La piaga continentale dei suicidi in carcere di Gianfranco Marcelli Avvenire, 22 novembre 2022 Con i quasi 80 suicidi in carcere già ufficialmente registrati dal 1° gennaio, l’Italia si avvia a concludere l’anno più tragico della sua storia penitenziaria. Questo pur deplorevole record di morti autoinflitte non basterà ad assegnare al nostro Paese l’ennesima “maglia nera” d’Europa, anche se forse alla fine del 2022 ci farà scalare qualche posizione nella triste classifica: in rapporto al numero dei reclusi, eravamo al decimo posto nel 2021, dietro Repubblica Ceca, Lettonia, Austria, Francia ed altri. Mentre in assoluto la cifra più alta era appannaggio dei nostri cugini d’Oltralpe, con 175 casi. La piaga dei detenuti che si tolgono la vita dietro le sbarre è infatti aperta e sanguinante da tempo in tutto il Continente, ma né le autorità nazionali né quelle dell’Unione sembrano in grado di trovare una cura efficace. Forse perché la cultura dello scarto trova facile alimento nei pregiudizi ai danni di quanti, a torto o a ragione, incappano nelle maglie della giustizia. E quindi non meritano che ci si affanni troppo per loro. L’aspetto più inquietante del fenomeno, però, sta proprio nel fatto che la spinta a togliersi la vita è più diffusa tra chi si trova in prigione in attesa di sentenza. Non si tratta cioè di condannati, ma di persone che, al termine del percorso giudiziario, potrebbero risultare innocenti. Anche questa è una costante in quasi tutti i circuiti penitenziari dei Ventisette e degli altri Stati extra-Ue. Il tasso di suicidi tra i carcerati in custodia cautelare o non ancora processati è sistematicamente molto più alto rispetto a quello dei condannati. Spesso ha una incidenza più che doppia e, in alcuni Paesi, il ricorso al suicidio riguarda esclusivamente reclusi mai giudicati da un magistrato. Prendendo ancora ad esempio la Francia, l’anno scorso sono stati 98 i suicidi di chi aveva già subito condanne a pene detentive, pari al 2,2 per mille del totale, mentre i 77 gesti estremi compiuti da chi era in attesa di giudizio equivalevano al 4,3 per mille della categoria. Diverse e più volte evidenziate sono le cause di questa dolorosa realtà, legate alla fragilità psicologica, all’età e alle condizioni sociali dei soggetti coinvolti, soprattutto quando sono accusati di reati di minore entità e potrebbero essere sottoposti a misure alternative alla detenzione. Il Parlamento europeo si è occupato raramente della “galassia carceri”, l’ultima volta all’inizio del 2017, con un documento come al solito di portata “enciclopedica” e molto preoccupato del rischio di radicalizzazione per reati a sfondo terroristico. In quel testo, il nodo dei suicidi veniva toccato solo marginalmente, in relazione al problema del sovraffollamento degli istituti di pena. In realtà, alcuni studi hanno dimostrato che non c’è un rapporto diretto con la mancanza di spazio nelle celle. Anzi, è piuttosto l’isolamento e il senso di smarrimento e di abbandono di chi per la prima volta entra in contatto con la prigione a far scattare l’impulso verso gesti autolesionistici. A differenza della Costituzione italiana, che parla di detenzione mirata al recupero sociale dei condannati, i “sacri testi” dell’Unione europea non contengono nulla al riguardo. Si enuncia solo il principio secondo cui “le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato” (articolo 49, comma 3 della Carta dei diritti). Ma quale pena è più sproporzionata di una condizione carceraria che spinge i più deboli a togliersi la vita? © riproduzione riservata Altri due detenuti suicidi: uno aspettava il trasferimento, l’altro in giornata avrebbe potuto ottenere la libertà di Rossella Grasso Il Riformista, 22 novembre 2022 Il numero di detenuti che decide di togliersi la vita in carcere aumenta giorno dopo giorno. Questa volta quasi in contemporanea arriva la notizia di altri due suicidi in cella, uno nel carcere fiorentino di Sollicciano, l’altro a Foggia. Due carceri, due regioni, distanti chilometri l’uno dall’altro, ma che sono uniti dallo stesso dramma. Una ecatombe senza fine che sta scritta nei numeri: al 21 novembre sono 80 il numero dei detenuti che si sono tolti la vita in carcere. A Sollicciano il dramma è avvenuto nella notte. Un detenuto di origini marocchine di 42 anni ha stretto al collo il suo lenzuolo e si è lasciato cadere. A darne notizia il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, per voce del segretario regionale della Toscana Francesco Oliviero. “L’uomo non era nuovo ad atti dimostrativi - ha spiegato Oliviero - L’ultimo proprio qualche giorno fa nel reparto Accoglienza. Questa volta ha deciso di bloccare dall’interno la serratura della cella e proprio questo stratagemma non ha permesso l’intervento dell’Agente addetto alla sezione, che non ha potuto evitare che il ristretto riuscisse a togliersi la vita”. Il segretario ha raccontato che l’uomo avrebbe optato per il gesto estremo dopo aver chiesto il trasferimento in un altro istituto toscano. “Già noto alle cronache interne per aver gravato sulla sicurezza del penitenziario in tempi passati per cui fu trasferito, resta il dato certo che a distanza di pochi mesi, Sollicciano pare essere avvolta nella spirale dell’emulazione”, continua Oliviero. L’altra tragedia poche ore dopo nel carcere di Foggia. Un nigeriano di 40 anni si è tolto la vita allo stesso modo, legandosi al collo il suo lenzuolo nella cella. Lo rende noto Federico Pilagatti segretario nazionale del Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria, e ricorda che quello foggiano è “il penitenziario con maggior suicidi - cinque - della nazione dall’inizio dell’anno”. Secondo quanto riportato, l’agente in servizio nel reparto ha cercato di salvare il detenuto intervenendo, ma il nodo al collo fatto con le lenzuola che aveva appeso alle grate del bagno, non ha gli lasciato scampo, riferisce ancora Pilagatti. Il detenuto suicida questa mattina avrebbe dovuto essere accompagnato in tribunale per l’udienza di convalida dell’arresto, “e forse avrebbe potuto ottenere anche la libertà”, osserva il sindacalista del Sappe, che “da tempo denuncia la necessità di chiudere la sezione maledetta, poiché offende i diritti minimi di dignità delle persone che vengono rinchiusi in stanze fatiscenti, molte delle quali con il bagno a vista e senza alcuna privacy”. Il Sappe ricorda che il carcere di Foggia ha tra le più basse percentuali di agenti/detenuti 0,46 a fronte di una media nazionale di 0,66. “La morte di un detenuto è sempre una sconfitta per lo Stato - commenta amareggiato Donato Capece, segretario generale del Sappe - la via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere. Anche la consistente presenza di detenuti con problemi psichiatrici è causa da tempo di gravi criticità per quanto attiene l’ordine e la sicurezza delle carceri del Paese. Il personale di Polizia Penitenziaria è stremato dai logoranti ritmi di lavoro a causa delle violente e continue aggressioni”. E Capece richiama un pronunciamento del Comitato nazionale per la Bioetica che sui suicidi in carcere aveva sottolineato come “il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere. Proprio il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti e sconforta che le autorità politiche, penitenziarie ministeriali e regionali, pur in presenza di inquietanti eventi critici, non assumano adeguati ed urgenti provvedimenti”. Impietosa la denuncia del leader del Sappe, che si appella al Ministro Guardasigilli Carlo Nordio: “Fino ad ora i vertici del Ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non sono stati in grado di trovare soluzioni alla gravissima situazione delle carceri italiane. Chiedo quindi al Ministro della Giustizia Carlo Nordio un netto cambio di passo sulle politiche penitenziarie del Paese”. Suicidi in cella. Feltri: “La galera non è la soluzione: firmo l’appello del Dubbio” di Valentina Stella Il Dubbio, 22 novembre 2022 “L’ergastolo è contro la Costituzione”. Il fondatore di Libero aderisce alla nostra campagna per fermare la strage dei suicidi in cella. Benno Neumair, reo confesso dell’omicidio dei suoi genitori, è stato condannato all’ergastolo. Questa decisione del Tribunale di Bolzano ha suscitato una forte critica da parte di Vittorio Feltri. Ne parliamo direttamente con lui. Perché in un suo editoriale ha stigmatizzato questa sentenza? Questo non è il mio primo articolo sul tema. A mio parere, in generale, l’ergastolo è in contrasto con la nostra Costituzione. Quest’ultima per me non è il Vangelo, però lo è per gli italiani: per cui, se vogliamo rispettarla, non possiamo comminare la pena dell’ergastolo che, in quanto tale, non ha una funzione emendativa. Non rispetta l’articolo 27 della Carta costituzionale? Se uno sta in galera finché non muore, che cavolo vuol dire emendarsi? Mi sembra semplice il concetto. Eppure nessuno dice niente. Non solo, Governi passati hanno introdotto nel nostro ordinamento l’ergastolo ostativo. Esso significa isolamento perenne, l’impossibilità di leggere, di scrivere, di fare qualsiasi cosa. Siamo in presenza di una vera e propria tortura. Tutto questo è in contrasto non solo con lo spirito umanitario che dovrebbe appartenere a tutti ma anche con la legge, con quella più importante che è la Costituzione. Però alcuni giuristi sostengono che l’ergastolo dato a Benno, quindi diverso da quello ostativo, un giorno gli permetterà di uscire dal carcere... Non è detto. Intanto ha l’ergastolo che è un fine pena mai. Poi dipenderà dal suo percorso in carcere la possibilità di tornare libero. Intanto si è beccato quella pena. Lei ha contestato nel suo articolo anche la pena accessoria dell’isolamento diurno inflitto a Benno... L’isolamento è una stupidaggine, un’altra forma di gratuita tortura. Che cazzo vuol dire isolarlo? Allora diamogli pure due calci nel culo appena si sveglia la mattina. Non so come si faccia a ragionare così! Tra le varie pene accessorie anche la pubblicazione della sentenza sul sito del Ministero della Giustizia e l’affissione al Comune di Bolzano. Sono tutte previsioni del codice Rocco, del periodo fascista. Non sarebbe il caso di fare una modifica legislativa? Non devono esistere le pene accessorie. Punto. Vogliamo prevedere pure delle scosse elettriche al cervello, già che ci siamo? Siamo fuori dalla logica. Tornando all’ergastolo ostativo, esponenti dell’Antimafia dicono che sarebbe in pericolo la sicurezza se gli ostativi tornassero liberi... Ma lo dicono loro! Il reato di mafia è un reato come tutti gli altri reati gravi. Non possono esistere reati speciali che vanno puniti con un supplemento di pena rispetto a quelli normali. Ma le sembra una cosa umana infliggere l’ergastolo ostativo? Ma siamo impazziti? Però ora il Governo di centrodestra… Non c’entra il Governo di centrodestra, perché era così anche fino a quindici giorni fa. Dicevo che a questo Governo non è piaciuta la decisione della Consulta che lo ha dichiarato incostituzionale e Meloni spera che il Parlamento renda ancora più stringenti i paletti... Mica sono obbligato ad essere d’accordo con la Meloni. Rimanendo in tema di carcere, il Dubbio ha lanciato un appello per fermare i suicidi in carcere. Lo firma? Certo. Proprio qualche giorno fa anche io mi sono rivolto alla Meloni affinché renda le nostre carceri degne di un Paese civile. Ma come lo si fa? Costruendo nuove carceri, depenalizzando, o altro? Si può fare tutto. Rendere le carceri più vivibili dal punto di vista architettonico e non contrarie allo spirito di umanità. Soprattutto poi bisognerebbe evitare di approfittare del carcere. Faccio un esempio. Prego... Se lei mi insulta sul giornale, io la querelo e lei rischia la galera. Ma le sembra normale? Esistono anche le cause civili. Sempre si dice ‘galera, galera, galera’. Basta invocare sempre la galera. Il problema è che nel nostro sistema vige ancora un codice fascista. Questo è il guaio. Quindi è d’accordo col Ministro Nordio che ripete sempre: “Noi abbiamo un sistema giudiziario schizofrenico: da un lato un codice di procedura penale, firmato da una Medaglia d’argento al valor militare per aver preso parte alla Guerra di Liberazione (Giuliano Vassalli, ndr), saccheggiato e demolito perché incompatibile con la Costituzione. Dall’altro un codice penale che è del 1930, firmato da Benito Mussolini e dal Re, che gode di ancora di ottima salute”... Ha ragione Nordio. Nordio dice pure ‘carcere come extrema ratio’ e ‘depenalizzazioni’. Però il partito che lo ha fatto eleggere non sembra essere d’accordo... Nordio dovrà convincere il Presidente del Consiglio e gli altri Ministri che occorre procedere in questo senso. Ergastolo ostativo, quella pericolosa probatio diabolica a carico del detenuto di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 22 novembre 2022 I dubbi sono molti; mai come ora occorrerà aspettare e attendere quello che sarà il dialogo, si auspica, o il braccio di forza, tra il decisore politico e quello giuridico. Alcuni osservatori hanno mosso delle riserve sulle prime azioni nell’agenda del nuovo Esecutivo: tra queste, la recente entrata in vigore del decreto legge in materia di ergastolo ostativo che ha apportato alcune importanti modifiche alla disciplina previgente, che comunque andranno poi ratificate dal Parlamento e sulle quali, come noto, pendeva già una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di Cassazione, sulla quale la Consulta è stata chiamata a pronunciarsi. L’iniziativa del Governo di agire con speditezza su tale materia e con la tecnica normativa del decreto legge va letta infatti proprio sulla scorta del termine ultimo che la Consulta aveva dato al Legislatore per pronunciarsi sul tema. Uno degli elementi che più ha fatto discutere concerne la stretta operata all’accesso ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale per gli ergastolani ostativi non collaboranti per i quali - come già detto in queste pagine da chi scrive - si introdurrebbe una sorta di pericolosa probatio diabolica nella parte in cui si richiederebbe un severo onere di allegazione a carico dell’istante, ben oltre il richiamo al comportamento detentivo serbato e al percorso trattamentale in corso, sull’assenza di attuali e, in qualche modo, anche futuri elementi di connessione con forme di organizzazioni criminali. Elementi, questi ultimi che, secondo gli osservatori di cui sopra, paleserebbero evidenti profili di illegittimità costituzionale del decreto legge in vigore, atteso che, di fatto, la quasi totalità delle istanze presentate non potrebbe superare (ontologicamente, si direbbe) tali severi requisiti, rendendo quindi ineffettiva la norma. Su tale aspetto la Consulta, con comunicato stampa, ha rimesso gli atti alla Cassazione ritenendo che l’intervenuta disciplina medio tempore del decreto-legge ha mutato il quadro normativo. La Cassazione dovrà ora rivalutare la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale precedentemente sollevata e decidere se avanzare nuova richiesta sulla base del mutamento della norma-parametro. Ci si è chiesti cosa potrebbe succedere se, in costanza del breve periodo di vigenza del decreto legge e sulla scorta dei requisiti introdotti, un istante si vedesse respinta la sua richiesta dal Tribunale di Sorveglianza e poi, successivamente, con una pronuncia di illegittimità costituzionale, il Giudice delle Leggi censurasse la disciplina d’urgenza “introducendo” una disciplina di maggior favor che se fosse stata presente già in sede di prima istanza avrebbe potuto consentire al Tribunale di Sorveglianza di esprimersi diversamente, magari concedendo la liberazione condizionale. L’ordinamento, in qualche modo, già prevede un rimedio: entro i termini di legge, è sempre possibile ricorrere per Cassazione avverso le ordinanze del giudice dell’esecuzione, deducendo l’intervenuta pronuncia di illegittimità costituzionale (che si applicherebbe retroattivamente all’istante perché in favor) della normativa censurata sulla scorta della quale il Tribunale di Sorveglianza ha emesso la decisione impugnata. Inoltre, non è da escludere la possibilità, da un lato, di proporre incidente di esecuzione sulla scorta del mutato orientamento normativo, dall’altro, che un’eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale - intervenendo anche sulla norma che consente all’istante di riproporre la domanda di liberazione condizionale al giudice dell’esecuzione solo dopo l’intervenuto decorso del termine di sei mesi dall’irrevocabilità del provvedimento di rigetto - possa introdurre l’eccezionale possibilità di aggirare questi termini a seguito dell’intervenuta censura di incostituzionalità, consentendone una riproposizione “quasi immediata”, sul modello di un riesame di fonte giurisprudenziale. I dubbi sono molti; mai come ora occorrerà aspettare e attendere quello che sarà il dialogo, si auspica, o il braccio di forza, tra il decisore politico e quello giuridico. *Direttore Ispeg Decreto Meloni, la sorpresa dell’ex senatore Fd’I Bobbio: “Sull’ostativo è stata fatta una furbata” di Simona Musco Il Dubbio, 22 novembre 2022 Si terranno oggi e domani le audizioni in Commissione Giustizia al Senato sul decreto Meloni, che include le misure su ergastolo ostativo, rave e riforma Cartabia. Ventiquattro, in totale, le persone che compariranno davanti ai senatori, venti dei quali riferiranno sui temi della giustizia. Ad aprire gli interventi, alle 14, sarà Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm, la cui audizione è stata richiesta dal M5S. Una presenza doppiamente importante, la sua, non solo in quanto numero uno del sindacato delle toghe, ma anche perché fu proprio lui a sollevare la questione di legittimità costituzionale sull’ergastolo ostativo, questione che ora la Corte costituzionale ha “restituito” al magistrato alla luce del decreto varato dal nuovo governo. Stando al decreto, per accedere alle misure i detenuti al 4bis dovranno dimostrare di aver risarcito i danni provocati dal reato commesso e dare prova di requisiti che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata ed il rischio di ripristino della stessa. Una prova diabolica, secondo molti, e sulla quale Santalucia, già ad ottobre del 2021, davanti alla Commissione Giustizia alla Camera, si è espresso, evidenziando che “non si può gravare il detenuto non collaborante, proprio per un profilo costituzionale, dell’onere di provare l’assenza dell’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata”. Ma un altro nome interessante è quello di Luigi Bobbio, giudice del Tribunale di Nocera Inferiore e già senatore di Alleanza nazionale nella XIV legislatura, al numero due dell’elenco degli auditi. Una presenza amica, per Giorgia Meloni, che a maggio 2008 lo scelse come Capo di Gabinetto quando la premier ricopriva il ruolo di ministro della Gioventù. Ma contrariamente alle aspettative, il giudizio di Bobbio sulla norma più cara alla presidente del Consiglio - quella sull’ergastolo ostativo - è tutt’altro che felice. Pochi giorni fa, il magistrato si è espresso sui canali online de “Il monito”, ribadendo la propria fede politica, ma esprimendo alcune considerazioni critiche sulle modifiche al 4 bis introdotte dal decreto. La Consulta, ha evidenziato, si è schierata “dal mio punto di vista giustamente sulla incostituzionalità di questa norma”, ma il governo, con una mossa “furbesca”, “per mantenere in piedi la costituzionalità della esclusione di determinati detenuti dall’accesso alla premialità”, ha introdotto in capo agli stessi “un onere di prova”. Bobbio parla di “prova diabolica”, ovvero “una prova che nessuno è in grado di dare”. E questo “introduce un ambito di discrezionalità gigantesco”, col rischio concreto di rendere la norma incostituzionale, perché “nessuno può essere discriminato in base al titolo del reato per il quale è stato condannato”. Oggi sarà anche il giorno di Vittorio Manes, avvocato e professore ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna, che sul decreto si è già espresso firmando un documento del Consiglio direttivo dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, nel quale viene evidenziato che la nuova disciplina ostativa “accentua, in termini manifestamente irragionevoli, la disparità di trattamento tra detenuto collaborante e non collaborante”, mentre nel caso del decreto sui rave la nuova fattispecie di reato “appare frutto di una tecnica legislativa davvero approssimativa e lacunosa, e si distingue per indecifrabilità del tipo criminoso e incontrollabilità della sfera di applicazione”. Un giudizio simile a quello del presidente dell’Unione Camere Penali, Gian Domenico Caiazza, che sempre nel pomeriggio di oggi si esprimerà sul decreto su richiesta di Forza Italia, così come nel caso di Manes. La lunga giornata di domani prevede anche l’audizione, tra gli altri, di Donato Capece, del Sappe, che ha subito manifestato apprezzamento per le parole di Meloni sul carcere, in particolare l’idea di munire di taser i poliziotti penitenziari. Critiche, invece, erano state rivolte al capo del Dap Carlo Renoldi per aver autorizzato la visita dei Radicali ai detenuti al 41 bis. “L’intento è cercare di eliminare l’ergastolo ostativo - aveva detto -, spero davvero che il governo non voglia stravolgere questa istituzione”. Caso Alfredo Cospito: rifiuta ancora il cibo l’anarchico al 41 bis di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 novembre 2022 In sciopero della fame dal 30 ottobre, il detenuto che da maggio è sottoposto al regime di carcere duro nel penitenziario di Bancali. “La fattispecie di reato attribuitagli non è stata contestata nemmeno agli autori degli attentati che uccisero i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”. Da qualche tempo si susseguono le manifestazioni, le occupazioni (della sede romana di Amnesty international) e perfino un’interrogazione parlamentare (a firma Peppe de Cristofaro, SI) e alcuni appelli di penalisti e giuristi a favore di un detenuto condannato all’ergastolo ostativo che da sei mesi e mezzo è sottoposto, nel carcere di Bancali (Sassari), anche al regime duro del cosiddetto 41 bis, e che per questo dal 30 ottobre scorso è in sciopero della fame: si tratta di Alfredo Cospito, un anarchico condannato nel 2014 a dieci anni e otto mesi di reclusione per aver gambizzato nel maggio del 2012 a Genova Roberto Adinolfi, Ad di Ansaldo nucleare, azione rivendicata dalla sigla “Nucleo Olga Fai-Fri”, che sta per Federazione anarchica informale - Fronte Rivoluzionario Internazionale, e processato successivamente anche per gli attentati dinamitardi alla Scuola Allievi Carabinieri di Fossano avvenuti nel giugno 2006 in orario notturno e senza causare né morti né feriti. A conclusione del processo “Scripta Manent”, Cospito fu ritenuto “capo e organizzatore di un’associazione con finalità di terrorismo”, la Fai-Fri appunto, e condannato inizialmente a 20 anni di carcere ma poi la Cassazione riqualificò l’accusa di strage contro la pubblica incolumità in strage contro la sicurezza dello Stato - art. 285 del codice penale -, reato che prevede l’ergastolo, anche ostativo, pur in assenza di vittime. Proteste e azioni (svoltesi soprattutto a Roma e a Torino) - dicevamo - che supportano la causa politica di Cospito, classe 1967, nato a Pescara e residente a Torino, che per via dello sciopero della fame ha perso più di 20 chili e sta mettendo a rischio la propria salute. Sabato scorso anche il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma è andato a Bancali per fare visita all’anarchico: si è intrattenuto con lui in colloquio riservato per oltre un’ora e si è informato con il magistrato di sorveglianza, la direttrice e il personale penitenziario sulle sue condizioni di salute. In attesa che il primo dicembre prossimo il Tribunale di Sorveglianza di Roma tratti il reclamo al 41 bis proposto dai difensori di Cospito, gli avvocati Flavio Rossi Albertini e Maria Teresa Pintus, che si oppongono alle motivazioni con le quali l’allora ministra di Giustizia Marta Cartabia, d’accordo con il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, ha deciso di sottoporre il detenuto al carcere duro. Vedremo tra poco quali sono queste motivazioni. Ora però la decisione spetta addirittura non più alla ministra la cui riforma garantista è stata bloccata dal governo Meloni, ma all’attuale Guardasigilli Carlo Nordio. Dovrebbe essere lui a decidere che non è giusto sottoporre Alfredo Cospito ad un regime che pretende di isolare dall’esterno e dagli altri detenuti il condannato sottoponendolo a pene accessorie di dubbia costituzionalità al fine di interrompere il rapporto con l’organizzazione criminale, terroristica o eversiva di appartenenza. Dovrebbe essere Nordio - che ha riproposto un testo di riforma dell’ergastolo ostativo di segno opposto alle richieste della Corte costituzionale - a dire che aveva torto la ministra Cartabia quando sosteneva che Cospito ha mantenuto collegamenti con la Federazione anarchica informale. Aveva torto semplicemente perché quell’organizzazione non esiste più o non è mai esistita, come ribattono sostanzialmente i suoi avvocati. Oppure dovrebbe riconoscere che la fattispecie di reato di cui è stato accusato Cospito “non è stata contestata nemmeno agli autori degli attentati che uccisero i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”, secondo la linea difensiva. Dovrebbe, ma non sarà facile. Secondo il decreto di applicazione del 41 bis firmato da Cartabia, Cospito è “in grado di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione eversiva di appartenenza”, e “l’associazione eversiva, alla quale il predetto detenuto appartiene, è tuttora operante sul territorio e in particolare risulta dedita alla commissione di gravi delitti”. In tutti questi anni, prima di essere sottoposto al 41 bis, infatti - ed è la “ragione” anche dell’ostatività dell’ergastolo - Cospito, che non si è mai pentito, ha mantenuto una fitta corrispondenza con altri anarchici, ha scritto due libri e numerosi articoli su riviste di movimento. “Un’attività interamente pubblica che viene dallo stesso apertamente diffusa all’esterno, ovvero inviata alle assemblee o ai giornali anarchici, e che viene poi a sua volta altrettanto pubblicamente divulgata da questi ultimi attraverso il web, nei notori siti d’area ovvero di controinformazione”, sottolineano i legali che negano perciò che ci fosse da parte di Cospito qualsiasi intento “istigatorio”, come interpretato dalla ministra, mentre invece si tratterebbe di “mero proselitismo”. Inoltre, secondo la linea difensiva, da un lato mancano “elementi sulla scorta dei quali fondatamente ritenere che la “Fai - associazione” sia attualmente operativa”, essendo passati 16 anni dagli attentati dinamitardi per i quali Cospito è stato condannato, e dall’altro è “notorio che il movimento anarchico rifugge in radice qualsiasi struttura gerarchica e/o forma organizzata, tanto da far emergere il serio sospetto che con il decreto ministeriale si voglia impedire l’interlocuzione politica di un militante politico con la sua area di appartenenza piuttosto che la relazione di un associato con i sodali in libertà”. Purtroppo però anche nel nome di Cospito, insieme ad altri “detenuti politici”, sarebbe stato rivendicato un attentato dinamitardo (anche questo senza vittime né feriti) compiuto nel 2016 a Brescia, alla Scuola di polizia, e firmato da una sigla fino ad allora sconosciuta: “Acca”, aderente alla campagna “Per un dicembre nero”. Una frase, quest’ultima, con la quale vengono firmate da anni - almeno dal 2014 - le azioni incendiarie di “Anarchia combattiva/Fai-Fri”, la “croce nera” anarchica insurrezionalista nata nelle carceri greche che combatte - soprattutto in Grecia - “contro il mondo del Potere” e per la liberazione dei “prigionieri politici”. Alfredo Cospito - diciamolo chiaramente - non è in nessun modo riconducibile a queste azioni. E se malgrado il 41 bis le mafie non sono state sconfitte, ancora meno il carcere duro potrà nei confronti di un arcipelago così frastagliato come quello anarchico. Uno Stato forte ascolta e concede con ragionevolezza di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 22 novembre 2022 La vicenda dell’anarchico Alfredo Cospito, in sciopero della fame contro il carcere duro del 41 bis, ci aiuta a fare alcune considerazioni intorno a ciò che dovrebbe essere la pena in una società democratica e ci porta ad affrontare questioni di grande rilievo giuridico ed etico. In primo luogo si pone il tema delle modalità di esecuzione della sanzione carceraria nei confronti di una certa tipologia di detenuti. I regimi differenziati - come ad esempio il 41-bis - incidono significativamente sulla vita e i diritti delle persone recluse. Riducono notevolmente le occasioni di socializzazione, le possibilità di partecipazione alle attività interne all’istituto penitenziario nonché le relazioni con il mondo esterno. Sostanzialmente intervengono eliminando ogni opportunità di aderire a progetti di reintegrazione sociale. La Corte Costituzionale, nella nota sentenza numero 376 del 1997, ha ben spiegato come anche nel caso del regime di cui all’art. 41-bis, pensato per contrastare la criminalità organizzata, sia necessario sempre tenere in adeguata considerazione l’articolo 27 della Costituzione, con i suoi riferimenti alla dignità umana e alla rieducazione del condannato. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, nel suo rapporto rivolto alle autorità italiane relativo a una visita effettuata nel 2019, raccomandò alle stesse di effettuare sempre “una valutazione del rischio individuale che fornisca ragioni oggettive per la continuazione della misura”. Il cosiddetto risk assessment deve essere fondato “non solo sull’assenza di informazioni che dimostrino che la persona in questione non è più legata a una determinata organizzazione”. Nel caso di Alfredo Cospito il trasferimento in un istituto con regime differenziato sopraggiunge dopo circa 10 anni di pena scontati in un diverso e meno gravoso trattamento penitenziario. Il Comitato di Strasburgo invece sollecita che vi sia sempre una valutazione estremamente rigorosa del caso individuale evitando standardizzazioni nel trattamento solo sulla base del titolo di reato. E proprio intorno a una accurata valutazione del rischio si sofferma anche la Raccomandazione del 2014 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa rivolta ai Paesi membri sul trattamento dei detenuti ritenuti pericolosi. Altro tema è quello dello sciopero della fame che il detenuto sta portando avanti mettendo a rischio la propria salute. Qua si pongono dilemmi etici che vanno risolti nel senso di assicurare al detenuto pieno rispetto alla scelta di autodeterminarsi intorno alle modalità di espressione del proprio dissenso, finanche astenendosi dal cibo. Uno Stato forte deve monitorare la salute della persona reclusa, offrire tutto il sostegno psico-sociale e medico possibile, ma sempre rispettando la sua volontà e ascoltando le sue ragioni. Uno Stato forte non deve temere di cambiare una propria decisione, se questo cambiamento produce una riduzione del tasso di sofferenza o comunque riporta un caso dentro un’area di ragionevolezza giuridica. *Presidente Associazione Antigone Un appello a Meloni per salvare il sistema penitenziario di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 22 novembre 2022 Sono il presidente onorario del Cesp, Centro europeo di Studi penitenziari. Ho lavorato per circa 40 anni nelle carceri e sono diventato esperto penitenziarista, quantomeno, per accumulazione e stratificazione di esperienze, talvolta entusiasmanti, spesso estenuanti, accompagnando gli studi e la ricerca alla pratica amministrativa, ostinatamente, perché quel mondo continuava ad apparirmi bisognevole di una continua e doverosa cura. Ho diretto diverse carceri, anche contemporaneamente, e gestito da dirigente generale intere regioni, o gruppi di regioni, finanche contestualmente. Ho conosciuto i tanti istituti penitenziari che erano sotto la mia giurisdizione e ne ho visitato degli altri in Italia e in Europa. Potrei dire, paradossalmente, che conosca l’Italia attraverso le sue prigioni. Ma non avrei preferito conoscerla attraverso i suoi parchi, i monumenti e le belle piazze perché le carceri sono per davvero una lente d’ingrandimento, una cartina di tornasole, del nostro Paese, della nostra nazione, della nostra patria; ce ne fanno percepire l’anima ed i tormenti, nonché le inquietudini sociali. Quando capitava di imbattermi in collaboratori di polizia o di altre discipline professionali che non fossero rigorosi nell’adempiere, lealmente, allo spirito delle leggi, assumevo, come era mio dovere, tutte le iniziative consentite per, anzitutto, metterli nelle condizioni di non nuocere e, contemporaneamente, intraprendere tutte le procedure previste per riportarle all’ovile, ove ci fossero concreti segnali di ravvedimento. Talvolta alcuni sono entrati in uniforme per poi uscirne, dopo qualche tempo, senza. Succede, non c’è da scandalizzarsi, riguarda tutte le categorie e le professioni, nessun mondo è perfetto e chi dice il contrario ci sta raggirando: pure la più alta e divina autorità abramitica ebbe il suo Lucifero. I colleghi, la generalità degli operatori penitenziari, gli stessi sindacalisti onesti, che si facevano davvero carico del benessere e della tutela dei propri colleghi, i quali non sono soltanto servitori dello Stato ma anche lavoratori, però mi ringraziavano. Il lavoro in carcere, soprattutto per un poliziotto penitenziario, è durissimo e spesso sconosciuto o male conosciuto, perfino da quanti diventino Comandanti del Corpo della Polizia penitenziaria, ed è soltanto per amor di patria che non riporto fatti o aneddoti di quanti, appena nominati a tale rilevantissimo e ben remunerato incarico, non disdegnavano, candidamente, di affermare come non conoscessero la complessità del lavoro penitenziario ed il mondo delle carceri e dei cancelli, delle rivolte e dei suicidi, del personale sempre sottorganico, mentre, per converso, il numero delle persone detenute aumentava ininterrottamente, dimentichi di come pure essi avessero contribuito a rimpinzarlo di umanità prigioniera. Era come dire che i falegnami delle migliaia di bare non avessero mai visitato, nel corso della loro vita, un cimitero, oppure, per sdrammatizzare, che i comandanti della portaerei non avessero mai solcato il mare e le sue tempeste: vi sareste fidati, Voi, di viaggiare su quella imbarcazione contando su una navigazione tranquilla? Lavorare in carcere significa avere tanto self-control, preparazione giuridica, spirito di osservazione ed un sapiente e abile uso dello strumento del gesto e della parola. Ma anche capacità d’intervento, conoscenze di autodifesa e tecniche di contenimento delle aggressività altrui. È un lavoro logorante, che mette ogni giorno l’operatore penitenziario, spesso praticamente da solo, di fronte a tutte le più drammatiche questioni sociali non affrontate o male decise dalla politica, pretendendosi, ipocritamente, che esse debbano essere risolte in chiave criminale e giudiziaria. Ma tematiche come l’immigrazione, la tossicodipendenza, il disagio mentale e psichiatrico, il bullismo, i reati di genere e quelli soprattutto contro le donne, la disobbedienza civile organizzata, di destra, di sinistra o anarchica, allorquando si traduca in sabotaggio e rappresaglia, il radicalismo religioso, quando si declini in violenza fisica e terrorismo, sono tutti fenomeni che andrebbero affrontati anzitutto in chiave politica, sociologica, pedagogica e non con pandette e sentenze, quando va bene. Se il mondo è complesso, il carcere è la concentrazione plastica di tutte le sue complessità. Ai poliziotti penitenziari, invece, si chiede spesso la luna: la nostra fortuna è che si tratta di un piccolo esercito di padri e madri di famiglia, di gente che prima di entrare in carcere, non poche volte, cercando di non essere vista, si genuflette, come i campioni del calcio quando scendono in campo, e si fa rapidamente il segno della croce. Ricordo ancora oggi un mio leale e serio collaboratore (in verità ne ho avuti tanti), un ispettore superiore, grande e grosso, tutta una fusione di muscoli e nervi, capace perfino di buttarsi in mezzo alle fiamme per fare il suo dovere. Sempre a mio fianco in tante situazioni critiche le quali, ove ci fossero sfuggite di mano, avrebbero determinato drammi e lutti, ebbene, prima di assumere servizio, si fermava innanzi al suo armadietto metallico in caserma, trasformato in un piccolo altarino, e con il suo forte accento napoletano recitava una breve preghiera e baciava le tante immagini di cristi e santi incollate dietro l’anta di alluminio. Fervido esempio di religione penitenziaria che chiede protezione a Santa Addolorata Carcerazione. Purtroppo, già da diversi anni, troppi, qualcosa è cambiato nelle carceri: l’improvvisazione ha preso il sopravvento rispetto alle competenze di altissima amministrazione che erano necessarie; come in una recita di dilettanti, si sono avvicendate sul proscenio figure che non portavano ossigeno ma che lo sottraevano, o che lanciavano il copione sul suggeritore. Magistrati al vertice dell’amministrazione che nulla conoscevano di carcere, se non come il luogo dove avevano spedito i loro indagati o imputati, o dove c’erano i condannati per i quali non si chiedeva soltanto di espiare le proprie pene detentive, come la Costituzione prevede, ma anche di contribuire, semmai dopo trenta/quarant’anni dalla commissione dei reati, alla formazione delle accuse da rivolgere ad altri, ancora delinquenti e semmai latitanti, se non anche per favorire la costruzione di nuovi miti ed eroi. Anche il personale penitenziario non di polizia, una volta indirizzato al trattamento e alla risocializzazione delle persone detenute (motto degli agenti di custodia: “Vigilando, redimere”), percepiva la mutazione del carcere come luogo del processo penale infinito e delle trame sempre occulte e mai risolte. Non sono stati, però, i direttori delle carceri, di cui sono stato fiero rappresentante di categoria per quasi 8 anni, a far mutare ed incupire il clima penitenziario italiano, forse tra i peggiori in Europa, a motivo soprattutto della scarsa certezza della tipologia di trattamento penitenziario che subirà la persona detenuta, spesso legata alla fortuna della stessa nell’incontrare, anche per caso, un raro educatore o una preziosa assistente sociale, oppure uno psicologo che se ne faccia professionalmente carico. L’indeterminazione, se non la casualità del trattamento e dell’osservazione della personalità del ristretto, troppo spesso risulta condizionata da tanti fattori negativi, quali la carenza di personale, la inidoneità dei luoghi dove potere sorvegliare in sicurezza e controllare le condotte, le posture, gli scatti d’ira o le inquietudini, gli scoramenti ed il ripensamento, il ravvedimento operoso e la voglia di positivo riscatto o la scelta definitiva nel crimine, la capacità di aggregazione per fare del male, oppure, al contrario, vivere la comunità detentiva, e le opportunità che andrebbero offerte, con spirito costruttivo e di reale reinserimento. Così come si mostrano, le nostre carceri sembrano in verità aggiungere difficoltà piuttosto che sottrarle; sicurezza e trattamento sembrano obiettivi auspicati e non obblighi che lo Stato deve perseguire, misurando costantemente i risultati, senza doversi affidare esclusivamente alla sorte o al buon cuore di enti benefattori o del terzo settore, trattando tra l’altro gli operatori di tali realtà come intrusi o bassa manovalanza. Mi vergognavo quando indicavano le carceri che dirigevo come luoghi di eccellenza, e non perché non lo fossero, ma perché significava che avevamo fallito come sistema, perché un sistema pubblico funzionante, che eroghi servizi, deve essere seriale, ripetitivo, capace di garantire eguali prodotti sociali ad ogni latitudine e longitudine, meridiani e paralleli: soltanto così recuperiamo, in modo alternativo e positivo, il concetto di carcere costituzionalmente orientato. Purtroppo, invece, è accaduto che non soltanto il personale penitenziario sia stato progressivamente indirizzato in chiave esclusivamente securitaria e all’indifferenza - soprattutto la polizia penitenziaria, la quale ha perfino cominciato, con i suoi sindacati, a chiedere di essere impegnata “fuori” dalle carceri, riducendo la propria mission a quella di meri sorveglianti del perimetro esterno - ma che le scelte politiche e di alta amministrazione andassero vero la riduzione dello stesso numero degli agenti, grazie ad una visione scellerata (essa sì davvero criminale) di tagli e di contrazioni progressive di personale, introducendo un concetto vago di sorveglianza dinamica, dove il dinamismo semmai ottenuto è stato quello di dare la stura a strategie “individuali”, caratterizzate dalla fuga degli operatori di tutti i ruoli e comparti dalle carceri, cercando i fortunati di essere destinati ad altri compiti, semmai di mera natura amministrativa e in palazzi distanti da quelli immondi, fatti di cemento, cancelli, sbarre, evasioni e suicidi. Gli agenti residui che continuano a lavorare in carcere, quelli non coperti da guarentigie sindacali, o perfino politiche (sapete che vi sono realtà regionali, in particolare il Veneto, che ad ogni sacrosanta elezione locale, in sperduti borghi montani, in comuni con meno di mille abitanti, le liste sono tronfie di agenti che, pur non risiedendovi, vengono ingaggiati per le relative competizioni, oppure chiedono di esserlo, potendo così fruire di lungi periodi di distacco per motivi elettorali, ovviamente pagati dallo Stato, per quanto, alla conta dei risultati, non raccoglieranno neanche il loro voto, non abitando lì?), si sono sentiti ancora più persi ed abbandonati, di fronte ad un ripetersi costante di eventi critici e violenze, al punto che v’è stata di recente una proposta di qualche autorevole sigla sindacale che ha esortato l’istituzione della figura del “Garante della Polizia penitenziaria”. Allora io spero davvero che la Premier Giorgia Meloni, il Ministro Carlo Nordio, i sottosegretari Andrea Delmastro delle Vedove, Andrea Ostellari e Francesco Paolo Sisto, comprendano finalmente lo scoramento ed il disorientamento di quegli operatori penitenziari che sono rimasti nelle carceri; quella rabbia e quella delusione che possono far vacillare le coscienze più solide, con conseguenze disastrose che si aggiungono alla altrettanta rabbia, rancore, disperazione che vivono tante persone detenute, sotto quello che non è il comune cielo stellato di kantiana memoria, ma una fitta griglia di acciaio che non sa, e nemmeno potrebbe, distinguere le persone detenute da quelle detenenti. Anche tale circostanza può, purtroppo, spiegare il costante rischio suicidario di agenti che non ce la fanno più, il quale si aggiunge a quello, devastante nei numeri, delle persone detenute. Non voglio giustificare quanto di terribile e di drammatico, ancorché di illegale, si sia potuto verificare, ascoltando le cronache e guardando le immagini impietose di fatti gravi accaduti in diverse carceri italiane negli ultimi due anni, ma sarebbe una falsità affermare che sia stata una sorpresa. Le cose che accadono, pure nello stesso momento in cui sto scrivendo, non sono mai frutto dell’oggi, bensì il risultato di una sequela di eventi che, mal governati da quanti avrebbero dovuto avere una visione anche predittiva degli esiti e, soprattutto, per la scarsa conoscenza del sistema, “naturalmente” trovano la propria maturazione. Vengo da una cultura di destra, ma la legalità che mi insegnavano da adolescente, nelle sezioni di partito, è fatta di tutt’altra pasta: non c’è rigore, infatti, non c’è sicurezza né legalità, se non c’è sempre, comunque, il primato delle leggi e delle regole. La criminalità, infatti, non si contrasta facendo, semmai, altra criminalità, ancorché si indossi il tocco o una elegante o approssimativa uniforme. Quando ciò accade, non c’è più democrazia ma si sta strangolando lo stesso concetto di libertà. *Presidente dell’Osservatorio Internazionale sulla Legalità di Trieste; presidente onorario del Centro Europeo di Studi penitenziari di Roma; presidente dell’Osservatorio regionale Antimafia del Friuli-Venezia Giulia Sovraffollamento nelle carceri: “Si applichi la forza delle regole, non la regola della forza” di Ludovica Criscitiello luce.lanazione.it, 22 novembre 2022 Secondo la segretaria nazionale Dirpolpen Daniela Caputo è necessario che gli istituti siano gestiti da autorità pubbliche distinte dalla polizia penitenziaria e affiancate da psicologi ed educatori. Sovraffollamento delle carceri. Spunta sempre più spesso tra le pagine dei giornali, o in televisione. Ultimamente più che mai, da quando nella prima metà dell’anno si è arrivati a circa 77 suicidi tra i detenuti e 5 tra agenti della penitenziaria. Un problema sbandierato spesso a fini politici e ideologici, che sembra irrisolvibile e invece non lo è. Lo sostiene la segretaria nazionale Dirpolpen (dirigenti di polizia penitenziaria) Daniela Caputo in occasione del convegno organizzato nella casa circondariale di San Vittore e intitolato “La crisi del sistema carcerario e la polizia penitenziaria: non solo sovraffollamento”. La questione - “In realtà - spiega Caputo - come è stato ampiamente dimostrato, il sovraffollamento è un problema sovrastimato e può essere risolto con tutta una serie di soluzioni, invece di essere tirato sempre in ballo in modo poco costruttivo. Oltre al sovraffollamento ci sono ben altri problemi di vivibilità e organizzazione del sistema carcerario”. L’organizzazione passa attraverso la gestione del personale di polizia penitenziaria che è la componente più numerosa. “Ciò che noi sosteniamo come DirPolpen, che è l’associazione più rappresentativa dei dirigenti del corpo, è che l’amministrazione penitenziaria vada riformata con un’organizzazione meno elefantiaca e più specialistica. Chiediamo un dipartimento a parte che si occupi solo di polizia penitenziaria e quindi personale formato perché se non sei formato improvvisi, rischi abusi e situazioni critiche che non sai gestire”. Qual è il problema - Bisogna anche dire che la normativa europea prevede che gli istituti di pena siano gestite da autorità pubbliche distinte da esercito e polizia. L’Italia insieme al Cile è l’unico Paese dove la polizia penitenziaria è all’interno degli istituti. Invece per dare un trattamento più orientato alla rieducazione, come previsto dalla Costituzione, in carcere ci dovrebbero stare anche educatori, assistenti sociali, psichiatri, figure civili in affiancamento alla polizia che si deve occupare solo di sicurezza. La polizia penitenziaria deve essere svincolata di compiti che non attengano alla sicurezza”. È di poco tempo fa l’allarme di un agente nel carcere di Monza che ha denunciato una situazione divenuta insostenibile laddove la carenza di organico fa sì che tutti gli oneri ricadano sulle spalle sue e dei colleghi, che spesso sono a rischio di aggressioni. “Le rivolte del 2020 hanno dimostrato che le carceri non sono per niente sicure e che ci sono situazioni particolari come quelle del lockdown che possono diventare esplosive. Una polizia penitenziaria adeguatamente formata in materia di sicurezza (muro di cinta, matricola, 41bis, detenuti di massima sicurezza, traduzioni) può contribuire in maniera più efficace alla salvezza del detenuto e a un trattamento più umano. Negli istituti deve vigere la forza delle regole e non la regola della forza”. I suicidi - Ad oggi sono 79, dall’inizio dell’anno, i suicidi dei detenuti secondo i dati di forniti da Mauro Palma, presidente dell’Autorità del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. A essere più colpiti sono giovani che scontano per lo più pene irrisorie, o immigrati stranieri o senza fissa dimora. Persone che potrebbero tranquillamente essere indirizzate verso percorsi di rieducazione, o scontare misure alternative. “Quello che si può dire è che il suicidio è un evento critico e va gestito cercandone le cause. Nel caso di persone con vissuto problematico l’ingresso in carcere può farle arrivare a quel gesto estremo. Nel momento in cui ci sono queste situazioni sono necessarie figure come educatori e psicologi. Non solo quelle della polizia penitenziaria che comunque interviene. Dobbiamo ricordare a questo proposito che è altrettanto alto anche il numero di suicidi sventati”. Ad oggi però non è previsto alcun tipo di supporto psicologico neanche per gli stessi agenti, costretti ad affrontare situazioni critiche. “Il tasso dei suicidi è alto anche tra gli agenti, ma ad oggi sono stati attivati solo supporti a livello locale. Per questo abbiamo chiesto di istituire i ruoli tecnici, che consentirebbero di avere psicologi e medici interni. Il poliziotto può essere soggetto al burnout e se non è gestito succedono a situazioni drammatiche può arrivare al gesto estremo”. Le soluzioni - “Siamo d’accordo con le misure alternative per chi deve scontare pene irrisorie e meno gravi per deflazionare le carceri, cosicché la carcerazione diventi l’extrema ratio per i reati davvero gravi. Su questo fronte, tra l’altro, la polizia penitenziaria è presente perché è quella che viene chiamata a gestire l’esecuzione penale esterna. Con il dipartimento di giustizia minorile e la polizia di Stato sono state siglate linee guida sulla gestione dei controlli dei detenuti che devono scontare pene in misura alternativa. Ora, ad oggi la legge lo prevede ma purtroppo la pianta organica, che è quella di 20 anni fa, non consente di esercitare queste nuove funzioni. La pianta organica, che deve essere comunque rivista, prevede 40mila unità, ad oggi ce ne sono non più di 32 mila, mancano quindi 4-5mila unità a cui si aggiungeranno i pensionamenti a breve. Altra istanza che avanziamo quindi è quella di rimodulare le piante organica alla luce delle nuove funzioni assegnate alla penitenziaria”. Una pagina buia - Le immagini che hanno ripreso le torture sui detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere da parte del personale, avvenute nel 2020, hanno destato scalpore. A luglio sono stati rinviati a giudizio in 105 tra poliziotti e funzionari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “È una delle pagine più buie sicuramente, ma è chiaro che, allora come oggi, bisogna cominciare a interrogarsi sul perché si sia arrivati a quella situazione. Una polizia penitenziaria più formata con protocolli interni e catene di comando più fluide non sarebbe arrivata a questo cortocircuito”. Bisogna imparare dagli errori. “La sicurezza è un obiettivo comune di tutte le forze dell’ordine e se il sistema è in crisi va adottata una riforma che deve partire dalla polizia penitenziaria e dalla sua classe dirigente”. Foto dei colpevoli esposte, minuti di silenzio chiesti dal pm: il processo diventa “crociata” di Errico Novi Il Dubbio, 22 novembre 2022 Perseguire il reato o il “fenomeno”? Dal caso Benno Neumair a Bolzano alla “mostra” dei condannati nel tribunale di Livorno, due esempi emblematici. Due casi. Diversi, in apparenza. A Bolzano, nel condannare Benno Neumair all’ergastolo per l’omicidio dei genitori, la Corte d’assise ha ordinato, come previsto per i reati da “fine pena mai”, la sanzione accessoria dell’affissione della sentenza in Comune e sul sito di via Arenula. Siamo nel codice Rocco, e certo che ci sarebbe molto da dire sul peso di un codice fascista nell’Italia del 2022, ma sicuramente non si è andati oltre il perimetro delle norme. Qualcosa di un po’ diverso è avvenuto a Livorno, dove i volti dei condannati per femminicidio, i nomi delle loro vittime, le stesse armi dei delitti, sono evocati in immagini con corredo didascalico. Una versa e propria mostra espositiva allestita nell’atrio de Tribunale toscano. Ecco, qui non ci era mai arrivato manco il codice Rocco. È un’iniziativa promossa da una parte dell’avvocatura livornese ma contestata dalla Camera penale della città toscana, e inizialmente autorizzata dal presidente del Tribunale. Due casi diversi, due diversi gradi di distorsione della funzione giudiziaria. Anche se nel processo in cui, a Bolzano, Neumair è stato condannato per aver strangolato, letteralmente, il padre e la madre, la pm aveva chiesto, all’inizio della propria requisitoria, un minuto di silenzio, un minuto perché tanto era il tempo che Benno aveva impiegato nel consumare il tremendo parricidio. Altro espediente, quello adottato dalla magistrata, inconsueto. Che si tratti di delitti orribili, immondi; che ci si trovi di fronte all’abisso della natura umana, è evidente. Però non sappiamo se siano davvero salutari per la giustizia, per il progresso dell’idea di giustizia, il permanere nell’ordinamento di norme che sanno comunque di medioevo, come appunto l’affissione delle sentenze a mo’ di pubblica gogna, né l’enfasi estrema delle immagini dei condannati esposte in sequenza. Ci sembra piuttosto un modo per estendere il perimetro della giurisdizione - che dovrebbe limitarsi ai processi, alle accuse, alla verifica delle prove, e all’esecuzione della pena, possibilmente depurata da estensioni inutilmente plateali - dal contrasto del singolo caso, alla vituperazione di un fenomeno, per quanto orribile esso sia. Si tratta di un meccanismo non tropo diverso dall’accezione che nel nostro sistema penale hanno assunto per anni le indagini sulla mafia e sulla corruzione: una lotta al fenomeno prima ancora che la persecuzione della specifica condotta. Sulle pagine del Dubbio ce ne occupiamo da tempo, e con una speciale attenzione da alcune settimane, a partire da un intervento di Giorgio Spangher a cui ne sono seguiti altri di pari autorevolezza. Naturalmente, se la mafia e la corruzione hanno assunto le sembianze del nemico assoluto che lo Stato doveva abbattere - e doverosamente, sia chiaro - adesso la violenza in famiglia, e particolarmente la violenza di genere fino al suo grado più disumano, il femminicidio, sono diventate il nuovo male assoluto. Ed anche qui: è giusto che si abbia, su atti e condotte criminali così disumani, una percezione di allarme e riprovazione assoluta. Ma espressioni del genere, verrebbe voglia di scriverlo a lettere tutte maiuscole, devono essere estranee al contesto della giurisdizione. In alcun modo il singolo colpevole o il singolo condannato devono essere esposti a una gogna che esorbiti dalla pena giustamente severa inflitta loro da un giudice. Mai e poi mai un magistrato, anche un magistrato dell’accusa, dovrebbe arrivare - e lo diciamo con tutto il rispetto possibile per la pm di Bolzano che, nella requisitoria su Brenno, ha mostrato di pensarla diversamente - una sovrapposizione fra il singolo caso di quel processo e le altre pur gravissime, sanguinose, brutali, disumane vicende alle quali quel singolo processo può essere assimilato. La lotta al “fenomeno” non si fa nelle aule di giustizia. Sul Dubbio mai ci stancheremo di scriverlo. Altrimenti viene meno la fiducia nel fatto che l’obiettivo della giurisdizione sia semplicemente quello di rendere giustizia, e avanza invece il sospetto che attraverso i processi e le sentenze si voglia anche compiere una qualche operazione politica. Sarebbe il peggio che si può immaginare, e a pagare il prezzo di quel “peggio” sarebbero, sono, le persone al centro del processo. Da qualsiasi parte della barricata si trovino. Il caso De Pau prova che il mercato nero delle notizie continua di Valentina Stella Il Dubbio, 22 novembre 2022 Triplice omicidio a Roma, sui media telecronaca minuto per minuto dell’interrogatorio del sospettato. La questura smentisce che la fuga di notizie sia attribuibile alla polizia. Ma chi ha violato la direttiva sulla presunzione d’innocenza? La ricerca prima e la cattura poi del presunto assassino delle tre prostitute tra via Durazzo e via Augusto Riboty a Roma ha dato vita ad un profluvio di informazioni da parte di tutti i mass media. Il che è comprensibile, considerato che, a ridosso degli omicidi, la capitale si sentiva in pericolo con un serial killer in libertà. Il problema è sorto quando un sospettato è stato condotto all’alba di sabato nella Questura di Roma e da quel momento sono uscite da quel palazzo continue indiscrezioni sul suo interrogatorio, che si stava svolgendo alla presenza del suo legale di fiducia, Alessandro De Federicis. Praticamente, quasi in diretta, come un telefono senza fili, si è detto sull’indagato Giandavide De Pau di tutto e di più: che aveva tamponato la ferita ad una delle due vittime cinesi, che aveva vagato per Roma, dove era andato nei giorni in cui lo stavano cercando, che avrebbe ammesso i delitti, che avrebbe confessato solo in parte e così via, saltando da una indiscrezione all’altra. Sabato mattina poi abbiamo letto su tutti i giornali una dichiarazione del questore Mario Della Cioppa, che ha assicurato come “al momento la situazione è sotto stretto controllo e riteniamo di poter affermare che la collettività possa tornare ad essere più tranquilla, perché altri fatti collegati a questi tragici avvenimenti non ci saranno. Al momento opportuno, gli organi investigativi e la procura della Repubblica forniranno le informazioni doverose”. Prima considerazione: il questore sembra stia dando per certo che De Pau sia l’assassino. Ma una confessione, come poi leggerete dalle parole del suo avvocato, non c’è stata. E le indagini sono ancora in corso. Dunque una autorità pubblica ha indicato come colpevole qualcuno quando gli accertamenti sono ancora in corso? Seconda considerazione: avrebbe senso dare oggi “informazioni doverose” considerato che per tutta la mattina di sabato i rubinetti comunicativi non ufficiali della Questura sono rimasti aperti? Ricordiamo che è in vigore da un anno la norma di recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Tuttavia questo caso di cronaca nera è l’esempio emblematico di come queste nuove disposizioni siano state disattese. In un caso di rilevanza pubblica come questo, sarebbe forse stata opportuna una conferenza stampa. E invece si è lasciato campo libero al “mercato nero della notizia”, come ribattezzato dalla firma del Corriere della Sera Luigi Ferrarella. A tale proposito, abbiamo chiesto informazioni proprio alla Questura: “Non è nostra la responsabilità”, ci hanno detto dall’ufficio stampa. Ma indagherete sulla fuga di notizie? “Se la Procura lo riterrà opportuno, provvederà lei”. Noi abbiamo chiesto direttamente al procuratore capo Francesco Lo Voi cosa pensasse di quanto accaduto e se indagherà. Al momento nessuna risposta. Colui che certamente non ha fomentato l’infodemia su questo caso è proprio l’avvocato di De Pau, Alessandro De Federicis. Chi lo conosce sa bene che non è tra gli alimentatori del processo mediatico parallelo. Infatti quando lo chiamiamo per sottoporgli la questione ci dice sinteticamente: “A chi mi ha chiamato in questi giorni, tra i suoi colleghi, ho detto che non avrei riferito nulla se non che la posizione generica è di totale black out cerebrale di un soggetto fragile. Se ha commesso lui i delitti - questo lo stabiliranno eventualmente le indagini - saremmo in presenza di un gesto folle. E qui mi fermo”. Eppure di indiscrezioni ne sono uscite tantissime: “Durante l’interrogatorio durato sette ore è stato detto tutto e il contrario di tutto, perché l’uomo, che soffre di disturbi psichiatrici da tempo, non riusciva a dare coerenza al racconto. Se si fa uscire una notizia, questa poi rischia di essere smentita cinque minuti dopo”. E invece sabato mancava solo che trapelasse la marca di slip del suo assistito dalla Questura: “Senza la dovuta pazienza di verificare le notizie, e invece in preda alla smania di dover scrivere e arrivare prima degli altri, la stampa ha preferito pubblicare qualsiasi cosa a qualunque costo, anche quello di sostenere l’insostenibile, ossia che il mio assistito appartiene alla criminalità organizzata. Non esiste da nessuna parte che lui faccia parte del clan Senese. De Pau stava solo all’ospedale psichiatrico giudiziario con Michele Senese ma non appartiene al clan. Poi, visto che Senese non aveva la patente, qualche volta si è fatto accompagnare da De Pau in giro per Roma. I processi per il clan Senese non hanno mai avuto come imputato il mio assistito”. Per De Federicis si tratta di “informazioni errate che hanno tentato di spostare il baricentro della brutta vicenda delle tre povere donne uccise su un profilo - falso - legato alla criminalità organizzata”. La Magistratura Onoraria, un fronte ancora aperto di Vincenzo Crasto* ildenaro.it, 22 novembre 2022 La giustizia nel nostro Paese si trova ad un bivio decisivo. Oggi il governo può imboccare la strada dell’efficienza oppure può decidere di assecondare la definitiva paralisi del sistema e la conseguente perdita di svariati miliardi dei fondi del Pnrr. La premier Meloni ha dichiarato che questo è il momento più difficile della storia repubblicana. Dobbiamo tutti convincerci quindi che è arrivato il momento per il nostro Paese di abbandonare quello che potremmo definire “justicewashing”, mutuando dall’ecologismo il termine greenwashing, per cui a parole le istituzioni si professano a favore dell’efficienza della giustizia, ma nei fatti non vi è un serio e convinto impegno in tal senso. La riforma cd. Orlando del 2017 sulla magistratura onoraria è certamente espressione di justicewashing, ma vi è qualcosa di molto più grave: nell’attuale contesto storico la sua attuazione risulta assolutamente irrazionale ed esiziale per il Paese in quanto porta ineluttabilmente al blocco della giurisdizione. La riforma in questione viola almeno una mezza dozzina di articoli della Carta Costituzionale ed i Trattati europei e pertanto la Commissione europea ha aperto nel luglio di quest’anno una procedura di infrazione contro l’Italia. Numerosissime sono le condanne comminate al nostro Paese da corti interne ed internazionali per l’incredibile trattamento riservato a giudici di pace e vice procuratori onorari. In effetti l’aggettivo incredibile è quello che meglio rappresenta i termini della questione: infatti se si prova a raccontare al cittadino medio del trattamento che l’Italia ha riservato a giudici di pace e vice procuratori, questi semplicemente non crederà che per trenta anni in Europa ed oggi, nel XXI secolo, possano esistere giudici con un ruolo di oltre un migliaio di cause, privi di tutele previdenziali ed assistenziali o che si sia in passato verificato il fenomeno dei cd. “parti in udienza”, con donne costrette a recarsi in ufficio fino al giorno prima di partorire per evitare di perdere il lavoro. Il nuovo esecutivo conosce bene le questioni: feroci sono state le critiche mosse dall’allora opposizione alla riforma del 2017 e famosa è stata la reprimenda che l’attuale Presidente del Consiglio indirizzò in Parlamento all’allora ministro della Giustizia Orlando, inoltre numerose sono state le occasioni in cui la stessa neopremier ed importanti esponenti dell’attuale esecutivo, a partire dal sottosegretario alla Giustizia Del Mastro delle Vedove, sono scesi in piazza accanto alla magistratura onoraria. Nell’aprile 2018 la premier ebbe modo di affermare in Parlamento: “il ministro Orlando ha mortificato i magistrati, non garantendo loro nessuna forma di tutela, per giunta in modo precario e con una retribuzione poco dignitosa in violazione anche dei precetti costituzionali.” e concluse: “la riforma non ha nessun punto di riferimento né con la Costituzione né con l’ordinamento.” Ancora, in un tweet del 24 marzo 2021 scrisse: “I magistrati onorari sono fondamentali per la giustizia ma lo Stato li sfrutta e non gli riconosce alcun diritto. Uno scandalo condannato anche dalla Corte di Giustizia Europea. La stabilizzazione della magistratura onoraria è una battaglia storica di FDI”. In sostanza la riforma del 2017 impone alla magistratura onoraria di limitare la propria attività giurisdizionale. Nell’attuale momento storico vi dovrebbe essere un qualcuno in grado di svolgere il lavoro di giudici di pace e vice procuratori. Questo qualcuno semplicemente non esiste, in quanto la magistratura di carriera già oggi svolge un superlavoro. Oggi i magistrati onorari non sono parte residuale del sistema, anzi trattano poco meno del 60% del contenzioso civile ed i vice procuratori sostengono l’accusa praticamente in tutti i processi celebrati dinanzi al giudice monocratico. La magistratura onoraria è arrivata a definire anche due milioni di procedimenti in un anno e pertanto è divenuta componente indefettibile del sistema, mostrando una notevole efficienza. Si tratta di una magistratura “a legge Pinto zero”: ciascun giudice di pace definisce in media circa 800 procedimenti annui, ma soprattutto la durata media dei processi si attesta in tempi inferiori ad un anno e le sentenze emesse risultano appellate in una misura inferiore al 3% (fonte Min. Giustizia). La qualità del lavoro è apprezzata a tal punto che nel suo ultimo intervento normativo il precedente esecutivo ha previsto il raddoppio della competenza per valore dei processi davanti al giudice di pace ed ulteriori aumenti di competenza. In qualsiasi altra Nazione del mondo magistrati di pace e vice pretori sarebbero stati valorizzati, ma non in Italia dove il merito è pochissimo praticato e tali magistrati sono stati costantemente mortificati: si pensi che un ministro della Giustizia sostenne in buona sostanza che i magistrati onorari dovessero essere puniti perché si erano rivolti alle corti europee per vedersi riconosciuti semplicemente i diritti costituzionali spettanti a qualsivoglia lavoratore ed un altro ministro affermò che la condizione dei magistrati onorari servisse a conservare lo status della magistratura togata, suscitando le ire della stessa ANM. Tornando alla riforma del 2017, lo stesso CSM nel suo parere affermò che la riforma incide negativamente sull’autonomia ed indipendenza dei magistrati onorari e sulla qualità della giurisdizione. L’organo di autogoverno spiegò chiaramente e con dovizia di dati che anche con le piante organiche a pieno regime i giudici onorari non saranno mai in grado di far fronte ai carichi di lavoro, poiché saranno per legge obbligati a lavorare meno rispetto ad oggi. La riforma del 2017 precarizza, ma forse sarebbe meglio dire “polverizza” le funzioni dei magistrati onorari, limitandone drasticamente il lavoro, esponendoli inoltre ad ogni tipo di condizionamento. Marilisa D’Amico, professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Milano ebbe modo di affermare: “la riforma contrasta in molti punti con la legge delega violando l’art. 76 Cost. ed è del tutto irragionevole perché da una parte precarizza e limita il lavoro dei magistrati onorari, dall’altra ne aumenta le competenze. Inoltre non risponde alla condanna del Comitato europeo dei diritti sociali, violando l’art. 117, comma I Cost.”. Oggi semplicemente il Paese non può permettersi il lusso di una riforma che distrugge il sistema. D’altra parte per usare le parole di Rahm Emanuel, allora capo di Gabinetto di Obama alla Casa Bianca, “Non possiamo permetterci di sprecare una crisi come questa, è un’opportunità di fare cose che non si pensava di poter fare prima”. Usciamo da una pandemia, con una guerra in corso ed una inflazione al 12%, per cui la paralisi della giustizia determinerebbe gravissime conseguenze socio-economiche. Inoltre, vi è la quasi certezza che i risultati fallimentari che si produrrebbero nel settore giustizia inducano l’Europa a negare l’erogazione dei fondi previsti dal PNRR, senza contare le centinaia di milioni di euro che l’Italia dovrebbe pagare ai sensi della cd. Legge Pinto. L’Italia spende già oggi 700 milioni di euro ogni anno per i risarcimenti per l’irragionevole durata dei giudizi. Se la riforma trovasse attuazione la cifra raddoppierebbe in pochissimi anni. Come ha ricordato il neo-ministro della Giustizia Nordio occorre invece rendere la giustizia efficiente e velocizzare i processi per recuperare al paese quel 2% di Pil che l’eccessiva durata dei procedimenti letteralmente distrugge. Fin qui tutti d’accordo, ma è sul come che tradizionalmente le ricette divergono. In primis, a mio avviso tutte le componenti del sistema giustizia dovrebbero fare un passo indietro, abbandonando il muro contro muro praticato negli ultimi decenni ed aprirsi ad uno spirito che potremmo definire “repubblicano”, in cui ciascuno rinuncia a qualcosa per il bene della Nazione. La storia della magistratura onoraria dimostra che essa ha un altissimo senso di responsabilità e se venisse realmente valorizzata potrebbe rivelarsi una risorsa fondamentale per abbattere l’arretrato e velocizzare la durata dei procedimenti, nel superiore interesse dei cittadini e del Paese. Invero, negli anni è stata evidente l’avversione nei confronti della magistratura onoraria specie da parte degli esecutivi che si sono succeduti, che ha portato ad ignorare le condanne favorevoli alla categoria. Si pensi che già nel lontano 2016 il Comitato Europeo dei Diritti Sociali presso il Consiglio d’Europa ha accertato che l’Italia ha operato una discriminazione nei confronti dei giudici di pace, non apprestando in loro favore le tutele previdenziali ed assistenziali, previste dalla nostra Carta costituzionale e dal trattato denominato Carta Sociale Europea. I governi precedenti hanno non solo ignorato questa ed altre pronunce interne ed internazionali, ma hanno peggiorato la condizione di giudici di pace e vice procuratori con la riforma del 2017 e le successive modifiche. La magistratura onoraria non è un’anomalia del sistema come alcuni, pure tentano di sostenere. Invero, la giustizia di pace è espressamente prevista dall’art. 116 della nostra Carta costituzionale e quindi neppure il più ottuso dei burocrati potrebbe eliminarla, come pure si è tentato di fare. Si pone una questione etica: invero il Paese ha un debito di riconoscenza nei confronti di servitori dello Stato che negli ultimi 25 anni hanno svolto in modo efficiente fondamentali e delicatissime funzioni (ad es. in materia di immigrazione e penale), privi di qualsivoglia diritto giuslavoristico, venendo assoggettati ad un incivile “caporalato” di Stato. Come detto, il nostro paese ha avuto la sfortuna di assistere al fenomeno dei cd “parti in udienza”. Ci chiediamo se la prima donna premier possa accettare che nel XXI secolo una donna debba ancora scegliere tra lavoro e maternità. In sostanza oggi la mortificazione della magistratura onoraria coincide con la mortificazione dell’intero sistema giustizia ed è su questo che chiediamo al nuovo esecutivo interventi coerenti con le posizioni assunte quando era all’opposizione nelle passate legislature. Le norme previste nell’ultima legge di Bilancio, lungi dal dare risposte serie all’Europa, hanno addirittura stabilito l’obbligo di rinunciare alle azioni giudiziarie già proposte per ottenere i diritti negati se si vuole continuare ad esercitare le attuali funzioni. Si tratta probabilmente di un unicum nella storia repubblicana. Inoltre si è prevista una retribuzione parametrata a quella del personale amministrativo. Gli attuali magistrati onorari scontano il “peccato originale” di un reclutamento molto caotico e approssimativo, ma oggi la figura è radicalmente mutata: le modalità di reclutamento dei magistrati attualmente in servizio sono profondamente modificate ed oggi lo Stato si avvale di valenti professionisti, sempre più spesso laureati con voti altissimi, che hanno già svolto l’attività di avvocati, e quindi particolarmente qualificati. È pacifico che per la stragrande maggioranza di giudici di pace e vice procuratori il compenso percepito per l’attività di magistrato costituisca l’unica fonte di reddito, in quanto l’impegno è assorbente ed ormai esclusivo. Anche l’avvocatura al recente Congresso Nazionale Forense ha compiuto una svolta storica, comprendendo ed appoggiando le istanze della categoria. L’unica soluzione a questo punto praticabile è l’approvazione di una norma sul modello della Legge 217/74, che stabilizzò i vice pretori onorari, che comprenda le garanzie giuslavoristiche, senza prevedere una progressione di carriera per gli attuali magistrati onorari, i quali nascono giudici di pace o vice procuratori e vanno in pensione quali gdp o vpo. Un’ulteriore misura potrebbe essere quella di prevedere incentivi certi al raggiungimento di obiettivi oggettivamente predeterminati, al fine di conservare quella efficienza produttiva tipica dei magistrati onorari. Sul punto è bene essere chiari: va assolutamente eliminato ogni riferimento al “cottimo”, misura per certi versi contraria al senso di umanità, in quanto costringe a un superlavoro che non ammette pausa alcuna se si vuole conseguire una retribuzione dignitosa. Chiediamo pertanto al Governo di evitare l’istituzione di ulteriori commissioni di studio, in quanto poco o nulla dopo trenta anni occorre approfondire, e di adottare invece in tempi rapidissimi una riforma che eviti il blocco della giurisdizione, conforme alle richieste della Commissione Europea e rispettosa dei Trattati UE e della nostra Carta costituzionale e che consenta di raggiungere i risultati previsti dal PNRR, attraverso la velocizzazione dei processi ed il recupero del 2% del Pil. *Presidente A.I.M.O. Perché tutti linciano Soumahoro? Semplice: perché è “negro” di Iuri Maria Prado Il Riformista, 22 novembre 2022 Il linciaggio mediatico (a testate unificate) dell’on. Soumahoro. Anche se fossero soltanto la parte più artefatta di una patetica messinscena, come pure in tanti gli hanno rinfacciato, le lacrime di Aboubakar Soumahoro rispondevano a un fatto invece verissimo: e cioè che molti gli vogliono male, e pretendono di giudicarlo volendogli male, e gliene vogliono perché è un negro (non si scriva “nero”, per favore, almeno in questo caso). E, su tutto, è il negro preso finalmente in castagna: a cianciare di diritti dei migranti mentre la suocera affarista e la moglie in ghingheri affamavano i minorenni e non pagavano i lavoratori nelle strutture di accoglienza. Se è vero che ha reagito in modo forse inopportuno alle prime notizie su questa faccenda (l’annuncio indiscriminato di querele non è mai un granché), è altrettanto vero che a investirne la reputazione e l’immagine, di lì in poi, è stato tutto tranne che la presunta ricerca della verità. Anche se fossero soltanto la parte più artefatta di una patetica messinscena, come pure in tanti gli hanno rinfacciato, le lacrime di Aboubakar Soumahoro rispondevano a un fatto invece verissimo: e cioè che molti gli vogliono male, e pretendono di giudicarlo volendogli male, e gliene vogliono perché è un negro (non si scriva “nero”, per favore, almeno in questo caso). È un negro che ambisce al seggio parlamentare e lo ottiene, e da lì osa denunciare l’ingiustizia che affligge i diversi di pelle e di etnia, i quali solo a causa di questa diversità, non per altro, sono violentati ed emarginati. È un negro che si permette di mettere in faccia al Paese la verità e l’attualità di un’ingiustizia concentrata su condizioni essenziali, vale a dire anche più intime e originarie rispetto al rango, all’impostazione religiosa, alla formazione culturale; e cioè la verità e l’attualità di un’ingiustizia riassunta in una dicitura tanto facile pronunciare finché non è questione di sentirsene responsabili, e questa dicitura è “razzismo”: perché di questo e non di altro si tratta. E, su tutto, Aboubakar Soumahoro è il negro preso finalmente in castagna: a cianciare di diritti dei migranti mentre la suocera affarista e la moglie in ghingheri affamavano i minorenni e non pagavano i lavoratori nelle strutture di accoglienza. Se è vero che quel parlamentare ha reagito in modo poco temperante e forse inopportuno alle prime notizie su questa faccenda (l’annuncio indiscriminato di querele non è mai un granché), è altrettanto vero che a investirne la reputazione e l’immagine, di lì in poi, è stato tutto tranne che la presunta ricerca della verità: e davvero tutto, ma proprio tutto, tranne che l’indignazione per il maltrattamento di cui sarebbero stati destinatari quei migranti e quei lavoratori. Gli uni e gli altri, è il caso di dirlo, solitamente non degni delle cure di attenzione in cui ci si esercita, vedi tu la combinazione, quando neppure il negro, ma anche solo il suo circolo familiare, è lambito da qualche ipotesi di irregolarità. A quest’evidentissima realtà, ed è un capitolo della stessa ignominia, si risponde osservando che no, che c’entra il colore della pelle?, qui ci sono dei fatti da accertare e non è che si può far censura giusto perché l’implicato è un africano. Col triplice dettaglio che i fatti da accertare son dati per certi, che non risulta che l’africano sia implicato e, soprattutto, che se non fosse stato africano non sarebbe partita la caccia che invece è partita. Che non era la caccia - che non si è mai vista al marito e al genero di due tipe ipoteticamente disinvolte, e magari anche qualcosa di peggio, nella gestione di qualche coda operativa, ma puramente e semplicemente la caccia al negro travestita da una specie di Mani Pulite dell’immigrazione: per fare giustizia di certi manigoldi che ancora trattano male gli immigrati in un Paese abituato ad accoglierli felicemente, a farli sentire a casa loro, a non discriminarli mai mai mai, a riconoscere loro ogni diritto, a non dire mai, nemmeno per scherzo, “prima gli italiani”. Aboubakar Soumahoro merita solidarietà non per come è lui: ma per come siamo noi. Tutto quello che non torna nelle cooperative legate a Soumahoro di Nello Trocchia Il Domani, 22 novembre 2022 Lavoratori non pagati, due impiegati in nero, l’ombra delle false fatture e le condizioni dei centri di accoglienza. Sono questi i quattro fronti aperti che riguardano le cooperative Karibu e consorzio Aid, operanti nel sud del Lazio e gestite da Liliane Murekatete e Marie Terese Mukamitsindo, moglie e suocera del deputato Aboubakar Soumahoro, dell’Alleanza verdi e sinistra. Tutto questo sembra trovare conferma in un dossier realizzato dopo un’ispezione di una parlamentare, avvenuta in uno dei centri nel 2019. Chi sono gli accusatori? A che punto è l’indagine della procura di Latina? Partiamo dall’indagine giudiziaria. La procura di Latina ha confermato l’esistenza di un’indagine e ha delegato la Guardia di finanza che deve approfondire il quadro economico e quanto finora emerso. Di certo c’è che da un controllo dell’ispettorato del lavoro sono risultate due posizioni lavorative prive di contratto. Un’altra indagine, il secondo filone d’inchiesta, è seguita dai carabinieri, che indagano a partire dal ritrovamento in strada, nei pressi della sede legale di Karibu, di 8 sacchi neri con dentro documenti contabili e schede degli immigrati. Materiale che racconta una gestione confusionaria delle cooperative. Un altro capitolo da approfondire è il trattamento riservato agli ospiti delle strutture e in particolare ai minori che hanno raccontato al sindacato Uiltucs le condizioni degradanti (per il cibo e la qualità delle strutture) nelle quali hanno vissuto in questi mesi. I mancati pagamenti - Il sindacato che ha sollevato il polverone è la Uiltucs, grazie al lavoro svolto dal segretario provinciale Gianfranco Cartisano. “La nostra battaglia ha come obiettivo quella di far pagare gli stipendi ai lavoratori, parliamo di 400 mila euro di arretrati, nel mese di luglio abbiamo convocato le cooperative presso l’ispettorato del lavoro, ci sono dipendenti che hanno mensilità in ritardo anche di 22 mesi, in quella sede abbiamo condiviso un piano di rientro che non è stato rispettato. Così abbiamo coinvolto la prefettura”, dice Cartisano. Quanto riferito dal sindacalista corrisponde al vero, ma bisogna precisare che gli enti territoriali erano in ritardo con i pagamenti previsti dall’appalto per ragioni legate a una rendicontazione incompleta da parte delle cooperative e per i ritardi cronici della pubblica amministrazione. Così è intervenuta la prefettura, guidata da Maurizio Falco, che una settimana fa ha convocato le parti per garantire la legalità, il rispetto dei diritti dei lavoratori e dei migranti. Alla fine la prefettura ha versato circa 50mila euro a quattro dipendenti rimasti senza stipendio e contemporaneamente ha sollecitato gli altri enti locali in ritardo con i versamenti. In tutto questo, però, 22 dipendenti, che si sono nel frattempo dimessi, sono ancora senza salario e sono in credito per una cifra che ammonta a circa 360mila euro. Il dossier del 2019 - La cooperativa Karibu è nata nel 1999 dall’iniziativa di cinque rifugiati e con il tempo ha iniziato a occuparsi di migranti. Nel bilancio sociale c’è la parabola di questa realtà del terzo settore, a partire dal sostegno dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, nel 2004, al primo progetto avviato con il finanziamento del ministero dell’Interno: una casa famiglia per donne richiedenti asilo. Ma è solo l’inizio: Karibu e il consorzio Aid sono diventate presto un riferimento nel settore. Negli anni hanno avviato un centro per minori non accompagnati, una struttura residenziale per donne, una casa per famiglie con bambini, un manuale delle buone prassi nella gestione dei migranti politici. Ma poi ci sono i progetti con la regione Lazio, finanziati dall’Europa, dai comuni e in collaborazione con enti e associazioni. Una parabola nell’olimpo dei buoni che rischia di fermarsi davanti agli otto sacchi neri, ai lavoratori non pagati e alle parole dei minori raccolte dal sindacato. Cosa dicono gli ospiti delle strutture? Le loro testimonianze sono state tradotte e inviate tramite messaggio, riferiscono di cibo di scarsa qualità, di assenza di acqua ed elettricità. Testimonianze che vanno riscontrate e bisogna aspettare le verifiche che la prefettura ha condotto, nelle scorse settimane, per avere un quadro chiaro delle condizioni degli edifici. Le ombre sulla gestione delle cooperative di famiglia del deputato risalgono a qualche tempo fa, quando circolava un dossier diffuso dopo la visita di una parlamentare in uno dei centri gestito dalla cooperativa Karibu. Il dossier, risalente al 2019, riferiva una situazione al limite della decenza. “La struttura risulta sporca con parti al limite del fatiscente. Dai pavimenti con radici che divelgono il pavimento, soffitti con macchie evidenti di muffa, malfunzionamento della caldaia a pellet, sporco generale e gli esterni (ci sono tettoie con presenza di eternit) tenuti quasi a discarica”, si leggeva. Poi si parlava di ospiti con scarpe sporche di fango come se fossero stati impegnati in lavoro nei campi, per chiudere così: “Se la gestione strutturale e sanitaria sembrano essere lasciate al caso, anche quella economica lascia perplessi”. Cosa dice il deputato - La moglie e la suocera del deputato non sono indagate, lui non ha alcun ruolo nelle società, ma abbiamo contattato l’esponente politico per chiedergli di esprimere una posizione sulle questioni emerse, senza ricevere risposta. Lei era a conoscenza dei mancati pagamenti dei salari da parte delle cooperative gestite da sua moglie e da sua suocera? Due suoi ex compagni di sindacato denunciano che non hanno mai avuto contezza della destinazione dei soldi alla Lega braccianti, potrebbe fornire spiegazioni? Il deputato ha affidato ai social la sua risposta minacciando querele. “Falso! Non c’entro niente con tutto questo e non sono né indagato né coinvolto in nessuna indagine dell’Arma dei carabinieri, di cui ho sempre avuto e avrò fiducia. Non consentirò a nessuno di infangare la mia integrità morale. Per questo, dico a chi pensa di fermarmi, attraverso l’arma della diffamazione e del fango mediatico, di mettersi l’anima in pace. A chi ha deciso, per interessi a me ignoti, di attaccarmi, dico: ci vediamo in tribunale!”, scrive. Firenze. Detenuto suicida a Sollicciano: aveva chiesto aiuto ai garanti e ai volontari di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 22 novembre 2022 Ancora una volta si tratta di un detenuto marocchino, che si è tolto la vita impiccandosi all’interno della sua cella, dove era recluso da solo. Aveva problemi di dipendenze. Ancora un suicidio nel carcere di Sollicciano. È il quarto dall’inizio dell’anno. Ancora una volta si tratta di un detenuto marocchino, A.E., che si è tolto la vita nella notte tra domenica e lunedì impiccandosi all’interno della sua cella nella sezione transito, dove era recluso da solo. Il suicidio è avvenuto davanti a un agente penitenziario che non ha potuto aprire la cella perché il detenuto l’aveva bloccata. L’uomo era stato trasferito a Sollicciano dal carcere di Pisa. Aveva problemi psichiatrici e di dipendenze, era stato seguito dal reparto per la salute mentale. Aveva tentato il suicidio anche in passato e aveva compiuto atti di autolesionismo. Qualche anno fa era salito sul tetto per protesta ed era cascato provocandosi fratture alle gambe. Da settimane il detenuto, in carcere per stalking e con genitori residenti a Firenze, stava dicendo ai volontari che lo seguivano che avrebbe voluto togliersi la vita. Un grido forse inascoltato. Alla fine l’uomo lo ha fatto davvero. Un ennesimo caso che preoccupa e non poco l’ambiente carcerario fiorentino, dove i suicidi raggiungono una media di uno ogni tre mesi. Un’emergenza nazionale. Nei primi dieci mesi del 2022 sono stati 74 i suicidi di detenuti in carcere, 35 in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Più di uno ogni quattro giorni. Il recluso marocchino di Sollicciano, negli ultimi giorni, aveva mandato tramite il suo avvocato una lettera al garante nazionale dei detenuti, a quello regionale e a quello provinciale, per chiedere un incontro urgente. “Non si può restare indifferenti di fronte al quarto suicidio in pochi mesi - ha detto il cappellano di Sollicciano don Vicenzo Russo - Sono uomini che hanno commesso reati, ma sono anche persone che vanno tutelate, il recluso in questione aveva problemi di salute mentale e il carcere non sempre era compatibile con le sue condizioni psichiatriche, a Sollicciano non ci sono gli strumenti adeguati per curare queste persone”. Donato Donato Capece, segretario generale del sindacato di polizia Sappe, spiega: “La situazione nei penitenziari è allarmante. Ora segnali concreti dal ministero di Giustizia e dal Dap”. Anche Eleuterio Grieco, segretario regionale Uil Pa, si rivolge a Roma: “Ribadiamo la richiesta di una ispezione ministeriale. C’è uno scaricabarile sulla pelle delle persone tra area sanitaria regionale, servizio sanitario psichiatrico e direzione del carcere”. L’ultimo suicidio a Sollicciano risale a metà ottobre e aveva coinvolto sempre un recluso marocchino. Si chiamava Azzedine, era arrivato a Firenze quando era poco più che adolescente e ha finito i suoi giorni tra le sbarre di Sollicciano. Ancora prima, a metà settembre, si era impiccato un altro detenuto del Marocco, morto in ospedale a inizio ottobre dopo giorni di coma. A luglio un altro suicidio, quello dell’agente della questura che lo scorso 19 maggio, al parco delle Cascine poco distante dalla fermata della tramvia, aggredì un nordafricano per poi esplodere due colpi di pistola in aria. È stato trovato morto nella sua cella con un lenzuolo a una finestra. Foggia. Detenuto si impicca in cella. Picco di suicidi nel carcere di via delle Casermette immediato.net, 22 novembre 2022 Sembra non voler finire la maledizione che avvolge il carcere di Foggia che ne ha fatto il penitenziario con maggior suicidi (5) della nazione dall’inizio dell’anno. A tre mesi circa dall’ultimo suicidio, questa notte un giovane nigeriano di quasi 40 anni arrestato giovedì 17 novembre per concorso in estorsione, rinchiuso nel reparto accoglienza del penitenziario foggiano di via delle Casermette con il suo coimputato, si è impiccato. Purtroppo l’agente in servizio nel reparto ha cercato di salvare il detenuto intervenendo prontamente, ma il nodo al collo fatto con le lenzuola che aveva appeso alle grate del bagno non ha lasciato scampo. “La cosa che ci lascia sgomenti - commenta il sindacato Sappe - è che questa mattina lo stesso doveva essere accompagnato in tribunale ove si sarebbe dovuta celebrare l’udienza di convalida dell’arresto, e forse avrebbe potuto ottenere anche la libertà. Fa ancora più male sapere che Amas (questo sarebbe il nome del detenuto), non sarebbe dovuto nemmeno entrare nel carcere di Foggia, poiché secondo la legge Severino (porte girevoli) vecchia di anni ma mai rispettata, un arrestato deve essere portato in carcere dopo l’udienza di convalida e non prima. Dobbiamo anche denunciare che da tempo il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, denuncia la necessità di chiudere la sezione maledetta (tre suicidi), poiché offende i diritti minimi di dignità delle persone che vengono rinchiusi in stanze fatiscenti, molte delle quali con il bagno a vista e senza alcuna privacy. Sappiamo che anche la Direzione del carcere chiede la ristrutturazione del reparto, ma inutilmente, poiché l’amministrazione penitenziaria si preoccupa solo di stipare più detenuti possibili, prevaricando i diritti umani”. Il Sappe prosegue: “A questo punto, nonostante le denunce della magistratura e del Sappe inerenti le gravissime responsabilità del DAP, nulla si muove e questa ulteriore vittima non fa altro che dichiarare l’ennesimo fallimento di uno Stato che si reputa civile. Come è possibile continuare a disinteressarsi di un carcere come quello di Foggia che ha tra le più basse percentuali di agenti/detenuti 0,46 a fronte di una media nazionale di 0,66, e che ha subito un evento che rimarrà per sempre nella storia del nostro paese (parliamo dell’evasione di 72 detenuti di due anni fa). Il Sappe chiede che i vertici del DAP debbano pagare per le infinite violazioni poste in essere nei confronti dei poliziotti penitenziari che hanno perso qualsiasi diritto sancito dalla costituzione, dai contratti di lavoro e leggi dello stato, nonché dei detenuti a cui viene negata qualsiasi possibilità di reinserimento, nonché cura appropriata soprattutto per i detenuti psichiatrici o con patologie croniche. Anche perché tanti eventi critici (suicidi, aggressioni, evasioni, rivolte ecc.ecc.), forse, non sarebbero accaduti se il carcere di Foggia avesse avute le stesse possibilità di organico di polizia penitenziaria e di sovraffollamento delle altre carceri della nazione. Proprio per questo ci attendiamo un responso della magistratura che chiarisca se come denunciamo noi ci sono responsabilità da parte del DAP, oppure quanto accaduto in questi anni è dovuto al fato. E speriamo che queste risposte arrivino presto poiché vorremmo chiudere questa scia di morte e di violenza che nel carcere di Foggia sembra non voler finire mai”. Foggia. Si continua a morire di carcere foggiatoday.it, 22 novembre 2022 Detenuto nigeriano 40enne si tolto la vita impiccandosi. Con cinque decessi il carcere di Foggia resta l’istituto penitenziario dove sono avvenuti più casi di suicidio dall’inizio dell’anno. Si aggrava il bilancio già denuncato nel dossier presentato nei mesi scorsi da Antigone ‘Suicidi. Persone, vite, storie. Non solo numeri’, secondo il quale in via delle Casermette ci sarebb un educatore ogni 190 detenuti. L’ultimo suicidio in ordine di tempo è avvenuto due notti fa, quando un 40enne nigeriano arrestato il 17 novembre per concorso in estorsione - rinchiuso nel reparto accoglienza con il suo coimputato - si è impiccato.  Tra le storie raccontate nel report vi è anche il caso di un uomo di 36 anni di origine lucana, “pare affetto da problemi di natura psichiatrica”, detenuto nel carcere di Foggia solo da pochi mesi e che a giugno sarebbe dovuto uscire per fine pena. Il 23 aprile si è però tolto la vita all’interno della sua cella. Un’altra persona di 30 anni si è suicidata il 21 agosto nel giorno del suo compleanno. L’11 maggio l’ha fatta finita un uomo di 62 anni. Straniero il 35enne suicida l’8 gennaio.  “La carenza di organico e il sovraffollamento della struttura questa volta non hanno permesso agli agenti di Polizia Penitenziaria di arrivare in tempo e salvargli la vita” evidenzia il coordinatore provinciale Cgil-Fp polizia penitenziario, Gennaro Ricci: “Questo ulteriore decesso riporta alla cronaca la situazione di un istituto con evidenti problemi organizzativi e gestionali emersi con evidenza con l’evasione di massa del 2020, criticità già conosciute dettagliatamente dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Provveditorato Regionale di Bari, ma che ci si ostina a non voler risolvere, limitandosi ad un avvicendamento sconsiderato di Comandanti e l’invio di personale in missione con compiti di mera osservazione, determinando una organizzazione del lavoro fallimentare. È indispensabile invece un Comandante di Polizia Penitenziaria in pianta stabile, che abbia la possibilità reale di incidere sull’organizzazione del lavoro ed è necessario procedere con i distacchi del personale che ha risposto all’interpello per lavorare a Foggia, ma che ancora non vengono chiamati”. Ricci aggiunge: “Ad una situazione triste della casa circondariale di Foggia, fa eco, l’affollamento degli istituti Pugliesi, Regione che oramai ha raggiunto l’apice dell’indice di affollamento con il 40% di detenuti in più rispetto alle capienze, primato di Regione con il maggior affollamento di detenuti nelle sue carceri, superando anche la Lombardia che fino ad oggi ne deteneva il primato. Oltre a questo c’è da aggiungere l’estrema carenza di personale negli istituti della Puglia che con l’ultimo decreto delle piante organiche del 2017, veniva decurtata del 28% di personale di Polizia Penitenziaria, facendone la Regione con la decurtazione di organico maggiore a fronte di altre che ne venivano incrementate della stessa percentuale. Un errore madornale e, riteniamo, voluto da parte del Dap che ad oggi crea una situazione davvero pericolosa nelle carceri pugliesi”. La Fp Cgil ritiene indispensabile per le Puglia un consistente e definitivo incremento di organico negli istituti della Regione, attraverso la rideterminazione degli organici dei Provveditorati Regionali e di ogni singolo istituto sulla base di una equa ridistribuzione dell’organico nazionale. “Per l’istituto di Foggia riteniamo indispensabile un incremento urgente di 20 unità, l’assegnazione definitiva del Comandante di Reparto già individuato dall’interpello in corso di validità e una revisione totale del modello organizzativo dell’istituto”. Milano. Suicidi in carcere, una mostra per non dimenticare di Roberta Barbi vaticannews.va, 22 novembre 2022 “Disagio dentro” è la mostra fotografica che accende i riflettori sul dramma dei suicidi nelle carceri italiane. Nata dagli scatti realizzati negli istituti di pena milanesi dagli stessi detenuti e dagli agenti della Polizia Penitenziaria, l’esposizione, che chiuderà a fine novembre, è stata allestita in un luogo simbolo: il Palazzo di Giustizia di Milano Una foto per ogni detenuto che si è tolto la vita in questo 2022, già ribattezzato l’anno nero delle carceri italiane: in tutto sono 74 - al momento dell’inaugurazione della mostra il 7 novembre scorso, ma purtroppo il dato è già salito - e raccontano la vita negli istituti di pena di Milano: la casa circondariale di San Vittore, la casa di reclusione di Opera e il minorile Beccaria. La mostra “Disagio dentro” è una costola di “Per me si va tra la perduta gente”, esposizione fotografica realizzata dalla onlus Ri-scatti e allestita al Pac, il Padiglione di arte contemporanea di Milano, nel mese di ottobre. “Come molte delle storie più belle anche questa nasce per caso - racconta a Radio Vaticana-Vatican News Amedeo Francesco Novelli, vicepresidente di Ri-scatti - al Pac abbiamo avuto un pubblico enorme, inaspettato, e tra questo c’era anche un avvocato della Camera penale di Milano che si stava occupando di un progetto di sensibilizzazione sul tema dei suicidi in carcere e al quale è venuta l’idea che a noi è sembrato molto importante realizzare”. Da otto anni Ri-scatti si occupa di informare e rendere cosciente l’opinione pubblica su un’emergenza sociale, raccontata dalle persone che quella realtà la vivono ogni giorno sulla propria pelle. Quest’anno la scelta è ricaduta sul mondo, troppo spesso invisibile, del carcere: hanno dotato di macchina fotografica detenuti e agenti della polizia penitenziaria e ne è scaturito un lungo racconto di 50mila foto, da cui ne sono state selezionate 800 per la mostra “Per me si va tra la perduta gente”. “Il fatto di raccontare il carcere attraverso gli occhi di detenuti e agenti di polizia, che poi sono ‘diversamente detenuti’ perché molti di loro vivono all’interno delle caserme adiacenti al carcere, appena fuori l’area destinata alla detenzione - spiega ancora Novelli - è stato funzionale anche a questa nuova mostra per non dimenticare il dramma dei suicidi. È un fenomeno, infatti, che riguarda non solo le persone in esecuzione penale, ma anche gli agenti, se non sbaglio sono già quattro quest’anno a essersi tolti la vita”. Ristretti e agenti che condividono tempi e spazi, dunque, spesso tragicamente uniti anche in un gesto estremo, ultimo e irreversibile come il suicidio. Molte le problematiche alla base: dall’inadeguatezza delle strutture, allo stress di un lavoro usurante, impossibile, se non per gli esperti, elaborare un profilo di rischio, perché ognuno ha la sua storia. E la storia di alcuni dei suicidi di quest’anno viene raccontata con poche parole a corredo delle foto di “Disagio dentro”: “La spinta finale a fare questa mostra è venuta proprio dal suicidio, nei giorni in cui eravamo al Pac, di un detenuto di San Vittore che non aveva partecipato al nostro progetto, ma era ritratto in alcune foto, una storia quindi a noi molto vicina”, testimonia il vicepresidente. Si tratta di Giacomo, 21 anni, la vittima più giovane dell’anno fino ad ora. Aveva un disturbo della personalità e in carcere non doveva proprio starci perché era destinato a un istituto di cura, invece è morto in una cella inalando il gas di un fornelletto di quelli che si usano per cucinare. Poi, tra le altre, c’è la storia di Roberto che a Palermo scontava una condanna per rapina ma, soprattutto, aspettava di essere trasferito in una comunità perché soffriva di un disturbo psichiatrico. Qualche chilometro più in là, a Caltagirone, era detenuto Simone, che aveva rubato e immediatamente restituito un portafoglio e un telefonino, anche lui era in lista d’attesa per una struttura che potesse curare la sua psicosi ed era sottoposto a regime di massima sorveglianza in cella. E ancora David, tossicodipendente rinchiuso nel carcere di Sondrio che non ce la fa e si uccide a poche ore dall’interrogatorio di garanzia. Stessa dinamica di Dahou, che dal Marocco era finito nella casa circondariale di Sollicciano, a Firenze, dopo un primo arresto a Prato, sempre per reati legati alla droga. E non dimentichiamo le donne, mogli e madri, per cui il carcere è, se possibile, ancora più duro: per tutte ricordiamo Donatella, che a 27 anni non regge la lontananza del figlio e si uccide nella sua cella del carcere di Montorio-Verona. Sono storie che fanno male, sono pugni nello stomaco che colpiscono l’intera collettività, ma allora da dove si deve ripartire? “Dal carcere - è la risposta di Novelli - ci vuole un’azione d’insieme che comprenda la volontà politica e che coinvolga la società civile nel fare pressione”. Ben vengano, allora, le iniziative di socializzazione, che non mirano soltanto a gettare un ponte tra l’interno e l’esterno, ma fanno capire che il carcere non è un mondo lontano, ai margini della nostra società, ma di essa fa parte, è quel “Perché loro e non io?” che si domanda Papa Francesco ogni volta che entra in un istituto di pena o accarezza un detenuto. “Tra l’altro non dimentichiamo che il carcere è la cartina tornasole del nostro sistema giudiziario - conclude il vicepresidente di Ri-scatti - non è una punizione e basta, ma deve comprendere un reintegro della persona nella collettività, perciò bisogna occuparsi per prima cosa delle recidive”. E a dirlo, pensiamo un po’, è la Costituzione italiana, all’articolo 27. Ma anche questo, troppo spesso, si dimentica. Napoli. Ha il tumore, deve essere operato: lo trasferiscono da un carcere all’altro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 novembre 2022 È affetto da gravi patologie, deve essere operato d’urgenza ma è in balia di continui trasferimenti da un carcere all’altro come se fosse una vera e propria patata bollente. Nessuno è in grado operarlo. Non riesce a trovare pace Giuseppe Sposato, attualmente detenuto presso il carcere di Secondigliano e ancora in attesa di essere ricoverato all’ospedale Cardarelli di Napoli. Dai referti medici risulta che è affetto da diverse patologie cardiache, diabetiche e oncologiche. Deve essere operato per la neoformazione al colon. Dopo istanze su istanze, autorizzazioni per l’intervento, arriviamo a luglio scorso quando, a seguito dell’ordinanza autorizzativa della Corte di Appello di Reggio Calabria al ricovero ospedaliero presso l’Ospedale di Polistena (asportazione neoformazioni al colon), il detenuto Sposato viene rifiutato in quanto lo stesso, per le gravi patologie delle quali il paziente è affetto, necessita di ricovero presso Ospedale di secondo livello (HUB) dove è attiva una Rianimazione, un servizio di emodinamica e una cardiochirurgia. A quel punto ci si rivolge al policlinico Universitario di Catanzaro ma anche questa volta non è stato operato in quanto sbagliato l’iter di ricovero da parte della Casa Circondariale di Catanzaro. Dopodiché viene effettuata, su richiesta della casa circondariale, la visita oncologica presso l’Ospedale Pugliese- Ciaccio; a seguito di tale visita, il medico ha riferito a Sposato che prima di poter parlare della natura delle neoformazioni al colon è necessario che le stesse vengano asportate, ma che la tipologia di intervento necessaria all’asportazione, purtroppo, non può essere a lui praticata fino a quando non verrà sistemata la situazione cardiaca di cui lo stesso soffre. Ad agosto, Sposato ha effettuato una visita cardiologica presso l’Azienda Ospedaliera Pugliese- Ciaccio in previsione di polipectomia programmata e anticipata al fine della valutazione sulla richiesta di sospensione della terapia antiaggregante. In quella sede arrivando alla conclusione dell’importanza di proseguire terapia antiaggregante con cardioaspirina. Quindi, in sostanza, le condizioni cardiache attuali non gli permettono di sospendere la terapia aggregante: la sospensione dei farmaci antiaggreganti comporta un rischio significativo di trombosi di stent (ST) e rischio di un effetto rebound, evento potenzialmente mortale, mentre, dall’altra parte, la terapia antiaggregante aumenta notevolmente il rischio emorragico in corso di procedure chirurgiche o endoscopiche. Con ordinanza del 2 settembre si è disposto “l’immediato ricovero provvisorio presso il Policlinico Universitario di Catanzaro, onerando il Direttore, di avviare il paziente presso il reparto più appropriato per il trattamento endoscopico, la cui esecuzione non è stata assicurata presso l’area sanitaria della struttura penitenziaria nonché la trasmissione a cura del Coordinatore Sanitario della Casa Circondariale di Catanzaro “Ugo Caridi” con cortese urgenza, di una dettagliata relazione sanitaria sulle condizioni di salute del detenuto Sposato Giuseppe, in relazione alle patologie segnalate nell’istanza, con indicazione delle terapie effettuate, dell’eventuale adeguatezza delle stesse rispetto allo stato di salute del detenuto ovvero circa della necessità di cure specificando in tal caso la praticabilità di detti trattamenti in ambiente carcerario, o in ambiente ospedaliero esterno ex art. 11 L. 345/’ 75 o in Centri Diagnostico- Terapeutici dell’amministrazione penitenziaria” . Anche questa volta non è stato ricoverato perché il repartino detentivo risulta inagibile. Quindi anche questo ricovero viene rifiutato, lasciando Spostato ancora una volta in balia del proprio destino e soprattutto del proprio malessere, comportando nello stesso sempre più uno stato di sconforto e di paura. A quel punto l’avvocato difensore di Sposato ha fatto istanza per sostituire la misura cautelare con quella domiciliare. Ma la Corte d’Appello l’ha respinta. Deve stare in carcere nonostante le sue condizioni disperate. I giudici, nel contempo, chiedono al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), di garantirgli la salute, indicando strutture idonee per farlo operare. A distanza di oltre più di un mese dalla richiesta della Corte di Appello, la Direzione della Casa Circondariale di Catanzaro non ha provveduto a nessuna comunicazione sulla individuazione di una struttura pubblica in grado di soddisfare le esigenze di salute di Sposato. I famigliari a quel punto mandano un perito per visitarlo in funzione di una nuova istanza. Il perito sottoscrive che le condizioni di Sposato purtroppo non consentono un intervento al colon in quanto non può sospendere la terapia antiaggregante (sottoscritto dall’ospedale), perché ha una severa malattia coronarica (coronaria destra totalmente occlusa) che nel corso del tempo è peggiorata anche per la mancanza di continui controlli dopo l’intervento e che tale patologia impedisce l’utilizzo dell’anestesia. Lo stesso dottore si sofferma più volte anche sui marcatori tumorali che a distanza di tre anni sono triplicati. Quindi altra istanza. Ma rigettata aggrappandosi a un precedente: l’anno prima Sposato doveva fare la colonscopia, esame che però non ha fatto perché nel frattempo sua moglie fu colpita da una violenta emorragia celebrale e fu portato a Reggio Calabria per vederla in terapia intensiva dove gli fu detto che non c’era alcuna speranza. La corte rigetta quindi l’ennesima istanza, ma dispone il trasferimento presso la Azienda Ospedaliera di rilievo nazionale Antonio Cardarelli, onerando il suo Direttore di “avviare il paziente presso il reparto più appropriato per l’esecuzione dell’intervento di polipectomia, con l’assistenza adeguata rispetto alla patologia cardiologica di cui egli è affetto”. L’11 novembre viene quindi trasferito nuovamente presso il carcere di Secondigliano ma ad oggi nessun ricovero presso il Cardarelli è stato effettuato. “Si sta assistendo ad un vero e proprio scarica barile - scrive l’associazione Yairaiha Onlus tramite l’ennesima segnalazione al Dap e ministero della Giustizia - con continui trasferimenti da un istituto all’altro (Prato, Catanzaro ed ora Secondigliano) precludendo in tal modo la possibilità al sig. Sposato di essere operato con l’urgenza già certificata mesi addietro”, e chiede di intervenire tempestivamente affinché il detenuto gravemente malato e in attesa di un intervento urgente, possa essere adeguatamente curato vista la complessità del caso. Benevento. Reinserimento lavorativo detenuti: siglato accordo tra Caritas e Garante di Diego De Lucia anteprima24.it, 22 novembre 2022 Un’importante iniziativa per il reinserimento nella società civile dei detenuti della Casa Circondariale di Benevento ha visto la luce stamane nell’Istituto di contrada Capodimonte. La Caritas Diocesana con il presidente Pasquale Zagarese, il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, e la Casa Circondariale con il direttore Gianfranco Marcello, hanno formalizzato una intesa che prevede la collaborazione degli ospiti della struttura carceraria con le attività diurne della Caritas per un anno solare, eventualmente rinnovabile. I detenuti aiuteranno gli addetti della Caritas alla mensa o per altre incombenze nelle ore mattutine per poi fare ritorno nell’istituto di pena per trascorrere la notte. “È un atto di civiltà”: così lo ha definito il presidente Zagarese commentando l’iniziativa che, d’altra parte, coglie in pieno lo spirito e la lettera dell’ordinamento italiano e che vuole favorire il percorso rieducativo e di reinserimento di chi ha commesso errori nei confronti della società civile. Una cooperazione che, peraltro, non si ferma qui: è allo studio un altro protocollo di intesa, infatti, che vuole consentire ai detenuti senza fissa dimora di poter alloggiare all’interno delle strutture della Caritas. La struttura presieduta da Zagarese, che peraltro ha cessato la cooperazione con “Sale della Terra” a partire dal primo agosto, interviene sempre maggiore forza e convinzione ad affrontare le più grandi criticità della società civile locale. “Diamo un segno di vicinanza e di prossimità verso i detenuti - ha sottolineato Zagarese -. Il direttore Marcello invece ha aggiunto: “Vogliamo puntare ad un reinserimento sociale per i detenuti. Abbiamo una fascia di detenuti comuni quindi reati poco gravi e possono andare all’esterno. Riteniamo queste collaborazioni fondamentali. Non tralasciamo nessuna strada quella lavorativa a quella ricreativa”. Il garante regionale Ciambriello ha spiegato: “Sono piccole forme di inclusione sociale. Un lavoro per gli indifesi”. Bari. Luciana Delle Donne: “I minori? Problematici. Le mamme quelle più motivate” di Silvia Di Conno barinedita.it, 22 novembre 2022 “Le più motivate sono le mamme: sentono la responsabilità di aiutare i figli che sono a casa e questo le spinge a impegnarsi più degli altri”. Sono le parole della 60enne leccese Luciana Delle Donne, che nel 2007 ha fondato la onlus “Officina Creativa”: una cooperativa sociale senza scopo di lucro che aiuta i detenuti a riabilitarsi attraverso il lavoro, riconoscendo loro un regolare stipendio. Il brand “Made in carcere” attualmente opera a Bari nel carcere minorile “Nicola Fornelli” con la produzione dei biscotti vegani “Scappatelle” e a Trani, Lecce, Taranto e Matera con laboratori di sartoria che realizzano borse, braccialetti, cuscini e accessori. Abbiamo intervistato la fondatrice del progetto per capire quali siano le problematiche e le dinamiche che si innescano nel momento in cui si opera a stretto contatto con chi è ai margini della società. Qual è la storia di “Made in carcere”? Abbiamo iniziato nel 2007 a Lecce e poi, in Puglia, ci siamo espansi a Trani, Taranto, Matera e Bari. Nel capoluogo pugliese lavoriamo soprattutto all’interno dell’istituto minorile maschile “Fornelli”, dove abbiamo avviato il primo progetto in ambito food: un laboratorio di produzione artigianale di biscotti vegani. Nelle altre città ci siamo invece specializzati nelle sartorie sociali. Tutti prodotti che vendiamo online o attraverso vari canali e negozi. Il modello economico alla base della onlus è riparativo e trasformativo, perché chi è detenuto concede a se stesso, attraverso il lavoro, la possibilità di perdonarsi e ricostruirsi una vita. E in maniera speculare chi è fuori e compra le opere realizzate contribuisce alla riabilitazione dei detenuti regalando loro una seconda opportunità. A Bari quindi lavorate con i minori: è più difficile farsi accettare dai giovani? In effetti sì. I “minori” (che vanno dai 15 ai 25 anni) non hanno un approccio molto costruttivo. Soffrono l’ambiente familiare disastrato di partenza e sono violenti, pieni di rabbia e rancore nei confronti della vita. È necessario motivarli moltissimo per convincerli che il lavoro possa cambiare il loro percorso. Ogni giorno facciamo sì che preparino dei biscotti a forma di cuore, le “Scappatelle”, che richiamano i concetti di bellezza, famiglia, amore e cura. La speranza è che scoprano questi valori che per loro sono sempre stati estranei.  E ci state riuscendo? Il problema vero nasce quando sono in gruppo. Scattano in quel caso le dinamiche del “branco”: i ragazzi tendono a essere facilmente irascibili e a procurare liti e discussioni. La vera sfida è quella di riuscire a trasformare questa “rabbia” in energia positiva, portandoli a essere collaborativi tra di loro. E i risultati si stanno vedendo. Dal punto di vista organizzativo incontrate difficoltà? Se nelle carceri per adulti si ha un’idea più definita della durata della pena ed è possibile quindi organizzarsi di conseguenza, in una struttura detentiva minorile è difficile svolgere un programma continuativo. Vi è spesso un ricambio imprevedibile per svariati motivi: i ragazzi possono essere trasferiti o sospesi perché, ad esempio, hanno litigato. E poi nel caso in cui abbiano commesso infrazioni non scendono a fare il laboratorio, ma vengono “messi in punizione” in stanze molto piccole, dette “di pernottamento”. Ci sono infine ragazzi che si assentano durante le ore di lavoro perché hanno ottenuto una detenzione attenuata, grazie alla quale possono muoversi verso altre realtà. Nelle altre città lavorate invece più che altro con le donne… Sì, sono le più motivate. Il 90% di loro è infatti mamma e sente la responsabilità di mantenere e aiutare i figli che sono a casa. E grazie al nostro stipendio, ci riescono. C’è quindi una ragione in più a spingerle a impegnarsi più degli altri. E invece gli uomini non sentono questa necessità? Per ragioni esclusivamente culturali tendono a far emergere meno la loro sensibilità e l’attaccamento alla famiglia. Sono comunque, in generale, ben disposti al lavoro. Parlate mai con i detenuti dei reati che hanno commesso? No, né conosciamo i reati né ne parliamo. È una regola tacita. Altrimenti il rischio sarebbe quello di giudicarli e farsi un’opinione distorta. Noi dobbiamo invece costruire nel presente un nuovo futuro. Quanto è importante operare in un contesto accogliente? È decisivo. Prima di avviare il progetto in una struttura penitenziaria ci accertiamo sempre che ci siano due requisiti minimi: gli spazi per il laboratorio e quelli per la socialità. Crediamo nel valore della bellezza ed eleganza di questi luoghi: amiamo arredarli con mobili, divani e tappeti, come se fossero una casa per queste persone. Ritiene quindi che operare in maniera produttiva all’interno del carcere possa aiutare i detenuti a rifarsi una vita? Assolutamente. Grazie all’acquisizione del ritmo di lavoro e del senso di responsabilità, la maggior parte dei detenuti non fatica a reinserirsi in società. Qui le persone imparano a vivere in modo diverso, capiscono che ricominciare è possibile. E per noi è motivo di grande soddisfazione comprendere di aver aiutato qualcuno a ricostruire la propria dignità e identità. Napoli. Qual è il senso di uno Stato che si preoccupa più di punire che di riparare e rieducare? napolitoday.it, 22 novembre 2022 Presentazione del libro di Don Franco Esposito, cappellano della Casa Circondariale “Giuseppe Salvia” di Poggioreale. La prefazione del volume scritta da don Mimmo Battaglia. E’ la giustizia ripartiva o, per meglio dire, la perdurante assenza di giustizia riparativa il filo conduttore del libro “Luci verso una nuova giustizia”, scritto per la Iod edizioni da Don Franco Esposito, responsabile della Pastorale carceraria della Diocesi di Napoli e cappellano della Casa circondariale “Giuseppe Salvia” di Poggioreale. Il volume verrà presentato questo mercoledì, 23 novembre, alle ore 17.30 nella Chiesa di San Giuseppe dei Ruffi (Chiesa delle Suore Sacramentine) in via Duomo.  ”Ti chiameranno riparatore di brecce, scrive Isaia in questo oracolo (Is 58, 12), invitando colui che accoglie l’invito di giustizia di Dio a riparare ciò che è stato distrutto dall’uomo. E non è forse questa la missione di chi opera in carcere? Non è forse questo a cui dovrebbe tendere ogni percorso penale che, secondo la nostra Costituzione, è sempre finalizzata alla rieducazione di chi ha commesso un reato?”, scrive nella prefazione Domenico Battaglia, arcivescovo di Napoli, che interverrà alla presentazione del libro che si annuncia così come un importante momento di riflessione e dibattito attorno a “un tema che coinvolge donne e uomini che ogni giorno si interrogano sul senso e sull’efficacia del carcere, e di uno Stato che si preoccupa più di punire che di riparare e rieducare la vita di migliaia di detenuti”, come annuncia il comunicato della Pastorale carceraria.  Alla presentazione, con l’autore e Don Mimmo, interverranno Giuseppe Ferraro, docente di Filosofia Morale; Samuele Ciambriello, garante diritti dei detenuti regione Campania; Arnoldo Mosca Mondadori, editore, saggista e poeta; Ottavio Lucarelli, Presidente Ordine dei giornalisti regione Campania. I lavori saranno moderati da Guido Pocobelli Ragosta, giornalista e presidente UCSI Campania.  Forlì-Cesena. Gli studenti del liceo Monti in scena con i detenuti di Francesca Siroli Il Resto del Carlino, 22 novembre 2022 In carcere grazie al teatro il riscatto è possibile. Il liceo ‘Vincenzo Monti’ di Cesena partecipa al festival ‘Trasparenza di teatro carcere’ che coinvolge le città di Ferrara, Reggio Emilia, Parma, Bologna, Forlì, Ravenna e Modena. Per l’occasione oggi alle 17 nella casa circondariale forlivese verrà messo in scena “Omnia mutatur. Prospettive rovesciate” per la regia di Sabina Spazzoli. Insieme agli attori detenuti calcheranno il palcoscenico tre allievi de liceo: Dora Akitunde, Giovanni Bauleo, Alberto Bianchi e Viola Vici, che hanno partecipato allo spettacolo scolastico svoltosi lo scorso maggio al teatro ‘Bonci’. L’opera sviluppa il tema delle metamorfosi partendo dalla cultura classica (Ovidio, Apuleio) e passando per quella contemporanea (Stevenson, Collodi, Kafka, Calvino) approda al mondo scientifico, in cui la mutazione presuppone una forma definitiva e tutto deve essere verificato, toccato con mano. “L’unica possibilità verso la conoscenza è l’esperienza, che è in continuo divenire - spiega il docente Paolo Turroni, referente del Laboratorio teatrale di istituto e co-autore del copione - In questa cornice, il lavoro, sviluppato per quadri, si sofferma sulla trasformazione strutturale, sul senso del mito, sul ricordo come realtà mutata e sulla ‘fotografia’ intesa come grande metafora. Cambiano i luoghi, i paesaggi, le persone e impresso in un pezzo di carta, alle volte sbiadito, restano le tracce di ciò che è stato per chi c’è ora e per chi verrà dopo”. Riprende così il progetto ‘Scuola e Carcere’ che era stato interrotto nel 2020 a causa della pandemia, attivato al liceo ‘Monti’ nel 2014 con l’interpretazione della ‘Gerusalemme liberata’, a cui parteciparono 14 studenti. “Il liceo cesenate non ha avuto pregiudizi e il carcere si è aperto malgrado le difficoltà”, ha sottolineato la regista Sabina Spazzoli che è membro del Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna, composto da sette compagnie, che per il triennio 2022-2024 sviluppa il tema ‘Miti e utopie’ articolato nelle parole ‘errare, perdono, comunità’. Tre ambiti di ricerca particolarmente significativi per il luogo in cui si svolgono le attività di produzione. Il liceo ‘Monti’ ha inoltre partecipato venerdì 18 novembre alla giornata di studio e confronto sulle prospettive dei progetti teatrali negli istituti penitenziari regionali, tenutasi all’Arena del Sole di Bologna, con le due ex allieve Margherita Pepoli e Giulia Magnani e l’insegnante Paolo Turroni. Forlì. Pieno accordo nel carcere fra cristiani e mussulmani: attenzione condivisa senza distinzioni di fede di Piero Ghetti forlitoday.it, 22 novembre 2022 All’incontro ecumenico tenutosi domenica nel carcere di Forlì, presenti fra gli altri il vescovo Livio Corazza, il sindaco Gian Luca Zattini e il presidente della comunità islamica di Forlì Mohamed Ballouk, si è fatto il punto sul processo di condivisione e dialogo fra le due comunità. A Forlì primi frutti concreti del cammino condiviso fra cristiani e mussulmani, avviato dal responsabile del Centro diocesano per il dialogo ecumenico e interreligioso, don Enrico Casadio. A giugno, lo ricordiamo, la comunità islamica che fa capo alla moschea di via Masetti, ha donato indumenti estivi ai detenuti di via Della Rocca. Nella bolla di consegna del vestiario, rigorosamente nuovo e appositamente comprato da un grossista di Bologna, comparivano 100 magliette mezze maniche, 60 canottiere, 40 “short” e circa 200 paia di slip. Per verificare il percorso intrapreso e continuare nella piena collaborazione, finalizzata al recupero e al reinserimento condiviso dei detenuti di entrambe le fedi, domenica scorsa si è tenuto un incontro all’interno del carcere di Forlì, presenti la direttrice Palma Mercurio, il vescovo di Forlì-Bertinoro mons. Livio Corazza, il sindaco di Forlì Gian Luca Zattini, il presidente della comunità islamica di Forlì Mohamed Ballouk, l’imam Kabir, il presidente dell’associazione Amici di don Dario, Alberto Bravi, il comandante della polizia penitenziaria Gabriele Celli e il responsabile dell’Ufficio ecumenico diocesano don Enrico Casadio. “Quest’estate - precisa lo stesso don Enrico, organizzatore del momento ecumenico - abbiamo apprezzato il gesto della comunità islamica di via Masetti, che, in accordo con la direttrice Palma Mercurio e il cappellano don Enzo Zannoni, ha donato indumenti nuovi a tutti gli ospiti del carcere”. Sulla scia di quel primo atto di pace e concordia fra le due comunità religiose, si inserisce una novità senza precedenti a Forlì: l’ingresso in carcere di una guida spirituale per l’ascolto dei tanti detenuti mussulmani. Questo servizio, concordato col cappellano del penitenziario don Enzo Zannoni e approvato dalla direttrice Palma Mercurio, è un ulteriore segno del clima di piena fiducia e collaborazione fra le due fedi. L’incontro di domenica scorsa nella cappella della Casa circondariale, è iniziato con la preghiera dei rappresentanti di entrambe le confessioni: se l’Imam Kabir ha letto alcuni passi del Corano, in cui si sottolinea che “siamo tutti uguali, creati da Dio con uguale dignità e fatti per la conoscenza, il rispetto e la collaborazione reciproca”, mons. Corazza, che ha già incontrato più volte i detenuti a Pasqua e Natale, ha ribadito che, come uomini di fede, facciamo nostre le parole di Papa Francesco, secondo cui “dice una bestemmia chiunque inciti, abusando del nome di Dio, alla violenza, alla guerra e all’intolleranza dell’altro”. Il vescovo Livio ha poi guidato la recita del Padre Nostro. “Anche il carcere - dichiara il sindaco Zattini - fa parte della comunità forlivese: è un anello della stessa catena che può portare in alto, o al contrario fare cadere a fondo”. Degni di nota anche gli interventi spontanei di alcuni detenuti presenti, a cominciare da quello di fede cattolica, che ha riconosciuto che il carcerato, se aiutato e trattato con dignità, può ritornare un uomo nuovo, un “anello forte”. Di grande impatto emotivo il ringraziamento al cappellano don Enzo Zannoni e ai volontari operativi in carcere, da parte di due detenuti mussulmani: “Avete sempre aiutato tutti, senza mai fare differenze per le diverse fedi professate”. Don Casadio ha auspicato il ripetersi di questi incontri ecumenici, in grado di consolidare l’amicizia e il dialogo fra le religioni. “È grazie anche a questi momenti di confronto - ha concluso la direttrice Mercurio - che i detenuti riscoprono la propria dignità di persone”.  San Cataldo (Cl). Rosa Balistreri “entra” nel carcere ilfattonisseno.it, 22 novembre 2022 Testi e musiche di Rosa Balistreri diventano strumenti di riflessione in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne presso la Casa di Reclusione di San Cataldo. Protagonista un gruppo di detenuti che, guidati da Ivana Bellomo, psicologa, racconteranno la storia travagliata della cantautrice siciliana madre della musica popolare. “Nenti ci fu” è il titolo della breve ma intensa performance che porta sul palco una società becera e indifferente e una donna artista che, determinata, si ribella alle angherie del marito. Al centro c’è l’arte come arma di riscatto e salvezza. Ancora una volta, afferma la Bellomo, in Istituto diamo voce non solo al talento dei detenuti ma al cambiamento di prospettiva. A un metro e mezzo dal pavimento, i nostri attori riescono a sollevarsi dalla condizione statica e stagnante della ristretta quotidianità per tornare a sentirsi persone e artisti. Rosa diventa occasione per riconoscersi nella sofferenza e nel riscatto o, a volte, nella violenza agita e subita. Sul palco ci sono corpi che ritrovano la spontaneità del movimento e calibrano la voce in empatia con il pezzo, ci sono volti che imparano a dare un’espressione diversa alle emozioni. E poi, il teatro è rottura di schemi. Indosseranno accessori femminili, oltre i pregiudizi e i limiti del codice carcerario. La tarantella della Balistreri nella voce di uno di loro canterà la guerra ai “preputenti”. La musica popolare evoca le radici e le nostre sanno di accoglienza. Dunque non poteva mancare un giovane ospite alle percussioni in un’ottica di integrazione e socializzazione. L’organizzazione di qualsiasi piccolo progetto in un Istituto Penitenziario, si sa, mobilita diverse risorse e spesso è di difficile gestione. Ma l’entusiasmo e la motivazione di tutto il personale, dall’area educativa alla sicurezza, nonché la disponibilità della Direttrice Francesca Fioria, consentono anche quest’anno di omaggiare la donna, la relazione e l’arte. La performance teatrale rientra in una serie di iniziative proposte dagli insegnanti del carcere e coordinate dalla professoressa Grazia Bruno che il 25 novembre guiderà un gruppo di detenuti nella lettura di testi e poesie legati alla promozione della Non violenza. Scuola. Valditara vuole mandare gli “studenti violenti” ai lavori socialmente utili di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 22 novembre 2022 Meritare e punire a scuola. Le Idee sanzionatorie e le visioni paternalistiche del ministro dell’Istruzione. Meritare e punire. È l’idea del neo-ministro dell’Istruzione (e “del merito”) Giuseppe Valditara che ieri ha scritto su Twitter di volere mandare ai “lavori socialmente utili” gli studenti “violenti” “che non rispettano le regole” “in classe”. In un convegno Valditara ha illustrato la sua idea di formazione per correggere l’esistenza dei cosiddetti “Neet”, i ragazzi e ragazze “che non studiano e non lavorano”. “Assolvano quantomeno a un obbligo formativo - ha detto - Non possiamo accettare che centinaia di migliaia di giovani vivano alle spalle delle famiglie e della società”. Non è chiaro come questo possa avvenire dato che per “Neet” in Italia si intendono persone dai 15 ai 29 anni. Se sono estranei tanto al “mercato del lavoro”, quanto alla scuola correzionale, prestazionale e paternalistica di Valditara, è difficile che rientrino anche nelle competenze del ministro dell’Istruzione. Valditara ha detto di preparare un “piano” che si farà notare per l’esemplarità ideologica. Ma non intende mettere il proprio nome sull’ennesima “riforma” della scuola. Il suo sembra essere più un metodo di governo della società che mescola le istanze dello Stato Etico a quelle autoritarie e imprenditoriali. Questa sintesi è l’esito della torsione dello Stato sociale nel Workfare State avvenuto nell’ultimo trentennio. Nella scuola questo discorso si combina con la crociata contro l’istruzione “progressista”, il “lassismo del 6 politico” e altre fandonie raccontate dagli ideologi della scuola reazionaria. Il desiderio di punire gli studenti si spiega con il ripristino dell’ordine e della disciplina. Valditara si candida a diventare il portavoce di questo progetto. Il segretario della Flc Cgil Francesco Sinopoli, ha evidenziato come la scuola pubblica non possa essere un’istituzione sanzionatrice. Il suo ruolo sarebbe invece quello di prevenire “la ghettizzazione delle ragazze e ragazzi provenienti dai contesti più difficili che recenti riforme, come quella degli istituti professionali, hanno amplificato”. Difficile farlo dato che o la scuola, ridotta a un servizio, è sola in una società dove l’alternativa è tra l’illegalismo e la passività marginalizzante. In queste condizioni le sanzioni vagheggiate da Valditara non avrebbero altro effetto che irrigidire mentalità già sconnesse da una passione civile e dall’intelligenza collettiva. Non c’è nulla di nuovo nell’invocazione di punizioni esemplari. Sono previste dallo “Statuto dello studente” ha ricordato Mario Rusconi, presidente dei presidi Anp Roma. I lavori socialmente utili esistono nelle scuole medie e nelle superiori da oltre un decennio. Vanno dalla riparazione dei danni al servizio alle mense della Caritas. Rusconi ha suggerito di estendere le sanzioni alle occupazioni studentesche. L’anno scorso a Roma ce ne sono state 50. I presidi non hanno ottenuto lo sgombero dalla polizia. Per Rusconi Valditara dovrebbe “intervenire” anche se non ricopre la carica di ministro degli Interni. Scuola. Patrocinio gratuito per i docenti: uno scudo contro le aggressioni in aula di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 22 novembre 2022 Il sindacato “Gilda” chiede di garantire supporto legale agli insegnanti tramite l’Avvocatura dello Stato, “tenuto conto che un docente in media ha uno stipendio di 1.500 euro”. La cronaca delle ultime settimane ha segnalato diversi casi di professori delle scuole medie e delle scuole superiori aggrediti per aver svolto il loro lavoro. Per questo motivo il sindacato “Gilda” ha lanciato una proposta: prevedere a sostegno dei docenti una legge che li sottoponga al patrocinio gratuito da parte dell’Avvocatura dello Stato, “salvo naturalmente che ci sia dolo o colpa grave del docente”. “Viviamo - dice al Dubbio Rino Di Meglio, coordinatore di “Gilda” - un periodo molto particolare in cui l’autorevolezza della figura del docente è stata svilita. Ad aggravare le cose sono stati pure gli anni della pandemia che hanno reso tutti più aggressivi”. Secondo Di Meglio, occorre quindi correre ai ripari. “Le crescenti aggressioni che subiscono gli insegnanti da parte degli studenti e da parte delle loro famiglie - commenta - ci inducono ad intervenire. Il legislatore molto spesso reagisce con proposte volte ad inasprire le pene. Una strada che non condivido. In questo modo non fa altro che ingolfare le attività parlamentari e tralascia una serie di necessità. Mi riferisco, prima di tutto, a quella di dare tutela agli insegnanti che sono vittime di episodi di violenza. La prima tutela dovrebbe provenire dal dirigente scolastico e spero che il ministro dell’Istruzione dia un impulso culturale, affinché ci sia maggiore vicinanza verso gli insegnanti aggrediti”. Il coordinatore di “Gilda” sottolinea l’esigenza di garantire un supporto legale e si sofferma sulla proposta del suo sindacato. “I docenti - aggiunge - sono in stato d’assedio Se l’insegnante deve difendersi e intraprendere un percorso giudiziario, è costretto a sopportare delle spese anche ingenti. Siamo dipendenti dello Stato e svolgiamo una funzione di tipo costituzionale. Penso, dunque, che possa essere garantito il gratuito patrocinio attraverso l’Avvocatura dello Stato, tenuto conto che un docente in media ha uno stipendio di 1500 euro. Non appena il ministro dell’Istruzione ci convocherà sottoporrò questa proposta e inizieremo a sensibilizzare l’intero mondo della scuola con iniziative mirate per portare avanti la nostra idea”. Migranti. Piano Ue in 20 punti: le regole per le navi di soccorso di Francesca Basso Corriere della Sera, 22 novembre 2022 La commissaria europea agli Affari interni, Johansson: la situazione non è più sostenibile. Il ministro dell’Interno Piantedosi apre: “Soddisfatto”. Rafforzamento della cooperazione con i Paesi di provenienza e di transito e le organizzazioni internazionali; un approccio più coordinato alla ricerca e al soccorso; un rafforzamento dell’attuazione del meccanismo volontario di solidarietà per il ricollocamento dei migranti. Il tutto declinato in “20 azioni volte ad affrontare le sfide immediate e in corso”: la commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson, ieri ha presentato l’Action plan per gli arrivi di migranti dal Mediterraneo in vista del consiglio straordinario di venerdì, convocato in seguito alle tensioni tra Parigi e Roma, che avrà all’ordine del giorno anche le altre rotte di arrivi irregolari nell’Ue. “Gli ultimi eventi confermano che la situazione nel Mediterraneo centrale non è più sostenibile”, ha detto la commissaria Johansson, ricordando che “nel 2022 sono arrivati oltre 90 mila migranti e rifugiati, partiti principalmente dalla Libia e dalla Tunisia e provenienti soprattutto da Egitto, Tunisia e Bangladesh, con un aumento di oltre il 50% rispetto al 2021”. Per la commissaria “troppe persone cadono nelle mani dei trafficanti, circa il 90% di quanti arrivano irregolarmente” e dunque è fondamentale “prevenire le partenze irregolari”. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si è detto “soddisfatto per i contenuti” del piano, perché mette al centro della discussione la gestione dei flussi migratori “nella prospettiva già auspicata dal governo italiano”: è “una valida traccia di lavoro comune”. Per Piantedosi è “molto significativo il riferimento a una implementazione del meccanismo di solidarietà adottato nel giugno scorso” tenuto conto che “fino ad oggi, ha dato per l’Italia risultati assolutamente insufficienti”. È stata la stessa Johansson ad ammettere che “dobbiamo incrementarne l’applicazione. I ricollocamenti sono in corso, ma ancora un basso numero di persone è stato ricollocato con questo meccanismo. Quindi dobbiamo rafforzare il nostro lavoro sul quadro esistente”. Per Piantedosi “altrettanto importante” è il richiamo “a un maggiore coordinamento delle attività di ricerca e soccorso nelle aree Sar, che prevede, come da tempo richiesto dall’Italia, un ruolo anche per gli Stati di bandiera”. Il piano invita gli Stati membri a un maggior coordinamento, alla condivisione di informazioni e al punto 17 riconosce la “necessità di un quadro di riferimento e linee guida specifiche per le navi” attive nella ricerca e soccorso “in particolare alla luce degli sviluppi nel contesto europeo”, ma da discutere “a livello di Organizzazione marittima internazionale”. La premessa, per Johansson, è che “l’obbligo legale di soccorrere e di garantire la sicurezza della vita in mare è chiaro”, tuttavia riconosce che “qui ci sono molte sfide: la situazione odierna delle navi private che operano in mare è uno scenario che manca ancora di sufficiente chiarezza”. Frontex effettuerà una valutazione mirata della situazione nel Mediterraneo centrale per individuare le esigenze di un sostegno rafforzato attraverso operazioni congiunte. “Ma non è una nuova missione navale”, ha precisato la commissaria Ue. Il piano è di fatto un “appello ad accelerare” le iniziative già sul tavolo, perché per Johansson “per garantire una soluzione sostenibile in grado di bilanciare solidarietà e responsabilità” è necessario adottare tutte le proposte legislative nell’ambito del Patto sulla migrazione e l’asilo prima della fine di questa legislatura. Ma già da due anni gli Stati membri discutono senza trovare l’intesa. Migranti. L’Ue prova a blindare il Mediterraneo di Carlo Lania Il Manifesto, 22 novembre 2022 La Commissione Ue presenta un piano per la gestione dei flussi: un codice europeo per le navi delle ong e maggiore impiego di Frontex. Un piano in venti punti che corrispondono ad altrettante azioni da intraprendere lungo le rotte dei migranti, a partire dal Mediterraneo centrale. Dopo le tensioni con la Francia seguite al caso Ocean Viking, l’Unione europea prova a venire incontro alle richieste italiane di una maggiore partecipazione degli Stati nella gestione di quanti arrivano in Europa. Il “Piano di azione dell’Ue sulla migrazione nel Mediterraneo”, come è stato battezzato dalla Commissione Ue che l’ha presentato ieri, verrà discusso dai ministri dell’Interno dei 27 in un vertice straordinario convocato per venerdì prossimo: “Non possiamo gestire la migrazione caso per caso, barca per barca”, ha spiegato il greco Margaritis Schinas, vicepresidente della Commissione. “Le soluzioni strutturali possono essere trovate solo attraverso l’adozione del nostro Patto Ue”. Toccherà ai ministri adesso cercare di rendere concrete almeno alcune delle proposte avanzate. Non sarà un lavoro semplice. Forse perché preparato proprio sull’onda delle tensioni nate tra Italia e Francia, il Piano è più che altro un elenco di buone intenzioni già sentite in passato (dalla cooperazione con i Paesi di origine dei migranti a un incremento dei rimpatri, agli aiuti allo sviluppo) a cui si aggiungono però almeno tre punti che invece potrebbero trovare un’immediata applicazione: un codice di comportamento per le navi delle ong, una maggiore collaborazione tra Stati costieri e Paesi di bandiera delle navi e, infine, un maggiore coinvolgimento nel Mediterraneo, ma anche al confine meridionale della Libia, di Frontex, l’Agenzia europea per il controllo della frontiere il cui operato in passato non ha mancato di sollevare critiche. Sulle navi umanitarie la Commissione prova a mettere alcuni paletti alla loro azione di soccorso in mare proponendo di avviare una discussione sul tema con l’Organizzazione marittima internazionale per ragionare, è scritto nel documento, “sulla necessità di un quadro specifico e orientamenti per le navi che si concentrino in particolari sulle operazioni di salvataggio, tenendo conto degli sviluppi del contesto europeo”. In pratica si tratterà di individuare nuove linee guida alle quali le ong dovranno attenersi per poter operare. Non si parla, almeno per ora, di eventuali provvedimenti per quanti dovessero rifiutarsi di aderire. “Nel Patto per la migrazione e l’asilo - ha detto ieri la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson - abbiamo già proposto una sorta di codice di condotta europeo. Ovviamente siamo pronti discuterne di più” Nelle intenzioni di Bruxelles, dovrebbe finire anche il contenzioso, aperto dall’Italia, in atto tra Stati costieri e Paesi di bandiera delle navi umanitarie promuovendo una collaborazione più stretta attraverso “scambio di informazioni e coordinamento, anche al fine di facilitare una migliore cooperazione tra i Paesi membri e navi di proprietà di soggetti privati o da essi gestite”. Per quanto riguarda Frontex, invece, l’Agenzia dovrà rafforzare l’azione di sorveglianza aerea e marittima nel Mediterraneo centrale, ma è previsto un suo impiego per contrastare il traffico di esseri umani anche il Libia, Sahel e Niger. Nel documento figura anche un riferimento, per ora vago, alla necessità di promuovere in collaborazione con Unhcr e Oim il dialogo tra gli Stati costiera “sugli approcci regionali alla ricerca e soccorso” in mare”. Il piano dell’Ue prevede inoltre la stipula con Paesi terzi di accordi che facilitino i rimpatri dei migranti economici e investimenti per 580 milioni di euro destinati ai Paesi del Nord Africa. Spinta, infine anche per i rimpatri volontari dalla Libia con una collaborazione tra Ue, Unione africana e Nazioni unite. “Quest’anno già più di 3.000 persone sono state rimpatriate volontariamente dalla Libia ai Paesi di origine”, ha spiegato Johansson. Soddisfatto del piano si è detto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi: Il testo mette al centro alcune importanti questioni in tema di gestione dei flussi migratori - ha detto - e lo fa nella prospettiva già auspicata dal governo italiano”. Prudenti, invece, le ong sull’annunciato codice che le riguarderebbe: “Vediamo cosa ci sarà scritto”, afferma Marco Bertotto di Msf. “Quando non firmammo il codice Minniti spiegammo che non era finalizzato a migliorare il sistema di soccorso in mare. Se da Bruxelles arriveranno segnali diversi valuteremo, altrimenti non sarà possibile aderire”. Libano. La crisi colpisce anche le carceri: cibo scarso, mancanza di medicinali, sovraffollamento La Repubblica, 22 novembre 2022 Nella prigione più grande del Paese, Roumieh, il numero di detenuti supera di tre volte la capacità prevista. La Banca Mondiale sostiene che il Libano stia vivendo uno dei tre peggiori crolli economici globali dal 1850. In Libano la popolazione carceraria conta piú di 8.000 detenuti (tra carceri e altre strutture detentive), di cui quasi l’80% in attesa di giudizio. Nella sola prigione di Roumieh, la più grande del Paese, il numero di detenuti supera di tre volte la capacità prevista, e la proporzione non differisce molto nelle altre carceri, come a Tripoli, nel Nord, e a Zahle, nella Valle della Bekaa. A livello operativo, sono le Forze di Sicurezza Interna libanesi (ISF), quindi il Ministero dell’Interno, a essere responsabili della gestione, nonostante spesso manchino conoscenze e formazione specifiche per lavorare come guardie carcerarie. Un Paese impoverito, ad eccezione dei suoi ricchi. Dal 2019, il Libano sta vivendo una crisi economica senza precedenti, sebbene nel baratro della povertà sia precipitata solo la maggioranza della popolazione, perché i ricchi che ci sono sempre stati, sempre ricchi sono rimasti: (leggi il reportage del Venerdì di Repubblica di Davide Lerner) Il PIL pro capite è sceso del 40%, la valuta locale ha visto perdere il 95% del proprio valore, a fronte di un’inflazione crescente e che, secondo dati recenti, ha portato circa l’80% della popolazione sotto la soglia di povertà. La Banca Mondiale sostiene che il Libano stia vivendo uno dei tre peggiori crolli economici globali dal 1850. I casi di evasione. Se la crisi socio-economica del Paese è drammatica in generale, le conseguenze si fanno ancora più gravi all’interno delle strutture carcerarie. I casi di evasione dalle strutture detentive, la più recente della quali di è verificata dal carcere sotterraneo di Adlieh, a Beirut, ne riflettono la situazione di insostenibilità. La qualità e la quantità dei pasti distribuiti dall’amministrazione carceraria sono diminuite. L’inflazione sta riducendo i mezzi finanziari dei detenuti e rende difficile l’approvvigionamento di cibo. Le visite dei familiari sono sempre meno frequenti, anche a causa dell’elevato costo del carburante (un pieno di benzina, dopo la rimozione dei sussidi statali, è arrivato a costare quanto uno stipendio medio statale), così come la fornitura di beni di prima necessità. Il ruolo della società civile. In questo contesto, le organizzazioni della società civile sono spesso chiamate a fornire molti dei servizi che per legge dovrebbero essere garantiti dallo Stato: assistenza legale, formazione del personale, supporto psicologico o medico. Il progetto DROIT, co-finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) , e gestito da ARCS in partenariato con le Ong libanesi Mouvement Social e AJEM, attivo dal 2018, ha contribuito a potenziare i servizi di recupero, il reinserimento sociale, l’assistenza rivolta a detenuti/e, alle persone a rischio e alle loro famiglie e alla formazione degli operatori del settore. L’intervento, in particolare, ha supportato il potenziamento dei servizi offerti in due penitenziari libanesi (Roumieh e BEK), per migliorare le condizioni generali di detenzione, e presso il centro di riabilitazione di Rabieh, per sostenere i processi di riabilitazione e di reintegrazione sociale delle persone detenute. Lo scambio di pratiche. Inoltre, ha previsto l’incontro e lo scambio di pratiche sulla tematica carceraria grazie alla collaborazione con i partner italiani di ARCI Toscana, il Garante dei Diritti dei Detenuti delle Regione Toscana, Antigone e Non C’è Pace Senza Giustizia. Oltre a una serie di tavole rotonde organizzate in presenza e online tra il 2019 e il 2022, a giugno di quest’anno una delegazione libanese, composta da rappresentanti delle Ong, del Ministero della Giustizia e del Ministero dell’Interno libanesi, ha svolto una visita presso diversi centri penitenziari italiani, in Toscana e a Roma, durante la quale è stato possibile confrontare i due sistemi e le tradizioni legislative alla base della gestione carceraria, mettendo sul tavolo anche le difficoltà e le sfide comuni affrontate, a partire dalla questione del sovraffollamento. Una task force per il monitoraggio. Da queste occasioni di scambio tra Italia e Libano, è stata creata, a marzo di quest’anno, una Task Force per il monitoraggio delle condizioni dei detenuti, coordinata da ARCS attraverso il professor Omar Nashabe, cui partecipano rappresentanti della società civile e delle istituzioni libanesi, al fine di riportare i maggiori bisogni in termini di assistenza per la popolazione carceraria e trovare una via comune per apportare un miglioramento a livello di sistema. I principi condivisi sulle prigioni. A questo riguardo, padre Marwan Ghanem, fondatore e Presidente del “Juvenile Reform Center” presso l’Associazione Nusroto, e membro della sopracitata task force, ha affermato - in una intervista rilasciata, insieme a Omar Nashabe all’emittente libanese VdL24: “Noi come organizzazioni ci stiamo incontrando regolarmente e la cosa bella è che tutti condividiamo lo stesso principio sulle prigioni. Per esempio, insieme siamo riusciti a far chiudere il carcere sotterraneo di Adlieh”, luogo di detenzione famigerato per le degradanti condizioni e l’anonimità della struttura in cui erano incarcerate circa 130 persone, molte delle quali migranti domestiche e rifugiati siriani. Il progetto DROIT. Qualche giorno fa, come evento conclusivo del progetto DROIT, si è tenuto presso la Beit Beirut l’incontro “Rights, Justice and Basic Needs in Lebanese Prisons”, un’importante occasione per presentare e discutere i risultati raggiunti attraverso il progetto e analizzare le necessità sempre più urgenti del sistema penitenziario in Libano. Ci sono stati gli interventi della Direttrice dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo di Beirut, Alessandra Piermattei, la direttrice di ARCS, rappresentanti del Ministero della Giustizia e dell’ISF, delle due ong partner di progetto Mouvement Social e AJEM, del coordinatore della Task Force, e il contributo finale dell’ex ministro dell’Interno libanese Ziyad Baroud. Alessandra Piermattei, AICS. “La detenzione è la pena per chi viola le regole della convivenza sociale. Pena che per la cultura e la normativa italiana si dovrebbe concludere con il reinserimento. In questo percorso non devono esistere pene ‘accessorie’, spesso frutto del sovraffollamento e della carenza di risorse, che colpiscono la dignità e la salute della persona detenuta. È per la difesa di questi principi che la Cooperazione Italiana in Libano è impegnata in iniziative volte a migliorare la qualità della vita dei detenuti e il loro reinserimento, senza tralasciare l’assistenza legale a chi è accusato o in detenzione per garantire il diritto alla difesa e a un processo equo. Attività che ci vedono al lavoro con ARCS in coordinamento e sinergia con le istituzioni libanesi”. La direttrice di ARCS, Silvia Stilli. Ha sottolineato l’importanza del progetto e delle sinergie create tra Italia e Libano: “Ringraziamo chi ci ha accompagnato in questi anni nel percorso: l’AICS e il Governo italiano che hanno promosso e sostenuto finanziariamente il progetto DROIT, la Tavola Valdese che ha permesso di ampliare alcune attività, i nostri partner in Libano, Mouvement Social e AJEM, e quelli in Italia, ARCI Toscana, il Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Toscana, Antigone, e Non C’è Pace Senza Giustizia, che hanno offerto relazioni e competenze in grado di garantire un partenariato duraturo. Non da ultimo, la Task Force è una risorsa preziosa che intendiamo valorizzare nella collaborazione con le istituzioni libanesi in una collaborazione efficace e fattiva.” Stati Uniti. L’Alabama ferma il boia: “Troppe esecuzioni fallite. Metodi certi, poi si riparte” di Massimo Basile La Repubblica, 22 novembre 2022 La governatrice, dopo l’ennesimo intoppo, ha ordinato di rivedere le procedure. La sete di vendetta dell’Alabama si è fermata per la terza volta in cinque mesi sulla vena introvabile di un condannato a morte. Kenny Smith, 57 anni, è rimasto sdraiato per più di un’ora sulla barella, nel mezzo di una stanza bianca, illuminata dal neon, bloccato da cinque fasce nere, mentre gli addetti all’esecuzione nel carcere di Atmore si affannavano a cercare inutilmente sul suo braccio la vena giusta in cui affondare l’ago. Erano riusciti a iniettargli la prima dose di barbiturici, per stordirlo, poi toccava al pancuronio per paralizzare i muscoli e al cloruro di potassio per provocare l’arresto cardiaco. Ma lo staff aveva solo pochi minuti, prima che arrivasse la mezzanotte e scadesse la data dell’esecuzione, e non ce l’hanno fatta. La governatrice dell’Alabama Kay Ivey ha sospeso tutte le esecuzioni capitali. La repubblicana ha annunciato lo stop e la revisione di tutte le procedure prima di ripartire. La pena capitale è diventata incertezza della pena, e l’iniezione letale un intralcio. Nella decisione il dolore inferto non c’entra niente, è solo questione di idraulica e di chimica, di veleni che non trovano la vena. A settembre era successo a un altro condannato a morte, Alan Miller. Due mesi prima a Joe Nathan James, sottoposto a ore di tortura con l’ago prima di riuscire a ucciderlo. E un’altra esecuzione era saltata per lo stesso motivo nel 2018. Sarebbero tutte violazioni all’Ottavo Emendamento, che vieta di infliggere punizioni crudeli, ma non è che in Alabama guardino il capello. Da anni i Repubblicani chiedono di tenere segrete le esecuzioni per evitare cattiva pubblicità, ma con le organizzazioni per i diritti civili di mezzo non è facile. Smith era un caso ancora prima della fallita esecuzione, perché in realtà all’inizio non era stato nemmeno condannato a morte. Il suo caso risale al 1988, quando insieme a un altro balordo era stato assoldato da un reverendo per uccidere la moglie, a cui era intestata una polizza sulla vita. Smith aveva 22 anni. Intascò mille dollari. I due sicari uccisero Elizabeth Dorlene, il marito si tolse la vita una settimana dopo. Il complice è stato giustiziato, per Smith la corte, con un voto di 11-1, aveva chiesto l’ergastolo, considerando l’età, il passato difficile e il rimorso. Ma il giudice, ribaltando il verdetto, aveva deciso per la pena di morte. La data stabilita era il 17 novembre 2022, solo che l’esecuzione è cominciata alle 22.20, dopo l’ultimo via libera della Corte Suprema. E cento minuti non sono bastati. Smith verrà probabilmente giustiziato, ma il suo caso rilancia il tema delle esecuzioni, che stanno vivendo tempi difficili. In Arizona hanno dovuto fare un’incisione all’inguine di un condannato per inserire l’ago. In Texas hanno violato il protocollo e fatto l’iniezione sul collo a un detenuto disabile perché non era in grado di stendere il braccio. Molti Stati hanno problemi a reperire i farmaci. Il South Carolina ha sospeso ad aprile sedia elettrica e fucilazione. Lo stesso, il Tennessee. La Virginia ha abolito la pena capitale. A ovest, la Corte Suprema dell’Oregon ha ordinato il trasferimento di tutti i condannati dal braccio della morte. Smith spera che la macchina si sia inceppata per sempre, ma in Alabama le speranze sono poche. Medio Oriente. Curdi sotto attacco in Siria e in Iraq nel silenzio generale di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 22 novembre 2022 La popolazione al confine, intanto, vive nel terrore perché i razzi cadono anche sulle case, sulle scuole, sugli uffici e non solo su obiettivi militari. Muoiono i civili nel Kurdistan siriano e iracheno ma anche in Turchia. Nel silenzio generale della comunità internazionale Ankara porta avanti senza sosta l’operazione Spada-Artiglio, lanciata dopo l’attentato del 13 novembre ad Istanbul di cui addossa la responsabilità al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e alla milizia curdo-siriana dell’Ypg. In otto giorni sono stati 89 i raid aerei lanciati sulla Siria curda e presto, ha annunciato ieri il presidente Recep Tayyip Erdogan, si passerà all’operazione di terra. La popolazione al confine, intanto, vive nel terrore perché i razzi cadono anche sulle case, sulle scuole, sugli uffici e non solo su obiettivi militari. “Tutto il mondo vede quello che il presidente Erdogan sta facendo al nostro popolo - dice alla Bbc una donna curdo-siriana -, ma nessuno fa nulla. Anche se prenderanno la nostra terra noi rimarremo per sempre siriani. Vi prego fermate questa aggressione”. Ieri si è levata una voce da Berlino. Il portavoce del ministero tedesco degli Esteri, Christofer Burger, ha invitato “la Turchia a reagire in modo proporzionato e rispettare il diritto internazionale”. “I civili devono essere protetti in ogni momento” ha spiegato. Mentre il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg si è limitato a sollecitare il governo turco a “completare il processo di ratifica” per l’ingresso di Finlandia e Svezia nell’Alleanza. Una firma che Erdogan ha vincolato proprio all’appoggio dei due Paesi candidati alla lotta contro il terrorismo curdo. Non a caso, ieri, l’ambasciatore svedese ad Ankara è stato convocato per protestare contro il sit-in organizzato da un gruppo vicino al Pkk davanti alla rappresentanza diplomatica turca a Stoccolma. Il governo turco ieri ha denunciato un attacco dei miliziani curdi su Gaziantep, nel sud della Turchia. “Sono state colpite anche aree residenziali. Tre persone, tra cui un bambino e un insegnante sono morte” ha detto il ministro dell’Interno, Suleyman Soylu, mentre venivano ordinati nuovi raid contro la Siria curda. L’obiettivo di Erdogan è noto: porre fine alla presenza del Pkk lungo tutto il suo confine sudorientale con la Siria e con l’Iraq per costituire un “corridoio sunnita”, da Aleppo a Mosul, e reinsediare nell’area buona parte dei rifugiati siriani che sono ospitati nel Paese della Mezzaluna. C’è poi la necessità di distrarre l’attenzione dell’opinione pubblica dalla disastrosa situazione economica: l’inflazione ha superato l’85% e la valuta nazionale, la lira turca, nell’ultimo anno ha perso il 50% sul dollaro. Un biglietto da visita che diminuisce le possibilità di successo di Erdogan alle elezioni presidenziali del 2023. Iran. Rivoluzione delle ragazze: Azita e le altre, storie di chi sta lottando in nome di Mahsa Amini di Greta Privitera Corriere della Sera, 22 novembre 2022 Sono centinaia le giovani vite spezzate durante le manifestazioni: “Questa volta è diverso, accanto a noi ci sono anche amici e compagni. Non c’era mai stata una rivolta nelle strade per una donna”. Azita sale sul tetto di una macchina parcheggiata sul lato della strada. “Non so dove abbia trovato il coraggio, non l’avevo mai fatto prima”, scrive. Nella mano destra stringe il velo che non mette quasi mai ma che porta sempre con sé perché lo ha promesso a sua madre. Lo alza al cielo come si fa quando si vince e gli dà fuoco con l’accendino che ha in tasca, anche se non fuma. Sotto, ad applaudire, ci sono decine di ragazze e ragazzi tra cui il fratello e le quattro amiche del quartiere che sono andate alla manifestazione con lei e che stanno facendo un video. “Mi sono sentita fortissima. Ma subito dopo ho visto la polizia correre verso di noi”, scrive su Instagram, “sono saltata giù e ho iniziato a correre anche io più veloce che potevo”. Le amiche la seguono. Qualcuna va verso l’università, qualcun’altra riesce a infilarsi in strade più piccole e far perdere le proprie tracce. Azita si sente braccare alla schiena, “ho urlato. Un agente mi ha presa, fatta cadere e mi teneva il volto schiacciato sull’asfalto. Mi diceva “metti quel velo”, “metti quel velo”. In quel momento di terrore ho dato un bacio alla terra. Non so perché l’ho fatto, ma ho baciato l’asfalto”. Su quello che in gergo si chiama “direct”, un messaggio privato via Instagram, Azita, 21 anni, spiega che mai come in queste ultime settimane ha provato amore e pietà per la sua città, Teheran, e il suo Paese, l’Iran, soffocato dalle rigide leggi spirituali dell’Ayatollah Khamenei e dal suo regime teocratico. Prova un sentimento così forte che d’improvviso le è venuto di baciare l’asfalto, come succede con le persone a cui si vuole bene. È da oltre sessanta giorni che le ragazze e i ragazzi d’Iran si danno appuntamento nelle piazze e nelle strade per chiedere la fine del regime. Tutto è iniziato il 16 settembre, quando la notizia dell’uccisione di Mahsa Amini - una ventiduenne del Kurdistan iraniano in visita con il fratello a Teheran, morta dopo tre giorni in custodia della polizia morale perché si è fatta sfuggire una ciocca fuori dal velo - ha fatto il giro dei social scatenando la rabbia delle sue coetanee. Al telefono da Meredith, New Hampshire, Fatemeh Haghighatjoo, la più giovane donna che ha fatto parte del parlamento iraniano dal 2000 al 2004 (“eravamo tredici in totale”), racconta: “La prima settimana dopo la notizia di Amini, hanno protestato soprattutto le ragazze che chiedevano lo smantellamento della polizia morale”. “La seconda settimana si sono uniti anche gli amici, i fidanzati, i compagni di classe per chiedere la fine della legge sull’hijab obbligatorio. Poi è arrivata la terza settimana e ai giovani della Generazione Z si sono uniti una parte degli insegnanti, i commercianti, i borghesi dei quartieri ricchi, i lavoratori del settore petrolifero, e poi uomini e donne delle regioni più tradizionaliste, come il Kurdistan. Ora, tutte le etnie, le classi sociali, le generazioni gridano insieme “Morte al dittatore”“. Non è la prima volta che in Iran si protesta. Le ultime contestazioni risalgono al 2019. L’aumento del prezzo del carburante aveva portato migliaia di persone a manifestare contro il governo, “ma in quelle settimane si voleva soprattutto una cosa: l’abbassamento dei prezzi. Le classi più povere non arrivavano - e non arrivano - a fine mese e chiedevano di mangiare”, dice Haghighatjoo. Nel 2009 ci furono grandi manifestazioni di piazza contro l’irregolare rielezione del presidente Mahmud Ahmadinejad: “Anche in questo caso c’era un motivo specifico - le elezioni - e chi protestava erano le classi medio-alte del Paese”. Oggi è tutto diverso, non sono più i motivi economici o politici a guidare gli animi. Si protesta in nome del principio più grande di tutti: la libertà. Ogni persona con cui parliamo usa questa parola che ci eravamo dimenticati di quanto fosse potente, ma che nel 2022 è tornata a vivere grazie alla Gen Z che da Kiev a Teheran la scrive di chat in chat, la esercita nelle piazze, la pretende sotto le bombe degli oppressori e i manganelli delle guardie religiose. “Questa rivoluzione è unica nella storia iraniana perché è partita dalle giovani donne e successivamente si è allargata agli amici maschi. Non è mai successo in Iran che si manifestasse per la morte di una ragazza. Lo si è fatto per gli uomini, ma l’uccisione di Amini ha innescato una reazione che nemmeno il presidente Raisi e la sua sempre più brutale polizia morale potevano immaginare e, soprattutto, che non riescono a fermare”, dice Haghighatjoo. Secondo la politica attivista, sebbene le donne iraniane non siano ben rappresentate nei luoghi di potere, sono molto influenti nelle comunità e nelle famiglie. I loro gesti e le loro parole hanno la forza di incoraggiare anche chi coraggio pensava di non averne. I movimenti guidati dalle donne fanno più paura ai regimi perché hanno metodi comunicativi ed espressioni opposte a quelli delle autocrazie, e, quindi, sfuggono al loro controllo. “Le donne cantano slogan - “Donna, vita e libertà” - si tagliano i capelli, bruciano veli. Fanno gesti non convenzionali che arrivano dritti al cuore, più della propaganda religiosa. C’è un altro aspetto interessante: nelle società patriarcali, quando un uomo vede una donna battersi per i propri diritti si sente in dovere di aiutarla. Se una donna non ha paura anche lui non dovrebbe averla e, se ne condivide i motivi, si unirà alla lotta”. Un principio che funziona soprattutto con le generazioni più grandi. Parliamo via chat con Azan, 20 anni, giovane studente di una città nel Kurdistan iraniano, non lontana da dove è nata Mahsa Amini: “Dopo qualche giorno dall’inizio delle proteste delle ragazze, sono sceso in strada anche io. Sto sempre con mia sorella e la mia fidanzata che sono molto più coraggiose di me. In queste manifestazioni ci sono solo leader donne che guidano i cortei. Nella mia vita, non ho mai visto tanto coraggio insieme. Sento che noi maschi abbiamo il dovere di sostenere le nostre sorelle e sento che saranno loro a liberare il Paese”, dice. Anche Arash, 24 anni, attivista iraniano, ci parla di libertà: “Essere giovani in Iran significa perdere i bisogni più elementari, vivo in un posto in cui devo stare attento che la mia ragazza non finisca in prigione perché non indossa il velo”. Adel dice di non avere più desideri. “L’Iran è un Paese bellissimo, vorrei che fosse invaso dai turisti, ma siamo isolati dal mondo. Non c’è lavoro, la gioia e la felicità sono punite. Come posso pensare al matrimonio o ad avere dei figli in questo deserto? Speranza e desiderio sono morti”. Da quando nel 2021 Ebrahim Raisi è stato eletto presidente, le libertà, soprattutto per le donne, sono tornate a restringersi. La polizia morale ha un ruolo sempre più centrale nel controllo del loro abbigliamento e del comportamento, e la legge sull’uso obbligatorio dell’hijab - su cui persino Ahmadinejad era scettico - è tornata più forte che mai. Il regime che stringe lacci non ha fatto i conti però con la capacità dei più giovani di sciogliere nodi grazie anche agli strumenti digitali poco conosciuti dai leader politici. In un Paese dove i il 60% degli 84 milioni di abitanti ha meno di 30 anni, diventa sempre più difficile per i dittatori arginare i loro sogni e le loro visioni del mondo. “Si tratta di un nuovo rinascimento”, dice Azam Bahrami, attivista iraniana scappata dieci anni fa in Italia. “Per i nostri genitori e fratelli era impensabile immaginare quello che sta succedendo. I giovani hanno imparato tutto da internet, conoscono altri modi di vivere, vedono sui social che cosa vuol dire essere cittadini di paesi liberi e non hanno bisogno di palchi per far sentire la loro voce. Non sono più disposti a fare compromessi”. Azam racconta che questa nuova rivoluzione vive nelle piazze ma si organizza, si pensa e si diffonde su TikTok, Twitter, Instagram e Clubhouse. “Clubhouse, il social fatto di audio che funziona come una radio e che in Europa e Stati Uniti non ha avuto molto successo, è usatissimo in Iran. Ci sono “stanze” con migliaia di persone che dialogano e seguono il dibattito”. Anche se Raisi rallenta internet, ogni mattina la gen Z si inventa nuovi modi per aggirare le limitazioni. “Non dobbiamo sottovalutare i rischi”, continua Fatemeh Haghighatjoo. “Il regime sa come usare la violenza e sa che l’unico modo perché una rivoluzione abbia effetti reali sulla vita politica di un Paese è avere dei leader che la guidino”. Motivo per cui ogni volta che se ne individua uno, viene arrestato. “Un altro rischio è che la brutalità della polizia aumenti. Siamo già a quasi trecento persone uccise dall’inizio delle proteste, moltissimi gli studenti dei licei e delle università. Questa escalation frena il desiderio di altre persone di unirsi alla lotta, toglie energia. Se questo movimento perde forza e si ritorna a fare la vita di prima, il regime potrebbe diventare ancora più feroce, soprattutto con le donne”. Nonostante la lunga lista di giovani donne e uomini uccisi dalla polizia, Azita e le sue amiche non hanno paura: “Penso a Asra, Abolfazl, Nika, Sarina, Mahsa, Diana, Efran e mi dico che devo tornare in strada anche per loro. Sognavano di vivere in un Paese libero, proprio come voglio io. Sento che abbiamo la forza di cambiare le cose se continuiamo a lottare tutti insieme, sorelle e fratelli”. Ma come fa una rivoluzione senza leader a crescere? Possiamo ancora chiamarlo il movimento delle donne o è diventato il movimento di tutti? A queste domande risponde Haghighatjoo: “Che cosa è rivoluzione? Per me è quando in tanti chiedono un cambiamento fondamentale, in questo caso la fine del regime: io la vedo. I più conservatori fanno ancora fatica a chiamarla rivoluzione perché per loro i numeri sono importanti. Dicono: nel 1979, quando è stato cacciato lo Scià, il 10% della popolazione è andata in piazza. Vero, ma anche nel 1979 ci è voluto almeno un anno perché accadesse. Allora rispondo così: siamo agli inizi di una grande rivoluzione”. E sulle donne, Haghighatjoo non ha dubbi: “Questo è e sarà il movimento nato dalle ragazze che sono riuscite a diffonderlo tra gli amici maschi, i padri. Se non ci fossero state le giovani donne con i veli in fiamme, le forbici arrabbiate, i canti su TikTok, non si sarebbe ramificato così profondamente nella società. Abbiate tutti il coraggio di chiamare quello sta succedendo nel mio Paese la rivoluzione delle ragazze”.