Lettera aperta al giornalista del Fatto quotidiano, a proposito dei “boss editorialisti” Ristretti Orizzonti, 18 novembre 2022 Gentile Marco Grasso, naturalmente ho letto il suo articolo, e potrei affannarmi a cercare di spiegare che la nostra Costituzione non esclude nessuno dalla possibilità della rieducazione, e che per quel che riguarda i circuiti di Alta Sicurezza “l’assegnazione ad un circuito penitenziario non comporta alcuna deminutio nella titolarità dei diritti del detenuto, potendo soltanto implicare l’allocazione in sezioni particolarmente sicure” (come scrive Federico Falzone, magistrato, uno dei massimi esperti in materia, nell’articolo “Il circuito detentivo dell’alta sicurezza e il procedimento di declassificazione”). Se quindi a Genova in redazione sono tutti “ex mafiosi” (ma chi ha stabilito che un essere umano resti mafioso a vita?) è perché nelle sezioni AS c’è solo questa tipologia di detenuti, mentre per esempio a Padova la redazione è composta da detenuti comuni e detenuti AS, perché abbiamo chiesto l’autorizzazione a sperimentare questo tipo di confronto. Comunque sono anch’io giornalista, e un giornalista credo che debba essere “strutturalmente” curioso: allora le faccio un invito, perché non viene nella redazione di Ristretti Orizzonti a Padova, e accetta di provare a dialogare con tutti, compresi gli “ex mafiosi”? ex mafiosi che, è vero, non hanno collaborato, se no non sarebbero in carcere da trenta e più anni, ma non l’hanno fatto per lo più per non distruggere le loro famiglie, i figli, i nipoti che hanno una loro vita e non vorrebbero mai vivere sotto protezione. E questo lo ha riconosciuto anche la Corte Costituzionale, quindi io credo di essere “in linea” con la Costituzione più di chi insorge se un ergastolano ostativo porta la sua testimonianza su come si vive con una condanna a “una pena di morte nascosta”, come definisce l’ergastolo Papa Francesco. Grazie dell’attenzione, spero che accetti il mio invito. Ornella Favero Gentile Ornella Favero, se fossimo riusciti a scambiare una parola avrei messo certamente una sua battuta all’interno del mio articolo, che era un po’ la ragione per cui l’avevo contattata. Conosco e rispetto le posizioni che mi esprime in questa lettera, garbata e argomentata, (perlopiù) sull’ergastolo ostativo e sul regime di detenzione di alta sicurezza. Gli argomenti che solleva non possono non interrogare qualunque persona che si sia mai posta seri interrogativi sull’efficacia e la legittimazione del diritto penale, e sul rapporto contraddittorio che hanno questi sistemi con le società in cui sono inseriti. Questo, per dirle innanzitutto, che a prescindere dal mio articolo, non ho difficoltà a riconoscere la validità dei suoi argomenti, anche se probabilmente, se ci trovassimo a discutere, non saremmo d’accordo su molte cose. E non ne farei necessariamente una questione di quale opinione sia più in linea con la Costituzione: che la pena debba tendere alla rieducazione è sicuramente un principio costituzionale indiscutibile; per altro verso, la lotta al fenomeno mafioso, la difesa della società sana, delle vittime della mafia, delle regole che dovrebbero tutelare i cittadini e fornire loro protezione e possibilità, ritengo sia principio altrettanto importante per difendere la Costituzione (dello Stato italiano, appunto, sfidato sul suo campo, o se preferisce cooptato quando non corrotto, da un antistato). Non mi sento di escludere la possibilità questi principi, come altri, nella pratica possano entrare in contraddizione. E, a prescindere da come possa aver inteso il mio articolo, sono domande che non smetto di pormi.  Certo, come conosco le posizioni di contrarietà all’ergastolo e al 41 bis, conosco e condivido anche l’opinione di autorevoli magistrati antimafia (non tutti vivi) sull’importanza in chiave antimafia di leggi come quella sul 41 bis, la legge Pio La Torre, o altri provvedimenti che, visti da società che conoscono marginalmente questi fenomeni, o forse preferiscono solo sfruttarne il potenziale economico e finanziario, potrebbero apparire come leggi speciali, restrittive di principi di libertà.  Sono certo che sulla rieducazione e le carceri avrei molto da ascoltare dalla sua esperienza. Sul fenomeno mafioso, che conosco meglio, mi permetta però di sottolinearle un aspetto. Lei mi chiede: un mafioso deve restarlo per sempre? La risposta ovviamente è no. Ma, per quel che ho potuto approfondire del fenomeno, non si esce da queste organizzazioni e dalle loro regole come da un club, semplicemente evitando di rinnovare la tessera. Ecco perché, in risposta alla sua domanda, gliene pongo una io: è possibile davvero abbandonare quel mondo senza rompere in modo traumatico? È davvero sempre e solo un problema di protezione dei familiari ciò che spinge un mafioso, ex o non, che decide di non collaborare? Arrivati a questo punto, spero che possa interpretare il mio articolo non come una messa all’indice della vostra associazione, di cui ho sottolineato l’attività meritoria, né delle legittime campagne che porta avanti (opinioni che, in questo periodo storico, sono più condivise in modo trasversale di quelle che le sto esprimendo), piuttosto solleva alcune delle tante contraddizioni che ci circondano, e che spesso, come giornalisti, ci portano a scrivere e porre domande.  Condivido con lei l’approccio della curiosità e accetto volentieri il suo invito. Non so bene quando riuscirò a passare da quelle parti, ma mi farebbe molto piacere organizzare la visita. Un cordiale saluto. Marco Grasso  Basta ossessioni punitive. Fermare i suicidi in carcere si può di Giuliano Pisapia Il Dubbio, 18 novembre 2022 La condizione delle nostre carceri non è degna di un paese “culla del diritto”, tanto culla del diritto, che la giustizia “si è addormentata”. Se si scrive o si parla di carcere non si può non ricordare Dostoevskij e la sua celebre frase tratta da Delitto e Castigo “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. È davanti agli occhi di tutti come, salvo rare eccezioni, le nostre prigioni siano al di sotto di un autentico livello di civiltà e non in grado di rispettare il dettato costituzionale della rieducazione del condannato. Non è accettabile che, dall’inizio dell’anno, 186 detenuti siano morti in carcere tra cui 77 per suicidio e 27 per cause da accertare. Per questi, e per molti altri motivi, condivido l’appello de “Il Dubbio”, così come condivido la definizione di questa ecatombe. È vero: è un’autentica “strage” e bisogna chiamarla e definirla per quello che è per cercare di squarciare il silenzio assordante che avvolge la dimensione carcere nel dibattito politico. È difficile avere fiducia e sperare in un cambio di prospettiva positivo per il mondo carcerario. I segnali negativi sono, purtroppo, già evidenti. Salvo importanti, ma rare, eccezioni il panpenalismo domina la visione che la maggioranza parlamentare ha sui temi del carcere e, più in generale, della giustizia. Domina ancora una visione di “diritto penale totale” che è l’esatto contrario di quello di cui avrebbe bisogno la nostra giustizia penale, ossia depenalizzazioni dei reati meno gravi e rafforzamento della giustizia riparativa approvata, ma non ancora realizzata, con la riforma Cartabia. Il sovraffollamento delle carceri è un tema che non si risolve solo e soltanto con la realizzazione di nuove strutture. Sappiamo quanto un annoso problema sia legato alla carcerazione preventiva e ai suoi, purtroppo non rari, abusi. In carcere vi sono spesso persone che non dovrebbero esserci. Basti pensare ai tanti tossicodipendenti che non si aiutano con l’arresto e la condanna ma con l’assistenza e, se necessario, la cura. “Il Dubbio” sta portando avanti una battaglia di legalità, di giustizia e di rispetto dei diritti umani con proposte giuste e realizzabili. Il contatto con l’esterno è fondamentale e l’aumento delle telefonate a disposizione dei detenuti può essere una via. Fa specie che sia ancora in vigore un regolamento penitenziario approvato 22 anni fa che prevede una sola chiamata alla settimana. L’aumento degli spazi da dedicare ai familiari è umanamente doveroso. Penso a luoghi protetti per gli incontri con i figli, anche minorenni. Cose che all’estero sono all’ordine del giorno e da noi rare eccezioni. Si è visto quanto il lockdown causato dal Covid 19 abbia creato ulteriori disagi alla popolazione carceraria. Disagio esploso non solo con le rivolte ma con un aumento delle problematiche psicofisiche. La drammatica carenza di psicologi e psichiatri nelle strutture penitenziarie non è degna di un paese “culla del diritto” (tanto culla del diritto, diceva qualcuno, che la giustizia “si è addormentata”). È assolutamente necessario un cambio di passo; l’accoglimento delle proposte della petizione sarebbe un importante passo in avanti per dimostrare che il nostro Paese rispetta i princìpi costituzionali e i princìpi base di uno Stato di diritto. Ed eviterebbe ulteriori condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per le condizioni disumane delle nostre carceri. Da parte mia porterò all’attenzione delle Istituzioni comunitarie questa vostra, e nostra, battaglia di civiltà. Fermiamo la strage dei suicidi in carcere, qui ed ora… Si può! Firma la petizione del Dubbio su Change.org: https://www.change.org/stopsuicidicarcere Manconi: “Suicidi 16 volte più frequenti, la soluzione è abolire il carcere” di Luca Pons fanpage.it, 18 novembre 2022 Il giornalista e sociologo Luigi Manconi parla dell’altissimo numeri di suicidi in carcere (77) che si è registrato quest’anno. Il primo problema è “l’impatto” dei detenuti con il carcere, una vera e propria “società straniera”, e “l’unica prospettiva seria” sarebbe di abolirlo. “Entrare in carcere non è come arrivare in un hotel, magari in pessime condizioni. È l’accesso a un universo totalmente estraneo, una società straniera, dove tutto è sconosciuto: la lingua che si parla e la gerarchia interna, i costumi e le regole”. Luigi Manconi, docente di Sociologia dei fenomeni politici e presidente della Onlus A buon diritto, commenta in un’intervista a Fanpage.it il dato sui suicidi in carcere: nel 2022 sono già 77, il numero più alto in Italia da almeno 40 anni. Nelle carceri italiane, la capienza massima sarebbe di circa 50mila persone, ma oggi ce ne sono più di 56mila. Il sovraffollamento può aiutare a spiegare l’alto numero di suicidi? Il sovraffollamento è una delle cause, non penso che sia la principale. Dalle ricerche che ho fatto qualche anno fa - e che non mi risulta siano state smentite - la frequenza dei suicidi risultava maggiore nelle carceri più affollate. Ma direi che la causa principale è quello che chiamerei “l’impatto” tra il detenuto e il sistema penitenziario. In che senso? Molti di coloro che si sono suicidati erano entrati in carcere per la prima volta. L’ingresso in carcere è come l’accesso a una società straniera, dove tutto è sconosciuto. L’impatto con questa società straniera determina quella crisi che può portare all’autolesionismo e al suicidio. Poi ci sono tutte le altre ragioni: il sovraffollamento gioca un ruolo importante, perché chi entra in carcere è costretto immediatamente a dividere con gli altri, e spesso a contendere agli altri, le risorse elementari. Lo spazio, ma anche i servizi, la doccia… A conferma di questo, sempre facendo riferimento alle mie ricerche, avevo rilevato che un elevato numero di suicidi avveniva nel primissimo tempo: per questo parlo di “impatto”, molti suicidi hanno luogo addirittura nei primi tre giorni di detenzione. Ci sono dei dati particolarmente importanti per raccontare la situazione di oggi? Sì, due sono impressionanti. Il primo: un numero così elevato di suicidi c’è stato solo quando il numero di detenuti superiori era superiore di quasi 10mila unità rispetto a oggi. Nel 2009, ci furono 72 suicidi. Ma i detenuti erano quasi 65mila. Il secondo dato è che la frequenza di suicidi tra le persone detenute è circa 16 volte maggiore dei suicidi tra le persone in libertà. Sono numeri che fanno impressione. (Secondo i dati dell’Oms e dell’amministrazione penitenziaria italiana, nel 2019 il tasso di suicidi in Italia è stato di 0,67 ogni 10mila persone, in carcere sono stati 8,7 suicidi ogni 10mila, oltre 13 volte di più, ndr). Ci sono stati tentativi dello Stato di intervenire sul “primo impatto” con il carcere? Quando mi trovai a fare il sottosegretario alla Giustizia con delega al carcere, tra il 2006 e il 2008 (nel governo Prodi, ndr), promossi insieme all’amministrazione penitenziaria la creazione di quelli che vengono chiamati “reparti nuovi giunti”. Purtroppo, la loro diffusione è limitata, in moltissimi carceri queste sezioni dedicate alle persone appena entrate non ci sono o non garantiscono l’attenzione e i servizi necessari. Secondo lei quale sarebbe la soluzione migliore? Come dico da anni, io penso che l’unica prospettiva seria, razionale e utile sia l’abolizione del carcere, ovvero la riduzione del carcere a extrema ratio. Secondo l’amministrazione penitenziaria, appena il 10% dei reclusi è socialmente pericoloso. Noi dobbiamo pensare a un carcere che metta nelle condizioni di non nuocere quel 10%. Ma questo significherebbe detenere, oggi, 5.500 persone invece di 55mila. Il carcere può essere definito con tre aggettivi: è patogeno, perché produce malattia, depressione e morte; è criminogeno, perché riproduce all’infinito crimini e criminali; e in ultimo è insensato, nel senso letterale del termine, è privo di un suo senso e una sua utilità, per l’individuo e per la società. L’abolizione del carcere non è un’utopia? No, anzi. Non c’è nulla di utopistico in questo, è l’unica prospettiva intelligente. Per esempio, ci sono quasi 5mila persone che oggi sono in carcere perché condannate a una pena detentiva inferiore ai 2 anni. Questo dimostra il carattere insensato del carcere. Per loro, la detenzione è priva di qualunque efficacia o utilità. È pura afflizione, mero accanimento. Dunque perché infliggerlo? Che utilità sociale ha? Quale contributo porta la loro detenzione alla sicurezza collettiva? Nessuno. In quest’ottica, il carcere perde di senso anche per le categorie di popolazione più ‘fragili’... Esatto. Circa un terzo dei detenuti è in carcere per violazione del testo unico sulle sostanze stupefacenti. Un numero elevato di loro è tossicodipendente. Dove dovrebbero stare le persone tossicodipendenti? Ovunque tranne che in carcere. Dove dovrebbero stare quei migranti che sono finiti in carcere per un illecito amministrativo, cioè il mancato possesso del permesso di ingresso e soggiorno? Partendo da un illecito amministrativo, si avvia in carcere quella spirale che porta a commettere reati maggiori. Quindi, la sola cosa davvero utile per la sicurezza di tutti, incluse le persone libere, è ridurre al minimo il ricorso al carcere. Su questo come le sembra si ponga il governo Meloni? La tendenza è quella esattamente opposta: espandere al massimo il ricorso alla carcerazione. Quando la prima iniziativa dell’attuale governo è inventare un nuovo reato, si fa esattamente questo. In termine giuridici si parla di pan-penalismo: si estende la sanzione penale a una serie sempre più ampia di comportamenti. Lei è presidente di A buon diritto, una onlus che si occupa si occupa di privazione della libertà e immigrazione, tra le altre cose. Cosa può fare chi si interessa al mondo del carcere? In questo momento non abbiamo iniziative specifiche, ma c’è una cosa che deve fare chi si interessa: cercare di entrare in carcere, di conoscerlo. Il carcere rappresenta, nell’inconscio, il luogo dove è recluso il male. Dunque, siccome inconsciamente avvertiamo che lì sono reclusi coloro che hanno ceduto alla tentazione del male, e siccome la tentazione del male è conosciuta anche da coloro che al male resistono, il carcere è un fattore di inquietudine e preferiamo ignorarlo. La politica opera in questa direzione, affinché lo sguardo della collettività non incontri il carcere: basta pensare che tutte le nuove carceri sono state costruite fuori dalla cinta cittadina. Di recente ha parlato di Alfredo Cospito e ha sottolineato che sta scontando un ergastolo con il regime di 41-bis nonostante i suoi reati non abbiano avuto vittime. Cospito è in sciopero della fame dal 20 ottobre per protestare le condizioni in cui è detenuto. La sua vicenda si collega al tema dei suicidi in carcere? La protesta di Cospito ci racconta molto di tutto questo. Il regime di 41-bis, il regime di alta sicurezza e il carcere in sé privano della capacità di sentire e vedere, nel senso fisico e letterale: si chiama deprivazione sensoriale, a lungo andare i sensi vengono indeboliti. E, soprattutto, tolgono la capacità di entrare in relazione con l’esterno, con gli altri. Tutto ciò determina la condizione di privazione, di depressione, che in determinate circostanze può portare a fenomeni di autolesionismo, che sono molto diffusi, e in un numero crescente di casi al suicidio. “Oltre il 40% dei detenuti, compresi i minori, fa uso di psicofarmaci” di Manuela Boggia dire.it, 18 novembre 2022 Il direttore dell’Istituto penale minorile di Nisida Gianluca Guida: “Non è un fenomeno legato alla detenzione, dietro c’è un bisogno inascoltato”. “Oltre il 40% delle persone detenute (compresi i minori) fa uso di psicofarmaci. La risposta che solitamente viene data è che la condizione detentiva stessa porta a fare uso di questi farmaci. In realtà, ascoltando le storie raccontate dai ragazzi, viene fuori che l’utilizzo dello psicofarmaco è un’esperienza che hanno fatto già in età infantile. È una prassi estremamente diffusa ma è un tema che non ci deve allarmare come fenomeno in quanto tale, piuttosto ci deve allarmare il bisogno che è sotteso dietro a questa prassi”. Lo ha detto Gianluca Guida, direttore dell’Istituto penale minorile di Nisida (Na), intervenendo nel corso dell’evento ‘Riscoprire il futuro. Diritti, responsabilità e percorsi nel sistema penale minorile’ organizzato dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza in occasione della Giornata mondiale dell’infanzia in programma domenica 20 novembre. “Abbiamo sempre più ragazzi che cercano di sedare le loro emozioni, di nascondersi rispetto alle loro responsabilità e trovano formule diverse per dare soddisfazione a questi bisogni - continua Guida - molto spesso l’esasperazione di queste formule porta ad adottare atteggiamenti devianti che ricadono anche in comportamenti criminali”. Per Guida “se non prendiamo coscienza che l’esperienza di devianza di questi ragazzi nasce da un bisogno primordiale che è quello di essere ascoltati, soprattutto nelle loro paure, nelle loro difficoltà, anche talvolta nella loro inidoneità ad affrontare le sfide che gli sono state poste davanti- evidenzia il direttore dell’Istituto penale minorile- non riusciremo a risolvere alla radice le condizioni che hanno generato la devianza e quindi non riusciremo a dare alla società una risposta. Quel bisogno di sicurezza che la società si aspetta dalla pena e dal carcere non potrà sicuramente essere assecondato se non riusciremo a dare risposta a questi bisogni primordiali”. “Il primo strumento - continua Guida - è quello di mettersi all’ascolto dei ragazzi, ossia dargli la possibilità di avere una relazione che possa essere costruttiva e di fiducia. Poi dovremo aiutarli a riconoscere negli altri la possibilità di costruire relazioni che nutrano. Questo - evidenzia Guida - è uno dei temi che ritorna spesso nelle storie dei nostri ragazzi: l’aver avuto contatto con persone, nell’ambito familiare o sociale, che hanno in qualche modo violato la loro identità che non hanno aiutato i loro percorsi di crescita. Dobbiamo permettergli di riconoscere il valore delle relazioni e soprattutto il valore di quelle relazioni che consentono a ciascuno di noi di potenziare le proprie capacità e di riconoscere la propria forza interiore”. “No al 41 bis per l’anarchico Alfredo” di Fulvio Fulvi Avvenire, 18 novembre 2022 Lettera aperta di 70 penalisti sul caso Cospito: non è un boss, non serve il carcere duro. Manconi: mi appello al Dap, neppure il medico riesce a visitarlo. L’uomo è sottoposto all’ergastolo ostativo nel carcere di Sassari. Dal 20 ottobre fa lo sciopero della fame, mentre cresce la mobilitazione per lui. condannato all’ergastolo ostativo, l’anarchico Alfredo Cospito sta scontando la sua pena nel carcere sassarese di Bancali. Notte e giorno dentro una piccola cella senza finestre e con una rete sul tetto da cui traspare il cielo a scacchi, unico contatto con l’ambiente esterno. Il detenuto, in stato di isolamento, può uscire da quelle quattro pareti di cemento solo una volta al giorno, per l’ora d’aria. E poi basta. È il rigido regime del 41bis. È vero, l’anarchico Cospito è finito dentro per “strage contro la sicurezza dello Stato”. Così è scritto nella sentenza della Cassazione. Secondo i giudici con l’ermellino, infatti, fu lui, insieme a una complice, nella notte fra il 2 e il 3 giugno del 2006, a far esplodere due pacchi bomba a basso potenziale nella Scuola allievi carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo. Non vi furono morti né feriti e nemmeno seri danni alla struttura. Però è terrorismo. Dal 20 ottobre scorso il detenuto, 55 anni, originario di Pescara ma residente a Torino, fa lo sciopero della fame. Non mangia e ha perso finora più di 20 chili. Ma perché il “prigioniero” si ostina a rifiutare, con questo gesto estremo, la pena che gli è stata applicata? E perché a sostegno del suo caso si è formato in questi mesi in Italia e all’estero un largo movimento con petizioni, appelli e iniziative di protesta? Cerchiamo qui di capire le ragioni. Nel primo e nel secondo grado di giudizio, il reato ascritto a Cospito era qualificato come “delitto contro la pubblica incolumità”, ma nel luglio scorso la Suprema Corte ha modificato l’imputazione nel ben più grave reato di “strage volta ad attentare alla sicurezza dello Stato” (art. 285 del codice penale). L’ergastolano non ha mai collaborato con la magistratura, perciò, secondo la legge, gli è stata applicata l’ostatività: ovvero il “fine pena mai” senza possibilità di libertà condizionata né benefici. Eva anche detto che, prima di questa “svolta giudiziaria”, pur essendo sottoposto al regime di Alta Sicurezza: Cospito, come gli altri detenuti nella sua condizione, poteva comunicare con l’esterno, scrivere e ricevere la corrispondenza, mentre ora le lettere gli vengono trattenute. La sua vita in regime di “carcere duro” è un buio assoluto. Senza prospettive. Praticamente sepolto vivo. Eppure Alfredo Cospito non è un criminale comune e neppure un mafioso stragista. Ha le sue responsabilità, certo, e non si tira indietro. Lo sciopero della fame è l’unico grido possibile che gli rimane contro l’applicazione del 41bis. Vale per lui e per gli altri nella sua medesima condizione. A sostenere questa causa, tra gli altri, il sociologo ed ex parlamentare Luigi Manconi, che ha anche rivolto un appello al capo del Dap (Dipartimento dell’amministrazione giudiziaria), Carlo Renoldi, “affinché a Cospito sta garantita la migliore assistenza”, visto che la dottoressa che deve monitorare le sue condizioni fisiche in questi giorni ha avuto difficoltà persino a incontrarlo. Intanto i legali del condannato hanno presentato un’istanza di reclamo contro l’applicazione del 41 bis nei suoi confronti: verrà esaminata il primo dicembre. Settanta avvocati penalisti italiani hanno inviato una lettera aperta ai mass media per sollecitare interventi della stampa sul caso Cospito. E ieri, un messaggio di solidarietà all’esponente anarchico è stato affisso sulla facciata del Palazzo di giustizia di Torino. Cala la tensione sul testo Cartabia. Il nuovo equilibrio fra Nordio e i partiti di Errico Novi Il Dubbio, 18 novembre 2022 Dopo l’iniziale impennata, si profila la tregua nella politica giudiziaria della maggioranza. In perfetta coerenza con la linea della premier Meloni, ha parlato di “lavoro nei penitenziari” e anche di “sport”, ha ricordato la necessità di rilanciare l’edilizia carceraria, ma non ha fatto cenno a soluzioni per limitare il ricorso alle pene inframurarie. D’altra parte, alcuni di quegli strumenti sono già disponibili nella riforma Cartabia. In cui si prevede un maggiore ricorso alle misure alternative, anche nel senso di renderne l’applicazione possibile fin dalla sentenza di condanna. La Riforma Cartabia come “prova di tenuta” - Ora, il testo messo a punto dalla ex guardasigilli è uno snodo chiave, una prova di tenuta, per Nordio e per la sua maggioranza. Nel senso che, se nella coalizione di governo qualche esponente delle due forze più “intransigenti”, FdI e Lega, provasse a scalfire anche solo un po’ l’orientamento garantista della riforma, allora in quel caso Nordio dovrebbe fare appello a tutta la propria abilità diplomatica per incassare il colpo senza mettere in crisi il suo rapporto con i partiti di riferimento. Ma si tratta di uno scenario che, con il passare dei giorni, sembra allontanarsi. L’altro ieri, in commissione Giustizia al Senato, ha cominciato a entrare nel vivo l’esame del decreto 162, che com’è noto contiene norme sui rave, sul covid, ma anche sull’ergastolo ostativo e sulla riforma Cartabia, nel senso che ne sospende l’entrata in vigore. A rappresentare il governo nel parlamentino di Palazzo Madama è stato il sottosegretario Andrea Ostellari, e a leggere la relazione introduttiva ha provveduto un’altra leghista, la presidente Giulia Bongiorno, che è anche relatrice del ddl di conversione. L’accenno di Bongiorno ai paradossi del rinvio - Nessun particolare rilievo politico, eppure, almeno in un passaggio, Bongiorno ha dato l’impressione di voler valorizzare la portata garantista della riforma Cartabia. In particolare quando ha ricordato “l’ordinanza dello scorso 11 novembre” con cui “il Tribunale di Siena ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 6 del decreto”. E quell’articolo, ha tenuto a sottolineare la presidente della commissione Giustizia, nel rinviare l’entrata in vigore del testo Cartabia, ha “di fatto esteso la procedibilità d’ufficio per quei reati che la riforma penale aveva deciso di rendere perseguibili solo a querela, “precludendo così il riconoscimento di già maturate fattispecie estintive della punibilità, in evidente assenza di sufficienti ragioni che possano giustificare il diverso e più deteriore trattamento penale che consegue alla vigenza della censurata disposizione” “. Nota, arricchita dalla citazione dell’ordinanza senese, non proprio neutrale: soprattutto nel senso che tende a non contemplare neppure l’ipotesi che una norma garantista come quella richiamata nell’istanza di remissione alla Consulta possa essere cancellata in Parlamento. Poi certo, le scelte dei partiti per le audizioni di martedì prossimo - Forza Italia ha chiamato due alfieri del garantismo come Gian Domenico Caiazza e Vittorio Manes, il Pd un co- autore della riforma come Gian Luigi Gatta - possono anche far pensare ad armi che si affilano in vista del conflitto. Ma più di un senatore di maggioranza, dalla commissione, spiega che è “assai improbabile” un intervento di modifica sulla riforma penale. Ci si comincia a rendere conto, oltretutto, che i contenuti di quell’intervento sono indispensabili anche in ottica Pnrr. E così, col passare dei giorni, anche in Fratelli d’Italia si è assai raffreddata l’ipotesi di modificare le novità introdotte dalla riforma in campo sanzionatorio. Tanto più che aver rinviato anche quella specifica parte del testo Cartabia ha già innescato una semiparalisi dell’attività penale, come riferito ieri su queste pagine. Dalla fiammata del dl 162 all’assestamento - Nei primissimi giorni di vita del nuovo esecutivo, con il decreto 162 che, appunto, ha riguardato pure ergastolo ostativo e processo penale, la premier Giorgia Meloni ha anche accarezzato l’idea di una linea più stringente sulla giustizia. Ma si è trattato del combinato disposto di vari fattori: dall’appetibilità di un rapido intervento sui rave, promosso peraltro dal Viminale più che da Palazzo Chigi, fino all’oggettivo rischio che la Consulta, senza un testo vigente sull’ostativo, potesse sdoganare senza argini la liberazione condizionale degli ergastolani di mafia. In più ci si sono messe le richieste dei magistrati per una disciplina transitoria sul penale. Un mix di slancio politico e circostanze emergenziali che ha prodotto l’iniziale fiammata sulla giustizia: ora quel fuoco tende decisamente a placarsi. A via Arenula, un assetto “duale” che impone cautela - Entrano in gioco vari altri fattori. Il fatto che a via Arenula si sia disegnato un assetto da Berlino del dopoguerra, con il ministro Nordio e il suo vice, Francesco Paolo Sisto di Forza Italia, interpreti della vocazione più garantista, e i due sottosegretari, il citato Ostellari e Andrea Delmastro di FdI, a presidiare le istanze più intransigenti. Paradossalmente, proprio la convivenza, all’interno dello stesso ministero, fra le due anime della maggioranza, contribuisce a imporre la tregua. Se non ci fosse, la Giustizia, intesa anche come luogo fisico, rischierebbe di diventare sul serio l’epicentro delle tensioni interne al governo. E invece, ieri mattina, a Palazzo Chigi, si è svolta una riunione ristretta in cui Nordio ha discusso delle deleghe da attribuire al viceministro e ai due sottosegretari. Non s’è litigato, non è divampato uno psicodramma. E forse, di qui in avanti, per un concorso di fattori, la coalizione di governo affinerà sempre più la capacità di evitare che, sulla giustizia, si creino attriti pericolosi. Gratteri al Dap? Caro Nordio, cerchi di non perdere la faccia di Otello Lupacchini Il Riformista, 18 novembre 2022 Il procuratore di Catanzaro è quanto di più distante dalla cultura garantista del Guardasigilli: non si affidano le carceri a chi ha fatto inchieste show senza costrutto. A fronte dei rumors circa le grandi manovre in corso per insediare il dottor Nicola Gratteri al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, mi sorge spontanea la domanda, considerata la vocazione di “Rattenfänger” o “ciaparat” che dir si voglia, confessata ore rotundo dall’odierno procuratore della Repubblica di Catanzaro, se sia assurta, fra le altre, a irrinunciabile “priorità” del Gabinetto Meloni, anche la “derattizzazione” degli Istituti di pena della nostra amata Patria. Il pretesto per avanzare un simile interrogativo mi è offerto dalla lettura di un passo delle Memorie dell’architetto Andreï Mikhaïlovitch Dostoevskï, fratello del più noto Fëdor, relativo a una delle brutte “sorprese” riservategli dalla cella in cui era stato rinchiuso dopo una giornata e parte della notte trascorse nella “terza sezione” degli uffici della polizia moscovita, a seguito dell’arresto per motivi politici patito il 23 aprile del 1849, “Non appena si fece buio, e mi portarono il lumino”, racconta, infatti, Andreï Mikhaïlovitch, “piano piano cominciarono a comparire dei ratti di dimensioni enormi (…). Talora ce n’erano dieci alla volta e io, temendo che si arrampicassero nella mia cuccetta, non dormivo, fino all’alba. Non riuscivo a capire da dove saltassero fuori (…). Alla luce del giorno non si vedevano. Ma bisogna pur dire che era fine aprile e inizio maggio faceva giorno presto, l’avevo, il tempo per dormire. Oltretutto, dormivo sempre anche di pomeriggio, dopo pranzo”. Non mi nascondo il rischio che qualcuno dei tanti, per dirla con Friedrich Nietzsche (Götzen-Dämmerung, 1889), “fari nel mare dell’assurdo”, magari un Maitre ein Stifter dell’”io sto con…”, incistati da grassi parassiti nelle Istituzioni, “mito impossibile”, d’”esaltazione che si toglie la sottana”, potrebbe muovermi la resistibile obiezione che n’è passato di tempo da quando l’architetto Dostoevskï era ospite non di un carcere di questa Nazione, ma di una prigione della Russia zarista, potrebbe muovermi l’accusa, è già successo, del resto, di essere “sarcastico”. Poco male. Conservare la propria allegria in mezzo a faccende oscure e oltremodo gravide di responsabilità, non è artificio da poco, ma del resto cos’è più necessario dell’allegria? Com’è ovvio che sia, il dottor Carlo Nordio, che anche in virtù della sua generalmente riconosciuta cultura garantista è stato insediato al vertice del ministero della Giustizia, certamente, sempre che addirittura non l’abbia già fatto, smentirà sdegnosamente, non solo a parole, naturalmente, ma soprattutto con i fatti, la notizia diffusa da il Riformista. A meno che non voglia “perdere la faccia”. L’Os aureum di Gerace, infatti, non perde occasione, nella sua bulimia mediatica nota lippis et tonsoribus, di ostentare l’allergia per la Costituzione, la fedeltà alla quale, nell’ambito della legislazione penale, è specchio dell’autentica democraticità dello Stato: a prescindere dal suo retorico pessimismo come rigurgito del pranzo sui futuribili in generale del processo penale e specialmente dei “maxiprocessi”, per effetto dell’entrata in vigore della pur timidissima riforma Cartabia, aliena gli è l’idea stessa che teoria generale del reato e funzione della pena non siano due momenti concettuali distinti, posto che dal fine costituzionalmente attribuito alla pena può derivare una connotazione globale e sostanziale dello stesso illecito penale; è altresì fuori dai suoi orizzonti culturali il “nuovo volto” del reato, quale risulta dalla combinazione dei principi desumibili soprattutto, ma non solo, dagli articoli 2, 3, 13, 24, 25 e 27 della Costituzione, come fatto previsto in forma tassativa dalla legge, di realizzazione esclusiva dell’agente o in ogni caso al medesimo riconducibile tramite un atteggiamento colpevole (doloso o colposo), idoneo a offendere un valore costituzionalmente significativo, minacciato con una pena proporzionata anche alla significatività del valore tutelato e strutturalmente caratterizzato dal teleologismo costituzionalmente attribuito alla sanzione penale e, infine, intollerante rispetto ad ogni articolazione probatoria che faccia in qualche modo ricadere sull’imputato l’onere della prova o il rischio della mancata allegazione di elementi di ordine positivo che ne caratterizzano la struttura; al fondo di ogni suo discorso è dato leggere, del resto, il messaggio che tolti lui e quelli che la pensano come lui l’ordine decade a caos, la convinzione, cioè, ch’egli e quelli come lui stiano adempiendo a una sorta di missione salvifica: il male pullula nel mondo, dunque va represso, la scimitarra della giustizia non ha guaine, incombe continuamente. Sintomatico di tutto questo è l’ossessivo susseguirsi, del resto, di “massicce operazioni” o “grandi retate” o “mega blitz” anti-’ndrangheta, con decine e decine, se non addirittura centinaia di arresti, abbattentisi sulla Calabria, per iniziativa della direzione distrettuale antimafia della quale l’Os aureum è a capo; blitz, operazioni e retate che, per dirla con Boncompagno da Signa, “evanescunt sicut umbra lunatica”: dopo le roboanti conferenze stampa promozionali, ben presto esse vengono irrimediabilmente ridimensionate, se non addirittura travolte e totalmente vanificate, nei procedimenti incidentali de libertate, quali riesame e Cassazione, e nei dibattimenti davanti ai tribunali o alle Corti d’assise o alle Corti d’appello o alla Corte di cassazione, le motivazioni dei cui provvedimenti evidenziano, in inquietante sintesi, l’incontenibile pulsione che prova il titolare della funzione d’accusa a punire, purtroppo, senza legge, senza verità, senza colpa. Pur non essendovi evidenza alcuna che il ministro Carlo Nordio sia in qualche modo disponibile a “perdere la faccia” chiamando il dottor Nicola Gratteri al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la vulgata, alimentata dal continuo rincorrersi di voci correnti nel pubblico, vedrebbe un bizzarro sodalizio, quello che chiamerò M.U.F., esercitare fortissime pressioni sia sul Governo sia sulle Opposizioni, per favorire la nomina dell’Os aureum di Gerace. Pur in mancanza di evidenze in tal senso, non è tuttavia temerario intravvedere, sulla scorta dell’id quod plerumque accidit - si chiama, questa, “prova critica” - quale possa esserne il fondamento, non perdendo di vista né i posizionamenti politici dei membri del M.U.F. né l’influenza che ognuno di essi può avere, e su chi, per le funzioni da essi, sia precedentemente sia attualmente, svolte. Ma altri sono gli indici rilevanti dai quali non si può prescindere. La prigione, come evidenziato dalla letteratura scientifica e constatato, anche da me, nella pratica quotidiana, è di sicuro la più efficace e la più feconda fra tutte le istituzioni che producono illegalismi. Dalle carceri si esce quasi sempre più delinquenti di quando vi si è entrati: per via degli effetti del disinserimento sociale, dell’esistenza del casellario giudiziale, del formarsi di sodalizi delinquenteschi e di tant’altro. Il funzionamento interno delle prigioni, inoltre, è possibile solo a prezzo di un gioco di illegalismi, al tempo stesso molteplici e complessi: i regolamenti interni sono sempre assolutamente contrari alle leggi fondamentali che, nel resto della società, garantiscono i diritti umani; la galera è luogo di violenza fisica e sessuale esercitata sui detenuti, dai detenuti e dagli agenti di custodia; è luogo di commerci incessante e, ovviamente, illegale, tra detenuti, detenuti e agenti di custodia, tra questi e il mondo esterno; è, altresì, un luogo in cui l’amministrazione pratica quotidianamente l’illegalismo, fosse anche solo per coprire agli occhi della giustizia e dell’amministrazione superiore, da un lato, e dell’opinione pubblica, dall’altro, tutti gli illegalismi che si producono al suo interno; è finalmente un luogo di cui gli apparati polizieschi si servono per reclutare la loro manovalanza, i loro informatori, i loro scagnozzi, all’occorrenza i loro assassini e ricattatori. La sempre maggiore consapevolezza che tra le tante priorità vi sia anche quella del carcere, grave e incivile situazione, indegna perché offende innanzitutto la dignità, a cui si accompagnano la richiesta, dai pulpiti più autorevoli, di riconsiderare il ricorso alla detenzione intramuraria come forma prevalente di esecuzione della pena e la stigmatizzazione del fatto che la restrizione in un penitenziario offende la dignità della persona, negando l’affettività, privando dello spazio e annullando il tempo, che cessa di esistere nel momento in cui chi è recluso in una cella viene anche privato della prospettiva del riscatto, vanno di pari passo con la progressiva perdita d’utilità del ruolo della prigione, quale macchina per la fabbricazione dei delinquenti in vista della diffusione e del controllo degli illegalismi. I grandi traffici di armi, di droga di valuta sfuggono, infatti, sempre più alla competenza di un ambiente di delinquenti tradizionali, che magari erano dei bravi ragazzi, ma forse incapaci, perché formatisi in galera, di diventare i grandi trafficanti internazionali di cui c’è bisogno ora. Qui, tuttavia, si profila prepotente un altro interrogativo: è concepibile un potere che non ami l’illegalismo, che non abbia bisogno di possedere gli illegalismi, controllarli e mantenersi saldo se non mediante il loro esercizio? La risposta, com’è ovvio è negativa, la domanda va dunque elusa. E chi, meglio dell’Os aureum di Gerace, o simili, al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, potrebbe compiere l’esorcismo? Ecco perché, paradossalmente, ma anche con buona pace di tutti, in nome della ragion di Stato, le chances di Nicola Gratteri potrebbero essere, nonostante tutto, molto concrete. Per il Dipartimento degli affari giuridici e legislativi Meloni sceglie l’allievo di Ingroia di Ermes Antonucci Il Foglio, 18 novembre 2022 Roberto Tartaglia, uno dei pm del processo sulla fantomatica “Trattativa stato-mafia” (bocciata dai giudici), sarà vicecapo del Dipartimento degli affari giuridici e legislativi (Dagl) della presidenza del Consiglio. Non si ferma l’ascesa ai vertici delle istituzioni dell’”enfant prodige” - così lo definì il Fatto - dell’antimafia militante: l’ex sostituto procuratore di Palermo, Roberto Tartaglia. La premier Giorgia Meloni ha infatti deciso di nominarlo come vicecapo del Dipartimento degli affari giuridici e legislativi (Dagl) della presidenza del Consiglio dei ministri, incarico che il magistrato ha già ricoperto negli ultimi scampoli del governo Draghi. Una carica di assoluto rilievo, visto che il Dagl svolge un’attività di coordinamento dell’intera attività normativa del governo, mettendo in collegamento i vari uffici legislativi coinvolti, di volta in volta, nel procedimento di adozione dei provvedimenti poi discussi in Consiglio dei ministri.  Classe 1982, cresciuto con il mito di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Tartaglia ha svolto la funzione di sostituto procuratore a Palermo dal 2011 al 2019. Soltanto nove anni, ma tanti sono bastati per proiettarlo nell’olimpo dei magistrati antimafia duri e puri. Tartaglia ha infatti avuto la fortuna di essere coinvolto, da protagonista, nell’inchiesta simbolo portata avanti negli ultimi anni dalla procura di Palermo, quella sulla fantomatica “Trattativa stato-mafia”, insieme ai colleghi Antonio Ingroia, Vittorio Teresi, Nino Di Matteo e Francesco Del Bene. Inchiesta finita con una bocciatura sonora in ogni sede giudiziaria: in rito abbreviato, con l’assoluzione definitiva dell’ex ministro Calogero Mannino, ritenuto dai pm “promotore” della Trattativa, in rito ordinario con l’assoluzione in appello dei vertici del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, e dell’ex senatore Marcello Dell’Utri.  La notorietà acquistata attraverso il processo sulla Trattativa è bastata al giovane Tartaglia per spiccare il volo. Nell’aprile del 2019, nonostante avesse svolto la funzione di magistrato per soli nove anni, Tartaglia è stato nominato consulente della Commissione parlamentare antimafia presieduta dal grillino Nicola Morra, un altro abituato a vedere ovunque intrecci politici, mafiosi e massonici. Il tutto per la gioia del Fatto quotidiano, che in un articolo giunse a definire Tartaglia “l’enfant prodige della procura” di Palermo. Del resto era stato proprio Tartaglia ad aprire la requisitoria del processo sulla “Trattativa” all’aula bunker palermitana, sostenendo che una parte delle istituzioni avesse portato avanti una “mediazione occulta” con Cosa nostra, il cui risultato era stato “di fatto la realizzazione totale dei desideri più antichi e spinti di Cosa nostra”. Era stato lui, Tartaglia, ad affermare che erano due i politici che in momenti diversi avevano “fatto da motore e da cinghia di trasmissione” alla minaccia mafiosa contro lo stato, cioè Mannino (poi assolto in via definitiva) e Dell’Utri (poi assolto in appello).  La consulenza di Tartaglia a Palazzo San Macuto, però, è durata soltanto un anno, fino a quando, nell’aprile del 2020, il ministro (sempre grillino) della Giustizia Alfonso Bonafede decise di nominarlo vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un modo per rispondere all’ondata di indignazione causata dallo scandalo (infondato) delle scarcerazioni dei boss mafiosi durante l’emergenza pandemica. Travolto dalle critiche, il Guardasigilli M5s decise in sostanza di “commissariare” l’allora responsabile del Dap Francesco Basentini, affiancandogli un simbolo dell’antimafia come Tartaglia.  Confermato al Dap dal successore di Bonafede, Marta Cartabia (chissà quanto per convinzione o per richiesta della parte grillina che sosteneva il governo), Tartaglia pare che abbia cominciato a mostrare segni di insofferenza in seguito alla nomina lo scorso marzo del suo nuovo superiore, Carlo Renoldi, ritenuto troppo garantista dal mondo antimafia che ruota attorno al Fatto quotidiano. Ritenuto evidentemente un fenomeno di cui non poter fare a meno, a giugno il premier Mario Draghi ha deciso di nominarlo vicecapo del Dagl, carica ora riconfermata da Meloni. Non una sorpresa, se si considera che la nuova premier ha giustificato l’adozione del decreto sull’ergastolo ostativo sostenendo che quest’ultimo sarebbe finito “nelle famose trattative e nei papelli della mafia”. Peccato che le trattative tra lo stato e la mafia non siano mai avvenute e il famoso papello presentato da Massimo Ciancimino nel processo sulla Trattativa sia stato definito dai giudici frutto di una “grossolana manipolazione”. Ma nulla sembra fermare la carriera dell’enfant prodige dell’antimafia.  I minorenni che sbagliano non sono criminali irrecuperabili di Giulia Merlo Il Domani, 18 novembre 2022 La Garante per l’infanzia e l’adolescenza ha avanzato proposte per aggiornare la giustizia penale minorile, soprattutto con la giustizia riparativa e le misure alternative alla detenzione. La giustizia penale minorile va aggiornata e va ritagliata su misura dei ragazzi che la subiscono. Soprattutto ora che il fenoneno delle cosiddette “baby gang” è sulle pagine dei giornali come nuovo fenomeno criminale, utile a fare notizia ma non ancora efficacemente studiato e contrastato a livello giuridico.  A porre l’accento su questi temi è stata l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza nel convegno “Riscoprire il futuro. Diritti, responsabilità e percorsi nel sistema penale minorile”, organizzato in occasione della Giornata mondiale dell’infanzia che cadrà domenica 20 novembre.  “Si tratta di un tema che non riguarda solo i diritti in ambito giudiziario, ma tocca tantissimi diritti dei minorenni: da quello all’educazione e all’istruzione a quello alla non discriminazione, dal diritto al benessere a quello al tempo libero. È necessario restituire spazio alle persone, andando oltre al semplice racconto dei fatti: autori e vittime non sono ciò che hanno commesso o subito”, ha detto l’Autorità garante, Carla Garlatti.  Garlatti ha anche parlato della responsabilità dell’informazione nel raccontare i fenomeni criminali che riguardano i minori: “Comprendo che il termine ‘baby gang’ sia più immediato a livello comunicativo, però non solo dà molto spesso una rappresentazione distorta della realtà ma può anche generare ulteriori danni: identificazione, emulazione e compiacimento. E una responsabilità si ha pure nei confronti delle vittime, soggetti sui quali richiamo l’attenzione: ragazze e ragazzi che hanno diritto di avere supporto e rispetto da parte di tutti”. Le proposte - Le ipotesi di modifica avanzate dal garante riguardano l’introduzione di sanzioni penali a misura di minorenne, diverse da quelle degli adulti, a differenza di come è oggi. Per esempio, valorizzando misure alternative come attività a beneficio della collettività o il divieto di uscire nel fine settimana, da affiancare a quelle già esistenti come la sospensione del processo con messa alla prova e l’irrilevanza del fatto. In questo modo, la detenzione sarebbe davvero l’extrema ratio, come vuole l’ordinamento penale, a maggior ragione quando si parla di minorenni il cui primo obiettivo deve essere quello del recupero. “Dobbiamo riflettere - dice Garlatti - sull’opportunità di intendere la giustizia riparativa come qualcosa che previene ed evita il processo penale”. La giustizia riparativa è stata uno degli investimenti della ex ministra della Giustizia Marta Cartabia, che per i minori può declinarsi con strumenti come i family group conferences e circles: spazi che coinvolgono familiari e altre persone coinvolte nella vicenda. “Nella giustizia riparativa - prosegue Carla Garlatti - assumono rilievo anche la vittima e i suoi diritti, che invece nel sistema penale non trovano sufficiente spazio”. Per sostenere le vittime minorenni, soprattutto quando i fatti avvengono tra coetanei, l’Autorità garante ha proposto di istituire sportelli dedicati che possano offrire supporto psicologico, orientamento e accompagnamento, informazioni sui propri diritti e sul procedimento, incontri di gruppo. “Chi delinque non è irrecuperabile. Offriamo ai minori un futuro” di Simona Musco Il Dubbio, 18 novembre 2022 Le proposte dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti al governo: “La giustizia riparativa sia la principale risposta ai reati”. Sanzioni penali a misura di minorenne, giustizia riparativa come risposta prioritaria, sportelli dedicati a sostegno delle vittime, piena attuazione dell’ordinamento penitenziario minorile, spazi per i giovani ed educazione alla legalità: sono queste le proposte dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti a governo, Parlamento e istituzioni, in occasione della Giornata mondiale dell’infanzia al termine dell’evento “Riscoprire il futuro. Diritti, responsabilità e percorsi nel sistema penale minorile”, che si è tenuto oggi all’Ara Pacis di Roma. Proposte, quelle della garante, che mirano a restituire spazio alle persone, andando oltre alle etichette di vittima e “carnefice” - figure da riconciliare - e partendo da una riflessione sul disagio che spinge i giovani a rompere il patto con la società. “Non parliamo di giovani irrecuperabili - ha spiegato la Garante - ma di minorenni con diritti da tutelare. Oggi vogliamo provare a comprendere come questi ragazzi possano riscoprire il futuro, un futuro che già esiste ed è compito della società e di tutti noi tracciare i percorsi per ritrovarlo”. Garlatti ha proposto sanzioni diverse da quelle degli adulti, come avviene in alcuni paesi europei. “Per esempio, attività a beneficio della collettività o il divieto di uscire nel fine settimana. In questo modo i giudici avrebbero a disposizione numerose alternative, oltre a quelle introdotte oramai 34 anni fa, come la sospensione del processo con messa alla prova e l’irrilevanza del fatto - ha spiegato. Così la detenzione resterebbe ancora di più l’ultimo strumento a cui ricorrere”. Il fine di tali proposte è uno: il recupero del minore, che anche quando è autore di un reato ha come tutti gli altri una serie di diritti, tra cui quello a un futuro, anche e soprattutto considerando che la sua personalità è ancora in fase di formazione. Proprio per tale motivo la discussione si è concentrata più volte sulla giustizia riparativa come principale risposta al reato e come opportunità per prevenire ed evitare il processo penale, con un invito a promuovere, oltre alla mediazione, anche strumenti come i family group conferences e circles. “Nella giustizia riparativa - ha aggiunto Garlatti - assumono rilievo anche la vittima e i suoi diritti, che invece nel sistema penale non trovano sufficiente spazio. Chi ha subito un reato vede riconosciuti il proprio vissuto e la propria sofferenza e si sente compreso”. Un risultato che si può raggiungere attraverso sportelli dedicati alle vittime, per offrire supporto psicologico, aiuto e informazioni sui propri diritti e su che strada intraprendere per la loro difesa. Ma uno dei temi più importanti è la prevenzione, che può essere messa in atto principalmente grazie ad un ruolo attivo della scuola, con percorsi in grado di offrire le competenze giuste ai giovani per creare il proprio futuro ed educarli alla legalità, ma anche garantendo ai minori spazi attrezzati, specie nei contesti di marginalità. “I giovani devono essere coinvolti nel recupero e nelle scelte per la destinazione e la gestione di questi spazi: come ad esempio campi da gioco, sale di registrazione o spazi per la creatività”, ha aggiunto la Garante. Che ha evidenziato anche le responsabilità della stampa nel trattare i fenomeni di devianza giovanile. “C’è una responsabilità che ricade su tutti, anche sugli operatori dell’informazione - ha sottolineato. Comprendo che il termine “baby gang” sia più immediato a livello comunicativo, però non solo dà molto spesso una rappresentazione distorta della realtà ma può anche generare ulteriori danni: identificazione, emulazione e compiacimento. E una responsabilità si ha pure nei confronti delle vittime, soggetti sui quali richiamo l’attenzione: ragazze e ragazzi che hanno diritto di avere supporto e rispetto da parte di tutti”. Garlatti ha annunciato un ciclo di visite tra i 17 istituti penali minorili nel Paese, per ascoltare direttamente la voce dei giovani coinvolti nel sistema penale. Sono in totale 14.172 i minorenni e giovani adulti in carico all’ufficio di servizi sociali per i minorenni, di cui 377 in un istituto penale. E nel 2022 sono stati 5.450 i minori presi in carico per la prima volta, dei quali 4.302 italiani. Il viaggio negli istituti minorili sarà anche l’occasione per ribadire la necessità di dare piena attuazione alla riforma dell’ordinamento penitenziario minorile del 2018. “È necessario adottare un regolamento penitenziario specifico - ha concluso Garlatti. Sono troppo pochi, ad esempio, gli Ipm che ad oggi sono riusciti a consentire le visite prolungate con i familiari in spazi che riproducano l’ambiente quotidiano. Le sezioni a custodia attenuata invece non sono ancora una realtà. Sarebbe importante che nascessero spazi aperti alla comunità esterna, con gestione autonoma e separati dal resto della struttura in tutti gli istituti”. All’evento, moderato dalla giornalista Francesca Fagnani, hanno partecipato Alfio Maggiolini, professore di psicologia dinamica all’Università Milano Bicocca, Susanna Vezzadini, docente di Sociologia della devianza e mutamento sociale all’Università di Bologna, Gemma Tuccillo, Capo dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, Gianluca Guida, dell’Istituto penale minorile di Nisida e Patrizia Patrizi, presidente European Forum for Restorative Justice. Presente anche il rapper e scrittore Francesco “Kento” Carlo, che ha portato la propria esperienza di docente negli istituti penali minorili, dove propone ai ragazzi laboratori di rap e scrittura. Durante la giornata è intervenuto anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha portato i saluti del governo. Presente anche il viceministro Francesco Paolo Sisto. Piemonte. “Ricostruire percorsi di vita”. Progetto per ridare dignità sociale ai detenuti di Giacomo Galeazzi interris.it, 18 novembre 2022 In mille hanno partecipato a “Sportello Lavoro Carcere”. Un’iniziativa per il reinserimento e per “abbassare le recidive”. Laboratorio-Piemonte contro la recidiva. Tre milioni di euro per il reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro. E 975 destinatari che hanno preso parte al progetto “Sportello lavoro carcere”. Sono “alcuni dei dati che si possono leggere nella sintesi 2020-22. E che ci sono stati forniti, sotto nostra richiesta, in commissione regionale. Dopo il confronto con la direttrice dell’Agenzia Piemonte Lavoro”, spiega Francesca Frediani, consigliere regionale. Il progetto è cofinanziato attraverso i fondi strutturali dell’Unione Europea. E prevede attività mirate all’inclusione socio-lavorativa di chi è privato della libertà personale. Nel tentativo di offrire un sostegno concreto per riconquistare una propria autonomia. Ad oggi 206 persone hanno preso parte a tirocini formativi. E 75 sono state messe sotto contratto. Le attività sono erogate dagli operatori all’interno degli istituti. A seguito di appuntamenti concordati con i servizi educativi del carcere. Hanno coinvolto tutti e 14 gli istituti carcerari piemontesi. Non solo reinserimento ma recupero di dignità sociale. “Lo chiedono i detenuti che abbiamo incontrato durante le nostre visite nei penitenziari - sottolinea Francesca Frediani-. E lo chiediamo anche noi. Consapevoli che la ricostruzione di un’identità socio-lavorativa è il primo tassello per abbassare il tasso di recidiva. Dando respiro alle carceri e recuperando delle vite umane” Abbassare il tasso di recidiva è l’obiettivo-chiave, quindi. “Lo si può raggiungere solo con una maggiore interconnessione con le realtà del territorio- evidenzia il consigliere regionale del Piemonte. E con la presenza costante dei servizi per il lavoro all’interno delle strutture penitenziarie. Quasi mille detenuti hanno preso parte al progetto ‘Sportello lavoro carcere’. La priorità è appunto ridare dignità sociale. Per abbassare le recidive. E ricostruire percorsi di vita”. Umbria. Il Garante regionale: servono strutture dedicate per i detenuti psichiatrici ansa.it, 18 novembre 2022 L’attivazione in Umbria di strutture dedicate ai detenuti con problemi psichiatrici “è molto urgente” per il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale Giuseppe Caforio. “La loro presenza aumenta la tensione tra i detenuti, con conseguenze negative sulla polizia penitenziaria e che sfocia in atti di violenza” ha sostenuto in audizione davanti alla terza Commissione dell’Assemblea legislativa, presieduta da Eleonora Pace. L’Organismo ha svolto un approfondimento sulla situazione delle carceri umbre. Ascoltati anche i direttori della casa circondariale di Terni e delle case di reclusione di Orvieto e Spoleto, nonché le rappresentanze sindacali della polizia penitenziaria. Caforio, ha illustrato la relazione sull’attività svolta nel 2021, attualizzandola agli ultimi mesi, quando “si sono presentate alcune complicazioni”. “Sul piano organizzativo - ha detto, in base a quanto si legge in una nota di Palazzo Cesaroni - l’Umbria è stata unificata alla Toscana per la gestione carceraria. La Toscana ha 25 carceri, alcuni grandi e molti piccoli e piccolissimi. In alcune grandi strutture sono in corso interventi di ristrutturazione e questo ha comportato lo spostamento in Umbria di decine di carcerati, per lo più con situazione complesse, per circa due anni, con effetti non positivi. Quando, un mese fa, si è verificato l’incendio al carcere di Terni, i cinque autori della sommossa provenivano dalla Toscana proprio a seguito a questi trasferimenti. A questo si unisce la carenza di personale e il problema sanitario. Abbiamo detenuti con patologie gravissime che riscontrano carenza di cure per mancanza di medici e infermieri. I detenuti con problematiche psicologiche e psichiatriche non hanno strutture adeguate in cui essere collocate. L’attivazione di strutture dedicate è molto urgente, perché la loro presenza aumenta la tensione tra i detenuti, con conseguenze negative sulla polizia penitenziaria e che sfocia in atti di violenza. Di cui si rendono protagonisti quasi sempre detenuti con seri problemi di natura mentale”. Per Caforio “altro fenomeno preoccupante riguarda l’autolesionismo dei detenuti, il più delle volte legati a status mentali complessi”. “Essi si tagliano e si feriscono - ha rilevato -, arrivando anche al suicidio. Si registra una forte carenza di psichiatri per i 1.300 detenuti umbri. Questo rende più difficile prevenire gesti estremi e la polizia penitenziaria deve svolgere una sorta di improprio ruolo di supplenza per alleviare queste situazioni. Peraltro il fenomeno dei suicidi riguarda anche i poliziotti, che non riescono a reggere ritmi e contesti di lavoro usuranti. Sarebbe auspicabile un sostegno per la polizia penitenziaria: le carceri sono comunità complesse in cui il benessere dei vari soggetti è strettamente legato. La certezza della pena deve essere garantita come anche la dignità di chi è recluso e di chi ci lavora. Servirebbero maggiore risorse umane, una riduzione del numero dei detenuti in alcune strutture, mentre complessivamente le strutture carcerarie hanno un livello più che buono, con strutture tecnologiche adeguate”. I direttori degli istituti umbri, Luca Sardella, Terni, Anna Angeletti, Orvieto, Chiara Pellegrini, Spoleto, hanno messo in evidenza - si legge ancora nella nota - la carenza di personale, sia di polizia che sanitario. Due fattori che si sommerebbero quando i detenuti devono essere portati negli ospedali della regione per visite e cure, creando dispendio di risorse e personale e situazioni complesse soprattutto nel caso dei detenuti ad alta sicurezza e al 41 bis. Per i rappresentanti sindacali, Fabrizio Bonino, Sap, Nicola Grassia, Osap, Giovanni Schiavone, Sinappe, Maurizio Calzoni, Uilpa, e Riccardo Laureti, Cisl, esistono questioni molto rilevanti ed urgenti da affrontare per rendere più sicuro il lavoro della polizia penitenziaria e più efficiente il sistema carcerario umbro. Dovrebbero essere ridotti i detenuti, in sovrannumero rispetto alla capienza delle strutture; incrementato di circa 150 unità il personale in servizio, agevolando l’ingresso di agenti giovani; creata una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) per i carcerati con seri problemi psicologici-psichiatrici; allestiti reparti di medicina protetta negli ospedali, con osservazione sanitaria h24 e adeguate garanzie di sicurezza per medici e polizia penitenziaria; rispettate le previsioni di legge circa l’assistenza sanitaria in carcere, evitando quando possibile trasferimenti di detenuti all’esterno. Andrebbe infine ristabilita una certa autonomia dell’Umbria nella gestione dei detenuti, per evitare un continuo afflusso di carcerati problematici e critici che frequentemente verrebbero inviati dalla Toscana all’Umbria. Avellino. Chi era Costantino, il detenuto-scrittore trovato morto in cella di Andrea Aversa vocedinapoli.it, 18 novembre 2022 “Doveva stare in comunità, aveva l’udienza”. È stato il sesto detenuto suicida in Campania, il 77° in Italia. Un triste primato già superato da un’altra persona a Lecce. Perché è questo che sono, persone e non numeri. Ad oggi, dall’inizio dell’anno, sono stati 78 i suicidi avvenuti all’interno dei penitenziari italiani. Una mattanza di stato che sta continuando nel silenzio e nell’indifferenza. Costantino Fazio è stato trovato senza vita lo scorso lunedì. Il suo cadavere era in una cella del carcere di Ariano Irpino dove era stato da poco trasferito. Aveva 45 anni, era sposato ed ha lasciato un figlio piccolo e due genitori anziani. Era detenuto per reati minori ed era un tossicodipendente. La sua storia, purtroppo, è comune a tante altre persone recluse. Costantino non sarebbe dovuto stare in cella. Il suo posto era in una comunità. Una residenza terapeutica. Proprio in questi giorni ci sarebbe stata un’udienza in proposito. Tuttavia, pare che non ci fossero posti disponibili per accoglierlo. “Sono troppi i detenuti reclusi nei penitenziari che potrebbero scontare fuori la loro pena - ha dichiarato il Garante per i diritti dei detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello - Andrebbe incentivato il sistema delle pene alternative e ampliata la possibilità di accedere ad un altro tipo di strutture specialistiche, per specifiche categorie di persone “. Pare che Costantino abbia deciso di farla finita impiccandosi. Di togliersi la vita stringendosi una cintura al collo. Tuttavia, l’ipotesi del suicidio andrebbe accertata ed eventualmente confermata. Costantino, originario di Bellizzi, era stato già detenuto a Salerno - nel carcere di Fuorni - e a Eboli. Partecipava ad attività professionali, nello specifico per lavorava il legno. Già in passato è stato protagonista di atti autolesionistici e di una presunta aggressione ai danni di alcuni agenti della polizia penitenziaria. Ma è un altro l’episodio di cronaca degno di nota e che lo ha visto come protagonista: Costantino era testimone per un procedimento giudiziario in merito ad un altro decesso avvenuto dietro le sbarre a Salerno. La vittima era il 36enne Vittorio Fruttaldo, detenuto al quale Costantino faceva da piantone e che ha perso la vita lo scorso 10 maggio dopo uno scontro con due agenti. Il giovane è stato ucciso da un malore o c’è stato altro? Sarà l’autorità giudiziaria a chiarire i fatti. Al momento vi è un’indagine in corso che ha visto iscrivere due persone nel registro degli indagati. Costantino aveva parlato lo scorso sabato con il suo avvocato. Teneva una corrispondenza con il garante Ciambriello e da qualche tempo aveva iniziato a scrivere. La scrittura era la sua passione, il modo per ‘evadere’ dalle quattro mura nelle quali era rinchiuso. Alcuni suoi scritti sono stati pubblicati nel periodico ‘Diversamente liberi’, una pubblicazione dedicata ai detenuti scrittori. La mattina della sua morte Costantino si era svegliato come ogni altro giorno. Secondo quanto appreso da Vocedinapoli.it aveva fatto normalmente colazione e scambiato qualche chiacchiera con i compagni di cella. Poi la tragedia. “La nostra identità ha origini profonde e lontane. Ognuno di noi ne possiede una. Ho potuto comprendere ciò, solo analizzando il mio contesto familiare. Ho vissuto una vita lontana dal mio essere. Conoscere se stessi vuol dire avere un posto in società. Dopo una lunga battaglia posso dire di aver compreso la mia anima. E per questo mi ritengo fortunato”. Firmato, Costantino Fazio. Torino. “Non era sorvegliato”: i 13 minuti di agonia del suicida in carcere di Giuseppe Legato La Stampa, 18 novembre 2022 Tre agenti penitenziari a processo per la morte di un detenuto al Sestante, la psichiatra: “Ci è stato detto che stavano guardando una partita in tv”. Il 10 novembre 2019 un detenuto nel carcere di Torino Lorusso e Cutugno si tolse la vita impiccandosi con i pantaloni del pigiama. La vicenda è ora al centro di un processo in cui tre agenti di polizia penitenziaria sono imputati di omicidio colposo per omessa vigilanza. L’uomo, Roberto Del Gaudio, 65 anni, si trovava in una cella del “Sestante”, reparto di osservazione psichiatrica, che è anche al centro di una seconda inchiesta (ancora nella fase delle indagini preliminari) per le condizioni delle sue strutture. Del Gaudio, detenuto da qualche mese per avere ucciso la moglie, era sottoposto a cure psichiatriche ed era soggetto a regime di stretta sorveglianza perché considerato a “rischio suicidario”. La cella era costantemente monitorata da una telecamera. All’udienza di oggi i pubblici ministeri hanno chiesto ai testimoni conferme sulle voci secondo le quali i tre agenti stessero guardando alla tv la partita di calcio fra Juventus e Milan. La seconda inchiesta sul “Sestante” è stata aperta dopo la pubblicazione di un report dell’associazione Antigone. Si procede per il reato di maltrattamenti. Il fascicolo è a carico di ignoti. I carabinieri del Nas, su incarico della procura, hanno acquisito una serie di documenti. Il reparto è stato chiuso nel novembre del 2021 per lavori di adeguamento. Milano. Morì nel 2012 a San Vittore, ma per i genitori fu omicidio: “Vogliamo un processo” di Davide Varì Il Dubbio, 18 novembre 2022 È il caso di Alessandro Gallelli, 21 anni, che si sarebbe impiccato con un laccio. La Procura chiede di nuovo l’archiviazione, ma la famiglia non si arrende. La Procura di Milano ha chiesto nuovamente al gip di archiviare il caso della morte di Alessandro Gallelli, il 21enne che nel febbraio 2012 è stato trovato morto in una cella del carcere di San Vittore, impiccato con un laccio. Episodio che è stato ritenuto più volte un suicidio. La nuova richiesta di archiviazione arriva dopo che il gip Domenico Santoro nel 2021 ha deciso di riaprire le indagini e rinviare il fascicolo in procura, chiedendo all’aggiunto Tiziana Siciliano, che dirige il dipartimento che si occupa della tutela della salute, dell’ambiente e del lavoro della procura, di indagare ancora sull’accaduto, valutando anche se si possa essere verificata una “eventuale azione di terzi che possa aver determinato la morte” del ragazzo. Questa mattina i genitori del 21enne, Mirella Maggioni e Andrea Galelli, si sono presentati in procura e hanno chiesto di poter parlare del caso con il procuratore Marcello Viola. “In questi 10 anni abbiamo conosciuto il mondo delle carceri - ha detto il padre del ragazzo. Noi chiediamo solo che venga fatto un processo e che venga chiarito come è morto nostro figlio. Vogliamo solo giustizia per Alessandro, nulla di più”. Anche la madre del giovane ha domandato a lungo di essere ricevuta per poter esprimere “tutto il dolore accumulato in questi anni - ha spiegato - . Noi potremmo stare a casa a piangere e aspettare, invece abbiamo deciso di lottare per conoscere la verità sulla morte di nostro figlio”. I legali dei familiari del 21enne, gli avvocati Gabriele Caputo e Gabriele Pipicelli, stanno redigendo l’atto di opposizione alla richiesta di archiviazione, in vista di una nuova udienza davanti al gip. Una morte misteriosa, il caso di Alessandro Gallelli - Quella di Alessandro Galelli è una morte che risultò fin da subito misteriosa, ma sicuramente evitabile, come ha stabilito, nel 2016, il tribunale Civile di Milano che ha condannato in primo grado il ministero della Giustizia a risarcire la famiglia del ragazzo. Secondo il giudice civile, infatti, è apparso “poco chiaro” come il detenuto (sottoposto a sorveglianza a vista) potesse essere riuscito a portare a termine “l’ingegnoso e laborioso suicidio” in meno di mezz’ora, nell’intervallo fra un controllo e l’altro da parte dell’agente della penitenziaria. In quella cella, secondo il giudice, il 21enne avrebbe dovuto essere controllato 24 ore su 24, ma non fu fatto. “Dopo la morte di Ale, ci sono stati riconsegnati i suoi vestiti in un sacchetto. Erano completamente bagnati. Quando abbiamo chiesto il perché, alcuni operatori ci hanno spiegato che in carcere, in inverno, a volte i detenuti vengono bagnati per punizione con un getto di acqua gelata”, raccontarono all’epoca i genitori. Resta il dubbio che il ragazzo fosse stato recluso in una sorta di “cella punitiva”, e restano i dubbi anche sull’impiccagione: il ragazzo sarebbe riuscito a far passare attraverso piccole aperture delimitate dai fili di ferro una felpa e poi agganciarla alle sbarre per poi farla rientrare dentro e infine usarla come cappio. Viterbo. 41 bis, brioche vietata al colloquio per la nipotina di 4 anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 novembre 2022 Al carcere duro di Viterbo sembra che sia un delitto dare un dolce a una bambina. Allo stesso detenuto fu negato il libro della ex ministra Cartabia. In altri istituti vietano anche la farina, ritenuta un potenziale esplosivo. “Non è previsto dalle disposizioni interne. Non si autorizza”. Una risposta secca, negativa, da parte della direzione del carcere di Viterbo a una semplice richiesta di Tommaso Costa, un detenuto al 41 bis: poter dare un piccolo dolce, una merendina, alla nipotina di appena quattro anni durante il colloquio. Il carcere duro, nato per scopi ben precisi, man mano ha comportato diversi divieti del tutto incomprensibili. Misure inutilmente afflittive che arrivano a non autorizzare nemmeno piccoli gesti umani che rientrano nell’affettività. Perfino nei confronti della propria nipotina. Ha semplicemente chiesto di poter dare il dolcetto alla nipote di quattro anni durante il colloquio - Il detenuto ha semplicemente chiesto di poter dare il dolcetto alla nipote di quattro anni durante il colloquio. Tale richiesta è scaturita perché, nell’ultimo incontro, la bambina si lamentava di avere fame. Nella richiesta, ha anche specificato che il dolce scelto non sarà mai toccato da lui, ma verrà gestito dalla polizia penitenziaria. E ha aggiunto: “Faccio presente che al casellario giace il sacchetto per il colloquio, sarà cura dei famigliari non sporcare la sala colloquio nel rispetto di chi verrà dopo di noi”. Il detenuto ha infine concluso: “Fiducioso in un’umana accoglienza della mia richiesta, ringrazio anticipatamente”. Negata anche l’autorizzazione a consegnare la merendina al di fuori del colloquio - Nonostante le accortezze per una semplice brioscina, la direzione del carcere di Viterbo ha negato l’autorizzazione. Ma non è finita. A quel punto, il detenuto al 41 bis ha fatto un altro tentativo. Ha inviato alla direzione una richiesta diversa: “Il sottoscritto Costa Tommaso richiede alla S.V. la possibilità di far mangiare, qualora avesse fame la mia nipotina di 4 anni, fuori dal colloquio sempre una merendina”. Ma nulla da fare. Richiesta rigettata. Al 41 bis di Sassari vietata ai detenuti l’utilizzo della farina - Il 41 bis è anche questo. Anzi, soprattutto questo. Ogni giorno, gli avvocati sono costretti a sollevare numerosi reclami alla magistratura di sorveglianza per richieste di questo tipo rigettate. Un esempio lo mette a disposizione l’avvocata Maria Teresa Pintus, componente dell’osservatorio carceri delle Camere penali, che si occupa di molti assistiti al 41 bis. Accade che ad alcuni detenuti al regime duro del supercarcere di Sassari, l’amministrazione penitenziaria vieti l’utilizzo di lievito e farina. Il motivo? Ragioni di sicurezza pubblico perché - secondo il Dap - la farina è una sostanza che può essere maneggiata e trasformata in esplosivo. L’avvocata Maria Teresa Pintus: “Altri alimenti consentiti hanno un potenziale incendiario più elevato della farina” - Eppure, come ben ha argomentato l’avvocata Pintus nel reclamo alla magistratura di sorveglianza, tale divieto è ingiustificato, perché “in primo luogo, pur senza essere esperti di chimica, giovava porre in risalto che altri alimenti consentiti hanno un potenziale incendiario più elevato della farina, si pensi all’olio”. E poi c’è una seconda motivazione: “In secondo luogo, se bene si è intesa la tesi dell’amministrazione penitenziaria, la nube esplosiva di farina necessiterebbe di un innesco di fiamma, che non risulta della disponibilità dei detenuti che per cucinare utilizzano le piastre elettriche”. È lo stesso detenuto al 41 bis di Viterbo al quale vietarono il libro dell’ex ministra Cartabia e di Luigi Manconi - Il 41 bis ha tutti questi divieti in più. Dall’utilizzo della farina al divieto, come il caso di Tommaso Costa, di poter dare una brioscina a una bambina di quattro anni. Ricordiamo che Costa è lo stesso detenuto al 41 bis di Viterbo al quale la magistratura di sorveglianza gli negò il libro della ex guardasigilli Marta Cartabia. Una vicenda già riportata da Il Dubbio. “Il possesso del libro metterebbe il detenuto in posizione di privilegio agli occhi degli altri detenuti, aumenterebbe il carisma criminale”, questa è stata la motivazione. Non parliamo della biografia di Totò Riina, oppure del romanzo “Il padrino” che narra le vicende americane di una famiglia mafiosa di origini italiano. No, parliamo di “Un’altra storia inizia qui”, il libro a firma di Marta Cartabia e Adolfo Ceretti, docente di Criminologia, nel quale si confrontano con il magistero del compianto arcivescovo Carlo Maria Martini. Non solo. Al 41 bis è delitto anche dare una brioche a una bambina - Gli vietarono anche l’acquisto del libro di Luigi Manconi e Federica Graziani “Per il tuo bene ti mozzerò la testa”. Chissà, forse si saranno allarmati per il titolo “minaccioso”? Fatto sta, anche in questo caso la richiesta di acquisto era stata respinta in quanto giudicata “non opportuna” dalla direzione del carcere. Questa vicenda scaturì in una interrogazione parlamentare da parte di Roberto Giachetti di Italia Viva, grazie anche alla documentazione reperita da Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino. Adesso gli vietano anche di poter dare un semplice dolce alla nipotina di quattro anni. Al 41 bis, ora sappiamo che è un delitto dare una brioche a una bambina quando ha fame. Trapani. La protesta della “battitura”, detenuti in rivolta al carcere Cerulli di Laura Spanò Giornale di Sicilia, 18 novembre 2022 Una contestazione va avanti da un paio di giorni nella casa circondariale Pietro Cerulli di Trapani, ed è la cosiddetta protesta della “battitura”, un modo per portare la “rivolta” dei detenuti all’esterno del carcere. I reclusi, con pentole e oggetti di ferro battono contro le sbarre delle finestre, tutti insieme. Si tratta di una delle forme di contestazione più note dopo lo sciopero della fame, ed è un modo pacifico per comunicare con l’esterno e dire “ci siamo anche noi”. La protesta della “battitura” non è passata inosservata tanto che un video girato qualche sera fa è diventato virale su internet (qui una parte), grazie a Mirko Federico che difende i diritti dei reclusi. A protestare sono i detenuti della Sezione “Alta Sicurezza” in cui sono riuniti tutti i condannati per reati di tipo associativo (mafia, traffico di droga, etc.), che sono sottoposti ad una sorveglianza più stretta rispetto ai detenuti comuni. La protesta, fino a data da destinarsi, porta con sé diverse rivendicazioni (molte quelle che non potranno essere accolte perché vietate poiché provengono da reclusi rinchiusi in una sezione ad alta sicurezza) ma alle quali la direzione del carcere dovrà dare risposte: a cominciare dalla mancanza di acqua calda. Un problema questo reale. Ma non dipende da direttive carcerarie, piuttosto dall’acquedotto comunale, a tal proposito è stato assicurato che questo problema sarà risolto con l’arrivo dell’anno nuovo. I detenuti della Sezione in questione (si parla di oltre 70 persone) nella lista di rivendicazioni lamenterebbero infatti, il razionamento dell’acqua calda. Un razionamento tale da non riuscire a fare una doccia. E ancora nella lista delle rivendicazioni ci sarebbe anche il fatto che la spesa ha dei limiti. Insomma è molto restrittiva e non possono prendere quello che desiderano. Dicono che non c’è una saletta e che rimarrebbero rinchiusi anche per 20 ore al giorno. In quest’ultimo caso ci dicono che ci sono attività scolastiche e lavorative dedicate per questa sezione e quindi si può lasciare le celle. E le richieste sono ancora tante. Napoli. Giornalismo in carcere: “Così la libertà di critica spalanca le vostre celle” di Giuliana Covella Il Mattino, 18 novembre 2022 Parole in Libertà si pone l’obiettivo di aprire per un gruppo di detenuti delle due carceri una finestra sul mondo esterno. Verrà data loro infatti la possibilità di cimentarsi nella scrittura e di vestire i panni di commentatori e opinionisti di grandi temi di attualità, cultura e sport. Gli articoli prodotti verranno poi pubblicati, una volta a settimana, in una pagina dedicata sulle pagine de Il Mattino. “Un progetto voluto anzitutto dal presidente del Cda del giornale, Massimiliano Capece Minutolo, e dal mio predecessore Federico Monga - ha chiarito il direttore de Core -, un lavoro preparatorio intenso con un obiettivo unico, quello di creare un ponte, una finestra che dai due penitenziari possa affacciarsi sul mondo esterno”. Quella che sarà pubblicata ogni settimana sul quotidiano - ha spiegato il direttore - “non sarà una pagina sfogatoio, ma una finestra sul mondo per discutere di temi nazionali e internazionali”. Tre i focus sui quali si concentrerà il lavoro dei detenuti in ciascuno dei due istituti di pena suddivisi in due gruppi da 12 (a Poggioreale quelli in posizione giuridica definitiva, a Secondigliano gli iscritti al Polo universitario): i beni confiscati alle mafie, la genitorialità e la cittadinanza attiva. I partecipanti incontreranno i volontari (tra cui giornalisti, psicologi, sociologi) una volta a settimana per condividere con loro lettura collettiva dei quotidiani, scrittura creativa, riflessioni e lettere. “Questo progetto - ha spiegato Ciambriello - si inserisce nelle iniziative volte ad andare oltre il carcere, per una vera rieducazione”. E non è tutto. Per il direttore di Poggioreale Carlo Berdini si tratta di un “progetto che si inserisce in un tassello di attività che stiamo portando avanti in un’ottica di squadra, con tutta la comunità cittadina. Proprio per aprire il penitenziario alla città. Diamo così ai detenuti l’opportunità per recuperare a un inciampo e di avere quindi una seconda chance”. Gli fa eco la collega di Secondigliano, Giulia Russo: “la risocializzazione del detenuto si realizza non solo all’interno del carcere, ma grazie a ognuno di noi. Da noi esiste già il Polo universitario con 80 detenuti, 8 dipartimenti e 12 facoltà. Tra poco avremo anche un polo di arti e mestieri e il corso di meccanodronica. Inoltre c’è la sartoria, dove è stata fatta una casula per il Papa e le toghe per i magistrati. Questa sarà un’ulteriore opportunità”. Promosso dal Garante campano dei detenuti, il progetto vede in prima linea Fondazione Polis e Fondazione Banco Napoli. “Una giornata bella quella di oggi - l’ha definita Don Palmese - perché ha a che fare con la civiltà, con uomini e donne che s’incontrano al di là di grandi mura che possono dividere. Mettiamo così un ponte per incontrarci tra persone che pensano, leggono e si emancipano”. “Nel suo scopo di funzione sociale la Fondazione Banco Napoli ha partecipato e finanziato l’iniziativa - ha detto Caia - che rientra nella nostra mission di attenzione a chi vive ai margini”. “Un’iniziativa importante - secondo Oliviero - per potenziare il fine rieducativo della pena”. Per l’assessore Fortini “è un progetto che fa pensare al welfare in modo differente, per il fatto che un giornale dia la possibilità ai detenuti di poter uscire simbolicamente con le parole”.  Cosenza. Teatro in carcere per dimenticare le sbarre e riprendersi il tempo di Adolfo Adamo* Il Riformista, 18 novembre 2022 In un luogo non luogo, in un tempo non tempo, ci ritroviamo... Noi, in perenne attesa di chissà cosa. Non siamo attori, non siamo personaggi, siamo anime e, forse un’umanità ritrovata. L’attesa diventerà speranza che si tramuterà in vita... Solo provando a vincere una battaglia epica: quella con se stessi. È questo l’incipit di Hic et nunc, atto unico teatrale liberamente ispirato a “Il deserto dei tartari” di Dino Buzzati, andato in scena lo scorso 3 novembre 2022 al Teatro Alfonso Rendano di Cosenza, protagonisti gli ospiti della Casa Circondariale “Sergio Cosmai” di Cosenza. Una moviola di emozioni, punti di domanda, di memorie sepolte ma pulsanti che risalgono la china del tormento offrendosi a nuovi bagliori di vita, di speranza. I detenuti coinvolti nel progetto “Amore Sbarrato” giunto al quarto capitolo, hanno rappresentato la collettività che si è riconosciuta e rivista nello spettacolo teatrale creato al termine di un lungo percorso laboratoriale durato un anno e fortemente voluto dal direttore Maria Luisa Mendicino, dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Prap, che hanno sempre puntato e sostenuto l’importanza di far svolgere attività mirate alla rieducazione del detenuto. Puntare direttamente al cuore della parola: educazione - rieducazione, respirarla all’interno del carcere e, fuori dal carcere, per la riabilitazione in società. È proprio grazie a questa importantissima sinergia che abbiamo potuto scrivere pagine di inclusione, di impegno civile e sociale. Abbattere i muri, abbattere le distanze, i pregiudizi ebbene è possibile se si punta ad un nuovo approccio culturale. Lo spettacolo è un momento conclusivo bello ed esaltante ma è anche importante sottolineare le dinamiche che si creano durante il laboratorio in carcere. Per poter cercare di capire il carcere occorre conoscerlo e “viverlo”. I detenuti hanno l’urgenza di ascoltare la parola, di vestirla, di abitarla, solo così si accede a una nuova consapevolezza, al bisogno di conoscere l’autostima, di riappropriarsi della dignità, come, d’altronde recita la nostra Costituzione all’Articolo 3. Immersi in questa nuova esperienza, con il passare del tempo, vinta ogni forma di riottosità iniziale, i detenuti vivono sulla propria pelle l’importanza di percorrere insieme questo nuovo viaggio che li condurrà direttamente a compiere il “salto nel buio” e, proprio come gli astronauti dopo l’allunaggio, iniziano a muoversi e sentirsi più leggeri. L’esperienza teatrale vissuta in tutte le fasi del laboratorio, ebbene, li cambia profondamente a tal punto che è naturale dimenticarsi anche del carcere, anche per questo “Amore Sbarrato” fa breccia nei loro cuori scuotendoli totalmente. E allora che il tempo non rappresenta più per loro un nemico tedioso, che non passa mai, ora diventa un amico da ascoltare anche e soprattutto nei silenzi. Allora cosa si può fare vivendo l’esperienza del non facile gioco del fare teatro? Lasciarsi andare per vivere anche l’opportunità di diventare autori di se stessi. Raccontarsi, vedersi in modo diverso rispetto al passato. Questo sì che aiuta! I detenuti hanno il bisogno di toccare con mano che esiste un’altra possibilità di riscatto, ne hanno bisogno per poter respirare la speranza, e per far questo è necessario che siano impegnati, per comprenderne l’importanza della responsabilità, del rispetto, della coerenza. Amano e si lasciano amare dal Teatro perché comprendono che è l’Arte più vicina alla vita. Questo per loro rappresenta un’autentica prova superata, una vittoria che custodiranno gelosamente nei loro cuori che hanno sofferto e fatto soffrire. “Amore Sbarrato” punta anche a trasmettere la cultura delle regole attraverso la cultura della conoscenza unita al fare teatro. È possibile cambiare se tutti sentiamo la necessità di cambiare nessuno escluso! Tenere alta l’attenzione sul carcere, sensibilizzare alle condizioni di chi sconta una pena, è fondamentale se si vuole puntare e vivere in una società attenta, dinamica e serena. Le risposte avute nello storico di “Amore Sbarrato” ci hanno indotto a prendere in considerazione la possibilità di realizzare all’interno della Casa circondariale un laboratorio stabile che punti a una compagnia permanente che aiuti a raggiungere gli obiettivi sempre sottesi alla nostra missione civile. Hic et nunc. *Attore e regista Spoleto (Pg). Gli scacchi dei narcos: un maestro insegna a giocare ai detenuti di Filippo Femia La Stampa, 18 novembre 2022 La missione di Fasciatti: “Dopo una vita criminale riscoprono il rispetto delle regole e imparano a frenare gli impulsi”. Le lezioni di scacchi si tengono una volta a settimana nella biblioteca del carcere di Spoleto. Ma i detenuti giocano quasi tutti i giorni. La speranza, nel carcere di massima sicurezza di Spoleto, ha la forma di un alfiere che scivola verso un cavallo indifeso, lo mangia e si pianta vicino al re. Scacco matto. Un ragazzo con i capelli lunghi raccolti dietro la testa dà una pacca sulla spalla al vincitore: “Ottima mossa”. Ai lati della scacchiera due detenuti si alzano e si stringono la mano. Quel gesto, accettazione della sconfitta e rispetto dell’avversario, racchiude la missione di Mirko Fasciatti. Dal 2015 questo 32enne insegna a giocare a boss mafiosi, narcos e sicari legati alla criminalità organizzata. Persone con lunghissime condanne da scontare, qualcuno potrebbero anche terminare la sua esistenza dietro le sbarre. Scacchi sociali, gli piace chiamarli a Mirko, anche se il programma ministeriale che promuove l’attività utilizza una definizione più fredda. “Insegnare è la mia vocazione - spiega il maestro, programmatore grafico nella vita di tutti i giorni. Pensare che gli scacchi possano aiutare persone che hanno commesso errori enormi a intraprendere nuove strade è una soddisfazione unica”. Quando ha vinto il suo primo torneo, a 13 anni, mai avrebbe immaginato che un giorno avrebbe avuto di fronte un uomo condannato a 26 anni di carcere per narcotraffico internazionale. Uno che negli Anni 80 dava del tu al signore della droga Pablo Escobar, protagonista di una rocambolesca fuga dall’oblò della nave che lo stava trasferendo da Marsiglia a Barcellona, prima di essere consegnato alle autorità italiane. Quell’uomo, oggi, stringe un pedone tra pollice e indice, studiando la prossima mossa. “Quando mi hanno proposto di insegnare a giocare a scacchi ai detenuti non ho esitato a rispondere sì”, ricorda Mirko. Poi lo assalì una paura: “Non mi intimoriva l’abisso del loro passato o il curriculum criminale, ma come avrebbero utilizzato i miei insegnamenti”, spiega. Gli scacchi, secondo Mirko, sono un’arma potentissima: “Sedici pezzi si possono muovere su 64 caselle, per infinite combinazioni che ogni volta creano un mondo immaginario diverso. Questo gioco ti insegna a usare il cervello in un modo nuovo, a reagire a eventi imprevisti e sfruttarli a tuo favore. Insegnare queste cose a persone che hanno commesso crimini terribili era un rischio: sentivo di avere una grande responsabilità”, racconta. Il pericolo che le partite, magari sporcate da imbrogli, innescassero comportamenti aggressivi e sfociassero in liti era concreto. Paure infondate, evaporate dopo le prime settimane in carcere. Il pregiudizio, nel contesto carcerario, è sempre in agguato ma fino a oggi Mirko non ha mai temuto per la sua incolumità. “C’è lo stereotipo da film del detenuto come Hannibal Lecter. La verità è che io ho conosciuto persone disponibilissime e curiose di imparare”, racconta. Con molti di loro si è creato un rapporto personale, che vede come primo tassello la confessione del reato commesso: “Io non ho mai fatto domande sulla loro vita, aspettavo che fossero loro a raccontare”. Da sempre Mirko ha la vocazione di aiutare gli altri. Prima del carcere ha assistito ragazzi con disturbi dell’apprendimento e poi anziani affetti da Alzheimer. Ma in carcere ha incassato le sue più grandi soddisfazioni. Un giorno, ricorda, gli psicologi ha fatto circolare un questionario. “Chi partecipava alle mie lezioni ha raccontato che grazie agli scacchi la sua vita carceraria è migliorata. Il pensiero della famiglia lontana e l’angoscia di una vita che potrebbe terminare tra le mura del carcere è alleviata da esercizi e partite ripercorse mentalmente. I tempi morti, che spesso sprofondano i detenuti in pensieri bui, vengono riempiti da pedoni, torri e regine”. Lo scorso mese la squadra allenata da Mirko ha partecipato ai Mondiali di scacchi per carcerati, anche se non è riuscita a superare il girone eliminatorio. Ma la vittoria più grande, per Mirko, era già arrivata. Un ex detenuto uscito dopo aver scontato 24 anni per associazione a delinquere di stampo mafioso gli aveva telefonato qualche giorno prima. “Mi disse che ero la prima persona che chiamava da uomo libero. Aveva trovato un club di scacchi nella sua città: “Non voglio smettere di giocare”, esclamò”. Scacco matto al cuore, per Mirko. Piacenza. Le vite in cammino al carcere di San Vittore in mostra fino al 10 dicembre di Micaela Ghisoni piacenzasera.it, 18 novembre 2022 “Ho fatto dodici anni di reparto e ora sono dal 2008 in portineria. Mi trovo bene, ma a volte vorrei sigillare quella porta perché entrano ed escono migliaia di persone. E poi sarebbe bello avere maggior dialogo con gli educatori, gli psicologi e gli psichiatri… Se fossi in loro mi metterei di più nei panni di chi lavora all’interno. È un pezzo che viene a mancare per avere un quadro definito della persona ristretta”. A parlare è Gian Franco, assistente capo coordinatore da 23 anni a San Vittore, in un frammento di intervista rilasciata in carcere ad una delle biografe volontarie formate alla Lua (Libera Università dell’Autobiografia). La sua è una delle tante storie di vita raccolte tra operatori e detenuti della casa circondariale milanese, nel tentativo di restituire il volto più umano del carcere. “Un invito a raccontarsi e a raccontare un mondo che parla a ciascuno di noi - ha spiegato Carla Chiappini, Presidente dell’associazione “Verso Itaca APS” e biografa volontaria -, al nostro lato più dolente, più oscuro, più fragile”. Le parole non bastano però a mostrare il carcere come luogo di incontro tra le diverse esperienze di vita di una variegata umanità, che in un dato periodo storico si trova a vivere in uno stesso luogo. ”Il carcere a Milano è San Vittore - dice infatti Giacinto Siciliano, attuale direttore del penitenziario e altra voce intervistata che alla realtà carceraria ha dedicato l’esistenza -. Lo capisci solo quando ci metti i piedi dentro”. L’occasione migliore per farlo, soprattutto per chi vive fuori da quelle mura, è allora senza dubbio la mostra ‘San Vittore quartiere della città’, fino al 10 dicembre allestita nello Spazio espositivo della Fondazione di Piacenza e Vigevano grazie all’associazione “Verso Itaca APS”. L’esposizione, da Milano arrivata anche a Piacenza e inaugurata lo scorso 7 novembre a Palazzo Rota Pisaroni, pone in dialogo gli scatti fotografici di Margherita Lazzati con stralci di interviste raccolte tra detenuti, operatori, volontari e tutti coloro che per scelta civile o spirituale sono ‘abitanti’ di San Vittore. A Piacenza l’iniziativa ha il sostegno della Fondazione di Piacenza e Vigevano e il patrocinio della Casa Circondariale di Piacenza, del Comune e della Camera Penale. In un intenso percorso dove immagini e parole si arricchiscono reciprocamente le testimonianze scritte sui pannelli (oltre sessanta le interviste registrate, raccolte, sbobinate e poi sintetizzate rivolte a detenuti, operatori penitenziari, volontari, avvocati, medici, insegnanti, garanti e assistenti spirituali) accompagnano le foto, mentre nei luoghi immortalati dall’obiettivo di Margherita Lazzati risuonano emozionanti i loro echi. Dall’antica lanterna al panopticon circolare da cui si biforcano i raggi, dai cortili interni alle celle le immagini di Lazzati raccontano “degli spazi fisici, obbligati che le persone vivono”; fino allo “skyline della Milano nuova”, che colloca il carcere nel cuore della città proprio mentre al centro della città si svelano “luoghi inconsapevolmente sconosciuti”. La stessa fotografa spiega che “detenuti, polizia penitenziaria, operatori e volontari non compaiono per rispetto nelle immagini, ma sono i veri protagonisti di questi luoghi”. Volontaria dal 2011 nella Casa di reclusione di Opera presso il laboratorio di lettura e scrittura creativa e dal 2016 fotografa di detenuti e volontari impegnati in questa attività, la sensibilità artistica di Lazzati e la sua approfondita conoscenza della realtà detentiva fanno la differenza. “Adoro fare ritratti per dare voce a chi non ce l’ha - osserva quindi l’artista - ma ho scelto solo luoghi e niente volti per una meta di passaggio come San Vittore: Casa circondariale dopo la quale alcuni saranno assolti e altri condannati. Prediligo sempre le fotografie in bianco e nero perché storicizzano, in particolare in carcere dove la realtà’ è in tutte le sfumature del grigio. Ho lasciato a colori la cella delle donne e pochi altri scatti per attualizzare”. “Non a caso - continua - la mostra è stata esposta per la prima volta, fra il gennaio e il febbraio del 2020, nel IV Raggio di San Vittore, quello storicamente più doloroso: riservato durante la guerra ad ebrei e detenuti politici. Ma la mia è narrazione per immagini, non un reportage di denuncia: la presa di coscienza deve sorgere in chi legge e guarda le fotografie, come quella della cella per le mamme che tengono con sé il loro bambino”. Protagonisti degli ‘orizzonti ristretti’ che la delicatezza di Margherita Lazzati racconta, gli abitanti di San Vittore con le loro voci si sentono negli spazi narrati: tra solitudini e momenti di incontro si scoprono storie d’infanzia comuni di lavoratori del penitenziario e detenuti, mentre la fragile umanità del carcere prende forma. La voglia di riscatto sociale prende vita nelle parole del giovane detenuto Otmam, che ha capito di aver ‘fatto una cavolata’ e in futuro vorrebbe trovare ‘un lavoro onesto’, per aiutare la famiglia che avrà e soprattutto sua madre. “Posso anche stare in mezzo alla strada - dice - ma se lei è lì (in una casa, ndr) io sono tranquillissimo”. Il dolore poi è quello di Marco, che ricorda così l’ingresso a San Vittore: “la mia vita in un sacco nero; questa è l’immagine indelebile che porto con me”. Queste storie, queste vite ‘camminano’ negli spazi del carcere milanese, per dirci che anche a San Vittore la vita non smette mai di scorrere, nonostante tutto. L’esile confine tra gogna e cronaca ne “Il processo mediatico” di Camaiora e Stampanoni Bassi di Federica Fantozzi Il Riformista, 18 novembre 2022 Qual è - nella società globalizzata in cui l’informazione galoppa sui social - il punto di equilibrio tra libertà di stampa e giusto processo? Dove (e come) finisce il diritto di cronaca e inizia la presunzione di non colpevolezza? Chi contribuisce, a volte inconsapevolmente, alla creazione di un “populismo penale e giudiziario” che deforma la realtà in senso criminogeno creando allarmi sociali inesistenti e alimentando pulsioni securitarie? Ed è ancora possibile, in organizzazioni complesse e geograficamente frastagliate come le redazioni dei grandi media concentrare la responsabilità per “omesso controllo” sulla figura del direttore? Sono domande che fanno tremare le vene ai polsi ma che il giornalismo ha eluso per troppo tempo, complici l’incompiuta transizione dalla carta al digitale e la profonda crisi del settore. A mettere il dito nelle (tante) piaghe di una professione così importante da meritarsi l’appellativo di “watchdog”, cane da guardia della democrazia, è il libro “Il processo mediatico” edito da Wolters Kluwers. Un volume nella forma di “call for papers” a cui hanno aderito avvocati, giuristi e giornalisti, a cura di Andrea Camaiora (esperto e docente di comunicazione di vicende mediatico-giudiziarie e di crisi) e Guido Stampanoni Bassi (avvocato milanese, fondatore della rivista “Giurisprudenza Penale”). Un saggio che non fa sconti al “circo mediatico-giudiziario”, ai talk show trasformati in arene per gladiatori, al voyeurismo della cronaca nera che si genuflette di fronte a operazioni di polizia e grandi processi. Dove, però, l’attenzione si focalizza sulle indagini preliminari regno, scrive Gianluca Amadori, dello “strapotere dei procuratori”. Con buona pace del diritto alla riservatezza, del principio del contraddittorio, dei verbi al condizionale. Esponendo l’indagato a una “gogna mediatica” arricchita da particolari morbosi. Mentre nel dibattimento l’attenzione si sgonfia e l’eventuale assoluzione si liquida in poche righe. Interessante, sul punto, il capitolo che compara la visibilità sui media italiani della vicenda di Bibbiano con il processo del Bataclan su quelli francesi. Storture già sanzionate dalla Corte Europea dei Diritti Umani e vietate dal codice deontologico. Ma perduranti. A cui il libro propone una serie di soluzioni, a livello sanzionatorio ma soprattutto di “soft law”. Anzitutto, una più accurata formazione tecnico-giuridica (anche lessicale: la scadenza di termini non è “un cavillo”) che informi sui limiti alla pubblicazione degli atti processuali. Altro nodo è la prevalenza nella fase preliminare della versione delle Procure, magari con il nome fumoso di “carte dell’inchiesta”: già in parte regolata dall’accentramento dei rapporti con la stampa in capo al procuratore tramite conferenze stampa, andrebbe controbilanciata da una più efficace e sistematica comunicazione degli avvocati (che generalmente si limitano a un “il mio cliente dimostrerà la sua innocenza nelle sedi opportune” pressoché inutile). Diversi contributi analizzano l’ipotesi di rendere accessibili a tutti i cronisti, senza il filtro della discrezionalità, gli atti non più coperti da segreto istruttorio, che però comporterebbe problemi di riservatezza per la menzione di dettagli e persone solo tangenti alla vicenda. Meglio “educare” a comportamenti di self restraint e self regulation incentivati da sanzioni alla reputazione di cronisti e testate (come la pubblicazione delle condanne per diffamazione). Vittorio Cama affronta gli effetti del “populismo penale” che attribuendo stigma come “mafioso, terrorista o clandestino” ben oltre l’effettiva condanna, impattano sul diritto all’oblio (praticamente impossibile sui social network) e sull’attualissimo dibattito intorno all’ergastolo ostativo. Ma i capitoli più innovativi riguardano la (difficile) applicazione della presunzione di innocenza alle società. E la prospettiva di applicare alle imprese giornalistiche a fini di prevenzione dei reati lo schema di “corporate compliance” previsto dalla legge 231. Una rivoluzione più a portata di mano di quanto appaia. In fondo diceva già tutto Kant: il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me. Si tratta - in un circolo virtuoso tra avvocati, giornalisti, magistrati e comunicatori - di applicarla. Migranti. Mauro Palma: “Nei Centri di permanenza meno diritti del carcere” di Liana Milella La Repubblica, 18 novembre 2022   Da gennaio 2.853 i rimpatri forzati. Seguiti sui voli charter e monitorati dall’ufficio del Garante dei detenuti e delle persone private della libertà. Che chiede di rendere certe conquiste fondamentali di persone di fatto detenute in un Cpr “meno trasparente di una prigione”. Non solo le carceri, ma anche i Centri di permanenza per i rimpatri, i dieci Cpr che in Italia “ospitano” - si fa per dire - i migranti in attesa che sia deciso il loro destino. Ovviamente a partire dal respingimento. Il Garante dei detenuti e delle persone private della libertà Mauro Palma si occupa anche di loro, di quelli che dovrebbero essere (ma non sono) i loro diritti, dei tre mesi di vita che sono costretti a trascorrere in quello che non si chiama carcere, ma nei fatti lo è. Senza neppure i controlli (quando funzionano) di un penitenziario. Senza un giudice di sorveglianza. Senza un report ufficiale di quello che accade. E che il Garante ha chiesto che fosse previsto come obbligatorio nel nuovo Regolamento. Un cammino di effettivi “reclusi” che può finire anche con un volo charter per essere respinto nella terra da cui si è fuggiti.  Il Garante, in uno workshop, analizzerà oggi i numeri dei “rimpatri forzati”. Che sono questi: al 15 ottobre, “tendenzialmente in linea con gli anni precedenti”, sono state rimpatriate complessivamente 2.853 persone. A fronte di 93.502 ingressi. Dei voli charter, 62 erano diretti in Tunisia, 9 in Egitto, 6 in Georgia, 3 in Nigeria, 2 in Gambia e uno in Albania. Il Garante ha monitorato direttamente 27 voli. A bordo ci sono state la vice Garante Daniela De Robert ed Elena Adamoli che si occupa proprio dei migranti. E che ogni giorno lavorano per monitorare cosa succede nei centri, l’effettivo stato della detenzione amministrativa, le misure coercitive estreme per uno stato di diritto. E pure le fascette ai polsi imposte a ogni migrante, che non è un prigioniero, per tutta la durata del volo. Un lavoro che punta a dare trasparenza al sistema documentando cosa avviene nei centri anche rispetto agli investimenti fatti. Alla fine il giudizio è netto: “I Cpr sono un luogo meno trasparente di un carcere”. E parte da qui l’intervista con il Garante Mauro Palma. Dai detenuti in senso proprio, quelli che stanno nelle carceri, ai “di fatto” detenuti, i migranti chiusi in un Centro di permanenza per i rimpatri. Perché il Garante delle persone private delle libertà ha deciso di dedicare un focus proprio su questo?  “Perché si parla troppo poco dei rimpatri forzati, e quando lo si fa, lo si fa in termini quantitativi, quasi ragionieristici. E invece sarebbe bene parlare approfonditamente di come questi rimpatri avvengono a partire dalle prime fasi di attuazione di una misura di allontanamento, e cioè il trattenimento in un Cpr”. Lei la considera una detenzione illegale?  “Io dico che questa forma di privazione della libertà può risultare anche più dura di quella penale: nei Cpr non esiste una figura come quella del magistrato di sorveglianza, che ha il dovere di controllare come si svolge la vita delle persone ospitate nei centri”.  I suoi funzionari che visitano i Cpr che cosa hanno visto e cosa possono documentare?  “Nei Cpr non ci sono praticamente attività, i giorni passano sempre uguali, ancor più uguali che in carcere. Certo non avrebbe senso un ‘trattamento’ per persone che dovrebbero rimanere in quei luoghi per pochissimo tempo. E tuttavia non è ammissibile che un ospite dei Cpr venga visto come una persona sulla quale non vale la pena di fare alcun investimento, come una persona a perdere. Anche perché la dignità delle persone, come scriveva Antonio Cassese, non è solo un diritto della persona, ma riguarda e interroga la collettività nel suo insieme”.  Con la Direttiva del ministro dell’Interno del 19 maggio scorso, a cui dedicate il workshop di oggi, e che si traduce nel nuovo regolamento della vita nei Cpr, cosa cambia rispetto a questa visione drammatica?  “La Direttiva è importante proprio perché riguarda la nuova disciplina dei Centri di permanenza per il rimpatrio, rispetto alla quale il Garante nazionale ha espresso alcuni pareri, in diverse parti recepiti nel testo adottato, contribuendo così ad innalzare gli standard che dovranno essere raggiunti per la tutela dei diritti fondamentali delle persone trattenute nei centri”.  Cosa avete chiesto e cosa avete ottenuto per rendere più trasparenti e garantiti questi luogo di detenzione?  “Tra le proposte recepite c’è quella, importante, che riguarda l’obbligo per gli enti che gestiscono i Cpr di istituire dei registri degli eventi critici, analogamente a quelli che esistono per il carcere”.  Lei sta dicendo che se scoppia una rivolta, se bruciano i materassi, o anche se avviene una violenza su una donna, tutto questo deve restare scritto da qualche parte? È incredibile che già non avvenga così... “Si tratta di un passo verso la trasparenza, importante sia perché gli enti gestori sono soggetti privati, sia perché la documentazione che devono predisporre su ciò che accade all’interno di una struttura chiusa è un parametro rilevante per comprendere cosa avvenga all’interno da parte di chi, come nel caso del Garante nazionale, deve vigilare sull’assoluta tutela dei diritti delle persone ristrette lì dentro”.  Crede davvero che questo regolamento possa funzionare? “Sicuramente sarà utile per far approntare le necessarie misure a chi gestisce eventuali segnali di allarme”.  E questi registri che documentano i casi di rivolte e violenze andranno anche nelle mani delle forze di polizia?  “Questo passo non è ancora previsto. Così come il nuovo Regolamento non prevede una raccomandazione particolare e specifica al personale sanitario sull’importanza di di riferire tempestivamente alle autorità competenti l’eventuale presenza sugli ospiti di segni compatibili con violenze subite. Ma si tratta di passi che, via via, dovranno essere necessariamente compiuti”. Migranti. Un decreto flussi europeo: il piano Piantedosi per superare la crisi di Alessandra Ziniti La Repubblica, 18 novembre 2022 La proposta che il capo del Viminale porterà al vertice dei ministri dell’Interno europei del 25 novembre a Bruxelles. “Siamo riusciti a far tornare in cima all’agenda il tema della gestione degli ingressi”. Ma al G7 non si è parlato delle navi Ong. Delle responsabilità degli Stati di bandiera delle navi umanitarie (su tutte proprio la Germania) non hanno parlato: “Non era questo il momento di affrontare questioni divisive che diventano parti marginali del problema se si trovano soluzioni condivise”. Matteo Piantedosi glissa così, al termine del G7 dei ministri dell’Interno, la domanda sulla principale delle questioni che l’Italia ha posto in Europa nei giorni del braccio di ferro con le quattro navi Ong che hanno soccorso mille migranti nel Mediterraneo. Ma rivendica che la sua linea dura un primo risultato l’ha portato: “Siamo riusciti a far tornare il tema della gestione dei flussi migratori in cima all’agenda dell’Europa”, dice senza nascondere la soddisfazione per i due incontri bilaterali, con la commissaria europea agli Affari interni Ylva Johansson e con la ministra dell’Interno tedesca Nancy Faeser che - dice - “hanno sposato in pieno la linea del rigore dell’Italia nell’affrontare la questione degli ingressi irregolari e aumentare i rimpatri”. Piantedosi, che a Wiesbaden era arrivato con l’obiettivo di uscire dall’angolo in cui la crisi con la Francia sembrava aver cacciato l’Italia e cercare nuove sponde, assicura che “l’Italia non intende affatto andare da sola in Europa sulla questione migranti”. E incassa subito la conferma della collega tedesca che la Germania rispetterà l’impegno ad accogliere 3.000 migranti sbarcati in Italia e dalla Yohansson il passaggio dalle parole ai fatti. Dopo il sostegno espresso martedì dalla Commissaria europea ieri è infatti arrivata la convocazione a Bruxelles per il 25 novembre di un incontro straordinario dei ministri dell’Interno della Ue, con all’ordine del giorno proprio l’adozione di un piano immediato per governare i flussi migratori. “A quell’incontro - annuncia Piantedosi - l’Italia si presenterà con la sua proposta: che è quella condivisa con gli altri Paesi di primo ingresso e che credo sarà in sintonia con quella della Commissione”. Innanzitutto una sorta di grande decreto flussi, “un modello condiviso a livello europeo”, con quote che tutti gli Stati che aderiranno offriranno ai Paesi di origine o di transito dei migranti, ovviamente da quantificare con quello che il mercato del lavoro richiede e può assorbire. Piantedosi riassume così le linee del piano italiano per l’Europa: “Garanzia di canali di ingresso regolari, rafforzamento dei corridoi umanitari, esperienza che da anni l’Italia con Sant’Egidio mette in campo, ma anche meccanismi maggiormente efficaci nei rimpatri e nel contrasto all’immigrazione illegale”. Il piano di redistribuzione firmato a giugno dall’Europa rimane. L’Italia non lo disdetterà: “Chiederemo però che siano implementati i meccanismi di effettiva redistribuzione delle persone anche se lo riteniamo insufficiente”, spiega il ministro dell’Interno che punta adesso anche a recuperare il rapporto con il collega francese Darmanin, assente a Wiesbaden per impegni parlamentari. “Mi spiace non averlo potuto incontrare qui - sottolinea il ministro dell’Interno - ma ci sarà presto l’occasione e davvero non ho mai avuto divergenze con la Francia e tantomeno abbiamo inteso crearne. Così come non c’è mai stato alcun dubbio che l’Italia continuerà ad agire all’interno della cornice delle regole europee né tantomeno qualcuno qui ce lo ha chiesto”. Migranti. Ventimiglia, dietro le telecamere il confine uccide di Roberto Maggioni Il Manifesto, 18 novembre 2022 Tra Francia e Italia controlli rinforzati dopo la recente crisi diplomatica: gendarmerie e troupe tv. Negli ultimi anni vittime lungo i binari, in gallerie e dirupi. Erano diretti oltralpe. Il viaggio in treno tra Ventimiglia e Mentone-Garavan dura solo 10 minuti ma custodisce sette anni di storia delle migrazioni dall’Italia verso la Francia. Da giugno 2015 ogni vagone che attraversa questo confine viene controllato dalla polizia francese che rimanda indietro chi non è in regola con i documenti. Di treni che da Ventimiglia vanno verso la Francia ce ne sono almeno tre o quattro ogni ora. I binari di partenza spesso sono controllati da polizia o carabinieri. Anche mercoledì mattina un gruppo di poliziotti controlla a vista i movimenti in stazione. Quando il treno parte ci si accorge subito che viaggia a velocità ridotta. In questi sette anni decine di migranti si sono feriti o sono morti cercando di aggrapparsi al treno in corsa o percorrendo a piedi i binari della ferrovia. Quindi i convogli si muovono piano. In due punti c’è un ulteriore rallentamento: quando si passa sul ponte sopra al fiume Roja, che spesso viene usato anche dai migranti, e quando il treno entra nelle gallerie che anticipano l’ingresso in Francia. Nel buio potrebbe esserci qualcuno che sta camminando a lato dei binari. Arrivato a Mentone-Garavan il treno si ferma per alcuni minuti e salgono a bordo tre/quattro poliziotti francesi: davanti, dietro e in mezzo al convoglio. I passeggeri che ai poliziotti sembrano irregolari, quelli che sembrano senza documenti, vengono fatti scendere e controllati sui binari. In questo viaggio è capitato a un gruppetto di quattro ragazzi e a due ragazze, tutti piuttosto giovani, probabilmente minorenni. Uno dei ragazzi sembra molto stanco e scosso, sulle spalle ha un asciugamano bianco, dai lineamenti sembra provenire dall’Africa centrale. Le ragazze sembrano mediorientali. Una volta fatti scendere dal treno vengono controllate generalità e documenti. A seconda dei casi, o del caso, se non hanno le carte in regola per proseguire il loro viaggio vengono rimessi sul primo treno per l’Italia oppure portati alla frontiera alta di Ventimiglia, a Ponte San Luigi, dove sono scaricati con in mano il foglio di respingimento dalla Francia e consegnati alla polizia italiana che, salutati i gendarmi francesi, dice ai migranti di avviarsi a piedi verso Ventimiglia. Un copione che si ripete ogni giorno. È la quotidianità del confine. Quasi nulla è cambiato dall’estate del 2015, quando sugli scogli dei Balzi rossi che costeggiano il confine basso si erano ritrovati accampati centinaia di migranti respinti. Con la sospensione del trattato di Schengen, che la Francia non ha più ripristinato, tornavano i controlli di frontiera all’interno dell’Europa. Nei giorni scorsi questi si sono fatti più visibili e muscolari come ritorsione del governo francese verso quello italiano per la gestione della nave Ocean Viking della Ong Sos Mediterranée. La Francia usa il controllo del confine anche in base alle necessità di politica interna. I comuni del sud che confinano con l’Italia hanno visto crescere negli anni i consensi per il Rassemblement National di Marine Le Pen e ciclicamente il presidente Macron mostra i muscoli da queste parti. Gli attivisti No Border italiani ricordano come nel periodo delle proteste dei Gilets Jaunes la frontiera era quasi sguarnita perché poliziotti e gendarmerie erano impegnati sul fronte interno. “Sono stati mesi nei quali i migranti passavano con relativa facilità perché i poliziotti francesi erano impegnati a pattugliare le strade, le rotonde e i luoghi occupati dai gilet gialli”, ricorda Maria Paola Rottino dell’associazione Popoli in Arte. Poi, complici le elezioni presidenziali, i controlli sono ripresi in modo più consistente e la media dei respingimenti è tornata ad attestarsi sui 70 al giorno. Un centinaio di persone è anche la media di quelli che si rivolgono ogni giorno alla Caritas di Ventimiglia che ha la sua sede proprio vicino alla stazione dei treni. “Ci sono anche minorenni perché i francesi cambiano la data di nascita sui documenti e li fanno risultare maggiorenni”, racconta Maurizio Marmo della Caritas. Da Ventimiglia, tentativo dopo tentativo, quasi tutti riescono a varcare il confine. Quando però ci sono più controlli il rischio di farsi male aumenta e la via più battuta diventa quella della montagna, il cosiddetto Passo della morte. “Quando piove non partono, troppo pericoloso. Quando pioviggina come oggi può diventare un buon momento con meno controlli”, mi dice un attivista italiano. Il “Passo della morta” sbuca proprio a Mentone in uno spiazzo dove spesso staziona una camionetta della gendarmeria. Molti migranti tentano così di salire più in alto ma il costone di roccia conduce a un dirupo. Si contano una trentina di morti in questi sette anni. Dal sentiero si vedono in lontananza i grattaceli di Nizza e il futuro oltre il confine. Nei giorni scorsi dall’alto si vedevano anche le troupe televisive mandate a raccontare “il pugno duro” di Macron. Poi, spente le telecamere, tutto è tornato alla sua tragica ordinarietà. Kuwait. Il boia torna a colpire: giustiziati sette detenuti asianews.it, 18 novembre 2022 Le ultime esecuzioni risalivano al 2017 e hanno riguardato anche un membro della famiglia reale. Fra le persone giustiziate quattro cittadini kuwaitiani (tre uomini e una donna), un siriano, un pakistano e una etiope. La condanna della Ue, che minaccia ritorsioni fra cui il blocco dell’iter sui visti di ingresso.  Le autorità hanno giustiziato ieri sette persone condannate per omicidio e altri crimini gravi, applicando per la prima volta dal 2017 la pena capitale e attirandosi critiche di gruppi attivisti pro diritti umani e minacce di ritorsioni da parte delle cancellerie internazionali. Fra le prime voci critiche a levarsi vi è quella dell’Unione europea: Bruxelles ha convocato l’ambasciatore del Paese del Golfo presso la Ue e minacciato di bloccare l’iter che porta alla concessione di viaggi senza bisogno del visto. Il commissario Ue Margaritis Schinas afferma che ci saranno delle “conseguenze” in seguito al ricorso al boia dopo anni di moratoria e a fronte di “rassicurazione” che non vi sarebbero state esecuzioni, come ha rimarcato il funzionario. Le condanne a morte, infatti, sono state eseguite proprio in questi giorni di visita della delegazione europea in Kuwait. “Trarremo tutte le conseguenze - ha affermato Schinas in una nota - che questa decisione avrà sui colloqui […] per mettere il Kuwait nella lista delle nazioni senza bisogno di visto”. Al riguardo, il Parlamento europeo dovrebbe votare oggi una proposta della Commissione che intende includere Kuwait City nella lista “visa-free”. In caso di via libera i cittadini del Golfo potranno entrare senza bisogno di visto Schengen (oggi obbligatorio) da un minimo di alcuni giorni ad un massimo di tre mesi.  Le condanne a morte sono state eseguite nella prigione centrale, anche se non sono chiare le modalità. Le persone giustiziate sono tre uomini e una donna cittadini del Kuwait, un uomo di nazionalità siriana, un pakistano e una donna etiope. Fra le cause che hanno portato alle esecuzioni vi sono l’omicidio premeditato; per le autorità, la pena capitale deve rappresentare un “deterrente” per analoghe situazioni in futuro. “Agendo in questo modo hanno privato le vittime - ha dichiarato la pubblica accusa in una nota - di uno dei diritti più sacri, che è quello alla vita”. L’ultima esecuzione di massa risaliva al 2017, quando il Kuwait aveva giustiziato sette prigionieri fra i quali un membro della famiglia reale al potere, gli Al-Sabah. Prima di allora si erano registrate altre esecuzioni nel 2013. Il vice direttore regionale di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa, Amna Guellali, ha rinnovato l’appello alle autorità chiedendo una “moratoria immediata alle esecuzioni”. E ha aggiunto che “la pena di morte è una violazione del diritto alla vita e un’ultima punizione crudele, disumana e degradante”.