“È presto” per la riforma Cartabia. Peggiora l’ergastolo ostativo di Eleonora Martini Il Manifesto, 1 novembre 2022 Riproposto per decreto il testo sui mafiosi (e non solo) sul quale alla Camera si era astenuto Fratelli d’Italia. I penalisti italiani: “Norme in spregio delle indicazioni del Giudice delle Leggi”. Non c’è solo la spada di Damocle della Corte costituzionale con la scadenza dell’8 novembre sull’ergastolo ostativo. Riguardo la Giustizia, i requisiti di necessità e urgenza che dovrebbero giustificare il decreto legge sarebbero dovuti anche, stando a quanto spiegato dal Guardasigilli Carlo Nordio al termine del primo Cdm del governo Meloni, al “grido di dolore degli uffici giudiziari”, impreparati all’entrata in vigore della riforma Cartabia prevista per domani e ora - per effetto del provvedimento governativo - slittata al 30 dicembre. La soluzione è presto trovata anche per fermare il preannunciato giudizio di incostituzionalità sulle norme che impediscono a priori l’accesso ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale dei detenuti mafiosi (e non solo) che non abbiano collaborato con la giustizia. È bastato riproporre in forma di decreto legge lo stesso testo arenatosi al Senato, in modo da ostacolare intanto l’imminente pronunciamento della Consulta che potrebbe decidere di non esprimersi su una norma ancora in divenire. E infatti la presidente Giorgia Meloni, che su quel testo alla Camera diede indicazione di astensione (insieme a Italia Viva) perché considerato troppo “morbido” con i mafiosi, ha auspicato ieri che “in sede di conversione del decreto, il Parlamento possa migliorare la norma che era uscita dalla precedente legislatura”. D’altronde, il monito dei giudici costituzionali era rivolto proprio al Parlamento, e Meloni passa ora la palla alla sua maggioranza sfidando gli eventuali garantisti che si annidassero nel centrodestra a dimostrare che “nella lotta alla mafia non intendiamo fare neanche mezzo passo indietro, ma solo passi in avanti”. La parola ora va al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che valuterà la fondatezza dei motivi di necessità e urgenza del provvedimento. Per quanto concerne la riforma del processo penale, quella messa a punto dalla ministra Cartabia “avrebbe comportato un sovraccarico intollerabile per tutti gli uffici giudiziari”, ha spiegato Nordio rivelando di aver ricevuto in questo senso una lettera firmata da tutte le procure d’Italia. Perché, per esempio, “sarebbe stato impossibile garantire il flusso informativo tra pm e procure generali che la normativa prevede”, in particolare riguardo al passaggio dalla procedibilità d’ufficio a quella su querela riguardante alcuni reati. E, aggiunge Nordio, c’è al momento “incompatibilità anche con le risorse disponibili”. Però il rinvio, assicura, non avrà “alcun impatto negativo per il Pnrr”. sull’ergastolo ostativo invece, la bozza di decreto legge dovrebbe prevedere solo poche variazioni rispetto al ddl approdato in Senato (Nordio ha parlato di “piccole modifiche tecniche” riguardanti i tribunali). Ma anche in questo caso il nuovo testo di legge si allontana e di molto, secondo gli avvocati penalisti e l’Associazione Antigone, dalle indicazioni della Consulta. Va chiarito intanto che le restrizioni di accesso ai benefici penitenziari previste dal testo non si applicano solo ai condannati per associazione mafiosa e terroristica, ma anche a detenuti che scontano pene per scambio politico-elettorale di tipo mafioso, violenza sessuale su minore e di gruppo, tratta di migranti (un’accusa che può essere rivolta anche al migrante lasciato a pilotare il barcone), traffico di sostanze stupefacenti, induzione e sfruttamento alla prostituzione minorile e pedo pornografia, ecc. Su questo tipo di detenuti grava l’inversione dell’onere della prova: dovranno essere loro a dimostrare “l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento”, e allegare “elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso”. In ogni caso, i condannati “non potranno comunque essere ammessi alla liberazione condizionale se non hanno scontato almeno due terzi della pena temporanea o almeno 30 anni di pena, in caso di condanna all’ergastolo”. Sono queste, secondo l’Unione camere penali, “tali e tante condizioni “impossibili”, da determinare un eclatante peggioramento del regime normativo previgente, in spregio delle indicazioni del Giudice delle Leggi”. Infine, come ha notato anche un “sorpreso” Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti, viene aggiunta (comma 1 del 4 bis dell’ordinamento penitenziario) una limitazione allo scioglimento del cumulo tra reati ostativi e non ostativi. Ma è un frutto avvelenato che viene da lontano: “Purtroppo - come spiega Gian Paolo Catanzariti, responsabile Osservatorio carceri dell’Ucpi - ci portiamo dietro 30 anni di diritto costituzionale calpestato da tutti i governi, di destra e di sinistra”. Ergastolo ostativo, passa la linea grillina e il decreto è peggiorativo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 novembre 2022 Il decreto legge non solo riprende il testo già approvato, ma inserisce punti peggiorativi tratti dalla vecchia proposta del M5S. L’allarme Ucpi: “Sarà colpito anche chi non è all’ergastolo ostativo”. La prima mossa del governo Meloni sull’ergastolo ostativo non è solo il ricalco della proposta di legge approvata alla Camera, ma presenta punti “peggiorativi” già contenuti nel disegno di legge grillino che fu presentato dall’ex sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi. Nel decreto legge varato dal Consiglio dei ministri ha vinto la concezione illiberale del diritto penale che attraversa - tranne alcune eccezioni come Forza Italia, Terzo polo e parte del Pd -, quasi tutto l’arco parlamentare attuale. Di fatto, già la legge che fu approvata dalla Camera, seppur depurandola di alcuni punti della proposta grillina, non era in linea con le indicazioni date dalla Consulta. Aveva infatti posto ulteriori paletti come l’eliminazione delle ipotesi di collaborazione “impossibile” e “inesigibile”. Il decreto va contro la sentenza della Corte costituzionale - In sostanza, verrà meno la possibilità per rarissimi casi di ergastolani ostativi di poter accedere ai benefici perché, solo per fare un esempio, l’organizzazione di appartenenza non esiste più e qualsiasi collaborazione con la giustizia non servirebbe. Oppure, altro esempio, l’ergastolano ha avuto una posizione talmente marginale nell’associazione mafiosa, che pur volendo collaborare non può visto la non conoscenza completa dei fatti. Eliminando tutto questo (il decreto legge avanzato dal governo Meloni lo riprende), si va contro le indicazioni della sentenza costituzionale stessa che sancisce la differenza tra la mancata collaborazione per scelta con quella per impossibilità. Nell’ostatività finiscono anche i reati contro la pubblica amministrazione - Il decreto legge Meloni riprende anche l’aumento da ventisei a trenta anni di pena da scontare prima di poter presentare l’istanza di liberazione condizionale. Così come, ed è anche ciò che hanno sottolineato i penalisti delle Camere penali, non si dice che nell’ostatività finiscono anche i reati contro la pubblica amministrazione, proprio insieme ai delitti di criminalità organizzata, terrorismo, eversione dell’ordine democratico, riduzione in schiavitù, prostituzione minorile, sequestro di persona e così via. Parliamo dell’abnormità della “spazza corrotti”, la riforma Bonafede. Si rende quasi del tutto impossibile la concessione dei benefici - Ha vinto, di fatto, la propaganda di una parte consistente dell’informazione, soprattutto quella che è di “opposizione”. Una opposizione che pretende, riuscendoci, leggi più vicine allo Stato di polizia che di Diritto. Paventando il pericolo inesistente della scarcerazione facile dei boss stragisti (una bufala smentita dai fatti, leggasi le istanze sui permessi premio respinte ai Graviano), si aggirano le indicazioni della Corte costituzionale, per rendere quasi del tutto impossibile la concessione dei benefici per chi si è macchiato di reati ostativi. Il decreto legge, com’è detto, non ricalca esattamente la proposta di legge votata alla Camera, ma inserisce punti ulteriormente peggiorativi già avanzati dai Cinque stelle. Ad esempio c’è il depotenziamento interpretativo che consentiva il cosiddetto scioglimento del cumulo il quale permetteva di ritenere cessata l’ostatività una volta scontata la parte di pena relativa appunto ai delitti ostativi. Come sintetizza bene Vincenzo Giglio sul blog Terzultima fermata, con il decreto legge lo scioglimento non sarà più permesso nei casi in cui il giudice della cognizione (o, in alternativa, il giudice dell’esecuzione o il giudice di sorveglianza) abbiano accertato la sussistenza di una connessione qualificata tra il delitto non ostativo e quello ostativo, connessione che ricorre in particolare quando il delitto ostativo sia stato commesso “per eseguire od occultare uno dei reati di cui al primo periodo, ovvero per conseguire o assicurare al condannato o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero l’impunità di detti reati”. L’allarme delle Camere penali: si aggravano gli effetti delle ostatività relativi ad un ben più ampio catalogo di reati - Per quanto riguarda i due requisiti per accedere ai benefici, ovvero la mancanza di collegamenti e la mancanza di pericolo di ripristino, il decreto legge li riprende dalla sentenza della Consulta sul permesso premio. Ma aggiungendo, come prevedeva già il testo approvato alla Camera, la cosiddetta “probatio diabolica” a carico del richiedente. Dopo 30 anni di carcere, il detenuto stesso deve dimostrare il mancato pericolo di ristabilire il collegamento con il contesto territoriale suo e dei suoi. Cosa significa? La fine delle misure alternative, non solo per i “sanguinari”, ma anche per tutti quelli che verranno condannati a pene anche più contenute. In sostanza, il criterio di ammissione alle misure sarà quello dettato per l’ergastolo ostativo. E sul punto, come già detto, l’Unione delle Camere penali italiane lancia l’allarme, sottolineando “la manipolazione informativa che sta accompagnando l’adozione di questo provvedimento, indicato come relativo al solo tema dell’ergastolo ostativo, quando invece esso riguarda ed aggrava gli effetti delle ostatività relativi ad un ben più ampio catalogo di reati, a cominciare da quelli contro la pubblica amministrazione”. Entro due mesi questo provvedimento dovrà diventare legge, martedì prossimo 8 novembre dovrà pronunciarsi però la Consulta. Quest’ultima prorogherà per la terza volta la scadenza? Ergastolo ostativo, benefici ammessi ma con limiti stretti di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2022 Nuove regole per l’ergastolo ostativo. A pochi giorni dalla nuova udienza della Consulta sull’illegittimità del regime di divieti per i detenuti più pericolosi (la terza, prevista per l’8 novembre prossimo) il Governo interviene con un decreto legge per tamponare il mancato esito parlamentare sul tema: il testo unificato dell’Atto del Senato 2574 è stato infatti approvato dal solo ramo della Camera prima della fine della scorsa legislatura. Il problema sollevato dalla Consulta, con l’ordinanza dell’u maggio 2021, riguarda l’impossibilità legale di concedere benefici penitenziari, dal lavoro esterno fino alla liberazione condizionale, ai detenuti che non collaborano conia giustizia. Le nuove regole per l’accesso ai benefici disegnate nel decreto prevedono che il detenuto condannato per reati associativi, scontato un periodo minimo fissato dalla legge, nella sua domanda di libertà rivolta ai giudici indichi elementi specifici che “consentano di escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo di ripristino dì tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”. Se il reato alla base della condanna invece era “non associativo”, a cominciare da quelli contro la pubblica amministrazione, il detenuto dovrà dimostrare al tribunale di sorveglianza (e non più al solo magistrato di sorveglianza) di aver tagliato i collegamenti con il contesto dentro cui il reato era stato commesso. In sostanza la riforma, così come indicato dalla Consulta nel suo doppio monito, supera la presunzione legale assoluta secondo cui la commissione di un certo tipo di reati dimostra l’appartenenza senza soluzione di continuità alla criminalità organizzata, facendo così scattare un indice di pericolosità sociale incompatibile con i benefici penitenziari. In ogni caso il detenuto che vuole accelerare il suo percorso di reinserimento sociale (finalità, come noto, di rango costituzionale) deve anche dimostrare di aver saldato i debiti da reato - adempiendo alle obbligazioni civili e agli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna - o provare la assoluta impossibilità di fare fronte a questi debiti. Inoltre, il candidato al lavoro esterno, alla liberazione condizionale e agli altri benefici extra-murari dovrà indicare nella domanda al giudice “elementi specifici” che consentano di escludere sia l’attualità di collegamenti conia criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, sia il “pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”. Prima di deliberare, comunque il giudice dovrà verificare la regolare condotta carceraria, la partecipazione al percorso rieducativo, e la dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di appartenenza, oltre a verificare iniziative del condannato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa. Resta in ogni caso obbligatorio sentire il parere del pubblico ministero presso il giudice di primo grado (cioè quello che ha svolto le indagini), nel caso di mafia a terrorismo la valutazione spetta alla Procura distrettuale. La liberazione condizionale per i condannati all’ergastolo per reati ostativi, e non collaboranti, potrà essere presa in considerazione solo dopo 3o anni di pena (per i reati non ostativi, e peri collaboranti, rimane il limite di 26 anni), mentre serviranno 10 anni dopo la liberazione condizionale per estinguere la pena dell’ergastolo e revocare le misure di sicurezza personali ordinate dal giudice (per i non ostativi, e per i collaboranti, 5 anni). Altra novità importante è la possibilità per la Guardia di finanza di procedere a indagini fiscali nei confronti dei detenuti per il 41-bis (quindi in fase esecutiva della sentenza), Gdf che riceverà quindi dal ministero una copia del decreto dei detenuti sotto regime di controllo rafforzato. Arriva per decreto la stretta sull’ergastolo ai mafiosi. Timori per il rinvio della riforma Cartabia di Conchita Sannino La Repubblica, 1 novembre 2022 Il collaboratore dell’ex ministra: “Blitz mai visto. Dubbi di legittimità costituzionale”. Meloni: “Si rischiava la paralisi, saremo nei tempi del Pnrr”. Slitta a fine anno la riforma del processo penale. Il sistema non era pronto e si va quindi al 30 dicembre: verso la soglia estrema oltre la quale l’Italia rischierebbe di perdere i fondi del Pnrr. Nasce invece, anche per evitare la scure della Consulta e la successiva scarcerazione di mafiosi e stragisti, il “nuovo” ergastolo ostativo: che pone articolati filtri alla concessione dei benefici penitenziari per chi non collabora con lo Stato. Tocca due punti nevralgici della Giustizia il primo provvedimento “politico” voluto da Giorgia Meloni. Che sottolinea: “Un atto simbolico. Ne sono fiera”, riferendosi al “fine pena mai” per i superboss, che per lei non andrà indebolito ma messo in sicurezza. Restano comunque distinti gli accenti posti, su questi nodi, dalla premier e dal Guardasigilli Carlo Nordio. Anche se Meloni sdrammatizza con una battuta: “Come vedete ho tolto anche il bavaglio al ministro”. Il rinvio della riforma penale - Era proprio necessario rinviare tutta la riforma Cartabia? Meloni non ha dubbi: “C’era il rischio della paralisi del sistema giudiziario”. E pure quello che “una serie di detenuti potessero uscire dal carcere”. Quindi, “ci prendiamo due mesi”, ma il Piano Nazionale non andrà compromesso, assicura la premier. Che ipotizza anche modifiche in sede di conversione del decreto. Nordio è più soft, addebita la responsabilità del rinvio “al grido di dolore delle procure che non potevano far fronte alle nuove regole con le risorse disponibili”. La “colpa” insomma sarebbe tutta della lettera dei 26 Procuratori generali giunta “solo” sulla sua scrivania. Certo Cartabia non ne era al corrente. E come nel suo stile, non commenta. Non può passare però inosservata la reazione del suo più stretto collaboratore, il giurista Gian Luigi Gatta, che dalle pagine di Sistema penale, usa espressioni dure. Il rinvio? Un “blitz governativo che non si era mai visto”, “susciterà dubbi sull’affidabilità italiana”. I due mesi in più sollevano anche profili “di legittimità costituzionale”. Cosa succederà, infatti, se chi avrebbe potuto godere di norme più favorevoli si vedrà applicate quelle più sfavorevoli? È il chiaro preannuncio di possibili ricorsi alla Consulta. Ma Meloni e Nordio sono tranquilli. Il ministro assicura che “non ci sarà alcun impatto negativo sul Pnrr: così com’è, la riforma avrebbe creato confusione, “le Procure avevano emesso circolari a volte non compatibili tra loro”. Entusiaste, invece, le toghe. “Fortunatamente - dice il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia - il governo ci ha ascoltato sulla necessità di una norma transitoria”. Resta l’ergastolo ostativo - Pugno duro contro la mafia, è il messaggio di Meloni. Per fermare la corsa contro il tempo. La Corte Costituzionale aveva infatti dato al Parlamento un anno e mezzo di tempo per rivedere le norme che precludono i benefici penitenziari per gli ergastolani mafiosi o stragisti che non collaborino con lo Stato. L’8 novembre prossimo c’è l’udienza della Consulta. Ed ecco i “paletti” inseriti nel decreto di ieri: che però riprendono esattamente il testo approvato dalla Camera la scorsa primavera, e a cui FdI non aderì. “Registriamo un cambiamento di posizione da parte di Fratelli d’Italia, che quel testo non lo aveva votato - bacchetta infatti Anna Rossomando, responsabile Giustizia del Pd - contrariamente a quanto affermato in conferenza dalla presidente Meloni”. In sintesi: non basterà la sola buona condotta carceraria, o la partecipazione al trattamento ma saranno previsti l’obbligo di risarcire i danni provocati, insieme con una serie di requisiti in grado di escludere l’attualità dei legami con la criminalità organizzata o il rischio di riallacciarli. Saranno evitati quindi “eventuali automatismi” e c’è l’obbligo da parte del giudice di sorveglianza di acquisire tutti i pareri. Per la liberazione condizionale, si può inoltrare richiesta solo dopo aver scontato 30 anni di carcere. Per Meloni comunque non basta: “In sede di conversione mi auguro che il Parlamento possa migliorare la norma. Sul tema della lotta alla mafia non faremo passi indietro ma passi in avanti”. Protesta l’Unione Camere Penali. Si augura che Nordio “voglia impedire la perpetrazione di un atto che costituisce anche un inammissibile atto di ribellione al Giudice delle leggi”. Mentre a criticare duramente il decreto, “che non risponde alle sollecitazioni della Consulta”, è anche l’Associazione Antigone. Per il suo presidente Patrizio Gonnella, “il governo è rimasto imprigionato nella paura di fare un regalo alle mafie, innovando in modo non sufficiente la legislazione penitenziaria”. Manette e intercettazioni. Le priorità di Meloni durante la crisi economica di Giulia Merlo Il Dubbio, 1 novembre 2022 Nel mezzo della crisi energetica e del caro bollette, il primo Consiglio dei ministri di Giorgia Meloni detta le priorità del governo: una stretta securitaria fatta di manette e intercettazioni. La premier ha annunciato tre provvedimenti in materia di giustizia, tutti confluiti in un maxi decreto legge insieme alle norme sanitarie sul reinserimento dei medici No-vax in ospedale: tentare di fermare la Corte costituzionale nella dichiarazione di incostituzionalità dell’ergastolo ostativo; rinviare l’entrata in vigore della riforma Cartabia al 30 dicembre e, soprattutto, introdurre un nuovo reato per permettere l’arresto e l’intercettazione degli organizzatori dei rave party. “Lo stato c’è e non si fa mettere i piedi in testa”, ha detto. Il nuovo reato - Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha illustrato la nuova fattispecie di reato. Colpisce “l’invasione di terreni e fabbricati finalizzata a raduni, con più di 50 persone, e da cui possano derivare pericoli per l’ordine pubblico e la salute pubblica” e prevede la confisca dei beni utilizzati per commettere il reato, quindi eventuali mezzi di trasporto e casse per la musica nel caso delle feste illegali come quella che in questi giorni si è svolta a Modena. Ma, soprattutto, prevede una pena molto alta: da tre a sei anni. Il reato, scritto con l’aiuto del ministro della Giustizia, Carlo Nordio - che negli anni si è espresso contro gli eccessi della carcerazione e si è detto contrario all’uso massiccio di intercettazioni - tradisce la linea giustizialista del governo. Prima del Consiglio era circolata addirittura l’ipotesi di prevedere anche l’uso di intercettazioni preventive, istituto ai limiti della Costituzione e oggi previsto solo per reati di mafia e terrorismo internazionale. Escluso questo eccesso, il nuovo reato è stato comunque costruito per essere il più duro possibile: le pene, infatti, non sono state scelte a caso. La massima fino a 6 anni permette l’uso delle intercettazioni come strumento di indagine e la minima di 3 anni rende più difficile accedere alla sospensione condizionale della pena nel caso in cui i condannati siano incensurati. Non solo: per come è formulato, il reato potrebbe anche essere utilizzato per procedere contro altri tipi di occupazioni. E ha già messo in allarme studenti e operai. L’ergastolo ostativo - La scelta di inglobare in un decreto legge il testo approvato dalla Camera nella passata legislatura in materia di ergastolo ostativo, infine, non mette comunque al riparo il governo dalla valutazione della Consulta. La Corte ha dichiarato incostituzionale l’automatismo che impedisce l’accesso ai benefici carcerari ai detenuti per reati di mafia, terrorismo, associazione a delinquere per traffico di droga, se non hanno collaborato con la giustizia. Il testo approvato elimina sì l’automatismo e lega la valutazione sulla concessione dei benefici alla decisione del tribunale dell’esecuzione. Tuttavia, tocca al detenuto dimostrare di non avere più “collegamenti attuali” con la criminalità e con il contesto in cui aveva commesso il reato, oltre a prevedere adempimenti civili nei confronti delle vittime ed elementi specifici sul suo percorso rieducativo. Una dimostrazione nei fatti quasi impossibile, è la critica, tanto che la legge rischia di non essere in linea con i rilievi della Consulta. Non a caso Meloni ha parlato di difesa dell’ergastolo ostativo rispetto alla dichiarazione di incostituzionalità. Tuttavia, l’ultima parola spetta comunque alla Corte: l’8 novembre si riunirà e valuterà se rinviare le carte al giudice che ha sollevato la questione di costituzionalità oppure, se riterrà che il dl sia la fotocopia peggiorativa della prima legge impugnata, potrà trasferire la questione di costituzionalità sul nuovo decreto legge. Giovanni Maria Flick: “Ombre di incostituzionalità nel Dl sull’ergastolo” di Errico Novi Il Dubbio, 1 novembre 2022 Intervista al presidente emerito della Consulta. “Problematica la pretesa che il detenuto provi che in futuro non riallaccerà legami con la mafia: pare fatta apposta per rendere inaccessibile la liberazione. E con rinvio del decreto penale rischiamo di veder compromesse, in fase di conversione, le conquiste della riforma”. “Ci sono tre diversi problemi, e piuttosto seri, nel decreto su ergastolo e processo penale appena varato dal governo. Trovo problematico che una norma subordini la concessione di un beneficio alla capacità del detenuto di fornire prove su eventi futuri, per quanto si tratti di un ambito delicatissimo qual è il contrasto alla criminalità organizzata. Trovo altrettanto problematico che una norma di legge si riferisca a un elemento del tutto vago qual è il contesto. E ancora, sconteremo anche la scelta di rinviare l’entrata in vigore dell’intero decreto penale, perché rischiamo di veder compromesse alcune conquiste di quel provvedimento”. Il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick risponde al Dubbio pochi minuti dopo il vario in Consiglio dei ministri del provvedimento che inaugura una nuova stagione della politica giudiziaria. Un decreto legge su ergastolo ostativo e riforma penale, dall’impatto pesante. “E in alcune parti, le norme sull’ergastolo potrebbero essere di nuovo impugnate, da un giudice, davanti alla Consulta per sospetta incostituzionalità”. E insomma, il legislatore non ha partorito una legge sull’ergastolo in un anno e mezzo, ora emana un decreto urgente pieno di ombre. Nell’ordinanza che ormai tutti conosciamo, la numero 97 del 2021, la Corte costituzionale ha affidato al Parlamento il compito di modificare le norme sull’ergastolo in modo eliminare il meccanismo per cui la mancata collaborazione è motivo di una presunzione negativa assoluta sulla persistente pericolosità del recluso. Tale modifica, ha detto la Corte, va introdotta in modo da non lasciare vuoti di tutela, rispetto alle esigenze di sicurezza sociale. Bene, ma già in quell’ordinanza la Corte ha sostenuto la necessità di dover escludere, per l’ergastolano ostativo, “sia l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del loro futuro ripristino”. Ora il decreto stabilisce che dev’essere il detenuto stesso a fornire elementi che escludano quei rischi. Si è di fronte, nella sostanza, alla pretesa di una probatio diabolica. Ora, è vero che è il decreto a prevederla, ma è vero pure che la Corte ne aveva creato i presupposti. Ed è legittimo che tutte quelle prove incombano sull’ergastolano anziché sull’autorità giudiziaria? Non è illegittimo dal momento che è il detenuto a proporre un’istanza in cui sostiene di essere ravveduto ed è plausibile che lo Stato gli chieda di dimostrare quel ravvedimento. Ma la ragionevolezza vacilla nel momento in cui il ricorrente deve esercitarsi in una prognosi sul futuro, deve cioè dare prova negativa di qualcosa che non è attuale. Una previsione che rischia di rendere di fatto inaccessibile, per gli ergastolani ostativi, il beneficio della liberazione condizionale. E poi, l’ergastolano deve allegare anche elementi tali da escludere legami con il “contesto” in cui il reato è stato commesso... E cosa vuol dire contesto? Il riferimento è geografico, ambientale, sociale? Già questa genericità potrebbe consentire a un giudice di rimettere la nuova norma al vaglio della Consulta. Forse dovremo chiedere consulenza all’Accademia della Crusca, per decifrare il senso della norma. E poi, riguardo alla costituzionalità del decreto, nella parte in cui si occupa di ergastolo, c’è un nodo che mi pare preceda gli altri. Sarebbe? Esiste davvero la necessità e l’urgenza di intervenire per decreto su una legge che la Corte costituzionale chiede di modificare da un anno e mezzo? Qui è il presidente della Repubblica a compiere una valutazione. Il prossimo 8 novembre la Consulta si riunisce per verificare se il legislatore ha “risposto all’appello” sull’ergastolo. In quella sede, con una nuova ordinanza, potrebbe esprimersi anche sulle scelte di merito compiute nel decreto? No, una cosa del genere non è mai avvenuta. Certamente la Corte potrà sottoporre le nuove norme al giudice rimettente, nello specifico la Cassazione, e chiedergli di verificare se ritiene che il provvedimento appena emanato risolva la questione di legittimità sollevata a suo tempo. E la Corte può rimettere il decreto al vaglio del giudice nonostante si tratti di norme suscettibili di modifica in fase di conversione? Sì, un decreto legge ha l’efficacia di una legge. Quindi certo che la Consulta può trasmetterla al giudice rimettente, anche se non sappiamo se e in che forma il decreto sarà convertito. Ma guardi che il problema principale è all’origine del percorso. Cioè nella decisione di non rendere subito operativa la pronuncia sull’ergastolo ostativo? Sì: io rispetto la scelta compiuta con l’ordinanza del 2021, ma ritengo che la Corte dovrebbe sempre dichiarare l’incostituzionalità di una norma, se la ravvisa, in modo che la sentenza sia subito efficace. E il tutto in aggiunta al paradosso delle prove sugli eventi futuri... Un conto è se un ergastolano di mafia fornisce o lascia intravedere elementi tali da far ipotizzare plausibilmente la volontà di ripristinare i legami con la criminalità, altro è subordinare la concessione del beneficio a elementi che consentano una prognosi. La Corte ha ritenuto che sia necessario escludere rischi di un futuro ripristino dei rapporti criminali, e il decreto scarica sul detenuto quella prova negativa. Mi pare l’incrocio più problematico, anche in termini di legittimità. Nel decreto appena emanato si congela la riforma Cartabia. Col rischio che in fase di conversione venga stravolta... Partiamo intanto da un altro rischio, anzi da una certezza. Da un lato, è vero che Cartabia ha il notevole merito di aver affrancato le riforme della giustizia da una sorta di monopolio della magistratura. Si è dimostrato che il Parlamento può provvedere senza la necessità di un tutore esterno. D’altra parte la fretta iniettata dagli obblighi del Pnrr ha favorito evidentemente delle lacune di coordinamento, e soprattutto avvalora la tesi dei procuratori generali, secondo i quali mancano le strutture in grado di far funzionare le nuove norme. Vedrete che tornerà il refrain, che parte della magistratura dirà: ecco la prova, senza di noi, le leggi noi si possono fare. Ma appunto, in Parlamento ora quelle leggi possono peggiorare, considerato il tipo di maggioranza che si è formata? C’è questo rischio, in particolare, per le norme sulle sanzioni, che introducevano una prospettiva meno carcerocentrica? Nella maggioranza c’è chi dice che la pena deve innanzitutto rispettare la dignità della persona, tendere alla rieducazione ed essere in ogni caso contraria a trattamenti inumani. Nella stessa maggioranza c’è però chi si preoccupa, invece, della certezza, intesa come durezza, della pena, e che addirittura progetta di intervenire sulla Costituzione, per far prevalere la logica retributiva sul fine rieducativo e risocializzante della sanzione. Da questo stesso fronte viene sostenuto che le misure alternative costituiscono una pena indebitamente attenuata concessa a persone che non lo meritano. La situazione è questa e può emergere in fase di conversione, con alcune conquiste che finirebbero compromesse. Insomma, alla fine il ministro Nordio è in minoranza? Io mi esprimo sulla qualità e coerenza delle norme, non faccio analisi politiche. Certo è che la politica ancora una volta si trova di fronte alle conseguenze dei propri errori: ha pensato, per anni, che gli aspetti tecnici delle riforme andassero subappaltati, per così dire, alla lite fra magistrati e avvocati. Ha rinunciato a occuparsi davvero dei problemi della giustizia, ed è stato così per anni. Non vorrei si andasse verso un’ulteriore abdicazione, quella che ci porterebbe alla giustizia robotica. I problemi vanno affrontati per tempo. La politica quasi mai lo fa. E arriva a proporre per decreto legge, cioè con la forma dell’urgenza, norme come quelle sull’ergastolo, per le quali ha avuto un anno e mezzo di tempo a disposizione. Mirabelli: “Benefici anche agli ex mafiosi. Non solo se collaborano” di Giulia Prosperetti quotidiano.net, 1 novembre 2022 Il decreto apre alle richieste della Consulta: basta la cessazione dell’appartenenza all’organizzazione. “La finalità rieducativa è un principio che tocca la stessa dignità dell’individuo: non si può chiudere alla speranza di un recupero della persona. Ciò non toglie che vada valutato e accertato il venir meno del raccordo con l’associazione criminosa in modo tale che il fine pena o i benefici che vengono eventualmente disposti non consentano una ripresa di quei collegamenti che sono stati quiescenti nel periodo di detenzione”. Cesare Mirabelli, giurista, già presidente della Corte costituzionale non entra nel merito del decreto approvato ieri ma evidenzia un’apertura del Consiglio dei ministri nel senso indicato dalla Corte Costituzionale. “La concessione di benefici anche in assenza di collaborazione con la giustizia c’è. I paletti messi dovranno essere valutati dal Parlamento e dalla Corte”. Le condizioni stabilite per accedere a tali benefici, in particolare per l’accesso alla liberazione condizionale dell’ergastolano non collaboratore nei delitti legati alla criminalità organizzata, potrebbero far propendere la Consulta verso una bocciatura del testo? “Se tale diritto è svuotato da condizioni impossibili sicuramente ci potrà essere un giudizio negativo ma questo è un tema aperto. Il Parlamento dovrà al suo interno valutare quali sono le necessità della tutela e quali sono le condizioni per le quali si può ritenere accertata la cessazione dell’appartenenza all’organizzazione criminale e dovrà porre delle condizioni che sono adeguate rispetto a questo fine e ragionevoli nel loro contenuto”. L’Unione della Camere Penali Italiane ha criticato l’innalzamento a 30 anni per l’accesso alla liberazione condizionale per gli ergastolani. Questo può rappresentare un ulteriore motivo di criticità? “Posto che la pena dell’ergastolo, cioè del carcere a vita, si salva quanto a legittimità costituzionale solo perché può essere effettivamente ridotta e condotta ai trent’anni, che si equivalgono quasi al massimo reale della pena, si potrebbe anche ritenere che questo significa introdurre dalla finestra quello che si caccia dalla porta. Sono valutazione che potranno essere fatte una volta che - dopo la conversione del decreto legge senza modifiche da parte del Parlamento - sarà applicata la nuova normativa e sollevata un’eventuale questione di legittimità costituzionale”. Quali le ragioni alla base dell’intervento richiesto dalla Cedu e dalla Corte Costituzionale? “La detenzione non è solamente un elemento punitivo e custodiale ma anche di recupero. Per tale ragione non si può in assoluto escludere che ci sia un percorso rieducativo che consenta il reinserimento del condannato. In questo caso il reinserimento significa aver rotto con l’associazione di tipo mafioso alla quale si era partecipi. Secondo una tesi la collaborazione sarebbe in qualche modo la prova del venir meno di questo rapporto con il vincolo associativo ma questa visione così assoluta viene ritenuta non legittima perché l’esclusione dalla possibilità di utilizzazione, se il recupero avviene, dei benefici che la legge prevede sarebbe in contrasto con la finalità della pena stessa. La Corte, non potendo essa stessa modulare i percorsi, fare le scelte che discendono dalla illegittimità, ha invitato il legislatore a provvedere nell’ambito della sua discrezionalità a modulare questa valutazione delle condizioni per le quali possa essere concesso il beneficio. Tali condizioni saranno poi oggetto di un possibile giudizio dinanzi alla Corte che valuterà se sono adeguate e se sono ragionevoli”. Caiazza: “Solo interventi populisti. È un debutto deludente” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 1 novembre 2022 Un pessimo esordio: dagli entusiasmi liberali siamo rapidamente passati alla delusione populista”, dice Gian Domenico Caiazza, avvocato e presidente dell’Unione Camere Penali. Come valutate l’intervento sull’ergastolo ostativo? “Persino peggiorativo della legge dichiarata incostituzionale dalla Corte”. Che cosa intende? “Normalmente il legislatore va incontro alla decisione della Corte, che è giudice delle leggi. In questo caso la decisione era nel senso di cancellare la preclusione automatica alla concessione di benefici all’ergastolano che non collabora. Oggi il governo elimina l’automatismo, ma introduce una tale serie di condizioni, alcune diaboliche altre addirittura impossibili, da vanificare l’accesso effettivo a quei benefici”. Quali condizioni? “Chiedere a un detenuto da 25 anni al carcere duro del 41 bis di dare prova di non avere più rapporti con l’organizzazione criminale. O cancellare la concedibilità del beneficio penitenziario in caso di collaborazione con la giustizia oggettivamente impossibile”. La lotta alla mafia non giustifica queste cautele rispetto ai detenuti comuni? “Stiamo attenti alla truffa delle etichette, nascosta dietro un’evocazione retorica di nomi come quello di Borsellino. Queste norme non valgono solo per i reati di mafia, ma per tutti i reati ostativi che sono molto più ampi. È una questione generale”. Siete delusi? “Si era capito da un anno e mezzo che l’ordinanza della Corte era mal digerita da M5S, Lega e Fratelli d’Italia. Pd e Forza Italia si sono accodati. Assistiamo, in modo strisciante e subdolo a dispetto del dichiarato ossequio, a una resistenza del legislatore al giudice delle leggi”. Il decreto riproduce un testo approvato dalla Camera a larghissima maggioranza… “Con alcuni peggioramenti. Lo stesso viceministro Sisto lo ha riconosciuto. Se lanciamo un allarme è perché questo segnale populista non è isolato, ma coerente con l’altro sui rave party”. Perché populista? “Non è che ogni volta che accade un fatto di cronaca si crea un reato nuovo! Non si riesce a immaginare altro che un reato nuovo, aggiungendo un bis, un tris eccetera a un articolo del codice penale? C’è un’idea populista della giustizia penale. Il M5S dovrebbe rivendicare il copyright con Meloni”. Che altro si poteva fare? “Ci sono altre misure ragionevoli, di tipo amministrativo, per dare una risposta giustamente ferma. Invece si crea un nuovo reato, e per di più lo si inserisce nell’ormai ipertrofico catalogo di quelli più gravi, che consentono misure di prevenzione. Cosa si confisca? Altoparlanti? Roulotte? Se la cosa non fosse seria, ci sarebbe da ridere”. Si può introdurre un reato con un decreto legge? “Ormai con i decreti si fa di tutto. Dove sono i presupposti di straordinaria necessità e urgenza? C’è un’emergenza rave party? Quanti ce ne sono in Italia ogni anno?”. Ha ascoltato la premier? “C’è stata da parte sua una rivendicazione politica. Sconforta l’uso della giustizia a fini di comunicazione. Avrebbe potuto motivare con la scadenza tecnica, invece ha piantato la bandiera”. Il garantista Nordio è imbavagliato dai forcaioli? “La scelta di Nordio resta eccellente: è un liberale non imbavagliabile. Speriamo che ciò significhi provvedimenti liberali e non populisti come quelli di oggi”. Don Rigoldi: “Non serve essere più duri con i detenuti ma seguire leggi di umanità” di Conchita Sannino La Repubblica, 1 novembre 2022 “Rispettare la Carta per ridurre le recidive. Consentire il lavoro fuori dai penitenziari”, sono queste le misure necessarie secondo il cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano. Don Gino Rigoldi è il cappellano del carcere minorile Beccaria, a Milano. Da sempre è impegnato sul fronte dei diritti dei detenuti. Qualcuno legge questa prima mossa del governo Meloni sul carcere come troppo dura perché aggiunge paletti per l’accesso ai benefici penitenziari. Lei cosa ne pensa? “Si parla di reati molto gravi, soprattutto mafia e terrorismo. E non la leggerei come una svolta in termini di durezza. Lo ritengo un giudizio eccessivo”. Quindi nulla da eccepire sulle novità introdotte? “Non dico che sia la modalità più giusta, ma parliamo di una scelta legata a dei reati molto specifici. Non è questione di essere duri o meno duri: bisogna seguire le leggi dell’umanità e poi quelle della nostra Costituzione. Sul tema del carcere ostativo c’era per altro la necessità di rispondere alle richieste della Consulta. Piuttosto, penso che i problemi più urgenti delle carceri siano altri...”. Cosa serve? “Quello di cui abbiamo bisogno non è più durezza: le condizioni di vita dei detenuti sono mediamente già molto difficili. Si offende la loro dignità e si negano diritti. Bisogna che ci si muova in un’altra direzione, quella del rispetto delle persone”. Ci dica quali sono le prime tre priorità... “Numero uno, avere i direttori delle carceri e comandanti degli agenti. Se un direttore deve seguire quattro istituti diversi, vuol dire che non comanda nessuno. E se non c’è un direttore, non c’è un programma e si va avanti solo per la gestione ordinaria: non si fanno corsi di formazione, eventi culturali e non c’è modo di programmare nulla. Ci si limita a mantenere quello che c’è”. E questo perché è un problema? “Perché senza programmazione non si possono preparare i detenuti a un dopo onesto, con un minimo di risorse di vita”. Seconda priorità... “Gli educatori. Ce ne vorrebbe almeno uno ogni cinquanta persone. Nelle case circondariali, dove ci sono i condannati. Se non fosse per gli educatori presenti nelle carceri molti di loro non avrebbero neanche un tramite con l’esterno. Sarebbero completamente tagliati fuori. Un elemento che incide sul grande numero di suicidi. Ci sono degli istituti, come quello di Monza, con 600 detenuti e solo due educatori e uno psichiatra. Una situazione insostenibile, in cui ci sono peraltro persone con disturbi psichici”. Infine? “Puntare sull’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, quello che consente alle persone la possibilità di lavorare all’esterno”. A cosa serve? “Lavoro è dignità e futuro. E significa abbattere la recidiva. È il modo di affrontare il grande tema del sovraffollamento. Come si fa a svuotare le carceri? Non costruendo nuovi istituti, né con nuove leggi, ma puntando sulla preparazione all’esterno. Al carcere di Bollate, dove certe cose si fanno già, la recidiva è del 20 per cento, da altre parti si sfiora l’80 per cento. Questa differenza significa meno persone nelle celle e quindi meno affollamento. È persino banale”. Umanità e rieducazione: i principi che valgono pure per il carcere a vita di Giancarlo de Cataldo La Repubblica, 1 novembre 2022 La norma-cardine è l’articolo 27 della Costituzione: la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Il carcere, in altri termini, non deve torturare né peggiorare ma, se possibile, restituire alla società un individuo rinnovato, migliorato. La questione dell’ergastolo ostativo concerne il divieto, per i condannati alla pena perpetua per delitti di mafia, di accedere alla liberazione condizionale dopo aver scontato ventisei anni di pena, a meno che non abbiano collaborato con la giustizia. La mancata collaborazione è uno sbarramento alla concessione del beneficio: l’ergastolano mafioso può essersi ravveduto, ma se non collabora non rivedrà mai la libertà. Ridurre il tutto a un derby fra super garantisti, magari sospetti di collusione, e immacolati paladini della legalità, è tipico di un tempo che ha in odio qualunque forma di complessità. E invece qui siamo al cospetto di un problema, appunto, complesso: sia dal punto di vista tecnico, sia perché investe alcuni fondamenti dello stato di diritto, a partire dalla funzione della pena detentiva nel nostro ordinamento. La norma-cardine è l’articolo 27 della Costituzione: la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato. Il carcere, in altri termini, non deve torturare né peggiorare, ma, se possibile, restituire alla società un individuo rinnovato, migliorato. Intanto è ammesso l’ergastolo, pena che non conosce fine, e, dunque, estranea al processo di rieducazione, in quanto sussista sempre e comunque per ogni condannato la possibilità di superarlo attraverso la “giusta espiazione”, cioè quella che deve condurre al cambiamento. Da qui la liberazione condizionale dopo i ventisei anni di pena. Il principio è consolidato anche in ambito europeo: e infatti, in tutti gli ordinamenti che lo prevedono, l’ergastolo sopravvive solo se può essere “sciolto” a determinate condizioni. Il problema che oggi l’Italia si trova ad affrontare non riguarda tanto il nesso fra collaborazione ed ergastolo, quanto l’imposizione della prima come condizione per il superamento del secondo. Si pone a carico dell’ergastolano mafioso non collaborante una presunzione assoluta di pericolosità che non può essere vinta da nessun altro argomento: ad esempio, né dalla considerazione che potrebbe essersi ravveduto e non aver più niente di utile da comunicare agli inquirenti, né dal fatto che potrebbe aver troncato i legami con il crimine organizzato ma, parlando, esporrebbe i propri familiari al rischio di ritorsioni. Tutti aspetti che la Corte Costituzionale ha già esaminato nel recente passato (2019) ritenendo questa presunzione di pericolosità irragionevole, e autorizzando per il condannato non collaborante, ma meritevole, i permessi premio. Ora la questione si ripropone con riferimento alla liberazione condizionale. Dopo il monito della Cedu, con l’ordinanza nr. 97 del 2021, la Corte ha messo in mora la politica, fissando un termine entro il quale cambiare la disciplina attuale. Sostiene la Corte che un suo intervento diretto potrebbe avere l’effetto di rendere disarmonico il sistema, e si “prende un tempo” anche perché esamina le proposte di legge in discussione (e poi non approvate). Il termine sta per scadere, e la politica è corsa al riparo elaborando una norma d’urgenza alla ricerca di un contemperamento convincente fra il diritto alla sicurezza e il principio di rieducazione. Il decreto-legge, anticipando l’imminente sentenza della Corte Costituzionale, dovrebbe sfuggire alle critiche sulla sussistenza dei requisiti di necessità e urgenza previsti dalla Costituzione. Ma c’è una diversa problematica da non sottovalutare. Una norma “furba”, per così dire, una norma che sgretoli, sì, la presunzione assoluta di pericolosità, ma introduca tali e tanti vincoli da rendere, nella sostanza, impossibile l’ottenimento della liberazione condizionale, sarebbe anch’essa palesemente incostituzionale. E lo sarebbe perché le norme devono garantire l’effettività di un diritto, non solo la sua apparenza. È bene si sappia che non si tratta di rimettere in circolazione legioni di assassini, ma di armonizzare due principi di pari dignità: la sicurezza e la rieducazione. Come ha scritto di recente Federico Varese nel suo brillante saggio La Russia in quattro criminali, “le grandi associazioni criminali prosperano nei regimi democratici, che combattono le mafie senza infrangere lo stato di diritto. Questo è il prezzo che si paga per rimanere umani”. Lo schiaffo di realtà per Meloni sull’ergastolo ostativo di Ermes Antonucci Il Foglio, 1 novembre 2022 Dopo mesi di propaganda, la premier costretta a rinnegare se stessa sul “fine pena mai” (in contrasto con la Costituzione). Per l’imbarazzo ricicla le più antiquate fantasie dell’antimafia complottista. Dopo aver trascorso gli ultimi mesi della scorsa legislatura ad accusare il governo Draghi e il Parlamento di voler favorire la mafia abolendo l’ergastolo ostativo (dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale), dopo aver annunciato in campagna elettorale il salvataggio di quell’istituto perché “non possiamo darla vinta a Totò Riina”, dopo essere stata nominata premier e aver annunciato nel suo discorso programmatico di voler impedire che “venga meno uno degli istituti più efficaci nel contrasto alla mafia che è il carcere ostativo”, ieri Giorgia Meloni ha dato notizia dell’approvazione in Consiglio dei ministri di un decreto legge che abolisce l’istituto dell’ergastolo ostativo. Il decreto riprende, infatti, il disegno di legge approvato alla Camera lo scorso 31 marzo, con l’astensione di Fratelli d’Italia, che lo ritenne troppo morbido nei confronti degli ergastolani. Da qui l’imbarazzo mostrato ieri in conferenza stampa da Meloni. Ricevuto lo schiaffo di realtà (l’ergastolo ostativo non può non essere abolito, in quanto in contrasto con la Costituzione), la premier si è spinta ad affermare che quella contenuta nel decreto è una “norma figlia dell’insegnamento di Falcone e Borsellino, una norma a lungo osteggiata dalla criminalità organizzata, tanto da finire nelle famose trattative e nei papelli della mafia”. Un linguaggio degno delle più antiquate fantasie dell’antimafia complottista, fondate su trattative mai avvenute e su papelli rivelatisi farlocchi. Ben diversi i toni utilizzati dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che senza tanti giri di parole ha spiegato che il testo varato dal governo “accoglie l’indicazione della Consulta”. L’11 maggio 2021, infatti, la Corte costituzionale ha stabilito l’incompatibilità con la Costituzione delle norme che individuano nella collaborazione con la giustizia l’unica condizione di accesso alle misure premiali e alternative previste dall’ordinamento penitenziario per i condannati all’ergastolo per reati ostativi (mafia, terrorismo e non solo). L’istituto risulta infatti contrario al principio di finalità rieducativa della pena. Poiché, però, la sentenza di incostituzionalità avrebbe determinato un effetto “demolitorio” sul sistema normativo, la Consulta ha concesso al Parlamento un periodo di un anno, poi aumentato di altri sei mesi, per varare una riforma in materia. Questo è avvenuto solo a metà, con l’approvazione della riforma alla Camera, ma non al Senato, a causa della fine anticipata della legislatura. Visto che l’8 novembre la Consulta tornerà a esprimersi sul tema, il governo ha ritenuto di riprendere in un decreto legge il testo approvato dalla Camera, nella speranza di ottenere altro tempo dai giudici costituzionali. Il disegno di legge approvato dalla Camera lo scorso marzo da tutti i partiti, con l’esclusione di FdI, Italia viva e Azione (astenutisi), ricalca le indicazioni fornite dalla Consulta, stabilendo che i detenuti che vogliono accedere ai benefici penitenziari, senza aver collaborato, devono allegare “elementi specifici, diversi e ulteriori” rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione al percorso rieducativo e “alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza”. Questo “al fine di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”. I penalisti si sono affrettati a bollare il testo come “incostituzionale”, ma esso non fa che riprendere paletti già indicati dalla Consulta. Piuttosto, a preoccupare sono le parole di Meloni su possibili “miglioramenti” del provvedimento in sede parlamentare, cioè sull’inserimento di ulteriori paletti che renderebbero - questi sì - il testo incompatibile con le indicazioni dei giudici costituzionali. Sarà dunque sulla conversione in legge del decreto che tornerà a giocarsi la partita tra forcaioli e garantisti. Per il momento, dopo anni di propaganda, Meloni ha dovuto fare i conti con la dura realtà di governare. No al populismo ostativo di Claudio Cerasa Il Foglio, 1 novembre 2022 Ieri all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri è stato presentato un decreto legge sulla giustizia che inizialmente doveva comprendere una misura considerata evidentemente per la destra populista una priorità: il superamento delle attuali norme sull’ergastolo ostativo. Il messaggio di Meloni era chiaro e apparentemente inoppugnabile: si deve modificare la Costituzione per impedire che i mafiosi vengano liberati e occorre che chi ha commesso gravi reati non abbia in nessun modo la possibilità di vedersi riconosciuto alcun beneficio. La proposta del governo, in verità, all’ultimo istante ha cambiato verso: Meloni, alla fine, ha citato solo en passant l’eventualità di una modifica della costituzione, riconoscendo anche lei che al momento non è possibile farlo, e dopo molte chiacchiere si è appiattita sulla scelta fatta dalla precedente maggioranza, che sul tema ergastolo ostativo aveva già accolto le obiezioni avanzate dalla Corte costituzionale. Ma per capire la pericolosità delle intenzioni di Meloni può essere utile fare un piccolo passo indietro. Qualche mese fa, chi scrive ha avuto la possibilità di chiacchierare con il nuovo ministro della Giustizia, Carlo Nordio, proprio su questi temi, e per spiegare la pericolosità di Meloni, sui temi della giustizia, è sufficiente lasciare la parola all’ex magistrato. “Io - ci ha detto Nordio - penso che l’ergastolo ostativo, il principio cioè che al reo non venga concessa la possibilità di alcun beneficio, sia un’eresia contraria alla Costituzione. Bisogna strutturare la legge in modo che l’ergastolo possa rimanere come principio ma bisogna anche ricordarsi cosa dice l’articolo 27 della Costituzione. Ovverosia: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Sintesi di Nordio: “Spiace per chi a destra la pensa così, ma il punto è evidente: il fine pena mai non è compatibile, al fondo, con il nostro stato di diritto”. E allora, abbiamo chiesto a Nordio, cosa c’è da pensare di chi dice quando si parla di carceri, magari quando si parla di un caso di cronaca che colpisce la sensibilità dei cittadini, “buttiamo via le chiavi”, e la risposta di Nordio è in totale contraddizione con la linea imboccata dal governo di cui fa parte. “E’ un’espressione vergognosa. Gettare via le chiavi non ha nessun senso ed è un’espressione purtroppo mutuata da una vecchia prassi del pool di Mani pulite che qualche volta usava quel tipo di espressione per minacciare la carcerazione preventiva. Al di là del fatto di fondere le chiavi, di buttarle nel pozzo eccetera, la criminologia moderna in tutti i sensi è orientata verso una rivoluzione del concetto di pena: il carcere deve essere sempre più limitato a quei gravi reati che provocano un grave allarme sociale. Una destra desiderosa di spingere forte sul terreno del garantismo questo dovrebbe fare e questo dovrebbe ricordare. Dovrebbe ricordare che la pena detentiva deve essere un concetto se non superato quantomeno molto rimodulato. Il peccato più grande della destra oggi, quando si parla di giustizia, è proprio questo: confondere la sicurezza con la giustizia, pensare che la sicurezza, sulla quale siamo tutti d’accordo che deve esistere un’attenzione particolare, debba essere garantita non solo dalla giustizia, dal suo sistema, ma dalla presenza di una pena severa. Abbiamo un sistema penale che minaccia delle pene esorbitanti. Invece, purtroppo, buona parte della filosofia della destra, quella più gridata, è stata a lungo questa: la giustizia dipende della sicurezza, la sicurezza va garantita a tutti i costi, per garantire la sicurezza si possono calpestare alcuni diritti e calpestare alcuni diritti significa, per esempio, creare nuovi reati e inasprire le pene”. Il vero volto della destra nazionalista - volto che la maggioranza meloniana prova a nascondere dirottando il dibattito pubblico su altre battaglie simboliche come quelle sui rave party - è quello offerto dal bravo ministro Nordio in queste parole. E se si sceglie di mettere da parte il terreno della simbologia e si sceglie di mettere a fuoco il terreno della fattualità delle azioni si capirà con estrema chiarezza che il populismo di destra sotto il suo make-up nasconde sempre lo stesso volto, segnato in modo indelebile da una forma irreversibile di populismo estremista. Oltre i rave party, caro Pd, c’è molto di più, e c’è una battaglia possibile contro il complottismo, contro il giustizialismo, contro lo stato di diritto e contro la cultura dello scalpo. Svegliarsi. Operatori della giustizia tutti (o quasi) contrari alle norme sul carcere ostativo di Michele Damiani Italia Oggi, 1 novembre 2022 Mentre la proroga era stata già suggerita in passato da diverse associazioni di categoria. Consenso (quasi unanime) per la proroga della riforma Cartabia e dissenso totale per le misure sull’ergastolo ostativo. Queste, in estrema sintesi, le reazioni degli operatori della giustizia italiana alle misure approvate ieri nel primo Consiglio dei ministri del nuovo governo Meloni. Per quanto riguarda l’ergastolo ostativo, il giudizio dell’Organismo congressuale forense, che si è espresso nel weekend, è netto: “la norma contrasta con il percorso intrapreso dalla Corte costituzionale e con la funzione rieducativa della pena. La modifica legislativa è incompatibile con una idea di giustizia liberale, viceversa appare espressione di uno stato ispirato a logiche securitarie che in passato hanno fornito un rimedio ben peggiore del male, lesive dei diritti dell’uomo ed in totale contrasto con i principi dettati dalla Corte di Strasburgo”. Sul rinvio della riforma, invece, ci sono perplessità perché “ove vi fossero state delle oggettive e insuperabili carenze nel recepirla immediatamente, esse avrebbero dovuto riguardare solo una parte della novella che invece, nella parte residua, ben avrebbe potuto essere applicata. Sarebbe auspicabile, invece, da subito, riprendere i lavori sulla riforma dell’ordinamento penitenziario”. Dall’Unione camere penali arriva un zgiudizio drasticamente negativo per entrambi i profili”. Quanto alla riforma, “non vi è alcuna ragione che giustifichi il differimento dell’entrata in vigore delle parti relative al sistema sanzionatorio e di esecuzione della pena, che non manifestano il benché minimo problema di natura organizzativa posto a fondamento delle ragioni d’urgenza del decreto”. Sull’ergastolo l’Ucpi “rileva, con allarme che, per come esso appare concepito, si dà luogo ad un inammissibile atto di ribellione del governo e del Parlamento alle indicazioni del giudice delle leggi. Il provvedimento, da quanto si è potuto apprendere, introduce regole addirittura peggiorative del quadro normativo censurato dalla Corte costituzionale oltre che dalla Corte europa dei diritti dell’uomo”. Se, come detto, le misure sull’ergastolo ostativo hanno trovato la contrarietà quasi unanime, sulla proroga della riforma sono arrivate voci anche contrastanti, come abbiamo visto. Aiga, l’Associazione italiana giovani avvocati, ha pochi dubbi in merito: “anche se gli obiettivi della riforma Cartabia sono da salutare con favore, è necessario lavorare da un lato per dare concretezza alle sostanziali finalità perseguite dalla norma e dall’altro per apportare quei necessari interventi correttivi per superare le sue evidenti storture”. Viene evidenziata la necessità di “prevedere un regime transitorio, anche in ragione delle attese norme di attuazione, che consenta di evitare che, in tale lasso temporale, possano aversi disomogenee prassi territoriali che vadano a vanificare le virtuose finalità di ammodernamento ed efficientemente apportate dalla riforma”. Della stessa opinione Movimento forense in una nota diffusa sabato si legge infatti quanto sia “urgente disporre il rinvio dell’entrata in vigore della riforma del processo penale: è assolutamente necessario, infatti, impedire che la carenza di una organica e razionale disciplina transitoria, relativa ai procedimenti in corso, realizzi irreparabili violazioni ai danni del diritto di difesa dell’imputato e delle garanzie del giusto processo”. Ma senza ergastolo le mafie sono più forti di Gian Carlo Caselli La Stampa, 1 novembre 2022 Con un’ordinanza pronunziata il 15 aprile 2021 la Consulta ha “aperto” ai mafiosi non pentiti l’ergastolo ostativo per quanto riguarda il beneficio della liberazione condizionale. Ma gli effetti della pronunzia di incostituzionalità sono stati differiti affinché il Parlamento potesse intervenire. Il termine fissato (un anno, poi prorogato di cinque mesi) è ormai prossimo alla scadenza. Nella passata legislatura la Camera dei deputati aveva approvato un testo di riforma. Il Senato non aveva fatto in tempo a discuterlo. Ora il governo, vista l’urgenza, lo ripropone come decreto legge. Il differimento della Consulta è stato motivato con il rischio “di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Equivale a riconoscere che bisogna fare molta attenzione a toccare una componente dell’architettura complessiva antimafia, se si vuole evitare che questa crolli tutt’intera. Perché - dice ancora la Consulta - la mafia ha una sua “specificità” rispetto alle altre condotte criminali associative; e la collaborazione di giustizia è un valore da preservare. Da questi “paletti” è partita la nuova disciplina disegnata dalla Camera ora ripresa dal governo, escludendo che il pentimento sia conditio sine qua non per i benefici, ma nello stesso tempo esigendo la sussistenza di altre rigorose condizioni per evitare di consegnarsi alle strategie del mafioso, riducendo tutto a un atto di fede nei suoi confronti: un pericoloso salto nel buio che farebbe della decisione un azzardo. Per valutare o meno la congruità della nuova disciplina (che ha comunque il merito di aver cercato delle soluzioni affrontando un terreno assai impervio) conviene ricordare preliminarmente alcuni punti a mio avviso decisivi, per farne discendere che le speciali e rigorose cautele da adottare nei confronti dei mafiosi non pentiti (il cosiddetto “doppio binario”) rispondono a criteri di ragionevolezza basati - appunto - sulla concreta specificità del problema mafia, che dovrebbe sbriciolare ogni banale contrapposizione fra giustizialisti, manettari o forcaioli. Primo punto - L’ergastolo ostativo per i mafiosi non pentiti secondo l’ordinanza della Consulta è incostituzionale per violazione dell’art. 3 della Costituzione. Che, si dice, o è uguale per tutti (mafiosi compresi) o non è. Argomento suggestivo. Però attenzione. La Costituzione (art. 49) stabilisce che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Ma a questo principio costituzionale è la stessa Carta (art. XII disposizioni transitorie e finali) che deroga, vietando “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Ora io non sono un costituzionalista e ho tutto da imparare da chi invece lo è, ma mi sembra di poter argomentare che la Costituzione vuole che ai nemici della democrazia sia dedicata un’attenzione tutt’affatto particolare. Qual è il rapporto dei mafiosi con la democrazia? Il mafioso è vissuto e vive per praticare un metodo di intimidazione, assoggettamento e omertà capace di dominare parti consistenti del territorio nazionale e momenti significativi della vita politico-economica del Paese. In questo modo il mafioso contribuisce in maniera concreta e decisiva a creare tutta una serie di ostacoli di ordine economico e sociale che limitano fortemente la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo della persona umana. In altre parole, il mafioso è la negazione assoluta e al tempo stesso un nemico esiziale dell’articolo 3 su cui si fonda la Costituzione. Allora, si può dire che con la pratica sistematica dell’intimidazione e dell’assoggettamento (art. 416 bis) i mafiosi si mettono sotto le scarpe tutti i valori della Costituzione e si pongono fuori della sua area? Si può dire che per rientrarvi - senza pentirsi - devono offrire prove granitiche di ravvedimento? Si può dire che la Costituzione non è un bancomat? Secondo punto - L’ordinanza della Consulta ritiene violato anche l’art. 27 della Costituzione (la pena deve tendere alla rieducazione del condannato). È un principio sacrosanto di civiltà (non solo giuridica), basilare in un regime democratico. Ma che in concreto può funzionare solo per i condannati che danno prove concrete, riconoscibili e sicure di volersi reinserire o almeno fanno sperare che prima o poi ci proveranno davvero. Non è proprio il ritratto dei mafiosi irriducibili che non si pentono (quelli cioè che hanno rifiutato e rifiutano ogni forma di ravvedimento operoso attraverso la collaborazione con la giustizia nel contrasto alla criminalità mafiosa), per cui il massimo del rigore nella predisposizione di robuste cautele nei loro confronti è semplicemente d’obbligo. Il mafioso infatti giura fedeltà perpetua all’organizzazione e il suo status di mafioso è per sempre. Lo dicono l’esperienza e i più qualificati studi sulla mentalità mafiosa. Il mafioso non pentito continua a essere convinto di appartenere a una “razza” speciale, nella quale rientrano soltanto coloro che sono davvero uomini (non a caso autodefinitisi “d’onore”). Tutti gli altri, quelli del mondo esterno, non sono uomini. Sono individui da assoggettare. Non persone ma oggetti, esseri disumanizzati. Tanto premesso, si può trarne ancora una volta la ragionevole conseguenza che i mafiosi (in assenza di pentimento) devono offrire prove sicure e concrete di rinunzia allo status di uomo d’onore per fruire dei benefici penitenziari? Solo così si può sperare di evitare contraccolpi troppo rovinosi per l’antimafia. Che è poi - in buona sostanza - l’obiettivo esplicitato dalla stessa Consulta. Nordio tradisce Nordio: diceva una cosa, ora ne fa e ne dice un’altra di Tiziana Maiolo Il Riformista, 1 novembre 2022 Il ministro fa e dice l’opposto di quello che diceva fino a poco tempo fa. Sia sull’ergastolo ostativo sia sulla riforma che porta il nome della precedente Guardasigilli. Non è solo un rinvio tecnico. Svuotare le carceri da persone in attesa di giudizio o condannate per pene inferiori a quattro anni è meno ancora che depenalizzare. perché rinviare quindi? Tutta la riforma Cartabia potrebbe essere la fotocopia del Nordio-pensiero. “Questa norma sull’ergastolo ostativo è figlia dell’insegnamento di Falcone e Borsellino. E’ stata molto osteggiata dalla mafia, che ha inserito la richiesta di abolizione nei vari papelli…”. Ha voluto aprire con queste parole la prima conferenza stampa del primo consiglio dei ministri, Giorgia Meloni. Sulla giustizia e nel modo peggiore delle peggiori previsioni. Anche perché, subito dopo ha aggiunto, come era prevedibile, che il rinvio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia sul processo penale non è solo tecnico, ma “servirà anche a valutare” se la normativa non vada modificata in qualche sua parte. Dispiace dover contraddire, così, nel suo vero primo giorno di governo, la Presidente del consiglio. Non è questione di opinioni, ma di notizie. Né Borsellino né Falcone sono i padri di quella pena di morte sociale che ha preso le vesti, nel 1992, dopo che loro erano stati assassinati, dei reati “ostativi”, e in particolare dell’ergastolo. Anzi, lo stesso Falcone aveva messo mano a un provvedimento che diceva esattamente il contrario, lasciando al condannato sempre una vita d’uscita che non fosse quella della collaborazione. Del resto la Presidente del consiglio, che è entrata in politica proprio per l’emozione provata dopo l’assassinio di Borsellino e ha ricordato i depistaggi di Stato dopo la strage di via D’Amelio e l’uso del finto collaboratore Scarantino, avrebbe tutte le ragioni per diffidare della genuinità di certi “pentimenti”. E credere di più, come ha mostrato di credere l’ex ministra Cartabia, nella forza di un percorso individuale di cambiamento della persona e nella progressiva presa di distanza da parte del condannato, comprovata dai soggetti che stanno vicini al detenuto nella quotidianità come i giudici di sorveglianza, dal proprio passato di trasgressione. Vogliamo sperare che qualche imbarazzo abbia provato nella conferenza stampa il ministro Nordio, cui la Presidente ha detto di aver “tolto il bavaglio”, alludendo a qualche titolo di giornale che salutava con gioia il fatto che quel cerotto sulle labbra gli fosse stato messo. Come conciliare il pensiero del Nordio-uno, quando definiva l’ergastolo ostativo “un’eresia contraria alla Costituzione”, con il Nordio-due quando ritiene che il Parlamento, con il disegno di legge approvato nei mesi scorsi, abbia accolto alcune “criticità” indicate dalla Corte Costituzionale e la Cedu? Eh no, signor ministro, l’Alta Corte aveva dichiarato l’incostituzionalità, proprio come lei nella fase Nordio-uno. Cioè la norma, e anche la legge approvata dal Parlamento, che è in alcuni punti addirittura peggiorativa rispetto alla norma del 1992, è contro la Costituzione, altro che criticità. La domanda ora è: l’otto novembre, quando si riunirà per deliberare sulla materia, l’Alta Corte avrà la forza di dire al Parlamento che anche la nuova legge, votata “quasi” all’unanimità perché il partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, si era astenuto, è contro la Costituzione? E che l’Italia sta sprofondando nell’illegalità e ripristinando la pena di morte? Ma un’altra domanda sorge spontanea, dopo aver ascoltato anche le parole del ministro guardasigilli: esisterà ancora la riforma Cartabia sul processo penale dopo il 31 dicembre? La domanda non è inutile, dopo il rinvio deciso dal Consiglio dei ministri delle norme, indispensabili anche per l’osservanza dell’impegno assunto sul Pnnr, che avrebbero dovuto entrare in vigore proprio domani. Rinvio tecnico, apparentemente, anche per dare una mano alle difficoltà espresse nei giorni scorsi dai 26 procuratori generali, soprattutto per i provvedimenti che intervengono sulla fase delle indagini preliminari. Ma è ormai chiaro che non sarà così, e che interverrà qualche “manina”, come ci avevano già informato i saputelli del Fatto quotidiano con le loro interviste anonime (ah, la passione di consultare i citofoni!) a dirigenti di Fratelli d’Italia ansiosi di fare a pezzetti la riforma già ribattezzata, anche dal Giornale, come “salvaladri” o “svuotacarceri”. Nel mirino del partito talebano, soprattutto la norma che prevede la necessità di querela per perseguire una serie di reati. Il che è apparentemente in linea con quel che ha sempre pensato e anche affermato fino ai giorni scorsi il ministro Nordio. Il quale, poche ore prima che la Presidente del Consiglio Meloni si dichiarasse contraria, aveva lanciato come primo provvedimento del suo nuovo incarico quello della depenalizzazione di una serie di reati. E aveva in seguito fatto proprio l’allarme sulle carceri dopo il suicidio numero settantadue dall’inizio dell’anno. Svuotare le carceri da persone in attesa di giudizio o condannate per pene inferiori a quattro anni è meno ancora che depenalizzare. Perché rinviare, quindi? Tutta la riforma Cartabia del resto potrebbe essere la fotocopia, o viceversa, del Nordio-pensiero, basterebbe leggere i suoi libri. E buttare via la riforma Cartabia sarebbe veramente un insulto alla speranza di svuotare le carceri, che “ospitano” sempre almeno 5.000 detenuti in più del minimo vitale consentito per respirare, e perché la vita, anche da prigionieri, non sia pura sopravvivenza in attesa dell’ultimo giorno. Ma anche per favorire quella ricucitura, attraverso una sorta di patto tra il reo e lo Stato, spesso più utile delle grida manzoniane e del pugno di ferro nei confronti di chi quello strappo sociale ha prodotto. Su due punti precisi è intervenuta la riforma, il potenziamento delle pene alternative al carcere per condanne medio-basse e l’introduzione di una disciplina che regolamenti la giustizia riparativa. Provvedimenti che dovrebbero stare a cuore anche a coloro che vedono la pena solo in termini securitari, perché sono statisticamente quelli che abbattono la recidiva. È certo invece che l’intervento ci sarà, e bisognerà vedere se la “manina” che avrà in mano il bisturi sarà quella del Nordio-uno o del suo successore Nordio-due. Ma ci sarà. Del resto bastava leggere la relazione allegata al testo del decreto, nel punto in cui diceva che lo slittamento comporterà anche la possibilità di “analisi delle nuove disposizioni normative, agevolando l’individuazione di prassi applicative uniformi e utili a valorizzare i molti aspetti innovativi della riforma”. Ci si domanda però, visto che neppure la stessa magistratura lo aveva chiesto, perché il ministro abbia sentito la necessità di un rinvio della legge in blocco e non abbia deciso di procedere in modo selettivo. Avrebbe potuto per esempio isolare solo la parte di più complessa applicazione, come quella sulle indagini preliminari. Se il motivo è politico, e se davvero nel nuovo governo c’è il problema di prendere le distanze da quella che fino a ora è stata la miglior guardasigilli, prevediamo tempi duri per il ministro Nordio-uno e l’esordio del Nordio-due. Possibile che dovremo assistere a scivolamenti come quello di confondere l’incostituzionalità con la criticità? Tra l’altro un ex procuratore non può non sapere che il differimento di una riforma così attesa anche dagli avvocati comporterà anche un bel po’ di confusione nelle aule di giustizia nelle prossime settimane. E ci saranno centinaia di richieste di rinvio a raffica nei processi, da parte dei difensori di imputati che avevano la speranza per esempio delle misure alternative o sulla nuova causa di non punibilità per la tenuità del fatto, su cui la riforma è intervenuta. E sarà quindi in grado il governo di confermare gli impegni presi in sede di Pnrr con la certezza della riduzione del 25% della durata dei processi entro il 2026? Perché occorre un impegno preciso e che abbia la forza di realizzare quel che è la norma nei Paesi anglosassoni, il cui processo ha ispirato la riforma nel 1989, sulle misure alternative al carcere, per ridurre i tempi. Resisteranno all’intervento del bisturi della “manina” le quattro tipologie previste dalla riforma, cioè la semilibertà, la detenzione domiciliare, il lavoro di pubblica utilità e le pene pecuniarie? Il ministro Nordio ha ricordato il fatto che la vittima per esempio di un furto aggravato, uno dei reati per cui si prevede il passaggio dalla procedibilità d’ufficio a quella su querela, si limita alla denuncia, non sapendo di doversi anche querelare, magari anche solo contro ignoti. Ma la riforma aveva fissato un tempo congruo perché tutti fossero informati del cambiamento. Che cosa succederà adesso? Se nelle more di questi due mesi si ascolteranno le trombe di chi ha definito la riforma Cartabia una “salvaladri”, avremo ancora la speranza di ritrovare quel Nordio-uno, quello che voleva avviare una grande campagna di depenalizzazione, quello sensibile ai suicidi in carcere, quello in cui avevamo riposto tante speranze, o via Arenula sarà occupata dagli amici di Travaglio? Nordio incassa il plauso dell’Anm, ma sul rinvio della riforma è polemica di Valentina Stella Il Dubbio, 1 novembre 2022 Gatta, ex consigliere di Cartabia: “Una cosa mai vista”. L’Ucpi: sistema sanzionatorio a rischio. Ieri, nella prima conferenza stampa del nuovo Governo, sono serviti solo due minuti al ministro Nordio per illustrare la parte del decreto legge relativo all’ergastolo ostativo, sei invece per motivare il rinvio il rinvio dell’entrata in vigore della riforma del processo penale non oltre il 30 dicembre. Potrebbe significare che il neo Guardasigilli sente più vicino a lui il secondo provvedimento rispetto al primo, benché entrambi siano stati approvati in Cdm “su proposta del ministro Nordio”. Altro segnale è che Nordio ha risparmiato dettagli tecnici per il testo sul carcere “senza speranza” mentre si è dilungato parecchio su quelli relativi ai reati procedibili di ufficio o a querela. Comunque, la decisione di rinviare l’entrata in vigore della riforma del processo penale riguarda “il funzionamento degli uffici giudiziari - ha spiegato Nordio -. Sono consapevole delle difficoltà in cui versano le nostre procure, gli uffici del gip, le Corti d’appello. Abbiamo convenuto di accogliere il grido di dolore delle procure che avevano manifestato l’impossibilità di adeguare la loro operatività alle risorse disponibili”. “È una normativa che va nella giusta direzione”, ha ribadito per poi aggiungere: “Senza il rinvio della riforma Cartabia ci sarebbe stato un sovraccarico intollerabile per gli uffici giudiziari. Avendo fatto per 40 anni il pubblico ministero sono consapevole delle difficoltà. Questo rinvio non ha nessun impatto negativo sul Pnrr, anzi. Avremmo corso il rischio, dando attuazione immediata alla riforma, che per l’incompatibilità con le risorse disponibili, fosse inapplicabile. Questo rinvio di due mesi ci dà la possibilità di capire meglio le problematiche e di intervenire per la loro soluzione in vari modi sia amministrativa, sia coordinando i vari uffici giudiziari. Rischiavamo di assistere a una confusione normativa, perché le procure avevano emanato circolari non sempre compatibili le une con le altre”. È stata già istituita presso il ministero della Giustizia una specifica task force, composta dai vertici di tutti i dipartimenti del ministero della Giustizia coinvolti. Soddisfazione da parte dell’Anm: “il ministro della Giustizia e l’intero Governo hanno fortunatamente dato ascolto alle indicazioni della magistratura associata in ordine all’opportunità di una disciplina transitoria per importanti settori della recente riforma del processo penale”, ha detto il presidente Giuseppe Santalucia. “Il rinvio dell’entrata in vigore del decreto attuativo si pone infatti come passaggio necessario alla definizione della disciplina transitoria e - questione di non minore rilievo - al riassetto organizzativo degli uffici giudiziari”, ha concluso il vertice del “sindacato” delle toghe. Questa volta non dissentono da Santalucia neanche Cristina Carunchio, Giuliano Castiglia, Ida Moretti e Andrea Reale, Componenti del gruppo 101 del Cdc dell’Anm: “È un fatto salutare, che risponde a vitali esigenze di razionalità ed efficienza. Merito al Governo e al ministro della Giustizia, che danno prova di saggezza e capacità di ascoltare chi materialmente agisce sul campo”. Critiche, invece, dall’Unione delle Camere Penali che hanno redatto un duro documento: “Le addotte (seppure del tutto genericamente) difficoltà di ordine strutturale e logistico degli uffici giudiziari certamente non possono riguardare tutta la parte della riforma dedicata al sistema sanzionatorio e della esecuzione penale. La pretestuosa estensione anche a questa importante parte della riforma di esigenze di natura organizzativa, qui del tutto irrilevanti, autorizza la convinzione che detto ingiustificato rinvio preluda ad una riscrittura di questa parte della riforma, attesa la sua evidente incompatibilità con la fosca narrazione identitaria del “buttare la chiave” che, all’evidenza, vuole ispirare i primi passi del nuovo governo in tema di giustizia penale”. Per il consigliere giuridico dell’ex ministra Cartabia, professor Gian Luigi Gatta, quanto accaduto “non si era mai visto. Il complesso cantiere della riforma della giustizia penale viene riaperto con un coup de theatre dal nuovo Governo”. Due sono le preoccupazioni per il giurista: “La prima riguarda l’affidabilità del Paese nel contesto internazionale: un dato fondamentale per l’economia, lo sviluppo e il benessere sociale”, la seconda “quel che può accadere dopo la legge di conversione. Se, ancora, il Parlamento approverà emendamenti - compresi quelli che verosimilmente saranno sollecitati dalla magistratura e dell’avvocatura - si tratterà di vedere se quegli emendamenti saranno conformi o meno agli obiettivi Pnrr concordati con la Commissione Europea”. Parla di “Governo Jukebox” Enrico Costa, deputato e vice- segretario di Azione: “L’Anm che ringrazia il Governo per averne ascoltato le “indicazioni” e si fa portavoce delle mosse future sulla emananda disciplina transitoria, prima ancora che abbia parlato il ministro, non succedeva neanche ai tempi dei Cinque Stelle. Quello sulla riforma Cartabia non sarà solo un rinvio “tecnico”. In sede di conversione del decreto proveranno a smantellarla. Nella maggioranza ci sono molti che hanno subito la nomina di Nordio. Anche il testo sull’ergastolo ostativo lo conferma”. Dall’opposizione ha parlato anche la vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia del Pd, Anna Rossomando: “Riteniamo grave la scelta del governo di rinviare l’entrata in vigore della riforma Cartabia. Se c’era la necessità di verificare alcuni elementi tecnici, il rinvio poteva essere limitato solamente a quegli aspetti e non a tutta la riforma. Se questo è il preludio a uno stravolgimento del testo su, ad esempio, norme urgenti come misure e pene alternative e con il rischio, che nonostante le rassicurazioni permane, di mettere a rischio i fondi del Pnrr, ci opporremo duramente”. Carcere e intercettazioni. La stretta sui rave arriva per decreto di Carlo Lania Il Manifesto, 1 novembre 2022 Introdotto un nuovo reato di “invasione di terreni o edifici”. Per chi organizza le manifestazioni previste pene fino a sei anni. Nell’illustrare il giro di vite contro i rave party varato ieri dal consiglio dei ministri, Matteo Piantedosi ha spiegato così la scelta, a dir poco inusuale vista il tema trattato, di procedere con un decreto: “Ravvisavamo i requisiti di necessità e urgenza nel fatto che, probabilmente, l’assenza di una disciplina normativa efficace nel nostro Paese ci rendeva particolarmente vulnerabili, come la cronaca degli ultimi anni testimonia”. Bisogna vedere adesso se le spiegazioni fornite dal ministro dell’Interno saranno sufficienti a convincere il presidente della Repubblica a firmare il provvedimento. Ieri, come consuetudine, dal Quirinale non è arrivato nessun commento alle prime misure adottate dal governo Meloni ma c’è da scommettere che vengono studiate con molte attenzione. Del resto è difficile parlare dei rave party come se se ne organizzasse uno a settimana, tanto da giustificare la procedure d’urgenza. Prima del raduno di Modena, che tra l’altro si è concluso senza incidenti al termine di una trattativa con i circa quattromila giovani presenti, ce n’era stato uno grande ad agosto 2021 a Viterbo dove purtroppo si sono registrate anche due vittime. Evento drammatico, ma pur sempre accaduto un anno fa. Così come appare difficile credere che qualche centinaio di ragazzi possa davvero destare maggiori preoccupazioni dei quasi duemila nostalgici del fascismo che neglii stessi giorni del rave si sono visti a Predappio per celebrare i 100 anni della Marcia su Roma. “Sono cose completamente diverse”, si è giustificato il ministro con chi gli chiedeva conto - come hanno fatto Pd e M5S - della differenza di trattamento tra le due situazioni: “Predappio è una manifestazione che si svolge da molti anni, è una cosa diversa. Sul rave party c’era la denuncia del proprietario”. Vediamo, quindi, in cosa consiste la linea dura che il governo di centrodestra vuole adottare contro le maratone danzanti. La novità principale è l’introduzione di una nuova fattispecie di reato: “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”. Gli organizzatori di questi eventi, se vi partecipano più di 50 persone, rischiano una condanna da tre a sei anni e una multa compresa tra i 1.000 e i 10.000 euro. Per prevenire i rave si potrà contare anche su uno strumento come le intercettazioni in modo da individuare prima, attraverso il controllo dei canali social, il luogo in cui si terrà l’evento. Un punto sul cui in consiglio dei ministri il vicepremier Antonio Tajani avrebbe sollevato più di un dubbio sulla possibilità di estendere troppo l’utilizzo di un simile strumento investigativo. Dubbi che sarebbero stati condivisi anche dalla premier Meloni, senza però arrivare a un ripensamento. Inoltre è previsto il sequestro dei mezzi - Tir, auto, van o quant’altro - e delle strumentazioni utilizzate per dar vita all’evento, così come, grazie a una modifica del codice antimafia, sarà possibile applicare la sorveglianza speciale agli indiziati dell’”invasione per raduni pericolosi”. Non mancano le preoccupazioni che le nuove norme possano alla fine essere utilizzate anche per limitare o addirittura vietare altri eventi o manifestazioni. A sollevare il dubbio è Andrea Orlando (Pd): “Va letta con molta attenzione la norma anti-rave - ha detto -. Al netto delle pene spropositate, potrebbe non valere solo per rave”. Il deputato di +Europa Riccardo Magi chiede invece l’intervento del presidente Mattarella. “È un decreto per “mandare un segnale”, come ha detto la presidente Meloni e per fare qualcosa che il governo aveva già deciso di fare, ha precisato il ministro Piantedosi -a ha detto -. Per quanto la prassi in materia di decretazione d’urgenza ci ha ormai abituati a continue sgrammaticature, nel nostro ordinamento non è consentito usare la decretazione d’urgenza per mandare segnali. C’è da sperare in un intervento del presidente della Repubblica di fronte a un inizio così in contrasto con le prerogative costituzionali di un esecutivo”. L’ordine pubblico pensa ai concerti abusivi e ignora gli ultras degli stadi di Michele Serra La Repubblica, 1 novembre 2022 L’ordine pubblico è solo un’opinione. Tra il rave party di Modena e la curva di San Siro svuotata dagli ultras dell’Inter (polizia autoproclamata), qual è l’affronto più grave alle leggi e all’ordine? Da una parte c’è un capannone vuoto occupato illegalmente, e un branco di ragazzi che si rintronano di decibel e di altra robaccia. Dall’altro ci sono padri con i bambini, che hanno comperato un biglietto, magari fatto un centinaio di chilometri per andare alla partita, e vengono sgomberati a spintoni perché un capo della tifoseria, noto pregiudicato, è stato ammazzato. E allo stadio di Milano il lutto diventa obbligatorio, come nei quartieri di mafia quando muore il boss. Di chi è lo stadio di San Siro, e di chi sono tutti gli stadi? Sono luoghi pubblici, nei quali vale la legge italiana? Oppure sono, come ognuno può vedere, luoghi privatizzati a suon di sberle, minacce, ricatti? I ministri che fanno la voce grossa con gli underdog (termine di moda, a Palazzo Chigi) dei rave party, la farebbero, o la faranno, anche con gli ultras che hanno usato lo stadio di Milano come casa loro, rovinando un sabato di festa a famiglie che avevano il solo torto di essersi sedute in curva? Ci scommetto: non lo faranno. I rave dispiacciono anche politicamente a questo governo, gli ultras delle curve no. C’è una nota e rivendicata familiarità politica tra esponenti della destra oggi ministeriale e il tifo ultras. Sgomberare un capannone da ragazzi alterati, ma pacifici, e chiudere gli occhi sullo scempio di sabato a San Siro: l’ordine pubblico è solo un’opinione. Calabria. Sovraffollamento e scarsi servizi, il dramma delle carceri calabresi di Enrica Riera Quotidiano del Sud, 1 novembre 2022 Luci e ombre. Sono quelle che avvolgono gli istituti penitenziari calabresi, in alcuni dei quali l’associazione nazionale “Antigone” ha fatto ingresso - anche nei mesi estivi del 2022 - delineandone, per l’appunto, i “punti di forza” e i nodi problematici. È di luglio scorso, ad esempio, la visita nel nuovo complesso della Casa circondariale di Vibo Valentia: una delle poche strutture penitenziarie della regione “a non patire il sovraffollamento”. Su una capienza regolamentare di 362 persone, infatti, il numero di detenuti presenti all’arrivo dell’associazione è di 344. Nonostante questo, Antigone scrive: “Di fatti, però, le celle utilizzate ospitano spesso un numero eccessivo di persone detenute, rendendo difficile la convivenza quotidiana e quest’ultimo dato è aggravato dall’assenza, quasi totale, di attività trattamentali, da alcune sofferenze dell’area sanitaria e dalla mancanza di manutenzione dell’edificio e degli spazi detentivi. Il clima in istituto, pertanto, è di generale tensione”. Esiste, inoltre, una biblioteca, che tuttavia non risulta accessibile come spazio comune e pure il teatro presente è sottoutilizzato, “sottolineando la vocazione più contenitiva che trattamentale dell’istituto stesso”, dove altro grande assente è il lavoro. “Le poche attività - si legge ancora nel report di Antigone - sono saltuarie (un’azienda locale, nel periodo natalizio, impiega alcuni detenuti nel confezionamento di ceste) o coinvolgono un numero esiguo di ristretti (solo due nella produzione di infissi in alluminio alle dipendenze di una ditta esterna)”. Passando poi alla Casa circondariale di Crotone, dove la visita di Antigone è datata allo scorso mese di agosto, ci si rende conto che i numeri dei ristretti “siano risaliti”. “Il sovraffollamento però - è scritto nella scheda - non causa grandi problemi”. Su una capienza regolamentare fissata a 88 persone, i reclusi - presenti dinnanzi ad Antigone - sono 127. “L’istituto si trova senza direzione sin dai primi anni dell’apertura, nonostante la direttrice si rechi in struttura con regolarità due volte alla settimana. Ci viene segnalata - riporta Antigone - la pressoché totale assenza di una rete di volontari, ministri di culto ed enti formatori. Al momento della visita, infatti, non erano attivi corsi culturali e/o professionali. I laboratori di fabbro, falegnameria e vetreria, nonostante siano molto ampi, ben tenuti e dotati di macchinari professionali di alto livello, sono - continua l’associazione - inutilizzati da molti anni in quanto non vi è un interesse esterno da parte di enti formatori o di collaborazione da parte di imprese del territorio. Ci viene segnalato un alto numero di persone affette da patologie psichiatriche che sono di difficile gestione, al momento della visita 8 di loro si trovavano separati dagli altri detenuti, tutti inseriti nella sezione transito”. Poi, Locri. Qui, in provincia di Reggio, la visita è di aprile 2022. E il problema “maggiore” che si riscontra è proprio il sovraffollamento, al 131 per cento: 117 i ristretti presenti al momento della visita su una capienza di 89 persone. Oltre a ciò, si riscontrano “l’assenza di mediatori linguistici e di vari ministri di culto a fronte di una presenza considerevole di stranieri, l’assenza di medici specialistici quali il cardiologo, l’ortopedico e il dentista, disponibili su richiesta. Le figure sanitarie stabili sono il direttore sanitario, il medico generico e un infermiere. Il medico è presente solo 12 ore al giorno compresi i festivi; pertanto, in caso di urgenza le persone detenute vengono tradotte nell’Ospedale civile di Locri. Infine, la formazione professionale delle persone detenute, assicurata da una serie di attività formative non è ancora certificata tramite il rilascio di attestati, nonostante i notevoli sforzi della direzione e dell’area educativa orientati all’ottenimento degli stessi”. Infine, c’è Rossano, nel Cosentino, sulla cui Casa di reclusione questo giornale ha nei giorni scorsi già svolto un approfondimento. Proprio qui (la visita è risalente ad agosto 2022) il nodo critico è rappresentato dal sovrannumero di detenuti (291 su 265). “Ogni cella ha il bagno in ambiente separato e docce. Tuttavia, al momento della visita, in alcune di esse erano reclusi fino a 5 o 6 detenuti con un evidente problema di spazi interni e di qualità della vita. Situazione aggravata dal fatto che nell’istituto vige il regime delle celle chiuse e i detenuti possono uscire solo per 4 ore al giorno. Proprio per questo particolare regime i detenuti hanno chiesto di poter dotare le celle di un frigo. L’unico infatti è in un ambiente comune della sezione che, però, per la maggior parte della giornata, è inaccessibile. La direzione ha autorizzato la richiesta (i detenuti lo acquisterebbero in maniera autonoma) ma si attende il nulla osta del Dap che tarda ad arrivare”, scrive Antigone che compie un viaggio, dunque, tra luci e ombre. Ma che, soprattutto, apre gli occhi. Termini Imerese (Pa). Detenuto si impicca in carcere, indagini in corso di Ignazio Marchese blogsicilia.it, 1 novembre 2022 Un detenuto è stato trovato morto impiccato nel carcere dia Termini Imerese. L’uomo era stato arrestato per un codice rosso perché avrebbe aggredito la madre. Era stato ai domiciliari per avere aggredito la moglie. Portato ai domiciliari in casa della madre ha aggredito anche lei. L’uomo era disabile, aveva una protesi e ha avuto problemi con la droga. Dopo due giorni anche se stava in cella con alcuni detenuti si è chiuso in bagno e si è impiccato con la cintura dei pantaloni. Torino. Suicida in carcere per un furto di 24 euro. “Non si può morire per delle cuffiette” di Marina Paglieri La Repubblica, 1 novembre 2022 Non si conosce nulla di lui, forse anche il nome è inventato. Arrestato per una rapina con un amico, si è impiccato dopo 48 ore dall’entrata in carcere. Come si fa a parlare di un uomo che non esiste? Un uomo che non ha documenti e non dice chi è, tanto che quando entra in carcere sui documenti scrivono “sconosciuto”. Che davanti al giudice si presenta con un nome - Tecca Gambe - ma chissà se è il suo. Che dice di avere 22 anni ma si scopre che sono 36, se anche quello è vero. Un uomo che non ha un’identità certa, ma ha una storia tutta sua. Arrivato in Italia dal Gambia chissà come e chissà quando. Che non ha una casa e vive per strada, sotto i portici di Torino. Che finisce in cella per aver fatto da palo mentre un complice portava via un paio di cuffiette da un negozio. E non esce più, morto impiccato meno di 48 ore dopo. Senza un parente o un amico che abbia ancora pensato a un funerale, ma tanta gente che si dispera per lui e per questa morte che doveva essere evitata. “Se potessi tornare indietro non chiamerei la polizia. Non si può morire per delle cuffiette bluetooth che costano 24 euro”, dice la signora cinese che ha il negozio di via Nizza dove tutto è iniziato il 25 ottobre, verso l’ora di chiusura. Tecca Gambe era con un amico, avevano bevuto tutti e due. Da giorni li vedevano da quelle parti a bivaccare. L’amico è entrato dentro il negozio per rubacchiare qualcosa, mentre Tecca Gambe faceva da palo. L’amico prende le cuffiette e sarebbe stato furto, arresto facoltativo. Ma è bastato che dopo aver preso quel misero bottino ci sia stato uno spintone o una frase minacciosa e il reato è diventato rapina impropria, arresto obbligatorio, a cui si è aggiunta la resistenza che hanno fatto agli agenti della volante del commissariato Centro che sono intervenuti. “Gli avevo detto di andarsene, che avevo già chiamato la polizia”, incalza la commerciante. Loro invece non sono fuggiti e quando sono arrivati i poliziotti si sono agitati. Si tratta di un episodio, che però suscita una riflessione perché questo arresto è in linea con una tendenza che a Torino si vede da anni sull’aumento degli arresti, che sono passati dai 2.466 del 2014 ai 3.538 del 2019 e sono scesi di poco, a 3.285, nel 2020, quando c’era il lockdown e i reati erano stati in forte calo. E questo ha ripercussioni sul sovraffollamento ormai divenuto cronico e anche sui costi della giustizia. Perché si calcola che le prime due giornate in cella costino alla collettività 350 euro per ogni detenuto tra il lavoro che comporta l’ingresso in cella (immatricolazione, perquisizione, ritiro e catalogazione degli oggetti personali, impronte digitali, visita medica, tampone per il Covid, visita psicologica, colloquio con il funzionario giuridico pedagogico, registrazione nel sistema informatico) e la fornitura del kit di primo ingresso e della dotazione personale di piatti, posate, spazzolino, dentifricio, sapone, bicchiere e pettine. Ma soprattutto si trasformano in spese inutili se è vero, come dimostrano i dati, che il 77 per cento dei detenuti che entrano in cella escono dopo 48 ore, quando viene definita la loro posizione giuridica. E lo stesso sarebbe accaduto probabilmente anche a Tecca Gambe. “Alla prima visita non c’erano segnali di alcun problema che facessero intuire la necessità di un percorso particolare. Nessuno”, spiega sconfortata Cosima Buccoliero, la direttrice del carcere Lorusso e Cutugno. Ed è passato così poco tempo da quando è entrato a quando si è tolto la vita che non c’è stato modo di accorgersi di nulla. A Tecca Gambe è stato trovato un letto nella sezione “nuovi giunti” nelle prime ore del 26 ottobre. Il giorno dopo si è presentato in tribunale per l’udienza di convalida. Trattandosi di un reato collegiale, non è previsto il processo per direttissima che avrebbe subito segnato le sorti del gambiano. Invece nel suo caso i tempi si sono dilatati, il gip si è preso del tempo per decidere se convalidare l’arresto o rimetterlo in libertà. Nell’attesa il giovane è stato riportato dietro le sbarre. Nel frattempo il compagno di cella che era con lui è stato trasferito e Tecca Gambe è rimasto solo con i suoi pensieri. Al mattino di venerdì, il 28 ottobre, il detenuto ha aspettato che passassero gli operatori per il giro delle 7,30. Ha fatto colazione, ha parlato con un infermiere, poi ha strappato delle striscioline di lenzuolo che ha annodato per formare un cappio che ha attaccato alla plafoniera sul soffitto e si è impiccato. Subito sono intervenuti gli agenti della polizia penitenziaria. Uno in particolare, volontario della Croce rossa, ha cercato di fare tutto il possibile per rianimarlo. Nel frattempo sono intervenuti medici del carcere e del 118, ma dopo 50 minuti si sono dovuti arrendere di fronte a quel cuore che aveva smesso di battere. Neanche due ore dopo è stato il garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano, a commentare il suicidio di Tecca Gambe, che è il terzo quest’anno al carcere del quartiere Vallette dopo quello a fine luglio di Nuammad Khan, pakistano di 38 anni, e poi ad agosto di Alessandro Gaffoglio, 24 anni, nato in Brasile e cresciuto in Italia. “È stata un’estate tragica e non si può non affrontare il tema del suicidio”, ha detto Mellano, che stava introducendo un convegno su edilizia e architettura carceraria a Palazzo Lascaris quando si è diffusa la notizia del suicidio del giovane del Gambia. Un seminario che ha messo in luce le criticità degli spazi del carcere non solo per come sono trascurati, ma anche per come dovrebbero essere ripensati. “Gli spazi incidono in modo determinante sui detenuti e sugli operatori - continua il garante piemontese - Nel mio ruolo devo segnalare anche le condizioni di vita degli agenti di polizia penitenziaria, che è il corpo con il più alto tasso di suicidi”. È stato a quel punto che i partecipanti hanno indossato dei visori per la realtà virtuale e hanno assistito alla proiezione di “VR Free”, del regista Milad Tangshir, pellicola che porta gli spettatori in mezzo ai lunghi corridoi del carcere di Torino. Per 13 minuti è come se ci si trovasse lì, circondati da muri scrostati e vecchio mobilio, a guardare il cielo a quadretti dalle finestre. Le persone sono voci fuori campo che arrivano attraverso i muri e le sbarre delle celle. L’ora d’aria è in una scatola di cemento senza coperchio che si fa fatica a vedere come un cortile. In quel carcere per 48 ore c’è stato anche Tecca Gambe, ma non ha resistito. Eppure non era la prima volta che veniva recluso. Negli anni passati in Italia aveva avuto altri piccoli problemi con la giustizia che lo avevano portato in alcuni penitenziari della penisola. In quelle occasioni (ma non qui a Torino) aveva segnalato dei nomi di familiari da avvisare, sempre che fossero nomi veri e sempre che siano raggiungibili. In ogni caso è a partire da quei nomi, con la collaborazione del consolato del Gambia, che si cercherà di trovare qualcuno a cui interessi la sua sorte. “Una vita, una persona, per il sistema giudiziario vale 24 euro. Da tempo chiediamo che il carcere non sia l’unica risposta”, va all’attacco Igor Boni, presidente dei Radicali Italiani. “Ogni suicidio rappresenta il fallimento non solo della comunità penitenziaria ma di tutta la collettività”, è la riflessione di Monica Gallo, garante dei detenuti di Torino. “È urgente un confronto col governo”, chiede Gianna Pentenero, assessora comunale con delega al carcere. Monza. Infermo totale di mente resta in carcere. Nelle Rems non c’è posto di Stefania Totaro Il Giorno, 1 novembre 2022 Infermo totale di mente e socialmente pericoloso, ma resta detenuto in carcere perchè non c’è nessun posto nelle Rems, le residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza, costituite dopo la chiusura dei manicomi giudiziari ma sempre a corto di disponibilità. Sta succedendo a Davide Garzia, il 23enne che ha ucciso in casa a calci e pugni la madre Fabiola Colnaghi, casalinga 58enne, infierendo poi anche sul suo cadavere. La Procura di Monza ha concluso le indagini nei confronti del giovane dopo che la perizia psichiatrica disposta in incidente probatorio dal Tribunale di Monza ha concluso che il giovane era totalmente incapace di intendere e di volere al momento del fatto. Il 23enne è stato ritenuto anche socialmente pericoloso, quindi il pm della Procura di Monza Giovanni Santini titolare delle indagini ha revocato la misura di custodia cautelare in carcere a favore del ricovero in una struttura psichiatrica. Ma Davide si trova ancora in carcere dal giorno dell’arresto avvenuto il 21 aprile scorso, facendo la spola con il reparto di psichiatrica dell’ospedale in caso di bisogno. Il giovane è invece risultato capace di stare in giudizio, ovvero di affrontare il processo davanti alla Corte di Assise di Monza dove verrà assolto dalle accuse di omicidio volontario aggravato e vilipendio di cadavere per infermità totale di mente. “Venite, ho ucciso mia mamma”, ha detto Davide al telefono dopo avere chiamato i carabinieri all’ora di pranzo. Il 23enne ha infierito brutalmente sulla madre, colpendola alla testa, all’addome e nelle altre parti del corpo. Poi, dopo averla uccisa, le ha tagliato i capelli con una forbice, cosparso il viso di candeggina e scritto parolacce con il pennarello su braccia e gambe. Sette anni fa il giovane era stato in cura per crisi depressive. Alghero. Diritti, istituita la figura del Garante comunale dei detenuti sardegnalive.net, 1 novembre 2022 Di recente il Consiglio comunale ha approvato all’unanimità un ordine del giorno per l’istituzione. “L’istituzione di un Garante dei detenuti è un obiettivo di civiltà necessario, a supporto della riabilitazione dei detenuti e a tutela e per la valorizzazione del sistema carcerario nel suo complesso”. Così il Sindaco Mario Conoci ha aperto la conferenza stampa tenutasi ieri nella sala conferenze della Fondazione Alghero alla quale hanno partecipato i Consiglieri Comunali Christian Mulas e Mimmo Pirisi. Il primo cittadino, dopo aver ringraziato la Direttrice ed il Comandante degli agenti di polizia penitenziaria della casa di reclusione di Alghero per il lavoro svolto ed aver fatto diventare un modello l’istituto di pena da loro guidato, ha ripreso i contenuti dell’ordine del giorno approvato all’unanimità dal Consiglio Comunale annunciando che anche Alghero avrà a breve un Garante dei detenuti.? “La pena non deve essere fine a sé stessa e non può avere esclusivamente finalità punitive ma piuttosto consentire la completa riabilitazione sociale dei detenuti” ha invece dichiarato il Consigliere Comunale Mimmo Pirisi. “Un obbiettivo che ha trovato d’accordo maggioranza e opposizione in modo trasversale e senza distinzione di sorta - ha sottolineato il Consigliere Comunale Christian Mulas, Presidente della Commissione consiliare Sanità - Una figura di mediazione che può essere utile per prevenire situazioni di disagio nel mondo carcerario che a volte sfociano in gesti estremi. A breve la parola passerà nuovamente al Consiglio Comunale che dovrà nominare il Garante scegliendo in base ai requisiti professionali richiesti ed anche in base all’esperienza ed alla conoscenza della complessa e complicata realtà delle case di pena” chiude Mulas.? Ferrara. Dai corsi scolastici ai lavori socialmente utili, ripartono le attività dei detenuti ferraratoday.it, 1 novembre 2022 Dopo una fase di rallentamento dovuta al Covid, aumentano iniziative e laboratori nella struttura dell’Arginone. Numerosi corsi scolastici, dall’alfabetizzazione alla scuola superiore come operatore della ristorazione, in collaborazione con l’Istituto alberghiero Vergani-Navarra e con il Cpia. Un docufilm dal titolo ‘La scuola dentro e fuori’, che sarà proiettato venerdì nella sala teatro dell’istituto. Una convenzione sottoscritta con l’Università per garantire il diritto allo studio anche in carcere. Senza trascurare molteplici iniziative sportive, dalla pallavolo alla ginnastica dolce e al cammino veloce, in collaborazione con la Uisp di Ferrara, con cui nel corso degli anni sono state organizzate anche le manifestazioni della ‘Bici in città’ e ‘Vivicittà’, alla presenza della comunità esterna. E poi il Progetto ‘Rugby 27 Ferrara’, avviato nel 2021 con lo scopo di formare una squadra composta da soli detenuti, per porre al centro il rispetto delle regole e il valore della disciplina. E la sinergia con la società sportiva Acli ‘San Luca San Giorgio’, con l’attivazione di corsi di calcio e di yoga. Dopo una fase di rallentamento dovuta al Covid, proseguono e si ampliano le attività professionalizzanti e rieducanti per i detenuti del carcere ‘Costantino Satta’, nel solco del mandato dell’articolo 27 Costituzione, che recita che ‘le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Fra le figure impegnate a promuovere, le molteplici attività di rieducazione, ci sono la direttrice Nicoletta Toscani, la responsabile dell’arearea giuridico-pedagogica Annamaria Romano, la comandante del Reparto Annalisa Gadaleta, oltre a tutto il personale della struttura. Sul fronte dei lavori socialmente utili,alcuni detenuti destinatari dei provvedimenti legati all’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario, prossimi alla fine della pena e con ottima condotta, si recano in alcune aree verdi del Comune per svolgere lavori di cura del verde, manutenzione delle aiuole, raccolta rifiuti abbandonati, messa a dimora e cura di alberi. Numerose attività, dunque, che l’istituto penitenziario ha scelto di condividere con la città, per ribadire la funzione del carcere “di tendere alla rieducazione e risocializzazione del detenuto, offrendogli strumenti di apprendimento al fine di poterlo spendere nella società, dopo ver ristabilito con essa quel giusto rapporto di rispetto delle regole e del vivere civile”, ha evidenziato la direttrice Nicoletta Toscani. Per quanto riguarda le attività culturali, le iniziative spaziano dal laboratorio cinema e di scrittura creativa, al corso per aiuto bibliotecario e ai gruppi di lettura, in collaborazione con la biblioteca Ariostea di Ferrara che promuove anche incontri con autori. Molto apprezzate, inoltre, le conferenze realizzate nell’ambito del Progetto educativo antimafia, promosse dal Centro Studi ‘Pio La Torre’. Per provare a costruire un ponte con l’esterno, poi, dal 2005, in collaborazione con l’Asp nasce la rivista ‘Astrolabio’, consultabile online. Il capitolo teatro pone l’accento su un laboratorio attivo da molti anni e sostenuto dall’Amministrazione comunale e dal Coordinamento regionale Emilia Romagna Teatro Carcere, così come i concerti tenuti dall’Associazione Amici della Musica e l’Ensemble Concordanze. I corsi professionalizzanti sono diversificati: cucina, falegnameria, barberia, sicurezza sanitaria e socio-sanitaria, piantumazione e ortocoltura, formazione professionale per operatori nell’ambito di impianti elettrici, civili ed industriali e di pulizia di spazi e ambienti interni ed esterni. Percorsi in aggiunta, dal 2010, al laboratorio Raee che con la Cooperativa ‘Il Germoglio si occupa di assemblaggio di elettrodomestici smontati dai detenuti e selezionati per il riciclo. Da alcuni anni, i detenuti hanno anche la possibilità di partecipare al progetto ‘Galeorto’, con coltivazione di tre orti interni all’istituto per tre circuiti detentivi e un orto esterno, anteriormente dedicato alla coltura della zucca violina. Un’attività a titolo volontario e gratuito, in qualità di soci dell’Associazione Viale K. I prodotti orticoli vengono consumati dalla popolazione detenuta, e le eccedenze date alle mense dei poveri di Caritas e all’Emporio Solidale dell’associazione Il Mantello. Varese. In carcere un Halloween speciale, per ritrovare l’emozione della normalità di Tommaso Guidotti varesenews.it, 1 novembre 2022 Alcuni figli di detenuti hanno potuto incontrare i propri genitori nello “Spazio Giallo” dei Miogni, grazie ad un progetto di Bambinisenzasbarre. Un pomeriggio insieme per ritrovare l’emozione della normalità. Grazie al progetto “Spazio Giallo”, voluto dall’associazione “Bambinisenzasbarre”, dalla “Cooperativa Lotta contro l’Emarginazione” e dal Comune di Varese per i figli di detenuti nel carcere dei Miogni di Varese, diversi bambini, bambine, ragazzi e ragazze hanno potuto passare un Halloween speciale insieme ai loro genitori. Ideato da Bambinisenzasbarre, lo “spazio giallo” è un luogo fisico e mentale dedicato a bambini, preadolescenti e adolescenti e ai loro accompagnatori, soprattutto le madri; è un luogo di accoglienza e preparazione all’incontro con il genitore o il parente detenuto, per bambini e famiglie, dove far decantare le conseguenze emotive della separazione dopo l’incontro. È anche un luogo dove costruire nel tempo relazioni di sostegno e di accompagnamento alla difficile esperienza dell’incontro in carcere. Nello Spazio Giallo i bambini vengono accolti e affiancati fino al colloquio, i genitori o gli adulti di riferimento vengono ascoltati nei loro bisogni e nella loro esigenza di confronto. Oltre ad essere uno spazio fisico, è anche un modello di lavoro per cambiare il carcere, è un servizio che consente di entrare nei penitenziari per poi attuare il cambiamento con diverse attività, tra cui la relazione quotidiana con la direzione dell’istituto e soprattutto con il personale di Polizia Penitenziaria. Per la ricorrenza di Halloween i bambini e i ragazzi hanno potuto passare alcuni momenti insieme ai loro genitori: visi sorridenti, emozione ed anche commozione in chi ha collaborato con le educatrici a realizzare questo momento di normalità e serenità. “Un grazie alla direzione del carcere e al settore educativo che hanno reso possibile questo momento, e anche agli agenti, sempre molto disponibili e comprensivi nel corso dei colloqui. Grazie a Chiara e Paola di Potere ai Bambini, libreria di Varese, i bambini hanno potuto ascoltare alcune letture e poi con Emma Sist del gruppo Scout di Luino hanno effettuato laboratori nei quali hanno realizzato zucche e mostri di Halloween - ci spiega Alessia Boldetti, educatrice del progetto “Spazio Giallo” -. Una cosa che ripetiamo sempre è che essere dei “cattivi” cittadini non vuol dire essere cattivi genitori, anzi. I bambini e i ragazzi cercano e vogliono stare con i loro genitori e questi momenti riempiono davvero il cuore. Noi affianchiamo i genitori e li aiutiamo a vivere questa difficile esperienza nella maniera più giusta, senza vergogna. Aiutare i detenuti a vivere serenamente i rapporti con i figli può essere un sostegno, un piccolo passo verso la “normalità”. Prossimo evento in programma la Festa di Natale, tutta dedicata ai bambini e all’incontro con i loro padri. I cattolici uniti contro la logica delle armi: “Italia libera dall’atomica” di Luca Kocci Il Manifesto, 1 novembre 2022 Guerre. Verso la manifestazione per la pace del 5 novembre a Roma, il documento di 47 associazioni, da quelle istituzionali ai movimenti del “dissenso”. Cattolici in campo contro la guerra e contro le armi, alla vigilia della grande manifestazione per la pace di sabato prossimo, 5 novembre, a Roma (ritrovo a Piazza della Repubblica e corteo fino a Piazza San Giovanni). I presidenti di 47 associazioni e movimenti cattolici hanno sottoscritto un documento con cui chiedono ai governanti di deporre le armi - non usarle, non inviarle, non minacciare l’impiego di quelle atomiche - e di rilanciare dialogo e diplomazia. “Come realtà del mondo cattolico italiano e dei movimenti ecumenici e nonviolenti a base spirituale - si legge - vogliamo unire la nostra voce a quella di papa Francesco per chiedere un impegno più determinato nella ricerca della pace. Affidarsi esclusivamente alla logica delle armi rappresenta il fallimento della politica. Il nostro Paese deve da protagonista far valere le ragioni della pace in sede di Unione europea, Onu e Nato. Il dialogo, il confronto, la diplomazia sono le strade da percorrere con determinazione”. Ci sono tutte le principali organizzazioni del mondo cattolico: quelle istituzionali (Azione Cattolica, Acli, gli scout dell’Agesci, il movimento dei Focolari), quelle tradizionalmente impegnate sui temi della pace (Pax Christi, Beati i costruttori di pace, Comunità papa Giovanni XXIII, Comunità sant’Egidio, Gruppo Abele, Sermig, Focsiv), quelle della galassia cattolico-democratica (Città dell’uomo, Rosa bianca, Viandanti), quelle che un tempo sarebbero state etichettate come “dissenso cattolico” (Comunità di base, Noi siamo Chiesa), le associazioni dei teologi e delle teologhe, dei maestri e dei docenti cattolici. Ma anche “sorprese” come Comunione e liberazione e Movimento cristiano dei lavoratori (nato da una scissione a destra nelle Acli dell’”ipotesi socialista” negli anni ‘70). Mancano i neocatecumenali e le associazioni pro-life, che però, si sa, scendono in piazza solo per i Family day. Una platea vasta, che lascia intendere che sabato prossimo in piazza ci saranno anche tanti cattolici, che sul tema della pace, al di là delle differenze fra i gruppi, sono stati ricompattati da Bergoglio. “Con la creazione dell’Onu si pensava che la guerra fosse ormai un’opzione non più prevista, una metodologia barbara, dunque superata, per la soluzione dei conflitti. E invece no. Eccoci ancora con il dramma della guerra vicino a noi”, scrivono le associazioni, che condannano la guerra scatenata “dall’invasione dell’Ucraina” da parte della Russia e le “tante altre sparse per il mondo, per lo più guerre dimenticate perché lontane da noi”. Oggi “è papa Francesco a ricordarci costantemente che la guerra è “una follia, un orrore, un sacrilegio, una logica perversa”“ e a chiedere che “si giunga subito al cessate il fuoco: tacciano le armi e si cerchino le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili”. C’è anche una richiesta esplicita rivolta al governo italiano, proprio quando gli Stati uniti si apprestano a rinnovare l’arsenale di bombe atomiche nelle basi militari di Ghedi e Aviano: “Di fronte all’evocazione del possibile utilizzo di ordigni atomici, un gesto dirompente di pace sarebbe certamente la scelta da parte del nostro Paese di ratificare il Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari”. La richiesta in realtà venne già rivolta al governo Draghi nella primavera 2021. Ora le associazioni cattoliche la rinnovano: sia messa “urgentemente” all’ordine del giorno la ratifica del Trattato, per “indicare che il nostro Paese non vuole più armi nucleari sul proprio territorio e che sollecita anche i propri alleati a percorrere questa strada di pace. Purtroppo, anche dopo tante guerre, noi non abbiamo ancora imparato la lezione e continuiamo ogni volta ad armarci, a fare affari con la vendita di armi e a prepararci alla guerra”. Chissà cosa ne pensano l’ex piazzista d’armi Crosetto, ora ministro della Difesa, e la presidente del Consiglio Meloni, “madre e cristiana”? Quartapelle: “Migranti detenuti in modo disumano, il patto con la Libia va ridiscusso” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 1 novembre 2022 La responsabile Esteri del Pd: “Il Memorandum va rinegoziato o cancellato. I profughi sono sottoposti a trattamenti degradanti. Ma così come Conte, Meloni non rivedrà l’intesa”. Il Memorandum Italia-Libia, l’esternalizzazione delle frontiere e i guasti prodotti. Il Riformista ne discute con Lia Quartapelle, responsabile Esteri del Partito democratico, neo rieletta parlamentare. Domani, 2 Novembre, il Memorandum d’intesa Italia-Libia verrà rinnovato automaticamente, nonostante l’appello di oltre 40 organizzazioni della società civile a cancellarlo. Non la ritiene una sconfitta politica grave? La gestione dell’immigrazione deve avvenire in modo legale e sicuro. Fondamentale per questo obiettivo è il dialogo e anche gli accordi con i paesi di provenienza e di transito. Con questa finalità, nel 2017 l’Italia stipulò con le autorità libiche un Memorandum sul contrasto al traffico di esseri umani. Il Memorandum è stato parte di una strategia necessaria volta a regolare la gestione degli arrivi in Italia dalla Libia che però ha mostrato notevoli lacune sul fronte delle condizioni di vita dei migranti in Libia: le autorità libiche non sono mai riuscite, nonostante le sollecitazioni e gli aiuti delle organizzazioni Onu e anche dei governi europei, a gestire i migranti in Libia, e di fatto li hanno detenuti in veri e propri campi di detenzione dove sono sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. Per questo, nel 2019, al momento del rinnovo, con Laura Boldrini come Pd chiedemmo al governo italiano - allora era presidente del Consiglio Conte - di avviare un dialogo con le autorità libiche per renderne più stringente l’applicazione relativamente al rispetto dei diritti umani e al contrasto ai trafficanti. Fu faticoso chiedere un impegno italiano per le modifiche: il M5s era contrario anche al fatto che il Parlamento avanzasse questa richiesta. Il governo Conte - e poi il governo Draghi - non sono riusciti a modificare il memorandum. Vuole dire o che le autorità libiche non condividono la necessità di una collaborazione con l’Italia in questa materia o che l’Italia non è in grado di influenzare la direzione della collaborazione. Senza la collaborazione delle autorità libiche il governo italiano, di qualsiasi colore, non è in grado di gestire i flussi in arrivo dalla Libia. Non ottenere risposte quando si chiede di valutare insieme l’efficacia della collaborazione è un dato che meriterebbe una riflessione politica approfondita, non un tacito rinnovo. A maggior ragione quando così tante cose sono cambiate in Libia dal 2017 a oggi, a partire dal peso che hanno acquisito in quel paese Russia e Turchia. Dal 2017 ad oggi, i 5 anni del Memorandum, quasi 100mila persone sono state intercettate in mare dalla cosiddetta Guardia costiera libica e riportate forzatamente in Libia, nei lager che sappiamo. La Guardia costiera libica è stata finanziata dall’Italia per fare il lavoro sporco al posto nostro. È la politica dell’esternalizzazione delle frontiere... Esternalizzare la gestione delle frontiere ha spesso coinciso con un approccio che portava i paesi di destinazione a lasciar fare ai governi dei paesi di provenienza e transito, in cambio di compensazioni economiche (come ad esempio con la Turchia). Ci può essere un altro approccio, che però richiede attenzione e apprendimento continui. È l’approccio che porta a collaborare tra Stati per la gestione delle migrazioni: questo vuole dire dialogare, prendersi responsabilità comuni, cooperare per la gestione di un fenomeno complesso e di lungo periodo. Collaborare e esternalizzare sono atteggiamenti diversi. L’approccio collaborativo è più completo. Ciascuno Stato ha il dovere di gestire i flussi di chi attraversa i propri confini, seguendo le Convenzioni internazionali di cui fa parte. Tutti gli Stati hanno il dovere di collaborare a questi sforzi. Un esempio della differenza? A luglio il Pd ha votato contro il rifinanziamento della missione a sostegno della Guardia costiera libica: abbiamo giudicato insufficiente la reattività della Guardia costiera libica a precise contestazioni italiane e di organizzazioni internazionali sul rispetto dei diritti umani e sulla reale volontà di contrastare i trafficanti di esseri umani. Si collabora, ma se la collaborazione non funziona la si rivede e eventualmente la si interrompe. In questo approccio di collaborazione, l’Italia non dovrebbe mai mancare di porre sia a livello europeo che a livello Onu la questione delle migrazioni in Libia. Certo, il nuovo governo deve fare attenzione agli argomenti che usa e ai toni che impiega: quando la Lega e il M5s hanno scelto, su pressione di Fratelgrazioni. li di Italia, di non ratificare il Global Compact per le migrazioni dell’Onu hanno reso l’Italia meno credibile nel chiedere un governo globale delle migrazioni e maggiore solidarietà dagli altri stati; mentre ogni sparata razzista dei partiti della destra allontana la possibilità di collaborare con i governi africani, che sono partner imprescindibili per evitare le partenze e stroncare i traffici. Inoltre, le alleanze in Europa di Meloni sono proprio con quei paesi che non vogliono un governo europeo delle migrazioni a livello globale, se vuole essere qualcosa di diverso dall’esternalizzazione delle frontiere, richiede una saggia politica europea e estera che in questa maggioranza non vedo. Porti chiusi, navi delle Ong nel mirino del duo Salvini-Piantedosi. Il governo appena varato ha dato inizio alla battaglia navale. E la sinistra? Ho ascoltato con attenzione le parole che Meloni ha scelto durante il suo discorso di insediamento per parlare di immigrazione. Non ho notato un cambiamento di impianto rispetto all’approccio di Salvini ministro dell’Interno. Solo la scelta di un linguaggio più istituzionale. Sogno il momento in cui in Italia si possa discutere di migrazioni come di una grande questione strategica nazionale - come si fa ad esempio con la politica estera - non come della risposta a un’emergenza o di una battaglia ideologica. In questo senso ha sbagliato sia chi da destra proponeva una ricetta semplicistica e irrealizzabile come l’immigrazione zero, sia chi da sinistra era contro la regolamentazione degli ingressi. Lo scontro tra questi due approcci ha fatto sì che per troppo tempo abbiamo ignorato i numeri del fenomeno nel suo complesso, limitandoci a ragionare solo sugli arrivi dalla Libia. In Italia entrano legalmente ogni anno con il decreto flussi meno di 30mila persone. Illegalmente ne entrano molte di più, poi regolarizzate in sanatorie fatte da tutti i governi. Possiamo discutere di come dare regole certe, eventualmente selettive, per l’ingresso legale in Italia della manodopera di cui c’è bisogno? È così che si ampliano i flussi di ingresso legale stroncando parallelamente gli ingressi illegali. Possiamo discutere di come si crea buona integrazione, lavoro buono, di come si superano i conflitti che la convivenza tra comunità di lingua e religione e cultura diversa comportano? Da Meloni non ho sentito una parola su questo, e anche la sinistra in questi anni ha ragionato più sulla modifica della legge della cittadinanza che sulle politiche per favorire l’integrazione. Le leggi, i diritti servono, ma servono risorse e attenzione politica per governare nella quotidianità l’immigrazione. Dall’altro lato c’è l’emigrazione. Sono circa 80mila i ragazzi e le ragazze italiane che decidono ogni anno di trasferirsi stabilmente all’estero perché non trovano una strada per affermarsi nel nostro paese. Possiamo ragionare insieme, maggioranza e opposizione, su come permettere a questi ragazzi e ragazze di fare esperienza all’estero, eventualmente avendo la possibilità di tornare in Italia? Sarebbe opportuno ragionare sulle migrazioni sia in entrata che in uscita partendo da questi fatti, non dai tweet di Salvini. Se Meloni volesse davvero essere una leader conservatrice e pragmatica, dovrebbe partire da qui. Tutto il paese ne trarrebbe giovamento. Nel suo intervento alla Camera, lei ha ricordato alla neo premier Meloni che c’è una famiglia che attende ancora verità e giustizia sull’atroce morte del figlio. È la famiglia di Giulio Regeni... Quasi sette anni fa veniva ucciso in Egitto un cittadino italiano, Giulio Regeni. Le indagini della magistratura italiana hanno svelato che Giulio è stato torturato e ucciso dalle forze di sicurezza egiziane. Non si può dire, come ha fatto Meloni nel primo colloquio con il presidente egiziano Al Sisi, che dobbiamo rafforzare la cooperazione sui diritti umani con l’Egitto. Perché nel caso di Giulio Regeni questa cooperazione non c’è mai stata. Ho ricordato la figura di Giulio perché la politica estera italiana non può essere fatta solo per difendere gli interessi commerciali del nostro Paese, che pure ci sono. Uno Stato che non è in grado di proteggere un suo cittadino all’estero o di ottenere giustizia sulla sua morte, è uno Stato che perde credibilità e affidabilità. Un paese si giudica anche da come sa reagire a circostanze come queste. Anche su questo vorremmo vedere Meloni difendere l’onore della patria. Enrico Letta ha evocato un partito “pugnace”. Su migranti, Libia, pace e guerra, come declinerebbe questo aggettivo? Un partito che recupera credibilità sulle battaglie che sceglie e che sa usare buoni argomenti per sfidare il governo e convincere l’elettorato che non ci ha votato. L’opposizione deve essere un momento di rigenerazione di contenuti e battaglie. Partendo anche dagli argomenti più difficili, per esempio da un nuovo disegno complessivo di come gestire in modo sicuro e legale le migrazioni. Dall’Afghanistan a Milano: storia di Shir Mohammadi, il prof in fuga dai talebani di Marta Serafini Corriere della Sera, 1 novembre 2022 Il professor Mohammadi dirigeva la scuola “Maria Grazia Cutuli” di Herat: con la sua famiglia è in salvo in Italia dopo un anno. Il piano di fuga con Farnesina, Sant’Egidio e Corriere. L’approdo alla comunità di Spazio Aperto Servizi. “Ci abbiamo impiegato un anno. Ma ci siamo riusciti”. Quella di Shir Ahmad Mohammadi e della sua famiglia è una vera e propria Odissea iniziata il 15 agosto 2021, quando i talebani riprendono il potere in Afghanistan. All’epoca Mohammadi è il direttore della Scuola di Herat intitolata all’inviata del Corriere della Sera Maria Grazia Cutuli, uccisa in Afghanistan il 19 novembre 2001. Mohammadi, come tutti quelli che hanno avuto rapporti con gli stranieri - e a maggior ragione essendo un funzionario scolastico di un istituto misto e che dunque educa anche ragazze dai 6 ai 19 anni - è a rischio. I talebani potrebbero arrestarlo o, peggio, ucciderlo. Dal Corriere con il ministero della Difesa e degli Esteri si attivano tutti i canali affinché Mohammadi possa salire su uno dei voli di evacuazione disposti dalle autorità italiane. Ore drammatiche - Mohammadi e la sua famiglia - la moglie e due figlie minorenni - vengono messi in lista in quanto soggetti a rischio e arrivano a Kabul in auto. Superare il gate dell’aeroporto però è molto complicato. I talebani controllano i check point, frustano chiunque tenti di passare e Mohammadi non vuole mettere in pericolo la sua famiglia. Sono ore drammatiche in cui Farnesina, ong, ambasciate, attivisti militari, personale diplomatico e giornalisti che hanno lavorato nel Paese sono al lavoro per salvare il numero più alto di persone. Per l’Italia ne partiranno 2.500. Finalmente il 26 agosto, i Mohammadi riescono ad avvicinarsi all’ingresso dell’aeroporto di Kabul. “Sono dentro, ce l’hanno fatta”, ci scrive su WhatsApp un amico che li ha ospitati e accompagnati. Sembra fatta. Invece pochi secondi dopo un kamikaze dell’Isis si fa esplodere. È il caos, nella confusione e nel panico della calca Mohammadi e la sua famiglia vengono respinti ai margini dell’aeroporto. “Siamo dovuti scappare”, ci scrive dopo qualche minuto Mohammadi sempre su WhatsApp. Al di là del sollievo di sapere che i Mohammadi sono illesi (in quell’attentato sono morte almeno 183 persone) ricomincia però l’angoscia. I voli di evacuazione vengono sospesi per ragioni di sicurezza. Ogni strada per uscire dal Paese sembra chiusa. Dopo qualche giorno, i Mohammadi decidono di tornare a Herat. Ma non si arrendono. E con loro le persone che li aiuteranno dall’Italia. Ma sarà solo dopo un anno e dopo un lunghissimo lavoro - grazie alla Comunità di Sant’Egidio e alla Farnesina - che Mohammadi insieme con la moglie e le due figlie verrà inserito nel corridoio umanitario che tra agosto e settembre ha fatto arrivare in Italia, attraverso l’Iran e il Pakistan, 300 richiedenti asilo. Accoglienza - A ospitare in Italia i Mohammadi è Spazio Aperto Servizi, cooperativa sociale milanese fondata nel 1993 con l’obiettivo di prendersi cura delle persone che vivono condizioni anche temporanea di fragilità, attraverso una rete di servizi socio-sanitari, assistenziali, educativi e di accoglienza abitativa. Spazio Aperto Servizi ha affidato alla famiglia afghana un bell’appartamento nella periferia di Milano. “Siamo molto felici di ospitare i Mohammadi. Accogliere una famiglia significa partire innanzitutto dalla casa, ma questo rappresenta solo il primo tassello. Il nostro lavoro è accompagnare ciascuno nel proprio percorso, mettendo al centro la persona e costruendo insieme un progetto “su misura” che consideri tutte le dimensioni della vita quotidiana: casa, lavoro, salute, educazione, tempo libero. L’obiettivo è aiutare ogni persona accolta a raggiungere la propria autonomia e l’inclusione”, spiega Maria Grazia Campese, presidente e direttore generale di Spazio Aperto Servizi. Un lavoro prezioso, che parte dall’accoglienza abitativa e che ha raggiunto, solo nel 2021, 27mila persone. In contesti di emergenza mettere un tetto sulla testa non è cosa da poco, soprattutto a Milano. Ma non c’è solo l’alloggio. Ora, grazie all’aiuto degli operatori di Spazio Aperto Servizi, i Mohammadi stanno studiando l’italiano e le bambine sono già state inserite a scuola. “Sono molto felici di essere tornate a studiare, è soprattutto per loro che abbiamo deciso di partire”, racconta il padre orgoglioso. E se l’Odissea dei Mohammadi pare finita ora inizia un altro viaggio altrettanto difficile, quello dell’integrazione. “Fondamentale è che imparino l’italiano e su questo si stanno già impegnando”, continua Campese. “La nostra filosofia non è limitarsi a fornire vitto e alloggio, ma cercare di offrire a ogni persona di cui ci prendiamo cura la possibilità di ripartire, di ricominciare - anche se lontano dal proprio Paese, seguendo le proprie aspirazioni e i propri desideri. Tutto questo ha a che fare con la dignità delle persone, insieme possiamo costruire un futuro diverso e generare davvero un cambiamento nella loro vita”. Lasciarsi casa alle spalle non è semplice, tanto più se non si tratta di una scelta libera ma è una decisione presa per salvarsi la vita. E a spiegarlo è lo stesso Mohammadi seduto nella sua nuova casa: “Siamo grati all’Italia e a tutti quelli che ci hanno aiutato. E speriamo di poter presto ricominciare qui una nuova vita. Ma l’Afghanistan resterà sempre nei nostri cuori”. Brasile. Perché Lula è stato in carcere (e come ne è uscito) di Samuele Finetti Corriere della Sera, 1 novembre 2022 Il presidente eletto per il terzo mandato è stato condannato in due processi per corruzione ed è stato in cella per 580 giorni. Solo lo scorso anno è stata riconosciuta la parzialità dei giudici e la violazione dei diritti politici nei procedimenti a suo carico. La prima condanna arrivò nel luglio 2017. Luiz Inácio Lula da Silva, già presidente del Brasile dal 2003 al 2011 che in quel momento pensava alla ricandidatura per l’anno successivo, fu condannato in primo grado a nove anni e mezzo di prigione per corruzione e all’interdizione dai pubblici uffici di 19 anni. Si trattava del primo dei cinque processi che la procura di Curitiba, capitale dello Stato di Paranà, aveva aperto nei confronti dell’ex presidente. “Lava-Jato”, autolavaggio, così era stata rinominata l’inchiesta. Lula era accusato di aver preso tangenti da Petrobras, la potente compagnia petrolifera statale, per favorire l’azienda nell’assegnazione di ricchi contratti. Con lui furono coinvolti altri politici di spicco del Paese, a partire dall’allora presidente Dilma Roussef, che gli era succeduta nel 2011 e che fu costretta alle dimissioni per gli echi dello scandalo. Lula fin da subito respinse le accuse e parlò di “processo politico”, ma i magistrati confermarono pochi mesi dopo la condanna anche in appello. Per l’uomo che aveva guidato il Paese tra il 2003 e il 2011 si aprirono le porte del carcere. Un anno più tardi, nel febbraio del 2019, ecco la seconda sentenza. I magistrati impegnati nel secondo processo sostenevano che Lula fosse stato corrotto da due compagnie di costruzioni. Non con contanti, ma con lavori di restauro da 200 milioni di euro in una proprietà di campagna. Lula giurò che quella casa non era sua ma di un suo amico, i magistrati risposero che l’ex presidente “senza alcun dubbio” sapeva delle tangenti. La condanna, questa volta, fu a 12 anni e 11 mesi di carcere, poi diventati 17 con la sentenza d’appello pronunciata nove mesi dopo. Ma nel frattempo, dopo 580 giorni di carcere, il 9 novembre 2019 Lula era stato liberato grazie a una sentenza delle Corte suprema, che aveva stabilito un principio: nessun cittadino può essere incarcerato dopo il secondo grado, quando ancora non c’è una sentenza definitiva. Uscito di cella, l’ex presidente aveva ribadito la sua innocenza. Anche perché l’estate di quello stesso anno, il sito The Intercept, fondato dal premio Pulitzer Glenn Greenwald, aveva aperto le prime falle nelle ricostruzioni giudiziarie. Il sito aveva pubblicato una lunga inchiesta che mostrava come i processi contro Lula fossero stati pilotati per motivi politici, in modo di impedirgli di ricandidarsi nel 2018 alle elezioni poi vinte da Jair Bolsonaro (quando fu condannato, Lula era in testa nei sondaggi). Del resto il giudice federale del Paranà, Sergio Moro, era poi diventato il ministro della Giustizia proprio di Bolsonaro. E infatti, nel marzo del 2021, la Corte suprema brasiliana annullò le sentenze per “incompetenza territoriale e materiale” della corte di Curitiba. Poi fu riconosciuta anche la “parzialità” di Moro e si scoprì che procuratori e giudici dei processi avevano fabbricato prove false e le avevano rilanciate sulla stampa per darsi credito presso l’opinione pubblica. Infine, lo scorso aprile, il comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha dichiarato che le due condanne, oltre a diversi vizi di forma, arrivarono alla fine di processi che avevano violato i più elementari diritti a un processo imparziale e alla privacy, oltre che i diritti politici. La commissione Onu ha poi aggiunto che l’annullamento deciso dalla suprema Corte, arrivato a quattro anni dalla prima sentenza, non è stato comunque sufficiente a riparare i danni subiti da Lula, che nel frattempo ha perso l’occasione di ricandidarsi alla guida del Paese.