno intensificando in previsione della importante scadenza del 17 novembre, quando un tribunale locale dovrà esprimersi sull’eventualità del passaggio di Rikers dalla attuale gestione del dipartimento penitenziario di New York - quella gradita a Adams - a quella federale. Tra gli eventi andati in scena spicca quello del 17 ottobre, quando vari leader religiosi della città si sono uniti in una veglia a lume di candela a Gracie Mansion, la residenza ufficiale del sindaco, a cui hanno ribadito l richiesta di chiudere il penitenziario. Con loro era presente anche Freedom Agenda, una delle più importanti organizzazioni comunitarie newyorkesi impegnata nella tutela delle persone direttamente colpite dal sistema carcerario. Il suo con-direttore Darren Mack, presente alla manifestazione racconta: “A Adams abbiamo sottolineato tutti assieme l’importanza di avviare la decarcerazione e al contempo di investire nei quartieri da cui storicamente giungono le persone che vengono rinchiuse a Rikers”. La storia di Mack è esemplare: ex detenuto proprio a Rikers, costruisce un riscatto personale che lo porta a diventare attivista per i diritti civili: “Sono nato a Brooklyn, nel quartiere di Bushwick. All’età di 17 anni sono stato arrestato come complice di una rapina e sono stato mandato a Rikers. All’epoca, parliamo dei primi anni Novanta, vi erano più di 21mila persone. É stata una delle esperienze peggiori della mia vita. Per sopravvivere, dovevi essere un predatore, dovevi mostrare un livello di aggressività inimmaginabile per non essere preda. Quell’insieme di violenza, deumanizzazione e brutalità, è stato uno dei motivi che mi hanno convinto a diventare un’attivista”. A spingere Mack ha concorso anche una vicenda familiare del 1944: “Mentre scontavo la pena, ricevetti una lettera da mio cugino. Dentro vi era un articolo di giornale che parlava di un film riguardante un nostro parente alla lontana, George Stinney Jr, che in meno di 33 giorni venne falsamente accusato, arrestato e dichiarato colpevole di un crimine che non aveva commesso da una giuria interamente composta da uomini bianchi. Venne giustiziato sulla sedia elettrica poche settimane dopo. Aveva solo 14 anni. Questo mi fece pensare che il nostro sistema giudiziario aveva erroneamente ucciso una persona, un ragazzino, il cui unico crimine era essere nero. È un “sistema” decisamente lontano dall’essere perfetto. E per gli afroamericani, è stato più imperfetto che per altri. Va abbattuto o cambiato”. Oltre le emozioni generate da Carolina Skeletons, il film a cui si riferisce, Mack ha investito nel modo migliore sulla sua esperienza detentiva, divenendo successivamente avvocato e attivista di spicco nell’organizzazione JustLeadershipUSA, prima di fondare Freedom Agenda, un progetto dedicato alla tutela di persone e comunità direttamente colpite dall’incarcerazione, al raggiungimento della scarcerazione e alla trasformazione dell’apparato penitenziario. “Attraverso varie campagne - dice - cerchiamo di aiutare i detenuti. Anni fa abbiamo realizzato “Raise the Age” il cui obiettivo era di raggiungere il divieto di imputazione di 16enni e 17enni come se fossero adulti. Poi con #HALTsolitary cerchiamo di mettere fine alla pratica dell’isolamento e con “The Fair Chance for Housing Campaign” si tenta di evitare la discriminazione delle persone con condanne penali nella ricerca della casa, perché senza un alloggio durevole non si conduce una vita stabile”. “Per queste e altre campagne analoghe - conclude Mack - collaboriamo con altre organizzazioni. Perché l’obiettivo della più importante di tutte, ovvero #CLOSErikers, rimane immutato. Rikers Island, che tra i newyorkesi è conosciuta anche come Torture Island, va chiusa. È l’ultima colonia penale negli Usa: è stata ed è ancora per troppe persone una condanna a morte. Finché non sarà chiusa, in migliaia soffriranno e i morti aumenteranno”. Iran. 40 stranieri arrestati nelle proteste. La denuncia della Cnn: “Abusi sessuali nelle carceri” di Maria Pia Mazza open.online, 23 novembre 2022 Le Nazioni Unite chiedono un’immediata moratoria sulla pena di morte nel Paese. Non si fermano le proteste in Iran, esplose dopo la morte di Mahsa Amini, la 22enne di origine curda morta dopo essere stata arrestata dalla polizia morale perché non aveva indossato correttamente l’hijab. E il governo di Teheran ha fatto sapere che 40 cittadini stranieri sono stati arrestati per il loro ruolo nei disordini che le hanno accompagnate. “Finora, 40 cittadini stranieri sono stati arrestati per il loro coinvolgimento nelle proteste”, ha dichiarato il portavoce della magistratura iraniana, Masoud Setayeshi, a margine di una conferenza stampa. Setayeshi non ha però specificato la nazionalità delle 40 persone straniere arrestate. Al contempo, il governo iraniano ha dato la colpa a “nemici stranieri e i loro agenti segreti” per aver architettato le proteste contro il presidente iraniano Ebrahim Raisi e l’ayatollah Khamenei, in una delle rivolte più trasversali e violente che ha unito più fasce sociali della popolazione iraniana, in cui hanno perso la vita oltre 300 persone, soprattutto giovani donne, e almeno 40 bambini. Secondo il rapporto della Ong Iran Human Rights Organization, le persone uccise sin dall’inizio delle proteste sarebbero almeno 378, mentre migliaia di manifestanti e dissidenti risultano incarcerati non solo nelle carceri del Paese, ma anche in altre strutture del Paese. L’inchiesta della Cnn sugli abusi contro i manifestanti - La Cnn ha pubblicato intanto una lunga inchiesta sulle violenze e le molestie sessuali commesse dalle Guardie della rivoluzione della Repubblica islamica nei centri di detenzione, contro le persone incarcerate durante le proteste degli ultimi tre mesi. Secondo gli autori dell’inchiesta, basata su quanto hanno scritto i testimoni oculari e le vittime di violenza sessuale arrestati durante questi mesi di proteste, viene confermato almeno un caso di stupro nei confronti di un’adolescente e di un’altra persona gravemente ferita. Secondo le fonti della Cnn, gli agenti della Repubblica islamica hanno filmato alcune scene di violenza sessuale e ne hanno fatto uno strumento per ricattare e mettere a tacere i manifestanti. Nell’inchiesta viene esposto anche il caso di Armita Abbasi, una giovane 20enne di Karaj, che sarebbe stata arrestata a causa dei suoi scritti di protesta contro la Repubblica islamica sui social network, mentre il governo iraniano l’ha accusata di essere una delle “leader dei proteste”, dopo aver trovato 10 molotov nel suo appartamento. Al momento, Armita Abbasi si trova nella prigione di Kechoui a Karaj, ma le autorità iraniane hanno smentito che nei suoi confronti vi siano state aggressioni o violenza sessuale, malgrado gli elementi, tra cui foto, video e comunicazioni tra i medici diffuse dalla giovane 20enne su Instagram indicherebbero il contrario. Secondo i documenti trapelati dall’Imam Ali Hospital di Karaj, Abbasi è stata portata in questo ospedale il 25 ottobre scorso da agenti in borghese, mentre i suoi capelli erano rasati e la giovane tremava senza riuscire a placarsi. Nella conversazione registrata dalla giovane e diffusa su Instagram, si sentono le voci dei medici che descrivono l’orrore provato quando hanno visto i segni dello stupro sul corpo della giovane. Una fonte riservata dell’Imam Ali Hospital ha confermato l’autenticità di queste testimonianze e documenti in nell’intervista alla Cnn. L’allarme dell’Onu: “Moratoria immediata sulla pena di morte” - “Il crescente numero di morti per le proteste in Iran, compresi quelli di due bambini nel fine settimana, e l’inasprimento della risposta da parte delle forze di sicurezza, sottolineano la situazione critica dell’Iran”, ha dichiarato Volker Turk, portavoce del capo delle Nazioni Unite per i diritti umani, a margine di una conferenza stampa a Ginevra, chiedendo una moratoria immediata sulla pena di morte contro i manifestanti, approvata nelle scorse settimane dal parlamento iraniano. Giovedì, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite proporrà l’avvio di un’indagine internazionale sulle violente repressioni e le condanne a morte dall’inizio delle proteste. L’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani (Ohchr) ha reso noto che finora sono state uccise più di 300 persone, tra cui più di 40 bambini. Questi decessi si sono verificati in tutto l’Iran, con morti segnalate in almeno 25 delle 31 province del Paese. Durante lo stesso briefing, il portavoce dell’Ohchr, Jeremy Laurence, ha anche espresso “preoccupazione” per la situazione nelle città iraniane sul fronte curdo “dove - ha riferito - oltre 40 persone uccise dalle forze di sicurezza solo nell’ultima settimana”.