Salute nelle carceri sempre più a rischio e dopo il Covid la situazione si è aggravata quotidianosanita.it, 21 novembre 2022 Il punto della situazione è stato fatto in occasione del XXIII Congresso nazionale della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe) svoltosi a Roma nei giorni scorsi. Tra i problemi maggiori la grave carenza di personale sanitario e di formazione specifica, le difficoltà operative per il personale infermieristico e l’assenza di un reale coordinamento tra le regioni. “Gli ultimi dati sui suicidi nelle carceri e le tensioni emerse rappresentano solo la punta di un iceberg che è costituito anche dai limiti cronici della sanità penitenziaria”, a sottolinearlo in una nota a conclusione del suo XXIII Congresso tenutosi a Roma il 17-18 novembre è la Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simspe) cui aderiscono le diverse professionalità sanitarie operanti nelle carceri. La Società è impegnata da anni nel complesso sistema delle carceri, in cui ogni anno transitano oltre 100mila persone, alle quali, sottolinea la Simspe, “deve essere costituzionalmente garantito il diritto alla salute, obiettivo non semplice, complicato da un’organizzazione disomogenea, dal riferimento a due dicasteri, Giustizia e Salute, e alle organizzazioni sanitarie regionali”. Tra i maggiori problemi segnalati, “la grave carenza di personale sanitario e di formazione specifica, le difficoltà operative per il personale infermieristico, l’assenza di un reale coordinamento tra le regioni sono oggi i problemi principali, che si traducono in un’assistenza sanitaria segnata da gravi criticità, prima fra tutte la carenza di personale”. E poi il Covid. “Il Covid ha colpito la medicina penitenziaria non solo per il numero di contagi e le complesse attività di prevenzione e vaccinazione, ma per l’effetto dirompente della pandemia su tutto l’assetto sanitario nazionale e in particolare sulla medicina territoriale di cui la sanità penitenziaria fa parte - sottolinea Luciano Lucanìa, Presidente Simspe - Il passaggio delle competenze dal dicastero della Giustizia al Ssn, avvenuto nel 2008 in modo disordinato, ha provocato una frammentazione tra i servizi che le diverse regioni sono in grado di erogare. A questo si aggiunge il complesso problema emerso dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari nel 2015: i soggetti in misura di sicurezza avrebbero dovuto confluire nelle neo istituite Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), ma proprio le carceri ancora ospitano detenuti in attesa di Rems o altra sistemazione residenziale. Queste condizioni incidono non solo sui servizi, ma anche sulla disponibilità dei medici ad accettare di lavorare in un sistema che in questo momento presenta gravissime criticità”. “La pandemia ha sottratto energie e risorse alle attività nelle carceri - spiega Sergio Babudieri, Direttore Scientifico Simspe - Il personale sanitario che opera nelle carceri non è fisso e le altre opportunità emerse hanno ulteriormente depauperato questa categoria. In questi anni abbiamo realizzato importanti risultati: i dati raccolti sull’Epatite C hanno permesso di eliminare il virus nella popolazione carceraria di diversi penitenziari, gli screening per l’HIV hanno consentito di avviare i relativi trattamenti. Gli stessi detenuti si sono rivelati collaborativi, a seguito delle attività informative che gli hanno permesso di comprendere il contributo che si offriva a tutela della loro salute. La pandemia ha interrotto questo processo virtuoso e dopo il lungo stop dovremo ripartire con processi di screening, informazione e formazione”. Sono 77 in poco più di 10 mesi i suicidi in carcere registrati nel 2022. “Un numero impressionante, senza paragoni in epoca recente”, fa notare la Simspe. “Questo dato deve farci riflettere, ma ancora più rilevanti sono i dati che abbiamo in modo parziale o che non possiamo reperire - spiega Lucanìa - Bisognerebbe sapere, ad esempio, quanti siano i detenuti che hanno tentato il suicidio senza riuscirci. O anche le statistiche su italiani e stranieri, su coloro che sono in custodia cautelare e quanti in espiazione di pena, le condizioni nelle quali si vive in carcere, tra sovraffollamento, promiscuità, con sentimenti di disperazione e frustrazione. In queste condizioni non è semplice identificare chi abbia realmente una malattia mentale che può portare al suicidio. Queste lacune non si colmano con la burocrazia, ma con un’azione di sistema, dove Simspe e il personale sanitario possono partecipare, anche se componente minoritaria: affinché il supporto scientifico sia concreto, è necessario che gli istituti siano sicuri per il personale sanitario e dotati delle risorse necessarie. Serve una nuova cultura del carcere, basata su una visione che consenta al detenuto di vivere l’esperienza in maniera corretta”. Fra le varie tematiche affrontate nel Congresso è emerso tra gli altri con particolare significato il problema odontoiatrico quale emergenza reale. “Il reddito del 90% dei detenuti è inferiore al livello della soglia di povertà e altrettanti hanno un basso livello culturale e di istruzione; il 30-40% dei detenuti è tossicodipendente e altrettanti fanno uso di psicofarmaci, elementi che portano a una soglia del dolore più elevata con la conseguente indifferenza algica e disinteresse per eventuali cure mediche - sottolinea Mario Zanotti, specialista ambulatoriale Ulss 9 Verona, dentista presso casa circondariale Montorio, Verona - Da questi dati si evince che un numero assai elevato di detenuti necessita di cure odontoiatriche, spesso anche molto più ampie e complesse rispetto alla società civile. Anche il bruxismo (il digrignamento dei denti) interessa il 30% della popolazione generale ma sale rapidamente al 70% nella popolazione penitenziaria e può rappresentare l’emblema del livello di tensione emotiva dei soggetti privati della libertà”. “Per far fronte a questo servono professionisti e strutture adeguate. Nello studio su alcune case circondariali (Verona, Cagliari, Potenza, Trento, Milano Bollate) in relazione al periodo 2017-2018 risulta che nessuna protesi è stata confezionata a livello degli istituti penitenziari; sono state confezionate a carico del Ssn solamente 6 protesi mobili (tutte a Potenza), ma non in carcere, bensì in ospedale. Tuttavia, le esigenze protesiche, erano e restano infinitamente più grandi. In breve, un detenuto non ha possibilità di ottenere una protesi che non sia a pagamento”, sottolinea ancora Simspe. Le conseguenze di questa situazione sono diverse: “Anzitutto, vi è un aspetto fisico, per cui queste persone non possono alimentarsi correttamente, ma devono ricorrere a cibi tritati o liquidi (dieta semisolida), rinunciando alla capacità nutrizionale oltre che al piacere della tavola. In secondo luogo, c’è un aspetto psicologico: senza denti non si riesce a sorridere, si riduce l’autostima e la considerazione di se stessi, in un ambiente che già di per sé provoca difficili condizioni psicologiche che spesso inducono alla depressione e in diversi casi al suicidio. La mancanza di cure odontoiatriche non è una causa diretta di questi fenomeni, ma può considerarsi una concausa”. Le cure odontoiatriche quindi spesso sono sottovalutate, eppure hanno un effetto sul fisico e sulla psiche dei detenuti”, conclude la Simspe. 77 suicidi tra le sbarre. La burocrazia ignora le persone di Cristina Calzecchi Onesti https://ladiscussione.com/206657/attualita/77-suicidi-tra-le-sbarre-la-burocrazia-ignora-le-persone, 21 novembre 2022 Intervista a Sandro Libianchi Presidente del “Coordinamento Nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane. Il 15 novembre a Lecce un altro carcerato si toglie la vita e con lui si raggiunge la cifra record di 77 suicidi in carcere dall’inizio del 2022, ben oltre la media degli ultimi anni. Una media già molto alta (intorno ai 66 suicidi l’anno), ma abbastanza stabile, mentre ora assistiamo a un vero e proprio incremento. Abbiamo chiesto al dottor Libianchi, Presidente della associazione “Coordinamento Nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane” ed “Esperto” presso il Tribunale Ordinario di Sorveglianza di Roma, di aiutarci a capirne le ragioni. Dottor Libianchi, cosa sta succedendo nelle nostre carceri? Prima di formulare ipotesi con le quali cercare di risponderle, vorrei aggiungere dei dati. Al numero dei suicidi accertati, vanno aggiunte altre 180 morti in carcere, la cui natura è ancora da accertare, oltre a un numero non definito di tentati suicidi. Solo così si può avere il quadro completo della situazione e avviare un studio epidemiologico su basi scientifiche, che faccia davvero luce sul fenomeno e individui aree di intervento. Finché da una parte non ci sarà una raccolta dei dati sistemica e dall’altra esisterà una platea di decisori molteplici, con gradi di autonomia l’uno rispetto all’altro, sul piano regionale o per competenze, non è possibile costruire modelli operativi efficaci di vera prevenzione. Per comprendere appieno la gravità del momento aggiungo anche che il numero di suicidi probabilmente è destinato a crescere prima della fine dell’anno. Lei, però, si sarà fatto una qualche idea sul perché i suicidi stanno aumentando così tanto. Come ho detto, senza la casistica siamo nel mero campo delle ipotesi. Credo, in linea di massima, che il sistema abbia imparato a difendersi. Con questo intendo che tutte le risorse a disposizione, a cominciare dal personale medico, si stiano concentrando più sull’aspetto burocratico, le carte da riempire, utili per difendersi dalle indagini che conseguono eventi di questo tipo, più che sul rapporto umano, su una vera conoscenza dell’individuo privato della libertà. Il numero dei moduli da riempire cresce sempre di più, soprattutto nelle carceri di grandi dimensioni, ma il personale e le ore lavoro restano le stesse. Se devo riempire una decina di questionari per soggetto non avrò certo il tempo di approfondire e conoscere davvero la persona che ho davanti e il suo livello di rischio. L’esperienza sul campo dice che statisticamente il rischio suicidario si manifesta all’ingresso nel carcere (anche l’ultimo caso lo dimostra), quando forse la persona prende davvero coscienza di cosa significhi perdere la libertà. Perché allora non è in quel momento che l’assistenza psicologica si concentra? Tutte le incombenze vengono esperite, a cominciare dal colloquio di sostegno con lo psicologo, ma il tempo è poco, per il sottodimensionamento del personale e quell’infinità di moduli di cui parlavo prima. In pochi minuti è davvero possibile riuscire a cogliere la gravità del disagio di una persona? Questo rapporto, sempre più umanamente lontano, sicuramente incide sul primo impatto che il carcerato ha con il sistema, con possibili conseguenze drammatiche. Chi ne ha la responsabilità e chi potrebbe cambiare le cose? Alla fine non sono neanche le singole istituzioni le vere responsabili, quanto l’intero sistema così come concepito. Ci vorrebbe la creazione di un ente terzo, con libero accesso ai dati, in grado di trasformarli da mere statistiche in fenomeni da analizzare per creare nuovi modelli operativi, magari avvalendosi dell’aiuto delle università o di centri di ricerca scientifici. Un ente terzo che poi controlli anche che questi modelli vengano correttamente applicati. Se poi ci fossero delle sanzioni per gli enti che non rispettano le procedure, sarebbe sicuramente un fattore decisivo. Ancora una cosa sul carcere di Daria Bignardi ilpost.it, 21 novembre 2022 Bazzico le prigioni da parecchio tempo e la prima è stata San Vittore. Sono stata una sola volta a Bollate, che con quella di Opera è l’altra Casa di Reclusione di Milano, una dozzina di volte al Don Bosco di Pisa, decine di volte a San Vittore. Prima ancora, per alcuni anni, avevo avuto una corrispondenza con un detenuto americano di nome Scotty, rinchiuso nel braccio della morte del carcere di Huntsville, in Texas, condannato per avere ucciso una persona durante una rapina a un distributore di benzina quando aveva diciassette anni. Nelle lettere Scotty mi scriveva che non era stato lui a sparare, ma la sua ragazza di allora. Erano entrambi tossicodipendenti, ai tempi della rapina. La sua ultima lettera l’ho perduta, non so come mai, ma ricordo bene che scriveva che accettava la vita e la morte che gli erano toccate. Era diventato un cristiano qualcosa. In carcere si trova la quintessenza della vita com’è: dolore, ingiustizia, povertà, amore, malattia, morte, amicizia, rimpianto di una felicità, bisogno di libertà. Ma non per questo è un buon posto per viverci, anzi, è un posto orribile, che ti lascia qualcosa di buono solo se ci entri ed esci al massimo dopo tre ore e da uomo libero. Ho iniziato a frequentare San Vittore quando era Casa Circondariale e Istituto di pena, ovvero ci stavano sia i detenuti non giudicati che quelli con le condanne definitive. Collaboravo col giornale Il Due, che ora esiste solo on line. Adesso che ci stanno solo detenuti in attesa di giudizio, al reparto della Nave, al quarto piano del Terzo Raggio, si scrive un giornale che si chiama L’Oblò, e ogni tanto partecipo alle riunioni di redazione. Ai tempi del Due di carta entravo in carcere ogni lunedì e per un anno, con un gruppo, ho girato un video sul tema settimanale di un mio programma intitolato Tempi Moderni che andava in onda il sabato pomeriggio. “In via dei Filangieri gh’è na campana\Ogni volta che la sona l’è ona condana” recita una delle più note canzoni popolari milanesi, Porta Romana bella. Noi entravamo da via Filangieri 2, lasciavamo cellulari e documenti, affrontavamo tutto il repertorio di metal detector, chiavi, cancelli, blindati, e andavamo al Terzo Raggio. Era il 1998. Salivamo al primo piano, in una stanzetta rettangolare con le sbarre, l’unica cosa che ti aspetti di trovare in carcere e trovi veramente, perché per il resto sul carcere girano un sacco di leggende, come le arance, che in realtà non si possono affatto portare ai detenuti, a meno che non siano sbucciate, divise in spicchi e messe nel pacco settimanale, che verrà accuratamente ispezionato. Lì ci aspettavano sette redattori detenuti che avevano dai trenta ai settant’anni. Prima chiacchieravamo un po’, ci aggiornavano sui problemi della settimana delle loro famiglie, perché in carcere i prigionieri si sentono molto in colpa rispetto ai parenti e ne parlano continuamente. Partecipare ai problemi dei famigliari glieli fa sentire vicini, e fa metter via per un momento i guai propri. Al novanta per cento si tratta di famiglie disgraziate: i detenuti spesso sono a loro volta figli di detenuti o di persone con problemi di indigenza o dipendenza dall’alcol o altre sostanze. Dunque le chiacchiere libere non erano di circostanza. Solo dopo le chiacchiere ci mettevamo a discutere dell’argomento della puntata che sarebbe andata in onda di lì a qualche giorno: unioni omosessuali, ambientalismo, alimentazione vegana, animalismo. Avevo ricevuto il permesso di riprendere i nostri incontri, montarli e mandarli in onda, tramite un direttore illuminato, Luigi Pagano, uno che sa, perché lo ha sperimentato lavorandoci quarant’anni, che più un carcere è aperto e meglio è per tutti. Sono rimasta in contatto con alcuni di loro. Uno, Tino Stefanini, che ai tempi di Renato Vallanzasca faceva il rapinatore, sul Due aveva scritto un articolo che chiarisce a cosa serva il carcere: “Ho iniziato a rubacchiare sui 14-15 anni e tante volte non volevo nulla della refurtiva, piccole somme o oggetti insignificanti. Poi arrivò il primo arresto, due paia di pantaloni appesi fuori da un negozio, più che altro una bravata, ma mi portarono al carcere minorile in qualità di allievo, giusto per fare le conoscenze che sarebbero servite in seguito; il secondo reato fu una tentata rapina in una gioielleria; il terzo una tentata rapina in un ufficio postale. Ormai ero uno “studente universitario”, e infine il salto di qualità nella Casa circondariale di San Vittore che mi fece diventare un professore con conoscenze più approfondite e amicizie fraterne: se avessero arrestato qualcuno di noi, chi rimaneva fuori si doveva impegnare per l’aiuto economico e, in modo particolare, per liberarlo. Avevo solo 24 anni e quell’amicizia fraterna, nonostante alcuni di noi siano morti, altri rovinati dal carcere con condanne trentennali o all’ergastolo, è rimasta. Siamo solo cambiati con la testa, non più calda ma disperata per gli anni di vita che abbiamo perso”. Come ha ricordato di recente Luigi Manconi “la recidiva tra chi sconta la pena in una cella è circa del 69%, mentre tra chi la sconta in misure alternative (detenzione domiciliare, lavori sociali, sanzioni pecuniarie) scende fino al 20%. Questo mi porta a dire che il carcere è una macchina patogena, che produce malattia, depressione e morte”. Con un altro gruppo, qualche anno dopo, ho scritto una rubrica di televisione intitolata Al Fresco per il mensile Donna. Nessuno si intende di tv come i detenuti: la radio e la televisione sono l’unico contatto che hanno con l’esterno, oltre a quello sporadico coi parenti in visita, e più sporadico ancora con gli educatori e gli psicologi. Con gli agenti nella maggioranza dei casi non c’è un gran dialogo, ma nemmeno gli agenti, lavorando in carcere e spesso vivendo in caserma, di contatti con l’esterno ne hanno tanti. Questa cosa della tv che è il loro unico rapporto quotidiano con l’esterno è molto importante per capire cosa è successo quel 9 marzo 2020. Non mi ricordo da chi ho sentito dire che chi fa televisione dovrebbe comunicare come se parlasse contemporaneamente a un addetto ai lavori, a un suo amico e a un ragazzino di dodici anni. Aggiungo: e anche come se stesse parlando a una persona chiusa in carcere o in ospedale o in una Rsa. Ora collaboro da parecchio con La Nave, il reparto di San Vittore fondato vent’anni fa da Luigi Pagano e Graziella Bertelli dove sono rinchiusi detenuti dipendenti da sostanze o da alcol, quelli che in carcere dovrebbero starci meno di tutti, perché sono malati. È un reparto dove i detenuti possono partecipare ad attività come la redazione del giornale L’Oblò, il Coro, i corsi di educazioni alla legalità. È al quarto piano del Terzo Raggio ed è identico agli altri in quanto a sovraffollamento, salvo che rispetto al disastro totale del Sesto Raggio era stato ristrutturato vent’anni fa, come il Quinto. Il Secondo e il Quarto Raggio sono inagibili, il Primo serve da ingresso. Il Terzo Raggio è comunque umido, sporco e squallido come gli altri, ma almeno ci sono le attività. Nonostante questo, anche un ragazzo della Nave, Riccardo, l’estate scorsa si è tolto la vita. Quest’anno, e siamo ancora a novembre, i suicidi a San Vittore sono stati quattro, come nella Casa Circondariale di Foggia: più che in ogni altro carcere italiano. L’Italia è il paese che quest’anno ha avuto il maggior numero di suicidi in carcere di sempre: settantaquattro, fin qui. In carcere ci si uccide venti volte più che fuori: e negli ultimi dieci anni si sono tolti la vita ben cento agenti penitenziari. Oggi sono stata al funerale di Gianluca, in zona San Siro. Anche lui era malato di dipendenza e stava alla Nave. Si è ucciso poco dopo esserne uscito. Prima della pandemia io cantavo nel Coro, perché le voci femminili nei cori servono sempre, persino quelle stonate come la mia. Col gruppo di cui faccio parte, L’Associazione Amici della Nave, ho fatto anche parecchi incontri pubblici con detenuti ed ex detenuti: nelle scuole, in Triennale, alla Caritas. Alcuni di loro sono usciti e uno, Manolo, è morto in un incidente stradale dopo mesi di coma. La maggior parte invece è ancora dentro, magari in altre carceri. Ho conosciuto bravi direttori come Lucia Castellano, l’ex direttrice di Bollate che ora lavora al Ministero della Giustizia, Luigi Pagano che ha diretto per quindici anni San Vittore dopo Pianosa, Nuoro, Asinara, Alghero, Piacenza, Brescia e Taranto ed è stato vicecapo del Dap, uno che se in politica ne capissero di carcere e non fossero cattivi l’avrebbero nominato Ministro della Giustizia da tempo, perché ne sa più di tutti, ed è una persona di rara onestà intellettuale e umana. Grazie al cielo lo è anche anche Giacinto Siciliano, l’attuale direttore di San Vittore. Un paio di detenuti in semilibertà sono venuti a trovarmi a casa. Di altri di loro ho letto libri interessanti, come quello di Marcello Ghiringhelli, ex brigatista, o di Tino Stefanini. Tutto questo lo racconto per spiegare che un po’ di carcere ne so: ci sarò entrata cinquanta volte, forse cento. Il rito è sempre quello. Lasci i documenti in portineria, prendi le chiavi dell’armadietto dove chiuderai il cellulare, passi il metal detector, entri e passi nove cancelli. Dopo le rivolte del 2020, ne hanno installati altri qua e là per “spezzare” ulteriormente alcuni corridoi. Tra gli agenti di polizia penitenziaria (non chiamateli secondini), gente che soffre il carcere insieme ai detenuti, c’è gente brava e gente pessima. I pessimi sono ovviamente ingiustificabili, ma non mi sfugge che c’è gente che si comporta in modo inqualificabile anche in posti meno orribili e malsani, e con stipendi assai migliori. Il carcere è così: un posto brutto e pieno di gente che sta male. In più, è un posto inutile. La possibilità del reinserimento sta solo, in rarissimi casi, nella relazione che può crearsi tra un detenuto o una detenuta e qualcuno di fuori, educatore, psicologo, volontario, direttore, medico, magistrato di sorveglianza (può succedere) col quale si instaura un rapporto di fiducia che non si può tradire. Non chiedetemi “e allora i mafiosi gli assassini i pericoli pubblici dove li mettiamo” perché non lo so. Quel che so è che la maggior parte delle persone che sono in carcere, soprattutto nelle case circondariali, non ci dovrebbe stare, e non serve a niente che ci stia: la loro detenzione è solo una vendetta sociale, un dolore, uno spreco, una fatica, un’esperienza devastante per loro e le loro famiglie e per le famiglie di quelli che devono tenerli in custodia, oltre che un costo a fondo perduto per lo Stato e per noi. Molto spesso, per chi ci entra da giovane, è anche il posto dove si impara a delinquere sul serio, come ha scritto Tino Stefanini. Torniamo al nove marzo del 2020, quando noi là fuori, noi liberi, avevamo appena saputo che avremmo dovuto rinchiuderci perché c’era un virus arrivato dalla Cina che stava ammazzando la gente. Ricordate come stavamo, e che paura avevamo? Anche se potevamo cercare le notizie sul web, parlare coi nostri parenti e i nostri amici, telefonargli. Quelli di noi che vivevano da soli potevano comunque uscire a far la spesa, andare in farmacia, correre, portare fuori il cane. In carcere, invece, stavano tutti chiusi dentro le loro celle sovraffollate. I colloqui, i corsi, le attività di ogni tipo erano state sospese. Soprattutto: non si capiva niente. I detenuti sapevano solo, dalla televisione, che non era certo tranquillizzante, che c’era in circolazione questo virus invisibile e che tutto stava chiudendo. Loro, a differenza di noi, non potevano in nessun modo proteggersi, mentre gli agenti, naturalmente, continuavano a entrare e uscire e il virus poteva arrivare dentro in ogni momento e infierire. E chissà intanto cosa stava succedendo ai loro familiari, là fuori. E cosa sarebbe successo ai loro processi e a tutti i procedimenti penali in corso. Il 9 marzo 2020, dal primo piano del Terzo Raggio-Tentacolo di San Vittore, per la paura, l’ansia, lo stress, la disperazione, la mancanza di notizie, che si sommavano a una condizione già stressata e in molti casi disperata, qualcuno ha cominciato a perdere la testa. È iniziata una protesta che in poco tempo è arrivata all’ultimo piano, quello della Nave. Alcuni detenuti sono usciti dalle finestre e sono saliti sul tetto urlando. Dal primo all’ultimo piano avevano distrutto mobili e incendiato carta e materassi. Mentre succedeva tutto questo io ero lì, perché da casa mia si sentono le urla che partono dal Terzo Raggio e appena le ho sentite sono corsa in piazzale Aquileia. C’era un’atmosfera surreale, tesa, di pericolo. Avrei voluto dare una mano e ho scritto al direttore Siciliano un messaggio ingenuo: “Se posso servire sono qui fuori” perché immaginavo che tra quei detenuti che protestavano ce ne fossero alcuni che conoscevo. Il direttore non mi ha mai risposto, ovviamente. In piazzale Aquileia c’era anche un giornalista mio amico, il maestro del Coro, Paolo Foschini, e abbiamo deciso di girare un video su quel che stava succedendo. Nel video ho detto quel che pensavo: “Abbiamo paura anche noi. Provate a immaginare che paura possano avere, lì dentro, bla bla bla…” E terminavo dicendo: “Servono misure alternative”. Dietro di me si sentivano le grida e si vedevano i detenuti sul tetto protestare con le braccia alzate. Il video quel giorno è stato caricato sul sito del Corriere, e i commentatori mi hanno coperta di insulti, fatto che non mi ha stupita e nemmeno ferita: so come vanno le cose col carcere. Il carcere lo odiano tutti. Alcuni amano il carcere degli altri, per così dire. Quando sono stata per un anno e mezzo direttrice di Rai Tre ho deciso di produrre un programma che si chiamava Sono innocente: storie di persone che finiscono in carcere innocenti. Sono tante. Fin qui, la gente ci sta anche, a sentir parlare di carcere. Anche se tutti pensano “A me non potrebbe mai capitare”. Come col cancro, o con gli incidenti stradali. Ma non è così: può capitare eccome, a tutti. Può capitare di finire in carcere innocenti, può capitare di morirci, sotto custodia: in carcere, in caserma, in ospedale. In carcere succedono anche cose che ci sembrano incredibili, come nel caso delle immagini di Santa Maria Capua Venere mostrate da Nello Trocchia sul sito di Domani il 30 giugno dell’anno scorso: detenuti picchiati, insultati, umiliati da chi dovrebbe averne cura. Pestaggio di Stato, il suo libro appena uscito per Laterza, racconta tutta la storia di quel trattamento alla Diaz per il quale i deputati di Fratelli d’Italia a giugno 2020 hanno chiesto un “encomio solenne al corpo di polizia penitenziaria che ha dimostrato di possedere spiccate qualità professionali e di non comune determinazione”. Il primo firmatario era Andrea Delmastro Delle Vedove, oggi fresco sottosegretario alla Giustizia. E poi ci sono i morti. I tredici morti di marzo 2020. Nelle rivolte di San Vittore per fortuna non morì nessuno, ma nelle altre, scoppiate in ventuno diversi istituti, sono morti tredici detenuti. Ufficialmente la causa della morte è stata overdose da metadone rubato in infermeria. Nove morti riguardano la Casa Circondariale Sant’Anna di Modena. Altri tre detenuti sono morti a Rieti e uno a Bologna. Una strage inaudita e inammissibile che agli occhi dell’opinione pubblica è passata quasi inosservata, come se fosse stata un effetto collaterale della pandemia. Sono morti Marco Boattini di 40 anni, Ante Culic, di 41, Carlos Samir Perez Alvarez di 28, Haitem Kedri di 29, Hafedh Chouchane di 37, Erial Ahmadi di 36, Slim Agrebi di 40, Ali Bakili di 52, Lofti Ben Mesmia di 40, Abdellah Rouan di 34, Artur Iuzu di 42, Ghazi Hadidi di 36, Salvatore Cuono Piscitelli di 40. Salvatore Piscitelli era dipendente da quando era ragazzino. Era nato ad Acerra, un comune tra Napoli e Caserta, cresciuto con la nonna perché i suoi erano morti quando aveva meno di un anno. Era finito alla Casa Circondariale Sant’Anna di Modena per aver usato una carta di credito rubata. Sul suo caso, come su altri, ci sono molte testimonianze ed esposti di altri detenuti che parlano non solo di omissione di soccorso ma proprio di feroci pestaggi. Molti tra i morti sono stati cremati “per via del covid”. Molti procedimenti sono stati archiviati. Gian Luca, il ragazzo che si è tolto la vita appena uscito da La Nave, aveva scritto poco prima di andarsene un articolo per L’Oblò sul suo luogo del cuore. Diceva che era Monte Stella, la Montagnetta di San Siro, dove aveva trascorso l’adolescenza coi suoi amici e dove aveva “tanti bellissimi ricordi: le partite di calcio, le prime fidanzatine”, e dove “i giorni passavano leggeri e non immaginavo che un giorno sarei stato inghiottito dalla tossicodipendenza fino a entrare in carcere”. Ho lasciato il funerale prima che finisse per passare dal Monte Stella, il posto preferito di Gian Luca. Era proprio a pochi passi dalla chiesa. Spangher: “Ha ragione Nordio, giusto rinviare la riforma Cartabia” di Antonio Alizzi Il Dubbio, 21 novembre 2022 Il professore emerito di diritto processuale condivide la scelta del ministro: “Magistratura e avvocatura non erano preparate”. Il rinvio dell’entrata in vigore della Riforma Cartabia è stato il tema centrale del convegno organizzato dalla Camera Penale di Cosenza nella sala della Biblioteca del Palazzo di Giustizia bruzio, al quale ha partecipato, tra gli altri, il professore Giorgio Spangher, docente emerito di diritto processuale penale all’Università “La Sapienza” di Roma. Spangher ha spiegato le ragioni della mancata applicazione della legge che riforma il procedimento (e il processo) penale, voluta dall’ex Guardasigilli del Governo Draghi, trovandosi d’accordo con il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Né la magistratura né l’avvocatura erano preparati a tali cambiamenti. “Direi che è stato opportuno rinviare la riforma Cartabia, perché questa legge, entrata in vigore un po’ all’improvviso, non permetteva in quella fase né all’avvocatura né alla magistratura di conoscere i meccanismi processuali. C’erano e ci sono problemi organizzativi e anche incertezza sulle norme da applicare” ha dichiarato il professore Spangher. “Il rinvio, secondo me, era necessario ed è necessario, anche perché è opportuno completare il regime transitorio, visto che non è ancora chiaro quali norme si applicheranno oppure no, e in quali termini, dal 1 gennaio 2023”. “Naturalmente il timore da parte di qualcuno è che il rinvio possa portare all’introduzione di nuove norme e in quel caso bisogna vedere di che tipo, ma qualcosa va rivisto sicuramente. Non uno stravolgimento, ma qualche correttivo per rendere le norme più garantiste ed efficienti”. Il caso Lamezia Terme - Il professore Spangher ha dato il suo giudizio anche sul provvedimento emesso nei giorni scorsi dal gup del tribunale di Lamezia Terme, a seguito di una questione affrontata in udienza preliminare da tre avvocati del foro di Cosenza. “Quello che è avvenuto a Lamezia Terme, oltre ad essere indicativo di ciò che dicevo prima, è anche giusto, perché nel periodo di vacatio legis non si possono applicare le norme che avranno effetto successivo, non posso applicare prima una norma che avrà efficacia dopo, quindi secondo me l’iniziativa del giudice di Lamezia Terme è stata corretta, ha sbagliato invece per alcuni versi il giudice di Siena che ha sollevato una questione di legittimità costituzionale e quell’imputato che poteva aver diritto dal 1 gennaio 2003 di ottenere un proscioglimento dovrà aspettare la decisione della Corte Costituzionale. Naturalmente lì c’è un problema di natura politica per cui si è voluto polemizzare da parte del magistrato con il provvedimento d’urgenza cioè con il decreto-legge assunto dal governo”. L’emergenza carceri - È un periodo molto difficile per chi vive in carcere. Oltre 70 suicidi dall’inizio dell’anno, motivo per il quale il Dubbio ha inteso avviare una campagna di sensibilizzazione che sta riscuotendo enorme successo nell’opinione pubblica. Ecco il pensiero del professore Spangher: “Questo è un discorso molto serio, noi purtroppo abbiamo delle strutture penitenziarie fatiscenti e naturalmente un affollamento penitenziario. In tal senso, non è bastata la legge svuota carceri perché le carceri sono ugualmente piene e il discorso dei cosiddetti “liberi sospesi” non è un problema che può risolvere le questioni. Abbiamo bisogno - ha affermato Spangher - di personale all’interno delle carceri anche per l’aiuto psicologico, perché dobbiamo garantire ai detenuti anche i contatti con la famiglia e le possibilità delle comunicazioni. In Italia purtroppo abbiamo un problema, quello della criminalità organizzata, che è una specie di cancro che coinvolge il processo e carceri e sulla base di questo dato è chiaro che le misure restrittive del carcere sono particolarmente stringenti. Il sospetto da parte degli agenti di polizia penitenziaria è che ci siano queste collusioni e questo determina una restrizione dei diritti nei confronti di tutti i detenuti delle carceri”, ha concluso Spangher. Più garanzie per l’indagato. Cautele nell’iscrizione al registro delle notizie di reato di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 21 novembre 2022 Le novità sono state introdotte dal decreto legislativo di riforma del processo penale. Iscrizione al registro delle notizie di reato con maggiori garanzie per l’indagato. L’ art 15 del decreto 10 ottobre 2022, n. 150 in attuazione della legge 27 settembre 2021, n 134, recante delega al governo per l’efficienza del processo penale, la giustizia riparativa disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, modifica radicalmente l’art 335 cpp dedicato nella previgente disciplina alla regolamentazione del funzionamento del registro delle notizie di reato. Il decreto di riforma aumenta, con l’evidente fine di garanzia dell’indagato, le disposizioni dedicate alla fase iniziale del procedimento penale, ampliando il contenuto dell’art. 335 cpp ed inserendo nel corpo del codice di procedura penale gli art. 335 bis, 335 ter e 335 quater. Al comma 1 dell’art 335 cpp viene aggiunta un ulteriore disposizione riguardante il contenuto materiale dell’atto tramite il quale si procede all’iscrizione. Esso deve in ogni caso contenere la descrizione di un fatto verosimile, determinato e corrispondente ad una fattispecie di reato, e vi dovranno inoltre essere descritte le circostanze di luogo e di tempo che hanno caratterizzato la condotta illecita. Ulteriore aspetto di rilievo riguarda le modalità d’iscrizione di un nominativo nel registro delle notizie di reato. Il comma 1 bis del nuovo art 335 cpp prevede che ad una iscrizione potrà essere dato corso nella sola ipotesi in cui emergano indizi circa la responsabilità penale dell’indagato. Di pari interesse e di forte carattere innovativo ed anch’essa come le precedenti improntata a una finalità di tutela dell’indagato, va la disposizione contenuta nel successivo articolo 335 bis. La norma, in considerazione del carattere meramente temporaneo dell’iscrizione del nominativo di una persona nel registro delle notizie e dell’assenza di prove definitive circa la sua effettiva responsabilità, esclude che da tale atto preparatorio derivino nei suoi confronti effetti pregiudizievoli di carattere civile od amministrativo. Volta invece ad una più efficace valutazione della situazione di fatto è la disposizione contenuta nel successivo art. 335 ter che riguarda l’intervento del giudice delle indagini preliminari nella fase iniziale del procedimento. A tale organo viene attribuita la facoltà di ordinare al Pm di procedere all’iscrizione di un nominativo all’interno del registro delle notizie di reato. Precisa infatti l’art. 335 bis cpp come nel caso in cui tale adempimento si renda necessario ai fini del compimento di un atto del procedimento penale il giudice per le indagini preliminare possa, tramite decreto motivato, ordinare al Pm di procedere all’iscrizione. Sarà poi onere del Pm in tale caso indicare la data in cui le indagini abbiano avuto inizio. Ulteriore aspetto innovativo è quello previsto dall’art 335 quater che riguarda invece la facoltà per l’indagato di richiedere al giudice la tempestività dell’iscrizione a suo carico nel registro delle notizie di reato e di presentare, qualora la circostanze di fatto lo rendano necessaria, una istanza di retrodatazione della stessa. Essa dovrà essere accompagnata dalle ragioni che la sorreggono e dai documenti dai quali è stato desunto il ritardo. La richiesta di retrodatazione deve essere presentata entro il termine di 20 giorni dal momento in cui la parte interessata abbia avuto la possibilità di accedere agli atti dai quali è stato desunto il ritardo. Diritti dell’uomo intaccati. La sentenza è contestabile di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 21 novembre 2022 Con la riforma del processo penale possibile l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle sentenze emesse in violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. L’art 36, dlgs 150/2022 inserisce nel cpp l’art. 628 bis che prevede una facoltà di ricorso in Cassazione per coloro che siano stati condannati o sottoposti a misura di sicurezza a seguito di un provvedimento giurisdizionale di un giudice italiano che sia stato, da una sentenza definitiva della Corte di giustizia Ue, riconosciuto come lesivo del contenuto della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. All’eliminazione degli effetti del provvedimento nazionale potrà tuttavia essere dato corso nella sola ipotesi in cui sia stato accertato che la violazione della normativa europea abbia avuto effettiva incidenza nel contenuto del provvedimento giurisdizionale oggetto del ricorso. Sul versante dell’impugnazione di una sentenza penale per i soli capi civili, l’art. 34 del decreto prevede nel caso in cui sia stato proposto appello ovvero ricorso per cassazione attraverso un atto introduttivo ritenuto comunque ammissibile da parte del giudice possa essere disposta la prosecuzione del procedimento innanzi al giudice civile od alle sezioni civili competenti e come in tale sede possano essere utilizzate le prove raccolte nel precedente giudizio civile o penale. Ristretta altresì la facoltà di proporre appello nei confronti delle sentenze di condanna infatti se nella previgente disciplina il comma 3 dell’art. 593 cpp escludeva la facoltà di dare corso alla seconda fase di giudizio nel caso di sentenze di condanna che applicavano la sanzione dell’ammenda, a seguito dell’entrata in vigore della riforma l’appello non sarà più possibile anche nei confronti di una sentenza di condanna che applica la misura del lavoro sostitutivo di pubblica utilità. Leggermente diversa anche la disciplina della rescissione del giudicato se l’art. 629 bis cpp nella sua versione precedente alla riforma prevedeva la possibilità di darvi corso solo qualora l’imputato abbia dato prova che la mancata partecipazione al processo sia dipesa da un’ignoranza incolpevole circa la pendenza della procedura. Con l’entrata in vigore invece delle nuove norme la procedura di rescissione non potrà avere corso nel caso in cui venga data la prova che l’imputato era comunque a conoscenza della pendenza di una procedura a suo carico. Prevista inoltre nel procedimento di appello la possibilità di un’udienza priva della partecipazione delle parti che darà luogo ad una sentenza da depositarsi nella cancelleria del giudice che ne è l’autore. A tutela comunque del diritto di difesa delle parti viene prevista la facoltà di potere presentare un’istanza al fine di potere partecipare all’udienza. Trento. “Il carcere di Spini? Struttura sovraffollata e mancano 40 agenti” Il Dubbio, 21 novembre 2022 Lo dice Mario Cossali, presidente di Anpi Trentino, commentando la statistica nazionale curata dal Centro studi di Ristretti Orizzonti: dal 2000 al 2022 nelle carceri italiane ci sono stati 1.301 suicidi su un totale di 3.482 morti. “Anche nel carcere di Trento la situazione è preoccupante: non sono mancate le morti, i tentati suicidi, gli atti di autolesionismo, persone ferite, colluttazioni. Nel carcere di Spini ci sarebbe posto solo per 240 detenuti ma invece ce ne sono 343. In una struttura sovraffollata mancano pure 40 unità nel personale”. Lo dice Mario Cossali, presidente di Anpi Trentino, commentando la statistica nazionale curata dal Centro studi di Ristretti Orizzonti: dal 2000 al 2022 nelle carceri italiane ci sono stati 1.301 suicidi su un totale di 3.482 morti. “Ancora una volta dobbiamo rifarci alla Costituzione e al suo preciso dettato, per cambiare la condizione carceraria e la cultura che la sottende - aggiunge Cossali. Voltaire parlava di grado di civiltà, noi dobbiamo parlare del grado della democrazia nella quale viviamo. Non possiamo dimenticarci di questa questione fondamentale. Non si possono aspettare altre rivolte, altre morti, anche a Trento per intervenire”. Siracusa. Mercoledì il dibattito “Costruire la giustizia riparativa tra tribunale e comunità” siracusanews.it, 21 novembre 2022 A parlare di esperienze di giustizia riparativa e prospettive di applicazione nel territorio, alla luce della riforma Cartabia, saranno Tommaso Pagano e Giovanni Faraone. “Costruire la giustizia riparativa tra tribunale e comunità”. Di questo si parlerà mercoledì 23 novembre, nella sede dell’Area Marina protetta del Plemmirio, sala Ferruzza-Romano, all’interno del comprensorio Castello Maniace. A discutere di esperienze di giustizia riparativa e prospettive di applicazione nel territorio, alla luce della riforma Cartabia, saranno: Tommaso Pagano, sostituto procuratore a Siracusa, e Giovanni Faraone, avvocato del Foro dell’Aquila, mediatore penale. Interverrà Dominic Barter, esperto internazionale di progetti di giustizia riparativa. Bergamo. L’incontro col genitore detenuto aiuta a ricostruire i legami familiari e fa prevenzione bergamonews.it, 21 novembre 2022 Lo Spazio Giallo nel carcere di Bergamo è un progetto dell’associazione ‘Bambinisenzasbarre’, finanziato dalla Fondazione della Comunità Bergamasca - Il Presidente Ranica: “Un richiamo alla corresponsabilità sociale”. “Basta un disegno, un colore, un tavolo alla sua altezza e il bambino capisce. Sente che quel luogo estraneo non lo è completamente e si accorge che altri bambini ci passano. Nel tempo, si dirige spontaneamente verso quell’ambiente, perché sa che esiste”. Lia Sacerdote è presidente dell’associazione ‘Bambinisenzasbarre’, che da vent’anni si prende cura delle relazioni familiari tra minori e genitori detenuti con interventi ed iniziative che interessano il ‘dentro’ e il ‘fuori’ dal carcere, spaziando (solo per citarne alcuni) dalla formazione della Polizia Penitenziaria al Telefono Giallo (consulenza telefonica per famiglie e operatori), dai gruppi di parola dedicati alle madri e ai padri detenuti al monitoraggio dell’applicazione della Convenzione dei Diritti dell’Infanzia e Adolescenza. L’ambiente descritto dalle parole della Presidente è quello dello Spazio Giallo nel carcere di Bergamo (18 in tutta Italia, da nord a sud), presente anche grazie al contributo della Fondazione della Comunità Bergamasca. Qui il bambino, il preadolescente e l’adolescente incontrano operatori specializzati, che con professionalità li accompagnano nel ‘prima’ e nel ‘dopo incontro’ con il papà detenuto (nella maggior parte dei casi), allo stesso tempo intercettando le fragilità del nucleo familiare e offrendo consulenza alle madri libere. Su un aspetto occorre fare chiarezza: “Noi non intratteniamo i bambini e i ragazzi. C’è quest’idea di dover distrarli, in realtà in questi momenti hanno tanto bisogno di silenzio. Quando stanno per entrare, sono in ansia e molto nervosi. Hanno bisogno di essere accolti e contenuti. Il nostro Spazio è un luogo di preparazione all’incontro con il genitore detenuto, dove far decantare le conseguenze emotive della separazione dopo il colloquio. Mi capita di vedere le madri che ‘portano’ i figli dentro e fuori dalla stanza dei colloqui, trascinandoli via. Ma ci sono bambini che vogliono fermarsi ancora un po’, devono prepararsi ad uscire, nella loro testa sono ancora con i loro papà e nello Spazio Giallo trovano un luogo di compensazione. Noi non facciamo domande, anche questa è una forma di rispetto. Non mi dimenticherò mai di quel ragazzo che aveva la mamma in carcere e, dopo averla incontrata, era come se fosse tornato piccolo”. Il pensiero di avere un genitore in un ambiente che non si conosce, che non si può visitare, di cui si parla con difficoltà, blocca. È un dato ormai consolidato che il 30% dei figli di genitori in carcere è destinato a ripetere l’esperienza detentiva del genitore: in tal senso gli adolescenti sono il gruppo più vulnerabile e maggiormente a rischio di dispersione scolastica e di comportamenti devianti. Lo Spazio Giallo si pone, dunque, come intervento di prevenzione sociale e di contrasto alla povertà educativa. Possiamo immaginare la ricaduta di una detenzione su una famiglia, “prigioniera quanto la persona che è detenuta, se non di più, senza la possibilità di condividere le proprie preoccupazioni sul territorio”. Ma c’è dell’altro. Se l’incontro col carcere passa attraverso un’esperienza di rispetto della persona e dei suoi diritti umani, può diventare per il bambino un incontro con la legalità. “In quel momento, l’istituzione-carcere è lo Stato. Come associazione, crediamo che sia una falsa protezione quella di non portare in carcere i bambini. La lontananza dal genitore detenuto rischia di incatenare il figlio, identificandolo al suo mito (il papà), mentre i colloqui regolari sono uno strumento di protezione, che non consentiranno a quel bambino di diventare un soggetto a rischio”, coltivando il rapporto col genitore, ma scegliendo stili di vita differenti, in una relazione che privilegia solo gli aspetti affettivi, che prescindono dal reato commesso dal genitore. “Io dico sempre, anche agli agenti di polizia penitenziaria che hanno un ruolo cruciale, che abbiamo sempre un bambino che ci osserva in tutte le cose che facciamo. Che vede, che sente, anche se noi non ce ne accorgiamo. Ecco, se noi facessimo nostro questo principio sempre, forse ogni giorno saremmo più attenti ovunque e, anche tra adulti, ci tratteremmo con rispetto”, continua la presidente Sacerdote. In questo spazio di parola, in cui ci si prende la libertà e il tempo anche solo di guardarsi negli occhi senza dire nulla, in cui si prova a ricucire lentamente i fili strappati di un rapporto, riecheggia la potenza della mediazione penale e dell’autorevole voce in materia di giustizia riparativa di Jacqueline Morineau, un modello per Sacerdote. “In carcere è possibile assicurare il rispetto dei diritti del bambino e di quelli dell’adulto, ed è nel coniugare i diritti di entrambi che accade qualcosa”, ancora Sacerdote, ricordando che nel 2021 è stata rinnovata la Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti (per 4 anni), il Protocollo d’intesa nazionale - sottoscritto dal Ministero della Giustizia, dall’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e da Bambinisenzasbarre - che è il primo documento in Europa che riconosce formalmente i bisogni di questo gruppo vulnerabile di bambini, trasformandoli in diritti. “Lo Spazio Giallo è un forte richiamo alla corresponsabilità sociale”, ha commentato Osvaldo Ranica, Presidente della Fondazione della Comunità Bergamasca, “ed è l’occasione per allargare lo sguardo e comprendervi le famiglie delle detenute e dei detenuti: i figli, i coniugi, i genitori, che non devono essere ingiustamente discriminati per qualcosa che non hanno commesso. Sappiamo che il tema del carcere genera qualche resistenza, ma possiamo cominciare a cambiare la nostra prospettiva dalla cura delle relazioni e dai diritti dei più piccoli”. Il dolore dei ragazzi, parlare con loro di suicidio abbassa i rischi di Matteo Lancini* La Repubblica, 21 novembre 2022 I dati dell’Unicef, diffusi in occasione della Giornata mondiale dedicata all’infanzia e dell’adolescenza, confermano l’emergenza. I consigli dell’esperto. La pandemia ha esacerbato una sofferenza adolescenziale già presente precedentemente. Gli attacchi al corpo, come il disturbo della condotta alimentare, il ritiro sociale e i gesti autolesivi rappresentano già da diverso tempo la modalità elettiva attraverso la quale i ragazzi e le ragazze, nati nel nuovo millennio, esprimono il proprio disagio. I dati diffusi dall’Unicef, in occasione della Giornata mondiale dedicata all’infanzia e dell’adolescenza, confermano come il dolore evolutivo giovanile, se non espresso, se non trasformato in parole, diventa azione, gesto eclatante, sempre più spesso rivolto verso di sé. Nel mondo quasi 46.000 adolescenti muoiono a causa di suicidio ogni anno - più di uno ogni 11 minuti. La maggior parte delle 800.000 persone che muoiono per suicidio ogni anno sono giovani e questa è la quinta causa di morte tra i 15 e i 19 anni. L’attacco al corpo - Il suicidio è la forma più drammatica di attacco al corpo, la soluzione ricercata per mettere a tacere un dolore mentale che non trova canali comunicativi, che non riesce a essere dichiarato, narrato, riferito. Eppure sappiamo che ogni azione in adolescenza, ogni sintomo, anche l’attacco più drammatico al proprio corpo, contiene in sé un intento comunicativo. Ogni madre, padre, insegnante, educatore dovrebbe tenere a mente questo concetto ed essere pronto a intercettare il dolore muto di adolescenti che sempre più frequentemente attaccano sé stessi. Gli adolescenti odierni non sono più trasgressivi, sempre più raramente si oppongono alle figure adulte, quasi mai le temono. Se non si riferiscono agli adulti è perché temono di deluderli, li percepiscono come troppo fragili, incapaci di farsi carico seriamente e autorevolmente di cosa accade loro, di cosa provano, vivono in una società sempre più individualista e competitiva. La famiglia attuale ascolta molto di più di quanto fossimo ascoltati noi e di quanto fossero ascoltate le generazioni dei nostri padri, ma non riesce a sentire davvero cosa hanno da dire i propri figli, riducendo la complessità ad assenza di motivazione e distrazione da device e internet. La scuola sbagliata - La scuola punta troppo sul controllo, la privazione e la valutazione numerica, contribuendo a una diaspora di adolescenti da scuola, senza precedenti. Le istituzioni politiche si concentrano spesso sull’incoscienza e dissennatezza generazionale. La sera, a tavola, bisognerebbe avere il coraggio di chiedere ai figli se pensano al suicidio, la mattina in classe si dovrebbe parlare della morte, che può essere pensata anche come soluzione, e comunque come avvenimento indistricabilmente connesso alla nascita e alla vita, le istituzioni dovrebbero realizzare campagne serie di prevenzione al suicidio giovanile. Lo stigma - Oggi, più che mai, non bisogna aver paura di affrontare il suicidio. Il tema è troppo angosciante e si preferisce così pensare che è meglio non nominarlo, sostenendo che parlare della morte volontaria rappresenterebbe un fattore di rischio, un’istigazione a pensare al suicidio e a compiere il gesto. In realtà, è esattamente il contrario. Parlare del suicidio con gli adolescenti abbassa il rischio. Dobbiamo offrire occasioni agli adolescenti per potere affrontare il tema con i propri adulti di riferimento. Altrimenti la tentazione della morte volontaria, coltivata nella solitudine della propria mente e della propria stanza collegata a internet, può trasformarsi da idea a progetto, fino a diventare un tentativo di suicidio. *Matteo Lancini è psicologo e psicoterapeuta, presidente della Fondazione Minotauro di Milano e docente all’università di Milano-Bicocca e alla Cattolica Migranti, sbarchi continui e rimpatri impossibili: Piantedosi batte cassa alla Ue di Alessandra Ziniti La Repubblica, 21 novembre 2022 Dei 49.500 immigrati economici arrivati nel 2022, solo 2.853 sono effettivamente rientrati in patria. Il 25 novembre vertice dei ministri dell’Interno a Bruxelles: il governo chiederà aiuti economici e il rispetto dell’accordo sulla quota di redistribuzione. Gli ultimi duecento egiziani sono approdati in Sicilia la notte scorsa salvati dalle motovedette italiane in una rocambolesca operazione di soccorso dell’ennesimo peschereccio fatto partire dai trafficanti della Cirenaica con circa 500 persone a bordo, per lo più siriani ed egiziani. Smistati poi in tre porti, Catania, Messina, Augusta per non caricare ulteriormente hotspot e centri di prima accoglienza già sovraccarichi per le difficoltà che incontra il Viminale nel redistribuire chi arriva nelle strutture del centro e nord Italia, dove sindaci e prefetti faticano a trovare posti disponibili. Ma la vera spina nel fianco del governo Meloni, più che i numeri degli arrivi, sono le caratteristiche delle persone che sbarcano: più della metà sono i cosiddetti migranti economici, persone che arrivano da Paesi le cui condizioni non prefigurano (a meno di storie particolari) i requisiti per ottenere lo status di rifugiato. E dunque sono da espellere e (teoricamente) da rimpatriare. Il confronto tra due numeri, almeno 49.500 i migranti economici sbarcati quest’ anno, e 2.853, quelli effettivamente rimpatriati, fotografano la situazione che venerdì il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi calerà sul tavolo della trattativa con la Commissione Ue per cercare di convincere l’Europa che l’Italia non solo sopporta il peso degli sbarchi e della prima accoglienza ma anche quello della gestione e dei rimpatri pressocché impossibili vista la mancanza di accordi con i Paesi di origine e le resistenze a collaborare dei pochi che riammettono i migranti espulsi. Per questo, oltre a proporre l’esportazione del modello italiano di corridoi umanitari e l’adozione di un meccanismo condiviso in Europa di quote di flussi legali da offrire ai Paesi di origine che si mostrano collaborativi, Piantedosi chiederà che vengano resi effettivi gli impegni di redistribuzione siglati a giugno (anche per i migranti economici) e che l’Italia venga assistita, finanziariamente ma anche fattivamente, nei rimpatri di chi non ottiene la protezione internazionale. Basta guardare le nazionalità delle persone sbarcate nel 2022 in Italia per aver chiaro il quadro: 49.500 degli oltre 93.000 approdati sono sulla carta migranti economici, egiziani (19.113), tunisini (17.295), bangladesi (13.049). Persone che spesso non presentano neanche richiesta di asilo dando per scontato il diniego e sperano di ottenere il semplice foglio di via che li obbliga (sempre in teoria) a lasciare l’Italia entro sette giorni. Chi invece prova a chiedere protezione internazionale, si assicura un’accoglienza temporanea ma poi (6 volte su 10) viene respinto dalle commissioni. Il che non vuol dire affatto che venga rimandato indietro. Pur avendo accordi di rimpatrio con due dei tre Paesi in cima alla classifica delle nazionalità di chi sbarca, Tunisia ed Egitto, le riammissioni effettive sono una percentuale minima. Ancora qualche numero a confronto: nel 2022 a fronte di oltre 17.000 tunisini arrivati, ne sono stati rimandati a casa 1.694, ed è l’accordo che (con uno o due voli a settimana) funziona meglio. Di egiziani ne sono arrivati più di 19.000 e rimpatriati solo 226 mentre nessuno degli oltre 13.000 bangladesi rientra nelle possibili riammissioni visto che l’Italia non ha alcun accordo con il Bangladesh. Il governo dunque pensa di andare a battere cassa in Europa cominciando a chiedere ai Paesi che hanno sottoscritto l’accordo di redistribuzione di giugno, garantendo aiuto nei rimpatri, di renderlo effettivo. Anche perché l’Italia non saprebbe neanche dove ospitarli i migranti da respingere: i 10 CPR (centri per il rimpatrio) aperti hanno solo 1.100 posti, per altro in condizioni quasi sempre indecorose, riervati per lo più a chi è espulso perché giudicato pericoloso o ha una condanna. Tutti gli altri vanno ad allungare le fila dell’esercito degli invisibili. Il muro orientale dell’Europa. In Polonia i migranti vanno bene solo se sono bianchi di Bartosz T. Wieli?ski* L’Espresso, 21 novembre 2022 Varsavia ha subito la pressione migratoria dall’Ucraina e quella (pilotata) dalla Bielorussia. Decidendo chi accogliere in base all’etnia senza preoccuparsi di negare i diritti umani. Ma anche qui, come nel Mediterraneo, c’è chi si oppone. Inizio marzo 2022. Przemy?l, città di 60.000 abitanti al confine con l’Ucraina. Ad una settimana dall’inizio dell’aggressione russa, decine di migliaia di rifugiati, donne e bambini, si dirigono verso la città. Gli ucraini fuggono dall’esercito russo soprattutto verso la Polonia. Nei primi giorni di guerra, fino a 140.000 persone attraversano il confine ogni giorno. I polacchi al confine e in città fanno del loro meglio per aiutarli, per dare loro cibo, vestiti e riparo. Ma la generosità dei miei compatrioti non si limita a Przemy?l: la società civile è mobilitata in tutto il Paese. La grande azione a sostegno dei rifugiati è stata paragonata ai primi mesi di Solidarnoz, il grande movimento civico degli anni Ottanta che ha rovesciato pacificamente il comunismo. Ma c’è qualcosa che non gira in questo ingranaggio meravigliosamente scatenato. Non forte, certo, ma evidente: i bianchi sono favoriti alla frontiera. Attivisti e giornalisti lanciano l’allarme sulla difficoltà per i rifugiati di altri colori di pelle di arrivare in Polonia e ricevere aiuto. Tra questi, studenti provenienti da India, Pakistan e Paesi africani che hanno studiato nelle università ucraine. Nel settimo anno del governo polacco dei nazionalisti di Diritto e Giustizia (PiS) le persone con pelle di altri colori vengono percepite come una minaccia da una parte della popolazione. Improvvisamente, attivisti di estrema destra e hooligan si sono riversati a Przemy?l per difendere la città da una presunta ondata di rifugiati musulmani. Le “pattuglie patriottiche” davano la caccia ai rifugiati. Guardiamo indietro di sei mesi. A quasi 600 km a nord di Przemy?l, ai margini del villaggio di Usnarz Górny, al confine tra Polonia e Bielorussia, si è consumata la tragedia dei rifugiati provenienti dall’Afghanistan e dal Medio Oriente. I rifugiati sono stati attirati in Bielorussia dal regime del dittatore Alexander Lukashenko con la promessa di un viaggio di proseguimento verso l’Unione Europea. In realtà, sono stati scortati da miliziani bielorussi e guardie di frontiera nella foresta di Bialowieza, un’antica foresta che sovrasta il confine, e portati con la forza in Polonia. Un gruppo è stato fermato dalle guardie di frontiera polacche a Usnarz, proprio sulla linea di confine, e non gli è stato permesso di entrare. La Polonia è firmataria della Convenzione sui rifugiati e delle Convenzioni per la protezione dei diritti umani. Ma i funzionari polacchi sono stati sordi ai richiedenti asilo e non hanno permesso a interpreti o medici di visitarli, violando apertamente il diritto internazionale. In poco tempo centinaia di persone come quelle di Usnarz sono giunte al confine tra Polonia e Bielorussia: il dramma è iniziato. Gli ufficiali bielorussi costringevano i nuovi arrivati ad attraversare con la forza il confine con la Polonia. Lì venivano prelevati da ufficiali polacchi che, non tenendo conto delle loro condizioni, li costringeva a tornare in Bielorussia. E la caccia ai rifugiati ricominciava, con pestaggi e deportazioni in Bielorussia. Per nasconderlo all’opinione pubblica, il governo polacco ha imposto lo stato di emergenza nella zona di confine. I giornalisti non vi erano ammessi sotto la minaccia di multe o carcere. Sappiamo tuttavia di persone che sono state spinte oltre il confine una dozzina di volte da funzionari in uniforme della Bielorussia e della Polonia. Conosciamo la storia di una donna incinta che, dopo essere stata gettata oltre una barriera di filo spinato dalle guardie di frontiera polacche, ha subito un aborto spontaneo. Si stima che il numero di vittime di questa pratica, tacitamente sostenuta dalle autorità polacche, sia superiore a 20. Attirando curdi o afghani e spingendoli in Polonia, Lukashenko si è vendicato dell’Unione Europea, che aveva imposto sanzioni al suo regime per la brutale repressione della rivoluzione civile dell’agosto 2020. Il dittatore ha deciso di usare persone in fuga dalla guerra e dall’oppressione per ricattare l’Europa. Il governo polacco, in violazione del diritto internazionale, non solo ha negato loro il diritto di asilo, ma anche l’assistenza medica. Le vittime delle guerre in Medio Oriente sono diventate pedine nel gioco malvagio di Lukashenko e dei nazionalisti polacchi. Dopotutto, i governanti polacchi avrebbero potuto ordinare alle guardie di frontiera di scortare gli arrivati nei centri per stranieri, di ricevere le richieste di asilo, di svolgere le procedure del caso e di espellere semplicemente le persone che non soddisfacevano le condizioni per l’ingresso nel Paese. Invece hanno scelto la violenza e l’illegalità. Perché? Perché l’ostilità verso gli stranieri è insita nel DNA del partito al potere. Nel 2015, durante la crisi migratoria, i politici di Diritto e Giustizia avevano sostenuto che i rifugiati avrebbero portato con sé “malattie e parassiti” quando avrebbero raggiunto la Polonia. L’opposizione all’accoglienza di un siriano ha permesso al partito di vincere le elezioni. Da allora, in Polonia è in corso una campagna contro le persone con la pelle scura. Per anni il governo è stato indifferente alle informazioni sugli attacchi razzisti contro gli immigrati non europei. Nel 2021 i ministri hanno lodato con orgoglio i loro subordinati per aver permesso le violazioni del diritto internazionale nelle foreste e nelle paludi della zona di confine tra Polonia e Bielorussia. Speravano che il PiS, che era salito nei sondaggi nel 2015 grazie alla retorica anti-rifugiati, avrebbe fatto lo stesso nel 2021. L’effetto, tuttavia, è stato incomparabilmente minore. Gli eventi del 2017 e del 2021 hanno portato a un doppio standard sul confine polacco-ucraino nell’inverno del 2022. Il caso è stato pubblicizzato dai media polacchi e internazionali, gli studenti asiatici e africani sono stati rapidamente evacuati dalla Polonia e il problema si è sostanzialmente risolto da solo. Al confine tra Polonia e Bielorussia, invece, i migranti continuano a soffrire. Per fermare l’ingresso dei rifugiati le autorità polacche hanno eretto un’alta recinzione: alcuni riescono a superarla con la forza, altri no. Qualche settimana fa è apparso su Internet un video che mostrava un uomo impigliato nel filo spinato e appeso a testa in giù alla recinzione, come Pietro crocifisso, mentre funzionari polacchi lo deridevano a gran voce. La disgustosità della scena era impressionante, ma le autorità polacche non vi hanno visto nulla di male. Ogni volta che qualcuno cerca di passare dalla Bielorussia alla Polonia, i funzionari di frontiera polacchi lo catturano e lo rispediscono con la forza in Bielorussia. L’unica differenza tra loro e i rifugiati ucraini è il colore della pelle. Tuttavia, gli abitanti della regione di confine tra Polonia e Bielorussia non sono indifferenti. Insieme a volontari provenienti da altre parti del Paese, aiutano i rifugiati ad attraversare segretamente il confine con l’Occidente, rischiando di essere arrestati. Queste azioni non sono così spettacolari come l’aiuto alle masse di rifugiati provenienti dall’Ucraina, ma non sono meno lodevoli. *Bartosz T. Wieli?ski è vicecaporedattore del quotidiano polacco “Gazeta Wyborcza”. Traduzione di Amélie Baasner e Amanda Morelli Migranti. Dal Libano in miseria parte la nuova rotta della disperazione verso l’Italia di Bianca Senatore L’Espresso, 21 novembre 2022 Scafisti improvvisati e viaggi fai-da-te alimentano la tratta di uomini con destinazione l’Italia. E arrivano a frotte i palestinesi del ghetto di Shatila. “Il prossimo partirà in serata, dipende dal meteo. Al più tardi domani notte”. L’aria è limpida e tira un po’ di vento al porto di Tripoli, ma i vecchi pescatori che filano le reti confermano che sta per alzarsi il mare. Siamo nel Nord del Libano e in particolare nella zona di Mina, da dove salpano i barconi diretti verso l’Italia. È la nuova rotta che si è aperta da circa cinque mesi e che già in estate ha condotto molti migranti sulle coste della Calabria. A camminare tra i moli del porticciolo, non si direbbe mai che sia proprio qui che di notte i trafficanti di esseri umani fanno i loro affari, quasi come Hassan, che mentre curiosiamo qui e lì ci offre una gita sul suo peschereccio, per mostrarci le isole al largo. In realtà, le partenze avvengono più avanti lungo la spiaggia, in piccoli approdi poco illuminati. A raccontarcelo è Brahim, libanese di 25 anni che ha tentato di andar via, ma la barca su cui era è affondata. “Negli ultimi mesi, in molti hanno deciso di partire, perché la situazione è disperata. Non è solo questione di povertà, è che manca il rispetto della dignità umana. E allora, con mia madre, due mie sorelle e la mia fidanzata abbiamo organizzato il viaggio”, racconta al tavolino di un caffè. Mentre parla si tormenta le mani. “Insieme ad altre persone abbiamo deciso di non affidarci ai trafficanti, ma di mettere insieme i soldi e affittare una barca. Però, mentre eravamo in mezzo al mare, la guardia costiera libanese ci ha aspettato, sembrava una trappola. Noi gli abbiamo spiegato che non eravamo trafficanti o criminali ma loro hanno lo stesso attaccato la barca con i fucili. Perché non avevamo dato la tangente. Si sa, i militari si fanno pagare dai mediatori che organizzano i viaggi. Noi non avevamo dato la mazzetta e ci hanno affondato. E mia sorella e la mia fidanzata sono morte”. Brahim ci mostra le foto del naufragio, i video dei momenti di terrore a bordo. E la foto della sua ragazza, annegata insieme ad altre quattro persone, tra cui un bambino. Tripoli è una delle città più povere del Mediterraneo e ancor più delle altre città del Libano ha risentito della crisi economica. Non c’è lavoro, non ci sono strutture sanitarie. La corrente elettrica c’è solo un’ora alla settimana. Perciò, chi ha i soldi affitta dei generatori a circa 200 dollari al mese. Chi non può permetterselo, resta al buio. È per questo che la città è diventata il cardine delle partenze, non solo per i migranti, per i rifugiati, ma anche per i libanesi stessi. A camminare per le strade, la povertà la si scorge in piccoli dettagli: anziani che offrono ai bimbi un giro sul cavallo per pochi spiccioli, ragazzini con carretti di latta che vendono noccioline calde, donne con abiti rattoppati. E in mezzo alla miseria più nera, il business dei viaggi verso l’Europa è diventata un’idea su cui riflettere. “Sa cos’è successo? Che molti hanno pensato di sfruttare la situazione e si sono trasformati in trafficanti. Magari con più scrupoli di altri, ma il risultato è lo stesso”. Majdi Adam, palestinese di 45 anni, ci accoglie all’ingresso del campo di Shatila, a Beirut. Pochi giorni prima del nostro arrivo è stato il quarantesimo anniversario del massacro compiuto dalle forze libanesi e dall’esercito israeliano tra il 16 e il 18 settembre 1982. Ma da allora la situazione del campo è peggiorata sempre di più. Addentrandoci tra i vicoli, entriamo nel cuore di questo ghetto palestinese e siriano, umido, cadente, a tratti puzzolente. “Le condizioni di vita sono degradanti qui dentro”, racconta Adam accogliendoci nella sede della sua associazione per i ragazzi. C’è il calcetto, libri, puzzle, quaderni per scrivere o disegnare. Qualunque cosa pur di impegnare i ragazzi. “Non possiamo lavorare fuori dal campo, ma qui dentro non c’è nulla. E le cose si sono aggravate da quando sono arrivati i siriani”. Se la pagnotta è piccola, più arrivano commensali meno ce n’è per tutti. E si generano tensioni, spiega. “Per questo, molti hanno deciso di investire una somma intorno ai 10mila euro per comprare una barca e ne hanno ricavato anche oltre i 700mila euro”. Dallo scorso aprile, a Shatila si è generata una frenesia per le partenze verso l’Europa. E infatti, i costi per un posto su un barcone sono cresciuti. Prima andavano dai 3 ai 5mila dollari, mentre adesso si aggirano tra gli 8 e i 10mila. “Ci sono i vecchi trafficanti che hanno rincarato i prezzi e lavorano moltissimo”, spiega ancora Adam sorseggiando il tè. “Fanno pubblicità tra i vicoli, mostrando le foto della bellissima barca che li porterà a destinazione. Sembrano guide turistiche. Ma è una bugia, perché la vera barca, in realtà, è troppo piccola per tutti e a volte è anche marcia. Per questo molti affondano e in tantissimi sono morti”. A volte, per ingannare le persone, i trafficanti raccontano che la barca piccolina su cui stanno salendo serve solo per condurli al largo, dove li aspetta la vera nave che li porterà in Italia. Lo dicono perché nessuno si tiri indietro per paura. “Poi ci sono i trafficanti improvvisati”, racconta ancora: “Quelli che non sono spietati e magari davvero provano a fare arrivare tutti a destinazione, ma riempiono troppo la barca che, quindi, affonda ugualmente”. Nelle ultime settimane, ci sono stati diversi brutti naufragi, il più tremendo è quello al largo della città siriana di Tartus, in cui sono morte circa 81 persone ma decine e decine non sono ancora state ritrovate. In mezzo alla strada di Shatila incontriamo Mohammed, che in quella tragedia ha perso i suoi nipoti di 15 e 17 anni. Uno dei due è ancora disperso, l’altro è all’obitorio di Tartus, in attesa del riconoscimento. “La Siria non si fida del test del dna fatto qui”, racconta Mohammed nella penombra di casa sua. È saltata la corrente. “Allora gli hanno strappato un dente e ce lo hanno mandato per accertarne l’identità”. Solo allora qualcuno potrà andare a prendere il corpo, per portarlo a Shatila, dalla sua famiglia. “Molti stanno capendo che il viaggio è rischioso, però la voglia di evadere da questo inferno è molto forte. Soprattutto dopo che è scoppiata la guerra in Ucraina”“, dice Adam. Il conflitto tra Mosca e Kiev è venuto fuori più volte durante i racconti dei migranti, qui in Libano. E non solo per via delle conseguenze economiche, con i mancati rifornimenti di grano che di nuovo, dopo i combattimenti in Crimea, rischiano di bloccarsi. A convincere molti a partire è stata la grande accoglienza dell’Italia e di molti Paesi europei verso i profughi ucraini. Perché loro sì e noi no? E allora, pensando di approfittare di un moto di generosità improvvisa, come se a spalancare i cuori verso gli ucraini si fosse fatto spazio anche per tutti gli altri, sono partiti. Rischiando la vita. Due bambinette si avvicinano per toccare la gonna e guardare il braccialetto. La madre le strattona e si scusa, ma sa che siamo lì per raccontare. “La verità è che il viaggio verso l’Europa può cambiare la mia vita, ma soprattutto quella dei miei figli, che potranno avere un futuro. Se io muoio, mi basta che loro sopravvivano in un mondo migliore di questo, lontano dalla guerra, dallo schifo, dall’ignoranza”. Se ci fossero corridoi umanitari, quasi nessuno partirebbe illegalmente. Ma i flussi sono bloccati e a chi è disperato non resta che la rotta via mare. Di migrazione ha parlato Giorgia Meloni nel suo discorso per la fiducia al Senato. “Dobbiamo impedire che la selezione di ingresso in Italia la facciano gli scafisti”, ha detto la premier. E noi a Beirut ne abbiamo proprio incontrato uno di scafista. Rashad (nome di fantasia, Ndr) era a Mina con la sua famiglia pronto a partire. Quando il mediatore ha chiesto chi ne capisse di motori, lui si è fatto avanti, avendo lavorato per dieci anni in un’officina meccanica. E così, di punto in bianco, l’organizzatore del viaggio gli ha affidato il barcone, in cambio del viaggio gratis per lui, sua moglie e le sue figlie. Detto fatto, Rashad si è ritrovato a smanettare con un motore mezzo scassato che in mezzo al mare, a poche miglia da Cipro, è esploso e li ha lasciati in balia delle onde. “Siamo stati presi dai militari greci che ci hanno picchiati e riportati indietro”, racconta. È rimasto scosso dal viaggio e infatti lo incontriamo alla presenza dell’assistente sociale del Centro libanese per i diritti umani. Il centro offre tutela a tutte le vittime di violazioni, torture, soprusi. Ma si occupa anche dei libanesi che negli ultimi anni sono rimasti senza lavoro o si sono ritrovati con uno stipendio equivalente a 100 euro. Anche la povertà estrema è diventata un pull factor, cioè una motivazione per lasciare la propria terra e mettere la propria esperienza, il proprio futuro a disposizione di un altro Paese. Il Mediterraneo brucia, il nuovo governo ha già dichiarato guerra alle Ong ma appare sempre più chiaro che le vere motivazioni che muovono le migrazioni, i problemi che ci sono dietro non possono essere ridotti a slogan di propaganda. Giappone. La linea dura di Tokyo che dimentica l’umanità: la morte di Gianluca Stafisso di Pio d’Emilia Il Messaggero, 21 novembre 2022 Quali che siano le motivazioni e le modalità in cui è avvenuto il suo suicidio, una cosa è certa. In un mondo normale, Gianluca Stafisso non avrebbe dovuto trovarsi dove si trovava: in un centro di detenzione per immigrati clandestini di Tokyo.  Il fotografo perugino morto a Tokyo per una scarica elettrica. I paesani ricordano:”Veniva qui con la moglie giapponese. Il suo ultimo video: “Situazione pazzesca”. Negli ultimi anni ci era finito più volte: era rimasto senza permesso di soggiorno e mentre cercava disperatamente di riottenerne uno viveva sotto un ponte in periferia di Tokyo. Ogni tanto la polizia lo arrestava e lo portava nel centro di detenzione. Ma poi lo rilasciavano, e lui tornava sotto il suo ponte da dove ogni tanto mandava al mondo i suoi disperati video, che potete vedere sulla piattaforma Vimeo. Non faceva male a nessuno, Gianluca, ma ne aveva fatto tanto a se stesso, da quando si era separato dalla moglie giapponese e cercava disperatamente di mantenere il diritto a risiedere in Giappone. Alla fine non ce l’ha fatta più e si è tolto la vita nella sua cella. Chi l’ha conosciuto, compreso il sottoscritto, ritiene che non doveva essere lì.  Al di là delle varie vicissitudini in cui era stato coinvolto, era una persona chiaramente disturbata, al quale un medico chiamato dalla nostra ambasciata aveva a suo tempo diagnosticato uno stato avanzato di paranoia. Doveva essere stato già da tempo rimpatriato, o ricoverato in un ospedale, a curarsi, non in un centro di detenzione per immigrati clandestini. Che in Giappone - come purtroppo in molti altri Paesi - vengono considerati, e trattati, come criminali. La vicenda del povero Gianluca ha riacceso i riflettori sul modo in cui il Giappone tratta gli stranieri che violano la legge sull’immigrazione, richiedenti asilo compresi. Non sono molti, poco più di un migliaio, distribuiti in 71 centri sparsi nel Paese. Ma il modo in cui vengono trattati ha di recente costretto Amnesty International a denunciarne gli aspetti più gravi.  Del resto 18 morti, di cui sette suicidi dal 2017, anno a partire dal quale vengono forniti dati e statistiche certe, sono davvero tanti. “Se pensiamo alla giusta indignazione che il mondo ha provato qualche anno fa per la morte di Otto Warmbier, il giovane statunitense arrestato e condannato ai lavori forzati in Corea del Nord per aver rubato un manifesto - sostiene Shoichi Ibusuki, uno dei 160 avvocati che ha firmato un appello al governo affinché intervenga con una riforma del settore - mi sorprende che nei confronti di quello che succede qui non vi sia altrettanta indignazione. Spero che dopo questa ennesima morte il mondo si accorga anche di quello che accade in Giappone”. Della drammatica situazione in cui versano i “detenuti” (che detenuti non dovrebbero essere…) in Giappone si è occupato di recente il regista Thomas Ash. Il suo documentario “Ushiku” (potete vedere qui il trailer), più volte premiato, mostra scene “rubate” con telecamere nascoste da far rabbrividire, ma che non hanno finora provocato alcuna reazione ufficiale, ne tanto meno condanne e punizioni, per i responsabili.  “Il bello è che le scene più drammatiche contenute nel mio film - spiega il regista - tipo quella in cui si vedono sei guardie che schiacciano a terra un detenuto inerme, insultandolo e picchiandolo, sono scene girate dalle telecamere di sorveglianza, che i legali del detenuto sono riusciti a farsi consegnare a seguito della loro denuncia e che sono state mostrate in aula durante il processo. Sono testimonianze ineccepibili, che in un Paese civile dovrebbero portare all’immediata incriminazione delle guardie”. E invece niente. Lo scorso maggio, in un’aula del tribunale di Tokyo, i giudici hanno assolto le autorità del centro di detenzione di Shinagawa - lo stesso dove venerdì scorso si è suicidato il povero Gianluca, nonostante fosse stato acquisito un video in cui si vede un cittadino del Camerun chiedere per 6 ore di seguito aiuto. Quando le guardie hanno finalmente deciso di intervenire l’hanno trovato morto. Lo stesso è successo nel dicembre 2021 ad un detenuto turco, che aveva iniziato lo sciopero della fame, e alla povera Wishma Sandamali, una cittadina dello Sri Lanka di 33 anni che per giorni aveva chiesto di essere visitata. Ha dovuto aspettare 4 giorni (nei centri di detenzione non c’è una guardia medica fissa: i medici fanno turni di 4 ore per 4 giorni alla settimana, e nel weekend sono completamente assenti), e nel frattempo è morta.  Direte: purtroppo sono cose che succedono un po’ dappertutto, anche da noi. Certo. Ma non per questo dobbiamo rassegnarci e far finta di nulla. Nelle carceri (e i centri di detenzione degli immigrati clandestini non dovrebbero esserlo…) non si dovrebbe morire per mancanza di cure mediche e non dovrebbe essere così facile suicidarsi. Chi ci finisce - a torto o ragione - ha il diritto di essere rispettato, curato, protetto. Esattamente quello che non è stato fatto con il povero Gianluca Stafisso. Niger. Sulle ceneri della giustizia nel Sahel di Mauro Armanino contropiano.org, 21 novembre 2022 L’anno era appena iniziato a Niamey e nel resto del Sahel quando, verso le 4 del mattino di quel martedì, le fiamme hanno invaso i locali del ministero nigerino della giustizia. Gli archivi e le pratiche giudiziarie in istanza, tutto si è tramutato in cenere. Proprio come la giustizia di cui il palazzo, da allora decentralizzato presso lo stadio Seyni Kountché, coi muri anneriti dal fumo, era il simbolo. Siamo nel ‘lontano’ 2012 e pochi, a quanto sembra, ricordano il risultato dell’inchiesta che aveva attribuito il sinistro al solito ‘corto circuito’. Lo stesso avvenne col ‘Piccolo Mercato’ della capitale Niamey, a tutt’oggi desolatamente abbandonato. Le ceneri della giustizia, da allora, hanno proseguito il loro corso senza soluzione di continuità nella società intera e nei Paesi circonvicini. Una giustizia di ceneri o le ceneri della giustizia! Com’è noto e non solo nel Sahel, dove lo stato esiste saltuariamente specie alle aree periferie del Paese, la giustizia è di norma selettiva. Nelle 43 prigioni di stato la quasi totalità degli ospiti sono membri delle classi subalterne e tutti sanno che senza un sufficiente ‘bagaglio’ economico di supporto, le pratiche rischiano di trasformarsi a loro volta in polvere. La selettività della giustizia bene si accorda con il suo ruolo ‘ancellare’ nei confronti del potere. Sembra difficilmente immaginabile, per il cittadino qualunque, l’applicazione di una giustizia uguale per tutti quando non tutti sono uguali per la legge. Vuoi per il censo vuoi per la vicinanza o meno dalla classe al potere, rimane assodato che la bilancia, simbolo della giustizia imparziale, non sia che una vecchia favola. Lo ricordava George Orwell nel suo romanzo ‘La fattoria degli animali’ che alcuni degli animali della fattoria sono più ‘uguali degli altri’. Data di appena qualche giorno, invece, la cerimonia ufficiale per l’inizio del nuovo anno giudiziario che si è tenuta in un luogo altamente simbolico, il Centro delle Conferenze Mahatma Gandhi di Niamey. Il presidente della Repubblica, primo magistrato, ha ricordato all’uditorio che ‘nell’esercizio delle loro funzioni, i magistrati sono indipendenti e non sono sottomessi che all’autorità della legge’. Un’affermazione che coglie l’essenziale del tema scelto per quest’anno giudiziario: ‘Ruolo della giustizia nella costruzione dello Stato di diritto’. Il presidente ha poi aggiunto che… ‘il giudice è imparziale e il suo giudizio deve essere lo stesso nel caso di amici o nemici, di potenti o di deboli, di ricchi o di poveri… tutti dovrebbero essere trattati allo stesso modo malgrado le conseguenze’. Sono parole, naturalmente, scritte sulla sabbia che tutto memorizza e poi cancella con la stessa facilità a seconda degli interlocutori. L’intervento dei pompieri e di altri agenti aveva permesso di circoscrivere il fuoco dopo oltre 4 ore di lotta. L’edificio del ministero della giustizia sinistrato, situato nella zona dei ministeri del centro città della capitale, datava dell’epoca della colonizzazione che ha lasciato anch’essa nel Paese ceneri fumanti. L’esito dell’inchiesta era invece scontato. Anche per questo il presidente, nella sua allocuzione, affermava solennemente l’addio della giustizia alla corruzione e concludeva in modo salomonico dicendo che…’ non c’è un giudice per il potere che lo ha nominato ma un giudice al servizio della giustizia’. In genere, da questa parte del mondo, le elezioni presidenziali, per questo motivo, sono un banco di prova fatale e le Commissioni Nazionali Indipendenti si caratterizzano, in genere, per sancire la vittoria di chi governa. Anch’esse, com’è noto, scrivono volentieri i risultati sulla sabbia. Sri Lanka. Leader delle proteste studentesche in carcere da oltre 90 giorni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 novembre 2022 Wasantha Modalige e Galwewa Siridhamma Thero, due ragazzi che hanno guidato le manifestazioni degli universitari durante le proteste della scorsa primavera nello Sri Lanka, sono in carcere ormai da oltre 90 giorni. I due ragazzi, portavoce di due sindacati studenteschi, sono stati arrestati il 18 agosto. Tre giorni dopo, nei loro confronti è stato disposto il carcere per 90 giorni. Quel periodo di tempo è passato ma la detenzione continua. A giustificarla è la draconiana Legge sulla prevenzione del terrorismo, che le autorità dello Sri Lanka invocano sistematicamente per ridurre al silenzio dissidenti e oppositori pacifici. Secondo Amnesty International non c’è alcun motivo per cui Wasantha Modalige e Galwewa Siridhamma Thero debbano rispondere di accuse di terrorismo. Le loro famiglie sono preoccupate per le condizioni di salute, in via di peggioramento.