Appello. Fermiamo la strage dei suicidi in carcere. Qui ed ora… si può! Firma su Change.org Il Dubbio, 17 novembre 2022 77 morti in poco più di 10 mesi. È il numero di suicidi in carcere registrati fino ad oggi. Un record lugubre, terribile, inaccettabile. Mai prima d’ora era stato raggiunto questo abisso. Sappiamo bene cosa si dovrebbe fare per evitare o contenere questo massacro quotidiano: depenalizzare e considerare il carcere solo come extrema ratio, moltiplicare le pene alternative, dare la possibilità al cittadino detenuto di iniziare un vero percorso di inclusione nella comunità. Chi è in custodia nelle mani dello Stato dovrebbe vivere in spazi e contesti umani che rispettino la sua dignità e i suoi diritti. Chi è in custodia dello Stato non dovrebbe togliersi la vita! Insomma, sappiamo bene, perché ne discutiamo da anni, da decenni quali siano le strade per fermare la strage, ma la politica, quasi tutta la politica, è sorda perché sul carcere e sulla pelle dei reclusi si gioca una partita tutta ideologica che non tiene in nessun conto chi vive “dentro”, oltre quel muro che divide i “buoni” dai “cattivi”. Insomma, non c’è tempo: il massacro va fermato qui ed ora. E allora proponiamo una serie di interventi immediati che possano dare un minimo di sollievo al disagio che i detenuti vivono nelle carceri “illegali” del nostro Paese. 1. Aumentare le telefonate per i detenuti. È sufficiente modificare il regolamento penitenziario del 2000, secondo cui ogni detenuto (esclusi quelli che non possono comunicare con l’esterno) ha diritto a una sola telefonata a settimana, per un massimo di dieci minuti. Bisognerebbe consentire ai detenuti di chiamare tutti i giorni, o quando ne hanno desiderio, i propri cari. 2. Alzare a 75 giorni i 45 previsti a semestre per la liberazione anticipata. 3. Creare spazi da dedicare ai familiari che vogliono essere in contatto con i propri cari reclusi per valorizzare l’affettività. 4. Aumentare il personale per la salute psicofisica. In quasi tutti gli istituti vi è una grave carenza di psichiatri e psicologi. 5. Attuare al più presto, con la prospettiva di seguire il solco delle misure alternative, quella parte della riforma Cartabia che contempla la valorizzazione della giustizia riparativa e nel contempo rivitalizza le sanzioni sostitutive delle pene detentive. Sottoscrivi l’appello su Change.org: https://www.change.org/stopsuicidicarcere “I suicidi in carcere sono una sconfitta ma non date la colpa agli agenti” di Liana Milella La Repubblica, 17 novembre 2022 Il Capo del Dap Carlo Renoldi: “Le torture a Bari? Non difendo chi tradisce il giuramento fatto sulla Costituzione, ma chi lavora in condizioni difficili, comunque esiste la presunzione d’innocenza”. Lei, Carlo Renoldi, è arrivato al vertice delle carceri italiane a febbraio, scelto dall’ex Guardasigilli Marta Cartabia, con la fama di garantista. Anche verso i detenuti. Una nomina criticata da chi vorrebbe un carcere senza speranza. E adesso sotto gli occhi abbiamo 77 suicidi dall’inizio dell’anno, gli ultimi due tra Lecce e Ariano Irpino, ma anche un caso come quello di Alfredo Cospito, detenuto al 41-bis e all’ergastolo ostativo, e in sciopero della fame da 26 giorni, di cui su Repubblica ha scritto Luigi Manconi. Ma pure i tre arresti di agenti a Bari con l’accusa di torture. Partiamo da Cospito allora, visto che il governo per decreto mantiene un ergastolo ostativo assai rigido. Lui ha già perso 21 chili. La sua protesta è già di per sé perdente pur se giusta? “Preferisco non parlare di singoli casi, rispetto ai quali è più giusto che il ministero si esprima con atti formali. Da parte del Dipartimento vi è molta attenzione verso il fondamentale diritto alla salute di tutte le persone detenute”. Manconi le chiede se il regime del 41-bis possa comportare non solo la fine di qualsiasi contatto con il gruppo criminale, ma anche il blocco della posta e i limiti all’ora d’aria… “L’articolo 41-bis stabilisce limitazioni all’ordinario trattamento penitenziario, che la Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’Uomo hanno, più volte, ritenuto legittime. Tra queste limitazioni, previste dalla legge, c’è anche il controllo della corrispondenza, per impedire che la persona detenuta possa continuare a influenzare le organizzazioni criminali alle quali è ancora collegata”. La Consulta ha dichiarato incostituzionale un ergastolo ostativo che, in assenza di collaborazione con la giustizia, vieta anche la liberazione condizionale. La Camera prima, e il governo adesso, hanno posto paletti molto rigidi. Nel caso di Cospito l’insieme del 41-bis e dell’ergastolo di fatto negano qualsiasi spazio e contatto con l’esterno. Così non si va contro la Consulta? “Sull’ergastolo ostativo, la modifica dell’articolo 4-bis, compiuta con il recente decreto legge, riprende le proposte elaborate dalla maggioranza parlamentare nella passata legislatura. Con questa modifica il governo si è fatto carico dei rilievi di incostituzionalità in precedenza formulati dalla Consulta. In concreto, sono stati introdotti requisiti molto stringenti per l’eventuale accesso ai benefici per i condannati all’ergastolo. Il Parlamento sarà chiamato a convertire il decreto e, in ogni caso, si dovranno attendere le applicazioni che, delle norme in questione, farà la magistratura”. Guardiamo ai numeri delle sue carceri, a fine ottobre 56mila detenuti a fronte di una capienza per 51mila. E a lunedì sera 77 suicidi. Anche di detenuti in custodia cautelare oppure in procinto di uscire. Come se lo spiega? “I suicidi nelle carceri sono un fenomeno allarmante, che segna sempre una sconfitta per le istituzioni. Stiamo affrontando quest’emergenza con l’immissione di nuove risorse e grazie al grande impegno del nostro personale, che lavora al fianco di quello delle Asl, chiamato per legge all’assistenza psicologica e psichiatrica delle persone detenute. Trovo, peraltro, improprio l’accostamento tra i suicidi e il sovraffollamento. Nell’anno in cui maggiore fu il sovraffollamento, nel 2012, minore fu la percentuale di suicidi. Inoltre, non di rado il suicidio avviene a pochi giorni dalla scarcerazione o appena entrati in carcere, per ragioni slegate dalle condizioni detentive. Alla base della scelta drammatica di togliersi la vita ci sono molto spesso anche motivazioni individuali, legate a un vissuto di disperazione che ha spesso radici profonde e lontane”. Il Garante dei detenuti Palma, di certo un garantista doc, chiede che nelle carceri ci siano “condizioni che sappiano tenere insieme efficacia, umanità e piena adesione al dettato costituzionale sull’esecuzione penale”. Le sue carceri sono “costituzionali”? “Le parole del professor Palma ben esprimono il significato profondo che la Costituzione attribuisce alla pena nel nostro ordinamento. Le carceri italiane costituiscono una realtà molto complessa, nella quale troviamo, insieme, esperienze molto avanzate di trattamento risocializzante e condizioni di forte sofferenza organizzativa. Generalmente, come forse è inevitabile, ci si sofferma soprattutto su ciò che non funziona; ma non vanno dimenticate le tante esperienze positive, in cui brilla l’impegno del nostro personale”. A settembre lei ha detto che dovrebbe far notizia il dato dei suicidi mancati, erano 1.078 in quel momento. Questo significa che alcuni si potrebbero evitare? “Con quella indicazione ho voluto evidenziare, da un lato, che la situazione di disagio della popolazione detenuta ha proporzioni più ampie rispetto a quanto suggerisce il dato, pur estremamente serio, dei suicidi; dall’altro lato, che le azioni del personale penitenziario consentono, pur in una situazione di frequente difficoltà operativa, di salvare la vita di tante persone disperate”. Com’è possibile che non ci sia alcun esame delle condizioni fisiche e psicologiche di chi viene arrestato? Solo una questione di personale che manca oppure di scarsa sensibilità da parte della polizia penitenziaria? “Al momento dell’arresto, la persona viene sempre sottoposta alla visita di un medico, che deve valutare anche il rischio suicidario. Ovviamente, non sempre è agevole intercettare il suo disagio, che talvolta viene dissimulato. Nei casi più preoccupanti, la persona viene subito segnalata agli operatori del trattamento, che effettuano con lei frequenti colloqui e che cercano di attivare, con urgenza, i servizi sanitari territoriali, i quali, dopo la riforma del 2008, sono competenti in materia”. Certo è che casi come quello recentissimo di Bari, un detenuto con problemi psichici di 42 anni pestato da tre agenti come ha raccontato Repubblica, nonché le ormai storiche immagini di Santa Maria Capua Vetere, ma anche i morti di Modena, non depongono affatto bene sugli agenti. Lei li difende comunque? “Io difendo le decine di migliaia di appartenenti al Corpo che, ogni giorno, lavorano in condizioni spesso difficili, onorando il loro giuramento di fedeltà alla Costituzione e alle leggi. Non posso, certo, difendere chi, invece, tradendo quel giuramento, si rende responsabile di gravi violazioni di norme anche di rilievo penale. Ricordo però che, nel nostro ordinamento, vige la presunzione di non colpevolezza e che eventuali responsabilità individuali devono essere accertate dalla magistratura, verso la quale nutriamo piena fiducia, come ribadito nella nota congiunta con il ministro Nordio”. Se gli agenti fossero più “umani” non potrebbero salvare delle vite? “L’umanità del nostro personale è fuori discussione e i nostri operatori ogni giorno salvano la vita a tante persone che rischiano di soccombere davanti alle tante fragilità, personali e familiari, che segnano la loro vita”. Per evitare i suicidi possono bastare un maggior numero di psicologi, oltre ai 200 che avete assunto? “L’esperienza di questi giorni dimostra che non possiamo mai abbassare la guardia e che le misure adottate devono essere rafforzate, alzando ulteriormente i livelli di attenzione e di presa in carico di un disagio che è sempre più diffuso già nella società esterna e che, in carcere, si amplifica. Sono fondamentali le politiche del personale che stiamo portando avanti, a livello sia di formazione professionale, sia di assunzioni, per lungo tempo rimaste ferme”. Però, da settembre, non sembra che la sua circolare alle singole carceri per raccomandare attenzione, abbia prodotto risultati, da 57 i suicidi sono diventati 77... “Di fronte a questi dati così negativi, noi non ci arrendiamo e continuiamo, con determinazione, a portare avanti la nostra complessa missione istituzionale. Sarà fondamentale consolidare i rapporti di collaborazione e di reciproco intervento con il mondo della sanità. So che anche il ministro Nordio condivide questa necessità”. Senta, i nostri penitenziari non possono cambiare da un giorno all’altro. Sovraffollamento, scarafaggi, operatori arrabbiati perché non guadagnano abbastanza. Nordio parla dei suicidi come di “un’emergenza drammatica”. Ma non sono le carceri in se stesse a essere “drammatiche”? “Il ministro Nordio ha mostrato, fin dal suo insediamento, una particolare sensibilità verso il tema del carcere, che ci pone di fronte a questioni di straordinaria complessità, non risolvibili con un colpo di bacchetta magica, anche perché parliamo di circa 200 istituti. Sono tuttavia fiducioso che l’attenzione subito manifestata possa dare, nel tempo, dei risultati positivi”. Il rinvio in blocco fino a fine anno della riforma penale dell’ex ministra Cartabia, compreso tutto l’ampio capitolo sulla “nuova” giustizia, da quella riparativa, al potenziamento della tenuità del fatto, alla possibilità di non scontare in carcere le pene fino a 4 anni, non rischia, come ha detto Gherardo Colombo, di avere conseguenze drammatiche proprio sui penitenziari al limite del collasso? “La scelta politica del rinvio è stata determinata, secondo quanto emerge dalla relazione illustrativa del recente provvedimento, dalla necessità di alcuni accorgimenti di natura tecnico-organizzativa, adottati i quali la riforma dovrebbe entrare a regime. Ciò potrebbe favorire un sempre più mirato ricorso al carcere per le situazioni che lo rendano realmente necessario in ragione della gravità dei reati e della pericolosità dei loro autori”. Fermiamo la strage dei suicidi in carcere! di Francesca de Carolis ultimavoce.it, 17 novembre 2022 77 morti. 77 suicidi nelle carceri italiane. E per lo più persone giovani, lì a scontare pene irrisorie. In carcere per uno scippo, per il furto di una cuffia, per quella dose di droga che, per quel manifesto della cultura illiberale che è la Fini- Giovanardi, ti fa finire in carcere. Persone “fragili” si commenta spesso. Una compassione che quasi si ritorce in colpa… eh, sì, troppo fragile per resistere alla “cura” dello stato. Che cura intollerabile lo è per tutti, anche per chi quella “cura” non si traduce in abbraccio di morte. Fa impressione il silenzio che circonda questa strage. Ne parlano in pochi, solo chi di carcere si occupa da sempre. “Ristretti Orizzonti, insieme a “Il Dubbio”, quotidiano costantemente attento alla questione carcere, ancora prova a rompere questo silenzio, lanciando un appello, al quale ci uniamo, ché “mai prima d’ora era stato raggiunto questo abisso”. “Fermiamo la strage dei suicidi in carcere”, dunque. Primi firmatari Roberto Saviano, Gherardo Colombo, Luigi Manconi, Giovanni Fiandaca, Massimo Cacciari, Fiammetta Borsellino, Ascanio Celestino, Mimmo Lucano… e ancora filosofi, giuristi, penalisti, rappresentanti di associazioni che si occupano di diritti… Un appello per scuotere il mondo della politica, questa politica che è sorda. “Sorda perché sul carcere e sulla pelle dei reclusi si gioca una partita tutta ideologica che non tiene in nessun conto chi vive ‘dentro’, oltre quel muro che divide i ‘buoni’ dai ‘cattivi’”. Una politica sorda alle indicazioni che da tempo chi il carcere lo conosce pure sa dare, anche perché sa bene cosa si dovrebbe fare intanto per evitare o contenere questo massacro. In sintesi, “depenalizzare e considerare il carcere solo come extrema ratio, moltiplicare le pene alternative, dare la possibilità al cittadino detenuto di iniziare un vero percorso di inclusione nella comunità. Chi è in custodia nelle mani dello Stato dovrebbe vivere in spazi e contesti umani che rispettino la sua dignità e i suoi diritti”. Perché, ne abbiamo parlato altre volte, molto di quel che avviene nelle carceri è “illegale”. Qualcosa, per poter iniziare a dare sollievo a chi vive in condizioni che si fa fatica a immaginare, si potrebbe fare subito. Nell’appello vengono indicati alcuni punti: - Aumentare le telefonate per i detenuti. Bisognerebbe consentire ai detenuti di chiamare tutti i giorni, o quando ne hanno desiderio, i propri cari. (oggi ogni detenuto (tranne quelli che non possono comunicare con l’esterno) ha diritto a una sola telefonata a settimana, per un massimo di dieci minuti. - Alzare a 75 giorni i 45 previsti a semestre per la liberazione anticipata. - Creare spazi da dedicare ai familiari che vogliono essere in contatto con i propri cari reclusi per valorizzare l’affettività. - Aumentare il personale per la salute psicofisica. In quasi tutti gli istituti vi è una grave carenza di psichiatri e psicologi. - Attuare al più presto, con la prospettiva di seguire il solco delle misure alternative, quella parte della riforma Cartabia che contempla la valorizzazione della giustizia riparativa e nel contempo rivitalizza le sanzioni sostitutive delle pene detentive. Nulla di rivoluzionario, come vedete… solo un primo passo per arginare il massacro. Per aderire basta firmare qui: https://www.change.org/stopsuicidicarcere . Nulla di rivoluzionario, solo qualche passo per arginare l’indecenza. In attesa che si ripensi seriamente al sistema delle pene. Personalmente sono convinta della necessità di pensare e realizzare infine un mondo senza carceri. Ripensare “questa strana pratica, e la singolar pretesa di rinchiudere per correggere, avanzata dai codici moderni”, come spiega Foucault. E non è utopia. Non è un caso (ce lo siamo dimenticati?) che la nostra costituzione parla di condanne e di pene, ma mai pronuncia la parola “carcere”. Che chi l’ha scritta, la nostra Costituzione, ben ne conosceva la barbarie. E teniamocela stretta, questa Costituzione, che ancora da qualche abisso ci tiene lontani. Sempre più suicidi in carcere: c’è bisogno di misure alternative alla detenzione di Andrea Leccese* Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2022 Mai così tanti suicidi nelle carceri italiane come quest’anno. Il 2022 è l’anno con il numero maggiore di detenuti che si sono tolti la vita dal 2009, quando si raggiunse quota 72. Da gennaio a oggi se ne contano già 77. Un dato a dir poco allarmante, tanto che il garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale è intervenuto per rilevare che il nostro sistema penitenziario “sta vivendo un momento di particolare complessità”. Spesso a decidere di farla finita sono dei giovani detenuti. Mi ha colpito molto a ottobre la notizia della morte di un ragazzo - arrestato in flagranza per un piccolo reato - che si è impiccato nella sua cella della sezione “nuovi giunti” del carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino. Aveva 22 anni e avrebbe avuto tutta una vita davanti per riscattarsi e inserirsi nella società e nel mondo del lavoro. “Il grado di civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, scriveva Voltaire. Per questo appare ormai indifferibile una seria riflessione su quello che accade nei nostri istituti penitenziari. Queste morti dovrebbero stimolare non solo interrogativi sul funzionamento del sistema carcerario, ma anche sulla necessità di limitare il ricorso alla custodia cautelare e soprattutto sulla possibilità di dare maggiore spazio alle misure alternative alla detenzione e di privilegiare il modello della giustizia riparativa e la mediazione penale. Nella scorsa legislatura abbiamo fatto senza dubbio importanti passi avanti. In tema di giustizia riparativa, il legislatore ha finalmente fornito una cornice normativa a prassi già diffuse sulla base di regole europee e internazionali. Presso ogni corte d’appello saranno inoltre istituiti, con il coinvolgimento degli enti locali, i centri per la giustizia riparativa. Infine è stato ampliato l’ambito di applicazione della sospensione del procedimento penale con “messa alla prova” a un insieme di reati con pena non superiore a sei anni. E questo comporterà ricadute positive anche sui tempi di definizione dei processi penali. “Adesso che il percorso della riforma è compiuto - mi dice Cristina Selmi, direttrice dell’Ufficio locale di esecuzione esterna di Pistoia - per il sistema dell’esecuzione penale esterna si tratta di continuare a implementare il dialogo con le comunità, con gli enti locali, con il terzo settore, per far conoscere la cultura della riparazione e per creare diffuse opportunità strutturate di esecuzione del lavoro di pubblica utilità”. Proprio nella provincia di Pistoia sta dando buoni frutti il progetto “Smart Social Justice” che vede impegnati, in un percorso di conoscenza degli strumenti della giustizia riparativa, operatori di numerosi enti del territorio, comprese le forze di polizia. *Saggista, esperto di sindacati militari Il “male oscuro” che corrode le carceri italiane di Valter Vecellio lindro.it, 17 novembre 2022 Un numero di suicidi e di morti mai stato così alto; e crescerà dal momento che l’anno ancora non è finito. È inquietante che in meno di un anno si siano uccise oltre ottanta persone, per lo più giovanissimi, detenuti per reati che comportano pene irrisorie. Molti di questi suicidi in carcere non avrebbero dovuto neppure starci: dipendenti da alcol o droga o malati psichiatrici. Si parla dei suicidi, ma va considerato che ogni settimana di agenti della polizia penitenziaria salvano una media di tre detenuti che cercano di togliersi la vita. Siamo arrivati, a 77 detenuti che si sono uccisi; a loro vanno aggiunti anche quattro agenti della polizia penitenziaria. Ogni storia è una storia a sé; al tempo stesso chi deve sorvegliare i detenuti spesso si viene a trovare nelle stesse condizioni di disagio e di angoscia di chi è recluso. C’è un “male oscuro” che alligna nelle carceri; un “male oscuro” che è all’origine di suicidi, tentati suicidi, atti di autolesionismo, aggressioni, disordini. I problemi sono quelli che si denunciano da anni, inascoltati: i detenuti nelle 192 case circondariali italiane risultano essere più di 56mila, oltre seimila in più rispetto alla capienza regolamentare consentito. Il sovraffollamento è la prima causa del disagio. Poi la carenza di personale, l’inadeguatezza degli ambienti, le precarie condizioni igienico-sanitarie. Solo 39.800 detenuti hanno avuto una condanna definitiva. Gli altri sono in attesa di giudizio o scontano pene con sentenze non ancora passata in giudicato. Sono proprio loro i più a rischio suicidio. Spesso sono immigrati che non conoscono l’italiano o non hanno i mezzi per un avvocato. Ancora: nel 2022 sono morti 186 detenuti; tra loro ben 27 “per cause da accertare”. Non si sa perché e come siano morti, pur essendo morti in una struttura dello Stato, e dallo Stato gestita. Incredibile. La nomina di Carlo Nordio a ministro della Giustizia è stata salutata positivamente da quanti auspicano e sperano che possa e sappia fare quello che diceva essere necessario fare: Marta Cartabia, che l’ha preceduto nella difficile poltrona di via Arenula doveva fare i conti con una maggioranza litigiosa e attraversata da mille pulsioni tra loro diverse e di opposto segno. Nordio non ha di questi problemi: la maggioranza di governo è solida, anche se certamente la Lega di Salvini e buona parte dei Fratelli d’Italia in materia di giustizia sono lontani dalle posizioni del ministro. L’altro giorno, a proposito dei migranti il ministro Nordio ha usato una frase un po’ infelice. Ha detto che era necessario inviare a tutti un “messaggio”, che in Italia c’è un nuovo corso. Si potrebbe obiettare che le leggi non si fanno per mandare “messaggi”, ma perché le si ritengono utili per il cittadino. Ma al di là di questo dato, non solo formale, si accetti pure la logica del “messaggio”. Per quello che riguarda il carcere, le condizioni di vita dei detenuti, degli agenti della polizia penitenziaria, dell’intera comunità del carcere, quel è il “messaggio” che giunge dal ministero della Giustizia, quale il segno che c’è un “nuovo corso”? Se qualcuno obietta che si attende il ministro Nordio al varco, la risposta è sì: lo si attende al varco. A questo varco del carcere, dei suicidi. Se qualcuno obietta che è presto, la risposta è no: anzi, è tardi. Drammaticamente tardi. A proposito di “messaggi”: la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ordina al governo italiano, pena condanna dell’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione, di cessare dal continuare a rinchiudere nel carcere di San Vittore, e di assicurare invece un posto di cura nelle apposite “Rems-Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive”, due detenuti “non imputabili” e perciò assolti nei processi per reati commessi in stato di “incapacità di intendere e volere”, ma nel contempo non liberabili perché indicati dalle perizie e poi quindi dai giudici come “socialmente pericolosi” a causa dei propri disturbi psichiatrici. È caso di un tema più volte segnalato e irrisolto. Giustissimo aver chiuso i vecchi, incivili Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Al loro posto le Regioni dovevano istituire le Rems (subentrate dal 2017). Il fatto è che non dispongono di sufficienti posti per soddisfare la “domanda”: con il risultato di allungare anche a 5-6 mesi le liste d’attesa in media per 60-70 persone: che così vengono trattenute illegalmente in carcere se già in custodia cautelare, con il rischio che facciano del male a se stessi o agli altri detenuti (e quindi con annesse responsabilità per gli incolpevoli direttori e agenti delle carceri, che anzi accettano di tamponare una situazione assurda); o restano in libertà ma con il rischio di riversare la loro pericolosità sociale sugli altri cittadini. Le nostre carceri sono infernali di Vittorio Feltri Libero, 17 novembre 2022 Segnalo a Giorgia Meloni un problema drammatico. Quello che riguarda l’inadeguatezza del nostro sistema carcerario, questo sì rimasto a cento anni fa e quindi bisognoso di una riforma che lo renda degno di un paese civile. Solo nell’anno in corso, negli stabilimenti di pena, si sono registrali 77 suicidi di detenuti e complessivamente sono decedute 186 persone se si considerano anche gli agenti di custodia. Sono dati che devono far riflettere un governo responsabile. Da anni il Partito Radicale, ormai ridotto ai minimi termini, predica inutilmente: dietro le sbarre è urgente che si adotti un minimo di umanità, di rispetto nei confronti dei segregati. Tutti sappiamo che coloro che commettono reati vanno puniti di norma con la reclusione, il che non significa che vadano torturati o anche solamente maltrattati. La Costituzione, come noto, prevede che i carcerati vengano rieducati, quindi non possano essere sottoposti a vessazioni. Già la privazione della libertà è una punizione crudele, se si aggiungono altre varie angherie siamo di fronte ad accanimenti intollerabili. Alcuni mesi orsono, in una prigione italiana, è avvenuto un fatto mostruoso. Gli agenti di custodia hanno picchiato selvaggiamente un numero elevato di galeotti. L’episodio è stato registrato dalle telecamere e poi trasmesso dalla tv, cosicché tutti hanno potuto vederlo e inorridire. La disgustosa vicenda è tuttora oggetto di un processo che non sappiamo come andrà a finire. Certo è che assistere a una sorta di pugilato tra custodi e custoditi non è rassicurante ed è la prova che i detenuti sono considerati carne da macello, e che il sistema normativo relativo alla vita dei prigionieri è scandaloso. Segnalo queste note a Giorgia Meloni che è una donna sensibile e capace. Sappia che così non si può andare avanti. È noto che la nostra magistratura spesso ne combina di ogni colore, applicando dei codici vecchi come il cucco e quindi inadeguati per i nostri tempi. Se poi a ciò aggiungiamo la pena dell’ergastolo ostativo rifilato ai mafiosi c’è da inorridire. Proprio ieri ho letto sui giornali che un uomo, chiuso da solo in una cella minuscola, sconta una pena senza fine, non può vedere la tv, non può leggere, insomma è ridotto a uno straccio. Trovo che tutto questo non possa conciliarsi con un minimo di sensibilità, di umanità. Cara presidente del Consiglio mi auguro che lei possa intervenire per porre termine a questo schifo. Ministro Nordio, “un messaggio” per lei… di Valter Vecellio L’Opinione, 17 novembre 2022 Nelle carceri del nostro Paese si registra un numero di suicidi e di morti mai così alto. È inquietante che in meno di un anno si siano uccise oltre ottanta persone, per lo più giovanissimi, colpevoli di reati che comportano pene irrisorie. Molti in carcere non avrebbero dovuto starci: dipendenti da alcol o droga, o malati psichiatrici. E, ogni settimana, gli agenti della polizia penitenziaria salvano dal suicidio in media tre detenuti che cercano di togliersi la vita. Ai per ora 77 detenuti che si sono uccisi vanno aggiunti quattro agenti della polizia penitenziaria. Ogni storia è a sé, ma è innegabile che chi deve sorvegliare i detenuti spesso si trova nelle stesse condizioni di disagio e angoscia di chi è recluso. C’è un “male oscuro” che alligna nelle carceri ed è all’origine di suicidi, tentati suicidi, atti di autolesionismo, aggressioni, disordini. I problemi sono quelli che si denunciano da anni, inascoltati: i detenuti nelle 192 carceri italiane sono più di 56mila, oltre seimila in più rispetto la capienza regolamentare. Il sovraffollamento è la prima causa del disagio. Poi la carenza di personale, l’inadeguatezza degli ambienti, le precarie condizioni igienico-sanitarie. Solo 39.800 detenuti hanno avuto una condanna definitiva. Gli altri sono in attesa di giudizio o scontano pene con sentenze non ancora passata in giudicato. Sono proprio loro i più a rischio suicidio. Ancora: nel 2022 sono morti 186 detenuti, ben 27 “per cause da accertare”. Non si sa perché e come siano morti, pur essendo morti in una struttura dello Stato, e dallo Stato gestita. Incredibile. La nomina di Carlo Nordio a ministro della Giustizia è stata salutata positivamente da tutti gli autentici liberali e garantisti. Si spera, si auspica che possa e sappia fare quello che diceva essere necessario fare. L’altro giorno, a proposito dei migranti, il ministro Nordio ha usato una frase un po’ infelice. Ha detto che era necessario inviare un messaggio: che in Italia c’è un nuovo corso. Le leggi non si fanno per mandare messaggi, ma perché le si ritengono utili per i cittadini. Al di là di questo dato, non solo formale, si accetti pure la logica del “messaggio”. Per quello che riguarda il carcere, le condizioni di vita dei detenuti e dell’intera comunità del carcere, qual è il “messaggio”, il segno del “nuovo corso”? Se qualcuno obietta che si attende il ministro Nordio al varco, la risposta è sì: lo si attende al varco. A questo varco del carcere, dei suicidi dei detenuti. Se qualcuno obietta che è presto, la risposta è no: anzi, è tardi. Drammaticamente tardi. Peggio di una fogna, il carcere è una cloaca che non va da nessuna parte di Ascanio Celestini* Il Dubbio, 17 novembre 2022 I detenuti suicidi sono gente come noi. E non è vero che hanno l’esclusiva della depressione. Mi ricordo uno che a San Vittore aveva scritto una lettera a un amico suo che viveva a Monza. Non si ricordava il Cap e l’ha chiesto al secondino, ma quello non aveva l’obbligo di dirglielo. E infatti non gliel’ha detto. Passano due o tre giorni e viene la moglie a colloquio, ma manco lei si ricorda il Cap. Dopo qualche altro giorno ritorna e glielo dice. Quel detenuto milanese mi fa “Si può impazzire in una cella con una lettera che ci hai attaccato pure il francobollo e non la puoi spedire”. Mi ricordo uno che studiava per laurearsi. Poi è tornato in galera nei giorni di Natale, ma era il carcere di Trani e l’anno era il 1980. Si cena presto in galera e questo lo ammanettano a uno che viene sbattuto giù per le scale. Pure lui caracolla di sotto. Fino al santantonio di botte. Ma gli avevano imparato a proteggersi la testa e i testicoli e si è salvato. Adesso è diventato buddista. Ha scritto un libro. Mi ricordo uno che mi dice “Io non sono razzista… anzi, sono razzista. Quando sono entrato per la prima volta in carcere ho chiesto al comandante di stare con un siciliano come me. C’era un palermitano, io sono di Catania. Mi ha messo con lui. Non li sopporto gli stranieri. Coi veneti ci posso pure provare a stare. Ma i bulgari o peggio ancora gli arabi non li sopporto”. Mentre faccio l’intervista scoppia una rissa nei passeggi dell’ora d’aria. Albanesi contro marocchini. Si tagliano. Arriva l’ambulanza. Gli infermieri si mettono i guanti di plastica per raccattare i feriti. Si difendono da Aids e epatite. Le guardie non intervengono subito. Bisogna prepararsi. Servono guanti e scudi. Quando arrivano… quello che doveva succedere è successo. Uno mi racconta che gli psicologi sono pochi e riescono a stare con i detenuti per un tempo medio di 25 minuti al mese. E poi è come il pollo di Petrolini. Qualcuno ne mangia due e qualcun altro resta a pancia vuota. Lo stesso succede con lo psicologo. Qualcuno lo incontra per un paio d’ore. Qualcuno se lo scorda per mesi e mesi. Qui dovrebbero esserci gli psicologi tutti e tutti i giorni. Invece ci stanno gli psicofarmaci che tengono tutti buoni e rincoglioniti. Se li inghiottono quei pilloloni, ma se li sniffano pure, li sbriciolano e se li pippano. I sessantamila detenuti sono buttati con un calcio nel sedere in un buco nero che è peggio di una fogna. Perché le fogne a volte sfociano nel mare, mentre il carcere è una cloaca che non sfocia da nessuna parte. Fermiamo la strage dei suicidi in carcere. Qui ed ora… Si può! Firma l’appello del Dubbio su Change.org: https://www.change.org/stopsuicidicarcere *Scrittore “Colpevoli di scrivere”: il Fatto Quotidiano contro Ristretti Orizzonti di Tiziana Maiolo Il Riformista, 17 novembre 2022 Lo spunto per l’articolo arriva da un atto più che discutibile di una Onlus dal nome “Casa della legalità” che ha presentato un esposto alla Dia perché attraverso la rivista vengono promossi articoli contro l’ergastolo ostativo. Sembra una vera istigazione a punire, quella lanciata ieri dal Fatto contro una serie di detenuti chiamati con nomi e cognomi, colpevoli di scrivere le proprie opinioni sulla rivista del carcere che va sotto il nome di Ristretti orizzonti. Vengono sfottuti, anche, “I boss diventano opinionisti”, e richiamati, in modo che chi di dovere si imprima bene l’elenco delle loro malefatte nella memoria, i tremendi reati commessi, quelli che, venti o trent’anni fa li hanno portati all’ergastolo. “Ostativo”, ecco la parola chiave. Detenuti al regime del “41-bis”, ecco l’altra parola chiave. Sembra un paradosso. Da una parte si legittima Roberto Saviano e il suo diritto a insultare con la parola più infame nel nome della libertà di pensiero e di parola. Dall’altra si mettono alla gogna gli ergastolani, come se non stessero comunque e da lungo tempo scontando la loro pena, perché osano pensare, avere opinioni, e persino comunicarle con la scrittura. Lo spunto arriva da un atto più che discutibile di una Onlus dal nome “Casa della legalità”, diretta da Christian Abbondanza, che avrà sicuramente avuto il merito di studiare l’espansione delle mafie, in particolare la ‘ndrangheta, nelle regioni del nord, ma questa volta ha compiuto un atto violento e cinico. Secondo quanto raccontato dal Fatto questa Onlus avrebbe presentato un esposto alla Dia, perché “attraverso Ristretti Orizzonti vengono promosse o diffuse pubblicazioni, anche scritte dagli stessi detenuti, di sistematico attacco all’ergastolo ostativo e al 41-bis”. Dunque, se abbiamo capito bene, la Direzione Investigativa Antimafia dovrebbe aprire indagini sulle carceri di mezza Italia e censurare il diritto di pensiero di parola e di scrittura dei detenuti che si esprimono sulla loro rivista. Perché questo è Ristretti Orizzonti, il luogo di espressione di chi è “ristretto” e spera che il proprio orizzonte non cominci e finisca dentro le mura di una prigione. È la rivista della speranza, del riscatto e del cambiamento, di quelli che hanno fatto un percorso autocritico, hanno lavorato, hanno studiato, alcuni si sono laureati. In giurisprudenza, spesso. E questo fa scandalo. Lo stesso articolo del Fatto riconosce l’importanza dell’esistenza di un luogo del pensiero come quello. Ma il suo ruolo è anche di denuncia, andrebbe aggiunto, come il lavoro minuzioso e certosino di ricerca sul fine vita, oltre che sul fine pena. Sulle morti “naturali”, dietro cui si nasconde troppo spesso la non voglia di sopravvivere più se non si può vivere. E sui suicidi, tragico conteggio che quest’anno sta arrivando agli ottanta. Ristretti Orizzonti parla di libertà e di diritti. E perché non dovrebbe divulgare il proprio pensiero critico sia su quel laccio che stringe alla gola coloro che sono destinati dalla condanna all’ergastolo ostativo, vera pena di morte sociale, che sul trattamento previsto dall’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario che aggiunge chiusura a chiusura, catenacci a catenacci? Vogliamo togliere loro anche l’aria, oltre alla libertà? Singolare modo di ragionare, quello di coloro che hanno chiamato in causa la Direzione Investigativa Antimafia. Fanno le pulci mettendo il naso dentro la redazione della rivista. “Fino al 2014 - denunciano nell’esposto - vi scrivevano perlopiù detenuti comuni, dopo è cambiato tutto”. Sarebbero stati i boss mafiosi a impadronirsi della rivista, a conquistare il potere (il potere?), a imporre le proprie battaglie. Pensate che osano persino comunicare concetti come questo: “Non si può comprimere la volontà di riscatto… a chi sta rivedendo la sua storia, riesaminando le sue scelte criminali, rendendosi disponibile a fare testimonianza della sua vita e del suo percorso in varie forme…”. Ma tra questa forme non è contemplata la collaborazione, fa subito notare il Fatto. Sta tutto qui il succo del discorso, lo scandalo da segnalare addirittura alla Dia. C’è da domandarsi a che tipo di sub-cultura appartengano gli aderenti alla Onlus che ha presentato l’esposto. Sia per aver cercato di coinvolgere un’importante agenzia investigativa che ha il compito di prevenire l’espandersi delle attività criminali e non certo quello di soffocare la rivendicazione dei propri diritti da parte di chi sta scontando la pena e sta rivisitando in forma autocritica il proprio passato. Ma anche per l’ignobile divulgazione di nomi e cognomi con allegata casella giudiziaria. Una vera gogna cui, ma di che stupirsi, il Fatto si è prestato a fare da trombettiere. Riforma Cartabia. La grande “attesa”: da nord a sud, decine le richieste di rinvio dei processi di Valentina Stella Il Dubbio, 17 novembre 2022 Brescia, Monza, Lecce, Torino: ecco alcuni casi in cui la richiesta è stata accolta a causa del rinvio dell’entrata in vigore della riforma del processo penale. Ci giungono da diversi Tribunali segnalazioni di procedimenti sospesi e differiti al nuovo anno a causa del rinvio dell’entrata in vigore della riforma del processo penale di “mediazione Cartabia”. Oltre al dettagliato caso di Lamezia Terme, dove un gup ha rimandato al 17 gennaio in modo da poter decidere alla luce della nuova regola di giudizio, e a quello di Brescia a carico dei magistrati De Pasquale e Spadaro, accusati di “rifiuto d’atti d’ufficio”, che hanno chiesto ed ottenuto il rinvio pure a gennaio dell’udienza filtro che vaglierà solo allora la “ragionevole probabilità di condanna”, non sono pochi gli avvocati che ci hanno raccontato di altri rinvii. L’avvocato Massimo Frisetti ci ha scritto che “proprio questa mattina, qui a Latina, il Giudice monocratico ha rinviato a giugno per notificare il verbale di udienza alle persone offese in un procedimento per violenza privata, con l’avvertimento che, qualora non avessero proposto la querela entro tre mesi dal ricevimento, il procedimento si sarebbe concluso con una sentenza di non luogo a procedere”. Questo perché la riforma Cartabia ha previsto un mutamento nel regime di procedibilità, tra gli altri, anche dei delitti di violenza privata che diverranno perseguibili solo a querela del soggetto offeso. Un altro caso ci viene segnalato dall’avvocato Vincenzo De Angelis: il 2 novembre, a tre giorni dal decreto legge del governo che ha rinviato la Cartabia, ha chiesto ed ottenuto da un giudice di Monza il rinvio a marzo di un’udienza preliminare, adducendo le stesse motivazioni prodotte dai suoi colleghi il 15 novembre a Lamezia Terme. “Domani farò la stessa richiesta sempre in una udienza preliminare ma al Tribunale di Milano”, ci dice De Angelis. Un altro rinvio c’è stato a Lecce. La Corte di Appello, come riportato due giorni fa dal Quotidiano di Puglia, nella prima udienza a carico di un maresciallo dei carabinieri, ha rinviato tutto al 13 febbraio. L’uomo è stato condannato in primo grado a dieci mesi di reclusione con pena sospesa e non menzione, a seguito di una contestazione di falso e di omissione in atti di ufficio. “Con la riforma Cartabia - ha rilevato l’avvocato Paolo Spalluto - per quella tipologia di reato si può chiedere la messa alla prova o il proscioglimento per particolare tenuità del fatto. Tali richieste non sono sostenibili facendo riferimento alle norme attuali”. Dunque si attende per il principio del favor rei. Ci spostiamo al Tribunale di Salerno dove l’avvocato Gaetano Manzi ha chiesto e ottenuto un rinvio, dal 14 novembre al 2 ottobre 2023, con sospensione dei termini di prescrizione. L’avvocato Giuseppe Campanelli invece ci ha partecipato quanto riferito a lui da diversi colleghi nell’ambito di sondaggi effettuati dall’Osservatorio informatizzazione del processo penale dell’Unione Camere penali: “Tra Roma, Piacenza, Brescia, Modena e Velletri, in assenza di linee guida esplicite, l’orientamento non è coerente. Vi sono stati processi rinviati a seguito del decreto legge del governo del 31 ottobre soprattutto per la modifica della disciplina del regime di procedibilità di alcuni reati contro la persona e contro il patrimonio, prevista dalla riforma Cartabia. Infatti la linea prevalente è quella di rinviare in presenza di reati che verrebbero estinti per intervenuta remissione della querela. Altri sono stati rinviati tout court “per prudente cautela”, senza una vera motivazione processuale, ma con stratagemmi del tipo “ora tarda”, “carico di ruolo”, “necessità di dare precedenza ai testi presenti”. Abbiamo raccolto anche la testimonianza di un magistrato, Andrea Natale, giudice del Tribunale di Torino, esponente di Md: “In più casi - non tantissimi, ma qualcuno sì - i difensori hanno chiesto rinvii del procedimento che, in altri contesti, non avrebbero richiesto. Mi è capitato di recente in alcuni giudizi direttissimi. L’interesse a formulare simili richieste di rinvio è intuitivo. La riforma penale incide su diversi aspetti di diritto - per così dire - “sanzionatorio”, in senso favorevole all’imputato”. Il giudice ci spiega che “si tratta di istituti di favore che intendono promuovere una visione del sistema penale non esclusivamente sanzionatoria, ma in qualche significativa misura riparatoria e risocializzante (conservando pur sempre anche aspetti punitivi o, comunque, afflittivi). Nei casi in cui mi è stato richiesto - ha proseguito - ho accordato i rinvii sollecitati dai difensori”. Del resto, alcuni istituti su citati “troverebbero applicazione retroattiva, in forza del principio di retroattività della legge penale più favorevole. E, quindi, l’applicazione di tali istituti verrebbe comunque riconosciuta all’imputato in successivi gradi di giudizio”. Per altri istituti, “come la modifica del regime di procedibilità, la riforma prevede delle disposizioni transitorie che, comunque, consentirebbero agli imputati di giovarsi delle modifiche più favorevoli da essa previste”. Dunque, per Natale, “accordare oggi un rinvio di una quarantina di giorni, mi sembra possa rispondere alle esigenze di più immediata applicazione dei contenuti - punitivi, ma anche riparatori e risocializzanti - della riforma e, al tempo stesso, avere anche un effetto di deflazione processuale (essendo ipotizzabile una contrazione - per questa via - del numero delle impugnazioni)”. Riforma Cartabia. “Che errore mettere in stand-by tutte le norme. Rischi pure per il Pnrr” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 17 novembre 2022 Intervista al professore Gian Luigi Gatta: “Il Governo avrebbe potuto bloccare l’efficacia delle sole parti della riforma bisognose di adattamenti, ora è in pericolo”. Gian Luigi Gatta, professore di Diritto penale alla Statale di Milano e già consigliere della ex ministra della Giustizia Marta Cartabia, interviene su alcuni effetti riguardanti la posticipazione della riforma penale. Professor Gatta, la riforma Cartabia è stata posticipata e gli effetti immediati sulle udienze penali vengono registrati in vari Tribunali. Stiamo assistendo ad un pasticcio con conseguenze deleterie per la giustizia e per i cittadini? Era prevedibile che rinviare l’entrata in vigore di tutta la riforma, in particolare anche delle disposizioni più favorevoli, quelle di diritto penale sostanziale, ma non solo, avrebbe comportato il rinvio delle udienze, in un rilevante numero di casi. L’imputato o l’avvocato difensore sa che per il reato per cui vi è il processo potrà chiedere, non appena la riforma entrerà in vigore, l’applicazione di una causa di non punibilità, come la particolare tenuità del fatto o, nel caso di condanna, l’applicazione di una pena sostitutiva, possibile ora fino a quattro anni. E perciò, se quell’imputato o quel difensore sa che il giudizio va ad udienza di decisione entro dicembre, non può che chiedere un rinvio. Rinvio che ragionevolmente verrà concesso. Formalmente non vi sarebbero ragioni per un rinvio ma, di fatto, è quello che sta accadendo per ragioni di buon senso e di giustizia sostanziale. Siamo di fronte a un effetto, purtroppo, frutto della scelta di aver posticipato l’entrata in vigore di tutta la riforma e non solo delle parti che, a giudizio del nuovo governo, richiedevano una disciplina di supporto organizzativo. Né i procuratori generali, in una lettera inviata al ministro e al Csm, né l’Anm avevano chiesto il rinvio dell’intera riforma. Meglio avrebbe fatto il governo, a mio avviso, a intervenire chirurgicamente, rinviando solo le parti della riforma ritenute bisognose del supporto organizzativo possibile nei due mesi, oppure di ulteriori norme transitorie. La scelta del rinvio integrale è ormai stata fatta e l’auspicio è che i due mesi di tempo vengano messi a frutto per migliorare la riforma, che è attesa da molti, come confermano anche e proprio le richieste di rinvio delle udienze. A Lamezia Terme gli avvocati hanno sollevato alcuni rilievi relativi alle conseguenze che porta il differimento dell’entrata in vigore della riforma penale. Quali rischi corre il sistema processuale, in questo momento, e quali interventi sono possibili? Le soluzioni possibili sul tappeto sono tre. Una, quella più pratica, consiste nel rinvio dell’udienza a dopo dicembre. Tale soluzione di comodo, però, presenta uno svantaggio di sistema, vale a dire quello di rallentare il processo penale. Paradossalmente, il rinvio di una riforma nata per accelerare i tempi del processo, in linea con gli obiettivi del Pnrr, determina dei rallentamenti con una serie di rinvii. I ruoli di udienza si vanno ad affollare. Il rinvio delle udienze a gennaio e febbraio 2023 provocherà ritardi nei processi e peggiorerà le statistiche ministeriali da esibire a Bruxelles. Si pone, quindi, un problema non di poco conto. Mi riferisco al raggiungimento dell’obiettivo Pnrr, consistente nel taglio del 25% dei tempi medi in cinque anni. Una seconda strada consiste nel ritenere che alcune norme siano già applicabili anche nel periodo di vacatio legis. Soluzione richiamata facendo riferimento a delle pronunce della Cassazione, in particolare in tema di riforma della legittima difesa. Non è però una soluzione facile e lineare, sul piano tecnico. L’ultima soluzione, infine, è quella di Siena, consistente nel sollevare la questione di legittimità costituzionale sul rinvio. Bisognerebbe però che la questione venisse trattata dalla Consulta prima di dicembre. Le “esigenze organizzative” che hanno differito l’entrata in vigore della riforma possono determinare insomma un effetto boomerang? Nella misura in cui non si è distinto tra le varie parti della riforma. Le esigenze organizzative riguardano singoli settori delle nuove norme, già valutati dal precedente governo attraverso la “Relazione Air”, Analisi di impatto della regolazione, approvata con il decreto legislativo. Se parliamo di esigenze legate alla fase delle indagini, il rinvio si poteva limitare alle indagini stesse. Le esigenze organizzative riguardano i sistemi informatici per le indagini e la fase delle indagini. Ci possono essere altre esigenze organizzative riguardanti l’Uepe, Ufficio di esecuzione penale esterna. In questo caso occorre tenere conto che il precedente governo ha ampliato l’organico con mille unità in più. Vi è pure una circolare del Dipartimento giustizia minorile e di comunità, da cui dipende l’Uepe, che con spirito costruttivo si accinge a far fronte ai nuovi impegni. Alcuni avvocati hanno parlato, in merito ai provvedimenti del governo Meloni di qualche settimana fa, di una sorta di controriforma rispetto ai precedenti interventi messi in campo dall’ex ministra Cartabia. Cosa ne pensa? Non credo che si tratti di una controriforma, perché, tra l’altro, c’è un impegno preciso derivante dal Pnrr, che il nuovo governo deve rispettare e che è intenzionato a rispettare. Il rinvio dell’entrata in vigore della riforma poteva, a mio avviso, limitarsi ad alcune parti. Non è in discussione la riforma in sé. Confido che i tecnici del ministero della Giustizia, molti dei quali hanno lavorato per mesi all’elaborazione delle nuove norme, sappiano apportare le migliorie ritenute necessarie, senza stravolgimenti. Come nasce il panpenalismo. Un esempio di Cristiano Cupelli Il Foglio, 17 novembre 2022 1. Si sta discutendo molto, in questi giorni, di uso e abuso dello strumento penale e della sua capacità di offrire risposte efficaci a nuovi bisogni di sicurezza e tutela. Un banco di prova interessante è rappresentato da recenti fenomeni di protesta che, in una esemplare eterogenesi dei fini, si trasformano, nella percezione comune, in forme di intollerabile disturbo della collettività o in deprecabili atti di vandalismo a danno del patrimonio culturale. Ci si riferisce alle ricorrenti interruzioni della circolazione stradale da parte di manifestanti (in particolare, ma non solo, sul Grande Raccordo Anulare di Roma) e all’imbrattamento (non permanente) di quadri e opere d’arte compiuto da sedicenti ambientalisti (da ultimo, sempre a Roma, è stato insudiciato, con una zuppa di verdura, “il seminatore” di Van Gogh). 2. Eterogenesi dei fini, anzitutto; perché si tratta di manifestazioni che, in realtà, anziché stimolare empatia, rafforzare sensibilità e attrarre consensi sul tema ambientale, finiscono per ripercuotersi negativamente sugli stessi obiettivi sbandierati: ne sono ampia riprova l’aumento esponenziale del (già elevato) tasso di inquinamento a causa degli ingorghi che ne scaturiscono, da un lato, e il danno (per fortuna non irreparabile) cagionato a opere dell’ingegno che non possono non essere ricomprese nel perimetro del concetto di natura che si pretenderebbe di preservare, dall’altro. Accantonato questo profilo, che rasenta il confine tra sociologia e (psico)patologia, i disagi e i danni (di vario genere, effettivi e potenziali) arrecati da tali condotte hanno spinto a invocare ancora una volta la potenza salvifica del diritto penale e a reclamare l’introduzione di nuove fattispecie calibrate sulla specifica esigenza di reprimere fenomeni del genere (qualcuno, ancor più fantasiosamente, ha addirittura auspicato l’applicazione dell’art. 5 del d.l. 162 del 2022, la c.d norma “anti-rave”). 3. Ora, prescindendo qui da ogni considerazione sulla reale meritevolezza di pena, va segnalato come il nostro ordinamento già contempli ipotesi dirette a fronteggiare condotte siffatte. Con riferimento ai blocchi stradali, ferma restando l’applicazione delle sanzioni per eventuali reati ipotizzabili quando a tali manifestazioni di protesta passiva si associno la resistenza o la violenza contro chi tenta di far spostare la persona dalla strada (artt. 336 e 337 c.p.) ovvero un’interruzione di pubblico servizio (art. 340 c.p.), si può infatti richiamare l’articolo 1-bis del d.lgs. n. 66 del 1948, come modificato dal d.l. n 113 del 2018, a tenore del quale si applica la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 1.000 a 4.000 euro a “chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria, ostruendo la stessa con il proprio corpo” (stessa sanzione per promotori e organizzatori). Nei confronti invece di chi, “al fine di impedire od ostacolare la libera circolazione, depone o abbandona congegni o altri oggetti di qualsiasi specie in una strada ordinaria o ferrata o comunque ostruisce o ingombra una strada ordinaria o ferrata”, si applica, ai sensi dell’art. 1 del medesimo decreto, la reclusione da uno a sei anni (pena raddoppiata se il fatto e? commesso da piu? persone, anche non riunite, o se e? commesso usando violenza o minaccia alle persone o violenza sulle cose). Sul versante della tutela di quadri e opere d’arte, può trovare applicazione il secondo comma dell’art. 518-duodecies c.p. (introdotto dalla legge n. 22 del 2022 in materia di “reati contro il patrimonio culturale”), che punisce con reclusione da sei mesi a tre anni e multa da 1.500 a 10.000 euro chiunque, senza che il bene sia distrutto, disperso, deteriorato o reso in tutto o in parte inservibile (si ricadrebbe in tal caso nella più severa ipotesi del primo comma), “deturpa o imbratta beni culturali o paesaggistici propri o altrui”. 4. Questa breve ricostruzione mette in luce come la combinazione tra l’istinto verso una pervasività del penale in ogni piega delle relazioni sociali, la pulsione emotiva e la fascinazione ancestrale verso la creazione di nuovi reati possa giocare brutti scherzi ai moderni punitores, finendo per prendere il sopravvento sulla preliminare considerazione dell’esistente e sulla serena disamina della realtà fattuale e legislativa; e spiega meglio di qualunque trattato come si (auto)alimenti - tra precomprensioni ermeneutiche errate e ricognizioni normative incomplete - la proliferazione di fattispecie penali simboliche e ineffettive, emanate sull’onda di una contingente emotività per placare l’opinione pubblica. In breve, ci esemplifica come nasce il panpenalismo. Lombardia. Bocci (Pd) eletta presidente della Commissione carceri askanews.it, 17 novembre 2022 Paola Bocci, consigliere regionale del Pd in Lombardia, è stata eletta a larga maggioranza questo pomeriggio presidente della Commissione speciale del Pirellone sulla situazione carceraria, dopo le dimissioni della collega dem Antonella Forattini, ora parlamentare. “Quello che mi appresto a iniziare è un incarico importante per le implicanze che comporta e che riguardano la tutela dei diritti delle persone private della libertà e dei lavoratori e delle lavoratrici delle strutture di detenzione” ha dichiarato Bocci. “Ringrazio i consiglieri commissari - ha aggiunto - della fiducia e chi mi ha preceduta alla guida di questa Commissione, i colleghi Gian Antonio Girelli e Antonella Forattini, e darò seguito al loro impegno di questi anni anche continuando la loro attività di sopralluogo nelle carceri lombarde. Inoltre, vorrei dare l’evidenza e il valore che merita a quanto prodotto dalla Commissione nell’ultimo anno e mezzo: una corposa indagine conoscitiva sulla salute mentale che ha affrontato il tema della gestione e della cura del disagio psichico nelle case circondariali”. Per Bocci si tratta di “uno strumento importante per elaborare soluzioni che possano dare concrete risposte alle criticità degli istituti carcerari dove è crescente la presenza di detenuti con problemi psicologici e psichiatrici ed è preoccupante l’aumento di suicidi, atti di autolesionismo e depressione. La relazione sarà presentata in Aula ai primi di dicembre, prima del bilancio, e potrà essere uno stimolo a individuare strumenti anche finanziari per intervenire in modo concreto. Vorrei, inoltre, che questo importante e approfondito lavoro avesse la possibilità di essere oggetto di riflessione attraverso momenti pubblici di confronto aperti a chi opera nel settore o si occupa dei diritti dei detenuti e della situazione del personale carcerario”. Avellino. Giallo sul suicidio in carcere. “Una comunità lo aspettava” di Salvatore De Napoli La Città di Salerno, 17 novembre 2022 Il 41enne ieri era atteso in aula. La sua “inquietudine” per le violenze a Fuorni. In carcere, probabilmente, non ci doveva stare: più volte aveva chiesto di andare in comunità. Ma, da mesi, non si era mai trovato un posto. È il punto di partenza dell’approfondimento in corso sulla morte di Costantino F., 41enne di Bellizzi ma residente a Salerno, che lunedì si sarebbe tolto la vita nella sua cella all’interno del carcere di Ariano Irpino, in provincia di Avellino. Una vicenda che, con il passare delle ore, si tinge di giallo: perché al di là della tossicodipendenza dell’uomo e delle richieste continue di essere spostato in una comunità terapeutica, c’è un elemento che sta creando più di qualche interrogativo. Ieri, ovvero poche ore dopo la sua morte, Costantino F., sarebbe dovuto comparire in tribunale per l’udienza del processo con il rito abbreviato che avrebbe chiuso le sue pendenze giudiziarie e assicurato una prossima entrata in un luogo di cura. La storia. Il 41enne salernitano, fra dicembre e aprile scorsi, è stato il protagonista di una serie di furti e di due rapine improprie che hanno fatto arrabbiare tanti commercianti salernitani. Si trattava sempre di furti non di ingente valore. Da subito si è compreso che il 41enne avesse problemi di droga e che, dunque, avesse soltanto bisogno di curarsi per ricominciare a vivere. Lo ha detto più volte ai giudici, a ripetizione ha espresso la volontà di abbandonare questa vita borderline e affidarsi a una comunità per uscire dalla tossicodipendenza: “Da maggio scorso il mio assistito aveva manifestato più volte la volontà di intraprendere un percorso terapeutico in regime residenziale presso una comunità per il recupero dei tossicodipendenti”, ricorda il suo legale, l’avvocato Stefania Pierro. “Sabato scorso, intorno alle 14, ci siamo visti per l’ultima volta attraverso un colloquio in videochiamata: mi era sembrato sereno. Ci dovevamo sentire il giorno prima dell’udienza - lunedì, ndr - nella quale si sarebbe discusso il suo abbreviato”. In effetti C.F. stava per “svoltare”: in abbreviato avrebbe chiuso la sua storia giudiziaria, probabilmente avrebbe scontato pochi anni di reclusione e, affidato ad una comunità terapeutica, sarebbe potuto uscire dalla tossicodipendenza. E potendo lasciare il carcere, perché avrebbe dovuto suicidarsi? “Non sappiamo esattamente cosa sia accaduto nella cella dove era recluso”, prosegue l’avvocato Pierro. “C’è un’inchiesta in corso e attendiamo le conclusioni. Certo è che il mio assistito, come tantissimi tossicodipendenti, non doveva essere in carcere”. C.F., inoltre, era rimasto molto scosso dalla morte di un 35enne, V.F., avvenuta nel maggio scorso nel carcere di Salerno. Per questo decesso è aperta un’inchiesta sulle violenze riscontrate dopo l’autopsia per cui sono indagati due agenti della penitenziaria. Il detenuto di Bellizzi sarebbe stato testimone di violenze. E, negli scorsi mesi, avrebbe anche scritto una lettera alla Questura di Salerno per denunciare il clima che si respirava fra le celle del carcere di Fuorni. Il dolore del garante. “L’ho conosciuto come un soggetto fragile”, spiega affranto Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti. “Costantino F. era stato prima alla casa circondariale di Salerno e poi ad Eboli, in un istituto a custodia attenuata. So che qui aveva ingerito una lametta e con un punteruolo si era tagliato e aveva minacciato un agente. Quest’episodio critico a fine ottobre aveva portato al trasferimento ad Ariano”. Ciambriello poi sottolinea: “A luglio mi aveva scritto una lettera per dire della sua solitudine e che voleva vedere il figlio, ma nulla di più. E so - evidenzia il garante - che aveva parlato con la magistratura del caso del detenuto di 35 anni morto a Fuorni”. Il professor Ciambriello racconta le ultime ore di vita: “Il suo bravo avvocato l’ha sentito sabato scorso e non ha riscontrato problemi particolari. Lunedì mattina, il detenuto aveva fatto regolarmente colazione e nel pomeriggio è accaduta la disgrazia. Era in compagnia di un paio di detenuti, quando con una cintura si sarebbe tolto la vita. L’hanno soccorso, hanno provato a rianimarlo ma non c’è stato nella da fare. Una morte che è comunque un mistero e sulla quale bisognerà fare luce”. Questo del 41enne di Bellizzi, ha denunciato Ciambriello, è il terzo suicidio in Campania dall’inizio dell’anno, mentre altri 64 sono stati tentati e per fortuna non sono riusciti: “Il carcere dovrebbe essere l’extrema ratio e invece per alcuni rimane l’unica opzione per affrontare queste situazioni”. Genova. L’avvocato Stefano Sambugaro è il primo Garante comunale dei detenuti Il Secolo XIX, 17 novembre 2022 L’ordinanza di affidamento dell’incarico è stata firmata dal sindaco Marco Bucci. L’incarico durerà tre anni. È l’avvocato Stefano Sambugaro il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Genova. Il Garante è stato istituito con l’approvazione della delibera del consiglio comunale n. 50 del 25 maggio 2021. Sambugaro, 66 anni, è consigliere dell’ordine degli avvocati di Genova. Tra il 2011 e il 2014 è stato componente dell’osservatorio carcere dell’unione camere penali italiane e fino al 2016 referente carcere per la camera penale regionale ligure. L’incarico ha una durata di tre anni. “Auguro buon lavoro all’avvocato Sambugaro per l’incarico di assoluta importanza che andrà a ricoprire - ha detto l’assessore alle Politiche sociali e Affari legali Lorenza Rosso - l’esperienza maturata nell’ambito della camera penale ligure e nazionale sulle carceri sarà di sicuro supporto anche all’attività del mio assessorato su una tematica delicata e che necessita di professionalità e di sensibilità. La figura del Garante, introdotta con apposito regolamento con decisione del consiglio comunale, rappresenta un doveroso atto di civiltà nel rispetto della dignità della persona promuovendo attività sia di sensibilizzazione sia di collaborazione con altri enti a partire dai percorsi di riabilitazione e di reinserimento sociale attraverso percorsi e attività”. Genova è il primo Comune ligure ad aver nominato un Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. “Ringrazio il sindaco e tutta la giunta per la nomina - ha detto Stefano Sambugaro - sono 30 anni che mi occupo di carceri e ho potuto verificare le condizioni di molti istituti penitenziari italiani. Secondo le statistiche, il 75% dei detenuti, che abbiano effettuato un percorso riabilitativo all’interno del carcere o all’esterno in attività di volontariato, non ha recidive: purtroppo oggi solo il 20% dei detenuti svolge attività di riabilitazione. È nell’interesse della collettività che i detenuti vengano riabilitati e reinseriti nel mondo reale. In tal senso lavoreremo sui percorsi riabilitativi”. I compiti - “Secondo quanto stabilito dal Regolamento, il Garante, in collaborazione con l’amministrazione comunale, con l’amministrazione della giustizia e con gli operatori della comunità carceraria e con le loro organizzazioni rappresentative informa la sua attività ai principi di trattamento codificati nella legge sull’ordinamento penitenziario, con particolare riferimento all’umanità, al rispetto della dignità della persona, all’assoluta imparzialità, senza discriminazioni, a modelli che favoriscano l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione ed al fine del reinserimento sociale, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni degli interessati”, si legge in una nota del Comune. Inoltre, il Garante svolge altre attività: “Promuove esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone comunque private della libertà personale e residenti, domiciliate o dimoranti nel territorio del Comune di Genova, momenti di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani, iniziative congiunte e coordinate con altri soggetti pubblici e in particolare con l’assessorato alle Politiche Sociali e la Commissione consiliare competente. Inoltre, rispetto a possibili segnalazioni che giungano, anche in via formale, alla sua attenzione che riguardino la violazione di diritti, garanzie e prerogative delle persone private della libertà personale, il Garante si rivolge alle autorità competenti per avere eventuali ulteriori informazioni. Il Garante segnala il mancato o inadeguato rispetto di tali diritti e conduce un’opera di assidua informazione e di costante comunicazione alle autorità stesse relativamente alle condizioni dei luoghi di reclusione. Infine, spetta al Garante promuovere forme di collaborazione con le Università, con il mondo del volontariato, dell’associazionismo e del privato sociale genovese che opera in campo penale e penitenziario o che a vario titolo si occupa di persone private della libertà personale”. Cristina Lodi, Pd: “La proposta era partita nel 2020 dal Pd” - “Sono felice che dopo due anni e mezzo di proposte, sollecitazioni e attese, arrivi la nomina di questa importante figura per la nostra città - ha commentato la consigliera comunale del Partito Democratico Cristina Lodi - Ricordo che la proposta di deliberazione della figura del garante dei diritti delle persone private della libertà personale è partita nel maggio 2020 dal Gruppo consiliare del Partito Democratico, poi approvata all’unanimità nel maggio 2021. La proposta, di cui sono stata prima firmataria, arrivò grazie all’azione di tutte quelle realtà associative e politiche che si sono sempre prese cura delle carceri di Genova. Oggi, due anni e mezzo dopo, arriva finalmente la nomina, speranzosa che questa nuova amministrazione sia più sensibile e attenta ai diritti umani, considerando anche la presenza di un nuovo assessore alle Politiche Sociali, perché l’attenzione alle carceri di Genova non deve essere di interesse solo per la popolazione penitenziaria ma per tutta la città”. Catania. Cisl-Fp: “Nelle carceri è emergenza personale sanitario” livesicilia.it, 17 novembre 2022 Dotazioni organiche incomplete, turni serrati e sempre più stressanti: sono i problemi del personale sanitario all’interno dei Presidi di sanità penitenziaria nelle due strutture circondariali di Catania, piazza Lanza e Bicocca. In entrambe le carceri Cisl FP sottolinea l’esigenza di un nuovo modello di turnazione, in modo da migliorare la qualità del delicato servizio sanitario svolto nei Presidi: “L’ambiente carcerario - dice Danilo Sottile, segretario generale Cisl FP Catania - è ad altissimo rischio di stress per i detenuti, come dimostra il triste primato dei suicidi in cella raggiunto quest’anno. Per il miglioramento delle condizioni nei penitenziari è dunque necessario che i lavoratori siano messi nelle condizioni di svolgere al meglio il proprio lavoro, completando e rivedendo le dotazioni organiche” I problemi a piazza Lanza e Bicocca - “Da diversi mesi - dice il segretario Sottile - giungono alla Cisl FP diverse segnalazioni sulle criticità che riguardano i turni del personale nel Presidio di sanità penitenziaria all’interno di Piazza Lanza. In particolare qui sono in servizio un infermiere con il ruolo di Coordinatore infermieristico facente funzioni, un infermiere dedicato all’assistenza specialistica con relativa preparazione e consegna cartelle cliniche, e 10 infermieri. Di questi, 2 svolgono solo turni giornalieri e 8 su tre turni, ma di questi ultimi i lavoratori realmente disponibili sono 6, dato che una persona è assente da due mesi per malattia e un’altra è in congedo di maternità”. “Problemi analoghi sono segnalati a Bicocca - dice ancora Sottile - dove il personale sanitario è in una situazione simile di problemi con le turnazioni e le varie attività espletate, e dove abbiamo già chiesto di considerare un nuovo modello di turnazione, così da venire incontro alle esigenze della struttura senza nuocere a quelle del personale. Tutte queste criticità sono state segnalate da parte nostra all’Asp, a cui abbiamo chiesto un’interlocuzione in due lettere di quasi un mese, rimaste senza risposta”. Il catanese suicida in cella: “Non doveva finire in un carcere” - “Come sottolineato proprio nelle nostre comunicazioni con la direzione dell’Asp e dell’Unità operativa che si occupa di medicina penitenziaria - prosegue Sottile - l’attuale sistema di turni in entrambe le strutture penitenziarie catanesi, con questa dotazione organica, è insufficiente a garantire gli standard di servizio. Inoltre, siamo a conoscenza di problemi simili anche nelle case circondariali di Caltagirone e di Giarre. Dunque riteniamo indispensabile un intervento immediato per sanare le criticità evidenziate, riorganizzando o predisponendo l’assegnazione di personale infermieristico. Il quale personale affronta i compiti di assistenza e cura con abnegazione, ma rischia di non riuscire a garantire gli standard minimi di assistenza richiesti. Siamo a conoscenza - dice ancora Sottile - del fatto che la stessa Dirigente dell’Uo penitenziaria ha fatto richiesta di unità infermieristiche da aggiungere a tutti i presidi della provincia di Catania, e auspichiamo che l’Asp provveda a completare la dotazione organica anche in virtù delle chiamate dirette e dei concorsi che sono stati prospettati dalla stessa Azienda”. L’emergenza carceri - I problemi denunciati da Cisl FP riguardano un settore delicatissimo dell’amministrazione della giustizia: “Le carceri siciliane sono state più volte al centro delle cronache degli ultimi mesi - dice il segretario Cisl FP - portando alla luce le condizioni difficili in cui si trovano a convivere i detenuti e il personale che lavora nelle strutture penitenziarie. Condizioni che, lo vogliamo sottolineare, sono in linea con quelle del resto d’Italia, e che dunque non sono da imputare alle singole strutture ma a una più generale organizzazione del sistema”. “I lavoratori delle case circondariali e degli istituti penitenziari - prosegue Sottile - operano molto spesso in condizioni di organici ridotti, che incidono inevitabilmente sulla qualità con cui è erogato il servizio all’interno di ogni struttura. Più in particolare, i lavoratori dei Presidi sanitari sono delle presenze importantissime all’interno delle strutture penitenziarie, perché con la loro presenza garantiscono non solo un diritto essenziale e irrinunciabile, ovvero l’assistenza sanitaria per ogni detenuto, ma anche a rendere le carceri un luogo più sicuro per tutti coloro che a vario titolo sono tenuti a frequentarle”. “Nell’anno in cui è stato raggiunto il triste primato di 77 morti suicidi in carcere - conclude Sottile - vogliamo richiamare l’attenzione proprio sul fatto che sono le condizioni organizzative a rendere migliore o peggiore la permanenza in una struttura penitenziaria. Un ruolo essenziale in questo senso è rivestito dai lavoratori dei Presidi Sanitari e dalla possibilità che questi lavoratori hanno di svolgere meglio che possono i propri compiti. Invitiamo dunque i vertici dell’Asp a rispondere alle nostre domande di interlocuzione e a intervenire per completare e riorganizzare le dotazioni organiche all’interno di Piazza Lanza e Bicocca”. Cosenza. Detenuto trasferito, nessun avviso al legale: diritto di difesa addio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 novembre 2022 Un avvocato, il 25 ottobre scorso, va al carcere di Cosenza per assistere un detenuto in videoconferenza. Ma trova una spiacevole sorpresa. Il suo assistito non c’è, perché tradotto in un altro carcere - quello di Catanzaro che dista un’ora e mezza di macchina -, per video collegarsi con il tribunale di Lamezia Terme. L’avvocato non era stato preavvisato di tale spostamento, e questo nonostante abbia constatato che al carcere di Cosenza ci sono sale predisposte per le videoconferenze. A quel punto, a causa della distanza, non ha potuto fare in tempo ad assistere l’imputato. La camera penale di Cosenza ha denunciato il fatto direttamente al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) per il mancato preavviso, e per conoscenza ha reso noto lo spiacevole episodio anche al garante nazionale delle persone private della libertà. Secondo i penalisti, i fatti attribuiti all’Amministrazione penitenziaria avrebbero intaccato il corretto e concreto esercizio del diritto di difesa dell’imputato detenuto nella Casa circondariale di Cosenza. Ripercorriamo i fatti denunciati. L’avvocato assiste una persona detenuta al carcere cosentino, imputata in un processo in corso di trattazione, nella fase dell’istruttoria dibattimentale, dinanzi al Tribunale di Lamezia Terme, la cui udienza era fissata lo scorso 25 ottobre. Si è appunto recato in carcere entro l’orario di udienza per partecipare, da remoto, dunque di fianco al proprio assistito, alla prevista attività dibattimentale (l’escussione dei testi della Pubblica accusa) ma non ha potuto esercitare il patrocinio poiché, soltanto in tale sede, dunque la mattina dell’udienza e dopo aver fatto accesso nella struttura carceraria, ha appreso - senza alcun previo avviso da parte dell’amministrazione penitenziaria- la circostanza della traduzione dell’imputato ad altra Casa circondariale, precisamente Catanzaro- Siano. L’avvocato ha osservato di aver constatato, nello stesso contesto, la disponibilità, all’interno del carcere di Cosenza, delle sale predisposte per le videoconferenze. Quindi denuncia di aver subìto, dall’omessa comunicazione della traduzione del proprio assistito, un grave nocumento difensivo, conseguente sia all’impossibilità di prestare personale assistenza al proprio patrocinato, sia, in alternativa, di presenziare all’udienza dinanzi al Tribunale di Lamezia Terme - stante la distanza chilometrica tra i Comuni di Cosenza e Lamezia Terme- per esercitare correttamente e concretamente il diritto di difesa in favore dell’imputato. Sempre nella lettera della camera penale di Cosenza inviata al Dap, si racconta che l’avvocato è dovuto correre ai ripari rivolgendo al Tribunale di Lamezia Terme, ai fini di una tutela defensionale in extremis, l’allegata istanza “di poter procedere al controesame dei testi odierni alla prossima udienza” e, conseguentemente, trasmessa dallo stesso Giudice “al DAP per quanto di competenza”. Secondo la camera penale di Cosenza, il fatto, per come rappresentato, “è grave poiché ha determinato rilevante danno processuale nei riguardi della persona detenuta, al cui difensore - a causa dell’omessa comunicazione, da parte dell’Amministrazione penitenziaria, del trasferimento dello stesso detenuto ad altra Casa circondariale- non è stata consentita, concretamente, la personale assistenza del patrocinato, né personalmente e neppure presso la Sede giudiziaria, il Tribunale di Lamezia Terme”. Non solo. In tale modo l’imputato si sarebbe ritrovato privato dell’assistenza difensiva per ragioni indipendenti dalla volontà del patrocinatore, “concretizzatasi nell’impossibilità - denunciano i penalisti -, da parte dell’Avvocato, di contro esaminare i testi dell’Accusa, così determinandosi una concreta lesione al corretto esercizio del diritto di difesa”. Sempre secondo la camera penale di Cosenza, l’accaduto, nei termini palesati dall’avvocato, “è reso ancor più deprecabile dall’assenza del doveroso rispetto imposto dalla legge alle Istituzioni - in questo caso all’Amministrazione penitenziaria- verso la funzione costituzionale della Toga: è inaccettabile che al titolare del patrocinio difensivo, avente diritto ad assistere l’imputato nel luogo di restrizione durante l’attività dibattimentale che lo riguarda, non ne sia comunicata, tempestivamente, la traduzione, indipendentemente dalle nullità processuali che tale comportamento può determinare”. Per questo i penalisti chiedono al capo del Dap un intervento volto a evitare la reiterazione di simili fatti. Napoli. Carcere, tortura e altre violenze di Stato. Per la costruzione di un percorso collettivo napolimonitor.it, 17 novembre 2022 Nelle prossime settimane, Monitor ha organizzato o aderito a una serie di iniziative in programma a Napoli. Il 20 novembre saremo a Santa Fede Liberata (via San Giovanni Maggiore Pignatelli, 2), a dialogare con Sara Manzoli (autrice) e Nicola Valentino (editore, Sensibili alle foglie) di Morti in una città silente. La strage dell’8 marzo nel carcere Sant’Anna di Modena. Il libro racconta gli eventi del marzo 2020 nel carcere emiliano, le proteste dei detenuti e la violenta risposta delle forze di polizia, che portò alla morte di nove detenuti (quattordici furono i decessi totali nelle carceri d’Italia). Sarà anche l’occasione per parlare della lotta dei prigionieri anarchici che stanno affrontando, ormai da settimane, uno sciopero della fame contro il regime del 41bis e contro l’ergastolo ostativo. Il 26 novembre presenteremo l’ultimo numero de Lo stato delle città (n.9, novembre 2022) al Cap 80126 - Centro Autogestito Piperno (viale Adriano, 60) di Soccavo. Si potrà dialogare con gli autori degli articoli che raccontano l’inasprimento della repressione giudiziaria delle lotte e delle pratiche di dissidenza più recenti, e con coloro che in diverse modalità sono entrati in contatto o si sono resi protagonisti di quei percorsi. Le inchieste della rivista analizzano i fatti (e le letture che ne hanno dato le rispettive procure) avvenuti a Napoli nel quartiere Santa Lucia nell’ottobre 2020; a Piacenza, con il processo ai sindacalisti del SiCobas accusati di associazione a delinquere; a Milano, con le pesantissime condanne inflitte in primo grado agli attivisti impegnati nella lotta per la casa. Interverranno gli avvocati Caterina Calia e Carmine Malinconico e una delegazione di operai piacentini del SiCobas. Il ricavato dell’iniziativa sarà utilizzato per le spese legali dei lavoratori, delle lavoratrici, dei disoccupati e delle disoccupate in lotta. Il 2 dicembre un momento di confronto sull’utilizzo della forza nei confronti dei soggetti ritenuti pericolosi per il mantenimento dell’ordine sociale avrà luogo allo Scugnizzo Liberato (Salita Pontecorvo, 46). A parlare di violenza poliziesca, tortura, e dei legami tra classe politica e forze dell’ordine, saranno Anna Maria Orefice (operatrice volontaria in carcere e attivista dello Scugnizzo), Charlie Barnao, dell’università Magna Grecia di Catanzaro, la studiosa Maria Rita Prette e l’avvocato Gaia Tessitore. Ancora, il 7 dicembre Luigi Romano presenterà il libro “La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane”, nella sede del Movimento disoccupati 7 novembre a vico Arena alla Sanità, nel corso di una iniziativa curata dal gruppo anti-carcerario di attivisti e attiviste napoletani. Il 15 dicembre, infine, parteciperemo all’iniziativa Vivere morendo. Contro ergastolo e pene capitali: istituzioni dell’agonia, organizzata con la casa editrice Sensibili alle foglie all’ex Opg - Je so’ pazzo (via Imbriani, 218). L’incontro è uno spunto per riflettere su un tema di forte attualità, ovvero l’agonia imposta ad alcune categorie di detenuti attraverso l’istituto dell’ergastolo, non difforme dalla pena di morte ancora in vigore in molti paesi del mondo. La discussione muoverà da un’analisi del lavoro sul tema da parte della casa editrice e di uno dei suoi soci fondatori, Nicola Valentino. L’organizzazione di queste iniziative ha preso corpo nel tempo, grazie alla relazione con una serie di soggetti che negli ultimi anni hanno avviato percorsi di studio e di intervento su queste questioni. Nel nostro caso, l’attenzione a questi temi - presente da sempre, in particolare grazie a collaboratori come Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito - si è intensificata a partire dalle sommosse in carcere nel marzo 2020, e con lo sviluppo di un lavoro collettivo nato grazie al supporto di una rete eterogenea, formata tra gli altri da Acad, Antigone, Olga, Yairaiha Onlus. Questo percorso ci ha portati ad avviare un’inchiesta, poi divenuta un libro, sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, e ad allargare ulteriormente la nostra rete lavorando con il Comitato verità e giustizia per i morti nel carcere di Modena, la casa editrice Sensibili alle foglie, gli avvocati e i giuristi più attenti a tali questioni, le associazioni e i gruppi politici che si occupano delle deviazioni giuridiche connesse alla diaspora migrante, della reclusione nei Cpr, della relazione tra carcere e Sud. Allo stesso tempo, con l’associazione Yairaiha, con altre case editrici e con gli autori di libri da e sul carcere, abbiamo organizzato una rassegna itinerante nelle principali città del sud Italia, abbiamo stretto legami con alcuni ambienti accademici che ricercano con serietà su questi temi e con i (pochi) garanti dei detenuti che svolgono con coscienza e dedizione il loro lavoro. Pur non partendo da una progettualità definita abbiamo constatato quanto fosse necessario, sul nostro territorio e a livello nazionale, impegnarsi per rafforzare quella rete già esistente di soggetti che - spesso, purtroppo, ognuno per conto proprio - portano avanti efficaci ma isolate analisi e pratiche di lotta contro la violenza dello Stato in tutte le sue forme. In quest’ottica continueremo a portare un contributo di conoscenze e di relazioni, a promuovere alleanze tra ambienti che talvolta faticano a dialogare, a restare sull’attualità (promuovendo, per esempio, un dibattito analitico sull’ergastolo ostativo e il 41 bis) senza perdere di vista gli orizzonti ultimi della lotta. In questo senso, accogliamo con soddisfazione le sponde, ma anche gli stimoli, ricevuti negli ultimi mesi da alcuni tra gli spazi sociali autorganizzati napoletani, e invitiamo attivisti e militanti a intervenire nel percorso collettivo che sta prendendo forma. Per noi, e speriamo non solo per noi, questa necessità si fa ogni giorno più urgente. Mantova. Detenuti-poeti in carcere: “La parola come strumento di riscatto” di Giovanni Vigna Corriere della Sera, 17 novembre 2022 In programma tre eventi per stimolare la creatività dei detenuti e convincerli a partecipare a un concorso di poesia. Il carcere apre le porte alla poesia. Casa circondariale di Mantova, Asst e associazione “La Corte dei Poeti” hanno organizzato una rassegna di incontri e workshop con l’obiettivo di stimolare la creatività dei detenuti e convincerli a partecipare a un concorso di poesia. Il linguaggio poetico approda nei luoghi del confinamento grazie al premio nazionale di poesia Terra di Virgilio, istituito nell’ambito di Mantova Poesia - Festival Internazionale Virgilio, che presenta due sezioni: “Vita di scienza ed arte”, destinata ad autori noti ed esordienti e “L’ozio degli attivi”, riservata a persone ospitate in strutture protette (carceri, Rems, ospedali e comunità di recupero). La poesia diventa un mezzo per esprimere le capacità e i sentimenti di persone che praticano la scrittura intesa come strumento di riscatto, autocura e reinserimento sociale. L’idea di fondo è che la poesia e la parola abbiano una funzione terapeutica: l’espressione poetica e le emozioni curative suscitate dalla poesia fanno parte del percorso di riabilitazione e reinserimento dei detenuti. “La parola come cura”, rassegna che si svolgerà in carcere a partire da domenica 20 novembre, comprende tre eventi che si collocano nel contesto del progetto “Empowerment”, frutto della collaborazione tra Medicina Penitenziaria di Asst e direzione della casa circondariale. Domenica 20 novembre, alle 15, nel carcere di via Poma si terrà un incontro sul tema “La riparazione della poesia” durante il quale sarà illustrato il premio nazionale di poesia Terra di Virgilio, giunto alla nona edizione. Interverranno alcuni membri dell’associazione “La Corte dei poeti” tra i quali Elena Miglioli, Stefano Iori, Lucia Papaleo e Luigi Caracciolo. Domenica 11 dicembre i carcerati potranno conoscere l’esperienza del laboratorio di lettura e scrittura creativa del carcere di Opera a cura dei poeti Silvana Ceruti e Alberto Figliolia. È prevista anche la testimonianza di un ex detenuto che in passato ha partecipato al laboratorio. Il ciclo di incontri si concluderà domenica 18 dicembre con “Parole in libertà”, workshop di poesia con Carla Villagrossi e Luigi Caracciolo. “L’obiettivo - spiega Elena Miglioli, poetessa e dirigente dell’area ufficio stampa e comunicazione di Asst Mantova - è avvicinare i detenuti alla poesia e offrire loro la possibilità di partecipare al premio nazionale di poesia. I carcerati potranno presentare i componimenti che scriveranno durante e dopo il workshop”. Gli incontri dedicati alla poesia sono stati preceduti da una serie di laboratori sul tema della medicina narrativa, che si sono focalizzati sul racconto come espediente per migliorare le relazioni tra operatori e pazienti. Il ciclo “La parola come cura rappresenta la prosecuzione della rassegna “L’ascolto come cura” di cui, da alcuni mesi, si occupa una neuropsichiatra che ha il compito di illustrare ai carcerati l’importanza dell’ascolto come forma terapeutica. Trieste. Incontro letterario presso la sezione femminile della Casa circondariale di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 17 novembre 2022 Il 15 novembre 2022 Emily Menguzzato ha presentato, presso la sezione femminile della casa circondariale di Trieste, il libro “Arturo, un cane di Trieste”. Con entusiasmo ed estrema dolcezza è stata raccontata la vicenda dell’adozione presso l’Astad (il rifugio di animali a Opicina) di Arturo, un cane che aveva vissuto varie disavventure, atti di violenza, abbandoni ma che, fortunatamente, ha trovato la “sua umana”: Emily e Arturo si sono immediatamente riconosciuti come facenti parte di un disegno più grande e dentro il quale erano destinati ad incontrarsi, forse con l’aiuto di Batida. Ma Emily ha anche raccontato di come sia nata l’idea di scrivere questo libro destinato, non solo, ai ragazzi. La curiosità delle persone che li vedevano passeggiare assieme, la commozione del racconto, la crudeltà di alcune azioni vissute da Arturo e la speranza che queste non si ripetano, la possibilità di adottare un cane, o un altro animale, assicurando loro una nuova e diversa esperienza di vita. E non solo. Perché Emily oltre ad essere l’Umana che ha adottato Arturo è anche un’insegnante e ha voluto coinvolgere i propri alunni in questo progetto condividendo con essi la storia, accogliendo alcuni suggerimenti e, come ha raccontato, coinvolgendoli in una delle presentazioni. Presso la Casa circondariale, in questa occasione, Arturo non ha potuto fare ingresso ma il suo racconto ha destato interesse e ha fatto emergere altre storie in cui gli animali erano i coprotagonisti, lasciando correre il pensiero a momenti piacevoli alleggerendo, per qualche momento, la pesantezza della detenzione. La presenza di persone esterne, infatti, è stata l’occasione per uno sfogo, per una richiesta di aiuto affinché venga assicurata una maggiore attenzione alla finalità della pena e venga assicurata una detenzione migliore che non può essere connotata dall’assenza di lavoro, di corsi formativi, di attività culturali, di percorsi di salute. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Il viaggio dentro al carcere per capire cos’è davvero di Paolo Lambruschi Avvenire, 17 novembre 2022 In un libro l’esperienza di due volontari e giornalisti, da Regina Coeli ad Opera. Volevano prendere per mano il lettore e portarlo in carcere per mostrare il lato nascosto, quello dell’umanità. E restituire un senso al dettato costituzionale, troppo spesso disatteso nelle prigioni italiane, che prevede finalità di rieducazione e reinserimento e non un parcheggio punitivo che spesso provoca recidive. Scrivendo “Come è in cielo così sia in terra” (Edizioni Paoline) i giornalisti Agnese Pellegrini e Stefano Natoli, volontari in carcere rispettivamente a Roma, a Regina Coeli, e a Milano, al carcere di Opera, ci sono riusciti. Hanno raccontato ogni aspetto di un mondo nascosto con una intervista a tutto campo a padre Vittorio Trani, il cappellano che tutti i giorni varca le porte del penitenziario romano per eccellenza. Da mezzo secolo Padre Vittorio, francescano conventuale di 79 anni, ha accettato di entrare nella prigione romana. È riuscito a portarci anche gli ultimi tre papi. Nonostante il Vaticano non sia distante, prima di Giovanni Paolo II nessun pontefice lo aveva mai visitato. Natoli e Pellegrini fanno raccontare a padre Trani come è cambiata la società italiana dietro le sbarre, dagli Anni di piombo a quelli della tossicodipendenza passando per Mani pulite fino a oggi, con le carceri che hanno sempre più reclusi (termine che padre Vittorio preferisce usare) nati oltre i confini italiani perché spesso non hanno residenze dove scontare i domiciliari. Nella prefazione il segretario di Stato cardinale Pietro Parolin scrive che le storie egli aneddoti raccontati dal religioso “spalancano a tutti le celle di Regina Coeli facendo vedere la realtà”. Fatta di sovraffollamento (il tasso medio in Italia è del 107,4%), di emarginazione, di cessi collocati accanto al piano cottura in cella, di povertà, di affettività negata, di rapporti interrotti tra padri e figli, di un numero crescente di suicidi. Il 2022 sarà secondo l’associazione Antigone il peggiore dal 2009. Quell’anno furono 72. I detenuti, però, erano 7.000 in più. Padre Vittorio, da 30 anni cappellano anche della Lazio dove fu chiamato dall’allora tecnico Dino Zoff, non indulge al buonismo che non confonde con la Misericordia. La pena va scontata dai colpevoli e il suo atteggiamento nei colloqui quotidiani con i detenuti è aperto, ma fermo. Ma all’opinione pubblica forcaiola che chiede più carceri e regimi duri senza conoscere la realtà, ricorda che in Italia si sta troppo in cella. Che la pena si può scontare anche altrove e occorre puntare sulla giustizia ripartiva, come proposto dalla riforma dell’ex ministro Cartabia. L’importante è non confondere la non certezza della pena con la durezza della detenzione, che spesso conduce alla recidiva. Il nostro è uno dei Paesi che vanta il tasso più alto, il 62%. Condannare il peccato non il peccatore, ripete instancabile padre Vittorio che al detto ha sempre ispirato la sua missione che lo ha portato a supportare concretamente e moralmente migliaia di “ristretti” alternando successi e insuccessi. Senza tanti giri di parole, la realtà è che il carcere in Italia non aiuta la maggior parte dei detenuti. Troppi pochi i percorsi scolastici e professionalizzanti e scarse le opportunità di lavoro. Nella postfazione don Antonio Rizzolo, direttore dell’Apostolato dei paolini, sostiene proprio che la lunga intervista fa comprendere al lettore che il muro di separazione con il carcere non è più così alto. Il volume verrà presentato stasera dagli autori con Arnoldo Mosca Mondadori e padre Trani nel carcere milanese di Opera. Lo sguardo di Antonio Tibaldi sull’isola carcere di Gorgona di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 novembre 2022 Il regista premiato per il miglior documentario alla 63esima edizione del Festival dei popoli. Il reportage di Antonio Tibaldi sull’isola carcere si aggiudica il premio “Il lavoro dei detenuti questo contesto assume un’importanza monumentale”. Cosa succede a Gorgona, l’isola- carcere nel mare toscano davanti Livorno? Lo ha raccontato Antonio Tibaldi in “Gorgona” documentario vincitore del Concorso Italiano alla 63esima edizione del Festival dei Popoli. La cerimonia di premiazione si è svolta sabato scorso al cinema La Compagnia di Firenze. La Gorgona, a una trentina di chilometri da Livorno, è un’isola- carcere, ma del tutto particolare. È l’unico penitenziario in Europa concepito come una colonia agricola, in cui i detenuti lavorano per produrre verdure o formaggi, per allevare animali o curare orti. Uno spazio di lavoro che permette ai detenuti di vivere all’aria aperta, in un ambiente che sembra un paradiso. Antonio Tibaldi è un regista italo- australiano che vive a New York. I suoi film sono stati presentati in festival internazionali tra i quali Sundance, San Sebastian, Idfa, Rotterdam e Tribeca. Per Untv (Televisione delle Nazioni Unite) realizza documentari in Sud America, Centro America, Africa e Asia. Lo sguardo di Tibaldi segue le giornate di chi sconta una pena e di chi lavora in un carcere che non sembra un carcere e che la macchina da presa restituisce uno spazio fuori dal mondo. Un film che osserva la vita di una comunità particolare, sospesa, con l’attenzione di uno sguardo che non giudica ma cerca di cogliere il movimento visibile di vite particolari. “Da ragazzino - ha spiegato il regista in una nota rilasciata al festival - mi trovavo su una piccola barca a vela durante una libecciata, la pala del timone si ruppe a poche miglia da Gorgona. Via radio chiedemmo l’autorizzazione di accedere al porticciolo. Eravamo l’unica barca nel porticciolo, trattandosi di un’isola carcere il cui accesso è severamente vietato. Seduto nel pozzetto della barca guardavo i campi della valle antistante con questi puntini - i detenuti ‘liberi’ dell’isola - che con tanto di forche e pale, lavoravano la terra. Quella notte non riuscii a dormire. Temevo che uno di questi uomini potesse salire a bordo della nostra barchetta e ucciderci tutti. Mi era rimasto quel vivido ricordo di paura e ‘timore del detenuto’. L’idea di tornare su quell’isola per girare un documentario rappresentava per me un modo di confrontare e contraddire quella paura”. Al termine del primo sopralluogo nel 2017, Tibaldi ha scoperto che su quest’isola remota esiste un ‘mondo parallelo’ unico e sorprendente. “Non essendoci negozi, né ristoranti, né cellulari, né macchine, né motorini, è come se il tempo si fosse fermato e non avesse contaminato l’isola. Il mio lavoro è stato quello di osservare con la telecamera, con pazienza e perseveranza, il comportamento umano che avveniva di fronte a me. Osservare innanzitutto il lavoro di questi uomini, che in questo contesto carcerario, assume un’importanza monumentale”, conclude. Scuola. Il fenomeno delle baby gang è la prima preoccupazione per genitori, insegnanti e terzo settore di Giulia Moretti Il Domani, 17 novembre 2022 Un’indagine promossa dall’impresa sociale Con i Bambini e realizzata dall’Istituto Demopolis ha messo in evidenza le criticità scolastiche percepite dagli adulti, che non si sono tirati indietro dal bacchettare i ragazzi. Questo è uno dei dati che emerge da un’indagine promossa dall’impresa sociale Con i Bambini e realizzata dall’Istituto Demopolis. Il sondaggio dal titolo “Quanto futuro perdiamo?” ha portato gli intervistati, un campione di 3.450 persone, a riflettere su scuola e mondo dell’infanzia, e dell’adolescenza passando dalla scuola alle abitudini dei più giovani. L’abbandono scolastico - Uno dei dati portati all’attenzione del mondo adulto è che nell’ultimo anno più di 80 mila bambini o adolescenti non hanno maturato abbastanza presenze a scuola per essere scrutinati. Una popolazione delle dimensioni della città di Como ha fatto troppe assenze e, per questo, è stata bocciata. Nonostante la preoccupazione legata a questo dato, il 61 per cento degli intervistati ritiene sia giusto, anche di fronte ai disagi legati alla pandemia, bocciare chi eccede nelle assenze. Per quanto riguarda le scuole, il primo problema viene riconosciuto nella fatiscenza delle strutture. Secondo il 64 per cento del campione, infatti, gli edifici scolastici sono troppo vecchi. Passando al versante contenuto, inadeguati sono anche i piani di recupero offerti dalle scuole per i ragazzi in difficoltà, una criticità evidenziata dal 58 per cento dei partecipanti. In totale oltre la metà degli italiani (il 51 per cento) ritiene che le risorse del Pnrr destinate ai minori siano sufficienti per rispondere ai problemi della scuola e degli studenti. Il merito - Demopolis si è occupata anche di sondare il terreno sulla percezione del merito, tema che nelle ultime settimane è stato particolarmente inflazionato nel dibattito pubblico dopo il cambio di denominazione voluto dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, del ministero dell’istruzione, divenuto ministero dell’istruzione e del merito. Secondo la maggior parte degli adulti intervistati devono essere supportati i docenti capaci di proporre metodi didattici innovativi specie nelle aree più disagiate del paese. Tuttavia, solo meno del 30 per cento crede che il merito di aver adottato didattiche vincenti vada riconosciuto ai singoli docenti indipendentemente dal contesto sociale in cui agiscono. Le diseguaglianze tra i ragazzi, invece, sembrano essersi accentuate, così come notato per il fenomeno dell’abbandono scolastico, soprattutto dopo il periodo pandemico. A pensarla in questo modo sono il 74 per cento degli intervistati. Inoltre, solo quattro adulti su dieci ritengono adeguato il contesto in cui vivono in termini di “facilities”: strutture sportive, scuole, spazi verdi attrezzati. L’Italia “spaventata” - Secondo quanto sostiene il direttore di Demopolis, Pietro Vento, la fotografia scattata dall’indagine ritrae “un’Italia adulta che all’indomani dell’emergenza pandemica si scopre “spaventata”. A tal proposito, sostiene Vento, “la principale preoccupazione individuata dai cittadini, pensando ai bambini e agli adolescenti nel nostro Paese, è con il 76 per cento di citazioni la diffusione della violenza giovanile e delle baby gang, ma anche gli episodi di bullismo o cyberbullismo e il consumo di alcol e droga per il 63 per cento degli intervistati”. Le letture possono essere diverse. Da una parte la cronaca ha fatto emergere di recente molti casi, dall’altra l’opinione pubblica italiana si scopre, “bacchettona” nei confronti dei ragazzi: “Un paese che stenta a fare autocritica, ma appare molto critica sulle derive più estreme del disagio fra i ragazzi”, si legge nell’abstract. Che tra l’altro riguarda “situazioni circoscritte e marginali, per quanto gravi”. Il fenomeno delle baby gang secondo tre quarti degli intervistati potrebbe essere superato se i genitori non solo conoscessero meglio i figli ma li controllassero anche di più. Inoltre, più della metà degli adulti ritiene che sia necessaria una stretta legalitaria da attuare con una rafforzata presenza di forze dell’ordine nelle scuole e maggiore sorveglianza delle chat online da parte della polizia postale. Migranti. Se questo vi pare un ministro dell’Interno… di Angela Nocioni Il Riformista, 17 novembre 2022 Silenzio sulla crisi diplomatica con la Francia. Cifre sugli sbarchi sbagliate. Nessuna conoscenza delle decisioni della Corte di Giustizia europea. Rifiuto di considerare i naufraghi naufraghi. Proposte zero. Un prefetto, non un ministro. E debole, molto debole. Al suo debutto in Parlamento come capo del Viminale, Matteo Piantedosi ha fatto ieri un discorsetto fragile, senza respiro politico e senza solidi fondamenti giuridici. L’idea non geniale è sempre quella di non chiamare naufraghi i migranti salvati in mare così da lasciar modo di immaginarli come africani in gita. I numeri e le percentuali sono dati in modo da dipingere i toni cupi di una invasione dall’Africa smentita da tutti i dati ufficiali sia italiani che europei. Ha insistito a lungo sull’intenzione di non far scegliere il porto d’approdo a chi governa la nave su cui i migranti stanno. Ha parlato di scafisti - “in Italia non si entra illegalmente e la selezione non la fanno i trafficanti. Vogliamo governare le migrazioni e non subirle” - ha detto, nell’informativa in Senato, “Gran parte delle navi ong sono considerate “luoghi sicuri temporanei” per le linee guida”. “Le norme non dicono che l’Italia debba farsi carico di tutti e le ong, che continuano a essere un fattore di attrazione per i migranti, non possono scegliere il Paese di destinazione”. Ma dopo un salvataggio in mare sono i soccorritori a chiedere porto sicuro e la Corte di giustizia europea ad agosto si è espressa con chiarezza sui poteri di controllo dello Stato di approdo. Piantedosi probabilmente non lo sa. Aleggia nel suo discorso l’idea di bloccare le navi delle ong accusandole di trasportate troppe persone (che poi vorrebbe dire accusarle di aver salvato troppo gente). Idea già fatta uscire dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianbattista Fazzolari, che passa per l’ideologo della Meloni. Dice Fazzolari (e il ministro sembra andargli appresso): “Se annunci una missione per andare nel Mediterraneo a trasportare centinaia di persone allora devi essere attrezzato per questo. Ma ciò non accade e quindi le persone che vengono trasportate dalle Ong sono esposte a rischi e difficoltà, un profilo di illegalità finora non perseguito” (intervista a Libero). La Corte di giustizia europea ad agosto ha spiegato che il numero di persone soccorse a bordo non conta ai fini delle convenzioni internazionali per la salvaguardia della vita umana in mare e lo Stato di approdo non può richiedere alle imbarcazioni certificazioni diverse da quelle la cui validità è stata confermata dallo Stato di bandiera. Le Ong non hanno bisogno di autorizzazione da parte dello Stato di approdo, neppure quando svolgono attività di ricerca e soccorso in maniera sistematica. La Corte, per la verità, ha disegnato limiti alle possibilità di fermi da parte dello Stato di approdo che non può contestare l’idoneità certificata dallo Stato di bandiera se non sulla base di concreti elementi di pericolo. Quindi, o la nave è completamente non in grado di stare in mare o non può esserle impedito di realizzare un salvataggio in mare. Essendo il salvataggio un obbligo. Il ministro non ha parlato della indiscrezione filtrata due giorni fa secondo cui il governo vorrebbe imporre alle Ong di spegnere l’Ais (Automatic identification system), il sistema che indica in tempo reale la posizione della nave. Per le navi oltre le 300 tonnellate è obbligatorio. Caso Ocean viking. La nave norvegese, gestita dalla ong francese Sos mediterranée, è stata fatta sbarcare dalle autorità francesi venerdì a Tolone venti giorni dopo aver soccorso 243 persone da un naufragio in cui i sopravvissuti hanno visto affogare figli, genitori, amici. Dopo aver atteso cinque giorni al largo del porto di Catania una autorizzazione allo sbarco di tutti i naufraghi, e avendola ottenuta solo per donne e bambini, la Ocean viking lancia la richiesta di porto sicuro alla Francia. La riceve. Una fonte del ministero dell’interno francese ne dà notizia all’Ansa. Pare che il porto scelto dalla Framcia sia Marsiglia. Salvini esulta sui social. Grida: l’aria è cambiata. Dopo qualche ora Palazzo Chigi fa uscire una nota in cui sembra gioire per aver finalmente piegato la Francia ad occuparsi subito dei profughi ripescati nel Mediterraneo. Fulmini e saette dall’Eliseo. Accuse di disumanità all’Italia. Mattarella, che non ne puó più, ci mette una pezza. La Meloni ieri a Bali filata zero da Macron. Ora: il ministro dell’Interno Piantedosi poteva andare in Parlamento e non fare cenno alla crisi diplomatica arrivata a un passo dal richiamo dell’ambasciatore, oppure pronunciare una frase di pure scuse? Ha preferito addossare la colpa del pasticcio alla nave. Ha detto: “La decisione della Ocean Viking di allontanarsi dalle coste italiane risulta essere stata presa dopo - come coincidenza temporale - che i media avevano già diffuso la notizia che le persone soccorse a bordo delle altre navi ong erano tutte sbarcate. I fatti, quindi, evidenziano come la Ocean Viking si sia diretta autonomamente verso le coste francesi. Una decisione, questa, non solo mai auspicata dall’Italia, ma che ha di fatto creato attriti sul piano internazionale - anch’essi assolutamente non voluto dal governo”. Capito? Se a Palazzo Chigi non sanno scrivere i comunicati e, al primo in cui citano la Francia rischiano la rottura diplomatica con Parigi, la colpa è dell’equipaggio una nave finlandese carica di naufraghi africani. Piantedosi: “Le navi possono essere luoghi sicuri per i migranti” di Marina Della Croce Il Manifesto, 17 novembre 2022 Il ministro dell’Interno ribadisce la linea dura contro le ong. “La Ocean Viking? Si è mossa in autonomia”. Dal 1 gennaio 2021 al 9 novembre 2022 su oltre centomila migranti sbarcati in Italia quelli portati dalle navi delle ong sono stati in tutto 21.046, di cui 9.956 l’anno scorso e 11.090 quest’anno. Una percentuale bassissima, che non impedisce però al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi di continuare a parlare delle navi umanitarie come “pull factor”, fattori di attrazione per migranti e trafficanti di uomini. A fornire le cifre, confermando la linea dura del governo Meloni contro chi opera soccorsi nel Mediterraneo centrale, è stato lo stesso titolare dell’Interno nell’informativa tenuta ieri alle Camere sul braccio di ferro avuto nei giorni scorsi con le navi di quattro ong : “In Italia non si entra illegalmente, e la selezione di chi entra non la faranno i trafficanti”, ha detto il ministro. Piantedosi nega anche responsabilità del governo nell’incidente diplomatico che da giorni contrappone l’Italia alla Francia sul caso Ocean Viking, la nave della ong Sos Mediterranée che dopo aver atteso inutilmente risposta alle numerose richieste di un porto sicuro, ha deciso di dirigersi verso Tolone dove poi ha fatto sbarcare 230 migranti. “I fatti - spiega - evidenziano come la Ocean Viking si sia diretta autonomamente verso le coste francesi”. Nei prossimi giorni il giro di vite già annunciato contro le ong verrà licenziato dal consiglio dei ministri, anche se ancora non è chiaro sotto quale forma, se con un decreto o altro: “Le norme le scrive il parlamento” ha spiegato Piantedosi che mercoledì ha tenuto un vertice con i capigruppo della maggioranza per assicurare un iter tranquillo al provvedimento. Le novità principali riguardano la possibilità di sanzionare con multe comprese tra i 10 e i 50 mila euro le navi che non dovessero rispettare le disposizioni previste nei decreti interministeriali, come avvenuto nei giorni, fino ad arrivare alla confisca del mezzo in caso di recidiva. Piantedosi dà poi una propria lettura del diritto internazionale: “È un dato certo - spiega - che le Convezioni internazionali vigenti non stabiliscono a priori quale debba essere il Pos (Place of safety, ndr), né che esso debba coincidere con il porto più vicino e, conseguentemente, che l’Italia debba farsi carico di tutti i migranti che vengono portati nelle nostre acque territoriali da assetti navali privati, ben attrezzati quindi senza problemi sotto il profilo della sicurezza e della navigazione”. Per il ministro, dunque, “gli Stati di bandiera avrebbero dovuto operare in stretto raccordo con i comandanti delle navi Ong. Pertanto l’indicazione del Pos avrebbe dovuto essere individuato dagli Stati di competenza delle aree Sar in cui sono avvenuti gli eventi, quindi Malta o dalla Libia, o in mancanza di coordinamento, dallo Stato di bandiera in collaborazione con gli Stati costieri limitrofi”. E comunque non direttamente dalle navi. Per Piantedosi la maggior parte dei migranti sbarcati in Italia sono economici, come dimostrano le 69.078 domande di protezione internazionale presentate fino al 10 novembre scorso (+56% rispetto al 2021). Di queste il 57% sono state respinte, contro il 43% di richieste accettate nelle diverse forme di protezione: il 13% è stato riconosciuto come rifugiato, il 12% ha ottenutola protezione sussidiaria e il 18% quella speciale. Dati dai quali, spiega il ministro, “si desume che a maggior parte delle persone che giungono in Italia è spinta da motivazioni di carattere economico e, quindi, non ha titolo a rimanere su territorio nazionale”. Infine l’Europa. Il numero dei ricollocamenti realmente effettuati (117 su 8.000) dimostra che l’attuale sistema varato lo scorso mese di giugno e al quale hanno aderito 13 Stati non funziona, Da qui la necessità di migliorare il Patto europeo su immigrazione e asilo, fermo ormai da più di due anni, ma anche quella di presentare un Piano Mattei di finanziamenti destinati ai Paesi di origine e di transito dei migranti, accompagnandolo con un sistema premiale che favorisca un numero maggiore di ingressi legali in cambio della collaborazione a fermare le partenze. Qualcosa sembra muoversi anche in Europa. Ieri dal Coreper, il Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati membri, è arrivato un riconoscimento della “peculiarità emergenziale dei salvataggi in mare” insieme all’annuncio di un documento della Commissione europea. Piantedosi cerca sponde: “Premi ai Paesi che accettano i rimpatri” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 17 novembre 2022 ll capo del Viminale in Germania al G7 dei ministri dell’Interno non incontrerà il francese Darmanin. Più 60% di sbarchi nel 2022, più 56% di richieste di asilo, 105.000 persone nel sistema di accoglienza, 6 migranti su 10 da espellere. Al suo debutto sulla scena internazionale, qui nell’abbazia sconsacrata di Eberbach, Matteo Piantedosi si presenta a caccia di alleati con il sorriso conciliante di chi tende la mano per uscire dall’angolo ma anche con la cartellina piena di numeri per dimostrare all’Europa che l’Italia avrà anche meno rifugiati e richieste di protezione rispetto ad altri Paesi ma che comunque il suo sistema di gestione dei flussi migratori è in sofferenza. E soprattutto che “l’accoglienza ha un limite” come ha scandito ieri in Parlamento nella sua informativa prima di volare in Germania per partecipare al G7 dei ministri dell’Interno. Andato a vuoto a Bali il chiarimento tra Meloni e Macron dopo le tensioni per il caso della Ocean Viking, anche quello tra Piantedosi e il ministro dell’Interno francese Darmanin (che ha annunciato l’abbandono dell’impegno ad accogliere 3.000 migranti dall’Italia) dovrà attendere: la Francia al G7 sarà rappresentata da un sottosegretario. Ma è dal bilaterale con la commissaria europea agli Affari Interni Ylva Johansson che Piantedosi conta di uscire oggi con una sponda solida per alzare la posta dell’Italia sul banco dell’Europa: non solo un nuovo codice per le Ong con il coinvolgimento degli Stati di bandiera (“Siano loro a chiedere il place of safety per le navi, non i comandanti”), ma quote più ampie di redistribuzioni dei migranti, più soldi per i rimpatri e per la gestione dell’accoglienza e il rilancio del nuovo Patto migrazioni e asilo. Piantedosi ha accolto con favore le parole di Johansson ieri a Bruxelles alla riunione del Coreper dove gli ambasciatori dei 27 Stati membri non hanno preso alcuna decisione su una eventuale riunione straordinaria dei ministri dell’Interno Ue. “Abbiamo visto arrivi crescenti dei migranti sulla rotta del Mediterraneo centrale e la maggioranza delle nazionalità in arrivo probabilmente non ha bisogno di protezione internazionale - ha detto Johansson - Siamo pronti ad offrire supporto e aiuto all’Italia ma abbiamo bisogno di un sistema adeguato di solidarietà e responsabilità nell’Unione europea. Ho presentato una road map per assicurarmi che, insieme al Parlamento, gli Stati adottino tutte le proposte durante questa legislatura”. Il documento congiunto con i piccoli paesi costieri, Grecia, Malta, Cipro, schieratisi sulle posizioni italiane dopo lo strappo francese e i distinguo della Spagna, pesa ben poco sullo scacchiere europeo. E dunque anche alla ministra dell’Interno tedesca, Nancy Faeser, la padrona di casa del G7 (in realtà convocato per affrontare i problemi della sicurezza degli Stati nel contesto della guerra in Ucraina), Piantedosi proverà a strappare un sostegno pur consapevole della linea diversa della Germania sulle Ong, testimoniata dal finanziamento di sei milioni deciso dal Bundestag per la United4rescue che ha appena varato la Sea Watch5. In attesa dell’Europa Piantedosi non recede dalla sua linea dura. “Umanità e fermezza - ha ribadito ieri in Parlamento - Non verremo mai meno ai doveri di soccorso e accoglienza, ma la selezione dei migranti non la faranno i trafficanti, intendiamo governare le migrazioni, non subirle”. Poi il forte attacco alle Ong “fattore di attrazione dei flussi migratori” e l’annuncio dell’aumento di canali legali di immigrazione con un decreto flussi ampliato rispetto agli attuali 70mila posti, attraverso un sistema premiale con quote di ingresso maggiori ai Paesi di origine e transito che accettino di siglare accordi di rimpatrio e collaborino a fermare le partenze. Droghe, è allarme crack tra i giovanissimi: 5 euro per una minidose e l’effetto è devastante di Federica Angeli La Repubblica, 17 novembre 2022 Da Nord a Sud lo stupefacente a base di cocaina, bicarbonato o ammoniaca, che si assume inalandolo sta dilagando tra gli adolescenti, con effetti irreversibili su corpo e mente. Ma i dati ufficiali raccontano tutt’altro. Una dose si trova anche a 5 euro, la “botta” che dà è immediata, farla è facilissimo: così il crack è diventato lo sballo dei giovanissimi. Lo tsunami crack per ora coinvolge solo alcune grandi città e per questo l’allarme è definito dagli esperti “a macchia di leopardo”, ma il rischio che la mareggiata di cristalli di cocaina approdi ovunque è davvero alto. “Il crack - spiega Riccardo Gatti, psichiatra direttore del Dipartimento interaziendale prestazioni erogate nell’ambito delle dipendenze - viene segnalato in alcune realtà come Firenze, Palermo, Bolzano, Torino, Napoli e nelle periferie romane. Insomma in diversi luoghi d’Italia c’è un problema crack che aleggia come un fantasma”. Ma i dati ufficiali non rispecchiano la realtà. Minidosi a 5 euro: effetti forti in piccole dosi - Il crack è una droga che si ottiene dalla cottura della coca mischiata a bicarbonato o ammoniaca che chiunque può fare nella propria cucina. Si assume per inalazione, dopo aver sciolto sulla carta stagnola il cristallo (l’aspetto è simile al sale grosso) poggiato sul collo di una bottiglia forata da cui si aspira il fumo. È uno stupefacente insidiosissimo: effetti forti in piccole dosi. Il prezzo va dai 5 ai 20 euro. “ll 20% dei ragazzi che abbiamo in cura su un totale di 600 pazienti - spiega Enrico Coppola, presidente dell’associazione Genitori antidroga di Milano - fuma crack, sia in un contesto di policonsumo che in quello di assunzione esclusiva. Hanno 16 anni. Per una dose basta davvero una quantità infinitesimale di cocaina, lo 0,10%. Il resto è ammoniaca o bicarbonato, ecco perché costa così. Ma quella minidose poi crea shock, deliri, psicosi, e più dipendenza della cocaina stessa, perché l’organismo la assorbe molto di più inalandola”. Fumare coca senza sapere che si chiama crack - “Negli anni è cresciuta la percentuale di consumo di crack tra gli adolescenti - dice Sabrina Molinaro, responsabile del Cnr, il Consiglio nazionale delle ricerche - Gli operatori dei servizi ci raccontano di un numero sempre crescente di giovani e giovanissimi che fumano cocaina e dai focus group fatti emerge che molti utilizzatori non identificano la cocaina fumata con il crack: non sanno che si chiama così”. Nei dati ufficiali della Relazione al Parlamento sulle tossicodipendenze si legge che la percentuale media di principio attivo ritrovata nei campioni di crack sequestrati è cresciuta dal 63% nel 2019 all’83% nel 2022. Le ostie stupefacenti - L’ultimo sequestro eccellente, di 400 grammi, risale al 2020 ed è avvenuto a Torino: in quel caso il crack non aveva l’aspetto di cristallo ma di ostie sottili, tonde e bianche. “L’aumento del consumo di crack inizia prima della pandemia, quindi alla fine del 2019 - spiega il questore di Pescara, Luigi Liguori - e per quanto riguarda la mia realtà posso attribuirlo al crollo del prezzo della cocaina. All’ingrosso al chilo è passata dai 50 a meno di 40mila euro, con il 90% di purezza. Per fidelizzare il cliente, i pusher offrono prodotti ottimi e siccome di crack ne basta pochissimo, anche la quindicesima parte di un grammo, si può frazionare in tante dosi”. La droga fantasma - Eppure, a leggere i dati del Viminale, a parte il primo posto detenuto da Palermo con 213 dosi sequestrate nel 2020 e 98 nel 2021, si osserva che nei primi 8 mesi del 2022 a Milano sono state sequestrate 24 dosi e a Firenze appena 2, mentre “i dati del Serd - afferma l’assessora al Welfare del capoluogo toscano, Sara Funaro - dicono che il crack è la droga più diffusa tra i giovani qui da noi”. Ma che il crack sparisca dai dati ufficiali è facilmente spiegabile, fanno sapere fonti del ministero: “Nei sequestri non risulta perché il crack è classificato come cocaina”. “La sua enorme diffusione - dichiara Riccardo De Facci, presidente di Cnca, il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza - è molto legata a piccoli gruppi, non alle grandi consorterie, e soprattutto nelle situazioni dove ci sono dei progetti di prossimità per i giovani. Il fenomeno rischia di essere sottovalutato perché, nei dati attuali di ricerca e rilevazione, va sotto altre categorie e nei sequestri della polizia figura alla voce cocaina. Anche nelle segnalazioni dei consumatori fatte dalle prefetture rientra nelle macrocategorie (oppiacei) e non si troverà mai il dettaglio di assuntori di crack, ma solo il totale degli assuntori di cocaina. E così si rischia di perdere la misura di questo fenomeno in allarmante crescita”. Il trend delle “cose stimolanti” - “Il boom del crack - analizza lo psichiatra Gatti - si spiega perché da una parte questa sostanza risponde a un trend economico-commerciale simile a quello dei mercati di consumo. perché è un prodotto che apparentemente costa poco ma è molto potente. Rispetto all’effetto della cocaina dà una botta più forte. E siccome se ne usa meno si ha la sensazione che costi meno.Ma in realtà si tende a ripetere l’assunzione non appena l’effetto svanisce, dopo qualche ora, e quindi non è vero che risparmi, ma l’idea è quella. Il crack entra poi anche nel trend delle ‘cose stimolanti’, che in questo momento va forte e diventa interessante per chi ha pochi soldi. Tanto forte è l’up, altrettanto forte il down. E il cervello ha alti e bassi pazzeschi, le persone rischiano tanto dal punto di vista fisico (anche sugli organi vascolari) che a livello psichico: vanno proprio fuori di testa”. La pace e “l’incidente” polacco di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 17 novembre 2022 Ogni volta che durante questo conflitto sanguinoso è apparso un timido, oppure un forte spiraglio di mediazione, come in questi giorni, capace di aprire una trattativa per porre fine alla guerra cominciando da un cessate il fuoco, ecco che proprio in questi rari ma preziosi momenti è sempre accaduto qualcosa che ha rimesso in discussione ogni tentativo. A questo punto non dovremo forse aspettare i Pentagon ucrainans papers per conoscere quanto è accaduto con il missile (o frammenti di missile) caduto sul villaggio di Przewodow in territorio polacco. Perché un fatto è certo, non si è trattato di un deliberato attacco della Russia a un paese della Nato per una estensione ancora più criminale dell’aggressione russa all’Ucraina. Visto tra l’altro che tra le prime notizie c’era quella che la Nato indagava, come se non controllasse anche per via satellitare le traiettorie di tutti i missili che attraversano la martoriata Ucraina, e visto che la Polonia non ha attivato né l’articolo 4 dell’Alleanza atlantica che allerta alla reazione congiunta, né l’articolo 5 che chiama alla reazione militare di tutta la Nato se un solo paese è aggredito. Ma soprattutto visto che ieri per lo stesso presidente polacco Andzej Duda “non ci sono prove che il missile era russo, probabilmente è stato un incidente sfortunato”, che la Nato ha affermato che “il missile proveniva dall’Ucraina” e che addirittura Biden ha definito “improbabile” che il missile provenisse dalla Russia, per una dichiarazione apprezzata per la sua “moderazione” dal Cremlino stesso. Solo il presidente ucraino Zelensky nel suo discorso videotrasmesso al G20 di Bali ha accusato l’attacco missilistico finito in Polonia di essere - ma non lo era - “un autentico messaggio della Russia al G20”. Abbiamo dunque la certezza che si è trattato di un “incidente”, parola che mettiamo tra virgolette perché, pur significando in guerra appunto una non-volontà militare di colpire, mette tuttavia in evidenza la pericolosità dell’evento epocale delle ore drammatiche di martedì sera. Una pericolosità che dura dall’inizio di questa guerra per la quale un incidente “qualsiasi” - attacco in territorio Nato, o a un convoglio di armi occidentali, o in territorio russo come è accaduto a Belgorod, un errore tecnico per armi sofisticate, ecc. - può far precipitare la crisi bellica in corso da guerra d’aggressione a un paese sovrano a terza guerra mondiale che, per chi non l’avesse capito, vuol dire atomica. E poi, non sono forse questi missili che arrivano a uccidere in Polonia la prova di armi di difesa che diventano di offesa magari colpendo il nemico sbagliato? Ma c’è una seconda certezza che si fa strada. Ogni volta che durante questo conflitto sanguinoso è apparso un timido, oppure un forte spiraglio di mediazione, come in questi giorni, capace di aprire una trattativa per porre fine alla guerra cominciando da un cessate il fuoco, ecco che proprio in questi rari ma preziosi momenti è sempre accaduto qualcosa che ha rimesso in discussione ogni tentativo, rilanciando solo e soltanto la guerra. Stavolta però è chiaro che sulla mediazione puntano forze decisive come gli Stati uniti, la Cina anche con le sue “linee rosse”, impropriamente la Turchia che pure ha avviato gli accordi positivi sul grano. È dal capo di stato maggiore Usa Mikey Milley che è venuta la dichiarazione che, dopo 200mila morti e feriti di una parte e dell’altra, non c’è alcuna possibilità di soluzione militare del conflitto e nessuna probabilità di vittoria russa o ucraina che sia, ma c’è solo l’opportunità di tenere aperta una “finestra negoziale”; mentre l’inviato di Biden a Mosca e a Kiev, Jake Sullivan, ha chiesto a Zelensky “proposte realistiche” per una trattativa - e probabilmente i dieci punti che il presidente ucraino ha presentato finora non vanno tutti in quella direzione se “rifiutano una Minsk 3” tacendo sulla Crimea e sul futuro della minoranza russa del Donbass. Intanto si sono riparlati i vertici militari russi e americani e, fatto inaspettato, le due intelligence, allertate sullo sconfinamento della guerra in chiave nucleare e quindi sul dialogo possibile. Staremo a vedere se l’”incidente” polacco rimetterà tutto in discussione anche stavolta. Al momento sembra pericolosamente rafforzare le ali estreme, i falchi sia russi che ucraini. Certo il comportamento di Putin che scatena attacchi missilistici a pioggia sulle infrastrutture delle città ucraine allo stremo - una guerra, anche questa, contro i civili - non solo non aiuta ma va proprio contro ogni ipotesi di cessate il fuoco allontanando la trattativa. È come se non volesse riconoscere che alla fine da Kherson si è dovuto ritirare; è stata una “ritirata strategica” riconoscono i militari Usa, non la fuga, che però apre una possibilità di tregua. Tant’è che lo stesso Zelenski, celebrando quella vittoria, ha rilanciato: “È l’inizio della fine della guerra. Ora siamo pronti alla pace per tutta l’Ucraina”. Adesso salgono in cattedra a Mosca gli ipernazionalisti, quelli che chiedono la testa di Putin a mezza bocca accusandolo del ritiro da Kherson, perché ora accetti la “provocazione polacca”. E dall’altra la compatta ma timorosa leadership di Kiev, affermando in modo poco veritiero che “i missili sulla Polonia sono un attacco alla sicurezza collettiva”, punta a rafforzare quel fronte dell’Est che va dalla Polonia, al primo posto tra i fornitori di armi all’Ucraina, ai Paesi Baltici schierati in prima fila per l’avventura di una guerra con i coinvolgimento della Nato - nonostante anche ieri Stoltenberg abbia ribadito che l’Alleanza non è in guerra e che non ci sarà nessuna no-fly zone più volte richiesta dallo stesso Zelensky. Un fronte organico all’Italia del governo Meloni, nazionalista-atlantista ma non europeista, che vede nella continuazione di questa guerra un cemento ideologico e uno sprone concreto nello schieramento internazionale-atlantico che la sostiene. Invece questa guerra deve finire e la finestra negoziale per una trattativa di pace deve rimanere aperta, a dispetto dei tanti nuovi “incidenti” che già si intravvedono all’orizzonte. Egitto. In 24 ore morti due detenuti di Chiara Cruciati Il Manifesto, 17 novembre 2022 Mancanza di cure mediche e condizioni di vita disumane portano a nuovi decessi. Nel 2022 sono stati 35 i detenuti a morire in cella, nel 2021 almeno sessanta. Due prigionieri politici egiziani sono morti in cella nel giro di 24 ore a causa della carenza di cure mediche, una mancanza strutturale nelle prigioni del regime, più volte denunciata dalle organizzazioni per i diritti umani e dagli stessi detenuti. Una delle vittime è il libraio 58enne Magdy Abdu Shabrawy, detenuto a Badr, 70 km dal Cairo. Era stato arrestato a Mansura il 14 agosto 2013, il giorno in cui al Cairo il neonato regime di al-Sisi massacrava in piazza Raba’a oltre mille sostenitori dei Fratelli musulmani. Soffriva di insufficienza renale ma non stava ricevendo le necessarie cure mediche. Nelle stesse ore a morire era Shabaan Muhammad Sayed, detenuto a Qanater: soffriva di alta pressione. Non è la prima volta: nel solo 2022 sono almeno 35 i prigionieri morti in carcere o per mancanza di cure mediche o per torture e abusi della polizia. Nel 2021 erano stati 60, riporta l’Egyptian Network for Human Rights. Lo scorso settembre in 48 ore erano deceduti tre prigionieri politici a causa delle terribili condizioni di vita in carcere: Mohammed Zaki, Hassan Abdullah Hassan. Il 2 novembre scorso il 47enne Alaa al-Salami era morto per sciopero della fame: protestava per l’inumano trattamento carcerario.