Appello. Fermiamo la strage dei suicidi in carcere. Qui ed ora… si può! Firma su Change.org Il Dubbio, 19 novembre 2022 78 morti in poco più di 10 mesi. È il numero di suicidi in carcere registrati fino ad oggi. Un record lugubre, terribile, inaccettabile. Mai prima d’ora era stato raggiunto questo abisso. Sappiamo bene cosa si dovrebbe fare per evitare o contenere questo massacro quotidiano: depenalizzare e considerare il carcere solo come extrema ratio, moltiplicare le pene alternative, dare la possibilità al cittadino detenuto di iniziare un vero percorso di inclusione nella comunità. Chi è in custodia nelle mani dello Stato dovrebbe vivere in spazi e contesti umani che rispettino la sua dignità e i suoi diritti. Chi è in custodia dello Stato non dovrebbe togliersi la vita! Insomma, sappiamo bene, perché ne discutiamo da anni, da decenni quali siano le strade per fermare la strage, ma la politica, quasi tutta la politica, è sorda perché sul carcere e sulla pelle dei reclusi si gioca una partita tutta ideologica che non tiene in nessun conto chi vive “dentro”, oltre quel muro che divide i “buoni” dai “cattivi”. Insomma, non c’è tempo: il massacro va fermato qui ed ora. E allora proponiamo una serie di interventi immediati che possano dare un minimo di sollievo al disagio che i detenuti vivono nelle carceri “illegali” del nostro Paese. 1. Aumentare le telefonate per i detenuti. È sufficiente modificare il regolamento penitenziario del 2000, secondo cui ogni detenuto (esclusi quelli che non possono comunicare con l’esterno) ha diritto a una sola telefonata a settimana, per un massimo di dieci minuti. Bisognerebbe consentire ai detenuti di chiamare tutti i giorni, o quando ne hanno desiderio, i propri cari. 2. Alzare a 75 giorni i 45 previsti a semestre per la liberazione anticipata. 3. Creare spazi da dedicare ai familiari che vogliono essere in contatto con i propri cari reclusi per valorizzare l’affettività. 4. Aumentare il personale per la salute psicofisica. In quasi tutti gli istituti vi è una grave carenza di psichiatri e psicologi. 5. Attuare al più presto, con la prospettiva di seguire il solco delle misure alternative, quella parte della riforma Cartabia che contempla la valorizzazione della giustizia riparativa e nel contempo rivitalizza le sanzioni sostitutive delle pene detentive. Sottoscrivi l’appello su Change.org: https://www.change.org/stopsuicidicarcere Libertà di parola per Saviano e per i detenuti al 41bis di Alberto Cisterna Il Riformista, 19 novembre 2022 È un pendolo curioso quello che oscilla tra la rivendicazione di un famoso e prestigioso scrittore anticamorra di poter esprimere liberamente il proprio pensiero e la richiesta, proveniente da un’associazione privata e diretta alla polizia antimafia, di accendere un faro sulla gestione di una pubblicazione curata da detenuti. Roberto Saviano viaggia verso un processo penale con l’accusa di aver pesantemente insultato una donna in politica; Ristretti Orizzonti viene tacciata di essere una sorta di enclave mediatica finita in mano a carcerati di alto criminale e adoperata per veicolare opinioni contro l’ergastolo ostativo e i rigori sulle misure alternative. Lo scrittore rivendica, dal suo punto di vista non senza un qualche fondamento, la propria libertà di poter esprimere giudizi anche aspri su chi accetta di esporsi, nell’agone politico, alle opinioni dei giornalisti. La rivista, c’è da immaginare, parta da un punto di vista quasi simmetrico: il carcere può e deve limitare la libertà personale, ma da nessuna parte è scritto che possa limitare la libertà di opinione e la manifestazione pubblica delle proprie idee. Non è necessario scorrere in questi giorni in tv il cupo ricordo del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro per ricordare la piena libertà che gli irriducibili delle Br o di Prima Linea, da detenuti, avevano di fare proclami, interventi e leggere comunicati pur violenti nei toni, se non addirittura istigatori. Lo Stato ha il pieno diritto di recludere chi ha commesso reati, ma non è mai giunto a vietare di esprimere opinioni su temi generali e questioni di interesse collettivo. Certo esiste la censura sulla corrispondenza, i colloqui con i parenti possono essere intercettati, persino lo scambio epistolare con i difensori non sfuggiva a controllo per i detenuti a 41-bis e c’è voluta la Corte costituzionale - con parole esemplari - per ricordare che le esigenze di sicurezza non possono spingersi sino a ficcare il naso nelle comunicazioni tra i carcerati a regime duro e i loro avvocati (sentenza 18 del 2022). Non è neppure da discutere che legittimamente dei cittadini si sentano minacciati dalla gestione di una rivista curata da detenuti; c’è chi ha paura degli immigrati, chi dei fantasmi, che dei marziani, chi dei vaccini, chi degli acari. Ciascuno ha diritto di esporre all’autorità pubblica tutte le proprie preoccupazioni. Lo Stato è lì per questo. Tuttavia, occorre stare attenti a non creare distanze siderali tra la libertà sacrosanta che compete alla stampa, e alla cultura in generale, e la libertà di cui ciascun cittadino non può essere espropriato anche se detenuto. La decisione della Consulta di rinviare alla Corte di cassazione il procedimento in cui doveva decidere della legittimità dell’ergastolo ostativo (e non solo) è probabilmente ineccepibile, soprattutto in presenza di una norma approvata con un decreto legge che ha appena iniziato il suo iter parlamentare. Ma il problema resta sul tappeto. Non si pretende che la collaborazione con la giustizia sia l’unica via per accedere ai benefici penitenziari, ma il legislatore ha posto una serie di paletti che renderanno davvero ardua la mitigazione reale del regime duro. Ci può stare, sia chiaro, il Parlamento deciderà quale sia la strada migliore. Ma nel frattempo nessuno può pensare di silenziare (o peggio di censurare) la voce dei detenuti su queste questioni. È importante sapere quali siano le proposte che vengono da quel mondo frastagliato, disomogeneo, frate; stornato e anche disperato che sta sotto i rigori del carcere duro, del cosiddetto “fine pena mai”. Lo Stato non ha alcun interesse ad accreditare un gruppo di detenuti che hanno rifiutato la collaborazione pur dopo decenni di carcere di massimo rigore come un manipolo di eroici “irriducibili”. Perché questa è la percezione che - all’esterno delle mura, fuori dalle carceri, nelle periferie palermitane o napoletane o nei paesi dirupati dell’Aspromonte - si finirà per avere di quei carcerati tra le giovani leve della criminalità mafiosa. L’intransigenza penitenziaria sta lentamente trasformando un gruppo di violenti mafiosi in una sorta di élite carceraria, di supereroi delle celle che non si sono piegati alla durezza della detenzione e al “ricatto” della collaborazione di giustizia. Un gioco pericoloso e perverso in cui la legge ha il dovere di porre nuove condizioni e indicare nuove strade per stanare quella parte della popolazione carceraria dalla “nobile” enclave in cui si è trincerata e in cui è stata anche sospinta dai furori della pena. Una via potrebbe essere quella di invitarli a dichiararsi vinti una volta per tutte ed ammettere di aver bruciato le proprie vite nel falò della violenza e della sopraffazione; di dichiararsi sconfitti per la tenace lotta che lo Stato gli ha fatto facendoli condannare e braccandoli nei loro nascondigli. La resa come percorso di rieducazione e come messaggio definitivo alle giovani generazioni che possono cadere nel medesimo errore e perdersi nella stessa spirale di dolore. Una terza via tra un ergastolo ostativo chiaramente incostituzionale e una prova di cambiamento difficile, se non impossibile come quella tracciata dal nuovo decreto legge. La conversione del decreto avverrà senza modifica alcuna probabilmente. Nessuno è disposto a farsi carico di una posizione diversa da quella dell’intransigenza a tutti i costi. Eppure. Eppure non si può negare che la voce proveniente dalle celle più oscure e severe, dagli anfratti più duri del pianeta carcerario debba essere ascoltata e compresa perché lo Stato è il primo ad avere interesse a una vera rieducazione, a un riscatto e a una rinascita. Che parlino e che scrivano pure, finché lo fanno riconoscono che la Repubblica esiste e che ha una dignità che nessuno delitto può scalfire. Il silenzio è la madre di ogni odio e il crogiolo di ogni cattiveria. Gli agenti invocano “Gratteri al Dap”, ma il governo vuole Riello di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 19 novembre 2022 Il Sappe “sceglie” il procuratore di Catanzaro facendo il tifo come allo stadio. Ma il rischio è di mettere in ombra Nordio. Nicola Gratteri, Luigi Riello, o ancora Carlo Renoldi. La partita del nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), uno degli incarichi più importanti (e remunerati) della pubblica amministrazione, si giocherà molto probabilmente su questi tre nomi, tutti di magistrati. La procedura prevede che la proposta venga formulata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio per poi essere ratificata dal Consiglio dei ministri. Sul nome del procuratore di Catanzaro c’è stato in questi giorni l’endorsement dei sindacati della polizia penitenziaria. Il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) a tal proposito ha pubblicato un lungo articolo sulla propria rivista online, poliziapenitenziaria.it, dal titolo particolarmente esplicito: “Gratteri, Gratteri, Gratteri”. Richiamandosi alla torcida degli stadi, i sindacati di polizia stanno facendo apertamente il tifo per il magistrato che in passato Matteo Renzi, prima di essere stoppato, avrebbe voluto come Guardasigilli nel suo governo. “Non siamo mai entrati (e mai vogliamo entrarci) nell’agone politico italiano ma per il bene e a salvaguardia della polizia penitenziaria che rappresentiamo saremmo i primi ad alzarci in piedi sugli spalti dello Stadio Penitenziario e gridare in coro: Gratteri! Gratteri! Gratteri”, scrivono i dirigenti del Sappe. La liason fra Gratteri e la polizia penitenziaria è nota da tempo. Sul sistema carcerario il procuratore ha le idee molto chiare. Intervenendo ieri a Milano ad una manifestazione letteraria svoltasi all’interno proprio del carcere di San Vittore, Gratteri ha illustrato le sue proposte, ad esempio “mettere ai domiciliari i detenuti tossicodipendenti, con percorsi di terapia”, facendo poi “una formazione adeguata agli agenti”. La Polizia penitenziaria, per Gratteri, necessita di una profonda riorganizzazione. Pur essendo una delle quattro forze di polizia nazionali (erano cinque prima dello scioglimento del corpo forestale dello Stato, secondo il procuratore calabrese è di “Serie C”, gettata in uno stato di “depressione e frustrazione” dalle istituzioni che non se ne curano. A cominciare dalle scuole di formazione: “Nelle scuole ci deve andare gente che sul campo ha dimostrato di saper fare qualcosa, non gli amici degli amici. Altrimenti le lezioni diventano una passerella e i ragazzi non imparano nulla”. Il procuratore ha, ovviamente, anche la ricetta per risolvere il sovraffollamento nelle carceri: “La costruzione di nuove strutture detentive o l’ampliamento di quelle esistenti”. Una idea da sempre sostenuta dalla Lega e da Fratelli d’Italia con il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Una proposta, pur utilizzando i fondi del Pnrr, allo stato però difficilmente realizzabile. Sono anni, infatti, che in Italia non si costruisce un’opera pubblica. Le normative, ad iniziare dal codice degli appalti, con il prevedibile strascico di contenzioni amministrativi, rendono impossibile porre in essere opere del genere in tempi relativamente brevi. Le uniche opere pubbliche, infatti, vengono realizzate quando si sospendono le procedure di legge e si nomina, come per il ponte di Genova, un commissario. Ma sul punto serve una volontà politica forte. Gratteri, comunque, ha incassato anche l’appoggio della segretaria nazionale dell’Associazione dirigenti e funzionari di polizia penitenziaria, Daniela Caputo, secondo cui serve “un capo per il nostro corpo operativo, unico tra le forze dell’ordine a non averlo. Un problema non più rinviabile, come hanno dimostrato le rivolte carcerarie del 2020. Il sistema di prevenzione penitenziario è parte integrante dell’ordine pubblico ed è giusto che abbia un vertice a regolarlo e organizzarlo”. L’outsider della contesa potrebbe allora essere Riello, procuratore generale di Napoli, recentemente “scottato” dalla mancata nomina a procuratore generale della Cassazione. Riello, in un duro articolo, aveva recentemente criticato il Consiglio superiore della magistratura. Una presa di posizione che potrebbe agevolarlo nel trovare sponda nell’attuale maggioranza che non ha mai lesinato critiche verso l’attuale gestione di Palazzo dei Marescialli post Luca Palamara. Per Renoldi, invece, l’eventuale conferma andrebbe letta nel segno della continuità, essendo stato scelto dall’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia con cui Nordio ha sempre avuto un buon rapporto. Tornado, comunque, a Gratteri, la sua scelta non potrebbe non mettere in “difficolta” lo stesso Nordio. La forte personalità del procuratore, molto mediatica e che non ha bisogno di comunicatori, metterebbe sicuramente in ombra il ministro. Con conseguenze facilmente immaginabili. Gratteri: “Tossicodipendenti ai domiciliari, costruire nuove carceri con il Pnrr” di Lorenzo Rotella La Stampa, 19 novembre 2022 Il procuratore della Repubblica di Catanzaro è intervenuto alla presentazione di un libro sul tema: “Serve una formazione adeguata per gli agenti di polizia penitenziaria”. “Proviamo a mettere ai domiciliari i detenuti tossicodipendenti, con percorsi di terapia, e facciamo una formazione adeguata agli agenti”. Dal penitenziario milanese di San Vittore il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, propone alcune soluzioni per migliorare le condizioni di vita di detenuti e poliziotti all’interno delle carceri. Un tema affrontato durante la presentazione del libro Sovraffollamento e crisi del sistema carcerario, scritto dai ricercatori Alessandro Albano, Anna Lorenzetti e Francesco Picozzi e pubblicato col contributo del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bergamo. Nel corso dell’evento, inserito nella rassegna di Bookcity Milano, Gratteri ha definito di “Serie C” la polizia penitenziaria, gettata in uno stato di “depressione e frustrazione” dalle istituzioni che non se ne curano. A cominciare dalle scuole di formazione: “Nelle scuole ci deve andare gente che sul campo ha dimostrato di saper fare qualcosa, non gli amici degli amici. Altrimenti le lezioni diventano una passerella e i ragazzi non imparano nulla”. Soffermandosi ancora sui tossicodipendenti, Gratteri ha puntato il dito contro le Rems, strutture sanitarie dove accogliere detenuti affetti da disturbi mentali o socialmente pericolosi, che ancora “non esistono se non sulla carta”. Aggiungendo anche che polizia e detenuti hanno bisogno di psicologi e psichiatri, in carcere e nei tribunali: “Dobbiamo fare una selezione, perché siamo pieni di processi con consulenze o perizie false di medici compiacenti che scrivono che un imputato è pazzo anche se finge di esserlo”. Un altro importante aiuto per sovraffollamento e migliorie delle carceri, ha concluso Gratteri, è la costruzione di nuove strutture detentive o l’ampliamento di quelle esistenti. Idea sostenuta anche dal deputato leghista Jacopo Morrone e dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, che ha aggiunto: “Il problema si affronta anche con dotazioni ed equipaggiamenti adeguati per gli agenti, l’esecuzione delle pene di sentenze italiane nei paesi di provenienza degli imputati, con il rilancio dell’edilizia carceraria e la costruzione delle Rems a velocità spedita”. Secondo la segretaria nazionale dell’Associazione Dirigenti e Funzionari di Polizia Penitenziaria, Daniela Caputo, serve “un capo per il nostro corpo operativo, unico tra le forze dell’ordine a non averlo. Un problema non più rinviabile, come hanno dimostrato le rivolte carcerarie del 2020. Il sistema di prevenzione penitenziario è parte integrante dell’ordine pubblico ed è giusto che abbia un vertice a regolarlo e organizzarlo”. Il sovraffollamento, nel libro presentato in conferenza, viene definito un problema “esagerato dalla narrazione mediatica e tutt’altro che irrisolvibile”. Anna Lorenzetti, docente associata di Diritto Costituzionale, spiega che attualmente nelle carceri “ci sono oltre mille persone con pene sotto l’anno di detenzione” e che chi commette suicidio ha spesso condanne brevissime. Bisogna costruire strutture alternative dove curare e seguire queste persone, che vengono invece sbattute dietro le sbarre al pari di qualsiasi altro criminale. “Questo risolve soltanto l’effetto, non la causa”. Contro i suicidi non servono nuove carceri ma applicare le misure alternative di David Maria Riboldi Avvenire, 19 novembre 2022 Caro direttore, sono cappellano del carcere di Busto Arsizio e fondatore della cooperativa sociale “La Valle di Ezechiele”. La scorsa estate mi sono fatto portavoce del dramma nelle celle, avviando la campagna “Una telefonata ti può salvare la vita”, perché sia messo un telefono in ogni cella: scelta capace di rinvigorire i legami familiari, vero fattore di protezione sociale dall’isolamento e dall’abbandono che sembrano avere campo libero nelle celle. Campagna ripresa dalla cara Ornella Favero anche nell’ultimo numero di “Ristretti Orizzonti” e sostenuta con vigore da Rita Bernardini. Il suo giornale anche recentemente ha dato spazio a questi pensieri e gliene sono grato. Leggo su “Avvenire” del 15 novembre un’intervista a uno dei responsabili dei sindacati della Polizia Penitenziaria che propone, come prima “ricetta” contro il dramma suicidario di questo 2022, la costruzione di nuove carceri. Mi incuriosisce molto, visto che le sigle sindacali lamentano sempre e non senza ragioni la grave carenza di organico già allo stato attuale nella gestione dei penitenziari. Non si riesce ad avere personale per le carceri che già abbiamo: come possiamo immaginare di crearne di nuove? Ma soprattutto... nella cooperativa “La Valle di Ezechiele”, inaugurata l’anno scorso dalla ministra Cartabia, in due anni abbiamo accolto 12 persone (2 sono in arrivo): nessuna di loro ha commesso nuovi reati. Forse la soluzione non è costruire nuove carceri, ma favorire misure alternative alla detenzione, che danno risultati decisamente più “rassicuranti” in termini di recidiva. Oltre al telefono in cella, com’era nelle proposte della Commissione Ruotolo, e com’è nel resto d’Europa. Cosa ne pensa? Risponde Marco Tarquinio ?Penso e dico e scrivo da anni, caro don David, che la strada maestra è quella che lei indica con perfetta cognizione di causa: dare forza e spazio alla cosiddetta “giustizia riparativa”, alle misure alternative al carcere e ai percorsi di studio e professionalizzanti che offrono ai detenuti un’alternativa seria, fatta di lavoro e di normalità, alla tentazione di ritornare alla “malavita”. Credo che si tratti di uno degli investimenti più importati che dobbiamo fare per il bene della nostra società. Le persone non sono mai solo i loro errori, e possono venirne fuori. Le difficoltà della medicina penitenziaria dopo la pandemia. “Suicidi, conseguenza sistemica” redattoresociale.it, 19 novembre 2022 Dal congresso della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria a Roma l’appello per un nuovo approccio che possa restituire le giuste dinamiche a un settore complesso e delicato. “Serve un rilancio”. Gli ultimi dati sui suicidi nelle carceri e le tensioni emerse rappresentano solo la punta di un iceberg che è costituito anche dai limiti cronici della sanità penitenziaria. La Simspe - Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria - lavora da anni sul complesso sistema delle carceri, in cui ogni anno transitano oltre 100 mila persone, alle quali deve essere costituzionalmente garantito il diritto alla salute, obiettivo non semplice, complicato da un’organizzazione disomogenea, dal riferimento a due dicasteri, Giustizia e Salute, e alle organizzazioni sanitarie regionali. “La grave carenza di personale sanitario e di formazione specifica, le difficoltà operative per il personale infermieristico, l’assenza di un reale coordinamento tra le regioni sono oggi i problemi principali, che si traducono in un’assistenza sanitaria segnata da gravi criticità, prima fra tutte la carenza di personale”. Questo uno dei principali messaggi emersi dal XXIII Congresso Simspe - Agorà Penitenziaria - tenutosi a Roma il 17-18 novembre. Malattie infettive, psichiatriche e odontoiatriche, accreditamento socio-sanitario nelle comunità confinate sotto i riflettori. “Il Covid-19 ha colpito la medicina penitenziaria non solo per un il numero di contagi e le complesse attività di prevenzione e vaccinazione, ma per l’effetto dirompente della pandemia su tutto l’assetto sanitario nazionale e in particolare sulla medicina territoriale di cui la sanità penitenziaria fa parte - ha sottolineato Luciano Lucanìa, presidente Simspe -. Il passaggio delle competenze dal dicastero della Giustizia al SSN, avvenuto nel 2008 in modo disordinato, ha provocato una frammentazione tra i servizi che le diverse regioni sono in grado di erogare. A questo si aggiunge il complesso problema emerso dopo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari nel 2015: i soggetti in misura di sicurezza avrebbero dovuto confluire nelle neo istituite Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), ma proprio le carceri ancora ospitano detenuti in attesa di Rems o altra sistemazione residenziale. Queste condizioni incidono non solo sui servizi, ma anche sulla disponibilità dei medici ad accettare di lavorare in un sistema che in questo momento presenta gravissime criticità”. “La pandemia ha sottratto energie e risorse alle attività nelle carceri - ha spiegato Sergio Babudieri, direttore scientifico Simspe -. Il personale sanitario che opera nelle carceri non è fisso e le altre opportunità emerse hanno ulteriormente depauperato questa categoria. In questi anni abbiamo realizzato importanti risultati: i dati raccolti sull’Epatite C hanno permesso di eliminare il virus nella popolazione carceraria di diversi penitenziari, gli screening per l’HIV hanno consentito di avviare i relativi trattamenti. Gli stessi detenuti si sono rivelati collaborativi, a seguito delle attività informative che gli hanno permesso di comprendere il contributo che si offriva a tutela della loro salute. La pandemia ha interrotto questo processo virtuoso e dopo il lungo stop dovremo ripartire con processi di screening, informazione e formazione”. L’aumento dei suicidi come conseguenza sistemica - Sono 77 in poco più di 10 mesi i suicidi in carcere registrati nel 2022. Un numero impressionante, senza paragoni in epoca recente. “Questo dato deve farci riflettere, ma ancora più rilevanti sono i dati che abbiamo in modo parziale o che non possiamo reperire - spiega Luciano Lucanìa - Bisognerebbe sapere, ad esempio, quanti siano i detenuti che hanno tentato il suicidio senza riuscirci. O anche le statistiche su italiani e stranieri, su coloro che sono in custodia cautelare e quanti in espiazione di pena, le condizioni nelle quali si vive in carcere, tra sovraffollamento, promiscuità, con sentimenti di disperazione e frustrazione. In queste condizioni non è semplice identificare chi abbia realmente una malattia mentale che può portare al suicidio. Queste lacune non si colmano con la burocrazia, ma con un’azione di sistema, dove SIMSPe e il personale sanitario possono partecipare, anche se componente minoritaria: affinché il supporto scientifico sia concreto, è necessario che gli istituti siano sicuri per il personale sanitario e dotati delle risorse necessarie. Serve una nuova cultura del carcere, basata su una visione che consenta al detenuto di vivere l’esperienza in maniera corretta”. Problema odontoiatrico quale emergenza reale - Fra le varie tematiche affrontate nel Congresso è emerso tra gli altri con particolare significato il problema odontoiatrico quale emergenza reale. Talvolta sottovalutati, i problemi odontoiatrici rappresentano una realtà che grava pesantemente sulla salute dei detenuti. “Il reddito del 90% dei detenuti è inferiore al livello della soglia di povertà e altrettanti hanno un basso livello culturale e di istruzione; il 30-40% dei detenuti è tossicodipendente e altrettanti fanno uso di psicofarmaci, elementi che portano a una soglia del dolore più elevata con la conseguente indifferenza algica e disinteresse per eventuali cure mediche - sottolinea Mario Zanotti, specialista ambulatoriale ULSS 9 Verona, dentista presso casa circondariale Montorio, Verona. Da questi dati si evince che un numero assai elevato di detenuti necessita di cure odontoiatriche, spesso anche molto più ampie e complesse rispetto alla società civile. Anche il bruxismo (il digrignamento dei denti) interessa il 30% della popolazione generale ma sale rapidamente al 70% nella popolazione penitenziaria e può rappresentare l’emblema del livello di tensione emotiva dei soggetti privati della libertà. Per far fronte a questo servono professionisti e strutture adeguate. Nello studio su alcune case circondariali (Verona, Cagliari, Potenza, Trento, Milano Bollate) in relazione al periodo 2017-2018 risulta che nessuna protesi è stata confezionata a livello degli istituti penitenziari; sono state confezionate a carico del SSN solamente 6 protesi mobili (tutte a Potenza), ma non in carcere, bensì in ospedale. Tuttavia, le esigenze protesiche, erano e restano infinitamente più grandi. In breve, un detenuto non ha possibilità di ottenere una protesi che non sia a pagamento. Le conseguenze di questa situazione sono diverse: anzitutto, vi è un aspetto fisico, per cui queste persone non possono alimentarsi correttamente, ma devono ricorrere a cibi tritati o liquidi (dieta semisolida), rinunciando alla capacità nutrizionale oltre che al piacere della tavola. In secondo luogo, c’è un aspetto psicologico: senza denti non si riesce a sorridere, si riduce l’autostima e la considerazione di se stessi, in un ambiente che già di per sé provoca difficili condizioni psicologiche che spesso inducono alla depressione e in diversi casi al suicidio. La mancanza di cure odontoiatriche non è una causa diretta di questi fenomeni, ma può considerarsi una concausa”. Le cure odontoiatriche quindi spesso sono sottovalutate, eppure hanno un effetto sul fisico e sulla psiche dei detenuti. Dodici ore libere dopo trent’anni di carcere di Maria Brucale Il Domani, 19 novembre 2022 Il racconto della vita di un detenuto al 41bis per omicidio, per voce del suo avvocato difensore. Dall’arresto agli anni di detenzione, la lontananza dalla famiglia e il percorso di riabilitazione che lo porta ad ottenere il primo permesso premio. Orazio è entrato in carcere quando aveva poco più di vent’anni. Da ragazzino viveva in un paese della Sicilia, terra di sole e di sangue, di miseria e nobiltà, terra di sudore, di passioni urlate, di virtù mistificate, terra di onore. A casa erano in tanti, avevano il necessario, e insieme ai suoi fratelli Orazio animava i vicoli stretti, fatti di polvere e umori, attraversava le campagne incolte, scrollava le stoppie per raccogliere lumache, spigolava nei campi dei contadini facendo a gara a chi ricavava da quelle scorribande il più ricco raccolto.  Era giovane Orazio, poco più che adolescente, quando capì che suo fratello si era cacciato in un brutto guaio. Insieme a un gruppo di giovani aveva sfidato la mafia del posto, aveva violato ogni codice di silenzio, era entrato in guerra, una guerra impari condotta da un pugno di uomini, una guerra armata, cattiva e senza esclusione di colpi, sanguinosa e orribile. Orazio si ritrovò arruolato senza comprendere, per paura, per proteggere il fratello, per difendersi, per mancanza di aiuto e di strumenti sociali a cui aggrapparsi, per incapacità di altro, per debolezza, per idiozia, perché gli sembrava l’unica scelta possibile. Ormai era un assassino. Scorreva in armi le campagne per uccidere e per non essere ucciso. Scappare e ferire e cercare la morte dei suoi nemici senza neppure conoscerli, solo perché erano dall’altra parte, perché il loro nome era su una lista. Ma accade qualcosa un giorno che gli spezza il respiro, che cambia la sua rotta, una sveglia dolorosa più di una lama. “Perché?”. È al cospetto di una delle sue vittime, un uomo anziano che prima di essere colpito a morte ha il tempo di chiedergli: perché? Quella parola piccola, immediata e lucida ha il potere di annichilirlo. Orazio porta a termine il suo mandato omicida e poi piange. Piange perché non conosce una risposta che abbia un senso e che gli permetta di perdonarsi. Finalmente lo arrestano. Finalmente, sì. Perché Orazio scopre in carcere la libertà di non uccidere anche se lo sbattono in isolamento e poi al 41 bis, nel regime della assoluta abulia, del silenzio, del buio, della mancanza di amore, della sconfitta dei sensi. Orazio sta 22 anni da solo. Legge molto, piange, prega. Perde il contatto con la realtà, con un mondo che cambia mentre lui è chiuso, non vede niente, non conosce niente. Cade in una depressione che lo divora e lo spegne. Non va più nemmeno all’aria, o a quella sua asfittica approssimazione, sotto un cielo grigliato, senza colore. Rifiuta il contatto con i compagni di detenzione. Si perde in una solitudine assoluta, senza conforto. La sua famiglia non smette di tenerlo per mano, di accompagnarlo, di occuparsi di lui, sua sorella si fa carico di tutte le sue amarezze ma l’aria è finita in quel mondo senza e Orazio non ce la fa più. La speranza sembra un cimelio crudele che non si può permettere quando arriva la revoca di quel maledetto regime. Il mondo del carcere in alta sorveglianza appare di nuovo reale, aperto, vivo. Ci sono persone che parlano con Orazio, che lo invogliano a raccontarsi, a studiare, a essere un uomo, un uomo che ha addosso un portato atroce di esperienza ma che in 22 anni di abbandono alla solitudine della propria coscienza, alla notte dell’anima, alla durezza del niente ha strappato ogni scheggia dal suo cuore e invoca a gran voce, con tutto sé stesso di essere riconosciuto come persona. Nei lunghi anni della sua pena suo fratello è morto divorato dalla malattia. Quel passato orribile è una ferita che sanguina e sanguina ma Orazio è un altro uomo oggi e vuole dimostrarlo disperatamente. Non essere padre - Ha un figlio che non ha visto crescere, una donna che ha amato come poteva, come sapeva, che lo ha tirato su da sola. Pezzi della sua breve vita libera sgretolati dalle sue scelte assurde, dissennate, terribili. La sua compagna si spegne lentamente per un tumore. Orazio ottiene il permesso di andare a trovarla per dirle che il suo amore è fermo anche se non è stato un marito, anche se non è stato un padre, e che non deve avere paura perché ora sa amare, con la profondità del dolore e della responsabilità, con la compiutezza di chi ha saputo uscire dal suo inferno, con la forza di chi si è rialzato da un pozzo profondissimo, con il coraggio di chi ha rischiato di perdere tutto per sempre ed è pronto a tutto per riconquistarlo. Gli anni scorrono. Sono anni di luce e buio. Orazio studia e apre tutte le porte della sua anima a persone che incontra sul suo cammino recluso, che gli tendono la mano, che comprendono la fatica del suo percorso ancora in salita, tutto in salita e con un grosso masso sulle spalle, che gli vogliono bene, che si fidano di lui, di lui che era un boss, un assassino spietato, che sparava e fuggiva, che si nascondeva e scappava, che aveva chiuso fuori dal petto ogni umanità, di lui che però aveva avuto la forza spietata di guardarsi dentro e di lasciarsi attraversare dall’orrore di sé stesso. L’ultimo saluto alla madre - Anche la mamma di Orazio sta molto male. È molto anziana e la sua vita è stata difficile, ruvida, crudele. Ancora una volta il giudice regala a Orazio la dolcezza di un ultimo saluto. È una figura importante per Orazio il suo giudice di sorveglianza. È una donna elegante che appare austera ma sa lasciarsi andare al sorriso e ad una soave mitezza. È un vero giudice con il cuore aperto e la ferma convinzione che nessun uomo è da buttare, che in ognuno c’è una possibilità di cambiare, di rivoluzionare la propria strada, di ritrovarsi, di rinnovarsi e che c’è un momento in cui anche all’anima più sfinita basta afferrare una mano tesa per salvarsi. Orazio le affida il lutto della sua vita, la sua sconfitta, la sua possibilità di sperare e lei la afferra con la forza di una madre. Non gli fa sconti, ma gli dà la certezza che la sua mano è tesa e pronta a sostenerlo. Orazio recupera il suo rapporto con suo figlio. Ormai è grande e ha disegnato le linee della sua vita ma ritrovare il padre lo ha reso felice, più solido, più sereno. Dopo trent’anni di carcere Orazio si sente libero e vuole toccare il mondo, fuori. Guardare un cielo senza quadretti, camminare per strada, andare al mare, uno spazio per distendere lo sguardo all’infinito, senza limiti. Il suo cuore è colmo di gratitudine per le persone che hanno raccolto il suo grido di aiuto, che hanno cullato le sue fragilità, che sono, che saranno accanto a lui. Il primo permesso - Il giudice gli concede il primo permesso. Dodici ore dopo trent’anni. Ed eccolo. Il carcere è alle sue spalle. Davanti il caos delle auto, la polvere e il rumore, le insegne, i led luminosi, colori che ha trovato solo in TV, la vista si sperde, gli odori cambiano di continuo. Felicità e terrore lo pervadono davanti a quell’indefinito che non ha muri, che non ha sbarre, fuori dal suo universo asfittico e protetto. Le gambe tremano e ogni passo è una conquista di autonomia. Come un bambino conosce le cose una ad una e ne cerca il senso, le misura, le affronta. E poi, all’improvviso, un artista di strada. Un ragazzo su uno sgabello con la sua chitarra. Suona una musica dolce, antica. È una canzone che Orazio conosce, che racconta di lui, di quel giovane che poteva essere e che non è stato, che ha note di memoria e di struggente malinconia. Orazio si ferma e ascolta e lascia che le lacrime scorrano, mute, perfette, libere e ha la sensazione che quel giovane oggi possa riprendere il cammino. Dai rave ai blocchi stradali. Introdurre nuovi reati non rende la società più sicura di Cristiano Cupelli Il Foglio, 19 novembre 2022 Un modo per processare penalmente chi ostruisce il traffico? Esiste, e aggiungere una norma ad hoc e simbolica fa solo gioco al panpenalismo, che vuole soddisfare i bisogni contingenti dell’opinione pubblica. Si sta discutendo molto, in questi giorni, di uso e abuso dello strumento penale e della sua capacità di offrire risposte efficaci a nuovi bisogni di sicurezza e tutela. Un banco di prova interessante è rappresentato da recenti fenomeni di protesta che, in una esemplare eterogenesi dei fini, si trasformano, nella percezione comune, in forme di intollerabile disturbo della collettività o in deprecabili atti di vandalismo a danno del patrimonio culturale. Ci si riferisce alle ricorrenti interruzioni della circolazione stradale da parte di manifestanti (in particolare, ma non solo, sul Grande raccordo anulare di Roma) e all’imbrattamento (non permanente) di quadri e opere d’arte compiuto da sedicenti ambientalisti (da ultimo, sempre a Roma, è stato insudiciato, con una zuppa di verdura, “Il seminatore” di Van Gogh). Eterogenesi dei fini, anzitutto; perché si tratta di manifestazioni che, in realtà, anziché stimolare empatia, rafforzare sensibilità e attrarre consensi sul tema ambientale, finiscono per ripercuotersi negativamente sugli stessi obiettivi sbandierati: l’aumento esponenziale del (già elevato) tasso di inquinamento a causa degli ingorghi che ne scaturiscono, da un lato, e il danno (per fortuna non irreparabile) cagionato a opere dell’ingegno che non possono non essere ricomprese nel perimetro del concetto di natura che si pretenderebbe di preservare, dall’altro, ne sono ampia riprova.  Accantonato questo profilo, che rasenta il confine tra sociologia e (psico)patologia, i disagi e i danni (di vario genere, effettivi e potenziali) arrecati da tali condotte hanno spinto a invocare ancora una volta la potenza salvifica del diritto penale e a reclamare l’introduzione di nuove fattispecie calibrate sulla specifica esigenza di reprimere fenomeni del genere (qualcuno, ancor più fantasiosamente, ha addirittura auspicato l’applicazione dell’art. 5 del d.l. 162 del 2022, la cosiddetta norma “anti-rave”). Ora, prescindendo qui da ogni considerazione sulla reale meritevolezza di pena, va segnalato come il nostro ordinamento già contempli ipotesi dirette a fronteggiare condotte siffatte.  Con riferimento ai blocchi stradali, ferma restando l’applicazione delle sanzioni per eventuali reati ipotizzabili quando a tali manifestazioni di protesta passiva si associno la resistenza o la violenza contro chi tenta di far spostare la persona dalla strada (artt. 336 e 337 c.p.) ovvero un’interruzione di pubblico servizio (art. 340 c.p.), si può infatti richiamare l’articolo 1-bis del d.lgs. n. 66 del 1948, come modificato dal d.l. n 113 del 2018, a tenore del quale si applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 1.000 a 4.000 euro a “chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria, ostruendo la stessa con il proprio corpo” (stessa sanzione per promotori e organizzatori). Nei confronti invece di chi, “al fine di impedire od ostacolare la libera circolazione, depone o abbandona congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una strada ordinaria o ferrata o comunque ostruisce o ingombra una strada ordinaria o ferrata”, si applica, ai sensi dell’art. 1 del medesimo decreto, la reclusione da uno a sei anni (pena raddoppiata se il fatto è commesso da più? persone, anche non riunite, o se è commesso usando violenza o minaccia alle persone o violenza sulle cose).  Sul versante della tutela di quadri e opere d’arte, può trovare applicazione il secondo comma dell’art. 518-duodecies c.p. (introdotto dalla legge n. 22 del 2022 in materia di “reati contro il patrimonio culturale”), che punisce con reclusione da sei mesi a tre anni e multa da 1.500 a 10.000 euro chiunque, senza che il bene sia distrutto, disperso, deteriorato o reso in tutto o in parte inservibile (si ricadrebbe in tal caso nella più severa ipotesi del primo comma), “deturpa o imbratta beni culturali o paesaggistici propri o altrui”.  Questa breve ricostruzione mette in luce come la combinazione tra l’istinto verso una pervasività del penale in ogni piega delle relazioni sociali, la pulsione emotiva e la fascinazione ancestrale verso la creazione di nuovi reati possa giocare brutti scherzi ai moderni punitores, finendo per prendere il sopravvento sulla preliminare considerazione dell’esistente e sulla serena disamina della realtà fattuale e legislativa; e spiega meglio di qualunque trattato come si (auto)alimenti - tra precomprensioni ermeneutiche errate e ricognizioni normative incomplete - la proliferazione di fattispecie penali simboliche e ineffettive, emanate sull’onda di una contingente emotività per placare l’opinione pubblica. In breve, ci esemplifica come nasce il panpenalismo. *Professore ordinario di diritto penale Università di Roma Tor Vergata Qualche proposta per evitare lo scontro e il collasso della giustizia di Guido Salvini Il Dubbio, 19 novembre 2022 Sono Gip, con poche interruzioni, dall’entrata in vigore del Codice attuale e guardo con preoccupazione ai compiti e al futuro soprattutto del mio ufficio L’immagine è quella di un asino zoppo che dovrà trainare quello che di solito traina una locomotiva. È vero che con l’aumento delle citazioni dirette al Tribunale gli uffici Gip-Gup saranno sgravati di qualche processo, ma ben maggiori sono le nuove competenze che gli si attribuiscono. Nuove udienze per il controllo della tempestività dell’iscrizione della notizia di reato da parte dei Pubblici ministeri e sul rispetto dei termini per le indagini. L’aumento dei proscioglimenti quando non vi sia una ragionevole probabilità di condanna, regola del tutto giusta ma che aumenterà il numero delle sentenze da scrivere. L’ampliamento dei riti speciali, dal giudizio abbreviato condizionato al patteggiamento. Soprattutto l’ufficio Gip-Gup assumerà sempre di più, con l’immediata applicabilità di tutte le sanzioni sostitutive, le funzioni anche di Giudice di sorveglianza e dell’esecuzione della pena. Dopo aver disposto le sanzioni sostitutive in sede di cognizione, tratterrà i fascicoli, ed è probabile che le stanze ne saranno piene, sino alla loro completa esecuzione, con tutti problemi e gli ulteriori interventi che ciò comporta. Ed in più, la giustizia riparativa: un mondo tutto da scoprire ma che comporterà a cascata altri compiti. Con le nuove norme introdotte, le competenze dell’ufficio Gip quindi si estendono e diventano immense. Vanno da piccoli problemi che un tempo erano di competenza della Pretura, ad esempio i decreti penali che saranno più numerosi e in cui si dovrà calcolare anche la diminuzione di 1/ 5 della pena se la somma irrogata verrà pagata subito, sino alle grandi indagini di corruzione, di mafia di competenza delle Direzioni distrettuali Antimafia e, di norma, delle Corti di Assise. In pratica tutto o quasi. Uno scenario insostenibile: lo ha scritto recentemente su un quotidiano anche il presidente aggiunto dell’Ufficio Gip di Milano, certamente uno degli uffici “strategici” per saggiare il funzionamento della riforma e, come quasi tutti, con molti posti in organico scoperti. Molti lettori lo sanno, ma è bene ricordarlo, che nelle nostre sezioni Gip e Gup sono le medesime persone che, nello stesso processo, possono essere solo Gip o solo Gup e si scambiano quindi fascicoli con un sistema di incompatibilità incrociate. Sono anche compiti molto diversi: il Gip emette le misure cautelari e i sequestri e autorizza le intercettazioni, il Gup giudica in udienza preliminare e nell’abbreviato, ed entrambi hanno mille altre competenze. Con il rischio, con l’effetto espansivo dei compiti previsto dalla riforma, di saltare da un ruolo e da un provvedimento all’altro ogni giorno e di fare tutto così così. In realtà l’organizzazione, la ripartizione delle competenze e il numero dei magistrati assegnati erano stati pensati al momento del varo del Codice attuale quando il numero e l’eterogeneità degli istituti erano incomparabilmente minori. Non voglio criticare la riforma, animata da principi importanti sul senso dei giudizi, non rendendo più necessari quelli che non lo sono, e sul senso dell’esecuzione della pena. Ma in un sistema razionale, per raggiungere qualsiasi obiettivo l’organizzazione dovrebbe precedere o almeno essere contemporanea alla norma, non il contrario. E non saranno certo poche settimane di slittamento a darci quello che sinora è mancato. E mi interessano poco i continui duelli, spesso politicamente strumentali, tra i giustizialisti e gli ultragarantisti che hanno soprattutto l’effetto di paralizzare qualsiasi riforma razionale della giustizia. Credo l’Italia sia l’unico paese europeo in cui il dibattito sulla giustizia ha formato due partiti stabili e tra loro irriducibili. Qualcosa bisogna immaginare, al di fuori delle dispute ideologiche. Credo che sia venuto il momento di abolire l’udienza preliminare e con essa la figura del Gup. Nella situazione attuale, ma in prospettiva potrà essere ancora peggio, i fascicoli restano già parcheggiati nel suo ufficio, prima che sia possa possibile fissare l’udienza, anche un anno-un anno e mezzo, e nessun sistema in realtà può sopportare quattro gradi di giurisdizione. Con una scelta più coraggiosa, come avevano proposto alcuni parlamentari non schierati durante la discussione della riforma Cartabia, tutti i processi dovrebbero essere direttamente convogliati alla nuova udienza filtro dinanzi al Tribunale, dove si potrà chiedere il proscioglimento anche in base alle nuove regole di giudizio, chiedere i riti alternativi che certo non sparirebbero o iniziare il giudizio ordinario. Si salterebbe così un passaggio e una, frequente, fase di stasi dei fascicoli senza ledere i diritti di nessuno. Parte dei giudici della sezione Gip-Gup dovrebbe passare in Tribunale rinforzandolo, e quelli che resterebbero potrebbero finalmente affrontare nel solo ruolo di Gip, con una funzione finalmente omogenea, i compiti loro propri, l’esame delle richieste dei Pubblici ministeri con una possibilità di approfondimento maggiore. Riducendo il rischio che qualcuno, in difficoltà, finisca per accogliere a scatola chiusa le istanze dell’accusa. In questo modo si affronterebbe certamente molto meglio l’ondata di nuovi compiti che la riforma introduce. Sarebbe da eliminare anche l’assurdo giudizio immediato che, a dispetto del nome, è uno di quei treni “accelerati”, cioè lenti, di un tempo e comporta una mezza dozzina di inutili passaggi di carte tra Pm, Gip e Gup mentre l’imputato, quasi sempre detenuto, aspetta. Bisognerebbe poi cominciare a pensare, al di fuori dei pregiudizi di casta e degli schemi prefabbricati, anche ad un più intelligente utilizzo del “personale”, cioè i magistrati, risorsa limitatissima. Anche con idee impopolari. Nessuna struttura organizzata, basterebbe consultare un qualsiasi sociologo del lavoro, consente che risorse ancora nel pieno della loro efficienza si spostino per loro volere verso settori secondari, sottoutilizzando così capacità preziose. Oggi invece nel settore pubblico della giustizia magistrati di anche meno di 50 anni (che corrispondono ai 35- 40 di un dirigente di una azienda commerciale o industriale) sulla base di una loro semplice scelta defluiscono, nel pieno delle loro capacità, dalla prima linea, gli uffici dei Gip e i Tribunali, al ruolo di Appello per i restanti 20 anni, in una retrovia tranquilla e poco usurante, soprattutto ora in cui processi di appello sono divenuti “cartolari”, cioè senza udienza. Per mantenere sufficienti gli organici d’appello si dovrebbe piuttosto pensare ad un giudice singolo e non collegiale almeno per i processi celebrati dal giudice monocratico in primo grado. In più, innalzare, a richiesta, i limiti massimi di servizio a 72 anni in modo da recuperare una quota di magistrati soprattutto in secondo grado. Questo a fronte delle scoperture degli organici della magistratura, che hanno raggiunto ormai ben 1600- 1700 unità, assenze non rimpiazzabili a breve dato che anche l’ultimo concorso produrrà, per le bocciature (anche in italiano, non solo in diritto), ben 1 3 di meno dei posti banditi. Un’altra necessità che s’impone è il trasferimento altrove di una miriade di micro- impegni che trasformano l’udienza in una attività amministrativa. Con la riforma le sanzioni sostitutive, soprattutto il Lavoro di pubblica utilità, aumenteranno esponenzialmente. Chi non frequenta le aule non lo sa o finge di non saperlo, ma una semplice guida in stato di ebbrezza in cui viene chiesta la sanzione sostitutiva non rappresenta certo una velocizzazione, ma l’esatto contrario. Infatti si snoda già ora a partire da quel momento una serie di udienze, che dovrebbero essere dedicate ad altro, per reperire l’Ente convenzionato e ottenere il programma personalizzato dall’Uepe, l’Ufficio esecuzione penale esterna. Un piccolo reato stradale diventa così un piccolo maxi-processo, e questo con la riforma si moltiplicherà, perché le sanzioni sostitutive saranno richieste anche in caso di pene sino a 4 anni. Se per un reato che prende la via della sanzione sostitutiva vi saranno il doppio o il triplo di udienze con lo stesso numero di giudici, il risultato sarà l’opposto della riduzione dei tempi. La soluzione è semplice ma comporta un impegno, soprattutto della politica. Ammessa la sanzione sostitutiva il giudice non deve vedere più il fascicolo, devono occuparsene le autorità amministrative. Diversamente si rischia la paralisi. Sono proposte diverse tra loro ma hanno un filo comune: guardare alla giustizia non come terreno di scontro ma come un oggetto da far funzionare. Sono proposte non ideologiche, di cui il Ministero potrebbe tenere conto, volte a far funzionare la nuova legge, che altrimenti, in una eterogenesi dei fini, provocherà il contrario di quanto sperato: non l’accelerazione che abbiamo promesso all’Unione Europea ma il rallentamento del sistema sino al suo impantanamento. Mi sembrano approcci razionali sulla base delle forze di cui si dispone. Speriamo che qualcuno vi rifletta. Tira un vento forcaiolo: garantisti d’Europa uniamoci! di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 19 novembre 2022 Il “Manifesto del Diritto Penale liberale e del Giusto Processo”, lanciato dall’Ucpi nel 2019 in piena era gialloverde, supera i confini nazionali. Tradotto in quattro lingue, portato nelle università europee, oggi è al centro dell’incontro tra giuristi di diversi paesi. Nei prossimi giorni lo presenteremo a Nordio. A Bologna si sta celebrando un evento importante, di quelli che non attirano titoli di giornali e talk-show, ma che segnano la crescita silenziosa e forte di idee cruciali per i diritti e le libertà di tutti noi. Occorre tornare indietro, al maggio del 2019, quando in una storica aula della Università Statale di Milano, gremita all’inverosimile, l’Unione delle Camere Penali Italiane presentava il frutto di un anno di lavoro -da essa promosso ed organizzato- di autorevoli accademici di tutta Italia: il “Manifesto del Diritto Penale liberale e del Giusto Processo”. Il populismo penale, malattia antica della politica della giustizia in Italia, si era fatto addirittura governo del Paese. Era l’epoca del governo gialloverde (Lega e M5S), cioè del Governo che ha espresso la più esplicita ed aggressiva politica populista e giustizialista della storia repubblicana. Chiavi delle carceri buttate via, riforme penitenziarie bruciate nella piazza mediatica, principi e garanzie costituzionali sacrificati sull’altare di un “diritto penale-spazza” (copyright by prof. Domenico Pulitanò), cioè di un diritto penale agitato come un randello e come un simbolo, nella ottusa (e vana) illusione di “spazzare via” ogni forma di criminalità. L’UCPI sentì il bisogno, non appena insediata la nuova Giunta nell’ottobre del 2018, di lanciare la iniziativa di un Manifesto, che sapesse esprimere con chiarezza i principi fondativi ed irrinunciabili di una idea liberale del diritto e del processo penale, da contrapporre a quella furia populista e giustizialista che, d’altronde, dava segni inequivocabili di sé anche fuori dai confini nazionali. La storia ci insegna che l’esigenza di redigere manifesti di idee e di principi è sempre nata quando quelle idee e quei principi sono stati messi drammaticamente in discussione ed in pericolo, ed occorre rilanciarli, farli conoscere, diffonderli, persuadere. Il risultato fu un Manifesto di straordinaria sintesi e completezza, che raccolse e disegnò, con il suggello autorevole -prima e dopo la presentazione del maggio 2019- della intera comunità dei giuristi italiani, i tratti fondativi ed identitari dell’idea liberale del diritto e del processo penale. Trentacinque canoni che distillano, con una cura semantica ed un rigore dottrinario esemplari, idee la cui drammatica e vitale importanza per le sorti della nostra stessa democrazia politica apparivano -allora come oggi- nitidamente chiare. Un diritto penale come “extrema ratio”, strumento eccezionale di controllo sociale che costruisce e regola la legittima potestà punitiva dello Stato intorno alla incondizionata e non negoziabile tutela dei diritti di libertà della persona sottoposta ad indagine o a processo; che riafferma e difende umanità e dignità anche del colpevole; che rifugge da eccessi punitivi, invocando pene proporzionate al disvalore del fatto perseguito, orientate alla rieducazione del reo ed al suo recupero sociale. Un processo penale giusto, cioè celebrato ad armi pari tra accusa e difesa al cospetto di un giudice terzo ed imparziale; un processo nel quale la privazione della libertà e dei diritti patrimoniali della persona prima del giudizio definitivo siano l’eccezione, non la regola; un processo -soprattutto- costruito intorno al rispetto incondizionato della presunzione di innocenza dell’imputato, e dunque della clausola secolare del “in dubio pro reo”. Ebbene in questi due giorni a Bologna prende corpo la nostra un po’ visionaria ambizione: di vedere quel nostro Manifesto condiviso dalla cultura giuridica (ed auspicabilmente politica) di tutta Europa. Il Manifesto è stato tradotto in quattro lingue, ed è stato studiato e diffuso nei più autorevoli consessi accademici europei. Ed ora per la prima volta ne discuteremo - insieme ai giuristi italiani che con noi lo hanno promosso e condiviso - con autorevoli giuspenalisti delle Università di Barcellona, Madrid, Louvain, Innsbruck, e con avvocati dei Fori di Parigi ed Aux-en Provence, quest’ultimo componente della Commissione per la Riforma del Processo Penale in Francia e strettissimo collaboratore del Ministro della Giustizia francese. Spira in tutta Europa il vento gelido di una idea del diritto penale esattamente agli antipodi di quella profilata nel nostro Manifesto: di una idea cioè simbolica, mediatica, “esemplare” della potestà punitiva dello Stato, brandita innanzitutto con finalità ricostruttive e propagandistiche della identità politica dello Stato populista, giustizialista, securitario. Questo primo segnale di attenzione della cultura europea al nostro grido di allarme ci riempie ad un tempo di orgoglio e di speranza, perché le idee vanno seminate anche ed anzi soprattutto quando esse sembrano ignorate e neglette. Nei prossimi giorni saremo ricevuti dal Ministro Carlo Nordio, e ci presenteremo con il nostro Manifesto, e con la notizia della sua prima diffusione in Europa che questa due giorni bolognese saprà definitivamente consacrare. Sarà utile comprendere se i principi in esso affermati -e che sappiamo essere integralmente condivisi dal dott. Nordio da tempi non sospetti- sapranno ispirare la politica della giustizia dei prossimi mesi ed anni. I primi segnali, a dire il vero, sono tutt’altro che incoraggianti, ma i percorsi politici si costruiscono dialogando, senza riserve e pregiudizi, ascoltando e chiedendo di essere ascoltati. Noi ci siamo, e siamo sempre meno soli. La farsa della “parità di genere” nell’elezione dei laici al Csm di Ermes Antonucci Il Foglio, 19 novembre 2022 Le norme introdotte dalla riforma Cartabia per favorire la presenza paritaria di uomini e donne al Consiglio superiore della magistratura rischiano di rivelarsi fallimentari. La questione della “parità di genere” al Consiglio superiore della magistratura rischia di assumere le forme di una farsa. Il prossimo 13 dicembre il Parlamento in seduta comune sarà chiamato a eleggere i dieci membri laici dell’organo di governo autonomo dei magistrati, che si andranno ad aggiungere ai venti togati già scelti da giudici e pm nelle elezioni dello scorso settembre. L’elezione avverrà secondo le norme introdotte dalla recente riforma Cartabia, che ha dedicato particolare attenzione al tema della “parità di genere”, sia tra i membri togati che tra quelli eletti dal Parlamento. Le norme volte a favorire la presenza paritaria tra donne e uomini nella categoria dei magistrati si sono già rivelate del tutto fallimentari. La legge ha previsto un meccanismo di sorteggio volto a garantire la rappresentanza paritaria di genere tra i magistrati candidati nei vari collegi elettorali, tuttavia alla fine su venti componenti eletti soltanto sei sono risultate donne. Nessuna di queste è stata selezionata come candidata in seguito al sorteggio. Tutte sono state candidate dalle correnti, che hanno continuato a dominare la competizione elettorale. Insomma, come avevamo sottolineato su queste pagine, raccogliendo la testimonianza di una giudice di provincia estratta a sorte, non basta assicurare un numero uguale di candidati uomini e donne per favorire la parità di genere, se l’elezione poi non avviene ad armi pari. Anche le norme introdotte dalla riforma per favorire la parità di genere tra i componenti laici rischiano di rivelarsi completamente inutili. La riforma dispone che i membri laici siano scelti attraverso una procedura trasparente. Coloro che intendono candidarsi (cioè, secondo la Costituzione, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati dopo quindici anni di esercizio effettivo) dovranno farlo inviando la propria candidatura via pec alla Camera entro il 10 dicembre. La nuova legge stabilisce un’altra novità: i componenti laici “sono scelti nel rispetto della parità di genere garantita dagli articoli 3 e 51 della Costituzione”. Cosa significa? Secondo i criteri stabiliti dal presidente della Camera, Lorenzo Fontana, d’intesa con il presidente del Senato, Ignazio La Russa, l’espressione significa che “deve appartenere al genere meno rappresentato almeno il quaranta per cento dei candidati”. Se questa soglia non viene raggiunta, viene disposta “una riapertura del termine per la presentazione delle candidature dei soli soggetti appartenenti al genere sottorappresentato”, che dovranno comunque pervenire entro lunedì 12 dicembre, vale a dire il giorno prima della prima riunione del Parlamento in seduta comune. Nel caso in cui, nonostante la riapertura dei termini, la soglia del 40 per cento di candidate donne non fosse raggiunta, non scatterebbero ulteriori meccanismi, dato che non è previsto alcun sorteggio né può immaginarsi di obbligare docenti e avvocate a candidarsi per il Csm. Insomma, in questo modo il principio della parità di genere è stato relegato alla sola fase della presentazione delle candidature, con il rischio che il risultato finale sia fallimentare, così come avvenuto nell’elezione dei membri togati. C’è chi, come il deputato Riccardo Magi, presidente di +Europa, sostiene che le disposizioni dei presidenti delle Camere siano andate contro lo spirito della riforma, visto che “si sarebbe potuto e dovuto prevedere almeno che la presentazione delle candidature fosse corredata da un curriculum e che vi fosse un voto con preferenza di genere tale da garantire l’equilibrio tra gli eletti”. C’è chi invece sottolinea come le norme puntassero ad avere più la natura di raccomandazione. Del resto è la Costituzione a richiedere quorum piuttosto alti per l’elezione dei membri laici: maggioranza dei tre quinti dei componenti del Parlamento nei primi due scrutini, maggioranza dei tre quinti dei votanti dal terzo scrutinio in poi. E’ la Costituzione stessa, insomma, a imporre ai partiti di maggioranza e di opposizione un’attività di mediazione per raggiungere un compromesso. Pensare che in queste negoziazioni i partiti debbano tener conto anche di un principio di parità di genere tra i membri laici appare in effetti piuttosto difficile, se non impossibile. Mafia, riecco i ventriloqui che pretendono una nuova stagione narrativo-giudiziaria di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 19 novembre 2022 Ricordate Ciancimino jr che attribuiva al padre boss le sue patacche? Oggi tocca a Mutolo - c’è “un terzo livello che comanda e ha comandato sempre” - e Baiardo rivitalizzare la Trattativa. È nella pancia che si è costretti a guardare per picconare le ultime fantasiose ricostruzioni di pentiti di mafia e saltimbanchi. A certi parlatori, infatti, la voce pare venire dal ventre. E invece sono portavoce dell’altrui pensiero, chissà se per scelta o perché suggestionabili. Il punto è che l’illusionismo fonico dei novelli ventriloqui pretende, ancora una volta, di diventare giudiziario. È il colpo di reni in vista dell’atto finale (il De profundis?), la sentenza della Cassazione, sulla Trattativa stato-mafia. Oppure l’incipit di una nuova stagione narrativo-giudiziaria che tanto piace a chi non si arrende all’evidenza che i processi si vincano con le prove. Ed ecco avanzare figuranti che popolano la scena di ombre e sospetti il cui olezzo è pungente. Farfugliano, dicono e non dicono, ammiccano nella speranza di sedurre. C’era riuscito Massimo Ciancimino, il primo grande ventriloquo che faceva dire al padre Vito, defunto ex sindaco mafioso di Palermo, ciò che serviva a lui ed era comodo per i pubblici ministeri che hanno imbastito l’inchiesta e il processo sulla Trattativa. Ora ci prova l’ex collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, uscito dal programma di protezione. Ha già un primato: è alla terza o quarta intervista “esclusiva” di fila. Prima ha solo parlato, poi con coraggio ha gettato la maschera che ne proteggeva il volto per il settimanale Oggi, infine si presenta in tv nel salotto di Massimo Giletti. Ci mostra la banalità del male, raccontandoci che Totò Riina, negli anni Sessanta, aveva un “carattere dolce, docile, saggio”. Il sanguinario corleonese, lo sterminatore delle stragi del 1992 è “diventato feroce perché altri mafiosi intorno a lui erano feroci”. Belva in mezzo alle belve, quasi come se per Riina fosse stato un atto di difesa. Poi Mutolo la butta lì, c’è “un terzo livello che comanda e ha comandato sempre”, che regge i fili ed è pronto a fare un favore ai mafiosi eliminando l’ergastolo ostativo. “È una cosa vergognosa quella che vogliono fare”, tuona Mutolo. Il mistero è servito. Gli storiografi a oltranza dei patti occulti, rinfrancati da racconti posticci, possono riprendere carta e penna, e i magistrati aprire nuovi fascicoli. Sono coloro che hanno raccolto il testimone dai colleghi dopo la diaspora elettorale e gli inevitabili pensionamenti delle toghe che hanno dedicato una carriera a inseguire e costruire teoremi. L’apparizione televisiva di Mutolo ha un non so che di mistico. Si racconta, come in una catarsi per liberarsi dagli spettri della sua vita di killer di venti omicidi. L’intervista assume una dimensione rarefatta, suggellata dal gesto simbolico che segna il punto più alto della ritualità. Scorrono le immagini dell’abbraccio fra Gaspare Mutolo e Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, il magistrato assassinato in via D’Amelio. È nel luogo dell’eccidio che i due si abbracciano. Il flashback della memoria riporta all’analogo gesto che Salvatore Borsellino si scambiò con Massimo Ciancimino, consacrandolo sull’altare dell’antimafia. Anni dopo della credibilità di Ciancimino jr e delle sue rilevazioni sulla Trattativa sarebbero rimaste le macerie, per buona pace di chi, come il pm Antonio Ingroia, lo aveva definito una “quasi icona dell’antimafia”. Il prudenziale “quasi” non ha evitato la magra figura rimediata per avere dato fiato al testimone nel corso di una lunga stagione giudiziaria. Il figlio di don Vito ci aveva preso gusto. A conclusione di ogni interrogatorio aggiungeva un dettaglio che ingolosiva gli accusatori. Era inevitabile riconvocarlo e Ciancimino jr non aveva alcuna fretta di smettere di giochicchiare con Ingroia e i colleghi della Procura palermitana. La sua era una tecnica affinata nel tempo. Un modello che ha fatto scuola, come nel caso di Salvatore Baiardo - pure lui intervistato da Giletti - gelataio piemontese di Omegna che ospitò i fratelli Graviano, boss stragisti del rione Brancaccio. Su Baiardo in passato si è già indagato quando disse ai carabinieri di essere pronto a collaborare ma chiedeva soldi in cambio di informazioni bollate come “del tutto inattendibili”. Era rispuntato qualche tempo fa, avvicinato dai giornalisti di Report, a cui aveva ripetuto le cose già dette sui rapporti fra Silvio Berlusconi e sui miliardi della mafia investiti grazie al Cavaliere. Roba su cui si indaga da decenni. Aggiunse la hollywoodiana rivelazione sulla vacanza dei Graviano in Sardegna vicino alla villa di Berlusconi e - udite, udite - la storia che ci siano in circolazione più copie dell’agenda rossa trafugata dalla borsa di Paolo Borsellino il giorno dell’attentato. Qualcuno l’ha fotocopiata come si faceva un tempo con le dispense universitarie per consegnarla a personaggi che continuano a ricattare lo stato tre decenni dopo le stragi. Vuoi che una copia non sia finita nelle mani di Matteo Messina Denaro, l’ultimo dei padrini latitanti che magari ne ha fatto il suo salvacondotto personale? Baiardo non si lascia sfuggire l’occasione di dire la sua sul capomafia di Castelvetrano. Ne ha compreso l’attuale appeal mediatico, residuato bellico di una guerra che lo stato ha vinto contro la mafia corleonese. Una vittoria che, però, va taciuta per alimentare il baraccone dell’antimafia. Ciò che Baiardo dice è così riassumibile: Messina Denaro è malato e pronto a consegnarsi in cambio di un “regalino”, e cioè un intervento governativo che abolisca l’ergastolo ostativo. In soldoni il “clamoroso arresto” dell’imprendibile capomafia trapanese servirebbe come arma di distrazione di massa per consentire a qualcuno “che ha l’ergastolo ostativo di uscire senza che ci sia clamore”. Il Baiardo pensiero si chiude con una frase che suona come programmatica, un manifesto dell’intruppamento del gelataio: “Potrebbe succedere come una vecchia trattativa, come è stata fatta nel ‘93… magari servirà ancora… come infatti non è che lo stato lo stia prendendo… presumo che sia una resa sua”. Musica per le orecchie di quei pm che quando sentono un collaboratore di giustizia o un testimone è come se si guardassero allo specchio. I pentiti finiscono per raccontare ciò che coloro che li interrogano vogliono sentir dire. Così è stato per Giovanni Brusca, il boia di San Giuseppe Jato che ha terminato di scontare la condanna e ora è un uomo libero. Non parlò subito di Dell’Utri, del papello delle richieste dei boss per mettere fine alle stragi, dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino la cui assoluzione definitiva ha minato per sempre la ricostruzione sulla Trattativa di cui era indicato come l’iniziatore. Di tutto ciò Brusca si ricordò anni dopo l’inizio della sua collaborazione, fuori tempo massimo. Qualche giudice aveva sentito l’olezzo della mistificazione, tanto da mettere per iscritto che ci si trovava di fronte a una “possibile sopravvenuta esigenza di assecondare alcune ipotesi accusatorie determinata dalla volontà di acquisire qualche benemerenza”. Brusca poteva avere voluto compiacere chi lo interrogava. Un altro giudice fu ancora più tranciante sulle interpretazioni del pentito tanto da definirle “suggerite dalle molteplici sollecitazioni, ricevute nel corso di interrogatori, a volte anche molto sofisticati, degli inquirenti e dalle contestazioni fattegli durante i suoi esami”. Insomma, su certi argomenti Brusca è stato una sorta di ventriloquio dell’antimafia. Così come potrebbe esserlo stato il collaboratore Pietro Riggio, uno degli ultimi attrezzi di scena sul palcoscenico della Trattativa, paragonato a Tommaso Buscetta da Antonino Di Matteo per la possibilità di “fare il salto di qualità” nel racconto dei “rapporti osceni fra il potere e Cosa nostra” e celebrato da Antonio Ingroia come il “pentito di stato”, la manna dal cielo per ricostruire la stagione delle stragi. Ha raccontato che i servizi segreti, italiani e libici, parteciparono all’eccidio di Capaci, facendo credere allo stesso Brusca che fosse stato lui a schiacciare il telecomando. La sua attendibilità ha cominciato da subito a scricchiolare, ma bisognava andare avanti per capire fin dove potesse arrivare. L’indimostrabilità che proteggeva il suo racconto si è schiantata contro un banale numero di targa, quello di una macchina sulla quale, a suo dire, avrebbero viaggiato gli uomini del mistero ma che in realtà apparteneva a un trattore. Il verosimile allora è diventato goffo. Meglio disancorarsi dalla realtà e addentrarsi nella nebbia dei ricordi che a distanza di decenni nessuno può confermare né smentire, come quelli sull’interrogatorio che Mutolo fece nel luglio 1992 in gran segreto, a Roma, con Paolo Borsellino. Il magistrato ricevette una telefonata e dovette precipitarsi dal ministro dell’Interno Nicola Mancino. Già, lo stesso Mancino tirato con forza dalla Procura di Palermo dentro il processo sulla Trattativa con l’accusa di avere mentito. I pm chiesero la sua condanna a sei anni, salvo poi non appellare l’assoluzione decisa dai giudici di primo grado che scagionarono Mancino. Mutolo fa uno sforzo di memoria. La mente va a quel giorno di trent’anni fa. Borsellino tornò dall’incontro ed era infuriato. Aggiunge un elemento da sceneggiatura cinematografica. Per calmarsi Borsellino dovette “fumarsi due sigarette insieme”. Poi fece una confidenza al pentito che gli stava seduto di fronte, come se Borsellino e Mutolo non fossero un magistrato scrupoloso e un collaboratore di giustizia, ma due vecchi amici al bar: “Mi disse di avere incontrato, fuori dalla stanza del ministro, Bruno Contrada (ex numero tre del Sisde) e l’ex capo della polizia Vincenzo Parisi. Contrada mostrò di sapere dell’interrogatorio in corso con me che doveva essere segretissimo. Gli disse: ‘So che è con Mutolo, me lo saluti’”. Come si fa a smentire qualcuno che fa parlare i morti? Ci si può solo fidare della sua buona fede che va però soppesata di fronte a un killer di venti e passa omicidi pur se ha dato prova di avere cambiato vita. Un’apertura di credito va concessa a tutti, figuriamoci a un personaggio della statura e dell’autorevolezza di Pino Arlacchi, già deputato e senatore Pd, estensore del progetto esecutivo della Dia, la Direzione investigativa antimafia, vicedirettore generale dell’Onu, collaboratore di Falcone, di cui era amico. Nel suo ultimo libro racconta della confidenza ricevuta dal magistrato. Falcone era andato da Borsellino. C’era “scompiglio”, si stava “preparando qualcosa di grosso” come quando, dieci anni prima, la mafia aveva ucciso il segretario del Pci siciliano Pio La Torre e il presidente della regione Piersanti Mattarella. “Stavolta è più difficile perché non hanno le coperture di allora. La Cia si disinteressa di loro, la Nato è quasi morta, gli è rimasto Andreotti, che non è poco, ma non è abbastanza”, confidò Falcone ad Arlacchi. Sono parole che destabilizzano visto che Falcone mai fece cenno alcuno, né pubblicamente né in atti giudiziari, di un fatto così grave che coinvolgesse gli americani con cui c’era stata intesa e collaborazione totale. Il segreto del successo è raccontare circostanze che non possono essere verificate. A volte, però, si inciampa su un ostacolo. Prendete l’ex brigadiere Walter Giustini, un tempo in servizio a Palermo e oggi in pensione, secondo cui la strage di Capaci poteva essere evitata. Come? Se avessero dato retta a Giustini avrebbero arrestato Totò Riina prima dell’attentato di Capaci. Un suo confidente, Alberto Lo Cicero, lo aveva messo sulla strada giusta. Si sarebbe scoperto pure chi avrebbe agito nell’ombra, supportando i mafiosi o addirittura servendosi di loro. E cioè Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia nazionale e poi cofondatore dell’organizzazione di destra Ordine nuovo. Secondo il brigadiere, Delle Chiaie si recò “un paio di volte a Capaci” prima della strage. Di tutto ciò non c’è traccia alcuna negli atti ufficiali, compresi i verbali di Lo Cicero resi davanti all’autorità giudiziaria e in presenza dello stesso Giustini. Nulla, né di Delle Chiaie, né del possibile arresto di Riina. Ed eccoci al punto di partenza, all’illusionismo fonico dei ventriloqui che diventa illusionismo giudiziario e torna utile, oggi più che mai, per il disperato tentativo dei magistrati della Trattativa, all’ultima spiaggia in Cassazione. Come diceva Platone nel Sofista, non hanno bisogno di altri che li confutino perché in fin dei conti portano dentro, nel loro ventre, il nemico che li sconfiggerà. Torino. Quel suicidio al “Sestante” durante la partita Juve-Milan di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 novembre 2022 Dodici minuti per morire indisturbato, impiccato ai pantaloni del pigiama, in una cella della famigerata sezione “Il Sestante” - finita sotto inchiesta grazie alla denuncia di Antigone - del carcere La Vallette di Torino. Si chiamava Roberto Del Gaudio e la vicenda è ora al centro di un processo in cui tre agenti di polizia penitenziaria sono imputati di omicidio colposo per omessa vigilanza. La procura contesta anche un tentativo di avere cercato di coprirla. Ora si è entrati nel vivo del processo, dove le parti civili sono i familiari di Del Gaudio, rappresentati dall’avvocato Riccardo Magarelli, e il garante nazionale dei detenuti, rappresentato dall’avvocato Davide Mosso. L’uomo, il 10 novembre 2019, si impiccò nella sua cella dove era detenuto dal 18 agosto precedente, quando uccise a colpi di sgorbia la moglie Brigida De Maio, che era di un anno più giovane, in un appartamento del palazzo di corso Orbassano 255 a Torino. Secondo i pm Francesco Pelosi e Giulia Marchetti, che hanno condotto le indagini, i tre avrebbero dovuto controllarlo a vista in quanto affetto da psicosi paranoide e ad alto rischio di togliersi la vita e invece sarebbero intervenuti ben 12 minuti dopo il fatto, rendendo così impossibile salvarlo. Gli imputati sono difesi dall’avvocato Marco Feno, secondo cui il ritardo è dipeso dalla rottura di un monitor di sorveglianza e quindi non sarebbe imputabile loro. La cella era costantemente monitorata da una telecamera. All’udienza di ieri i pubblici ministeri hanno chiesto ai testimoni conferme sulle voci secondo le quali i tre agenti stessero guardando alla tv la partita di calcio fra Juventus e Milan. La psichiatria, sentita come testimone, ha confermato l’esistenza di queste voci. Sono le 21.05 quando Del Gaudio si raggomitola sotto la coperta scura che gli hanno lasciato e toglie i pantaloni del pigiama. È in cura per problemi psichici, e il giorno successivo avrebbe dovuto incontrare lo psichiatra per la perizia in merito alla sua capacità di intendere e volere, dunque anche il suo destino processuale. In quello stesso momento, 21.05, Juventus- Milan è al quindicesimo del primo tempo. Sono le 21.37 quando le telecamere inquadrano le gambe di Del Gaudio senza pantaloni. Qualcuno dei tre agenti dovrebbe accorgersene? Alle 22.28 Del Gaudio si siede sul bordo del letto e ha già il cappio attorcigliato al collo, fatto con il pigiama, lo aggancia all’angolo battente della finestra. In quello stesso momento, la partita di calcio prosegue con Calhanoglu che tenta di recuperare al gol di Dybala di quattro minuti prima. In campo sono fasi concitate mentre nella cella si sta per consumare il dramma di Roberto Del Gaudio: alle 22.29 si lascia cadere dal letto e resta appeso alla finestra. Nessuno se ne accorge fino alle 22.41 quando le telecamere registrano l’ingresso del primo poliziotto penitenziario nella cella. Dodici interminabili minuti sono passati dal momento del gesto fino all’entrata dell’agente in cella. Sarà il processo ad accertare se gli agenti abbiano commesso omessa vigilanza, perché concentrati sulla partita. Il fatto, com’è detto, è avvenuto nella famigerata sezione “Il Sestane” del carcere di Torino che fungeva da articolazione psichiatrica. Esattamente un anno fa, la coordinatrice nazionale di Antigone Susanna Marietti rese pubblico il dramma. “Al Sestante - scrisse nero su bianco la coordinatrice - si trovano circa venti celle, dieci su ogni lato del corridoio. In ciascuna è reclusa una singola persona detenuta. La cella è piccola, sporca, quasi completamente vuota. Al centro vi è un letto in metallo scrostato e attaccato al pavimento con i chiodi. Sopra è buttato un materasso fetido, a volte con qualche coperta e a volte no. Qualcuno, ma non tutti, ha un piccolo cuscino di gommapiuma. Non vi è una sedia né un tavolino. Solo un piccolo cilindro che sembra di pietra dove ci si può sedere in posizione scomodissima. L’intera giornata viene trascorsa chiusi là dentro, senza nulla da fare e nessuno con cui parlare. Unico altro arredo, un orrendo bagno alla turca posizionato vicino alle sbarre, di fronte agli occhi di chiunque passi per il corridoio”. Grazie a lei, si creò una forte indignazione e intervenne la procura di Torino aprendo un fascicolo di indagini. Prima di Antigone, tale sezione è stata al centro dell’attenzione del Garante nazionale delle persone private della libertà. Un inferno, già segnalato sei anni fa. La prima segnalazione alle autorità competenti è giunta tramite la raccomandazione del Garante nazionale delle persone private della libertà formulata il 29 novembre 2016. Ma nulla da fare. Arriva l’ennesima segnalazione nel 2017, questa volta da parte di Emilia Rossi, componente del collegio del garante nazionale. Ha effettuato una visita al reparto psichiatrico del carcere torinese assieme a Bruno Mellano, Garante Regionale del Piemonte, e della Garante del Comune di Torino, Monica Cristina Gallo. Durante la visita, la delegazione guidata da Emilia Rossi, ha riscontrato nel Reparto Osservazione che le camere si presentano in condizioni strutturali e igieniche molto scadenti, sporcizia diffusa, prive di doccia e servizi igienici a vista. Il reparto Il Sestante viene Istituito dalla Asl To 2 Nord, attraverso il Dipartimento sanitario mentale “Giulio Maccacaro”, collocato nel padiglione A. Era suddiviso in due articolazioni: la Sezione VII che ospita il reparto osservazione, a cui sono destinate persone sottoposte ad osservazione ex art. 112 o pazienti provenienti anche da altri istituti e persone in fase acuta o sub - acuta che richiedono assistenza temporanea non terapica, e la Sezione VIII in cui è stato costituito il reparto trattamentale, destinato ad accogliere persone sofferenti di patologia psichica accertata, anche provenienti dalla settima sezione, ed ove si realizzano percorsi di adattamento alla detenzione ordinaria. Ma nonostante la segnalazione da parte del Garante Nazionale fatta nel 2018, la situazione è rimasta invariata, se non peggiorata fino a quando è stato definitivamente chiuso grazie alla descrizione infernale da parte dell’associazione Antigone che vi ha fatto visita lo scorso anni. Una sezione che era salita recentemente agli onori della cronaca anche grazie al rapporto di Antigone stesso dello scorso anno. Un caso che rende bene l’idea viene narrata da un familiare che si rivolge all’avvocato Elia De Caro, il Difensore Civico di Antigone. Un ragazzo avrebbe tentato il suicidio, per questo sarebbe stato trasferito in una cella liscia, denudato, senza materasso né coperta e con l’acqua chiusa. Per quest’ultimo motivo, si sarebbe trovato nelle condizioni di bere dallo scarico del wc. La sua situazione peggiora, si agita, e la prassi sarebbe stata quella di frequenti iniezioni intramuscolari per cercare di sedarlo. Parliamo di M., un detenuto di 24 anni che espiava la pena presso il famigerato Il Sestante della Casa Circondariale di Torino. A novembre del 2021, finalmente il Sestante chiude. La stessa Procura di Torino, che fino a ieri mandava lì le persone, ha aperto un’indagine per maltrattamenti a danno delle persone lì detenute. Ed è la stessa sezione, dove appunto avvenne il suicidio di Roberto Del Gaudio che doveva essere controllato a vista. È rimasto fermo immobile, con il cappio intorno al collo e appeso sull’angolo di una finestra aperta per dodici interminabili minuti, prima che nella cella entri un primo agente della polizia penitenziaria. Ora il processo servirà a capire com’è veramente andata questa vicenda e se ci sono delle responsabilità dolose. Roma. Caso Hasib Omerivic, i quattro poliziotti indagati anche per tortura di Valentina Stella Il Dubbio, 19 novembre 2022 Iquattro agenti della Polizia di Stato che lo scorso 25 luglio entrarono a casa della famiglia Omerovic a Primavalle e che poi furono o testimoni o responsabili - sarà la giustizia a stabilirlo - del volo dalla finestra del giovane Hasib ora sono indagati anche per tortura. Ciò è emerso ieri, durante un question time alla Camera, quando il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni ha risposto all’interpellanza urgente dell’onorevole di +Europa Riccardo Magi: “Sulla base delle notizie acquisite dal ministero della Giustizia, la procura della Repubblica presso il tribunale di Roma in relazione all’episodio ha avviato un procedimento per i reati di false informazioni al pubblico ministero, falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atti pubblici e tortura” . E il reato di tentato omicidio? Non è di certo scomparso. I pubblici ministeri Michele Prestipino e Stefano Luciani, sulla base della denuncia fatta dalla famiglia Omerovic, hanno inizialmente aperto un fascicolo per tentato omicidio; poi, alacremente, a seguito di successivi accertamenti effettuati nel prosieguo delle indagini, sono state formulate le ulteriori ipotesi di reato elencate nella risposta di Molteni tra cui quella grave di tortura. Dunque la posizione dei quattro poliziotti si aggrava ma, lo ribadiamo convintamente, la presunzione di innocenza vale anche per loro, a maggior ragione se consideriamo il fatto che le indagini non si sono ancora nemmeno concluse. Molteni ha poi aggiunto che “lo scorso settembre l’amministrazione ha adottato misure di carattere organizzativo e, in particolare, l’avvicendamento del dirigente del distretto, sostituito con un primo dirigente di PS, ritenuto particolarmente qualificato, e del funzionario addetto. Tali provvedimenti sono stati assunti rispettivamente con atto del capo della Polizia e del questore di Roma”. Inoltre, in merito ai quattro agenti coinvolti uno è stato “assegnato ad un altro ufficio di pubblica sicurezza della capitale, mentre gli altri tre sono stati adibiti a servizi di vigilanza interna nell’ambito del quattordicesimo distretto”. Infine, poiché il procedimento è ancora coperto dal segreto investigativo, “non sono stati avviati procedimenti disciplinari nei confronti del personale interessato in attesa degli sviluppi del procedimento penale”. Su questo Magi ha replicato: “I provvedimenti cautelari, quindi le eventuali sospensioni, vengono adottati, anche nell’attesa di una sentenza che riconosca una condanna in via definitiva e servono esattamente a tutelare l’amministrazione e l’istituzione”. Torino. Udienze sold out: Tribunale già intasato fino al 2024 di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 19 novembre 2022 Stop ai processi anche per carenza di giudici. Decreto del presidente vicario Villani, che ora aspetta i pareri di avvocati e Procura. Poi toccherà al Consiglio giudiziario. Lo sapevano tutti - e chi non lo sapeva se lo immaginava - ma scritto nero su bianco fa un certo effetto: “Allo stato le udienze di smistamento del 2023 sono pressoché complete e dunque i rinvii a giudizio verrebbero comunque disposti a udienze filtro del 2024”, scrive a un certo punto il presidente vicario del tribunale, Modestino Villani, nel decreto che ha per oggetto le “Prime misure organizzative connesse alla variazione tabellare del settore penale e alla vacanze di organico dell’ufficio gip”. Ovvero, per l’eventuale dibattimento di indagini già chiuse o prossime alla chiusura, e con indagati in libertà, se ne riparlerà tra un anno abbondante.  Eppure, ci sono voluminosi (e complessi) procedimenti che non hanno visto ordinanze cautelari: dall’inchiesta sul Cpr a quella sui conti della Juventus. È la sezione gip-gup (quella dei giudici per le indagini e l’udienza preliminare) che è per lo più destinato l’intervento. Morale: fino alla fine di gennaio 2023, è “opportuno sospendere i rinvii a dibattimento dei processi in cui non vi siano imputati sottoposti a misura cautelare personale”. Insomma, quelle udienze preliminari saranno rinviate, sperando che da febbraio tutto - dalla riforma Cartabia alla variazione tabellare - sia pronto. Conoscendo l’Italia, auguri.  Lunedì scorso, Villani ha illustrato il piano al consiglio dell’Ordine degli avvocati, lo stesso che dopo domani, ne discuterà, per poi rilasciare un parere: “È un argomento di grande importanza, che merita attenzione e riflessione”, dice l’avvocato Simona Grabbi, presidente dell’Ordine. Una volta incassato anche il parere di Procura e Commissione flussi, il tutto passerà al vaglio del Consiglio giudiziario e, finalmente, del Csm. Da qui la stima di fine gennaio, appunto. Di conseguenza, ecco il decreto firmato dal presidente del tribunale: “Fino a quando, all’esito del parere espresso dal Consiglio giudiziario sulla proposta di variazione tabellare concernente il settore penale, non venga diversamente disposto, il sistema Giada2 (il programma informatico che “pesa” i processi, ndr) indicherà date di udienze per il dibattimento unicamente per i processi con imputati sottoposti a misura cautelare personale”. Altrimenti, si va al 2024.  Corollario: lo stop alle udienze preliminari “fino al 31 gennaio 2023, eccetto quelle con imputati sottoposti a misura cautelare o per i quali vi siano esclusivamente richieste di riti alternativi”. Il tutto, per la sezione gup-gip, anche nell’attesa di un “diverso provvedimento che disciplini ex novo gli ingressi delle richieste di rinvio a giudizio”. Cioè, le disposizioni della riforma Cartabia, ed eventuali norme transitive, che incideranno sull’attività dei gip e sulle udienze predibattimentali. Se non pochi nei corridoi della Procura, umanamente, sbuffano, alcuni avvocati giudicano positivamente l’intervento. Del resto, leggi rivedibili e disastroso impiego delle risorse, obbligano tanti a ciò che gli informatici chiamano kluge: una soluzione forse non troppo elegante, ma efficiente, per risolvere un problema specifico.  Pesano, mai dimenticarlo, le notevoli carenze di organico tra gip (meno 8) e sezioni penali del tribunale. Per non parlare del legislatore, un grande classico. Come, ragiona un giudice, la competenza collegiale (e non più monocratica) per i maltrattamenti aggravati dalla presenza di minori, o ai loro danni: “Così ora facciamo un processo quando prima se ne facevano tre. Intelligente no?”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Visita ispettiva in carcere di Ilaria Cucchi e Peppe De Cristofaro di Raffaele Sardo La Repubblica, 19 novembre 2022 Una delegazione di parlamentari dell’Alleanza Verdi e Sinistra, formata da Peppe De Cristofaro, Capogruppo Alleanza Verdi e Sinistra e Presidente del gruppo Misto del Senato, e da Ilaria Cucchi, vicepresidente della commissione Giustizia, hanno effettuato una visita ispettiva nel carcere di santa Maria Capua Vetere. “Dopo i gravissimi fatti del 6 aprile 2020 - hanno affermato all’uscita dal carcere De Cristofaro e Cucchi - a Santa Maria Capua Vetere abbiamo potuto osservare un significativo e importante cambio di rotta da parte della direzione della casa circondariale che ci fa ben sperare, sebbene rimangano una serie di gravi problematiche, come la storica quanto incomprensibile mancanza di acqua potabile. Problemi ai quali bisogna dare risposte immediate e puntuali, a Santa Maria Capua Vetere come in ogni altre istituto penitenziario del Paese”. La visita da parte degli esponenti dell’alleanza Verdi e Sinistra, fa parte di un programma di ispezioni nelle carceri italiane cominciate proprio nella mattinata di ieri. Intanto il 7 novembre scorso è iniziato nell’aula bunker del carcere di Santa Maria Capua Vetere il maxi-processo per i pestaggi e le violenze ai danni di detenuti avvenuti proprio nel carcere adiacente, il 6 aprile 2020. Il procedimento giudiziario vede imputate 105 persone - tra poliziotti penitenziari, funzionari medici e dell’Amministrazione Penitenziaria - a cui si contestano, a vario titolo, una lunga serie di reati: tortura, omicidio colposo come conseguenza di tortura (reato contestato solo a ventidue imputati), lesioni pluriaggravate, abuso di autorità, falso in atto pubblico. Novantanove, invece, le parti civili già costituitesi nell’udienza preliminare (quattro associazioni e 95 detenuti dei 177 identificati come parti offese) con oltre 300 avvocati. La prossima udienza è prevista per il 14 dicembre prossimo. Venezia. “Destini incrociati”, inizia mercoledì la rassegna nazionale sul teatro in carcere ferraratoday.it, 19 novembre 2022 La nona edizione della manifestazione in programma a Venezia prevede incontri, laboratori, tavole rotonde e spettacoli. C’è anche la presenza di una realtà attiva da anni a Ferrara come Balamòs, nel programma della rassegna “Destini incrociati-Teatro in carcere in Italia e nel mondo”. La manifestazione nazionale dedicata alla promozione dell’attività teatrale nei luoghi di reclusione, è giunta alla sua nona edizione e quest’anno si svolge a Venezia. Tre giornate, da mercoledì 23 a venerdì 25 novembre, con studiosi, docenti e volontari alle prese con incontri, tavole rotonde e lettura di testi, discussioni sui risultati ottenuti, proiezioni video di progetti, laboratori e spettacoli teatrali realizzati all’interno delle carceri italiane e straniere. Il fine della rassegna, promossa dal Coordinamento nazionale di teatro in carcere e dall’International Network for Theatre in Prison, e sostenuta dal Centro studi sui diritti umani del dipartimento di Filosofia e Beni culturali dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, è proprio di comunicare l’importanza che questa attività didattica e artistica ha assunto negli anni, nei processi di recupero e rieducazione delle persone recluse. Balamòs Teatro, membro fondatore del Cntic, opera dal 2006, con il programma ‘Passi Sospesi’ negli istituti penitenziari di Venezia, la casa circondariale Santa Maria Maggiore e la casa di reclusione femminile Giudecca. Gli eventi nei quali Balamòs sarà protagonista sono in programma mercoledì. Alle 16, nell casa di reclusione femminile della Giudecca, è in scena ‘Voci e suoni da un’avventura leggendaria’, uno spettacolo teatrale diretto dal regista Michalis Traitsis.  Alle 19, nella sede Fondazione di Venezia Rio Novo, è prevista l’inaugurazione della mostra fotografica di Andrea Casari dal progetto ‘Passi Sospesi’ di Balamòs Teatro, negli istituti penitenziari di Venezia. La mostra raccoglie quaranta scatti che ripercorrono il progetto ‘Passi Sospesi’ di Balamos Teatro negli istituti penitenziari di Venezia dal 2006 al 2022, ed è sostenuta da altre 436 immagini contenute in un contributo video a cura di Marco Valentini. Andrea Casari con discrezione, delicatezza, umiltà, coglie un processo di trasformazione e creatività, trattenendo l’immediatezza di una emozione e restituendo attraverso la fotografia i segni del dolore che si fanno comunque sfida, impegno, fatica, conquista, speranza. Inaugurata alle 19 di mercoledì, l’esposizione si protrarrà per l’intera durata della rassegna con ingresso libero dalle 10 alle 19. Sarà possibile visitare la mostra, nelle settimane successive, fino al 31 gennaio, dal lunedì al venerdì, dalle 10 alle 19. Milano. Nel carcere di Opera lo spettacolo continua: detenuti in scena il 24 e il 25 novembre di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 19 novembre 2022 Nella casa di reclusione di Milano Opera c’è un teatro che, da 13 anni, vede i detenuti entrare in scena e dare spettacolo. Il 24 e il 25 novembre ospiterà due eventi: “Pinocchio” e “Noi guerra! Le meraviglie del nulla”. Due le compagnie coinvolte: Corpi Bollati, con i giovani detenuti del carcere di Bollate, e Opera Liquida, formata da persone recluse nella casa circondariale meneghina. Nel “Pinocchio”, primo spettacolo interamente ideato e gestito dai detenuti, in programmazione il 24 novembre alle 20, gli attori vestiranno i panni del famoso burattino di Collodi. ‘Corpi Bollati’ è la compagnia guidata da Carlo Bussetti, ex detenuto che si è diplomato in carcere e che ha proseguito l’attività artistica con molte attività culturali, tese a creare una connessione tra interno ed esterno del carcere. Il 25 novembre alle 20 tocca a “Noi guerra! Le meraviglie del nulla”. ‘Opera Liquida’, sotto la guida della direttrice artistica Ivana Trettel, mette in scena uno spettacolo corale, che raccoglie le riflessioni contro la guerra maturate dalle persone detenute; riflessioni che, con lo scoppio del conflitto in Ucraina, rivelano tutta la loro triste attualità. ““Le meraviglie del nulla” sono i travestimenti, il belletto preciso e stantio di cui rivestiamo la realtà, per sopportarla, rileggerla e giustificarla”, si legge nella pagina web che descrive lo spettacolo. Un modo per “confrontarsi con il conflitto” e indagare “sull’assurdità dell’odio”. ‘Opera Liquida’ è un progetto che non prevede solo la presenza di una compagnia teatrale, ma anche laboratori “sui mestieri del teatro” per scenografi e costumisti. Gli spettacoli nella casa di reclusione di Milano Opera si svolgono durante una tre giorni di masterclass - la prima in un istituto di pena - che coinvolge i professori degli atenei di Bologna, Pavia, Lumsa e Cattolica di Milano. I partecipanti possono scoprire il retroscena degli spettacoli, assistere alle prove e confrontarsi con gli attori e i curatori dei diversi laboratori. Gli eventi sono aperti al pubblico ed è possibile prenotare i biglietti fino al 21 novembre sul sito di Opera Liquida. Migranti o naufraghi? C’è un giudice a Catania di rosario russo Il Domani, 19 novembre 2022 Si può discutere proficuamente dei fatti accaduti al porto di Catania, da cui si è originata una grave crisi diplomatica con la Francia? No. Non si può, perché nel dibattito pubblico difettano non solo circostanze fattuali, ma anche dirimenti valutazioni giuridiche che non competono direttamente alla politica e al cittadino. Dobbiamo dunque rinunciare, dando credito all’autorevole imperativo di L. Wittgenstein: “Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”? Certo che no, giacché ci mancano sì accertamenti e valutazioni, ma sappiamo da quale Autorità attenderli o pretenderli. Il fenomeno migratorio - per cui Mare Nostrum è divenuto il più grande cimitero liquido (ad oggi ventimila vittime) - è tanto epocale quanto complesso, ma da ultimo l’attenzione si è concentrata sull’attività delle ONG. La quale può essere oggetto non di affrettati o personali apprezzamenti, ma soltanto di approfondite indagini della competente Autorità requirente. Il dilemma centrale, ben vero, può sintetizzarsi nella seguente alternativa: non genericamente le ONG, ma questa specificata ONG - qui e ora - si è prodigata per salvare emigranti sottraendoli al naufragio, ovvero - escluso qualunque incombente pericolo - si è prestata soltanto a favorire l’emigrazione illegale? Consideriamo i corollari. Se i titolari delle ONG fossero stati correi o favoreggiatori di scafisti ed emigranti clandestini, perché approdando liberamente le loro navi a Catania (ONG Humanity 1 e Geo Barents) o a Reggio Calabria (Rise Above), non sono stati adottati i provvedimenti penali conseguenziali anche nei confronti dei clandestini sbarcati? E perché, invece di procedere similmente verso i responsabili della Ocean Viking, si è addirittura impedito il pur richiesto approdo (?), consentendole di raggiungere Tolone? Se invece le ONG si fossero comportate come caritatevoli filantropi, i quesiti sarebbero più articolati. Con riferimento alla Ocean Viking, resta da accertare perché le è stato precluso l’accesso al porto siciliano e se effettivamente le Autorità francesi abbiano acconsentito o promesso, con atti formalmente inequivoci (quale non è una nota di agenzia stampa), l’accesso e l’accoglienza nei porti francesi. Si spiegherebbe invece perché è stato consentito a tre navi di approdare in porti italiani, considerati evidentemente i più vicini e sicuri. Ma torna a sorprendere lo sbarco selettivo inizialmente disposto per le navi ONG Humanity 1 e Geo Barents e ancora di più si rivela incomprensibile come - nel giro di poche ore - tante persone, già considerate in buona salute e perfino idonee ad affrontare nuovamente un lungo viaggio per mare, siano state riclassificate “fragili” e sbarcate. Sorge infine un articolato sospetto che soltanto la competente Autorità può e dovrebbe dissipare. In primo luogo plausibilmente si teme che - come riferiscono plurimi organi di stampa, riportando dichiarazioni rese ai massimi livelli istituzionali - l’iniziale rifiuto di fare sbarcare tutti i naufraghi sia stato disposto, soltanto od anche, per ‘convincere’ o ‘indurre’ gli altri paesi europei all’equa ripartizione degli emigranti e a dirottare lo sbarco e la prima accoglienza sulle loro coste. Conseguentemente si argomenta che le Autorità italiane, ormai compiaciute per avere indotto o costretto la nave Ocean Viking a riparare in Francia, abbiano infine deciso di sbarcare a Catania tutti i naufraghi senza distinzione alcuna. Tale condotta integrerebbe allora il gravissimo delitto di cui all’art. all’art. 289 ter c.p. (sequestro di persona a scopo di coazione), anche nella forma del tentativo. Ben vero, a mente della Costituzione (artt. 2, 3, 10 e 13) e delle disposizioni penali citate nonché del diritto internazionale - non è giuridicamente consentito alle nostre istituzioni pubbliche considerare libertà e dignità degli ospiti delle imbarcazioni come strumenti di negoziazione, anziché un diritto inviolabile. Giappone. Italiano muore in Centro di detenzione per immigrati clandestini, forse si è ucciso ansa.it, 19 novembre 2022 L’uomo aveva violato leggi sull’immigrazione. Un cittadino italiano è deceduto in un centro di immigrazione a Tokyo, dove era detenuto per aver violato le leggi sull’immigrazione. Lo ha confermato all’Ansa la Farnesina, spiegando che l’uomo, 56 anni, originario di Perugia e senza fissa dimora in Giappone, era in stato di fermo dallo scorso 25 ottobre. Il giorno successivo il personale dell’Ambasciata italiana aveva fatto visita all’Ufficio dell’Immigrazione di Shinagawa, offrendo assistenza legale al connazionale, e seguendo costantemente il caso per concordare una eventuale procedura di rimpatrio. Poi la morte, forse un suicidio. I cittadini stranieri senza il permesso di residenza in Giappone, che non possono ottemperare in tempi rapidi agli ordini di lasciare il Paese, vengono generalmente detenuti in una delle 17 strutture per l’immigrazione, anche per periodi prolungati. Si tratta del 18/esimo caso di morte nei centri di immigrazione dal 2007, ha riferito l’agenzia nazionale, e in sei casi si è trattato di suicidio, incluso quest’ultimo, se dovesse essere confermato. Iran. Forca e manganelli per salvare il regime. Ma il Corano non c’entra di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 19 novembre 2022 Il fiume umano che si riversa nelle strade della Repubblica Islamica ci attrae e ci trascina verso l’idea di un possibile Iran libero. Emana una forza tale per cui oggi nessuno può dirsi indifferente rispetto a questo popolo, oppresso da oltre quarant’anni da un regime teocratico e misogino. Un popolo che sembra ormai un flusso d’acqua in cerca del punto di congiunzione con il mare cristallino della libertà. Sappiamo che i regimi si fondano sulla violenza e che usano come un manganello le punizioni a loro disposizione per sedare il dissenso, finanche il malcontento. Se poi il loro ordinamento prevede la pena di morte, picchiano anche con questa. In Iran però si va oltre, perché si arriva a picchiare con la pena di morte, chi morto lo è già. È accaduto a Zahedan, capitale della provincia del Sistan-Baluchistan, dove risiede l’etnia baluci di religione sunnita, duramente perseguitata dagli sciiti al potere del governo centrale. Lo scorso 30 settembre le forze paramilitari del regime teocratico hanno aperto il fuoco contro fedeli e manifestanti baluci in una moschea a Zahedan, trucidando 96 persone e ferendone 350. A questo orrore se ne è aggiunto un altro quando lo scorso 6 novembre Nematollah Barahouyi è stato appeso al cappio nel carcere di Zahedan, insieme ad Amanollah Alizehi. I due uomini erano entrambi di etnia baluci ed erano stati condannati a morte da una Corte Rivoluzionaria per reati legati alla droga. Solo che, secondo la testata Hal Vash, Nematollah è stato impiccato morto. Le guardie lo avevo ucciso a botte perché poneva resistenza mentre lo trascinavano verso il patibolo. Lo hanno appeso privo di vita per attribuire al cappio la responsabilità del decesso e così evitare di incorrere in problemi legali. Sono due esecuzioni di cui non vi è traccia nei mezzi di informazione ufficiali, come peraltro accade per molte delle esecuzioni compiute in Iran arrivate a ben 534 quest’anno secondo il meticoloso monitoraggio quotidiano di Nessuno tocchi Caino. In effetti, rispetto a certi accadimenti è meglio tacere o nascondere la verità. I regimi vivono di silenzi come di menzogne. Oltre che di repressione e di botte. Devono far stare male per sopravvivere. Mors tua vita mea, o con me o contro di me. Questo è il pensiero diabolico che attraversa le menti al vertice di qualsivoglia regime. Un pensiero così involuto che nel vortice del male che crea cola a picco verso gli abissi più oscuri. Si è infatti arrivati lo scorso 7 novembre al punto che la grande maggioranza dei membri del parlamento iraniano ha chiesto alla magistratura che venga applicata la pena di morte ai manifestanti arrestati durante le proteste. È avvenuto con un appello, firmato da 227 deputati su 290 in totale, che chiede la pena capitale per i dimostranti definiti come “nemici di Dio” in modo che “serva da lezione”. Secondo Iran Human Rights sono 15.000 i manifestanti arrestati da quando, due mesi fa, è cominciata la protesta innescata dalla morte di Mahsa Amini. A distanza di pochi giorni, il 14 novembre, è arrivata la prima condanna a morte di uno dei manifestanti di cui non è noto il nome. A pronunciare il verdetto di morte è stata una Corte Rivoluzionaria. Almeno altre cinque condanne a morte di manifestanti sono seguite a questa, mentre almeno altri 20 stanno già affrontando processi punibili con la morte secondo quanto riportano notizie ufficiali. Ma se migliaia e migliaia di manifestanti arrestati restano in attesa del processo, della condanna e dell’esecuzione, intanto si va avanti con le esecuzioni sommarie per mano delle forze dell’ordine. Sono almeno 342 quelli uccisi (550 secondo il Consiglio della resistenza iraniana), compresi 43 bambini e 26 donne. È notizia di questi giorni che la Risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali, di nuovo al voto della Assemblea Generale dell’ONU, è stata approvata in un primo passaggio, quello del Terzo Comitato, ed è in attesa di passare al vaglio della plenaria. I voti a favore sono stati 126 (erano stati 120 nel 2020), 37 i contrari e 24 gli astenuti. In plenaria andrà ancora meglio a riprova che la moratoria, dono di Nessuno tocchi Caino e oggi patrimonio curato meritevolmente da molti, continua a orientare l’umanità verso una giustizia capace di deporre la spada. Tra i voti a favore della risoluzione anche quelli di Paesi islamici a riprova del fatto che il problema non è il Corano, perché non tutti i Paesi islamici che a esso si ispirano praticano la pena di morte o fanno di quel testo il proprio codice penale, civile o, addirittura, la propria legge fondamentale. Il problema è la traduzione letterale di un testo millenario in norme penali, punizioni e prescrizioni valide per i nostri giorni, operata da regimi fondamentalisti, dittatoriali o autoritari al fine di impedire qualsiasi cambiamento democratico. Che l’Iran rientri tra questi regimi è noto da tempo. Che la politica di accondiscendenza dei Paesi cosiddetti democratici abbia contribuito a farlo durare nel tempo sicuramente meno. Per cambiare dunque le cose in Iran occorre innanzitutto cambiare noi stessi: passare da una politica dell’accondiscendenza a quella di un dialogo fondato sul rispetto dei diritti umani fondamentali. Iran. Con le rivolte di piazza la rivoluzione è al punto di non ritorno di Mariano Giustino Il Dubbio, 19 novembre 2022 La Rivoluzione è entrata in una fase di non ritorno perché l’insurrezione che in una prima fase vedeva coinvolgere solo donne e giovani delle aree curde ora coinvolge larghi strati della popolazione, anche quelli finora i più conservatori e sostenitori del regime iraniano. Nella notte di giovedì in una piccola città nel deserto dell’Iran, dove era nato e cresciuto Khomeini, fondatore della Repubblica islamica, i manifestanti hanno dato fuoco alla sua casa-museo, luogo santo e storico altamente simbolico del regime. È stato dunque distrutto il sito che celebra il padre dello stato teocratico iraniano. È stato questo un gesto altamente simbolico che mostra che questa rivoluzione mira a un cambiamento radicale. I manifestanti hanno voluto in questo modo lanciare un messaggio preciso attaccando tutti i simboli del regime esaltati dalla propaganda messa in atto in questi 43 anni di oppressione. Anche nella città santa sciita di Qom, cuore del conservatorismo della Repubblica islamica dell’Iran, e sacra ai mullah i manifestanti hanno incendiato per te dell’edificio del Seminario della scuola religiosa più prestigiosa del paese. Il 16 novembre segna una data storica di questa rivoluzionaria pacifica e nonviolenta: la caduta di tutti i simboli del regime. Intanto donne e uomini cantano e ballano insieme nelle strade, nelle piazze e nelle metropolitane di Tehran, anche se è vietato e se si rischia la fustigazione e il carcere; anche se i pasdaran e le forze basij sparano contro di loro. “La liberazione dell’Iran è vicina”, cantano come in un sogno che all’alba non muore, saltellano sventolando un pezzo di stoffa e intonando canti di liberazione mentre per le strade di Shiraz scoppia l’amore e c’è chi si bacia all’aperto! Da nord a sud, da est a ovest, uomini e donne si tengono per mano e fanno il girotondo. È questa la rivoluzione scatenata dalle donne dopo la morte della ventiduenne curda- iraniana Mahsa Amina, uccisa dalla cosiddetta “polizia morale” in una caserma, pacifica e nonviolenta in un paese in cui per uomini e donne era vietato cantare e ballare in pubblico. I giovani iraniani sono consapevoli che ‘la vita può essere vissuta in modo diverso’ e non vedono altra speranza se non quella del salvifico abbattimento di questo regime orrifico. La nuova generazione è molto determinata a liberarsi della teocrazia, come se il proprio paese fosse stato occupato da mostri, da essere alieni venuti dallo spazio che li ha ghermiti e ridotti alla segregazione. La video blogger di 16 anni, Sarina Ismailzade, uccisa il 23 settembre a manganellate in testa dalle forze basij durante una protesta a Gohardasht, nella provincia di Alborz, aveva riassunto questo atteggiamento in un suo video-clip sul suo canale YouTube, poche ore prima della sua morte: ‘ Non siamo come la generazione di 20 anni fa che non sapeva cosa fosse la vita al di fuori dell’Iran. Ci chiediamo perché non possiamo divertirci come le adolescenti di New York o Los Angeles’. Sarina in un altro suo video cantava la canzone del musicista irlandese Hozier, ‘Take Me to Church’, che per le donne, in questa Rivoluzione, è diventato un inno alla libertà e all’amore per i quali si può morire. Questi giovani combattono per le strade del loro paese, pacificamente, a mani nude, contro un regime armato fino ai denti, pronte a rischiare tutto. I loro slogan più frequenti sono: “Via i mullah!”, “Mullah andate al diavolo!”, “Vogliamo essere lasciati in pace”, “Via la Repubblica islamica dall’Iran”. I manifestanti, non stanno chiedendo all’Occidente un sostegno per abbattere il regime, perché non ne hanno bisogno: ad abbattere la Repubblica islamica stanno pensando loro mettendo in gioco la propria vita, ma chiedono alla comunità internazionale, semplicemente, di non sostenere più un regime criminale che li opprime. Le coraggiose ragazze dell’hijab sono ora diventate l’incubo di Ali Khamenei. A Tehran, nel sessantesimo giorno dall’assassinio di Mahsa Amini, un folto gruppo di manifestanti si è incamminato lungo Via della Repubblica islamica, diretto verso la casa della guida suprema al grido di “Morte al dittatore”. In quest’ultima settimana le manifestazioni sono entrate in una fase decisiva anche perché ai giovani si sono uniti i commercianti dei bazar notoriamente conservatori e sostenitori del regime islamico che furono decisivi nella rivoluzione khomeinista. Si registrano scioperi anche nel settore petrolchimico che se proseguiranno paralizzeranno la macchina economica del sistema. Manifestazioni e marce si registrano in ogni regione del paese. L’età della maggior parte dei manifestanti è al disotto dei trent’anni e tra questi, un gran numero di adolescenti. La fascia di età tra i trenta e i quarant’anni non si è ancora completamente mobilitata, ma se ciò dovesse accadere in una megalopoli come Tehran, ad esempio, avremmo in piazza milioni di persone e il regime sarebbe destinato al definitivo crollo. Da Shiraz a Naziabad, da Tehran, a Isfahan a Mashhad e Kerman, dal Kurdistan iraniano con Sanandaj e Mahabad, dalla regione dell’Azerbaigian occidentale al Sistan- Balucistan, negozianti si sono rifiutati di aprire i loro esercizi commerciali e sono scesi in strada. È lo sciopero nazionale più vasto nell’era della Repubblica islamica. Ora è come se le l’Iran fosse fuori dal controllo del regime e le donne e gli uomini fossero padroni delle strade e delle piazze dove far sentire il grido di libertà. Il sessantesimo giorno di rivoluzione è diventato un mercoledì di sangue per Izeh, nella provincia del Khuzestan, a sudovest dell’Iran. La città si è coperta di sangue: oltre 850 feriti e numerosi morti. Medici e infermieri sono mobilitati a tempo pieno per soccorrere e curare i feriti. A Izeh il regime islamico sembra aver portato l’inferno sulla terra. Burhan Kerami è una delle decine di vittime di mercoledì nella città di Kamiyaran, freddato per strada durante l’insurrezione popolare, colpito al volto dal fuoco diretto delle milizie di Khamenei. Kian Pirfalak, era un bambino di 10 anni, colpito nell’inferno di Izeh, davanti agli occhi di suo padre, dal fuoco delle fucilate del Corpo delle guardie rivoluzionarie. Le autorità iraniane sono disperate e giocano la carta del terrorismo, sparano contro i manifestanti nelle strade e anche nelle metropolitane e sugli autobus. La tenacia dei giovani disarmati sorprende il Corpo delle guardie rivoluzione e le forze paramilitari basij che erano abituate a disperdere la folla a colpi d’arma da fuoco, ma questa volta si trovano davanti giovani a mani nude che li sfidano e non hanno paura e questo genera in loro stupore e sconcerto. Si trovano davanti a qualcosa di assolutamente nuovo e questo sta creando una crepa all’interno delle forze del regime. Sono diversi i casi che ci vengono segnalati di insubordinazioni, di fughe di membri del Corpo delle guardie rivoluzionarie e delle basij, tanto che il regime è costretto a reclutare forze straniere come le brigate Fatemiyoun afgane e le brigate irachene filoiraniane. Ma anche queste stanno incontrando molte difficoltà perché non conoscono l’Iran, non conoscono il territorio iraniano. Il regime si troverebbe a suo agio se avesse dinanzi una rivolta violenta, anziché giovani disarmati. Per questo la strategia delle autorità iraniane è quella di usare la forza più feroce per trascinare nelle proteste gruppi di opposizione e partiti curdi con le loro ale armate e scatenare la reazione violenta nella popolazione, compresa quella della vasta minoranza curda, nel tentativo di far perdere il vasto consenso e le simpatie che vi sono nel paese verso i giovani manifestanti e dividere l’opinione pubblica movendo anche la leva del nazionalismo agitando lo spettro del separatismo, del ritorno della monarchia, della minaccia dei mujaidin, come nelle manifestazioni degli anni precedenti. Ma ciò non sta riuscendo perché anche i partiti curdi si astengono da ogni violenza. La Repubblica islamica riusciva a spaventare in questo modo la popolazione e a mandare tutti a casa, ma questa volta i giovani non ascoltano più quei messaggi, non hanno più alcuna paura, sono tutti votati al cambiamento per costruire una Repubblica laica, democratica fondata sullo stato di diritto e sul rispetto dei diritti umani fondamentali. Il regime sta già cercando di far mediare ai riformisti come l’ex presidente Mohammad Khatami, al quale, per la prima volta dopo 10 anni, hanno concesso di rilasciare un’intervista. Gli hanno dato visibilità nel tentativo di calmare un po’ le acque tempestose della rivolta. Il regime pensa di lasciare piccoli spazi di libertà per sedare le rivolte e si nota già un allentamento dei controlli sul velo, ma i manifestanti vogliono aprire una pagina nuova.