Appello. Fermiamo la strage dei suicidi in carcere. Qui ed ora… si può! Firma su Change.org Il Dubbio, 20 novembre 2022 78 morti in poco più di 10 mesi. È il numero di suicidi in carcere registrati fino ad oggi. Un record lugubre, terribile, inaccettabile. Mai prima d’ora era stato raggiunto questo abisso. Sappiamo bene cosa si dovrebbe fare per evitare o contenere questo massacro quotidiano: depenalizzare e considerare il carcere solo come extrema ratio, moltiplicare le pene alternative, dare la possibilità al cittadino detenuto di iniziare un vero percorso di inclusione nella comunità. Chi è in custodia nelle mani dello Stato dovrebbe vivere in spazi e contesti umani che rispettino la sua dignità e i suoi diritti. Chi è in custodia dello Stato non dovrebbe togliersi la vita! Insomma, sappiamo bene, perché ne discutiamo da anni, da decenni quali siano le strade per fermare la strage, ma la politica, quasi tutta la politica, è sorda perché sul carcere e sulla pelle dei reclusi si gioca una partita tutta ideologica che non tiene in nessun conto chi vive “dentro”, oltre quel muro che divide i “buoni” dai “cattivi”. Insomma, non c’è tempo: il massacro va fermato qui ed ora. E allora proponiamo una serie di interventi immediati che possano dare un minimo di sollievo al disagio che i detenuti vivono nelle carceri “illegali” del nostro Paese. 1. Aumentare le telefonate per i detenuti. È sufficiente modificare il regolamento penitenziario del 2000, secondo cui ogni detenuto (esclusi quelli che non possono comunicare con l’esterno) ha diritto a una sola telefonata a settimana, per un massimo di dieci minuti. Bisognerebbe consentire ai detenuti di chiamare tutti i giorni, o quando ne hanno desiderio, i propri cari. 2. Alzare a 75 giorni i 45 previsti a semestre per la liberazione anticipata. 3. Creare spazi da dedicare ai familiari che vogliono essere in contatto con i propri cari reclusi per valorizzare l’affettività. 4. Aumentare il personale per la salute psicofisica. In quasi tutti gli istituti vi è una grave carenza di psichiatri e psicologi. 5. Attuare al più presto, con la prospettiva di seguire il solco delle misure alternative, quella parte della riforma Cartabia che contempla la valorizzazione della giustizia riparativa e nel contempo rivitalizza le sanzioni sostitutive delle pene detentive. Sottoscrivi l’appello su Change.org: https://www.change.org/stopsuicidicarcere Dap, in attesa che arrivi un Capo si muovono medici e dentisti di Gianfranco Ferroni Verità & Affari, 20 novembre 2022 Gli agenti della Polizia penitenziaria chiedono a gran voce l’arrivo di Nicola Gratteri alla guida del Dap. Ma per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria il governo vorrebbe puntare su Luigi Riello. Nell’attesa del nuovo numero uno, scelto tra i magistrati, dopo il record di suicidi registrato nelle carceri italiane nel 2022 sono tanti í dati emersi nell’ultimo congresso della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitonziaria, a Roma. Tra le novità, la grande attenzione per la parte odontoiatrica, rilevante sia a livello fisico che psicologico: un numero elevato di detenuti necessita di cure dentarie, spesso anche molto più ampie e complesse rispetto alla società civile. Anche il bruxismo, ovvero il digrignamento dei denti, interessa il 30% della popolazione generale ma sale rapidamente al 70% nella popolazione penitenziaria e può rappresentare l’emblema del livello di tensione emotiva dei soggetti privati della libertà. Nel sistema carcerario italiano “transitano” ogni anni centomila persone: “Il Covid-19 ha colpito la medicina penitenziaria non solo per il numero di contagi e le complesse attività di prevenzione e vaccinazione, ma per l’effetto dirompente della pandemia su tutto l’assetto sanitario nazionale e in particolare sulla medicina territoriale di cui la sanità penitenziaria fa parte”, rileva il presidente Simspe Luciano Lucania, “e il passaggio delle competenze dal dicastero della Giustizia al Ssn, avvenuto nel 2008 in modo disordinato, ha provocato una frammentazione tra i servizi che le diverse regioni sono in grado di erogare. A questo si aggiunge il complesso problema emerso dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari nel 2015: i soggetti in misura di sicurezza avrebbero dovuto confluire nelle neo istituite `Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza’, ma proprio le carceri ancora ospitano detenuti in attesa di Rems o altra sistemazione residenziale. Queste condizioni incidono non solo sui servizi, ma anche sulla disponibilità dei medici ad accettare di lavorare in un sistema che in questo momento presenta gravissime criticità”. Senza dimenticare che sono 77, in poco più di l0 mesi, i suicidi in carcere registrati nel 2022. Un numero impressionante, senza paragoni in epoca recente. “Questo dato deve farci riflettere, ma ancora più rilevanti sono i dati che abbiamo in modo parziale o che non possiamo reperire”, sottolinea Lucania, “e bisognerebbe sapere, ad esempio, quanti siano i detenuti che hanno tentato il suicidio senza riuscirci. O anche le statistiche su italiani e stranieri, su coloro che sono in custodia cautelare e quanti in espiazione di pena, le condizioni nelle quali si vive in carcere, tra sovraffollamento, promiscuità, con sentimenti di disperazione e frustrazione. In queste condizioni non è semplice identificare chi abbia realmente una malattia mentale che può portare al suicidio. Queste lacune non si colmano con la burocrazia, ma con un’azione di sistema, dove Simspe e il personale sanitario possono partecipare: affinché il supporto scientifico sia concreto, è necessario che gli istituti siano sicuri per tutti e dotati delle risorse necessarie. Serve una nuova cultura del carcere, basata su una visione che consenta al detenuto di vivere l’esperienza in maniera corretta”. Con Mario Zanotti, dentista presso casa circondariale di Montorio, a Verona, che evidenzia “come un detenuto non ha possibilità di ottenere una protesi che non sia a pagamento. Le conseguenze di questa situazione sono diverse: anzitutto, vi è un aspetto fisico, per cui queste persone non possono alimentarsi correttamente, ma devono ricorrere a cibi tritati o liquidi, con una dieta semisolida, rinunciando alla capacità nutrizionale oltre che al piacere della tavola. In secondo luogo, c’è un aspetto psicologico: senza denti non si riesce a sorridere, si riduce l’autostima e la considerazione di se stessi, in un ambiente che già di per sé provoca difficili condizioni psicologiche che spesso inducono alla depressione e in diversi casi al suicidio. La mancanza di cure odontoiatriche non è una causa diretta di questi fenomeni, ma può considerarsi una concausa”. Allarme psicofarmaci: utilizzati dal 40% dei detenuti, anche tra i minori di Viviana Lanza Il Riformista, 20 novembre 2022 “Parli dei detenuti ma non sai chi sono loro, dici non gli interessa né studio né lavoro, vogliono i soldi facili per arricchirsi subito ma questa realtà tu la conosci? ne dubito.”. È la prima strofa della canzone rap che il rapper Kento ha scritto insieme ai ragazzi dell’istituto penale minorile di Catanzaro. Racchiude il peso del pregiudizio che cade sulle vite dei ragazzi reclusi negli istituti minorile e la voglia di riscatto che anima i loro percorsi di recupero. Il 20 novembre sarà celebrata la Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Il garante nazionale Carla Garlatti ha presentato al nuovo governo un elenco di priorità in tema di diritti e tutela dei minori: povertà infantile, dispersione scolastica, salute mentale, ambiente digitale e partecipazione. Sono temi di cui si parla da tempo ma rispetto ai quali ancora non si è riusciti a trovare una soluzione efficace e adeguata. E qui entra la provocazione del direttore del carcere minorile di Nisida, Gianluca Guida. “Da tempo si analizza il fenomeno del disagio e della devianza giovanile, se ne parla ma nella concretezza della quotidianità dei nostri impegni poi non si fa e non si crea una cultura diversa di attenzione ai giovani. Negli anni si è provato a dare risposte al disagio e alla devianza immaginando la diade scuola-lavoro, trattamento-sicurezza, riparazione-mediazione. A me sembrerebbe che oggi la risposta la potremmo trovare adottando la diade Rivotril-Lyrica”, afferma Guida nel corso del suo intervento all’evento “Riscoprire il futuro. Diritti, responsabilità e percorsi nel sistema penale minorile” organizzato dall’Autorità garante per l’infanzia. “So - aggiunge - che molti di voi si staranno chiedendo: “Ma come? Parli di due psicofarmaci? Rendiamo patologica la devianza?” e unisce alla provocazione la denuncia di un allarme che non va trascurato. “Oltre il 10% degli adolescenti fa uso senza prescrizione di farmaci psichiatrici. Oltre il 40% delle persone detenute, inclusi i minori, fa uso di psicofarmaci”. “Molti potrebbero dire che è la condizione della detenzione. Forse, può essere. Ma se fosse un processo inverso? Se il microcosmo della detenzione sta facendo emergere una tematica rispetto alla quale socialmente stiamo dando poca attenzione?”. Guida cita una parte del testo della canzone di Lucio Dalla, “Anna e Marco”, per descrivere la noia, la ricerca dell’altrove di stelle e lupi di periferia, lo smarrimento dei giovanissimi, il disagio. Ascoltando le storie raccontate dai ragazzi, si scopre che l’utilizzo dello psicofarmaco è un’esperienza che moltissimi hanno fatto già in età infantile. “È una prassi estremamente diffusa ma è un tema che non ci deve allarmare come fenomeno in quanto tale, piuttosto ci deve allarmare il bisogno che è sotteso dietro a questa prassi”, dice Guida. “Abbiamo sempre più ragazzi che cercano di sedare le loro emozioni, di nascondersi rispetto alle loro responsabilità e trovano formule diverse per dare soddisfazione a questi bisogni - aggiunge il direttore di Nisida che da oltre vent’anni lavora con e per i ragazzi a rischio. Molto spesso l’esasperazione di queste formule porta ad adottare atteggiamenti devianti che ricadono anche in comportamenti criminali”. Dunque, secondo il direttore del carcere minorile napoletano “se non prendiamo coscienza che l’esperienza di devianza di questi ragazzi nasce da un bisogno primordiale, che è quello di essere ascoltati soprattutto nelle loro paure, nelle loro difficoltà e anche talvolta nella loro inidoneità ad affrontare le sfide che gli sono state poste davanti, non riusciremo a risolvere alla radice le condizioni che hanno generato la devianza, e quindi non riusciremo a dare alla società una risposta. Quel bisogno di sicurezza che la società si aspetta dalla pena e dal carcere non potrà sicuramente essere assecondato se non riusciremo a dare risposta a questi bisogni primordiali”. Come fare? Il primo passo è l’ascolto. “Il primo strumento è quello di mettersi all’ascolto dei ragazzi - spiega Guida -, dar loro la possibilità di avere una relazione che possa essere costruttiva e di fiducia. Poi dovremo aiutarli a riconoscere negli altri la possibilità di costruire relazioni che nutrano e il valore di quelle relazioni che consentono a ciascuno di noi di potenziare le proprie capacità e riconoscere la propria forza interiore”. Caso Cospito, il Garante nazionale dei detenuti in visita al carcere di Sassari di Davide Varì Il Dubbio, 20 novembre 2022 L’uomo è in sciopero della fame dal 20 ottobre dopo la modifica del regime da Alta sicurezza 2 a 41-bis. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha visitato oggi la sezione 41-bis o.p. del carcere di Bancali (Sassari). La visita - compiuta del Presidente Mauro Palma e da Daniela de Robert, componente del Collegio - è stata prioritariamente destinata a verificare le condizioni generali della detenzione e della salute di Alfredo Cospito, in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso, dopo la modifica del regime a lui applicato da alta sicurezza 2 a 41-bis. L’uomo sconta l’ergastolo ostativo dopo una condanna per l’attentato contro Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare e per strage contro la sicurezza dello Stato, per l’esplosione di due pacchi bomba a basso potenziale nella Scuola allievi carabinieri di Fossano (Cuneo), nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 2006, gesto che non ha provocato vittime o danni ingenti. Le condizioni di detenzione dell’uomo sono cambiate a luglio, quando la Cassazione ha cambiato il capo di imputazione dadelitto contro la pubblica incolumità a strage volta ad attentare alla sicurezza dello Stato Non avendo collaborato, a Cospito è stata applicata l’ostatività, ritrovandosi a vivere, come descritto da Luigi Manconi su Repubblica, una vera e propria condizione di privazione sensoriale. Da qui la protesta, che va avanti ormai da un mese. Il Garante ha avuto modo di intrattenersi in colloquio riservato con lui per più di un’ora, di controllare i relativi fascicoli che lo riguardano incluso quello sanitario, di avere colloqui con la magistrata di sorveglianza, con la direttrice, con il responsabile del Reparto operativo mobile della Polizia penitenziaria, con il personale dell’area della salute. “Non spetta al Garante nazionale alcuna valutazione di una scelta individuale, peraltro oggetto di una vera e libera discussione con la persona interessata - si legge nella nota -, spetta però invece rendere atto dei verificati controlli quotidiani, dell’attenzione rivolta da tutti i soggetti istituzionali all’evolversi delle sue condizioni, dell’effettività della somministrazione a partire da questa giornata degli “integratori” da lui richiesti lo scorso 12 ottobre”. Rassicurato dall’interlocuzione avuta e dalla verifica delle odierne condizioni, il Garante nazionale rimane, tuttavia, preoccupato dal possibile sviluppo della sua vicenda e per questo proseguirà nella propria azione di vigilanza per quanto di propria competenza, nella direzione di una auspicata soluzione della situazione. Il Parlamento faccia le leggi. I magistrati le interpretino di Nicola Graziano Il Manifesto, 20 novembre 2022 Solo seguendo questa strada si potrà dire di aver effettivamente superato il problema costante della commistione tra poteri. Non può dirsi ancora archiviato il procedimento che porta al rinnovo del Csm visto che, dopo l’elezione della componente togata secondo il nuovo sistema elettorale, è stato convocato per il prossimo 13 dicembre il Parlamento in seduta comune per l’elezione dei membri laici che dovrebbe avvenire secondo procedure trasparenti di candidatura, da svolgere nel rispetto della parità di genere ma con un inevitabile accordo tra maggioranza ed opposizione in considerazione del quorum minimo richiesto. Ed è probabilmente in vista di questa elezione che divampa il conflitto tra le correnti della magistratura che tutt’altro che essere state mitigate nella loro forza risultano essere nettamente fortificate da un sistema elettorale che non ha affatto raggiunto l’obiettivo del loro superamento. L’esito delle elezioni ha visto infatti una netta contrapposizione tra la corrente moderata e quella progressista secondo un esito abbastanza scontato, con un deludente effetto del sistema proporzionale che ha consentito solo in minima parte l’elezione di soggetti non appartenenti ad alcuna corrente. Oltre le righe si deve però leggere con favore il risultato elettorale di magistrati come Stanislao De Matteis, candidato nel difficile collegio unico di legittimità, il quale - scegliendo di candidarsi come indipendente per superare gli steccati ideologici delle correnti - ha raccolto un importante numero di voti coagulando intorno a sé un gruppo eterogeneo di magistrati che si riconoscono in un modello di consigliere non necessariamente appartenente ad un gruppo prestabilito. Resta però sullo sfondo un generale insuccesso del nuovo sistema elettorale con sostanziale pareggio tra le correnti che attende di essere completato con la nomina dei membri laici che faranno da vero e proprio ago della bilancia. Intanto iniziano le prime schermaglie. Dai comunicati stampa degli esponenti delle correnti trasuda una chiara ed evidente presa di posizione politica che non dovrebbe certamente caratterizzare l’attività dei magistrati, se non nei limiti della interpretazione delle leggi che non può andare oltre il principio della separazione dei poteri. E invece si assiste ad un dibattito sui primi atti del governo di centrodestra con toni accesi quali la preannunciata necessità di una stagione di resistenza costituzionale da una parte e dall’altra la stigmatizzazione a non diventare attori della scena politica, culminato poi con un invito ad una pubblica tenzone sul modo di declinare la giurisdizione dal punto di vista della necessaria difesa dei diritti civili ed umani. C’è però da domandarsi cosa c’è oltre le correnti e la loro rumorosa deriva che sempre meno rappresentano quella parte silenziosa dei magistrati che, lavorando alacremente, oggi fanno i conti con il sistema dei controlli dei capi degli uffici nell’ottica del perseguimento dei sempre più ambiziosi ma al contempo difficili obiettivi di riduzione dei tempi della giustizia in chiave Pnrr. Io credo che, sia pure non volendo affatto rinnegare il ruolo che la magistratura è chiamata a svolgere come un potere dello Stato che si fa attore nella società a difesa dei diritti fondamentali (si pensi alla giurisprudenza pretoria degli anni 70 che ha contribuito e non poco alla emersione del concetto di ambiente da tutelare anche in ottica di futuro delle nuove generazioni), in questo momento la magistratura debba andare oltre posizioni politiche o di parte e considerare i problemi che ha al suo interno, primo fra tutti quello di recuperare la credibilità che sempre più è persa per colpa di pochi con conseguenze per tutti. In questa ottica il Parlamento faccia le leggi che ritiene tenendo in debito conto i principi della nostra Carta fondamentale e la magistratura ritorni al suo ruolo di interprete della legge perché è forse solo seguendo tale strada che si potrà dire effettivamente superato quel problema costante della commistione tra politica e magistratura che interessa sempre meno aí cittadini che a gran voce invocano una giustizia celere ed efficace che solo così si fa difesa di diritti fondamentali che nella loro tutela esprimono il senso democratico del nostro Stato di diritto. Il viceministro Sisto incontra la presidente Cnf Masi: “Le riforme arriveranno, senza strappi” di Valentina Stella Il Dubbio, 20 novembre 2022 Dal numero 2 di via Arenula l’impegno per un sì rapido alla legge sull’equo compenso e per preservare gli Ordini dalla burocrazia. “Norme sul processo? Prima testiamole”. Un confronto tra l’agenda degli avvocati, con le istanze di interesse per la professione, e quella del governo è stato al centro dell’incontro di ieri mattina, nella sede del Consiglio nazionale forense, tra la presidente del Cnf Maria Masi, con il plenum dei consiglieri, il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto e il sottosegretario Andrea Ostellari. Su alcuni punti - la maggior parte - la sintonia è piena, su altri ci sono delle divergenze, su altri ancora bisognerà rafforzare il dialogo, ad esempio per il capitolo della digitalizzazione. Masi ha illustrato “la nostra ambiziosa agenda: riprendiamo laddove ci eravamo lasciati, con delle priorità all’ordine del giorno. Prima tra tutte l’approvazione della legge sull’equo compenso”. Su questo, sicuramente c’è la volontà di tutti di portare a termine la riforma: “Manca lo sprint finale perché queste due parole diventino legge. Auspico - ha detto Sisto - che si possa andare in tempi brevi al Senato nello stesso testo a firma Meloni, Mandelli, Morrone della scorsa legislatura”.Tra le urgenze sottolineate dal vertice del Cnf, il problema delle carceri: “È una battaglia che l’avvocatura non può ignorare”. Sisto ha ricordato che “abbiamo stanziato 3 milioni di euro di euro per l’assistenza psicologica dei detenuti e 1 milione per la polizia penitenziaria, ma deve esserci uno sforzo di sistema che va intensificato”. Per il viceministro ed esponente di Forza Italia, “si possono pure costruire nuove carceri per evitare il sovraffollamento, ma bisogna comunque vigilare perché la pena sia certa ma tendente alla rieducazione, come prescrive la Costituzione. Proprio per “fare sistema”, come ha detto il ministro Nordio, valutiamo anche un percorso di intelligente depenalizzazione”. Un altro tema sottolineato da Masi è stato quello relativo alla natura degli Ordini professionali: “I provvedimenti delle ultime ore ci confortano”. Il riferimento è alla decisione del Tar di Roma, che due giorni fa, annullando la circolare della Ragioneria generale dello Stato, impugnata dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro, ha stabilito che agli Ordini professionali non può applicarsi in automatico l’intera disciplina su pubblico impiego e contenimento della spesa. Su questo Sisto ha accolto l’appello di Masi affinché “si abbandoni ogni eccesso di burocratizzazione”. Non poteva mancare sul tavolo la riforma che vuole inserire la parola Avvocato in Costituzione, tra gli obiettivi principali del Cnf. Sisto si è detto d’accordo, “purché la questione non costituisca un elemento di distrazione rispetto ai temi fondamentali legati alla difesa della nostra professione”. Per quanto concerne invece le riforme del processo civile e penale, la presidente Masi ha sottolineato i problemi relativi all’attuazione, auspicando dei correttivi “necessari a raggiungere gli obiettivi e gli standard di efficienza imposti dal Pnrr, e a riequilibrare il rapporto tra magistratura e avvocatura”. Sisto si è mostrato più ottimista: “Le riforme approvate possono essere assimilate all’uscita sul mercato della Smart: inizialmente non piaceva a nessuno, ma con il tempo il giudizio è clamorosamente cambiato. Prima di pensare a dei correttivi, prendiamoci il tempo di vederle all’opera. Attenzione allo scetticismo a prescindere”. Ha poi aggiunto che “sono alla studio del ministero alcune norme transitorie relative ad alcune parti della riforma Cartabia” del processo penale, proprio per evitare impatti traumatici. Intanto il 24 novembre è previsto un incontro tra il Cnf e il ministro Nordio, a dimostrazione del clima di collaborazione in cui sembrano avviati i rapporti con l’avvocatura. Tra i temi principali che verranno discussi c’è quello della scarsa presenza dell’avvocatura all’interno del dicastero di via Arenula o comunque nei luoghi in cui si scrivono le norme. Questa esigenza di riequilibrio ha trovato il consenso del viceministro, che poi ha espresso una preoccupazione: “La rappresento da avvocato: dobbiamo vegliare affinché le riforme, anche quella dell’ordinamento giudiziario, non alterino mai l’equilibrio fra i poteri, rispettando il nobile principio costituzionale del giusto processo. L’avvocatura deve essere guardiano attento e vigile controllore che questi equilibri di matrice costituzionale vengano rispettati”. Dall’altro lato però, come aveva già fatto qualche giorno fa il guardasigilli, Sisto ha ribadito cautela su quelle riforme che potrebbero essere divisive e così infuocare eccessivamente il dibattito: “Non possiamo permetterci ora di fare della giustizia un settore di conflittualità perché ci sono problemi più urgenti che investono la sopravvivenza stessa del Paese e dei cittadini. Serve un grande senso di responsabilità condiviso”. Sicché riforme ordinamentali sì, ma calibrate: si faranno, ma occorre trovare il giusto metodo perché avvocatura, magistratura e politica possano, insieme, ridefinire un nuovo modello di giustizia. Infine l’intervento da remoto del sottosegretario della Lega Andrea Ostellari: “Più avvocati al ministero, non tanto in ruoli apicali ma soprattutto in quei ruoli funzionali alla redazione delle norme. Io penso che con il ministro Nordio si possa affrontare questo aspetto, così come anche gli aspetti fiscali legati alle associazioni tra avvocati”. Le protesta delle toghe onorarie: “La riforma non può più attendere oltre” di Valentina Stella Il Dubbio, 20 novembre 2022 Il documento: “Non c’è più tempo: i colleghi si ammalano e ci lasciano senza diritto a nulla, i colleghi amministrano il 60% della giustizia pagati in modo indecente, i colleghi hanno una ridicola indennità ferma da inizio millennio, mentre l’apporto chiesto e fornito è esponenziale”. “La magistratura onoraria aspetta da troppo, oltre 20 anni, non c’è più tempo: i colleghi si ammalano e ci lasciano senza diritto a nulla, i colleghi amministrano il 60% della giustizia pagati in modo indecente, i colleghi hanno una ridicola indennità ferma da inizio millennio, mentre l’apporto chiesto e fornito è esponenziale”. Lo scrive, in un documento, La Consulta della magistratura onoraria, sottolineando che “preoccupano non poco le recenti esternazioni del Presidente del Consiglio, su una manovra finanziaria a saldi invariati, con un “rinvio anche delle storiche rivendicazioni”, da riprendere in un secondo momento”. Le statistiche ministeriali, si legge ancora nel documento, “evidenziano che lo Stato italiano si regge su questi lavoratori, come disse anche il vicepresidente del Csm Ermini in una recente intervista. Il Csm ribadisce in Europa, nei pareri scritti per l’Avvocatura di Stato, che le procedure concorsuali in essere sono finalizzate a riconoscere “tutte le garanzie proprie di un lavoratore subordinato”, mentre la realtà è, rispetto al dovuto, un trattamento al ribasso e mortificante, parametrato ad un “tertium genus” inconferente, come le Istituzioni europee hanno stigmatizzato”. L’Italia, ricordano le toghe onorarie, “è stata ammonita per il grave stato d’illegittimità in cui versa, per il complessivo status, pre e post riforma Cartabia, riservato alla categoria, da cui deve uscire ora e non in futuro, onde scongiurare la altrimenti certa procedura di infrazione e le possibili ripercussioni sui prossimi fondi del Pnrr. Bruxelles ha dato tempo fino a novembre per rispondere in modo conforme. Il presidente Balboni - prosegue la Consulta della magistratura onoraria - indicò lo scorso dicembre la strada economica percorribile, nell’ambito della manovra finanziaria, quantificando le risorse necessarie e richiamando il Fondo esigenze indifferibili già previsto dalla legge di bilancio, somme già stanziate e da ridurre, in corrispondenza agli oneri necessari dal medesimo quantificati. Una parte è già stata stanziata nella scorsa legislatura, occorre l’ultimo passo - conclude - che 4700 lavoratori si aspettano. È una riforma di civiltà imposta dall’Europa che ora, più che mai, non può attendere oltre”. Reati depenalizzati, vanno revocate anche le statuizioni civili di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2022 La Corte di cassazione, sentenza n. 43829 depositata oggi, ha confermato l’indirizzo delle S.U. accogliendo il ricorso di un’automobilista. La depenalizzazione di un reato comporta anche l’annullamento della condanna alle statuizioni civili. La Corte di cassazione, sentenza n. 43829 depositata oggi, ha confermato l’indirizzo accogliendo il ricorso di una donna che era stata sì assolta in appello dal reato di falso in scrittura privata, perché “il fatto non è previsto dalla legge come reato”, a seguito della depenalizzazione da parte del Dlgs 15 gennaio 2016, n. 7, ma contro la quale permaneva la condanna alla statuizioni civili. Nel 2015, il Tribunale di Latina aveva dichiarato la ricorrente responsabile del reato previsto dall’art. 485 cod. pen. e l’aveva condannata alla pena di giustizia e al risarcimento dei danni a favore della parte civile. Proposto appello, la Corte territoriale di Roma, nel 2021, l’aveva assolta dal reato “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”, confermando però le statuizioni civili. Proposto ricorso, la donna ha denunciato la violazione del Dlgs 15 gennaio 2016, n. 7. Una lettura condivisa anche dal sostituto Procuratore generale della Repubblica presso la Cassazione che ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata relativamente alle statuizioni civili. Per la V Sezione penale il ricorso è fondato. Come già affermato dalle Sezioni unite, infatti, in caso di sentenza di condanna relativa a un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile ai sensi del Dlgs 15 gennaio 2016, n. 7 (“Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67”, entrato in vigore il 6 febbraio 2016), il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Resta fermo, precisa la Suprema corte, il diritto della parte civile di agire ex novo nella sede naturale, per il risarcimento del danno e l’eventuale irrogazione della sanzione pecuniaria civile. Ne consegue, si legge nella decisione, che la sentenza impugnata “deve essere annullata senza rinvio limitatamente alle statuizioni civili, con conseguente revoca delle stesse”. Infine, aggiunge la Corte, la sentenza di appello non ha provveduto in ordine al reato ex art. 116 c.d.s., “Patente e abilitazione professionale per la guida di veicoli a motore”, per il quale è intervenuta condanna in primo grado e anch’esso depenalizzato in forza dell’art. 1, Dlgs 15 gennaio 2016, n. 8; “pertanto - conclude -, anche in parte qua, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio”. Umbria. Il garante Giuseppe Caforio: “Servono strutture adeguate per i detenuti psichiatrici” quotidianodellumbria.it, 20 novembre 2022 L’attivazione in Umbria di strutture dedicate ai detenuti con problemi psichiatrici “è molto urgente”. È quanto afferma il professor Giuseppe Caforio, garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale. L’avvocato nei giorni scorsi è stato ascoltato in Terza Commissione dell’Assemblea legislativa, presieduta da Eleonora Pace, sulla situazione delle carceri umbre, e ha sottolineato: “La loro presenza aumenta la tensione tra i detenuti, con conseguenze negative sulla polizia penitenziaria e che sfocia in atti di violenza”. Nell’occasione sono stati ascoltati anche i direttori della casa circondariale di Terni e delle case di reclusione di Orvieto e Spoleto, nonché le rappresentanze sindacali della polizia penitenziaria. Il dottor Caforio, come riporta l’Ansa, ha illustrato la relazione sull’attività svolta nel 2021, attualizzandola agli ultimi mesi, quando “si sono presentate alcune complicazioni”. “Sul piano organizzativo - ha detto, in base a quanto si legge in una nota di Palazzo Cesaroni - l’Umbria è stata unificata alla Toscana per la gestione carceraria. La Toscana ha 25 carceri, alcuni grandi e molti piccoli e piccolissimi. In alcune grandi strutture sono in corso interventi di ristrutturazione e questo ha comportato lo spostamento in Umbria di decine di carcerati, per lo più con situazione complesse, per circa due anni, con effetti non positivi. Quando, un mese fa, si è verificato l’incendio al carcere di Terni, i cinque autori della sommossa provenivano dalla Toscana proprio a seguito a questi trasferimenti. A questo si unisce la carenza di personale e il problema sanitario. Abbiamo detenuti con patologie gravissime che riscontrano carenza di cure per mancanza di medici e infermieri. I detenuti con problematiche psicologiche e psichiatriche non hanno strutture adeguate in cui essere collocate. L’attivazione di strutture dedicate è molto urgente, perché la loro presenza aumenta la tensione tra i detenuti, con conseguenze negative sulla polizia penitenziaria e che sfocia in atti di violenza. Di cui si rendono protagonisti quasi sempre detenuti con seri problemi di natura mentale”. Per Caforio “altro fenomeno preoccupante riguarda l’autolesionismo dei detenuti, il più delle volte legati a status mentali complessi”. “Essi si tagliano e si feriscono - ha rilevato -, arrivando anche al suicidio. Si registra una forte carenza di psichiatri per i 1.300 detenuti umbri. Questo rende più difficile prevenire gesti estremi e la polizia penitenziaria deve svolgere una sorta di improprio ruolo di supplenza per alleviare queste situazioni. Peraltro il fenomeno dei suicidi riguarda anche i poliziotti, che non riescono a reggere ritmi e contesti di lavoro usuranti. Sarebbe auspicabile un sostegno per la polizia penitenziaria: le carceri sono comunità complesse in cui il benessere dei vari soggetti è strettamente legato. La certezza della pena deve essere garantita come anche la dignità di chi è recluso e di chi ci lavora. Servirebbero maggiore risorse umane, una riduzione del numero dei detenuti in alcune strutture, mentre complessivamente le strutture carcerarie hanno un livello più che buono, con strutture tecnologiche adeguate”. I direttori degli istituti umbri, Luca Sardella, Terni, Anna Angeletti, Orvieto, Chiara Pellegrini, Spoleto, hanno messo in evidenza - si legge ancora nella nota - la carenza di personale, sia di polizia che sanitario. Due fattori che si sommerebbero quando i detenuti devono essere portati negli ospedali della regione per visite e cure, creando dispendio di risorse e personale e situazioni complesse soprattutto nel caso dei detenuti ad alta sicurezza e al 41 bis. Per i rappresentanti sindacali, Fabrizio Bonino, Sap, Nicola Grassia, Osap, Giovanni Schiavone, Sinappe, Maurizio Calzoni, Uilpa, e Riccardo Laureti, Cisl, esistono questioni molto rilevanti ed urgenti da affrontare per rendere più sicuro il lavoro della polizia penitenziaria e più efficiente il sistema carcerario umbro. Dovrebbero essere ridotti i detenuti, in sovrannumero rispetto alla capienza delle strutture; incrementato di circa 150 unità il personale in servizio, agevolando l’ingresso di agenti giovani; creata una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) per i carcerati con seri problemi psicologici-psichiatrici; allestiti reparti di medicina protetta negli ospedali, con osservazione sanitaria h24 e adeguate garanzie di sicurezza per medici e polizia penitenziaria; rispettate le previsioni di legge circa l’assistenza sanitaria in carcere, evitando quando possibile trasferimenti di detenuti all’esterno. Andrebbe infine ristabilita una certa autonomia dell’Umbria nella gestione dei detenuti, per evitare un continuo afflusso di carcerati problematici e critici che frequentemente verrebbero inviati dalla Toscana all’Umbria. Calabria. “Troppe scarcerazioni durante la pandemia”, i dubbi della Commissione antimafia di Paolo Cristofaro La Nuova Calabria, 20 novembre 2022 Detenuti con pene per reati gravi fuori dal carcere, dati che non corrispondono, procedure di trasferimento ai domiciliari poco chiare, sistemi informatici di difficile consultazione, dubbi sull’effettiva necessità di aprire le porte dei penitenziari ad alcuni elementi particolarmente pericolosi, il rischio dietro l’angolo che molti dei soggetti usciti di galera abbiano potuto riprendere contatti con gli ambienti della criminalità organizzata. E’ quanto emerge dalla relazione della Commissione Antimafia, sezione XIX, che ha analizzato la gestione delle scarcerazioni durante la fase pandemica di Covid per detenuti sottoposti a regime di 41 bis o di alta sicurezza. Tra coloro che il 25 aprile 2020, durante la prima fase di scarcerazioni, avevano lasciato il 41 bis, anche Michele Zagaria, del clan dei Casalesi, e il boss di Lamezia Terme Vincenzo Iannazzo, scarcerato anch’egli in quel frangente e poi tornato al 41bis, dove è deceduto nel 2021. Entrando nello specifico dei dati numerici diffusi dalla Commissione, gli interrogativi sorgono più che spontaneamente. Nella maggioranza dei casi riferiti alle prime 456 istanze di scarcerazione, solo il 13% sono state avanzate su segnalazione sanitaria trasmessa dalla direzione degli istituti. Il 63% delle scarcerazioni sono dipese da domande presentate dai detenuti stessi o dai legali di fiducia. Ben 96 scarcerazioni hanno avuto luogo in Calabria, seguite da 68 in Sicilia. Si tratta delle cifre più alte, in un momento in cui la Lombardia (49 scarcerati) aveva oltre 70mila contagi da Covid contro i soli 1000 casi calabresi. Dai dati è emerso che il massimo di detenuti infetti segnalati contemporaneamente su tutto il territorio nazionale ammontava a 162. In proporzione, rimarca la Commissione, “vi sono state poche scarcerazioni in regioni ad alta intensità pandemica”. Inoltre, secondo quanto segnalato dalla relazione “le prime risultanze documentali inviate dal DAP alla Commissione non corrispondono a quanto emerso in sede di audizione del Ministro della Giustizia Bonafede, del direttore generale dei detenuti Giulio Romano e della direttrice Caterina Malagoli”.  In totale, da aprile 2020 ad oggi, secondo i dati elaborati dalla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, sarebbero usciti dal carcere 1807 detenuti in regime di 41bis o alta sicurezza. Tra i fuoriusciti 552 appartenenti alla Camorra, 372 alla ‘Ndrangheta e 246 a Cosa Nostra. La relazione segnala altresì che “i dati forniti dal DAP non consentono dunque di avere esatta contezza del numero delle scarcerazioni avvenute e delle motivazioni ad esse sottese”. Anche la Direzione Antimafia ha segnalato alla Commissione “difficoltà legate alla lettura dei dati così come inseriti nel sistema dal DAP”. I motivi sarebbero legati soprattutto al sistema digitale AFIS, in uso presso le amministrazioni penitenziarie. Le informazioni registrate sul sistema in fase di scarcerazione dei detenuti, secondo la Commissione Antimafia e i rilievi della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, risulterebbero in parte errati o fuorvianti, dato che si evidenziano “numerose difformità nella registrazione in AFIS, rispetto ai reali motivi di uscita contenuti negli appositi provvedimenti”.  Fatti che destano non poca preoccupazione, soprattutto in relazione, come si diceva, alla possibilità che detenuti usciti dal regime di 41bis, specialmente dato l’elevato numero di questi condannati per associazione mafiosa o reati connessi alle compagini della criminalità organizzata, possano aver ripreso contatti con i medesimi ambiti malavitosi, ricevendo o impartendo ordini, influenzando le attività criminali all’esterno e vanificando, dunque, i colpi inferti dalla magistratura inquirente ai sistemi criminali che tengono il Paese sotto scacco. Udine. La Camera penale: “Carcere sovraffollato e carenza di agenti di custodia ed educatori” rainews.it, 20 novembre 2022 Quasi il doppio dei detenuti, 134 su 73 posti disponibili. Gli avvocati della Camera penale hanno visitato il penitenziario di via Spalato. Le guardie sono 80 su un organico di 115. Cento trentaquattro detenuti su 73 posti disponibili, 80 agenti di polizia penitenziaria, ma dovrebbero esserne 115. Numeri che basterebbero da soli a raccontare alcune delle principali criticità del carcere di Udine. È stato visitato dalla Camera penale friulana, associazione che raccoglie gli avvocati penalisti, che ha voluto accedere ai luoghi dove 10 giorni fa si è suicidato un 22enne di origini dominicane, trasferito da Trieste e in attesa di giudizio. Un’occasione per chi è ospitato dalla struttura di via Spalato per fare sentire, anche se indirettamente, la propria voce all’esterno. Il presidente della Camera penale udinese, Raffaele Conte ha affermato: “I detenuti per esempio hanno detto che vorrebbero che i tossicodipendenti al momento reclusi (e sono tanti) fossero curati in apposite strutture, non insieme agli altri detenuti perché sono persone fragili, problematiche”. Non mancano solo agenti. Mancano anche gli educatori. A Udine ne sono attesi due. Per oltre 130 persone. Un paradosso, dicono i garanti, visto che la costituzione indica che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Busto Arsizio. Ricerca Acli, oltre i muri del carcere di Elio Dalla Zuanna settimananews.it, 20 novembre 2022 Un’apprezzata ricerca curata dall’Iref, Istituto di ricerca delle Acli nazionali, sul ruolo del Terzo settore nelle carceri, è stata presentata recentemente presso la Casa Circondariale di Busto Arsizio. È un’analisi approfondita che documenta l’impegno del “non profit” con le persone detenute: un lavoro che mira prima di tutto al reinserimento nella società. Nel report sono descritte le attività che il Terzo settore - e in particolare le Acli - ha avviato per rendere più umano il carcere e accompagnare i detenuti durante il periodo di reclusione e nel post-carcere. Cosa dicono le cifre - L’Associazione da anni è impegnata nell’organizzazione e nell’attuazione di progetti formativi, culturali e sportivi negli istituti di pena. “È difficile stimare il numero di organizzazioni impegnate con i detenuti, perché la maggior parte di esse sono piccole, alcune poggiano solo sul lavoro volontario”, spiega Gianfranco Zucca, ricercatore Iref e curatore della ricerca. “Negli ultimi due anni il numero dei detenuti è diminuito di 7.409 unità, ma c’è stato anche un crollo del volontariato che ha fatto crescere il rapporto tra volontari e detenuti, da 1 a 3,1 del 2019 a 1 a 5,4 nel 2020”. La flessione maggiore si è avuta nelle attività religiose (-61,3%) e nelle attività di formazione e di lavoro (-60,5%); anche le attività sportive, ricreative e culturali hanno accusato una diminuzione consistente tra i volontari (-56,5%); più bassa (31%) è la flessione rilevata tra i volontari impegnati in attività di sostegno alle persone e alle famiglie. L’impegno del Terzo settore e dei suoi operatori (volontari o meno) all’interno delle carceri si esprime attraverso progetti specifici o supportando i compiti istituzionali dell’amministrazione, sia in partenariato con altri enti o da soli, coinvolgendo sia i detenuti sia i loro familiari. Purtroppo la realtà carceraria è poco conosciuta; di fatto è molto trascurata dalla politica ed è lontana dai cittadini, il carcere appartiene a “un mondo altro”. Il lavoro - Il lavoro è considerato lo strumento principale di risocializzazione dei detenuti ma, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, a giugno 2021 lavorava un detenuto su tre, per un totale pari a 17.957 individui su 53.637. Bisogna precisare che, nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta di un’occupazione alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, ovvero dei cosiddetti “servizi d’istituto” (pulizie, manutenzione ordinaria, lavanderia, cucina). Questo tipo di impieghi, in concreto, non sono “posti di lavoro”, ma “turni di lavoro” che prevedono anche mesi di attesa tra un turno e l’altro. Inoltre, questi impieghi sono ripetitivi e monotoni, non offrono una grande soddisfazione lavorativa; tutt’al più permettono una maggiore libertà di movimento all’interno della struttura carceraria. Negli ultimi trent’anni la percentuale di detenuti che lavora non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria è sempre rimasta tra il 10% e il 15%, tranne (in percentuale alquanto ridotta) quelli che vengono contrattualizzati dagli Ets (Enti del Terzo settore) o dalle cooperative. Se si cambia la base di calcolo, considerando tutti i detenuti, e non solo il totale dei lavoranti, si ottiene che solo il 4% dei detenuti lavora con un soggetto esterno al carcere: a giugno 2021, si trattava solo di 2.130 persone. La formazione - La formazione, aspetto fondativo del modello riabilitativo adottato dal sistema penale italiano, purtroppo non offre grandi prospettive. Negli ultimi cinque anni i corsi attivati hanno avuto un andamento altalenante, oscillando in una forbice che va da 120 a 230 nel periodo pre-pandemia, per poi crollare con l’avvento del Covid-19. La percentuale di iscritti, sul totale dei detenuti presenti, non ha mai superato un esiguo 5%, arrivando all’1,4% nel primo semestre del 2020. La pandemia ha avuto sicuramente un impatto negativo sulle opportunità formative e di lavoro dei detenuti nelle nostre carceri. Anche in questo ambito gli Enti del Terzo settore svolgono un’azione di rilievo. I principali enti di formazione, di varia tradizione, realizzano percorsi formativi all’interno delle carceri. Tuttavia, anche prima del Covid le possibilità erano assai limitate. Il numero di chi usufruisce degli interventi formativi si restringe ancora se si considerano i detenuti che terminano i percorsi o, meglio, che sono riusciti a frequentare un corso completo, prima della chiusura causa Covid. Questa condizione riguarda, con oscillazioni di semestre in semestre, circa due detenuti su tre. I progetti delle Acli - Un capitolo della ricerca descrive le attività che le Acli hanno avviato per rendere più umano il carcere e accompagnare i detenuti durante il periodo di reclusione e dopo. Un’analisi tematica di 16 interviste a tutto campo a testimoni privilegiati che si sono occupati della realizzazione dei progetti delle Acli in carcere, ha evidenziato l’impegno sociale dell’Associazione. Il lavoro di ricerca reso noto è solo un primo passo, l’intento delle Acli è di rendere più umano il carcere e accompagnare i detenuti durante il periodo di reclusione e successivamente. “Le Acli - afferma Antonio Russo responsabile nazionale - ritengono importante approfondire il ruolo del Terzo settore nel carcere, attraverso un’analisi cadenzata e regolare, capace di monitorare negli anni l’importante ruolo che esso svolge in questi luoghi. Il Rapporto ci consegna un primo punto sull’impegno del mondo “non profit” in tema di detenzione e ci consente di individuare piste di lavoro per le successive edizioni con un focus particolare sull’importante tema della re-entry”. La posta in gioco è avviare esperienze e percorsi in grado di immaginare una vita oltre la pena, appunto “al di là dei muri”. Genova. 80enne disabile appena scarcerato per motivi di salute morì travolto da un treno di Noemi Tummiolo telemontekronio.it, 20 novembre 2022 Per la morte di Salvatore Di Gangi, avvenuta su un binario ferroviario a Genova lo scorso anno, rischia di finire sotto processo con l’accusa di abbandono di persona incapace il capotreno in servizio sull’Intercity Notte la sera del 27 novembre dello scorso anno. È questa la richiesta avanzata dal pubblico ministero Federico Manotti nell’ambito dell’inchiesta scaturita dopo il rinvenimento del corpo senza vita del boss di Sciacca, avvenuto nella notte tra il 27 e il 28 novembre dello scorso anno. Il controllore di Trenitalia aveva fatto scendere a Genova Di Gangi con regolare biglietto ma privo di Green pass, come prevedeva la legge in quel periodo. Non aveva avvisato la polizia ferroviaria, nonostante la persona non in regola con la documentazione anti Covid-19 avesse quasi 80 anni e si muovesse con l’aiuto di due stampelle, sottovalutando anche il fatto che era quasi l’una di notte. Salvatore Di Gangi, disorientato, invece di uscire dallo scalo camminò lungo il binario 20 della stazione Principe nella direzione sbagliata, finendo dentro la galleria dove poi fu ritrovato senza vita. Colpito, ha poi stabilito l’autopsia, da un treno merci. Una morte che per qualche ora era rimasta avvolta nel mistero: trattandosi dello storico capomafia fedelissimo di Totò Riina, la prima ipotesi degli inquirenti fu il delitto mafioso, dato che Di Gangi era appena uscito dal carcere di Asti, dove era detenuto per scontare una condanna a 17 anni per mafia e da dove era stato scarcerato dalla corte d’appello di Palermo sulla base di una perizia che ne attestava deficit cognitivi, e stava raggiungendo i parenti in Sicilia (per motivi di salute avrebbe dovuto scontare la pena ai domiciliari). Con l’aiuto della polizia ferroviaria ligure, era stato possibile accertare che Di Gangi era uscito dal carcere di Asti nel tardo pomeriggio e a bordo di un taxi aveva raggiunto la stazione di Torino Lingotto. Spostamenti certificati dai filmati delle telecamere di videosorveglianza. Da lì l’Intercity Notte avrebbe dovuto portarlo a Roma Ostiense, dove sarebbe salito sulla coincidenza per Agrigento. Invece il capotreno lo ha fatto scendere anzitempo e, secondo l’accusa, senza quel riguardo che avrebbe meritato un ottantenne cui era stato diagnosticato un deficit cognitivo: “Abbandonava Di Gangi, persona incapace, per malattia e per vecchiaia, di provvedere a se stessa, e della quale aveva la custodia temporanea. Fatto aggravato perché dall’abbandono derivava la morte della persona offesa”, si legge nel capo di imputazione con cui Manotti chiede il giudizio per il capotreno. In un primo momento il fascicolo era stato aperto contro ignoti e per omicidio colposo, ma le indagini non hanno permesso di stabilire con certezza qual è stato il convoglio che ha trascinato l’uomo lungo i binari. Intanto la famiglia Di Gangi - rappresentata dall’avvocato Cianferoni - si costituirà parte civile, contro il capotreno, Trenitalia e Rete ferroviaria italiana. “Diamo atto che la procura di Genova ha condotto un’indagine egregia”, conclude il legale. Oristano. Intervista a don Maurizio Spanu, Cappellano nel carcere di Massama di Valentina Contiero arborense.it, 20 novembre 2022 A seguito del provvedimento del 29 settembre scorso con cui il dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia gli ha conferito l’incarico di Cappellano della Casa di Reclusione di Oristano, facendo seguito al Nulla Osta emesso dall’Arcivescovo mons. Roberto Carboni, abbiamo intervistato don Maurizio Spanu che già dall’ottobre del 2021 stava svolgendo il suo servizio di assistente spirituale in qualità di Cappellano volontario. È passato un anno dal primo ingresso in carcere. Cosa è cambiato in questo breve periodo? Da seminarista ho vissuto un anno di servizio pastorale nell’Istituto penale minorile di Quartucciu, ma fino all’anno scorso non ero mai entrato in un penitenziario per adulti. Un anno di servizio pastorale in carcere non è tanto, ma è già un’esplosione di esperienze. Le molte ore trascorse tra quei corridoi mi hanno permesso di conoscere una realtà dura e singolare, che per certi versi si discosta molto dalle dinamiche vissute fuori e per altri gli somiglia. Le precomprensioni su quell’ambiente che inevitabilmente portavo con me sono maturate e mutate attraverso la sempre maggiore conoscenza reciproca tra me e i detenuti. La collaborazione e l’intesa con tutto il personale che vi lavora nei vari ambiti e competenze, nonché con le persone che a vario titolo entrano a svolgere un servizio anche volontario, sono fondamentali per me. Non va dimenticato che in Italia il cappellano incaricato è parte dell’amministrazione penitenziaria ed è a servizio di tutti. L’ascolto e l’accoglienza dell’altro a tutti i livelli, generano fiducia: requisito fondamentale per l’accompagnamento spirituale e personale. In carcere c’è tanta sofferenza, c’è anche chi non riesce o non vuole abbandonare logiche sbagliate, c’è pure chi è innocente, ma io sono pure testimone privilegiato e grato dell’azione di Dio nelle conversioni, nei piccoli o grandi traguardi dei singoli. Voglio anche sottolineare che questo anno di esperienza mi ha reso più sensibile al valore della libertà e delle piccole realtà del quotidiano che spesso consideriamo banali, anche nelle nostre comunità cristiane. Carcere e integrazione. Qual è la realtà attuale? Questo è un argomento delicato. Mi limito a parlare della realtà di Oristano. Negli ultimi dieci anni si sono realizzati alcuni eventi importanti. Anzitutto il carcere è stato trasferito da piazza Manno a Massama e questo decentramento rispetto al tessuto urbano ha favorito ulteriormente l’isolamento della realtà carceraria. Se vogliamo che la società sia armonica, pur nelle sue complessità e contraddizioni, occorre renderci consapevoli che il carcere ci riguarda tutti, anche se non tutti vi possono intervenire allo stesso modo. Per esempio, la scarsa disponibilità economica di tanti detenuti crea disparità sociali. Il carcere garantisce un tetto, un letto e cibo e a determinate condizioni offre un lavoro, ma per ragioni obiettive non può andare molto oltre. Ne consegue che il volontariato caritativo sia assolutamente necessario anche in carcere, perché i poveri son tutti uguali. Questa realtà nel carcere di Oristano esiste, ma va rafforzata e sostenuta. La figura del cappellano non si riduce alla cura dello spirito: riguarda anche l’assistenza materiale, ma non può e non deve occuparsi da solo di tutto. L’altro aspetto importante è che col passaggio a Massama si sono aperte diverse sezioni destinate a detenuti in regime di alta sicurezza, perlopiù originari del sud Italia: dopo dieci anni non possiamo non prenderne atto. Un’esigenza concreta è lavorare insieme per avere strutture capaci di accogliere i detenuti in permesso con le loro famiglie. Come si esprime la presenza della Chiesa in carcere? Mi dà sempre tanta consolazione pensare che nel cuore del carcere ci sia una chiesa, un altare e il tabernacolo. Ma se pure queste realtà non ci fossero, la Chiesa ci sarebbe ugualmente perché la maggioranza delle persone detenute è composta da battezzati. Anche se non tutti partecipano allo stesso modo, la percentuale di chi si accosta ai sacramenti è anche più alta rispetto alla vita fuori dal carcere. Posso testimoniare che non pochi si sforzano di condurre una vita cristiana, prendono coscienza della loro fede, magari rimasta a lungo sopita e nascosta, riscoprendo la loro dignità di figli di Dio. Come cappellano sono a servizio di questo cammino attraverso la celebrazione dei sacramenti e l’accompagnamento spirituale. Ma non basta! Il laicato cristiano e la vita religiosa vanno sensibilizzati a una maggiore disponibilità a una presenza concreta e volontaria all’interno del carcere, come veri compagni (Eb 13,3). È una testimonianza fondamentale, da noi ancora insufficiente. Anche altri sacerdoti prestano insieme a me il loro servizio come volontari, ma non rappresentiamo la Chiesa nella sua totalità. Per questo spero che presto possa crescere la disponibilità concreta e positiva a contribuire in vario modo alla pastorale penitenziaria. Cosenza. Riforma Cartabia, un convegno organizzato dalla Camera Penale di Antonio Alizzi cosenzachannel.it, 20 novembre 2022 Il professore emerito di diritto processuale penale relatore del convegno organizzato dalla Camera Penale. Interventi anche dell’avvocato Cesare Badolato e del sindaco Franz Caruso. Il tribunale di Cosenza al centro di un importante convegno organizzato dalla Camera Penale di Cosenza, al quale hanno partecipato numerosi avvocati del foro bruzio, nonché il professore Giorgio Spangher, docente emerito di diritto processuale penale all’Università “La Sapienza” di Roma. L’accademico, senza dubbio il più alto rappresentante della Dottrina penale italiana, è intervenuto sul rinvio della riforma Cartabia che entrerà in vigore nel 2023. Tra i relatori anche il penalista Cesare Badolato, mentre il sindaco di Cosenza Franz Caruso, tra i più noti avvocati penalisti della città, ha coniugato i saluti istituzionali e una considerazione personale sulla legge che rivoluziona il processo penale in Italia. Presenti anche il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Cosenza, Vittorio Gallucci, il presidente della Fondazione della Scuola Forense, Claudio De Luca, la presidente della Camera civile di Cosenza, Tiziana Broccolo, il Presidente AIGA di Cosenza, Livio Calabrò nonché il past President della Camera Penale di Cosenza Pietro Perugini e il presidente dell’Organismo di Vigilanza della Camera penale, Guido Siciliano. Il presidente della Camera Penale di Cosenza, Roberto Le Pera, coadiuvato dal segretario Gabriele Posteraro, ha inteso ringraziare i presenti, i componenti del Direttivo della Camera Penale di Cosenza, e in particolare le figure professionali dei colleghi Enzo Belvedere e Franco Locco. Riforma Cartabia, cosa ha detto il professore Spangher - “Giusto e opportuno rinviare la riforma Cartabia. Questa legge, entrata in vigore un po’ all’improvviso, non consentiva né alla magistratura né all’avvocatura di conoscere i meccanismi processuali” ha dichiarato al nostro network il professore Spangher. “Il rinvio, secondo me, era necessario ed è necessario, anche perché è opportuno completare il regime transitorio, visto che non è ancora chiaro quali norme si applicheranno oppure no, e in quali termini, dal 1 gennaio 2023. Naturalmente il timore da parte di qualcuno è che il rinvio possa portare all’introduzione di nuove norme e in quel caso bisogna vedere di che tipo, ma qualcosa va rivisto sicuramente. Non uno stravolgimento, ma qualche correttivo per rendere le norme più garantiste ed efficienti”. Spangher inoltre ritiene corretta la decisione del giudice di Lamezia Terme di sospendere i processi in attesa della piena applicazione della nuova legge e si augura che il Governo affronti in modo serio e responsabile l’emergenza carceri. “In Italia purtroppo abbiamo un problema, quello della criminalità organizzata, che è una specie di cancro che coinvolge il processo e carceri e sulla base di questo dato è chiaro che le misure restrittive del carcere sono particolarmente stringenti. Il sospetto da parte degli agenti di polizia penitenziaria è che ci siano queste collusioni e questo determina una restrizione dei diritti nei confronti di tutti i detenuti delle carceri”. L’intervento dell’avvocato Cesare Badolato - “A mio parere - ha affermato l’avvocato Cesare Badolato - è stato quanto mai opportuno rinviare la riforma Cartabia, perché non era ancora pronto nessuno. Sia Dottrina che tecnici del Diritto si sono soprattutto concentrati sulla famosa prescrizione processuale quella prevista dall’articolo 344 bis del codice di procedura penale introdotta già un anno fa e ci siamo un pochino tutti quanti dimenticati di quello che era il panorama praticamente della riforma, trovandoci in realtà con una riforma che ha completamente sconvolto il codice di procedura penale. Ci sono anche delle difficoltà organizzative proprio delle cancellerie che non potrebbero chiaramente per esempio gestire il deposito degli atti e delle impugnazioni, per cui si prevede adesso un meccanismo del combinato disposto dell’articolo 582 e 111 bis completamente diverso praticamente rispetto a prima”. Ed ecco arrivare la critica. “In Italia si introducono come al solito delle riforme, ad esempio quella telematizzazione, senza prima prevedere i meccanismi per queste riforme soprattutto senza addestrare il personale per l’applicazione delle riforme e poi si fanno dei decreti per dire “ma tanto tutto entra in vigore fra un anno con dei regolamenti”. È il solito modo italiano di decidere le cose che non è molto serio”. I saluti del sindaco Franz Caruso - Franz Caruso invece non è d’accordo con la riforma del processo penale e auspica un profondo cambiamento della stessa. “L’impianto che ha guidato la riforma Cartabia è stato pensato per dare risposte alle tante incongruenze e le tante negatività del processo, ma questa riforma nasce per volontà dell’Europa, che ha consegnato al governo italiano 220 miliardi di euro con il Pnrr. Quando le cose si fanno per rispondere ad esigenze piuttosto che ad altro, poi dopo si paga un prezzo altissimo”. Caruso, infine, non si sottrae a un argomento che, a un socialista del suo calibro, sta molto a cuore: l’emergenza carceri. “Sono intanto favorevole alla depenalizzazione perché ci sono tanti detenuti per reati che onestamente sono anacronistici” ha detto il primo cittadino bruzio. “Poi è necessario intervenire per potenziare le misure alternative al carcere se si crede veramente nella funzione rieducativa della pena. Non si può pensare di tenere persone ristrette in carcere senza aiutarle. È necessario quindi rivedere il sistema carcerario”. Macerata. Seminario sul tema: “Presunzione di innocenza e giustizia mediatica” Il Resto del Carlino, 20 novembre 2022 Domani interessante seminario con il prof. Giostra, Tarquinio e il procuratore Narbone. Si parlerà di “Processo, presunzione d’innocenza, giustizia mediatica” domani, dalle 16, nell’aula blu del Polo Pantaleoni con il professor Glauco Giostra, il direttore dell’Avvenire, Marco Tarquinio, e il procuratore di Macerata Giovanni Fabrizio Narbone. L’incontro è l’occasione per riflettere, a un anno dall’entrata in vigore del decreto legislativo 188 del 2021, su come si possa garantire il diritto costituzionale dell’indagato di essere considerato innocente fino a una condanna irrevocabile, evitando il rischio di una sentenza anticipata in grado di compromettere, a prescindere dall’effettivo accertamento della responsabilità dell’imputato nel processo, l’immagine e i rapporti sociali di quest’ultimo. Il seminario sarà aperto da una relazione di Glauco Giostra, ordinario di Diritto processuale penale alla Sapienza di Roma, introdotta dal penalista Roberto Acquaroli. Per Giostra, studioso da lungo tempo dei rapporti tra processo penale, garanzie dell’imputato e diritto all’informazione, si tratta di un ritorno nell’ateneo dove ha insegnato per più di venti anni. Alla tavola rotonda, coordinata dalla presidente dell’Ordine degli avvocati di Macerata, Maria Cristina Ottavianoni, parteciperanno il direttore Tarquinio, il procuratore Giovanni Fabrizio Narbone, l’avvocato Jacopo Allegri, presidente della Camera penale di Macerata, e l’avvocato Andrea Tassi, docente di diritto processuale penale nell’Università di Macerata. Le conclusioni sono affidate a Luigi Lacché, ordinario di Storia del diritto nell’ateneo maceratese. Qatar 2022, prime visioni calcistiche in cella di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 20 novembre 2022 C’è una notizia per i circa 57mila detenuti che sono in carcere in Italia: potranno vedere in tv le partite dei Mondiali essendo trasmesse in chiaro dalla Rai. Ciò vale anche per i centotrentatré detenuti dell’Ecuador e per l’unico recluso del Qatar, nazioni che si sfideranno nel match inaugurale. E vale anche per i ventiquattro iraniani e i sette inglesi, le cui nazionali si scontreranno invece lunedì. Negli istituti penitenziari italiani non c’è il satellite e non c’è neanche la rete. Uno strano Mondiale invernale in un paese che non si può dire che abbia a cuore i diritti umani. Tutta la paludata retorica calcistica intorno alla parola “Respect” fa fatica ad attecchire in un emirato dove si può essere puniti sino a tre anni per sodomia o dove la legge prevede l’arresto fino a quindici giorni, rinnovabili fino a sei mesi, senza alcuna procedura giudiziaria. Vediamo se nell’ipocrita mondo del calcio ci sarà mai, tra gli ottocentotrentadue calciatori convocati dalle rispettive squadre, ce ne sarà almeno uno che farà coming out prima, durante o dopo i Mondiali alla faccia di Khalid Salman, ambasciatore del Qatar per questi Mondiali, che ben poco diplomaticamente ha accostato l’omosessualità alla malattia mentale. Certo sarebbe stato ben diverso se l’Inghilterra avesse convocato il giovane Jack Daniels del Blackpool o l’Australia avesse portato a Doha Andy Brennan del South Melbourne, tra i pochissimi calciatori professionisti a rendere pubblica la propria omosessualità. Ben poco si sa delle galere del Qatar, mentre molto, purtroppo, si sa di quelle ecuadoregne. L’ultima rivolta risale a poco più di un mese fa. A Cotopaxi, il carcere di Latacunga, sono morti almeno quindici detenuti. A maggio erano state uccise, nel carcere di Santo Domingo, altre quarantaquattro persone. Forse ben conosceva le condizioni delle prigioni del suo Paese, Enner Valencia, undici reti in questa stagione nel Fenerbhace e centravanti della nazionale dell’Ecuador, che ha simulato un infortunio per evitare di uscire dal campo e così sottrarsi a un arresto della Polizia del suo Paese, alla fine di una partita contro il Cile del 2016. Era accusato di non avere pagato gli alimenti per la figlia. I ricordi italiani del calcio dell’Ecuador sono tutti legati all’arbitro Byron Moreno. Era il 18 giugno del 2002 quando in sequenza espulse Francesco Totti senza motivo, segnalò fuorigioco inverosimili, provocando la nostra seconda eliminazione targata Corea (questa volta era quella del Sud, dopo quella del Nord nel 1966). Chissà che pensa di lui l’attuale sindaco di Verona Damiano Tommasi a cui negò un goal regolarissimo, ai tempi in cui tutto era nelle mani arbitro e guardialinee. Non si è mai saputo se Moreno quella partita se la fosse venduta. Sappiamo però che qualche anno dopo fu arrestato per traffico di eroina a New York ed è andato ad arbitrare in una prigione della Grande Mela. E in carcere si trova adesso in Iran l’ex centravanti della nazionale Ali Daei, centonove reti tra il 1993 e il 2006, il più prolifico marcatore della storia della sua nazione, una vera e propria star del calcio iraniano. Ha appoggiato la protesta delle donne iraniane così come ha fatto l’attuale punta Sardar Azmoun, che milita nel Bayer Leverkusen, che avrebbe augurato lunga vita alle donne iraniane. Lui è stato convocato in Qatar così come Mehdi Taremi, punta del Porto, che come il compagno ci ha messo la faccia contro il regime. Che succederà di loro dopo il Mondiale? Raggiungeranno in prigione Ali Daei? I loro volti saranno i più ripresi. Dai loro sguardi, dalle loro mani, dalle loro parole (più che dai loro piedi) dipenderà il loro futuro libero o incarcerato. Migranti. Mille sbarchi al giorno ma le Ong sono ferme. Governo senza un piano di Alessandra Ziniti La Repubblica, 20 novembre 2022 Nelle ultime tre settimane, in assenza di navi delle organizzazioni umanitarie nel Mediterraneo sono arrivati 15 mila migranti. Imbarazzo alla vigilia del vertice Ue convocato dopo lo scontro con Parigi. C’è un numero, 15.374, quello degli sbarchi nelle ultime tre settimane in assoluta assenza di Ong nel Mediterraneo, due su tre con grandi pescherecci partiti dalla Libia orientale, che imbarazza il governo perché rischia di demolire il senso della crociata contro la flotta umanitaria. E ce n’è un altro, 50.000, quello degli arrivi complessivi dalla Libia, che preoccupa perché è la cartina di tornasole di quanto, a fronte degli appena rinnovati accordi e finanziamenti al governo di Tripoli, l’Italia non abbia più da tempo interlocutori affidabili dall’altra parte del Mediterraneo. Un terzo numero, 19.113, quello degli egiziani approdati in Italia (che superano i tunisini da anni in testa alle nazionalità di chi riesce ad arrivare), conferma i timori che ormai si fanno strada da mesi: è dalla Cirenaica, dalle spiagge al confine tra Libia ed Egitto, che i trafficanti di uomini fanno partire a ritmo sempre più intenso grandi barconi con 5-600 persone a volta che riescono ad arrivare fino alla zona Sar italiana assicurandosi poi il soccorso della guardia costiera italiana e lo sbarco nei porti siciliani o calabresi. Perché questa pressione crescente sull’Italia? Ad ottobre gli sbarchi sono stati praticamente il doppio del 2021, a novembre nonostante il maltempo non c’è stato un solo giorno senza arrivi. Scenari e numeri a fronte dei quali l’ambizione del governo Meloni di “governare e non subire i flussi”, come dice il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, non è supportata da alcuna strategia se non quella di bloccare le Ong. Che - vale ricordarlo - nel 2022 hanno portato in Italia solo 10.276 persone delle 93.629 sbarcate. Ecco perché, al ritorno da Bali, e alla vigilia di una settimana clou per gli impegni che l’Italia intende strappare all’Europa sulla gestione dei flussi migratrori, la premier ha convocato i ministri interessati ma anche il capo del Dis Elisabetta Belloni e il sottosegretario con delega ai Servizi Alfredo Mantovano. Prima di mettere nero su bianco le proposte che venerdì Piantedosi porterà ai ministri dell’Interno europei convocati dalla Commissione in seduta straordinaria, è ai responsabili dei Servizi che la Meloni ha chiesto una previsione concreta di quello che l’Italia deve attendersi per i prossimi mesi. La prospettiva di chiudere l’anno superando quota 100.000 sbarchi (come non avveniva dal 2017) sembra ormai certa. E del tutto evidente è che non basta sventolare il vessillo del ritorno della politica dei porti chiusi alle Ong per frenare i flussi. Che, a dispetto del fantomatico rapporto di Frontex che nessuno ha mai visto, non risentono della presenza in mare delle navi umanitarie e sono invece decisamente mossi dalle sempre più difficili condizioni di vita nei Paesi di origine dei migranti e dall’instabilità dei governi di un Nord Africa che appare sempre più fuori controllo. Dalla Libia, alla Tunisia, all’Egitto, l’Italia fa evidentemente fatica a trovare interlocutori affidabili a cui chiedere di fermare le partenze ormai sempre più spostate verso la Cirenaica. L’idea del governo di un Piano Mattei per l’Africa è al momento niente di più che una nebulosa. Difficile dunque presentarsi in Europa pretendendo rigore contro le Ong e responsabilità degli Stati di bandiera in assenza di qualsiasi strategia immediata per affrontare il vero nocciolo della questione. Il 25 novembre a Bruxelles, per altro, il Piano che verrà proposto dalla Commissione europea non potrà prescindere da un altro numero: 128.438, quello degli ingressi in Europa dalla rotta balcanica, poco meno della metà dei 275.500 ingressi illegali alle frontiere Ue segnalati da Frontex (+ 73 % sul 2021, il numero più alto dal 2016), decisamente di più dei 93.000 arrivi via mare in Italia. Migranti che puntano nella stragrande maggioranza ad arrivare nei Paesi del centro nord Europa, come confermato dal numero molto più alto di richieste d’asilo che Germania e Francia ricevono rispetto all’Italia. E dunque, nel valutare pesi e oneri di un’accoglienza condivisa come chiede con forza l’Italia, la Commissione europea non potrà non tenere conto del fatto che la porta d’ingresso in Europa più battuta è quella della rotta balcanica e non quella del Mediterraneo. E poi c’è l’inverno ormai arrivato in Ucraina e il timore che la prospettiva di una guerra ancora lunga in condizioni di vita sempre più proibitive possano muovere un’altra ondata di profughi verso quei Paesi che già adesso sostengono il peso maggiore dell’accoglienza, Polonia e Germania su tutti ma anche l’Italia che ha già superato la quota di 150.000 rifugiati prevista dal governo Draghi. Movimenti di decine di migliaia di persone sullo scacchiere europeo che rischiano di condurre la trattativa tra i 27 Stati Ue al solito impasse. Soprattutto se i numeri dimostrano che l’Italia non è alle prese con nessuna emergenza immigrazione. Divisa e fuori controllo, la Libia è una polveriera. L’Italia non ha interlocutori di Fabio Tonacci La Repubblica, 20 novembre 2022 Nel Paese ci sono oltre 700 mila migranti in attesa di partire su rotte controllate dai trafficanti. Il ritorno di Haftar e la rete occulta dei centri di detenzione. Chi comanda in Libia? Uno e centomila, dunque nessuno. La Libia è un rompicapo che si fa più complicato ogni giorno che passa. Un caotico teatro dell’assurdo, dove nuovi attori si aggiungono ai vecchi - il generale Haftar, il poliziotto-trafficante Bija - che sembravano finiti e invece non se ne sono mai andati. Ci sono due governi e sono entrambi deboli: quello di Tripoli del premier Dbeibah è scaduto a giugno 2021 e non riesce a indire nuove elezioni; quello di Tobruk, affidato a Bashanga, non è riconosciuto dalle Nazioni Unite. Le vittime sono sempre loro, i migranti, che fame, conflitti e cambiamenti climatici trascinano in Libia per cercare chi un lavoro, chi un passaggio verso l’Europa, chi una possibilità. All’inizio dell’anno erano 621 mila, adesso la stima dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni è stata ritoccata al rialzo, 668 mila, a cui aggiungere i 43 mila richiedenti asilo. Le partenze per l’Italia crescono a un tasso che nel 2023 ci riporterà indietro nel tempo alla stagione 2015-2016. La guardia costiera libica, accusata di violare i diritti umani eppure finanziata coi soldi dello Stato italiano in nome di un contestato memorandum che il governo Meloni ha tacitamente rinnovato per altri tre anni il 2 novembre scorso, continua a intercettare i profughi in mare (centomila dal 2017 ad oggi) e a riportarli in un Paese che ormai neppure il più convinto sovranista può definire “sicuro”. Anche perché tornato a essere preoccupante incubatore del terrorismo di matrice islamica, con varianti autoctone dell’Is e di Al Qaeda che si stanno riorganizzando a ridosso dei confini. In questo scenario, l’Italia si è autorelegata in un angolo: non ha più voce in capitolo nel Paese che fu di Gheddafi, né interlocutori affidabili, né uno straccio di piano strategico per il governo dei flussi. Prova ne è il rinnovo del memorandum, senza dibattito in Parlamento e senza idee. “L’instabilità politica della Libia non consente nemmeno di negoziare sull’assistenza umanitaria, che si scontra con enormi difficoltà di accesso al Paese e limiti nelle attività”, osserva Giorgia Linardi, responsabile affari umanitari di Medici Senza Frontiere-Libia. “Rinnovare il memorandum, che drena fondi destinati allo sviluppo di questa terra per trattenervi i migranti a ogni costo, è un errore”. In Cirenaica, controllata dalle milizie di Bashanga ma di fatto sotto l’influenza dell’Egitto e della Russia, presente con almeno duemila mercenari della Brigata Wagner, i trafficanti stanno mettendo in mare barconi con 500-600 persone sopra. In Tripolitania dal 2019 non si muove foglia che Ankara non voglia, non foss’altro per la flotta di droni kamikaze di fabbricazione turca che permette a Dbeibah di respingere gli assalti armati alla capitale. La Turchia di Erdogan ha anche preso in gestione per 99 anni il porto di Misurata e ha firmato un ricco accordo energetico col governo. Nei cinque centri di detenzione ufficiali a Tripoli, gli unici cui hanno accesso le agenzie Onu e le ong come Msf, sono rinchiuse 2.700 persone. Il Direttorato per il contrasto all’immigrazione illegale del ministero dell’Interno li chiama centri di accoglienza, ma sono prigioni, dove tengono la gente in condizioni pietose. Iperaffollati, sporchi, con poca acqua e poco da mangiare. Li gestisce un signore di nome Mohamad al-Khoja, leader di una milizia, indagato da tre agenzie governative libiche per aver fatto sparire 570 milioni di dinari dal fondo destinato alle forniture di cibo per i migranti. I migranti dei centri di Tajoura e Tarik al Sikka lo accusano di torture, abusi, pestaggi e anche sfruttamento, perché li usa come muratori nel cantiere del centro commerciale del fratello e come camerieri nella propria villa. “Controlla tutto al-Khoja”, racconta chi ha lavorato con lui. “Occupa i cortili dei dormitori per addestrare i combattenti della sua milizia”. E questi sono i centri ufficiali, il nodo visibile di una vasta ragnatela occulta di campi illegali di cui niente si sa. Si va dalle prigioni inaccessibili dell’Ovest nei pressi di Zuwarah, Sabrata e Zawiya, gestite dal gruppo paramilitare Ssa (Stability support apparatus) con l’aiuto del trafficante Bija, il comandante della guardia costiera di Zawiya scarcerato nel 2021, ai centri dell’Est in mano al generale Haftar, tornato protagonista sia in Cirenaica sia nel Fezzan. Nonostante la Commissione internazionale d’inchiesta abbia documentato violazioni inquadrabili come crimini di guerra, dal 2023 la cornice d’intervento dell’Onu cambierà e la Libia verrà trattata non più come contesto umanitario ma “di sviluppo”. “Nei documenti sulla nuova cornice le esigenze umanitarie sono definite come “residuali”“, spiega Linardi di Msf. “I tempi non sono maturi per questo passaggio: temiamo una pericolosa restrizione dello spazio umanitario”. Al governo italiano non basterà legarsi a un ipotetico e miliardario “piano Marshall per l’Africa”, troppe volte evocato a Bruxelles e mai realizzato, per tornare a contare qualcosa in Libia. Serve piuttosto una visione, un disegno generale e strategico per l’intero Nord-Africa che oltre al Viminale coinvolga direttamente la presidenza del Consiglio. Anche solo trovare un interlocutore affidabile e credibile sull’altra sponda del Mediterraneo sarà un’impresa, perché il problema della Libia non è il vuoto di potere, semmai il contrario: ci sono troppi poteri. E nessuno porta a Roma. Giappone. Un italiano morto nel centro per migranti, ipotesi suicidio di Cristian Martini Grimaldi La Repubblica, 20 novembre 2022 L’uomo era in stato di fermo dal 25 ottobre perché con permesso di residenza scaduto. Negli anni sono state numerose le proteste da parte di gruppi umanitari per le condizioni di detenzione di immigrati in Giappone Si sarebbe auto-folgorato manomettendo un cavo televisivo mentre era detenuto nella sua cella in un centro di detenzione per Immigrati a Tokyo. E successo a un 50enne italiano venerdì mattina. Il cittadino italiano era in stato di fermo dal 25 ottobre perché con permesso di residenza scaduto. Le autorità giapponesi non hanno rivelato il nome della persona deceduta. Gli stranieri senza permesso di soggiorno che non riescono ad ottenere l’estensione del visto vanno solitamente incontro a due strade, il rimpatrio o la detenzione. Nel 2020 sono stati rimpatriati 5450 stranieri dal Giappone, mentre 3.378 hanno ricevuto un’estensione straordinaria del permesso di soggiorno a tempo determinato. Attualmente vi sono 164 stranieri detenuti in tutto il Paese, mentre solo a Tokyo, dove è deceduto il 50enne italiano, sono 43, provenienti per lo più da Nigeria, Brasile, Iran e Cina. Ad Osaka i detenuti sono 21, di cui più della metà (12) vietnamiti.  Le accuse di maltrattamenti - Negli anni passati sono state numerose le proteste da parte di gruppi umanitari (come ‘Bond’ nato per iniziativa di studenti universitari e ‘Nyukan Alliance’) nei confronti dei famigerati Shutsu-nyukoku zairyu-kanrikyoku, ovvero le strutture di detenzione di immigrati in Giappone, per via dei maltrattamenti che hanno spesso condotto alla morte dei reclusi. L’italiano è infatti la 18esima persona ad essere deceduta nelle strutture di immigrazione giapponese dal 2007. Sei di questi sarebbero morti per suicidio. Uno dei casi che ha destato maggiore scalpore mediatico negli ultimi anni è quello della 33enne Wishma Sandamali proveniente dallo Sri-Lanka. Arrivata in Giappone nel 2017 con un visto per studenti, si è poi ritrovata nel bel mezzo della pandemia di covid ad essere detenuta in una struttura di detenzione per immigrati a Nagoya a partire dall’agosto 2020 perché con permesso di residenza scaduto. Si era recata lei stessa alla polizia per denunciare abusi e violenze da parte del proprio ragazzo. Il caso della 23enne dello Sri-Lanka - È poi morta nel centro dopo aver sofferto per un mese di disturbi corporali, tra cui vomito e mal di stomaco, senza ricevere alcuna cura. La famiglia ha poi presentato una denuncia penale all’ufficio del pubblico ministero, accusando i funzionari di omicidio e di non aver fornito cure mediche adeguate. La denuncia è stata presentata contro il direttore e il vicedirettore della struttura, nonché contro gli ufficiali incaricati. Manifestazioni di protesta sono state poi organizzate in tutto il Giappone il 16 maggio di quest’anno in concomitanza con i funerali di Wishma. Un meso dopo i pubblici ministeri che hanno indagato sulla vicenda hanno ritirato le accuse contro i 13 funzionari, affermando di non poter identificare alcun nesso causale tra il trattamento ricevuto dalla vittima da parte della struttura e la sua morte.  La triste vicenda della 33enne è avvenuta in un momento in cui la Dieta nazionale giapponese era in procinto di deliberare un disegno di legge per rivedere l’Immigration Control and Refugee Recognition Act, che avrebbe consentito l’espulsione più rapida dei richiedenti asilo. Il Giappone attualmente rifiuta ben il 99,6% delle domande di asilo. Dall’aprile di quest’anno sono stati organizzati sit-in quotidiani di protesta contro tale disegno di legge davanti alla Dieta. Oltre centomila firme sono state consegnate al ministero della Giustizia chiedendo il ritiro del disegno di legge. Iran, la nostra indifferenza di Concita De Gregorio La Repubblica, 20 novembre 2022 Poche persone alla manifestazione romana di solidarietà con le donne di un Paese dove negli ultimi due mesi si contano già 378 vittime. Erano quattro gatti in piazza della Repubblica a Roma. Giovani della comunità iraniana, volti bellissimi e parole fiere, il presidio Radicale benemerito, indefesso, e stop. Pioveva, certo, ma non è questo. Dov’erano “gli altri”?, prendo in prestito la domanda di Don Luigi Ciotti intervistato venerdì sera da Diego Bianchi. Parlava, don Ciotti, di un’indifferenza nuova, di una impermeabilità spaventosa non solo della politica, della sinistra in specie, ma di tutti quanti, di ciascuno di noi, di fronte all’evidenza di tutto quello che di enorme ci sta succedendo davanti agli occhi e che non vogliamo vedere, nominare, capire e accettare per condividere i destini, se ancora ne siamo capaci, di esseri umani che fanno proprio adesso la storia. La Storia, maiuscola, come sarà raccontata fra decenni, la Storia della foto più grande e no: non sono i destini del Pd, le correnti le primarie, no, non sono le balbuzie dei ministri di nuovo conio al servizio di una destra proterva e maldestra, incapace persino di usare le parole, di scrivere una legge. Queste sono piccole faccende domestiche, la rovina della politica italiana è poca cosa: a far due passi indietro, a mettere a fuoco il quadro d’insieme, la sciagura è la sua cecità. Nessuno sembra vederlo, il mondo intero, non interessa: è roba d’altri. A noi premono confini, sovranità, patrie. Il nostro muro di cinta, il sistema d’allarme in villetta e le porte blindate. Eppure siamo lì, ci siamo dentro, al mondo: se allarghi, su Google Maps, lo vedi. Sei un punto, in mezzo. Se una definizione di destra e sinistra può ancora avere senso, dopo lo tsunami di nonsenso degli ultimi decenni, credo sia questa: nessuno può ottenere il proprio bene senza che sia perseguito il bene di tutti. Non è io, il soggetto della politica: è noi. Senza ricerca del progresso comune non ci può essere miglioramento della vita di nessuno. Profitto, forse, convenienza occasionale. Sfruttamento dei forti sui deboli, ma a che prezzo per le generazioni future. Non siamo padroni a casa nostra, siamo ospiti - tutti quanti - di una casa comune. Se non c’è giustizia e libertà condivisa ogni forma di giustizia e libertà personale è parassita. Dunque, dove sono “gli altri”? Dove siamo? Che cosa c’è in questa incredibile sollevazione, in questa controrivoluzione dei giovani persiani che gridando “Donna, vita, libertà” e si fanno uccidere ogni giorno e ogni giorno si moltiplicano, senza paura di morire. Cos’è che non ci piace, per dirlo facile: cosa non ci riguarda? È perché non è una rivoluzione antiamericana, non è anticapitalista? È perché sulle origini del regime di Khomeini, la cui casa i giovani oggi bruciano, pesa qualche responsabilità politica difficile da ricollocare? È perché sono (in gran parte) islamici, dunque per definizione sospetti di attentato alla croce? È perché il pacifismo delle piazze italiane indica un nemico diverso da quello dei giovani che si fanno sparare, non sono gli stessi i nostri e i loro ideali rivoluzionari? Che misere ragioni, sarebbero: polverose, da anziani militanti orfani e nostalgici del loro fuoco di gioventù. Ieri era la giornata mondiale dedicata alla solidarietà alla protesta in Iran. Il sito Middle East Matters (Mem) indicava almeno 150 città in tutto il mondo in cui scendere in piazza: dove, a che ora. Nelle piazze italiane non c’era quasi nessuno, a parte loro: gli iraniani d’Italia. Eppure siamo di fronte a una controrivoluzione, rispetto al ‘79. Una rivoluzione senza leader: sociale, culturale. Uomini che si uniscono alle donne, lavoratori, periferie del Paese. O vincono o perdono. O li ammazzano tutti, o cambiano la storia. A due mesi dalla morte di Masha Amini, 22 anni, uccisa dalla polizia morale perché non portava correttamente il velo, sono stati assassinati secondo Unicef 53 minorenni, ma è una stima per difetto. Iran Human Rights dice duemila arrestati, sei condannati a morte per moharebeh, Guerra contro Dio, 378 vittime. I numeri non raccontano mai niente, sono le storie una per una che parlano. C’è un giornalista, Mariano Giustino, corrispondente di Radio Radicale dalla Turchia, che pubblica ogni giorno - oltre a una cronaca ininterrotta dei fatti - foto, nomi, biografie: Aylar Haghi, 22 anni, uccisa mentre manifestava. Studentessa di medicina alla Tabriz Azad University. Hamidreza Rouhi, 20 anni, ragazzo, ucciso a mani alzate. Danial Pabandi, 17 anni. E ancora, e ancora. Il ballo degli studenti dell’Università di Sanandaj che saltano cantando Azadi, libertà. Ieri Middle East Matters ha elencato i nomi degli ultimi sei bambini uccisi: Kian Pirfalak, 9 anni. La lista inizia così. Proviamo a pensare alla cura che ciascuno di noi presta a un figlio di nove anni. Alle recenti pretestuose polemiche sulla cura che una madre dedica a una figlia, qualunque sia il suo ruolo, premier o no. Che cos’hanno i figli degli altri che non ci riguarda? Questi adolescenti: non sono abbastanza fluidi per attirare l’interesse del femminismo locale? Troppo donne le donne, troppo uomini gli uomini nella protesta? Il bacio dei due ragazzi di Shiraz non è un bacio abbastanza eversivo, non così moderno, trattandosi di un maschio e di una femmina? Speriamo di no, che non sia questo. Il Rinascimento iraniano, i millennial persiani che non hanno paura del potere che spara, sono - insieme alle migrazioni bibliche, alle transumanze di popoli via mare - quel che il nostro tempo ci mette davanti proprio adesso. No, non la contesa fra Bonaccini e altri pretendenti alla guida di una sinistra che non c’è. Dov’è la sinistra. Dov’è la politica. Dove sono “gli altri”: dove siamo noi. Questa è, oggi, la domanda. Neutrali non ammessi dalla storia, prudenti espulsi. Diciamo pure, con un filo di coraggio: prudenti colpevoli, complici. Iran. Sale a 402 il bilancio dei morti. Khamenei: “La rivolta è debole” di Farian Sabahi Il Manifesto, 20 novembre 2022 Quasi 17mila gli arrestati, tra i 16 e i 22 anni. E il leader supremo si rivolge ai giovani: “Troppo piccoli per danneggiare il sistema”. La maggior parte delle persone arrestate in questi due mesi di proteste ha tra 16 e 22 anni. È pensando a loro che il leader supremo ha dichiarato: “Sono troppo deboli e troppo piccoli per danneggiare il sistema”. Se lo slogan dei giovani è “Donna, vita, libertà”, nulla è più distante dalla leadership religiosa che è rimasta ferma alle parole d’ordine del 1979: “Morte all’America” e velo obbligatorio. C’è un abisso tra i dimostranti e la leadership della Repubblica islamica, in termini di valori e desideri. Con questa dichiarazione l’ayatollah Khamenei, 83 anni, ha ribadito che non ha intenzione di cercare un compromesso. Intanto, sono almeno tre i manifestanti uccisi dalle forze governative a Divandar, nel Kurdistan iraniano, dopo che le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco contro i residenti. Gli attivisti in difesa dei diritti umani aggiornano a 402 morti il bilancio delle vittime dall’inizio delle proteste scatenate dalla morte di Mahsa Amini. Tra queste si contano anche 58 minori. Il rapporto afferma che i morti si sono registrati in 150 città e 140 università, mentre sono oltre 16.800 gli arrestati, tra cui 524 studenti. Eppure, non tutti i quartieri e non tutte le località sembrano essere interessati dalle proteste. Lo storico Raffaele Mauriello vive da quindici anni a Teheran, dove insegna all’Università Allameh Tabataba’i: “La maggioranza degli iraniani ha visto le manifestazioni in tv e sui social. Girando per le strade della capitale e nelle regioni settentrionali del Gilan e Mazandaran non ho la sensazione che vi siano proteste di rilievo. Nella mia università, la più importante nelle scienze umanistiche e sociali, alcuni studenti hanno manifestato rabbia contro le istituzioni, ma non brutalità, anche se vedendo i video di eventi in zone periferiche è evidente la dimensione violenta anche tra i manifestanti, tant’è che sono morti almeno 53 membri delle forze dell’ordine”. Residente con la famiglia nel quartiere centrale di Yousefabad - caratterizzato dalla presenza di ebrei e sinagoghe e in passato anche di armeni - Mauriello osserva che tra le cause delle proteste “vi è la chiusura di un paese in cui i giovani chiedono invece apertura, globalizzazione e libertà sociali”. Sull’importanza delle proteste, “per durata, portata geografica e critica contro le autorità, rappresentano un ulteriore allontanamento dai precetti della rivoluzione islamica. Per numero di partecipanti e per il sostegno di dirigenti di primo calibro, quelle del 2009 - seguite alla discussa rielezione del presidente Ahmadinejad - furono però più rilevanti, anche se concentrate soprattutto a Teheran. Anche se all’epoca le attese rimasero irrisolte, le richieste di chi protestava erano più chiare e realizzabili”. I punti di forza delle proteste di oggi sono “la grande ripercussione mediatica e la mobilitazione senza precedenti della diaspora, numerosa e benestante; la partecipazione attiva soprattutto di studenti universitari; la relativa debolezza del governo giacché eletto con la minor partecipazione popolare e sottoposto a un elevato numero di sanzioni statunitensi; l’ingerenza di Arabia saudita, Israele e Stati uniti, ma anche Azerbaijan, Regno Unito e Francia”. In merito alle debolezze, “il potere mediatico della diaspora e dell’opposizione non si riflette in forza politica all’interno del paese, delle sue istituzioni e delle forze di sicurezza. Inoltre, gran parte di tale potere mediatico è legato a media finanziati da stati nemici. Se gli universitari continuano a protestare e acquisiscono così un’esperienza politica rilevante, altri settori non si sono uniti in modo significativo alle proteste: operai, commercianti, professori e insegnanti, persone sopra i trent’anni, grandi centri di potere e i loro politici di riferimento”. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche sull’Islam sciita e sull’Iran, in merito alle istituzioni Mauriello precisa: “Si definiscono islamiche ma non garantiscono giustizia sociale e impongono il rispetto di norme islamiche anche in campi che in Europa corrispondono all’etica privata, in un clima caratterizzato da un alto grado di corruzione”. Viene da chiedersi di quanto sostegno popolare goda ancora la Repubblica islamica: “Una fascia importante della popolazione continua a sostenerla, anche se in maniera sempre più critica, un’altra altrettanto significativa vi si oppone frontalmente. Tra questi due estremi si colloca la maggioranza degli iraniani: sono critici, ma non vedono alternative credibili e potrebbero essere pronti al compromesso se le istituzioni si dimostrassero capaci di affrontare i problemi economici e volessero riaprire la partecipazione politica”. Infine, conclude Mauriello, “la quasi totalità dell’informazione sull’Iran a cui avete accesso in Italia dà voce solo alle proteste e quindi ai dimostranti, ma la mia esperienza in Iran mi induce alla prudenza”. I cocci dell’Afghanistan di Edoardo Albinati e Francesca d’Aloja La Lettura - Corriere della Sera, 20 novembre 2022 La miseria, la meraviglia. Edoardo Albinati torna a Kabul vent’anni dopo il primo viaggio e un anno dopo la vittoria dei talebani. Con lui c’è Francesca d’Aloja, anche lei scrittrice. EDOARDO ALBINATI - Sul volo Doha-Kabul siamo in cinque, l’aeroporto di Kabul è deserto. FRANCESCA d’ALOJA - Siamo in Afghanistan per visitare alcuni presidi medici dell’Ong italiana Intersos. I messaggi che il primo wi-fi disponibile ci trasmette sono tutti allarmati e allarmanti: da quelli ufficiali, come l’Unità di Crisi della Farnesina, che “sconsiglia di recarsi in Afghanistan a qualsiasi titolo”, a quelli familiari: “Ma è pericoloso, state attenti!”. “Mi raccomando, tornate presto a casa...”. Il mio stato d’animo, oltre all’eccitazione di essere entrata in un Paese quasi off-limits, è di apprensione, forse più indotta che percepita. Chiamo Alberto Cairo che qui vive e lavora da trent’anni, per salutarlo, ma anche per farmi rassicurare, e lui lo fa, con il solito garbo. Certo, tutto ciò che ci circonderà nei giorni a venire sta lì a ricordarci di non abbassare mai la guardia, ma non posso nascondere quanto le paure iniziali si siano via via stemperate. Come sempre la presenza sul campo aiuta a calibrare le allerte, e alla tensione iniziale si è aggiunto un inesausto stupore per tutto ciò che i nostri occhi e le nostre orecchie sono riusciti a percepire: l’Afghanistan non somiglia a nessun Paese al mondo, i riferimenti occidentali che nel bene e nel male apparentano le nostre città, qui spariscono: percorrere le strade di Kabul (mai a piedi e sempre in automobile!) e ancor di più sconfinare nelle aree rurali, equivale a un viaggio nel tempo. La nostra avventura afghana comincia un venerdì, giorno festivo dedicato alla preghiera (il più esposto a rischi per via dei possibili attentati alle moschee); nonostante questo ci concediamo un giro in città, con le dovute precauzioni, e subito capiamo quanto anche il più banale spostamento qui diventi eccezionale: i posti di blocco delle milizie talebane sono ricorrenti, e malgrado i lasciapassare concessi a Intersos, l’accostarsi a giovani uomini barbuti con kalashnikov a tracolla mi provoca un brivido. Anche a questo ci abitueremo. EDOARDO ALBINATI - In cima alla collina di Wazir Akbar Khan, penzola un po’ floscia l’immensa bandiera bianca dell’Emirato Islamico. È lì dall’agosto dell’anno scorso ma ha i bordi già un poco sbrindellati. Subito accanto, una piscina panoramica in stato di abbandono, protetta da reti metalliche e filo spinato, che ragazzini incuranti scavalcano per andare a sguazzare in un metro di acqua stagnante. Bambini e ragazzini ridenti sono, da sempre, i veri protagonisti di ogni racconto sull’Afghanistan. FRANCESCA d’ALOJA - Ora ci spostiamo ai margini della città (meglio evitare il centro...), in uno dei posti più assurdi che abbia visto in vita mia: una vallata resa più vasta dal prosciugamento del laghetto che ne lambisce i contorni, attraversata insensatamente da motociclette sgangherate e ronzini al galoppo. Sullo sfondo un desolato luna park e una serie di chioschetti semiabbandonati dove i kabulesi erano soliti rifocillarsi durante la gita fuori porta. Pranziamo all’hotel Serena, un tempo rifugio degli occidentali, tuttora considerato un possible target e dunque iper-blindato (la qual cosa ci rassicura e ci inquieta al tempo stesso). Sembra di entrare in una base militare: controlli, scanner, perquisizioni. Di fronte al nostro sguardo perplesso ci spiegano che fino a pochi mesi fa l’albergo era davvero impenetrabile, gli sbarramenti da superare erano otto e sull’area volteggiava costantemente un elicottero di ronda. Questo va tenuto a mente quando si tenta di raccontare quel che accade qui, ricordando sempre quel che è accaduto prima, non dimenticando chi siamo noi e chi sono loro. Vedere, ascoltare, stare sul posto aiuta a diradare la nebbia che avvolge un tema così complesso, ma illudersi di capire fino in fondo è da stolti. EDOARDO ALBINATI - Sul muraglione di cinta dell’Università di Kabul sta scritto: “Il Corano è il nostro libro, il Corano ci guiderà”. I quartieri più prestigiosi di Kabul consistono di grandi compound protetti da lunghe mura, ideali per dipingerci sopra slogan, murales, ritratti: passarci correndo in macchina è come sfogliare le pagine di un libro illustrato. Grandi pugni levati celebrano la vittoria del 15 agosto 2021, quando i talebani hanno preso il potere, rivendicando il loro trionfo come una liberazione (?): per capirsi, dal loro punto di vista, una specie di 25 aprile. Altrimenti chiamato the Change, il Cambiamento. Ma liberazione da chi? Dagli americani. La bandiera a stelle e strisce qui è il simbolo del male - combattuto e vinto. Negli spiazzi di polvere, ragazzi che hanno appena posato il kalashnikov giocano a cricket. Intere strade sono profilate o ridotte a strettoie o del tutto bloccate da gigantesche barriere difensive di calcestruzzo con sopra rotoli di filo spinato. Al termine della nostra missione, sacchetti di sabbia ne avremo contati a centinaia di migliaia, e una volta a Kandahar ceneremo a una mesta mensa (un tavolo da ping-pong) circondati da uno sbarramento di sacchetti - non si sa mai. Tra i talebani vanno molto i capelli lunghi, lisci e lucidi, tagliati pari sulle spalle. Per non farsi capire da loro chiamandoli con quel nome diventato famigerato nel mondo (“taleb” vuol dire “studente”, ossia “studente coranico”) chi parla inglese può adoperare la sigla Lha, Long-Haired Army - l’esercito dei capelloni. FRANCESCA d’ALOJA - Senza permessi non potremmo fare il nostro lavoro, ma il ministero degli Esteri, pur avendoli già concessi, richiede formalmente di “vederci”. Richiesta paradossale, poiché varcata la soglia dell’ufficio, dopo una serie estenuante di controlli, nessuno dei presenti mi degna di uno sguardo, tutti fanno strategicamente in modo di evitarmi, idem durante l’incontro (si fa per dire) successivo, al ministero della Cultura. Formalmente riconoscono la mia presenza timbrando un foglio che mi consentirà di muovermi, ma come persona in carne e ossa io non esisto. D’ora in poi andrà così. Per tutta la durata del mio soggiorno afghano sarò quasi sempre l’unica presenza femminile in un contesto di soli uomini e raramente i loro sguardi incroceranno il mio. Circostanza, questa, che ha prodotto in me l’oscillante stato d’animo fra il sentirmi disprezzata e il sentirmi temuta. Il primo caso ha generato umiliazione, il secondo consapevolezza del mio potere. La rimozione di qualsiasi contatto fra uomo e donna (più volte mi sono trovata fra uomini che si stringevano la mano e addirittura si abbracciavano, senza ricevere nemmeno un cenno di saluto) è l’ammissione di quanto quel contatto possa essere potente. Di fatto quel divieto cancella il desiderio. Mi sbaglierò senz’altro, ma non credo sia il disprezzo o l’odio a paralizzarli, quanto piuttosto la paura. Delle donne, i talebani sanno poco o nulla. EDOARDO ALBINATI - Sul terrazzo della guest-house di Intersos, protetto da un’incannucciata, stasera lo staff afghano ha organizzato una grigliata. Gli spiedini sono buonissimi, e le minuscole banane molto dolci. Faccio un rapido conto, siamo diciassette uomini, e una sola donna: Francesca. Lei normalmente ama la compagnia dei maschi, più di quella femminile, ma alla fine era imbarazzata e sopratutto si aveva l’impressione che, in effetti, fossero imbarazzati loro. Come soggiogati. FRANCESCA d’ALOJA - Per le strade, di donne ne scorgiamo pochissime, tutte col hijab rinforzato dalla mascherina, ne vedremo (per modo di dire...) di più a Kandahar, roccaforte dei talebani, nascoste però sotto il burqa, come fantasmi nella folla. Dovrò coprirmi anch’io ogni qualvolta mi trovi all’esterno, comprese le terrazze protette dei nostri compound. Da una di queste vedo una donna passeggiare solitaria sul corrispettivo spazio del palazzo di fronte, alla luce discreta del tramonto. Cammina avanti e indietro, come un detenuto durante l’ora d’aria, mentre tutt’intorno echeggiano le voci dei muezzin. EDOARDO ALBINATI - Quando sono stato qui vent’anni fa, Kabul era semidistrutta. Ma c’era speranza. Ora è tutta in piedi e sono spuntati nuovi edifici: ma il futuro appare incerto per non dire tetro. Il traffico caotico di Kabul più che vitalità indica frenesia. Quella comunicata e celebrata dagli Energy Drinks, i cui cartelloni pubblicitari campeggiano ovunque. Possibile che sia tutto qui il lascito occidentale - la democrazia degli eccitanti? FRANCESCA d’ALOJA - La sera, prima della chiusura, davanti ai negozi di fornaio si raccolgono gruppetti di donne. Si siedono per terra e aspettano di ricevere in elemosina il pane avanzato. EDOARDO ALBINATI - La prima clinica di Intersos che visitiamo è poco fuori Kabul: Mirza Abdul Kadir, Basic Health Center, una specie di piccola ma efficiente Asl dove vengono visitate circa cento persone al giorno. Su cinquanta bambini, dieci risultano denutriti, ed è in fondo una media consolante visto che nel resto del Paese la curva si sta innalzando verso la drammatica percentuale del 50%. Il prossimo inverno sta arrivando come un incubo: fame, freddo, le patologie respiratorie, e poi le vecchie piaghe come il morbillo, che specialmente nelle aree remote del Paese resta la principale causa di morte tra i bambini. Alle pareti del presidio medico sono appesi ingenui e commoventi manifesti per incoraggiare alla vaccinazione, dove una siringa sorridente culla tra le sue braccia (?) un bambino felice, dopo averlo evidentemente salvato dal vaiolo o dalle malattie esantematiche. Oltre alla bilancia, per lo screening della malnutrizione viene usata una specie di fascetta o fettuccia da sarto tricolore avvolgendola intorno alle braccine esigue: se stringendola la ghiera si arresta sul rosso, siamo nell’area della malnutrizione, media o severa. Bustine iperproteiche serviranno a porvi rimedio. Restiamo ammirati dall’ordine e dalla calma che regna tra medici, parenti e pazienti. FRANCESCA d’ALOJA - Facciamo una breve sosta al bar Cupcake. Due ragazze, col volto scoperto e truccato, sorseggiano un tè accanto alla vetrina. C’è addirittura la musica (dappertutto proibita). Sembra una piccola, inaspettata oasi di libertà. Il proprietario è un hazara gioviale e smaliziato, a cui chiediamo: “Ma non hai avuto guai?”. “Be’, sì, una volta è venuto uno di loro, e si è lamentato che ci fosse una donna sola a un tavolo, ma io gli ho risposto: questo è il mio locale e ci entra chi vuole”, al che pare che il talebano abbia detto “Ah, va be’, allora...” e si è allontanato. Chissà se è vero e, se è vero, quanto durerà. “Sopravvissuti alla Kabul assassina?” mi scrive sarcastico e affettuoso Alberto Cairo a commento della mia telefonata precedente. Gli rispondo che siamo vivi e vegeti e che vorremmo venire a trovarlo, cosa semplice a dirsi, meno a farsi. Qui ogni spostamento deve essere previsto e organizzato con largo anticipo. Capiremo in seguito quanto la limitata libertà di movimento a noi concessa sia in realtà un privilegio che molti non possono permettersi. C’è chi, vivendo qui da anni, non ha mai visto quel che noi avremo modo di vedere in meno di due settimane. Dura, molto dura la vita dell’operatore umanitario, tanto lavoro e pochissimi svaghi (andare una tantum al supermercato rientra fra questi...), cene ordinate al telefono, porte blindate e vetri oscurati. Il centro di riabilitazione motoria dalla Croce Rossa è un posto straordinario come straordinario è l’uomo che lo gestisce. Dopo trent’anni passati a rimettere in piedi mutilati di guerra, vittime di mine inesplose o di incidenti, il fisioterapista Alberto Cairo non ha perso l’entusiasmo nei confronti di un lavoro che onora ogni giorno nonostante i sopraggiunti limiti di età e l’amarezza per la pur comprensibile fuga, dopo il 15 agosto dello scorso anno, di otto delle dieci fisioterapiste che sono state faticosamente formate sotto la sua guida. Attraversiamo con lui i reparti di quella che assomiglia più a una fucina che a un ospedale: artigiani scalpellano, forgiano e plasmano materiali che si tramuteranno in mani, braccia, gambe. Qui non esistono restrizioni: le porte sono aperte a tutti - uomini, donne, bambini. Talebani e non. Il 90% delle persone che lavorano qui sono state a loro volta dei pazienti: oltre ad aver recuperato un arto mancante, hanno guadagnato un’occupazione. Nell’ufficio che ospita l’archivio, Alberto ci mostra un foglietto con su scritto il numero dei presi in carico dal 1989 a oggi: 95.925, soltanto a Kabul. Se si aggiungono i dati dei sette centri dislocati nel Paese si arriva alla cifra impressionante di 230.000 persone che, grazie a Cairo, sono tornate a camminare. EDOARDO ALBINATI - Lascia sempre di stucco l’ibridazione di elementi bellicosi con altri quasi comici o feriali. All’ingresso di un palazzo governativo sta di guardia un’autoblindo la cui torretta armata di mitragliatrice pesante è sormontata da un ombrellone da spiaggia. All’ombra di quell’accrocco il mitragliere dai lucidi capelli neri sulle spalle sorseggia l’ennesima tazza di tè. In giro per le strade affollate non vediamo uno straniero che sia uno. Tra le dieci del mattino e le tre del pomeriggio veniamo fermati otto volte a posti di blocco, dove però i controlli sono sommari: spesso i miliziani ci lasciano passare perché occupati a salutare affettuosamente qualche amico. Un altro residuo del recente passato è un ristorantino alla francese con un delizioso giardino interno: vuoto. Pranzare soli in quel giardinetto è un momentaneo sollievo ma al tempo stesso stringe il cuore. Subito dopo violiamo le norme di sicurezza andando dove non dovremmo proprio andare: alla Moschea sciita Ziarat-e Sakhi, bersaglio ideale per gli attentati dell’Isis. A mente fredda, più tardi, ammettiamo di aver fathanno to una vera cazzata. Però era bella, la moschea azzurra, contro la montagna gremita di casette e il cimitero dove le tombe sono protette da grate di ferro. FRANCESCA d’ALOJA - Nei centri medici Intersos che visitiamo, a Kabul come a Kandahar, fino alla provincia di Zabul, nel profondo sud del Paese, le donne lavorano accanto agli uomini. La sanità è forse il solo settore misto, segno che almeno le malattie sono democratiche. È una delle poche concessioni del regime, altrimenti severissimo nei confronti delle donne. È questo “il tema”, c’è poco da fare. Il redivivo ministero per la promozione della Virtù e la prevenzione del Vizio, istituito in sostituzione del ministero degli Affari Femminili, ha indotto molte a cambiare preventivamente i loro comportamenti, memori delle repressioni passate e poco inclini a credere alle promesse di cambiamento del nuovo governo. Di fatto le donne non possono più svolgere un lavoro (salvo poche eccezioni) né praticare sport, devono essere accompagnate da un mahram (uomo della famiglia o scelto dalla stessa) se si allontanano da casa, e alle ragazze è stato vietato quasi ovunque l’accesso agli studi secondari. Mai come in Afghanistan ho capito quanto la mia nascita sia stata fortunata. Maryam appartiene alla generazione che ha creduto di poter ambire, anche se con difficoltà, a un futuro simile a quello dei suoi coetanei nati altrove. Ha diciannove anni, nata dunque a ridosso del primo spodestato regime talebano. Ha potuto studiare, iscriversi all’università, trovare un lavoro: “Sarei voluta andare a Londra per approfondire gli studi e poi tornare ad aiutare la mia gente”. L’avvento del nuovo regime ha cancellato vent’anni di conquiste ottenute superando infiniti ostacoli. 15 agosto 2021, la data spartiacque: “Ero al lavoro, in ufficio, mi chiama mia madre supplicandomi di correre a casa. Il mio primo pensiero è stato “come farò ad arrivarci vestita così?”, perché avevo una gonna al ginocchio e temevo che sarei stata picchiata per questo. Ho cercato invano un taxi, la città era nel delirio... ho cominciato a correre, presa dal terrore”. Una volta a casa, Maryam non è più uscita per i successivi due mesi, “e da quel giorno la mia gonna è nascosta nell’armadio”. Lei e la sua famiglia hanno tentato una sola volta di raggiungere l’aeroporto per fuggire. “Ma ci siamo spaventati, le strade erano piene di gente e di sangue...”. Partito il contingente americano la tensione è calata e Maryam ha cominciato ad accettare l’idea di restare: “Anche se molti miei amici sono riusciti a andarsene, e io sono rimasta sola”. La sua voce si spezza, e le lacrime che le scendono dagli occhi sono generate dalla tristezza ma anche dalla rabbia. “Questo non è un Paese per donne, non lo è mai stato...”. Viene spontaneo sperare che il cambiamento, il vero cambiamento, sarà promosso dai ragazzi come lei, diversi da quelli che li hanno preceduti se non altro per aver avuto nel frattempo accesso al più potente e inarrestabile veicolo di conoscenza, internet, del quale ancora possono disporre pur con le restrizioni (nessun commento, vietati i post sui social), e ci si chiede quanto a lungo un popolo di quaranta milioni di persone possa essere bandito dalla modernità. EDOARDO ALBINATI - Chicken Street è (o forse era) la strada commerciale e turistica di Kabul, abiti, tappeti, pietre preziose, artigianato: i negozi ora sono deserti. Entriamo per curiosità o pietà da un antiquario che al nostro passaggio di stanza in stanza ci accende le lampadine, rivelando meraviglie. È un omino mesto che ha tentato invano di espatriare dopo il Change. Ha perduto di colpo il 99% cento della clientela. Tuttora appare terrorizzato, parla con un filo di voce. Comunque la si voglia pensare sull’attuale regime, il suo avvento ha causato la paralisi in quasi ogni settore produttivo. Basti pensare che l’Afghanistan aveva un esercito di 350.000 uomini che da un giorno all’altro sono stati smobilitati, via, a casa, senza stipendio, quindi 350.000 famiglie che perso quei trecento dollari al mese, l’unica fonte di sostentamento. Eppure, oggi un operatore internazionale mi ha detto di sentirsi rassicurato (sì, proprio così, rassicurato) dalla grande bandiera bianca con le scritte inneggianti al Corano che i talebani hanno issato sulla collina di Wazir Akbar Khan al posto di quella nazionale. Era serio? Faceva dell’ironia? Non sono riuscito a capirlo. Del resto, non sarà bello né comodo riportarlo, ma quasi tutti gli uomini (intendo i maschi, e non soltanto afghani...) con cui ho parlato sostengono che la situazione attuale sia migliore rispetto a due o tre anni fa: la pacificazione imposta dal trionfo dei talebani, già com’era accaduto nel 1996, ha quantomeno messo fine allo stato di guerra permanente, ha riunificato con la forza il Paese, anche se continuano gli attentati esplosivi rivolti soprattutto contro gli hazara, la minoranza sciita, da parte della fazione afghana dell’Isis. Ecco, certi uomini si sentiranno pure più sicuri oggi, perché non ci sono droni americani in cielo e attacchi di guerriglia talebana, d’accordo: ma le donne? Cosa ne pensano le donne che hanno dovuto mettere da parte ogni speranza di emancipazione? E poi: il lavoro, il cibo, la legna per il fuoco? In una parola: la speranza? Tutto scarseggia, tutto. Il prezzo della farina in un anno è raddoppiato, quello della benzina triplicato, mentre i salari (per chi ha la fortuna di percepirne ancora uno) sono rimasti invariati. E non è affatto un modo di dire che a Kabul mancano i soldi, bensì un fatto concreto: nel 2020 il governo afghano aveva commissionato a una ditta polacca la stampa di banconote per sostituire quelle vecchie oramai ridotte a cenci impalpabili, ma in seguito alle sanzioni il denaro nuovo di zecca è rimasto in Polonia, e oggi ci si scambia manciate di cartoccetti così scuri che non si riesce nemmeno a leggere quanto valgono, più fragili dei rotoli del Mar Morto. Domani voleremo a Kandahar. La luce dell’Afghanistan meridionale la ricordo violenta, accecante... Tutto è violento a Kandahar e al tempo stesso mite, sonnacchioso. Come riescono a convivere questi due estremi? FRANCESCA d’ALOJA - Eccoci nella vera patria dei talebani: qui sono nati i più importanti leader del movimento, qui vive il capo supremo Haibatullah Akhundzada (grafia sempre incerta), erede del mullah Omar, qui il viaggio nel tempo si fa ancora più sconcertante. A darcene un primo esempio è la visione, nel centro della città, di due donne in burqa rannicchiate nel portabagagli di un’automobile. Come i cani. Siamo increduli. “Qui è così, nei taxi le donne stanno nel portabagagli anche quando ci sarebbe posto all’interno dell’auto”, ci spiega il nostro accompagnatore. E di colpo tutte le considerazioni su internet, i social media e la modernità vanno a farsi benedire. EDOARDO ALBINATI - Proprio ora passiamo davanti a un compound fortificato come un castello medievale, però di cemento: pare sia la dimora del misterioso mullah Haibatullah, mai apparso in pubblico, al punto che qualcuno arriva persino a dubitare che esista davvero. Un potere esoterico. Ed è significativo che il capo viva proprio qui, non a Kabul. In fondo, si tratta del contrasto tra la provincia e la metropoli, che segna oramai da secoli la politica mondiale, dalla Rivoluzione francese fino alla Brexit e a Donald Trump. FRANCESCA d’ALOJA - La visita al ministero della Cultura per ottenere l’ennesimo permesso avremmo dovuto filmarla: seduto alla sua scrivania circondata da fiori finti, con alle spalle un’assurda libreria che sembra costruita a Cinecittà (ripiani montati su finti tronchi d’albero) il funzionario di bianco vestito scambia una serie (è il caso di dirlo) di salamelecchi con i nostri accompagnatori. È tutto un vicendevole “Siamo onorati” e mani sul petto in segno di ringraziamento. Al solito sono l’unica donna, al solito non mi rivolgono la parola né lo sguardo. EDOARDO ALBINATI - Mentre facevamo anticamera, notavo alle pareti i poster un po’ sbiaditi sulle bellezze del Paese, tra cui un’immagine dei famosi Buddha giganti di Bamiyan. Strano, no? visto che proprio i talebani li hanno fatti saltare in aria nel 2001, lasciando al loro posto enormi buchi nella montagna. Si saranno scordati di rimuoverlo, quel poster. FRANCESCA d’ALOJA - Il First Aid Trauma Point di Panjwayi si raggiunge in un’ora attraversando quei paesaggi leggendari che anche chi non è mai stato in Afghanistan può immaginare: fantastiche montagne colorate e seghettate che sbucano all’improvviso dalla pianura grigiocenere. Lungo la strada camion decorati come opere d’arte trasportano carichi inverosimili, sembrano installazioni fantasmagoriche semoventi, e motociclette indiane che sfrecciano da tutte le parti, molte hanno scritto sulla sella “Good vibes”... EDOARDO ALBINATI - Il pronto intervento chirurgico di Intersos è un servizio essenziale in luoghi dove il soccorso medico non c’è o arriva troppo tardi per rimediare a ogni genere di incidente: da quelli stradali, frequentissimi, allo scoppio di mine, dalle ustioni alle fratture. I dottori stanno ora medicando un ragazzino che ha un ginocchio grosso come un melone, gli drenano il pus, e lo spalmano di mercurocromo fino alla caviglia. Lui, zitto, non un lamento, occhi spalancati. La squadra di medici è formata da un chirurgo, un anestesista, un radiologo, e quattro tra infermieri e infermiere. Per non metterli in imbarazzo, preciso che quella che sto per fargli non è una domanda politica: “Qualcosa è cambiato nel vostro lavoro dopo the Change?”. Risposta unanime dei medici: “Be’, il cambio di regime ha toccato tutti i campi, tutti gli ambiti, tranne il nostro”. “E perché?”. “Perché c’è sempre un sacco di gente da curare, come prima, e noi curiamo tutti”. FRANCESCA d’ALOJA - Il più anziano fra i dottori commenta sconsolato guardando i piccoli pazienti in attesa: “Una generazione che non può accedere agli studi è una generazione perduta”. Con il suo inglese fluente e la sua laurea misura l’abisso che li separa. EDOARDO ALBINATI - Festeggiamo il mio compleanno partendo prima del sorgere del sole per Qalat, provincia di Zabul, 140 chilometri a nordest di Kandahar, dove, però, in capo a tre ore di viaggio su buon asfalto intervallato da tormentose piste di polvere dove i tir decorati come carri di Viareggio incedono lenti tra nubi rossastre, non sappiamo se il solito funzionario ci rilascerà o meno il permesso per andare in giro. Nel panorama desertico le tende multicolori (patchwork di stracci) dei pastori nomadi, i mitici kuchi, circondate dai puntolini neri delle greggi di capre, si alternano a installazioni di pannelli solari: ed è l’ennesimo cortocircuito tra mondo arcaico e postmoderno. Persino certe bottegucce di bastoni incrociati e stoppie o le capanne di fango hanno su un pannello solare. Qui il sole certo non gli manca, 330 giorni l’anno. Il problema è che negli altri giorni scende il diluvio e allaga tutto. Nei punti dove l’asfalto è spaccato e le auto devono andare a passo d’uomo sono piazzati poveri bambinetti impolverati che salutano allegri offrendo, disperatamente, melograni rosso fuoco o pentolini di tè caldo. FRANCESCA d’ALOJA - E quel che non hanno fatto guerra, attentati e sanzioni, lo ha fatto la siccità. Lo vediamo con i nostri occhi arrivando nel poverissimo villaggio di Sayedullah vicino Qalat. È una delle zone raggiunte dall’unità medica mobile di Intersos, che con il suo furgone attrezzato garantisce assistenza alle comunità remote. I medici sono già al lavoro: hanno allestito un banchetto all’ombra di un grande albero, a ridosso di un laghetto artificiale la cui pompa è alimentata da un pannello solare: il solo elemento di modernità in un contesto immutato nei secoli. Il passaggio due volte al mese dei medici è accolto come una festa dai 180 abitanti del villaggio che si riuniscono in gruppi ordinati per farsi visitare, vaccinare o ricevere buste di cibo iperproteico. Il capovillaggio ha messo a disposizione una stanza della sua bellissima (sì, bellissima) casa fatta di paglia e fango per lo screening della denutrizione. Siamo circondati dai bambini più belli del mondo (impareggiabile il primato dell’Afghanistan in tal senso), e sprofondiamo nel segreto di quegli occhi splendidi e soprannaturali che non esistono in nessun altro luogo del pianeta. EDOARDO ALBINATI - Questa strepitosa, efficientissima Mht (Mobile Health Team) è formata da due medici, un’ostetrica, un addetto alle vaccinazioni, due infermiere di cui una specializzata nella denutrizione, un incaricato dell’educazione all’igiene, più due uomini e due donne che hanno il compito di seguire i casi di disagio familiare, maltrattamenti e altre questioni di carattere legale, cioè tutta quell’attività di supporto che va sotto il nome di protection, dato che qui i guai non si limitano mai alla salute. Fondamentale è il referral system, per cui il malato che necessita di ulteriori cure viene indirizzato verso la più vicina struttura sanitaria in grado di fornirgliele, e accompagnato in ambulanza o pagandogli il transfer. FRANCESCA d’ALOJA - Già stremati, ci spostiamo verso un piccolo consultorio nel luogo più sperduto che si possa immaginare, Zozgarai. Qui, fra le altre attività, Intersos accoglie i bambini degli sfollati e i figli dei pazienti, per i quali è stata allestita una commovente ludoteca dove tutti insieme, maschi e femmine (a volte le ristrettezze generano un senso pratico capace di superare i regolamenti) giocano, fanno disegni su grandi fogli e ascoltano i suggerimenti di un giovane operatore che li intrattiene con il poco a disposizione. Sorridono, applaudono, ci fanno festa. Fra loro, una bambina che difficilmente dimenticherò: è bella da togliere il fiato, e il suo sguardo, adulto e dolente, mi trafigge. Le scatto una foto, un primo piano formidabile che poi invio ad alcuni amici. Reazione: “Steve McCurry te spiccia casa”. Sembra facile essere Steve McCurry, qui. Ci sono anche stanze a disposizione delle donne, che però spesso disertano perché non hanno un mahram disposto ad accompagnarle. I medici si sono offerti di pagarne uno pur di farle venire. EDOARDO ALBINATI - Spin Boldak si trova 110 chilometri a sudest di Kandahar, non lontano dalla frontiera col Pakistan. C’ero stato in missione vent’anni fa con l’Unhcr, dopo che era saltato per aria un deposito di munizioni: la strada per arrivarci era atroce o meglio, per usare l’espressione di uno sgomento giornalista inglese, “tra l’atroce e il non-esistente”. Dei vecchi ponti (su fiumi fantasma, prosciugati dalla siccità) restavano percorribili solo alcune strisce simili a grossi elastici pronti a spezzarsi, eppure le macchine e persino i camion ci passavano sopra calcolando a occhio la carreggiata tra le ruote per non finire di sotto. Rispetto ad allora la strada è una favola, si allunga dentro un deserto che ha per quinte scure montagne dentellate o ammassi di globi rosacei allisciati dal vento. Tra cumuli conici di sassi si aggirano pastorelli e capre, mentre i bambini sul ciglio della strada agitano la manina tentando di arrestare le macchine per vendergli la frutta che tengono in un cestino premuto sul fianco. Ma le macchine passano a cento all’ora sbuffandogli addosso polvere gialla. FRANCESCA d’ALOJA - E poi ancora figure solitarie che vagabondano per la pianura, sembra, senza meta. I posti di blocco non sono più di due, presidiati dai soliti ragazzetti sdruciti col fucile in spalla. Chiedo all’autista di fermarsi un momento, voglio raccogliere un po’ di terra da aggiungere alla mia collezione di terre del mondo - sarà questa una delle più preziose per me. Nella frazione di Akbar, la Static Facility è un piccolo gioiello. Sotto un tendone, un gruppo di donne sedute su un grande tappeto (con i burqa di diversi colori fiammanti, un’immagine che dà turbamento ma esteticamente potentissima) ascolta immobile le semplici indicazioni di un medico circa le norme igieniche da seguire per prevenire diarrea e disidratazione - sali o composti zuccherini da diluire nell’acqua. Mi chiedo cosa riescano effettivamente a vedere attraverso quella trama fitta (e come si possa sopportarla, quella griglia davanti agli occhi...). Attorno a loro, bambini con gli occhi cerchiati dal kajal (non si tratta di un vezzo bensì di prevenzione contro le infezioni) stanno in silenzio uno accanto all’altro. A poca distanza gli operatori di Intersos ci tengono a mostrarci il Protection Corner, una stanza accogliente dalle pareti in fango color ocra illuminate da una piccola finestra e un bel tappeto a riscaldare l’ambiente. Sapendo di poter contare sulla garanzia della riservatezza, le donne che hanno subito abusi e violenze trovano qui una consulente pronta ad ascoltare i loro racconti. Mentre mi aggiro nel cortile, faccio caso a una donna coperta dal burqa, seduta a terra, sola. Anche se non vedo i suoi occhi, li sento puntati su di me. Sembrerà strano, ma ci siamo guardate a lungo. In silenzio. Ho alzato la mano in segno di saluto, lei ha ricambiato, sfilando la sua, rossa di henné, da sotto il vestito. E allora le ho mandato un bacio, e lei, di rimando, ha poggiato la mano sul cuore. EDOARDO ALBINATI - In modo spiccio (che poi è sempre il modo migliore), qualcuno mi ha chiarito una situazione che proprio non arrivavo a capire: com’è possibile che l’esercito regolare afghano sia stato sconfitto così facilmente da un’armata quattro volte meno numerosa e piuttosto sgangherata come quella dei talebani? Avevo usato il verbo defeat, e proprio qui mi sbagliavo. Quale sconfitta? mi hanno spiegato, no, no, è stato un handover, che si potrebbe rendere come “avvicendamento” ovvero “passaggio di consegne”. Con gli accordi firmati a Doha nel 2020, gli americani (e i loro alleati, tra cui noi) hanno di fatto ceduto il controllo del Paese ai talebani tagliando fuori dalle trattative il governo ufficiale afghano, in cambio di minime rassicurazioni sul terrorismo internazionale, e basta. Tre presidenti hanno partecipato al ritiro Usa quasi senza porre condizioni: Obama lo ha avviato, Trump controfirmato e Biden semplicemente eseguito. Di conseguenza l’esercito regolare afghano si è dissolto, dato che rispondeva a un governo oramai divenuto fantasma, e non più riconosciuto nemmeno da chi lo aveva fino ad allora sostenuto economicamente e militarmente. Ora si accusano i talebani di non rispettare i diritti umani: ma scusate, cosa vi immaginavate avrebbero fatto dopo che gli avete consegnato le chiavi del Paese? La situazione ricorda quella del Mexican Standout reso famoso dai film di Tarantino: i Paesi occidentali non allentano le sanzioni e non restituiscono all’Afghanistan i suoi asset congelati (7 miliardi di dollari nelle banche americane; 2,5 in quelle europee) finché gli studenti islamici non restaurano almeno un simulacro di libertà; i talebani hanno capito benissimo che non possono fare a meno degli aiuti, e usano la popolazione come ostaggio. Nel frattempo qui la gente muore di fame e tra poche settimane morirà anche di freddo. La comunità internazionale non può permettersi una catastrofe umanitaria, e tantomeno che il Paese sia per l’ennesima volta frantumato dalla guerra civile, eppure non molla, non vuole finanziare i suoi nemici; ma non mollano nemmeno i talebani, che restano aggrappati alla Sharia perché non hanno in mente nient’altro. Imperturbabili come sempre, i cinesi hanno puntato gli occhi sul Paese, mentre i russi (gli invasori degli anni Ottanta), messi male come sappiamo, alla disperata ricerca di alleanze di ogni tipo lo riforniscono ancora per un po’ di gas a prezzi stracciati. Come se ne esce? FRANCESCA d’ALOJA - Di fronte a questo vuoto incolmabile, la presenza degli operatori umanitari assume davvero connotati eroici. E dirlo non è retorica. EDOARDO ALBINATI - Vent’anni fa, ricordo il cielo oscurato fino all’orizzonte dal fumo delle fornaci di mattoni intorno a cui lavoravano frotte di ragazzi fuligginosi: uno spettacolo infernale eppure vitale, col sole che ogni tanto sbucava pallido nella nuvolaglia nera. Oggi, sulla spianata di Baba Qashkar, una trentina di chilometri fuori Kabul, le innumerevoli ciminiere sono quasi tutte spente. Si drizzano nel nulla. Non si costruisce più, in Afghanistan, è tutto fermo, bloccato, a cosa servirebbero nuovi mattoni? E chi pagherebbe gli uomini? Dopo aver visitato la clinica di Intersos, ci rechiamo in visita dalle famiglie che beneficiano dei suoi servizi medici. Nel primo compound vivono sei famiglie una più povera dell’altra. Avevano quaranta tra pecore e capre, ora è rimasto solo qualche pollo; il resto tutto mangiato o venduto. FRANCESCA d’ALOJA - Eppure c’è sempre una ricercatezza nell’allestimento delle loro abitazioni, dalle stoffe cucite una sull’altra che ricoprono il pavimento ai colori degli intonaci, ai cuscini disposti a terra. In un angolo, una piccola amaca di stoffa colorata funge da culla. Un’eleganza antica, innata. EDOARDO ALBINATI - È proprio così: per una legge singolare qui tutto ciò che è povero è dignitoso, gli interni delle case di gente che muore di fame sono spogli - qualche tappeto o cuscino rattoppato in terra - eppure pieni di decoro, mentre appena si vedono i soldi, il gusto si fa pacchiano, gli arredamenti diventano in stile “Gomorra”. Ricopio qualche frase dal quaderno di inglese del primogenito di una famiglia disastrata, Nur, sedicenne, incantevole e fiero, un accenno di baffetti sul labbro superiore: “Ahmed tease me everytime” (Ahmed mi prende sempre in giro) e I want to learn Drum (Voglio imparare a suonare la batteria). Suo padre non è in casa, è andato sulla montagna che si erge alle spalle del villaggio in cerca di legna o di qualcosa di commestibile. FRANCESCA d’ALOJA - E ora un nucleo di sette persone. Il capofamiglia ci invita a sederci, attorno a lui i suoi bambini, a sinistra l’anziano padre, sdentato e cieco, che blatera accarezzandosi la barba, a destra la moglie col volto semicoperto, di cui si intravedono gli occhi più tristi del mondo. Ci siamo preparati delle domande che alla fine vengono convogliate nella sola e unica che abbia un senso: “Come fate a sopravvivere?”. Dopo aver visto le loro case, contato i loro bambini (mai meno di 5 per famiglia) e constatato la totale assenza di beni di prima necessità, ci si chiede davvero come facciano a tirare avanti, come faranno a superare l’inverno. Con agghiacciante rassegnazione il padre ci dice: “So già che forse dovrò rinunciare a uno dei miei figli”, facendoci capire che sarà il più debole a soccombere. Con terrore guardo i suoi bellissimi bambini, a uno a uno, chiedendomi su quale di essi pende la spada dell’ineluttabilità. EDOARDO ALBINATI - A Kamari, slum di Kabul, entriamo nella poverissima eppure incredibilmente decorosa casetta di una famigliola con cinque figli, i più piccoli presenti, i primi due a studiare alla madrassa. Il babbo ha un carretto di frutta con cui riesce a rimediare due o tre dollari al giorno. A risponderci è però sua moglie, una giovane donna scarna dallo sguardo esasperato. Non è un’esagerazione dire che questa famiglia non ha niente, ma proprio niente: niente soldi, cibo, legna da ardere, che ne so, una capretta... no, niente. Il bambino più piccolo è denutrito e in cura presso il vicino presidio medico di Intersos, e anche la madre lo è. Ma come vi scalderete quest’inverno? chiediamo. Facendo bollire un po’ d’acqua e mettendola in un sandali, che è poco più di uno di quegli scaldini che le nostre nonne mettevano in fondo al letto, con una temperatura che a Kabul a gennaio oscilla poco sopra e molto sotto lo zero, e qui dovrebbe assicurare la sopravvivenza di sette persone - anzi, tra breve otto, perché lei è di nuovo incinta (oh nooo! ancora? penso io). “In un anno, mangeremo carne forse due volte...” dice, sfinita. L’elemento incongruo nella scena è una signorina elegantissima in un completino rosso fuoco: sta in piedi in un angolo, zitta, in attesa. Chi sarà mai? La sorella nubile della padrona di casa. Aspetta la fine della nostra intervista per accompagnare il nipotino, che è malato di “jaundice”. Rimugino il mio esiguo lessico medico in inglese... ma sì, “jaundice” è l’ittero, e in effetti il colorito del fantolino è giallo-cera... FRANCESCA d’ALOJA - Dove lo porterà, dai medici di Intersos? No, dal mullah. E cosa potrà mai fare il mullah per il malatino? Dirà una preghiera. EDOARDO ALBINATI - Per visitare l’ultima famiglia dobbiamo scavalcare gli scoli a cielo aperto. La strettoia che conduce alla loro casetta è un corridoio di fango, e siccome esitiamo a tuffarci dentro i piedi, un ragazzino già imbrattato dalla testa ai piedi ci sparge sopra qualche manciata di polvere per asciugarlo - una premura tanto velleitaria quanto struggente. In cima a una scala il fratellino sta issando un mastello che sarà pesante quanto lui, per riparare il tetto col fango. Be’, la situazione qui è davvero grama: il padre è disoccupato da quando la fabbrica di mattoni per cui lavorava ha chiuso i battenti, mentre la madre che cuoceva il pane per le donne del quartiere con un guadagno giornaliero tra i cento e i duecento afghani (sì e no due euro e mezzo) ha dovuto smettere perché la legna è diventata troppo cara. Mentre l’uomo è così abbacchiato che quasi non spiccica parola, la donna è un fiume in piena, loquacissima, furibonda: “Se troviamo qualche soldo per una cosa, non ce l’avremo per un’altra!”. E la figlia di diciott’anni non può più andare a scuola... FRANCESCA d’ALOJA - Insomma, ci diciamo andando via a occhi bassi, eccola qui la tipica, irresistibile miscela afghana: miserie abissali e meraviglie ipnotiche, rabbia e soavità, crudeltà e innocenza disarmanti. Attività di soccorso e punizioni. Inestricabilmente intrecciate. Contrasti, contrasti e ancora contrasti. C’è un detto che lo spiega bene: “Quando credi di aver finalmente capito l’Afghanistan, allora vuol dire che non l’hai capito”.