Appello. Fermiamo la strage dei suicidi in carcere. Qui ed ora… si può! Firma su Change.org Il Dubbio, 16 novembre 2022 77 morti in poco più di 10 mesi. È il numero di suicidi in carcere registrati fino ad oggi. Un record lugubre, terribile, inaccettabile. Mai prima d’ora era stato raggiunto questo abisso. Sappiamo bene cosa si dovrebbe fare per evitare o contenere questo massacro quotidiano: depenalizzare e considerare il carcere solo come extrema ratio, moltiplicare le pene alternative, dare la possibilità al cittadino detenuto di iniziare un vero percorso di inclusione nella comunità. Chi è in custodia nelle mani dello Stato dovrebbe vivere in spazi e contesti umani che rispettino la sua dignità e i suoi diritti. Chi è in custodia dello Stato non dovrebbe togliersi la vita! Insomma, sappiamo bene, perché ne discutiamo da anni, da decenni quali siano le strade per fermare la strage, ma la politica, quasi tutta la politica, è sorda perché sul carcere e sulla pelle dei reclusi si gioca una partita tutta ideologica che non tiene in nessun conto chi vive “dentro”, oltre quel muro che divide i “buoni” dai “cattivi”. Insomma, non c’è tempo: il massacro va fermato qui ed ora. E allora proponiamo una serie di interventi immediati che possano dare un minimo di sollievo al disagio che i detenuti vivono nelle carceri “illegali” del nostro Paese. 1. Aumentare le telefonate per i detenuti. È sufficiente modificare il regolamento penitenziario del 2000, secondo cui ogni detenuto (esclusi quelli che non possono comunicare con l’esterno) ha diritto a una sola telefonata a settimana, per un massimo di dieci minuti. Bisognerebbe consentire ai detenuti di chiamare tutti i giorni, o quando ne hanno desiderio, i propri cari. 2. Alzare a 75 giorni i 45 previsti a semestre per la liberazione anticipata. 3. Creare spazi da dedicare ai familiari che vogliono essere in contatto con i propri cari reclusi per valorizzare l’affettività. 4. Aumentare il personale per la salute psicofisica. In quasi tutti gli istituti vi è una grave carenza di psichiatri e psicologi. 5. Attuare al più presto, con la prospettiva di seguire il solco delle misure alternative, quella parte della riforma Cartabia che contempla la valorizzazione della giustizia riparativa e nel contempo rivitalizza le sanzioni sostitutive delle pene detentive. Sottoscrivi l’appello su Change.org: https://www.change.org/p/fermiamo-la-strage-dei-suicidi-in-carcere-qui-ed-ora-si-pu%C3%B2-l-appello-del-dubbio?utm_source=share_petition&utm_medium=custom_url&recruited_by_id=c68031c0-334a-11ed-835d-359e804d0493 “Abolire il carcere è un processo, non un’utopia” di Elisa Benzoni diogeneonline.info, 16 novembre 2022 Intervista a Luigi Manconi. “C’è un motivo profondo di natura psicologica, per cui il carcere è rimosso dalle coscienze individuali e collettive, perché è il luogo dove sono reclusi quelli che hanno compiuto il male e nutriamo l’idea inconscia che con loro sia recluso il male stesso”. A raccontarcelo è Luigi Manconi autore assieme a Stefano Anastasia, Valentina Calderone, Federica Resta, del libro “Abolire il carcere”, Chiarelettere, alla sua nuova edizione (la prima è stata pubblicata nel 2015). “Il carcere è dunque il luogo dove il male può essere recluso, perché è altro da noi. Perché fa a tutti comodo, anche psicologicamente, pensare che ci sia un luogo atto a contenere la tentazione di compiere il male. Lì nel carcere rimarranno dunque coloro che a quella tentazione hanno ceduto e con loro la tentazione stessa. Un fantasma chiuso e isolato. È il modo di soddisfare una pulsione sociale che richiede segregazione ed espiazione attraverso il dolore”. Ma questa non è una visione politica collettiva è una reazione dell’inconscio… Mentre i dati citati nel suo libro fanno paura. Numero di suicidi, sovraffollamento, percentuale di coloro che torna a commettere reati dopo il carcere, percentuale dei reati gravi sulla popolazione carceraria: tutto ci dice inequivocabilmente che stiamo sbagliando. Ma non abbandoniamo questa strada. Perché? “Perché a nessuno fa comodo parlare di carcere proprio per i motivi psicologici di cui accennavo. Parlare di detenuti non è popolare ed è controproducente in termini di consenso elettorale. C’è una rimozione politica e sociale che fa sì che ogni progetto che riguarda la detenzione o le misure alternative ad essa, venga guardato con sospetto. E oggi, men che mai, si vede la prospettiva di riforme radicali; ma tutti quei numeri tremendi indicano che ricorrere alle misure alternative è necessario. Quando parliamo di abolizione del carcere dobbiamo necessariamente pensare di passare da qui. L’abolizione è un processo e la nostra non è una provocazione. È, invece, un programma politico e una strategia normativa. Abolire il carcere significa lavorare affinché costituisca davvero l’extrema ratio e nel carcere rimangano solo i socialmente pericolosi e si stima che i detenuti davvero pericolosi e i grandi criminali, costituiscano appena il 10 per cento del totale”. Quale evoluzione ha subito il concetto di pena nell’ultimo decennio? “Nella mentalità collettiva è visibile sul tema una evoluzione. C’è una crescita del numero di cittadini che ritengono necessario ricorrere maggiormente alle pene alternative, e che si rendono conto dell’importanza del lavoro in carcere e per i detenuti in generale. Sono piccoli passi ma non si può non considerali soprattutto quando i numeri negativi ci portano a tutt’altre considerazioni”. Numeri che disegnano una realtà carceraria critica... “Sì perché oggi, 11 novembre, abbiamo raggiunto il drammatico numero di 77 suicidi in carcere. Un numero tremendo che eguaglia il dato di quando in carcere si contavano 10 mila presenze in più. Un tasso di suicidi che è 17 volte superiore al dato nazionale. A cui si aggiungono 100 suicidi in 10 anni dei poliziotti penitenziari (dato di molto superiore a quello di altre forze dell’ordine). E due risalgono alle ultime ore. Perché è il sistema a essere malato e contagioso. E prosaicamente aggiungo così per sommare numeri funesti a numeri funesti che quasi il 70 per cento di coloro che escono dal carcere tornano a commettere reati. Il carcere è una istituzione insostenibile sotto il profilo giuridico e politico, sociale e finanziario”. Quale è la tendenza sul tema a livello internazionale, ammesso ce ne sia una unica, e un unico atteggiamento? “Pessima ma migliore della nostra. Cito due casi su tutti. In Germania il 50% delle pene si risolvono in sanzioni pecuniarie (commisurate al reddito del condannato stesso). In Norvegia il massimo della pena è di 22 anni, poi si valuta se aggiungerne altri 5. Ma solo se il condannato continua a rappresentare un pericolo sociale. Perché la certezza della pena non vuol dire rigidità ma prevede anche la flessibilità”. Gli anni Settanta erano gli anni della legge Gozzini. Ma anche dello statuto dei lavoratori, della legge sull’aborto, di quella sul divorzio, della riforma della polizia, della legge Basaglia. Questo per dire che il contesto di riferimento era un contesto riformatore e di grandi cambiamenti. Pensa che sia possibile oggi prendere seriamente in considerazione un processo di riforma del carcere? “Gli anni Settanta sono ricordati sempre come gli Anni di Piombo, dimentichiamo lo spirito autenticamente riformatore che li attraversò. Certo oggi la riforma carceraria ha margini strettissimi, ma il senso di realtà non può farci dimenticare quei 77 morti suicidi. È un dato che politicamente non si può ignorare proprio nel quadro generale della crisi del sistema carcerario. Ma la mia speranza è una riforma dall’interno, una amministrazione penitenziaria che abbia una visione intelligente e razionale. Una riforma di passi, anche piccoli, ma ben saldi. È questa la strada”. Nuove ipotesi di reato, nuove incarcerazioni, cosa prevede per il futuro? “Carlo Nordio, neo ministro della Giustizia, appena nominato ha detto: ‘la pena non coincide necessariamente con il carcere’. Ma subito in Fratelli d’Italia si sono affrettati a dichiarare il contrario”. No Prison: un movimento più ampio per superare il carcere di Maurizio Ermisino retisolidali.it, 16 novembre 2022 Nei suoi 10 anni il manifesto No Prison ha proposto una prospettiva alternativa alla detenzione. La convention “Basta parole: superare il carcere”. Il manifesto No Prison, scritto nel 2012 da Livio Ferrari assieme a Massimo Pavarini, ha compiuto 10 anni. Nei venti punti di cui si compone offre una nuova prospettiva di pace e riconciliazione, alternativa al carcere, per “ridurre il più possibile il dolore e la sofferenza delle persone che hanno commesso dei reati, e delle vittime degli stessi”, come ricorda Livio Ferrari. L’11 e il 12 novembre scorsi si è svolta a Milano la convention “Basta parole: superare il carcere” e l’assemblea del Movimento. Si è svolta in un momento particolarmente drammatico per le persone in stato di detenzione. A oggi, quest’anno sono 73 i suicidi e 149 i morti nelle carceri italiane, senza dimenticare le migliaia di atti di autolesionismo e le violenze. Secondo l’art. 27 della Costituzione italiana, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ma le morti e violenze che continuano a segnare le esistenze dentro al carcere rendono ancora più evidente quello che era stato affermato già nel 2012 dal manifesto No Prison. In Italia siamo in ritardo per modificare l’attuale assetto dell’esecuzione. Ed è necessario che chi ha le responsabilità legislative trovare un modello che vada oltre un’istituzione come il carcere, che produce tanti morti e sofferenza, e trovare un modello di esecuzione delle condanne che riduca al minino la perdita della libertà. Ne abbiamo parlato con Livio Ferrari, giornalista, scrittore, cantautore ed esperto di politiche penitenziarie, presidente e fondatore del Centro Francescano di Ascolto di Rovigo e portavoce del Movimento No Prison. Come è stato recepito in questi anni il messaggio del Movimento No Prison? “Il messaggio si è diffuso soprattutto negli ambienti più intellettuali in tutto il mondo” ci ha risposto Livio Ferrari. “Il libro è stato tradotto in Spagna ed è uscito a dicembre, e sta per uscire in Brasile, tradotto in portoghese, dove è nato il movimento No Prison. Quel libro lo abbiamo fatto con tante mani, con tanti amici, nel 2018. L’edizione italiana, Basta dolore e odio: No Prison, lo abbiamo presentato a Milano perché, anno dopo anno, lo vogliamo portare nelle diverse regioni”. “Non abbiamo però supporto degli organi di stampa, a parte qualche caso” ci confida Ferrari. “C’è una lontananza totale. E questo fa sì che continuiamo ad essere dei carbonari. Mentre quello che sta succedendo presupporrebbe una situazione ben diversa dal mondo carcere”. Morti in carcere: la responsabilità è di governi e parlamenti - Questo che si va a concludere è stato davvero un annus horribilis per le carceri. “Quest’anno, ancora più degli altri, è cresciuto il numero dei morti nelle carceri italiane” ci spiega Ferrari. “Il numero di suicidi è altissimo, e credo che ciò indichi come questo luogo sia fallimentare dal punto di vista degli obiettivi che si era prefisso, quelli della rieducazione. La prevenzione e gli altri meccanismi sono completamente saltati, e questo è ben evidente da quello che succede. Che è la punta dell’iceberg. Ma sotto ci sono atti di autolesionismo, violenze, morti da parte della polizia penitenziaria”. “È un mondo dove c’è un dramma grande, rispetto al quale nessuno fa niente, nessuno si prende le proprie responsabilità” continua. “Mentre le responsabilità ci sono, perché ci sono delle leggi che attengono a questo luogo. Il carcere non è uno stato naturale: è stato creato attraverso delle leggi, e le leggi le fanno i governi e i parlamenti. Sono loro ad avere la responsabilità di quelli che in questi anni stanno soffrendo e sono morti. Ma non è che questa cosa sollevi particolari interessi. E non c’è nessuno che punta l’indice verso queste persone. Che dovrebbero prendersi le loro responsabilità perché la vita delle persone è sempre una responsabilità”. Il modello dei paesi del Nord Europa - Mentre il movimento No Prison non si ferma all’Italia ma si diffonde nel mondo, ci chiediamo se ci siano, all’estero, dei modelli virtuosi che sono già più avanti rispetto a noi verso misure alternative al carcere. “Diciamo che ci sono leggi virtuose nei paesi del Nord Europa, come Finlandia, Norvegia e Svezia” ci spiega Livio Ferrari. “Ma nella pratica hanno anche loro molte storture e cose negative. Però hanno dei principi che sono quelli più avanti di tutti dal punto di vista legislativo: hanno ridotto la pena a livelli molto bassi, non c’è l’ergastolo come da noi, e soprattutto non c’è l’ergastolo ostativo, per cui non esci più per tutta la vita”. “C’è un’attenzione diversa, c’è una coscienza diversa” continua. “E, soprattutto, negli istituti vengono messe persone che sono pericolose. Ma colui che non è pericoloso non ha nessun senso che rimanga in un luogo di restrizione. Anzi, ha senso che vada liberato per fare tutta una serie di percorsi che vanno dalla restituzione del danno alla ripresa nel senso della legalità della sua storia umana”. No Prison: creare un movimento più ampio - All’incontro di Milano le voci sono state abbastanza univoche. “In un momento così drammatico anche Luigi Pagano, ex direttore di carcere, ex direttore generale dell’amministrazione penitenziaria, ha ammesso a chiare lettere quanto sia fallimentare questo luogo” ci ha raccontato Ferrari. “L’ aspetto più importante ed emblematico, sul quale lavoreremo nel prossimo futuro, è stato vedere quante realtà nel nostro paese stanno denunciando quello che sta succedendo nel mondo delle carceri. Magari in maniera diversa da noi, che vorremmo proprio buttare via questo modello per costruire invece un altro tipo di risposta a chi commette dei reati, riducendo al minimo la presenza delle carceri, ma in luoghi che non siano come questi. Che siano dei luoghi rispettosi della dignità delle persone: non si può riportare una persona al bene trattandola male, facendola morire o soffrire. Perché ci sia la rieducazione devi fare qualcosa di bello, di positivo. Le nostre posizioni magari sono diverse da quelle di altri soggetti che ci sono in Italia, come l’Associazione Antigone. L’idea generale che è uscita, che è stata alimentata da tanti dei partecipanti al convegno, è stata quella di dire: confrontiamoci, mettiamoci insieme per creare un movimento più ampio, che non sia fatto di tante parrocchie, ma che trovi un minimo comune denominatore. per far sì di incidere sulle politiche espresse dal parlamento e dal governo, e far sì che si possa cambiare”. Gherardo Colombo: seminare tra i ragazzi - Uno dei personaggi più conosciuti tra le persone che hanno partecipato al convegno è l’ex magistrato Gherardo Colombo, noto per aver fatto parte del pool di Mani Pulite. “Ha dichiarato il suo impegno per tanti anni per creare un mondo più vivibile e far sì che il carcere non sia quello che è” ci ha raccontato Livio Ferrari. “E si sta battendo per un’idea molto bella, quella di seminare tra i ragazzi. Probabilmente chi ha una certa età e una formazione di un certo tipo difficilmente cambierà idea. Se si inizia a promuovere una coscienza, una conoscenza di questi ambienti già in età scolare, questo diventa fondamentale per crescere dentro una storia di legalità e democrazia che in tante parti d’Italia non c’è”. Le reazioni di pancia vanno mediate con la ragione - Ci sembra che, parlando con le persone, venga fuori sempre una disponibilità generale, un’apertura a un carcere più umano, o, come stiamo dicendo oggi, a luoghi e situazioni alternative al carcere. Ma poi quando arriva il fatto di cronaca più eclatante, più brutale e duro da digerire, ci sono sempre levate di scudi e richieste di pene assolute e severe. È l’aspetto più mediatico, che fa leva sulla pancia delle persone e rischia di spostare l’opinione pubblica vero un altro modo di intendere la pena. Se n’è parlato anche all’incontro di Milano. “È venuto fuori questo aspetto, perché non poteva non esserci” ci racconta Livio Ferrari. “Fa sempre parte di quell’azione necessaria di conoscenza e sensibilizzazione rispetto a tutto quello che succede. Queste sono reazioni di pancia, che vanno poi mediate con la ragione. È come se una macchina sta per investirci, e ci viene un impeto di fastidio. Ma dieci minuti, o mezz’ora dopo, dovrebbe intervenire la ragione per chiedersi cosa è successo. Ci sono sempre delle domande a cui è necessario dare delle risposte, che non devono essere figlie dell’impeto del fastidio e della pancia. Non si torna indietro dai reati, ma si può restituire. Con alcune azioni che portano a politiche di giustizia. Ci sono varie opzioni ed è ora di creare un fronte comune per capire cosa veramente si può fare per arrivare alla cosa essenziale, quella di evitare tutte queste morti, di evitare questo dolore e fermare questa ondata drammatica”. Come l’Ucraina: il carcere è come una guerra - “Ho paragonato il momento storico a quello che sta succedendo in Ucraina” racconta Livio Ferrari. “Là c’è una guerra in cui sappiamo bene chi sono coloro che l’hanno determinata. Qui abbiamo una guerra in cui tutti i giorni la gente muore ma nessuno chiama in causa i fautori, che sono i politici e i nostri governi che si sono succeduti, che in anni e anni non hanno mai toccato da questo mondo, nonostante le morti. Da Duemila, dall’inizio del nuovo secolo, è un’ecatombe. E non c’è mai stato un intervento per cambiare rotta. Uno dei modi per farlo è modificare le leggi carcerocentriche. Con la sentenza Torregiani l’Italia era stata costretta a ridurre il numero di persone in carcere, anche se poi il numero era sempre quello, perché c’erano le persone ai domiciliari, ma il numero complessivo non è mai cambiato. Il numero non cambierà mai perché, se per un anno o due riduciamo il carcere e aumentiamo la ritenzione domiciliare, una volta che il trend riprende i numeri sono sempre quelli. Perché se non cambi le leggi che creano carcerazione, e le principali sono la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi, su immigrazione e tossicodipendenza, le due grosse fette che compongono la presenza in carcere di persone a cui non ha senso che venga tolta la libertà, non cambia niente”. Mettere in carcere qualcuno significa deresponsabilizzarlo - Ma c’è anche un aspetto finale nel discorso che stiamo facendo. “Mettere in carcere qualcuno dopo che ha commesso un reato significa deresponsabilizzarlo: questa persona così può anche disinteressarsi degli effetti di quello che ha commesso. La responsabilità invece dovrebbe essere un aspetto fondamentale della nostra legge: chi ha commesso un reato dovrebbe non tanto essere condannato per la cattiveria, ma avere l’opportunità di fare dei percorsi che servano a restituire il danno commesso, ad avere effetti risarcitori. Ma, soprattutto, a riprendersi la propria storia di persona legale in uno Stato di diritto, in una repubblica”. Cospito al 41 bis? Ma io in 25 anni di galera non ho mai incontrato un anarchico mafioso di Carmelo Musumeci Il Dubbio, 16 novembre 2022 Leggendo gli articoli di Damiano Aliprandi qui su Il Dubbio ho saputo che nel regime di tortura democratico per i mafiosi c’è un anarchico che sta facendo lo sciopero della fame. Mi sono chiesto com’è possibile, perché per più di un quarto di secolo di carcere, di cui buona parte in 41 bis, non ho mai trovato un mafioso anarchico. Anche perché la politica anarchica propugna l’abolizione dell’autorità costituita e accentrata, nonché di ogni forma di costrizione esterna, figuriamoci se possono essere simpatizzanti della cultura politica mafiosa. E mi è venuto spontanea la domanda. “A quando manderanno gli ebrei, omosessuali, gli zingari, i disabili e i comunisti in regime di 41 bis?” Sento il dovere di trasmettere tutta la mia solidarietà all’anarchico Alfredo Cospito. E per sensibilizzare l’opinione pubblica e i mass media d’interessarsi di questo caso ricordo uno dei miei scioperi della fame perché adesso al mio (e al vostro posto) c’è lui. - 1/12/07 Visita medica, peso 81, 800, morale alle stelle, quando lotto mi sento bene, mi sento vivo, mi sento libero. Quasi tutto il carcere sta aderendo allo sciopero della fame per l’abolizione dell’ergastolo. Ho incominciato a ricevere le prime lettere di solidarietà: “Vorrei tanto che non tu avessi bisogno e necessità di prolungare per più giorni le sciopero della fame. Ma se volete andare incontro alla vita, per rifiutare una morte interiore, mascherata e ipocrita, il mio cuore è lì con te”. - 2/12/07 Peso 79, 300, nei primi giorni si perde più peso. Morale alto e fame. Una compagna Anarchica, Lia, mi ha scritto: “Il vostro digiuno non sarà mai totale, vi potreste sempre nutrire dell’amore di chi vi vuole bene, dell’energia di chi vi sostiene, della forza dei desideri di chi lotta per un mondo senza gabbie, delle risate di chi è libero anche dentro quattro mura, e della meraviglia dei sogni”. Queste parole mi hanno tirato su il morale più di un piatto di spaghetti con il pomodoro e le melanzane. - 3/12/07 Peso 79,200, mi sento sereno: la fame ti fa diminuire la capacità fisiche ma guadagni più energie mentali. In sezione c’è un’aria diversa. Nei visi dei miei compagni ergastolani si notano le prime espressioni di disagio, ma mi sembrano più vivi degli altri giorni. - 4/12/07 Peso di oggi 78,400, quarto giorno di sciopero della fame: nella nostra sezione sono rimasti a digiunare solo gli ergastolani. Ed è giusto così, questa è la lotta degli ergastolani. Perché tutto quello che l’ergastolano ha è il presente, solo un lungo ed eterno presente uguale. Mentre andavo in doccia passando dalle celle ho visto il viso di qualche compagno ergastolano dimagrito. Lo sciopero della fame non fa a tutti lo stesso effetto, quelli che hanno la costituzione fisica esile dimagriscono a vista d’occhio. Ho scambiato qualche battuta con qualcuno di loro: “Novità? Mi sembra che ci hanno abbandonati tutti”. “La televisione parla di tutto fuorché della nostra protesta”. “Ancora non è venuto nessun parlamentare a farci visita”. “Io e quattro giorni che non penso a una donna ma piuttosto a una bistecca”. “In questo momento potrebbe venire in cella la più bella del mondo ma non potrei farci nulla”. “Cazzate! io anche in punto di morte preferirei una donna che una bistecca perché al limite mi addormenterei sul suo seno”. 5/12/07 Peso 78,00, incomincio a sentire i primi dolori, soprattutto ho tanto freddo. Il camerone dove sono è il posto più ghiacciato di tutto il carcere. Ci stanno arrivando notizie di presidi anarchici davanti a vari carceri, volantini, cartoline … buone notizie che ci hanno sollevato il morale. 6/12/07 Peso 76,400, non è possibile che in una notte ho perso 2, 400 chili e dato che sono venuti a pesarmi con una bilancia diversa o non funziona o è tarata male. Comunque mi sento debole, molto debole, mi fanno male i muscoli del corpo e soprattutto ho freddo. Mi sto rendendo conto che il freddo è più pericoloso della fame. 7/12/07 I giorni diventano sempre più duri, la debolezza aumenta e il freddo pure. 8/12/07 Ho perso ancora peso (75,900) ho dormito male mi fanno male i muscoli. 9/12/07 Questi due giorni di festa senza posta e senza notizie mi hanno ucciso il morale… dalla debolezza non riesco neppure a scrivere. 10/12/07 Oggi ascoltando musica, accompagnata dal freddo e dalla fame, mi è venuto un po’ di sconforto. Ci sono dei momenti in cui mi sento ancora bene, quando riesco a distaccarmi dal mio corpo, e dei momenti che mi sento pieno di dolori. In tutto il carcere siamo rimasti solo in cinque che ci siamo impegnati a digiunare a oltranza. 11/12/07 Peso 74,700, sono pieno di dolori, ma il morale è alto. 12/12/07 Peso 73,700, in un solo giorno ho perso un altro chilo, invece quando facevo ginnastica non perdevo neppure un etto. 13/12/07 Peso 73,300, questa notte è stata dura, ho dormito male ed ho avuto dolori da tutte le parti. 14/12/07 Al passeggio fra una nebbiolina, freddo pungente e un’aria triste di feste natalizie abbiamo parlato della nostra lotta: “Pensi che servirà qualcosa questa protesta?”. “Non lo so! Ma fra il fare e non fare è meglio fare”. “Fra la sofferenza e gli incubi che ci aspettano per una pena che non finirà mai sarebbe meglio farsi morire subito di fame…”. “Dopo 33 anni di carcere mi hanno respinto di nuovo la condizionale. Poi dicono che l’ergastolo esiste solo sulla carta. Mi avevano fatto capire che questa volta me l’avrebbero data…”. “L’assassino dei sogni è capace di farti sognare la libertà per rubartela subito dopo, per farti soffrire di più, per colpirti più in profondità…”. “Se solo avessimo un fine pena!”. “È inutile pensarci, quest’anno ho deciso di non attaccare più nessun calendario in cella”. “Io non voglio neppure più sapere in che anno siamo. Che c’importa?”. 15/12/07 Peso 72,800 Un ergastolano dal regime del 41 bis mi scrive: - Cristo può vedere i detenuti loro non possono vedere lui perché c’è la grata che esclude la visione del cielo. 16/12/07 Il digiuno continua. Per strada abbiamo perso il povero zio Totò, 75 anni ha resistito 15 giorni ma è malato di diabete e non ce la faceva più ad andare avanti. Siamo un po’ delusi dai mass media che non stanno dando visibilità alla nostra lotta. Di giorno spesso indosso una maschera di serenità e di allegria per fare coraggio ai miei compagni che stanno dimagrendo a vista d’occhio, la sera, quando la tolgo, resto solo con le mie preoccupazione e i miei pensieri… mi sento responsabile della sofferenza dei morsi della fame dei miei compagni. 17/12/07 Siamo tutti preoccupati: l’altra notte Salvatore si è sentito male e l’hanno subito ricoverato all’ospedale. Stava già male, ha subito diverse operazione, una anche al cuore, ha voluto fare il giovanotto, gli l’avevo detto di fermarsi prima. Spero che non sia nulla di grave. “Meno carcere!” invoca il saggio. “Carcere per sempre!” urla la toga di Tiziana Maiolo Il Riformista, 16 novembre 2022 Il filosofo Massimo Cacciari, a partire dal caso di Cospito, mette in guardia dai rischi di un crescente ricorso alla prigione e del regime duro. Il pg del Processo Trattativa Roberto Scarpinato difende l’ergastolo ostativo. Due mondi diversi, entrambi sbarcati in politica in momenti diversi della loro vita. Ma in parlamento, purtroppo, c’è il magistrato. Non è perché fanno, o hanno fatto mestieri diversi. Uno magistrato, l’altro professore, ma tutti e due politici, nei diversi percorsi delle loro vite. Roberto Scarpinato e Massimo Cacciari, siciliano il primo, veneto il secondo. Ma abbiamo voluto mettere a confronto due mondi che sarebbe bello poter mescolare, a partire proprio da quel che significa arrogarsi il diritto di giudicare gli altri, quel “potere di sopprimere, magari a vita, la nostra libertà”, come ha scritto proprio ieri sulla Stampa il filosofo veneziano. Parlava degli anarchici, e in particolare di Alfredo Cospito, che si sta lasciando morire di fame dopo che la Cassazione ha trasformato la gravità di un attentato del 2006 a una caserma, che per fortuna non aveva provocato vittime, in strage contro la sicurezza dello Stato. È vero che non esistendo il reato di tentata strage, la qualificazione rimane la stessa anche quando il gesto non produce morti e feriti. Ma un’azione “contro la sicurezza dello Stato” è un reato da ergastolo. Come per il terrorismo internazionale. E nel caso del detenuto Cospito ha comportato l’applicazione dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, quello del carcere impermeabile alla comunicazione tra il dentro e il fuori della prigione. Quello applicato ai condannati di mafia. Ma che è anche una vera forma di tortura, per tutti, mafiosi e non. Massimo Cacciari è un filosofo e un politico. Non sta facendo del pietismo in favore di un “poveretto” in catene. Diciamo che coglie un’occasione per argomenti che non gli sono usuali, ci pare. E, pur non volendolo, mentre parla di anarchici risponde a Roberto Scarpinato, che probabilmente non conosce e di cui forse ignora anche le numerose interviste sul foglio di famiglia, quel Fatto quotidiano che l’ha aiutato ad arrivare in Senato. Dove si è già dato da fare, con l’esordio nel quale pareva aver scambiato l’aula per una di giustizia, e l’intervento da politico con una requisitoria in toga. Raccogliendo persino la protesta polemica della presidente Meloni, che tra l’altro sui suoi argomenti preferiti, come mafia antimafia ed ergastolo ostativo la pensa proprio come lui. Il neo senatore pare voler rubare il mestiere al filosofo. Cacciari cita e interpreta Simone Weil. “Il diritto penale ha già di per sé il sapore dell’inferno. Già è tremendo il fatto di dover giudicare e punire, tanto che spesso potrebbe sembrare che siamo ritenuti liberi proprio al fine di poter essere ‘imputabili’, e cioè sempre almeno potenzialmente colpevoli”. Proprio come la pensava quel pubblico ministero che voleva rivoltare l’Italia come un calzino. Ma l’ex magistrato, oggi politico, Scarpinato è già un passo avanti rispetto a Davigo. Non gli bastano i processi, le condandiventati ne e il carcere. Lui vuole possedere le anime, e per l’eternità. Appena giunto in Senato si è occupato di quel che gli dà più di altro il sapore di una continuità, con due parole da assaporare come caramelle: “ergastolo” e “ostativo”. E ha sciorinato la sua proposta. Perché si possa applicare l’ordinanza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale la possibilità di accedere alla liberazione condizionata solo attraverso la collaborazione, occorre spiegare perché non ci si è trasformati in “pentiti”. Non basta aver scontato in carcere 26 anni della propria vita. Non basta aver tenuto un comportamento esemplare e aver seguito con successo il trattamento previsto dalle leggi. Non basta essere altre persone, aver studiato, aver lavorato, aver mutato le modalità di relazioni sociali. La prigionia del corpo non basta più. Occorre vendere l’anima. Se ti sei rifiutato di confermare l’ipotesi dell’accusa, anche se questa fosse sbagliata (come per esempio quella del “processo trattativa” in cui Scarpinato era pg in appello), e non hai chiamato in causa altre persone, o se tu avessi avuto timore di ritorsioni o semplicemente non avessi notizie inedite da dare, sappi che queste non sono ragioni che possano soddisfarmi. Devi darmi di più. Sei prigioniero. “Quando si toglie a una persona ogni libertà di muoversi, comunicare, quando si sopprime quella dimensione essenziale della nostra natura che è la vita di relazione, senza dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio che la misura sia assolutamente necessaria, ciò è sintomo di una paurosa decadenza della nostra civiltà giuridica”. Così il Maestro di Venezia. Ma bisogna evitare, risponde il Maestro di Palermo, di “fare un salto nel buio” con le concessioni. Perché per esempio, se anche una mancata collaborazione fosse “giustificabile” perché “inesigibile”, “irrilevante” o “impossibile”, che ne sappiamo di come si sarebbe comportato l’ergastolano qualora non avesse avuto questi ostacoli? Eheh, comodo sottrarsi in questo modo alla tenaglia della collaborazione. Che, ricordiamolo, non significa soltanto confessione, ma anche chiamata in correità, su fatti spesso di decenni precedenti e su persone che magari non ci sono più. È un modo di fermare la storia, e le vite. Ognuna di queste persone è inchiodata all’immagine di venti-trenta anni prima, in un altro mondo, in un altro contesto e altri comportamenti. Massimo Cacciari lamenta la caduta delle ideologie, quella del reinserimento sociale, quella dell’articolo 27 della Costituzione: “c’è da chiedere dove sono andati a finire i dibattiti degli scorsi decenni sulle alternative al carcere o sul significato e sul fine della stessa detenzione”. È troppo autocelebrativo ricordargli che ci sono piccoli giornali come Il Riformista e Il Dubbio e associazioni come “Nessuno tocchi Caino”, e anche qualche singolo individuo come Mattia Feltri, e parlamentari o ex, che non hanno mollato un minuto? Domande e risposte sono ancora all’ordine del giorno. Su “sorvegliare e punire”, sul senso della pena e sulle sofferenze del processo, che è già tortura in sé. Questo parlamento, e già quello precedente, sono considerati, con qualche ragione, molto arretrati rispetto al passato sul piano della cultura e della civiltà giuridica, soprattutto per la presenza in massa degli esponenti del Movimento cinque stelle. Ma quel che in questi trent’anni è successo fuori dal palazzo della politica e cioè nei palazzi di giustizia è molto peggio. Il mondo delle toghe ha prodotto la mentalità, la cultura, e soprattutto i comportamenti dei magistrati come Roberto Scarpinato. Di cui, tra l’altro, oggi possiamo parlare un po’ più liberamente perché si è fatto uomo politico. Ma guai a dirglielo prima, erano querele a pioggia. Anche questo è potere. Siamo d’accordo in toto sulla chiusa dell’articolo di Massimo Cacciari. “Il Paese che per sentirsi più sicuro riduce i diritti della persona, aumenta il ricorso alla prigione e ne aggrava il regime…finirà inevitabilmente col trovare la propria sicurezza nel farsi prigioniero del più forte”. Ma intanto in parlamento c’è andato Scarpinato, non Cacciari. Boss editorialisti anti-41bis sul bimestrale dei carcerati di Marco Grasso Il Fatto Quotidiano, 16 novembre 2022 Aumentati negli anni i mafiosi in redazione: da Avarello, che uccise Livatino, a Ganci, attentatore di Capaci. Gian Marco Avarello è in carcere per sette ergastoli. Ex capo della Stidda di Canicattì, era alla guida del commando che nel 1990 uccise Rosario Livatino, il “giudice ragazzino”. Agostino Lentini, detenuto a Padova, prestò la casa in cui fu tenuto il piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido a 12 anni, per impedire che il padre Santino collaborasse. Domenico Ganci faceva parte del gruppo di fuoco di Capaci. I fratelli Domenico e Antonio Papalia, capi dell’omonimo clan di ‘ndrangheta di Platì, sono accusati di essere i mandanti dell’omicidio di Umberto Mormile, educatore carcerario colpevole di aver rifiutato loro una relazione favorevole. Nessuno di questi boss si è mai pentito. Tutti questi nomi hanno in comune un’altra cosa: la militanza per la rivista carceraria, Ristretti Orizzonti. Un’associazione fatta di volontari e attivisti che, va sottolineato subito, svolge da anni un’attività meritoria a favore dei diritti dei detenuti, attraverso una rivista dedicata al mondo delle carceri. La testata, legittimamente, conduce da tempo una campagna a favore dell’abolizione del carcere duro (il 41 bis) e dell’ergastolo ostativo (il regime che, per reati di mafia, impedisce il ricorso a permessi, se non in caso di pentimento). Ed è proprio su questo aspetto che ieri la Casa della Legalità, onlus diretta da Christian Abbondanza, impegnata da anni nella lotta al crimine organizzato, ha presentato un esposto alla Dia: “Attraverso Ristretti Orizzonti vengono promosse o diffuse pubblicazioni, anche scritte dagli stessi detenuti, di sistematico attacco all’ergastolo ostativo e al 41 bis”. La contestazione degli attivisti antimafia circoscrive uno specifico arco temporale e una metamorfosi del giornale carcerario: “Fino al 2014 vi scrivevano perlopiù detenuti comuni, dopo è cambiato tutto”. I detenuti per mafia, secondo l’esposto, avrebbero monopolizzato le battaglie degli altri detenuti. Della redazione di Parma, oltre ai fratelli Papalia e Avarello, fanno parte ergastolani come Giovanni Mafrica (clan Pelle), Salvatore Fiandaca (cosca Fiandaca-Emmanuello) e Claudio Conte, boss della Sacra Corona Unita che in carcere si è laureato in legge: “Non si può comprimere la volontà di riscatto”, scrivono i redattori del carcere emiliano in un numero dedicato al carcere ostativo; nell’articolo lamentano come i permessi siano negati “a chi sta rivedendo la sua storia, riesaminando le sue scelte criminali, rendendosi disponibile a fare testimonianza della sua vita e del suo percorso in varie forme…”. E fra queste forme, sottinteso, non è contemplata la collaborazione con lo Stato. In un numero più risalente un gruppo di boss-giornalisti si rivolge al Papa: “La nostra pena è senza fine perché non abbiamo fatto i nomi dei nostri ex compagni. Negli oratori siamo stati educati al motto di ‘chi fa la spia non è figlio di Maria’ e con la figura di Giuda, che per aver tradito Gesù e averlo consegnato allo Stato romano si è impiccato. Oggi ci è chiesto di fare gli opportunisti e accusare un nostro ‘fratello in Cristo’ per non morire in carcere. Come nelle peggiori dittature. Una condizione immorale, anche per il pensiero di un ateo. Una legge che ricatta, lede la dignità, la libertà religiosa, che è applicata anche a chi si è ravveduto o all’innocente che non può dimostrare di esserlo (…) Santità, ritiene cristiana la tortura del 41 bis?”. Tra i firmatari della lettera, oltre a Lentini, Mafrica e Conte, c’è Paolo Amico un altro dei killer del giudice Livatino, mai pentito. La onlus antimafia segnala alla Dia come in alcune redazioni i detenuti per reati mafiosi abbiano preso il sopravvento: nel penitenziario di Marassi, a Genova, quattro redattori su cinque sono in carcere per reati di mafia. Fra loro figura il boss di Lavagna Antonio Rodà. A inizio 2022 è intervenuto Domenico Pellegrino, 24 anni, rampollo dell’omonimo clan calabrese di Bordighera, condannato per l’omicidio del boss francese Joseph Fedele: “Non poter vedere mio figlio mi fa sentire senza dignità”. Il rischio, avverte Abbondanza, “è che detenuti al 41 bis diventino un riferimento anche per i detenuti comuni, che è esattamente ciò che si propone un boss mafioso”. Nell’aprile del 2021 da Marassi uscì un appello per sbloccare la nomina del Garante per i detenuti liguri, firmato ancora una volta da redattori di Ristretti coinvolti in vicende di mafia, come Carmelo Sgrò, Giuseppe Talotta e Bruno Trunfio. La nomina del Garante, ancora vacante, è stata sbloccata nei giorni scorsi grazie allo sciopero della fame del consigliere Ferruccio Sansa. Dalle “priorità” ai tempi dei pm, le pieghe nascoste della riforma penale di Giorgio Spangher Il Dubbio, 16 novembre 2022 1. La “forza di gravità” delle convinzioni. Si era detto, durante la campagna elettorale, che nessuno parla di giustizia. Invero, la giustizia non ha bisogno di molte anticipazioni perché si presenta da sola, con i problemi che la vita prospetta nella sua evoluzione. A conferma di quanto detto, il primo provvedimento del nuovo governo è stato un decreto legge proprio in materia di giustizia (penale), con il suo corredo di contrapposizioni. Era già stata sollevata la prima questione di legittimità costituzionale relativamente alla rispondenza ai principi della Carta dei criteri della decretazione d’urgenza, con riferimento al regime transitorio del decreto legislativo n. 150 del 2022, protratto dal citato Dl n. 162 del 2022 in relazione alla intervenuta trasformazione di alcuni reati da perseguibili d’ufficio a procedibili a querela. Anche a voler ritenere fondata la questione (il dato è tuttavia molto, molto discutibile) e comunque ritenendo (nonostante il contrario avviso espresso da un autorevole esponente della dottrina) che la normativa di favore di cui l’imputato avrebbe potuto godere (senza il rinvio della vacatio legis dal 1° novembre al 30 dicembre) non sarebbe applicabile, l’aver rimesso la questione alla Corte costituzionale impedirà all’imputato (a differenza degli altri, che se ne potranno avvalere dal 1° gennaio 2023) di veder applicare la norma favorevole. Sarebbe stato più appropriato un rinvio del processo in cui è stata sollevata questione di costituzionalità, anche se in questo modo la questione di costituzionalità, difettando la rilevanza, non sarebbe stato possibile sollevarla. La vicenda, naturalmente, è suscettibile di molte valutazioni condizionate dalla “forza di gravità” dei propri convincimenti. 2. Accusatorio e inquisitorio: la truffa delle etichette. Intorno alla natura del processo penale vigente nel nostro Paese è da tempo in atto una autentica truffa delle etichette che, avvalendosi di questa definizione, piega le soluzioni che si vogliono introdurre. Sono plurimi gli esempi di questa autentica operazione di mistificazione. È noto che la differenza del modello accusatorio da quello inquisitorio è legata al luogo di formazione delle prove. Si può quindi dire che nel codice (originario) del 1988, impostato sul sistema bifasico, il modello articolato nei momenti della ricostruzione del fatto e in quello della rappresentazione del fatto, era sicuramente - unito ad altri corollari - un modello impostato sul canone dell’accusatorietà. È risaputo a tutti - ma pare non proprio a tutti - che quel modello si è fortemente incrinato con le famose sentenze del 1992 della Corte costituzionale, e che la modifica dell’art. 111 Cost. non ha ripristinato l’originario modello, ma solo messo argine a ulteriori derive, fermo restando che le modifiche medio tempore intervenute non potevano essere corrette. Sulla nota di queste promesse, nel giustificare le restrizioni del giudizio d’appello, si afferma che il sistema accusatorio - dimenticando il ruolo non riproponibile nel nostro processo della giuria - non prevede giudizi di impugnazione e che quindi gli interventi corretti del nostro sistema dei gravami è pienamente giustificabile, con le annunciate ulteriori correzioni dell’attuale normativa. Il contrapposto schema argomentativo si ripropone a seguito delle modifiche introdotte dalla riforma Cartabia. L’accentuato ruolo che il d.lgs. n. 150 del 2022, in attuazione della legge delega n. 134 del 2020, assegna (in ossequio alla istanze deflattive del Pnrr) ai riti speciali a contenuto premiale, (anche molto accentuato - così da favorire le exit strategies dal processo unita a condotte risarcitorie e riparatorie) è visto, per un verso, nella misura in cui sono incardinate nella struttura dalle indagini preliminari governate dai forti poteri del pm (non adeguatamente controllati dal giudice delle indagini preliminari), come una forte propensione all’inquisitorietà temperata in una logica processuale “a trazione anteriore”, per un altro verso, come la conferma di un rito processuale che meriterebbe - sul modello statistico anglosassone - la residualità del dibattimento connotato dalla violenza accusatoria. 3. Casualità o intenzionalità nella scelta della durata delle indagini. Com’è noto, la riforma Cartabia, nel dichiarato intento - da ritenersi non realizzato - di ridurre il tempo delle indagini, ha eliminato la prima proroga delle indagini preliminari, cadenzata dopo i primi 6 mesi e autorizzata per altri 6 mesi, consentendo al pm di svolgere attività investigativa per un anno (salva una ulteriore proroga di altri 6 mesi, così da confermare la durata massima di 18 mesi). Venendo incontro al necessario controllo sulla tempestività dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato delle iscrizioni oggettive e soggettive, il legislatore ha previsto un meccanismo di controllo, affidato al giudice, su richiesta dell’indagato, da attivare in tempi brevi (10 giorni) dalla conoscenza del fatto della ritardata iscrizione, con la conseguente possibilità che il giudice determini la retrodatazione della iscrizione. Senza entrare nel merito dei presupposti del riconoscimento della tardività dell’atto, da ritenersi di non agevole materializzazione, facendo il legislatore riferimento a situazioni inequivocabili e non giustificate, il nuovo meccanismo appare in grado di sterilizzare alcune implicazioni della retrodatazione, cioè, la conseguente inutilizzabilità degli atti fatti fuori termine. Nel sistema che si va a sostituire con l’entrata in vigore della riforma, infatti. a differenza di quello precedente, le ricadute della violazione sono marginali, mentre lo sarebbero con il meccanismo della proroga. Infatti, una eventuale retrodatazione riconosciuta dopo la proroga determinerebbe che la proroga è stata concessa tardivamente con la conseguente inutilizzabilità di tutte le attività compiute fuori dalla proroga che risulterebbe tardiva. Nell’attuale disciplina, invece, la retrodatazione colpirebbe solo le attività comparse nella parte finale delle attività svolte dal pubblico ministero. 4. La sterilizzazione dei criteri di priorità. Molti ricorderanno e tuttora ricordano l’acceso dibattito sui criteri di priorità nelle attività di indagine e nell’esercizio dell’azione penale: l’intervento del Parlamento, i poteri del Consiglio Superiore in materia, il timore di influenze esterne, la violazione dell’art. 112 Cost., cioè del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Sul punto è sceso il silenzio. Invero, il tema è stato introdotto dalla riforma Cartabia nell’art. 3 bis delle disposizioni di attuazione del Codice di procedura penale ove si fa riferimento a quanto previsto dai modelli organizzativi degli uffici di procura. La relativa disciplina, infatti, è stata introdotta - richiamando i criteri in materia di cui alla legge delega n. 134 del 2022, al comma 9, lett. i, dell’art. 1 - all’art. 13 della legge n. 71 del 2022, che ha disciplinato in parte la riforma dell’ordinamento giudiziario. A parte la mancanza di sanzioni sul punto, i criteri, in altre parole, sono stati assorbiti - e oscurati nel più vasto piano organizzativo delle singole procure - risultando in tal modo sterilizzati. Bisognerà vedere se il Parlamento, a quale spetterebbe una iniziativa in materia - nonostante difficoltà in ordine ai tempi, ai modi, ai contenuti, delle relative indicazioni - saprà - o vorrà - esprimersi in materia, seppur risultando ex lege necessario un suo intervento. Riforma Cartabia, a Lamezia Terme sospesi i processi davanti al gup di Valentina Stella Il Dubbio, 16 novembre 2022 Questa decisione, se mutuata dagli altri giudici nazionali, potrebbe determinare un vero e proprio collasso del sistema giudiziario italiano. L’aver posticipato l’entrata in vigore della Riforma Cartabia non ha avuto un effetto positivo sulle udienze penali, visto che il 15 novembre 2022, a Lamezia Terme, il giudice dell’udienza preliminare Francesco De Nino, ha sospeso il processo a carico di una donna, P. M., a seguito delle eccezioni sollevate dai difensori Santo Orrico, Rosario Carbone e Roberto Le Pera del foro di Cosenza. I penalisti cosentini infatti hanno fatto rilevare, a sostegno di memoria scritta depositata in difesa dei loro assistiti, che la nuova regola di giudizio dell’udienza preliminare introdotta dalla Riforma Cartabia - della ragionevole previsione di condanna - dovesse determinare, per evitare applicazioni contrarie alla Costituzione, la necessaria sospensione dell’udienza preliminare e il rinvio a data successiva al 31 dicembre 2022. Gli avvocati, nella sostanza, hanno rilevato che, dopo la riforma, il giudice dell’udienza preliminare deve decidere alla luce dei contributi probatori che ha a disposizione consentendo l’accesso del procedimento al rito dibattimentale (non per cercare la prova o corroborare gli elementi acquisiti, bensì) solo se ritiene che ragionevolmente - sulla base degli elementi già acquisiti allo stato degli atti come nel giudizio abbreviato - in questa sede verrà pronunciata una sentenza di condanna. Da qui dunque la considerazione secondo cui la legge “Cartabia” costituisce lex mitior rispetto all’attuale normativa poiché incide sulla punibilità in concreto in tutti i casi nei quali, in forza della nuova regola di giudizio - a differenza di quella ancora vigente in virtù di proroga governativa - l’imputazione può trovare l’epilogo della sentenza di non luogo a procedere benché gli elementi acquisiti - pur sufficienti, non contraddittori e idonei a sostenere l’accusa in giudizio - non consentano di formulare una ragionevole previsione di condanna. In tal modo, hanno ritenuto i penalisti cosentini, la nuova regola di giudizio è disposizione certamente più favorevole all’imputato poiché in grado di definire il procedimento con sentenza di non luogo a procedere in tutti i casi nei quali, proprio in forza di tale nuova regola, gli elementi acquisiti siano sufficienti, non contraddittori e idonei a sostenere l’accusa in giudizio, ma non consentano di formulare una ragionevole previsione di condanna. Da qui la considerazione, hanno continuato i legali, secondo cui la mancata applicazione della legge “Cartabia”, approvata dal Parlamento e attuata dal (precedente) Governo, è conseguenza di un provvedimento del nuovo Governo che ne differisce l’entrata in vigore poche ore prima per una non meglio precisata esigenza organizzativa che certamente non riguarda la fattispecie che ci occupa, pertanto è chiaramente irragionevole la relativa mancata applicazione della lex mitior, nella prospettiva di un bilanciamento di interessi contrapposti che coinvolge anche la libertà personale. Alla base di questo ragionamento, la richiesta al GUP del Tribunale di Lamezia Terme di sospendere l’attività dell’udienza preliminare e differirne la trattazione a data successiva al 30 dicembre 2022, in modo da consentire sia allo stesso Giudice dell’udienza preliminare la valutazione dell’imputazione e delle eventuali determinazioni ex artt. 421bis e 422 cod. proc. pen. alla stregua della nuova regola di giudizio, sia all’imputato la giusta e più pertinente (sempre alla stregua della nuova regola di giudizio) scelta processuale in merito all’eventuale definizione mediante riti alternativi. Questa decisione, se mutuata dagli altri giudici nazionali, potrebbe determinare un vero e proprio collasso del sistema giudiziario italiano in quanto comporterebbe la stasi di tutte le udienze preliminari in corso, in molti casi con imputati detenuti e per reati di grave allarme sociale, e il differimento al 2023. E tutto ciò in evidente distonia rispetto agli obiettivi del Pnrr cui mira proprio la Riforma Cartabia. Basta lottizzazione. Il Csm ha bisogno di credibilità di Franco Corleone Il Riformista, 16 novembre 2022 Il 13 dicembre è convocato il Parlamento in seduta comune per l’elezione di dieci componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura e sarà un banco di prova per capire se prevarrà la violenza dei numeri prodotti da una legge truffa e incostituzionale o il rispetto delle istituzioni con una scelta rappresentativa delle diverse sensibilità sul tema della giustizia. D’altronde la votazione si svolgerà attraverso una modalità attesa da decenni; infatti il Parlamento il 17 giugno 2022 ha approvato la legge 71 di modifica dell’art. 22 della legge 195 del 1958 sulla costituzione e sul funzionamento del CSM, prevedendo procedure trasparenti di candidatura e nel rispetto della parità di genere. La sollecitazione sugli adempimenti necessari per non violare la nuova disposizione di legge è stata rivolta dall’on. Riccardo Magi al Presidente della Camera sottolineando la necessità di definire le procedure delle candidature e di individuare un metodo di voto per assicurare il rispetto degli articoli 3 e 51 della Costituzione. Purtroppo la decisione assunta dai presidenti delle due Camere è assai deludente, in altri contesti si direbbe che non rappresenta neppure il minimo sindacale, perché non prevede neppure la presentazione di curricula e tanto meno l’esame delle candidature davanti a una commissione permanente o ad hoc. Addirittura i tempi di esame anche superficiale dei nomi sono ridottissimi dato che il termine della presentazione delle autocandidature o da parte di dieci parlamentari è fissato al 10 dicembre. La decisione più ipocrita e offensiva è però quella legata alla parità di genere, infatti viene semplicemente auspicato che vi sia una rappresentanza di genere almeno del quaranta per cento delle candidature, ma senza un vincolo perentorio e senza una garanzia di elezione di una percentuale vicina alla metà non essendo previsto un metodo di voto alternato uomo-donna o con l’annullamento dell’elezione dei rappresentanti di un genere dopo il sesto nominativo dello stesso genere. Il rischio è che una novità venga vanificata e prevalga comunque la logica della lottizzazione decisa dai partiti in conciliaboli segreti senza un confronto pubblico e infatti già si vocifera di una divisione tra maggioranza e opposizione di sette a tre. È auspicabile che nel poco tempo a disposizione si apra una discussione per rivedere queste decisioni riduttive e definire scelte che consentano dopo la crisi che ha investito il CSM l’indicazione e la scelta di profili di alta qualità scientifica per restituire credibilità alla giustizia e al suo organo di governo della magistratura. Quel che è certo è che il giorno del voto non si potrà impedire ai parlamentari di analizzare la storia, gli studi e la personalità dei candidati non accampando l’alibi del Parlamento limitato a seggio elettorale. Risulta davvero istruttivo leggere i precedenti e per questo ho recuperato gli interventi di Franco Russo, deputato di Democrazia Proletaria, di Franco Servello, deputato del Movimento Sociale e il mio, allora senatore radicale, svolti nella X legislatura nelle sedute del 20 giugno e del 5 luglio 1990. Come rappresentanti di minoranze discriminate contestavamo il metodo della spartizione che prevedeva sette eletti alla maggioranza (4 alla DC, 2 al PSI e uno a rotazione ai laici) e tre al PCI e invocavamo un ruolo attivo dei Presidenti delle Assemblee per innovare una prassi partitocratica. Nilde Iotti, allora autorevole Presidente della Camera, consentì in via eccezionale tre lunghi interventi su una questione spinosa e nella risposta espresse “l’auspicio di una riforma volta a garantire meglio la rappresentatività delle forze politiche” e ribadì “anche a nome del Presidente del Senato Spadolini l’impegno a promuovere una riforma della normativa che regola l’elezione dei membri del Consiglio superiore della magistratura”. È incredibile che siano passati più di trenta anni per una riforma parziale e sarebbe paradossale che sia vanificata per mediocri interessi di parte aumentando la crisi delle Istituzioni. Parità, spazio alle donne nel Csm di Anna Corrado Corriere della Sera, 16 novembre 2022 Grazie alle quote rosa introdotte con la recente riforma (legge 71/2022), il Parlamento ora deve assicurare l’equilibrio. Il tema della parità di genere mai come in questi giorni sta avendo centralità nel dibattito politico: merito certamente della presenza di un presidente del Consiglio donna. E così si assiste alla ricerca spasmodica di tutto ciò che fino a oggi si declinava solo al maschile per tradurlo in parole che risultano più rispettose del coinvolgimento femminile, anche a rischio di scadere nel ridicolo. Si stigmatizzano comportamenti, posizioni politiche e azioni per individuare una parità che, nella sostanza, non è ancora veramente assicurata. “Piatto ricco mi ci ficco”: è troppo ghiotta l’occasione per non provare ad aggiungere al prezioso dibattito qualche ulteriore elemento di riflessione. Qualche mese fa l’Università Bocconi di Milano ha pubblicato una ricerca molto interessante sul coinvolgimento delle donne nei reati di corruzione dalla quale emerge che le stesse risultano meno coinvolte. Le ragioni di ciò sono in verità poco lusinghiere: la virtù anticorruttiva delle donne risiederebbe nella mancanza di occasioni e cioè nel fatto che le donne sono meno coinvolte in posizioni di “potere” visto che occupano, in percentuale, meno poltrone importanti rispetto agli uomini. Dall’esperienza che ci viene dai fatti di cronaca potremmo dire che questo dato ci torna. Pur preferendo pensare che ciò sia dovuto anche al fatto che probabilmente le donne hanno, di indole, un maggior senso del pericolo, e quindi in modo pratico cercano di stare lontane dai guai, va detto che è certamente oggettivo che le donne spesso sono fuori dai “giochi”, anche perché nel tentativo di combinare carriera e famiglia non sempre si riesce a portare tutto a casa, risultando più facile attestarsi in posizioni di retrovia. Le donne sono meno presenti ai vertici delle amministrazioni, delle società o degli enti e soprattutto occupano meno posizioni di potere. E la politica, sebbene stia dimostrando una grande sensibilità sul tema non sempre le ha aiutate in maniera adeguata, risultando necessario ancora oggi scomodare le “quote rosa”, certamente non appaganti per una vera cultura della parità, per assicurare alle donne adeguata visibilità. Così, è proprio grazie alle quote rosa introdotte con la recente riforma (legge 71/2022), che il Parlamento per le nomine dei componenti laici del Consiglio Superiore della magistratura (fissate per il 13 dicembre) dovrà assicurare l’equilibrio di genere nel nuovo Csm. Una conquista importante, sebbene parziale. La modifica, infatti, vale solo per il Csm e non per gli altri organi di autogoverno delle altre magistrature per i quali le donne dovranno affidarsi “al buon cuore” dei parlamentari o chissà contare sugli effetti dell’attuale virtuoso dibattito per nomine in gonnella. È un primo passo quello fatto con la modifica normativa della composizione del Csm, anche perché servirà a scongiurare tornate di nomine come quella in scadenza: nel 2018, infatti, il Parlamento dimenticò proprio di considerare le donne nelle sue votazioni nominando solo uomini, in tutto 20, per tutti gli organi di autogoverno: per il Consiglio Superiore della Magistratura 8 membri laici (che passeranno ora a 10); per il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa, per il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti e per il Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria, 4 membri laici per ogni organismo. Ma ora che possiamo contare su tanta sensibilità politica in tema di parità di genere, siamo fiduciose che simili situazioni non si verificheranno più. E così confidiamo che la storia non si ripeta quando tra qualche settimana il Parlamento dovrà individuare i nomi dei componenti degli organi di autogoverno delle magistrature speciali e che soprattutto le donne che operano in politica rivendichino la possibilità che anche professoresse e avvocatesse possano essere chiamate ad assumere così importanti incarichi realizzando l’”aspirazione ideale” della stessa politica. E, sempre in tema di parità di genere, non può non sottolinearsi come invece sia passata sottotraccia la mancata approvazione di una norma che era presente nel disegno di legge sulla concorrenza, proposta dal governo uscente, poi varato in fretta e furia durante una insolita calura estiva (legge 118/2022). Nessun attore politico si è doluto o indignato per l’eliminazione della norma che per la procedura di nomina dei vertici di tutte le autorità amministrative indipendenti prevedeva, oltre all’istituzione di una Commissione per la valutazione dei curricula dei futuri candidati, anche il rispetto del principio della parità di genere. La norma è stata così sacrificata sull’altare di una ben più importante partita e cioè quella di mantenere le nomine a esclusivo appannaggio della politica senza creare un passaggio intermedio di valutazione da parte di una Commissione, che ragionevolmente sarebbe stato comunque di nomina politica. A memoria d’uomo, allo stato la regola della parità di genere per i vertici delle autorità indipendenti più importanti è prevista normativamente solo per una, mentre per tutte le altre ci si affida alla magnanimità della politica per garantire una ragionevole percentuale di quote rosa, a oggi rappresentate da meno del 30 per cento dei consiglieri. Naturalmente va scongiurata la possibilità che vengano nominate donne “a tutti i costi” perché questo non giova alle donne: basterebbe solo qualche appellativo in meno e qualche opportunità vera in più. Il decreto antirave arriva in Senato, Bongiorno: “Lo miglioreremo, ma senza stravolgerlo” di Valentina Stella Il Dubbio, 16 novembre 2022 Al via da giovedì le audizioni in Commissione giustizia. Forza Italia indica Manes e Caiazza, il Terzo Polo Spangher, Passione e Gonnella. Domani alle 11 il dl Rave-Covid verrà incardinato in commissione Giustizia al Senato. È quanto emerge al termine dell’ufficio di presidenza della 2a di Palazzo Madama, tenutosi alle 13. Relatrice del provvedimento sarà la presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno, esponente della Lega. Per il Governo a seguire i lavori del dl in commissione sarà un altro membro del Carroccio Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia ed ex presidente proprio della 2a a Palazzo Madama. “Questo testo colma un vuoto legislativo. Quindi molte critiche sono infondate, ma lo miglioreremo. Ci saranno degli interventi di natura tecnica per perfezionarlo senza stravolgerlo”, spiega Bongiorno. Ma non si sa ancora se sarà anche il Governo a presentare delle modifiche al testo. “Prima cominciamo con le audizioni - ha osservato sempre la senatrice - poi si entrerà nel merito. L’unica certezza al momento è che questo testo, contenendo questioni di estrema delicatezza come l’ergastolo ostativo, la norma contro i rave party e gli obblighi vaccinali, avrà tutta l’attenzione che merita”. I componenti della commissione avranno tempo fino alle 20 di oggi per indicare i nomi di chi vogliono audire. Le audizioni dovrebbero iniziare giovedì prossimo. “A dire il vero - ha aggiunto Bongiorno - ci sono già state delle richieste di audizione. L’Anm ad esempio ci ha detto che vorrà essere ascoltata”. La presidente della Commissione ha spiegato che al momento non è stato messo alcun tetto al numero delle audizioni anche perché confida “nella ragionevolezza di tutti”, trattandosi di un decreto. Ma, ha affermato, “non c’è alcuna volontà di dilatare i tempi oltre il necessario”. Forza Italia chiederà di sentire Vittorio Manes, avvocato e professore ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna, e il presidente dell’Unione Camere Penali, Gian Domenico Caiazza. Il Partito democratico invece ha indicato Gian Luigi Gatta, consigliere della ex Ministra Cartabia, e il costituzionalista Francesco Clementi. Azione-Italia Viva hanno fatto tre nomi: il professor Giorgio Spangher, Emerito di Diritto Processuale Penale dell’Università La Sapienza di Roma, l’avvocato Michele Passione del Foro di Firenze, e il professor Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone. Il Movimento Cinque Stelle indica Piergiorgio Morosini, sostituto procuratore generale in Cassazione, Marco Patarnello, magistrato di sorveglianza a Roma, Giovanni Melillo, procuratore nazionale antimafia, e l’Anm. Il gruppo Alleanza Verdi e Sinistra chiederà di sentire: Antigone, Luigi Manconi, Presidente dell’Associazione A Buon diritto, Amnesty, l’avvocato Fabio Anselmo, e il garante detenuti Lazio Stefano Anastasia. Sempre da Forza Italia, ma su un’altra questione, quella dei suicidi in carcere, si è espresso Pierantonio Zanettin, capogruppo in Commissione Giustizia a Palazzo Madama: “Continua lo stillicidio di suicidi in carcere - scrive. Quest’anno è già stato raggiunto il numero record di 78 casi. Un Paese civile non può accettare questa triste contabilità. Sono necessari interventi urgenti per invertire questo trend agghiacciante”. Meloni contro Saviano, perché questo processo non s’ha più da fare di Chiara Valerio La Repubblica, 16 novembre 2022 C’è un verso di Robert Frost, poeta, che suona come “Il miglior modo per uscirne è sempre passarci attraverso”. Così, ieri mattina, nell’aula ventiquattro della nona sezione penale del Tribunale di Roma, c’erano scrittrici e scrittori per assistere al processo dove Roberto Saviano, scrittore e cittadino italiano, si vede opposto a Giorgia Meloni, Primo ministro, e Matteo Salvini, ministro delle Infrastrutture e vice-premier. Eravamo lì per passare attraverso ciò che non può essere una possibilità in una repubblica democratica. Eravamo lì per passarci attraverso, e uscirne. Le istituzioni democratiche sono organismi fragili perché si reggono su quotidiane pratiche democratiche - non esiste, in breve, democrazia, senza comportamenti democratici, vanno manutenute - e, in fondo, sulla sola semplice idea che chi ricopre cariche istituzionali non può portare in giudizio un singolo cittadino perché questo mostrerebbe qualcosa che nello Stato non ha da essere, e cioè che lo Stato opprime. Si potrebbe obiettare che questo processo ha preso l’avvio prima che Giorgia Meloni fosse incaricata di formare il governo in conseguenza degli esiti elettorali, e prima che Matteo Salvini assumesse le cariche di vice-premier e ministro delle Infrastrutture, ma l’immediata contro obiezione sarebbe che proprio in virtù di questa nuova realtà Giorgia Meloni ritirasse la querela per manifesta sproporzione - osservava ieri Michela Murgia dai suoi social - tra querelante e querelato. L’Italia è una repubblica democratica. In democrazia, la critica non solo è una possibilità, ma è una caratteristica costitutiva. La possibilità di dissentire misura la salute di una democrazia. La nostra democrazia è rappresentativa e ciò significa che le persone che ricopronocariche istituzionali non parlano e non agiscono più solo per sé, ma in nome e nella fiducia dei cittadini che li hanno votati e anche in nome e nel la fiducia di chi non li ha votati. Lo Stato come insieme di cittadine e cittadini non può schierarsi contro un singolo perché la situazione sarebbe simile a quella di un gruppo che accerchia un singolo e, se anche non compie azione alcuna, potrebbe farlo e dunque spaventare, intimorire, intimidire, inibire.Ciò che chiamiamo e sanzioniamo come bullismo negli esseri umani e nella società civile non può essere tollerato nelle istituzioni. Gli avvocati di Meloni hanno dichiarato di valutare il ritiro della querela, ma Matteo Salvini si è costituito parte civile. Due gesti che paiono contraddittori, e dei quali uno è una dichiarazione e uno un fatto. Questo ho pensato ieri, e non solo io, nell’aula 24 della nona sezione penale del Tribunale di Roma. Che non si può assistere inermi e silenti alla sproporzione, che riguarda non Roberto Saviano ma noi tutti. La giustizia, osserva Simone Weil in una lettera al fratello André (L’arte della matematica, a cura di M. C. Sala, Adelphi) può definirsi solo mediante l’uguaglianza e non c’è uguaglianza tra Roberto Saviano e chi lo ha querelato, e dunque, non può esserci nemmeno definizione di giustizia. Toscana. Rinnovato protocollo per studio universitario in carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 16 novembre 2022 È stato rinnovato a Firenze, presso la sede della presidenza della Regione Toscana, in Palazzo Strozzi, l’accordo che consentirà alle persone detenute negli istituti toscani di studiare e laurearsi mentre stanno scontando la pena. Il Protocollo è stato firmato dal presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, dal Provveditore Regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Umbria, Pierpaolo D’Andria, e dai rettori delle università toscane, Alessandra Petrucci per Firenze, Riccardo Zucchi per Pisa, Gianluca Navone (delegato del Rettore Roberto Di Pietra), per Siena, e Tomaso Montanari, per l’Università per Stranieri di Siena. Il Polo Universitario Penitenziario (PUP) della Toscana, formalizzato nel 2017 con il primo accordo regolatore, comprende 12 corsi di laurea attivati negli Istituti di Pisa, San Gimignano e Prato. Nell’anno accademico 2021 -22 dei 65 iscritti, 31 hanno optato per i corsi di scienze politiche, 11 per le materie attinenti a Scienze sociali. Una preferenza, quella per le materie giuridiche e sociali che sembra confermarsi anche per i detenuti iscritti ai Poli Universitari degli altri Provveditorati, attivati in collaborazione con 29 atenei italiani secondo un monitoraggio del DAP. Sono 850 detenuti che frequentano corsi universitari, tra loro appartenenti anche all’Alta Sicurezza e al circuito 41bis. Il Polo dell’Università degli Studi di Sassari si attesta come il più virtuoso con 17 corsi di laurea, circa 60 studenti attivi ogni anno, una media del 5,4% di laureandi (contro il 2% nazionale) e con un numero di laureati pari al 30% del totale nelle carceri italiane. Finanziato da MIUR, Ministero della Giustizia, ERSU (Ente Regionale per il diritto allo studio universitario), Fondazione Sardegna e dalle diocesi di Alghero-Bosa, il PUP Sassari si appresta a diventare un modello per altri corsi universitari destinati a detenuti. La prima infrastruttura informatica penitenziaria di strumentazioni e software d’avanguardia progettata e realizzata dal Polo sardo durante la pandemia, è stata scelta infatti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per una sperimentazione annuale, da poco conclusa, che verrà estesa ad altre realtà nazionali. L’infrastruttura consente agli studenti di condividere materiali didattici, di comunicare con i docenti e tutor in totale sicurezza, rendendo più semplice e inclusivo il percorso universitario. Piemonte. Quasi mille detenuti protagonisti del progetto “Sportello lavoro carcere” torinoggi.it, 16 novembre 2022 Frediani (M4O): “Occorre ridare dignità sociale a queste persone per costruire nuovi percorsi di vita”. Tre milioni di euro per il reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro e 975 destinatari che hanno preso parte al progetto Sportello lavoro carcere. “Sono alcuni dei dati che si possono leggere nella sintesi 2020-22 e che ci sono stati forniti, sotto nostra richiesta, in commissione regionale dopo il confronto con la direttrice dell’Agenzia Piemonte Lavoro”, ha dichiarato Francesca Frediani, Consigliere regionale Movimento 4 Ottobre Piemonte. Il progetto, cofinanziato attraverso i Fondi strutturali dell’Unione Europea, prevede attività mirate all’inclusione socio lavorativa di chi è privato della libertà personale, nel tentativo di offrire un sostegno concreto per riconquistare una propria autonomia. Ad oggi 206 persone hanno preso parte a tirocini formativi e 75 sono state messe sotto contratto. Le attività sono erogate dagli operatori all’interno degli istituti a seguito di appuntamenti concordati con i servizi educativi del carcere e hanno coinvolto tutti e 14 gli istituti carcerari piemontesi. “Non solo reinserimento ma recupero di dignità sociale. Lo chiedono i detenuti che abbiamo incontrato durante le nostre visite nei penitenziari e lo chiediamo anche noi, consapevoli che la ricostruzione di un’identità socio-lavorativa è il primo tassello per abbassare il tasso di recidiva, dando respiro alle carceri e recuperando delle vite umane. Un obiettivo che si può raggiungere solo con una maggiore interconnessione con le realtà del territorio e con la presenza costante dei servizi per il lavoro all’interno delle strutture penitenziarie”, conclude Frediani. Avellino. Costantino è morto in carcere il giorno prima dell’udienza di Rossella Grasso Il Riformista, 16 novembre 2022 “Voleva andare in comunità, ma non c’era posto”. Costantino aveva 45 anni, era originario di Bellizzi, in provincia di Salerno. Era tossicodipendente, aveva bisogno di aiuto, ne era consapevole e lo voleva. Il 15 novembre era atteso per l’udienza in Tribunale. È morto in carcere di Ariano Irpino, in provincia di Avellino, il giorno prima. Era lì da una settimana appena. “Sono 186 le persone morte nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno, 77 si sono suicidate - ha detto Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania - In Campania in 6 si sono tolti la vita. L’ultimo è Costantino che si è tolto la vita nel carcere di Ariano Irpino. Il male oscuro dei suicidi, va fermato”. Secondo la ricostruzione di Emilio Fattorello, consigliere nazionale del sindacato autonomo Osapp, Costantino si è impiccato all’inferriata della cella utilizzando una cintura. Per lui sono stati inutili i soccorsi, è morto in carcere. “Su questa morte saranno fatti accertamenti. Certo è che era una morte che si poteva evitare. Costantino era un tossicodipendente e voleva andare in comunità. Da maggio lo chiedeva, ma per lui, come per tanti altri, non c’è mai posto”, ha detto l’avvocato Stefania Pierro, legale di Costantino che da anni si batte per i diritti dei detenuti tossicodipendenti che sono i più fragili e meno tutelati. Quelli che hanno bisogno di maggiore attenzione e di aiuto concreto, di strutture idonee al loro trattamento. Ma sembra che in Campania tutto ciò non sia previsto. “La morte di Costantino mi ha sconvolta - continua l’avvocato Pierro - Per i tossicodipendenti il carcere non rieduca e non recupera affatto. Costantino voleva andare in comunità, lo stava chiedendo da maggio. Era fiducioso che ci sarebbe riuscito ed eravamo in attesa di trovare una disponibilità in una struttura in Campania. Ma il posto non si trovava. Mi domando: se non ci sono posti nella nostra regione, perché non mandarli fuori? La sanità penitenziaria prevede che un detenuto debba stare in una comunità nella regione di appartenenza, salvo casi eccezionali. Ma in Campania non ci sono posti. Quindi perché non mandarli altrove?”. L’avvocato racconta di un altro detenuto tossicodipendente, suo assistito, che aveva avuto l’affidamento terapeutico in una struttura. La mattina stessa della sua scarcerazione la comunità aveva avvertito che il posto non c’era più e il suo assistito è tornato in carcere dove sta ancora rinchiuso. “Come Costantino sono tanti i detenuti tossicodipendenti a cui vengono concessi affidamenti in strutture ma che poi restano in carcere sempre perché non c’è posto”. Ciambriello spiega che Costantino era tossicodipendente da “doppia diagnosi”. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la Comorbidità o Doppia Diagnosi la “coesistenza nel medesimo individuo di un disturbo dovuto al consumo di sostanze psicoattive ed un altro disturbo psichiatrico”. In che modo il carcere avrebbe potuto rieducarlo? “Voleva andare in comunità - dice Ciambriello - In passato ci era stato e stava meglio. Poi era finito nuovamente in carcere. Aveva anche ingerito una lametta in passato. Faceva laboratori di serigrafia e falegnameria. Ieri nessuno avrebbe sospettato che volesse togliersi la vita”. È morto in carcere, dove era recluso da aprile in custodia cautelare. “Oggi - continua l’avvocato Pierro - saremmo dovuti comparire davanti al giudice. Avremmo chiesto il giudizio abbreviato e i domiciliari in comunità. Ma comunque non avevamo il posto”. “Ci sono soggetti che non dovrebbero stare in carcere: penso ai tossicodipendenti, ai malati psichiatrici, ai soggetti fragili - continua il Garante regionale dei detenuti - Occorre liberarsi dalla necessità del carcere per queste persone. Il carcere deve essere una estrema ratio. Bisogna incrementare più figure sociali nelle carceri: educatori, psicologi, volontari. Anche più spazi, più telefonate, più liberazione anticipata. Il carcere non può più continuare ad essere una discarica sociale e un ospizio dei poveri”. Ciambriello e Pierro ricordano che Costantino quando era in carcere a Salerno è stato il testimone di un’altra triste vicenda, la morte di Vittorio Fruttaldo, il detenuto di 35 anni, originario di Aversa stroncato da un malore il 10 maggio scorso, dopo uno scontro fisico con gli agenti di polizia penitenziaria nel carcere di Fuorni. Sul suo corpo, da un primo esame, furono trovati segni di violenza, riconducibili a percosse subite nei giorni precedenti. Come appreso dal Riformista nel tempo emersero dettagli raccapriccianti che smentirono la versione fornita dal sindacato di polizia penitenziaria secondo cui il detenuto, affetto da problemi di natura psichiatrica (circostanza smentita dai referti medici), avrebbe aggredito due agenti con un coltello rudimentale e, nel corso della colluttazione, sarebbe stato stroncato da un malore. Costantino era uno dei testimoni chiave di quanto accaduto a Fruttaldo, che, secondo quanto appreso dal Riformista, era un detenuto che aveva problemi di tossicodipendenza. Avrebbe finito di scontare la sua pena a ottobre 2022 e anche lui necessitava di una terapia per disintossicarsi. Per il caso saranno fondamentali le testimonianze degli altri detenuti che dovrebbero essere ascoltati dagli investigatori per far luce su quanto accaduto nel carcere di Salerno ed evitare che si ripetano episodi analoghi alla mattanza di Santa Maria Capua Vetere quando, prima delle misure cautelari e delle devastanti immagini che sconvolsero l’opinione pubblica, i detenuti, impauriti di subire ulteriori ripercussioni, derubricavano le percosse subite con l’oramai celebre “sono caduto dalle scale”. Monza. Detenuto pestato in carcere? “Era molto aggressivo” di Stefania Totaro Il Giorno, 16 novembre 2022 Il dirigente della polizia penitenziaria ha difeso in aula i 5 colleghi accusati di aver preso a pugni e schiaffi un uomo e di aver insabbiato l’accaduto. Clima pesante e difesa agguerrita in aula, riempita di familiari e colleghi venuti a portare la loro solidarietà agli imputati, al processo al Tribunale nei confronti dei 5 agenti di polizia penitenziaria accusati di avere picchiato nell’agosto 2019 un detenuto nel carcere di via Sanquirico e poi tentato di insabbiare l’accaduto. Ieri è entrato nel vivo il dibattimento che vede contestate a vario titolo le accuse di lesioni aggravate, falso, calunnia, violenza privata, abuso d’ufficio e omessa denuncia e a cui si è costituita parte civile l’associazione ‘Antigone’, che si occupa della tutela dei diritti nel sistema penale e penitenziario e che ha presentato un esposto alla Procura di Monza dopo avere avuto notizia del presunto pestaggio. L’uomo, un italiano, che era in cella per scontare una condanna per violenza sessuale e stava protestando perché voleva essere trasferito in quanto presunto collaboratore di giustizia, tanto che da una settimana stava facendo lo sciopero della fame, secondo l’accusa stava per essere riportato in cella in barella dall’infermeria del carcere quando è stato colpito a pugni e schiaffi da un agente, mentre altri lo tenevano fermo. Per poi farlo cadere dalla barella una volta arrivati in cella. Il detenuto sarebbe stato lasciato lì dolorante, con gli occhi lividi, il volto tumefatto e un dente rotto. E in seguito mandato in cella di isolamento, dopo essere stato costretto a dichiarare che era stato lui a essere stato aggressivo con gli agenti. C’è un video dell’accaduto estratto da alcune telecamere nei corridoi del carcere di Monza, che mostra l’agente che schiaffeggia il detenuto ma, secondo la difesa degli imputati, le telecamere non hanno ripreso, per un cono d’ombra nella registrazione, il momento precedente in cui il detenuto avrebbe sferrato un calcio al volto di un agente. A dire degli imputati le lesioni non sono state causate da una violenta aggressione da parte degli agenti, che sostengono di avere soltanto ‘contenuto’ il detenuto dopo che ha opposto resistenza, ma dalla caduta dopo il trasferimento in cella e da un’azione di successivo autolesionismo messo in atto dal detenuto. Ed è proprio sul concetto di ‘azione di contenimento’ dei detenuti da parte della polizia penitenziaria che si gioca il processo. “Per contenimento si intende bloccare la persona in modo da renderla inoffensiva - ha spiegato in aula il dirigente della polizia penitenziaria al carcere di Monza - anche se in realtà la normativa parla di uso della forza e noi possiamo usare solo le mani in caso di aggressione”. Secondo il testimone il detenuto “era già stato sottoposto a sanzioni disciplinari per condotte aggressive contro altri detenuti e operatori”. Roma. Da Rebibbia ai parchi, 35 detenuti diventeranno giardinieri dire.it, 16 novembre 2022 Progetto promosso dal sindaco Gualtieri, oggi in visita nel penitenziario della Capitale: “Passo per reinserimento”. Visita del sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, al carcere di Rebibbia. “Abbiamo dato il via ad un progetto davvero speciale, di cui sono particolarmente orgoglioso. Grazie al protocollo d’intesa tra Roma Capitale e il Ministero della Giustizia (Dap), 35 detenuti avranno la possibilità di frequentare un corso di formazione professionale e di svolgere attività per aiutarci nella cura del verde pubblico, di parchi e giardini della nostra città”, rivendica il primo cittadino, che parla di “un bellissimo progetto di reinserimento sociale, in linea con i principi della nostra Costituzione, che permetterà a queste persone di ricucire il rapporto con la collettività attraverso queste azioni concrete di pubblica utilità. La formazione e l’esperienza pratica acquisita saranno fondamentali, poi, per il reinserimento nel mondo del lavoro, una volta espiata la pena”. Il sindaco, infine, ha ringraziato il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, le assessore Alfonsi e Funari, i Dipartimenti, gli enti e le associazioni del Terzo Settore “per aver consentito l’avvio di questo importante percorso. Noi continueremo a sostenere progetti come questo, perché ci crediamo e perché ci permettono di crescere, tutti insieme, come comunità”. Entra dunque nella fase operativa il programma di attività previste dal Protocollo d’intesa tra Roma Capitale e il Ministero della Giustizia - DAP, siglato il 24 giugno 2022 e perfezionato poi con il Protocollo operativo del 27 ottobre scorso. Il progetto vede il coinvolgimento di 35 detenuti che seguiranno un percorso formativo tenuto da agronomi e tecnici del Servizio Giardini comunale sul sistema del verde di Roma Capitale. Il programma prevede: nozioni di botanica e di ecologia vegetale, il ruolo delle piante negli ecosistemi urbani, l’uso delle attrezzature manuali ed elettromeccaniche impiegate negli interventi, l’organizzazione delle attività di cantiere, la realizzazione e gestione degli impianti di irrigazione, la posa e manutenzione dei tappeti erbosi e delle aiuole, tecniche di potatura e normative per la sicurezza nei luoghi di lavoro. A questa formazione tecnica si aggiungerà quella tenuta da funzionari AMA sul decoro urbano e sul corretto conferimento differenziato dei rifiuti. La formazione teorica, che si svolgerà presso la Casa Circondariale e la Scuola Giardinieri, si concluderà a metà dicembre e verrà poi supportata da lezioni pratiche che si svolgeranno presso la Casa del Giardinaggio. Milano. Spazi migliori per più dignità, il Politecnico studia San Vittore di Andrea Di Franco* Buone Notizie (Corriere della Sera) , 16 novembre 2022 Nonostante le azioni derivanti dalla condanna della Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo del 2013, gli studi degli Stati Generali dell’esecuzione penale del 2016, i lavori della Commissione ministeriale per l’architettura penitenziaria dell’anno scorso e l’incessante opera di monitoraggio e le indicazioni al Parlamento del Garante Nazionale, il carcere in Italia continua ad essere un territorio oppressivo. Uso la parola “territorio”, perché il carcere è una figura complessa: lo è per le differenze tra i 192 istituti; ma lo è anche per la tortuosa proliferazione delle dinamiche di funzionamento interne a ogni struttura. E quando dico “oppressivo” intendo dire che tutti - detenuti, agenti, educatori, operatori, dirigenti cittadini e classe politica - subiscono, seppure in modi diversi, le resistenze al cambiamento che la inestricabile topografia carceraria offre. Il cambiamento cui ci si riferisce è legato alle tante criticità che si rilevano negli istituti ma che si possono sintetizzare nella brutalità di questi due dati: primo, il 68% dei detenuti che transita per un carcere torna alla sua attività criminale; secondo, quest’anno, ad oggi, le morti dietro le sbarre sono state 178, di cui 77 per suicidio. Per “cambiamento” si intende dunque quello che dovrebbe condurre questa istituzione ad assolvere il suo mandato costituzionale: prendersi cura del condannato per poterlo reinserire nella società. A Milano, dal 2013, un gruppo di ricerca del Politecnico di Milano di cui chi scrive è responsabile, ha fatto di questo “cambiamento” la propria materia di studio. Con gli strumenti della partecipazione, della comunicazione, del monitoraggio dei dati, con l’attivazione di percorsi multidisciplinari e interuniversitari, con il dialogo e la cooperazione con enti pubblici e privati, lavorando nel campo di studio insieme ai suoi “abitanti”, “Laboratorio Carcere” opera per comporre un progetto che realizzi concretamente degli spazi migliori. Ad oggi, tracce dì cambiamento si sono sedimentate e ancora compaiono nei luoghi della casa di reclusione di Bollate: il lavoro è stato esposto fino al 6/11 al Padiglione di Arte Contemporanea, insieme alla colossale narrazione fotografica ad opera di detenuti e agenti negli istituti milanesi, curata dall’associazione “Riscatti” con Politecnico. Ora si è aperto un nuovo spazio di ricerca Off Campus Politecnico, accorpando due moduli-cella, nel primo raggio di San Vittore. Il progetto di cambiamento, sostenuto dal direttore Giacinto Siciliano, giunge nel cuore della città. Il sindaco Giuseppe Sala all’inaugurazione ha tagliato il nastro e ha rilevato e denunciato le condizioni tragiche di questi spazi. Ma la forza di una città e di un’istituzione si misura dalla propria disposizione a vedersi in profondità, per attivare e condividere - anche con gli esclusi - le sue possibilità del progetto. *Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Politecnico di Milano Bergamo. L’Università in carcere: potenziata la collaborazione in via Gleno L’Eco di Bergamo, 16 novembre 2022 Ora anche l’Università degli studi di Bergamo potrà vantare il Polo universitario penitenziario, ossia una serie di servizi specificamente rivolti a studenti privati della libertà personale a seguito di un provvedimento dell’autorità giudiziaria. L’iniziativa si pone l’obiettivo di superare le barriere che la detenzione inevitabilmente genera durante la frequenza universitaria. Quando si è in carcere, ad esempio, pagare le tasse online può rappresentare un problema, così come recarsi a ricevimento da un docente o contattarlo per avere chiarimenti sul programma di studio. Può essere complesso anche ottenere libri per lo studio se non si ha una famiglia alle spalle in grado di garantire un sostegno economico e un supporto pratico-operativo. Proprio a risolvere questi problemi concreti mira il Polo penitenziario che vuole garantire un supporto specifico nelle attività accademiche. Si tratta di una delle prime iniziative a cui il rettore Sergio Cavalieri aveva posato lo sguardo fin dall’inizio del suo mandato: “La creazione del Polo universitario presenta indubbiamente un alto valore sociale e proietta l’Università di Bergamo fra quei pochi Atenei - 24 ad oggi - che offrono tali servizi. Entrerà così nella Conferenza Nazionale dei Poli Universitari Penitenziari (Cnupp), nata nel 2018 e negli anni divenuta centro di riferimento anche per tutte le attività riguardanti ricerca e terza missione in tema di carcere. Si tratta dunque di un’importante formalizzazione che valorizza l’oramai trentennale impegno dell’Università in questo ambito con numerose attività realizzate in istituto - laboratori di didattica, seminari, convegni, rappresentazioni teatrali - caratterizzando in senso sociale il nostro impegno sul territorio”. Secondo Elisabetta Bani, prorettrice alla Terza Missione e ai Rapporti con il territorio, infatti, “la creazione del Polo penitenziario ci consentirà di valorizzare ancor più le tante attività che da sempre svolgiamo all’interno dell’istituto e le tante collaborazioni in essere, come le attività formative rivolte a detenuti sui temi della giustizia riparativa e, ad esempio, svolte in collaborazione con l’Ufficio di giustizia riparativa di Caritas bergamasca”. Il Polo penitenziario attua dunque il diritto allo studio anche per chi sia privato della libertà, come precisa Anna Lorenzetti, associata di Diritto costituzionale e delegata del Rettore sul tema: “È nella quotidianità che il Polo penitenziario interverrà offrendo sostegno specifico agli studenti privati della libertà personale e inverando il senso costituzionale della pena come orientata al recupero della persona. Potersi iscrivere all’università rappresenta per molti una salvezza, rappresenta la possibilità di riempire il vuoto del tempo, proiettandosi verso un riscatto possibile, verso una vita futura diversa, verso una possibilità di reinserimento una volta riacquistata la libertà, dunque un obiettivo salvifico, in un contesto certamente complesso”. Ma le collaborazioni fra Carcere e Università non nascono oggi. Come ricorda Lorenzetti infatti: “Da oltre trent’anni, si sperimentano modelli pedagogici, in carcere, per formare educatori e operatori del sociale, con l’incessante opera di Ivo Lizzola”. Proprio Ivo Lizzola, ordinario di pedagogia generale e sociale interviene ricordando come “il Polo Universitario è l’ultimo frutto, il più rilevante sul piano istituzionale, di una maturazione del rapporto tra Casa circondariale e Università di Bergamo. Si pone accanto ad un lavoro che dura da molti anni sul piano formativo e di realizzazione di circle riparativi tra cittadini, studentesse e studenti e persone detenute. Che ne costituirà la cornice”. Anche Valentina Lanfranchi, già presidente di Carcere e territorio e oggi garante dei detenuti del Comune di Bergamo, esprime parole di plauso per l’iniziativa: “Mi sembra davvero significativa la creazione di un Polo penitenziario a Bergamo che conferma l’attenzione che il nostro territorio ha sempre rivolto al carcere e alle persone che vi sono recluse. Da sempre, anche il volontariato bergamasco ha svolto un ruolo fondamentale all’interno dell’istituto. Da oltre trent’anni, in particolare, “Carcere e territorio” - di cui sono stata presidente per anni - è stato un attore di primo piano sul tema creando sinergie fra il dentro e il fuori dal carcere. In questo senso, mi sembra che la creazione del Polo di Bergamo confermi la forte attenzione al sociale che l’Università di Bergamo ha sempre avuto sul tema e come Garante comunale non posso che plaudere all’iniziativa, ricordando come la base per un vero recupero degli ospiti della casa circondariale parte dalla scuola, dal sapere, dalla cultura e dalla ricerca”. La già forte e solida collaborazione fra l’Ateneo orobico e l’Istituto penitenziario intitolato all’indimenticato Don Fausto Resmini, si rinsalda ancor di più, come conferma il Direttore dell’Istituto Don Resmini-CC Bergamo, Teresa Mazzotta: “Come direttore dell’Istituto sono davvero lieta che le tante iniziative condotte negli anni dall’Università abbiano trovato un così importante coronamento. Lo studio può davvero rappresentare per molti un’occasione di riscatto e il poter contare su una rete di servizi pensati ad hoc, di certo agevolerà ogni attività per gli studenti detenuti. Posso quotidianamente verificare l’importanza per i detenuti degli incontri e dei dibattiti che organizziamo nell’ambito delle attività trattamentali e ampliare queste possibilità rappresenta un valore sociale straordinario, a conferma dell’attenzione che l’Università ha sempre avuto sul tema”. Chiosa il rettore Cavalieri: “Anche se i numeri dei potenziali interessati sono molto contenuti, tengo a sottolineare l’importanza di questa iniziativa sul piano simbolico, che ancora una volta valorizza il ruolo della nostra Università come soggetto attento e in ascolto dei bisogni del territorio su un tema, quello del carcere, di cui spesso la società libera si dimentica”. Milano. In scena con Shakespeare i ragazzi detenuti trovano risposte sul mondo di Manuela Messina La Repubblica, 16 novembre 2022 Romeo e Giulietta è il testo di partenza per un libro partecipato con i minori del Beccaria. Shakespeare e i suoi testi per dare voce a grandi temi come la legge, il processo e il carcere, alla luce delle esperienze “vive” e con; temporanee dei ragazzi detenuti. Sarà “Romeo e Giulietta” il punto di partenza di un libro partecipato scritto con i cittadini sul palco del Teatro Puntozero, nell’ambito Bookcity. Si tratta di uno degli incontri legati al tema della “vita ibrida”: i trentacinque ragazzi detenuti dell’Istituto penale per i minorenni Beccaria partecipano - in qualità di attori, fonici, tecnici delle luci, uffici stampa - a un laboratorio teatrale insieme ad altri trenta studenti dell’università Statale del corso Storia del Teatro inglese di Lingue e letterature straniere e anche di Giurisprudenza. Tra loro anche Alex Simbana, in arte “El Simba”, ormai collaboratore fisso di Teatro Puntozero dove lavora come tecnico luci e audio. L’obiettivo è riscrivere insieme al pubblico, con l’aiuto di app elettroniche, il copione del grande drammaturgo per cercare risposte a domande del mondo di oggi. “I testi shakespeariani aiutano i nostri ragazzi a trovare le parole che danno voce ai loro sentimenti”, dicono Giuseppe Scutellà fondatore di Puntozero e Mariacristina Cavecchi, professoressa della Statale di Milano. Sempre nella stessa giornata del 19 novembre sul palco del teatro Puntozero viene anche proiettato il cortometraggio documentario “La Statale al BeKKa” di Francesco Castagnino e Giacomo Colussi. Per quanto riguarda gli incontri in carcere di Bookcity per il Sociale, il 19 novembre a San Vittore (su prenotazione) c’è un reading frutto dei diversi incontri a distanza avvenuti in questi mesi tra il laboratorio di scrittura dei detenuti di San Vittore L’Officina della parola, e quello degli studenti della Scuola del Fare di Napoli, nata per il recupero della formazione professionale dei giovani usciti dai percorsi scolastici tradizionali. “I temi attraverso cui si svilupperà il reading saranno l’arrivo, l’incontro e la partenza. Si tratta di un incontro con se stessi, con l’altro con cui si lavora e infine con il pubblico, per un percorso virtuoso di crescita, di sviluppo del sé e di uscita dalla marginalità”, le parole del responsabile di L’Officina della parola Elvio Schiocchet. Si tiene inoltre il 17 novembre, sempre dietro prenotazione, nell’aula magna dell’Itis Feltrinelli “Stai all’occhio!”, un incontro tra i 125 studenti dell’istituto tecnico industriale e alcuni membri di Opera liquida, la compagnia di attori detenuti ed ex detenuti di Milano Opera, alla presenza della regista e direttrice artistica Ivana Trettel. Prendendo come spunto i testi teatrali, gli attori-detenuti risponderanno alle domande dei ragazzi in tema di comportamenti a rischio. Chieti. Donne che vivono in carcere: incontro-dibattito al museo Barbella chietitoday.it, 16 novembre 2022 Come vivono le donne detenute? Quali sono i servizi a loro dedicati all’interno delle carceri? E poi, come possono trovarsi le donne chiuse dentro case circondariali pensate e organizzate prevalentemente per gli uomini? Esiste un problema di “pari opportunità” anche all’interno delle carceri? Domande che forse un cittadino comune non ha mai pensato di porsi ma che, in realtà, fanno riflettere se pensiamo che le donne, presenti in percentuale molto inferiori rispetto alla popolazione carceraria maschile, dimostrano, anche nel percorso di recupero, una tendenza più spiccata all’autoanalisi, e affrontano un cammino più doloroso a causa della privazione affettiva e familiare, che rende lo status di recluse diverso da quello degli uomini. Di questo e altro si parlerà giovedì pomeriggio, 17 novembre, nel corso dell’incontro dibattito in programma a Chieti, al Museo Barbella, in via De Lollis, a partire delle ore 18. La Fidapa di Chieti, insieme alla libreria De Luca, ha organizzato la tavola rotonda in occasione della presentazione del libro di Antonio Giammarino dal titolo “Donne che si ritrovano dentro”. Il racconto di un’esperienza straordinaria, all’interno della sezione femminile del carcere di Chieti, di un percorso formativo e di un laboratorio artistico: una delle tante esperienze dell’autore, che nella sua vita si è dedicato a numerosi progetti verso gli “invisibili” e gli emarginati della società, in special modo i detenuti, che ha avvicinato e conosciuto nelle case circondariali di Pescara e Chieti. Parteciperanno all’incontro, oltre all’autore del libro: la presidente della Fidapa di Chieti, Antonia Di Nisio, il direttore della casa circondariale di Chieti, Franco Pettinelli; la comandante della casa circondariale Alessandra Costantini; l’ispettrice superiore del carcere di Chieti, Mirella Ballarò; il presidente dell’associazione di volontariato “Voci di dentro”, Francesco Lo Piccolo; il prof. Gianmarco Cifaldi, sociologo-criminologo dell’ateneo d’Annunzio e garante dei detenuti della regione Abruzzo. Modera Laura Di Russo. L’incontro è aperto al pubblico. Roma. Avvocati-ristoratori danno una “seconda chance” ai detenuti di Alessandra Ventimiglia La Discussione, 16 novembre 2022 Due anni fa, Adele De Quattro e Lorenzo Giacco hanno deciso di cambiare la loro vita aprendo “L’Osteria degli Avvocati”, un piccolo ristorante a due passi da San Pietro. Per loro questo inizio non ha rappresentato solo un punto di partenza per ricominciare, ma anche un modo per promuovere il reinserimento sociale delle persone detenute, scegliendo di assumere, per costituire il proprio team, alcune persone sotto il regime dell’art. 21. Ce lo ha raccontato Lorenzo, chef e titolare del ristorante. Da avvocati a ristoratori. Ci raccontate com’è nata la vostra avventura? Certamente possiamo affermare che è stato un passaggio importante, una trasformazione professionale e mentale, una sfida. La cucina è sempre stata la mia più grande passione. Mio padre mi voleva avvocato. Così, laureatomi ho svolto per anni l’attività di giurista di impresa. Poi la crisi nel settore immobiliare e una mia insoddisfazione nel continuare a svolgere tale attività mi ha portato a decidere, a 40 anni, di inseguire il mio sogno. Ho frequentato corsi, studiato la notte, fatto sacrifici inimmaginabili. Ho iniziato a cucinare per amici e per i miei figli per testare le mie idee culinarie. Ce l’ho messa veramente tutta ho fatto esperienze in diversi ristoranti, ma alla fine ho capito che mi mancava qualcosa: un ristorante tutto mio dove poter esprimere la mia cucina, le mie idee e seguire una mia etica culinaria e ristorativa. Ma da solo non ci sarei mai riuscito. Ed è qui che entra in scena Adele. Anche lei laureata in giurisprudenza, con dottorato di ricerca in diritto dell’ambiente. Quando Lorenzo e Adele, si sono messi in gioco e hanno deciso di aprire un ristorante, sapevano bene di dover rischiare ed iniziare insieme una nuova vita. Oltre al cibo di qualità che offrite ai vostri clienti, avete scelto di aiutare chi, dopo aver sbagliato, cerca di riprendere in mano la propria vita. Perché le persone detenute? Riteniamo che sia eticamente e socialmente utile dare un’opportunità alle persone, anche se in passato hanno commesso degli errori, chi non ha mai sbagliato nella vita? Quando abbiamo iniziato questo percorso professionale, nessuno ci ha mai aiutato. Amiamo lavorare e dare un’opportunità a coloro che per molti sono considerati gli ultimi. Ci siamo interessati e abbiamo conosciuto l’associazione “Seconda Chance”, che offre lavoro a persone detenute. Abbiamo condiviso l’idea di prestare soccorso a chi è in difficoltà e oggi siamo molto felici della scelta fatta. Ultimamente siamo entrati in contatto anche con una cooperativa sociale per prestare aiuto anche lì. Aiutare rende felici. Il riscatto personale da soddisfazione. Prima di conoscere il mondo carcerario avevate dei pregiudizi? come è cambiato il vostro pensiero dopo aver toccato con mano questa realtà? Pregiudizi assolutamente no, timore si, attenzione anche. È cambiata l’ottica con la quale guardiamo il fenomeno carcerario, qualcosa su cui si dovrebbe intervenire in modo radicale e più umano, riportando in primo piano il concetto della funzione riabilitativa della pena. Che rapporto avete con i ragazzi che sono venuti a lavorare con voi? Abbiamo instaurato un ottimo rapporto di fiducia reciproca, nonostante le difficoltà anche logistiche che necessariamente incontriamo. Le persone detenute che lavorano con noi, sono in art.21, cioè escono la mattina dal carcere e devono ritornare la sera in un orario stabilito. Eppure queste inevitabili limitazioni non creano difficoltà anzi, abbiamo riscontrato impegno, rispetto e una motivazione che difficilmente abbiamo trovato in altri collaboratori. Nella scelta di prendere a lavorare ragazzi e ragazze detenute, quanto conta l’opportunità di usufruire dei vantaggi della Legge Smuraglia, che prevede degli sgravi fiscali notevoli per gli imprenditori cha accettano questa sfida? Il beneficio della legge Smuraglia è sicuramente un’opportunità considerata la riduzione importante dei costi contributivi, ma sicuramente non è mai l’unico elemento che può spingere un imprenditore a fare questa scelta di percorso sociale. La Smuraglia è forse più come un premio per chi si vuole impegnare socialmente dando un’opportunità reale a chi si trova in difficoltà. Consigliereste ad altri colleghi ristoratori di partecipare ai colloqui in carcere per scegliere personale? Secondo noi sarebbe molto importante e utile, un momento di crescita umana. Fosse possibile sarebbe fantastico anche organizzare delle visite da parte degli studenti per capire cosa vuol dire sbagliare, cosa vuol dire vivere da ristretto, cosa significa la parola carcere, cosa ti può capitare se commetti un errore. Ma anche sapere che se lo si vuole veramente, è possibile rialzarsi, rimboccarsi le maniche e riprendere in mano la propria vita. Corte penale dell’Aja, motore del cambiamento in un mondo senza pace di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 16 novembre 2022 Ieri nell’aula magna della corte di Cassazione l’iniziativa del Cnf sulla giustizia penale internazionale. Gli interventi di Curzio, Caia, Fassino e Bonino. Il convegno sulla giustizia penale internazionale, tenutosi ieri nell’Aula Magna delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ha messo a confronto i massimi esperti della materia. Una giornata di studio in cui si sono intrecciate esperienze e ricordi di chi ha dato un contributo concreto all’istituzione della Corte penale internazionale e di chi ogni giorno ha a che fare con i principi che ne determinano l’esistenza. Ad aprire i lavori, organizzato dal Cnf, Cespi, Idlo (International development law organization) e Ambasciata svizzera in Italia, è stato Daniele Frigeri (presidente e direttore del Centro studi di politica internazionale). Le oltre sette ore di convegno sono state tutte trasmesse in diretta da Radio Radicale. I tre panel sono stati moderati da Marilisa Palumbo (giornalista del Corriere della Sera) e dagli avvocati Francesco Miraglia e Roberto Giovene di Girasole, entrambi della Commissione Human rights del Cnf. A fare gli onori di casa Pietro Curzio, primo presidente della Corte di Cassazione. “Viviamo - ha esordito - un periodo drammatico. Sentiamo la guerra in Ucraina vicina e ne cogliamo tutta la sua drammaticità. Ogni giorno gli organi di informazione ci raccontano quanto accade non lontano dall’Italia. Purtroppo, le guerre nel mondo sono tante, sottaciute, si tratta di conflitti ormai cronicizzati. Così come sono tante le violazioni dei diritti umani. Tutto ciò ci fa cogliere la necessità di strumenti giuridici adeguati”. Il coordinatore della Commissione Diritti umani del Cnf, Francesco Caia, ha sottolineato la continua attenzione dell’avvocatura istituzionale verso la giustizia internazionale. “La nostra iniziativa - ha rilevato l’avvocato Caia - non verte solo sulla ricorrenza dell’istituzione della Cpi, ma anche sulle problematiche della tutela dei diritti umani. Il Consiglio nazionale forense sta lavorando con grande impegno tanto sul fronte della tutela dei diritti umani quanto su quello della giustizia penale internazionale”. L’iniziativa di ieri si è avvalsa della preziosa collaborazione dell’Ambasciata di Svizzera in Italia. Il suo vicecapo missione, Michele Coduri, ha ricordato che la Svizzera persegue una politica ben precisa anche in tema di tutela dei diritti umani. “L’iconografia e la solennità dell’Aula Magna della Corte di Cassazione - ha affermato - non poteva essere migliore per parlare di giustizia penale internazionale e di diritti umani. L’impegno a sostegno dell’affermazione della giustizia penale internazionale è parte integrante della nostra politica estera”. Emma Bonino, già ministra degli Esteri, ha ripercorso alcune tappe che hanno portato alla stesura dello Statuto di Roma e alla creazione della Cpi. “Non sono una giurista - ha commentato - ma una politica attenta, con obblighi di responsabilità, alla questione dei diritti umani. L’idea di un tribunale penale internazionale era quella di una Corte che non fosse legata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. I negoziati che portarono alla nascita della Cpi furono duri, lunghi e caratterizzati da compromessi. Non mi illudevo affatto rispetto al trionfo della pace, con la creazione della Cpi, dato che si doveva affrontare la partita decisiva delle ratifiche dello Statuto di Roma”. L’esponente di +Europa ha riflettuto su quanto sta accadendo nel cuore del vecchio continente. “In merito a quanto sta facendo la Russia in Ucraina- ha aggiunto - non credo sia utile creare un nuovo tribunale, ma usare gli strumenti già esistenti. Tali strumenti per incidere hanno bisogno di finanziamenti adeguati. E certe disparità sono evidenti”. Bonino si è soffermata sul crimine di aggressione che giustifica l’intervento della Cpi: “Se gli Stati che hanno ratificato lo Statuto non credono nella Cpi, questa rischia di essere un organismo senza grandi slanci. La Cpi dovrebbe diventare un agente di cambiamento, dando attenzione alla società civile, agli avvocati, agli ambasciatori, ai procuratori per essere più dinamica. Questo processo, però, lo vedo sonnacchioso. Ognuno di noi deve diventare agente di cambiamento. “Non c’è pace senza giustizia” è una frase che ripetono tutti in questo periodo. Ma oltre a dirlo, bisogna essere concreti e convinti rispetto a quanto si vuole fare”. A focalizzare l’attenzione dei relatori l’aggressione della Russia ai danni dell’Ucraina. Per Antonio Marchesi, professore di Diritto internazionale nell’Università di Teramo, “la guerra in Ucraina ha stimolato l’interesse verso il tema della giustizia internazionale”. “È un bene - ha aggiunto - che ci siano sempre più occasioni di discussione e riflessione. Il principio della complementarietà positiva è di fondamentale importanza, dato che descrive il rapporto tra le istituzioni penali internazionali e i giudici penali degli Stati. La Cpi si sostituisce agli Stati solo in precise circostanze e quando la giustizia territoriale non funziona”. Il segretario generale della Corte di Cassazione, Luigi Marini, ha parlato della sua esperienza all’Assemblea generale delle Nazioni Unite in qualità di rappresentante per l’Italia. Fausto Pocar (professore emerito di Diritto Internazionale nell’Università di Milano) ha posto all’attenzione dei presenti il rapporto tra la giurisdizione internazionale, compresi gli obblighi che ne derivano, e quanto previsto dall’ordinamento interno di ciascuno Stato. Tema di non poco conto per armonizzare gli strumenti giuridici a disposizione e i fatti che richiedono di essere esaminati e perseguiti. “Il ruolo delle giurisdizioni nazionali - ha sostenuto Pocar - è basilare e non può essere considerato distaccato dalla giurisdizione internazionale. Il ritardo accumulato in vent’anni si è cercato di colmarlo nell’ultimo anno con la Commissione per il Codice dei crimini internazionali”. La giurisdizione universale, ha concluso l’accademico, “è nata prima del processo di Norimberga, con l’accordo di Londra del 1945, attribuendo a certi crimini un carattere universale con la deterritorializzazione del diritto penale”. I lavori sono stati chiusi da Piero Fassino (presidente onorario Cespi). “Negli ultimi anni - ha detto - sono emerse le cosiddette democrazie illiberali, che pongono seriamente all’attenzione di tutti noi la questione della non accettazione della giurisdizione internazionale”. Migranti. Piantedosi: “In Italia non si entra illegalmente, la selezione di chi entra non la faranno i trafficanti di esseri umani” di Grazia Longo La Stampa, 16 novembre 2022 “In Italia non si entra illegalmente, la selezione di chi entra in Italia non la faranno i trafficanti di esseri umani”. È chiaro e diretto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che, da Senato, enuncia l’informativa sulla gestione dei migranti. Spiegando che governare i flussi è un “delicatissimo compito” per poi dire che è necessario garantire “condizioni di vita adeguate e dignitose a tutti: a chi è accolto e a chi accoglie”. E ancora: “La dignità non può fermarsi ai centri di accoglienza, la dignità è una priorità assoluta”. La stretta - La stretta promessa dalla premier Giorgia Meloni arriverà. E punta a depotenziare con l’effetto deterrente della confisca la flotta umanitaria operativa nel Canale di Sicilia, che nel 2022 ha portato in Italia 10.980 migranti, il 12% dei 93mila complessivamente sbarcati finora. La misura va declinata però in modo ponderato, efficace e non suscettibile di rilievi da parte di Corte costituzionale, Quirinale e Commissione europea. Obiettivo non facile. Il Governo si prenderà così ancora del tempo per valutare lo strumento ed il testo da approvare. Il punto è stato fatto oggi al Viminale, in una riunione che ha visto il ministro Matteo Piantedosi confrontarsi con i capigruppo della maggioranza alla vigilia dell’informativa alle Camere sul fenomeno migratorio e sul recente braccio di ferro con 4 navi Ong. L’Esecutivo intende fare tesoro del precedente del decreto anti-rave, provvedimento varato in tutta fretta che ha però lasciato dissapori nella maggioranza ed un testo da rivedere in Parlamento. Questa volta, per il giro di vite sulle navi Ong è stato deciso così un supplemento di riflessione coinvolgendo tutte le forze della maggioranza in via preventiva per mettere sul tavolo proposte, dubbi e strategie possibili. L’incontro di ieri - durato circa un’ora - è servito anche per ‘compattare’ FdI, Lega, Forza Italia e Noi moderati prima dell’informativa al Parlamento del titolare del Viminale. Sono stati gli stessi capigruppo a chiederla per avere una ricostruzione degli eventi degli ultimi giorni, che hanno determinato anche un duro scontro con la Francia, ma “non cercato da noi”, ha puntualizzato il ministro. Hanno partecipato anche i sottosegretari Nicola Molteni, Wanda Ferro ed Emanuele Prisco. Il clima è stato definito “costruttivo” ed il ministro ha preparato poi l’intervento in programma domani, che traccerà una fotografia del fenomeno con i dati degli sbarchi e quelli del sistema di accoglienza (104mila ospiti) messo sotto pressione dall’aumento degli arrivi; Piantedosi - che domani stesso partirà per Wiesbaden in Germania, dove è atteso ad una riunione del G7 dell’Interno - ribadirà che serve una prospettiva europea per governare l’immigrazione, fenomeno strutturale che va gestito dagli Stati e non dai trafficanti di uomini; bisogna quindi rafforzare i canali regolari e sicuri, frenando quelli illegali. E così come il ‘cuore’ del decreto anti-rave - nell’idea di Piantedosi - era la pena accessoria della confisca degli ‘strumenti’ utilizzati dagli organizzatori dei raduni, allo stesso modo la deterrenza che il ministro vuole dispiegare in questo caso si concretizza nella previsione di una sanzione amministrativa per le navi che in modo “sistematico” raccolgono migranti in mare senza coordinarsi con l’autorità responsabile di quell’area Sar: sanzione che farebbe scattare la confisca. Niente contestazioni penali, dunque, che in passato si sono dimostrate inefficaci, ma la confisca che può essere disposta dal prefetto. Naturalmente, le navi Ong che hanno monopolizzato il dibattito in queste settimane sono solo un elemento del dossier. E neanche il più importante. La crisi economica, politica e sociale di tanti Stati africani e asiatici determina una forte spinta verso l’Europa. E nei principali porti di partenza, Libia e Tunisia in primis, si sconta una difficoltà di controllo del territorio da parte delle autorità. I numeri degli arrivi del 2022 (+64% rispetto allo scorso anno) segnalano un aggravamento effetto anche della guerra in Ucraina, che ha portato a crisi alimentari di molti Paesi. E novembre è stato finora un mese nero, con quasi 14mila arrivi solo nei primi 15 giorni. L’eventuale ‘neutralizzazione’ della flotta umanitaria, dunque, non annullerà le partenze che continuano ogni giorno: ieri sono arrivati in 1.300 ed oggi altri 250. Ecco perché l’Italia chiama l’Europa ad una solidarietà vera, non solo di facciata, come viene considerata quella del ‘Meccanismo’ concordato nel giugno scorso che ha portato al trasferimento verso altri Stati Ue di soli 117 migranti. Migranti. Il nuovo codice sulle orme di Minniti di Filippo Miraglia Il Manifesto, 16 novembre 2022 Si cerca di nascondere il fatto semplice, ma incontrovertibile, che le Ong, come ogni soggetto che navighi, sono obbligate a rispondere alla legislazione internazionale e non possono rispondere a codici ad hoc che non hanno alcun valore giuridico. Il filo comune che unisce chi criminalizza le Ong che salvano vite umane ripropone le stesse accuse stantie e lo stesso metodo delle “regole speciali”. La logica, già rodata, è quella di proporre disposizioni specifiche per un gruppo, le Ong, sottintendendo così che quest’ultime non rispettano le regole, “fanno i furbi”, e c’è quindi bisogno di un codice di comportamento in più. Si cerca di nascondere così il fatto semplice, ma incontrovertibile, che le Ong, come ogni soggetto che navighi, sono obbligate a rispondere alla legislazione internazionale e non possono rispondere a codici ad hoc che non hanno alcun valore giuridico. Le navi mercantili, di cui ha parlato a sproposito il ministro Tajani durante la riunione con i suoi omologhi Ue, se devono intervengono, ma se possono se ne guardano bene, perché rischiano di dover fermare la loro attività commerciale per settimane o mesi. Le ipotesi circolate per questo nuovo codice sono davvero ridicole e imbarazzanti e si ripresentano nella veste di regole di comportamento senza le quali si possono subire pesanti sanzioni amministrative e, soprattutto, non si può arrivare sulle coste italiane. Proviamo ad analizzare le principali. 1. Le Ong devono dimostrare che intervengono solo in caso di pericolo: gommoni e barchini che possono ospitare 10/20 persone e ne ospitano 5/10 volte tanto sono oggettivamente in pericolo. I comandanti sono obbligati a intervenire, altrimenti ne rispondono personalmente penalmente. 2. Le Ong devono comunicare il loro intervento e coordinarsi con le autorità competenti: lo fanno sempre, c’è una ampia documentazione pubblica e disponibile, e ogni volta mandano alle diverse autorità dei Paesi coinvolti tutte le informazioni. Sono le autorità che non rispondono mai, per lavarsene le mani e non indicare, come la legge impone, il posto sicuro più vicino. 3. Si chiederebbe alle Ong di non comunicare la loro posizione alle imbarcazioni che stanno per lasciare le spiagge libiche o tunisine, cioè le si accusa di dare appuntamenti a chi deve ancora partire. Una accusa che, secondo il titolare della Farnesina, sarebbe sostenuta da documenti di Frontex. La stessa Agenzia Europea che è stata più volte accusata di praticare respingimenti, che lo ricordiamo sono illegittimi, e il cui direttore, a seguito di una inchiesta dell’agenzia anti frode europea, si è dimesso a fine aprile di quest’anno. Non un fonte neutra e autorevole quindi. Una illazione, quella usata da Tajani, del tutto infondata, inventata appositamente per collegare le Ong ai trafficanti. Un collegamento privo di prove, come dimostrano i tanti procedimenti giudiziari italiani: una vera diffamazione. Come nel caso del suo degno predecessore, questo nuovo codice imporrebbe comportamenti che in gran parte sono previsti dalla legge e che le Ong rispettano alla lettera da sempre, introduce elementi illegittimi e impraticabili e, soprattutto, alimenta il sospetto che chi opera nel Mediterraneo per fare attività di ricerca e salvataggio lo fa in cattiva fede e in combutta con gli scafisti. Scafisti che, da anni, è noto siano in gran parte gli stessi che ricevono soldi, strumentazione e formazione da parte del governo italiano e dell’Ue. Informazioni che si possono leggere nei documenti delle istituzioni internazionali e dei tribunali italiani e non nei fogli di propaganda di partiti e esponenti politici. Intanto i governi di Italia, Grecia, Cipro e Malta firmano una dichiarazione congiunta del tutto ingiustificata e mistificatoria. Richiamano la legislazione internazionale di fatto negandola e cercano di criminalizzare chi salva vite umane. Ripropongono il vittimismo per gli sbarchi, senza tenere in considerazione che i governi si fanno carico dei richiedenti asilo, che arrivano anche via terra e via aereo: incomprensibile il motivo per cui solo chi arriva via mare andrebbe redistribuito. Non è di un codice che c’è bisogno e neanche di inutili nuovi accordi per impedire alle persone di scappare da guerre e persecuzioni o di nuove procedure per poter rimpatriare più facilmente le persone senza un permesso di soggiorno, obiettivi sui quali, c’è da scommettere, si concentreranno i governi nelle prossime settimane. In tutti questi anni abbiamo assistito a lunghissime trattative nei numerosi incontri di ministri Ue, conclusesi sempre con la promessa di modifiche legislative e interventi volti solo a impedire sempre di più ogni mobilità alle persone in cerca di protezione e a migliorare l’efficacia delle attività di respingimento e rimpatrio. Nulla su attività di ricerca e salvataggio pubblica e nulla su canali d’accesso legali e sicuri. Quindi nulla di nuovo. Sempre il vecchio e stantio razzismo di stato, che favorisce e alimenta i trafficanti e produce morte e ingiustizie. Cannabis in Usa, l’onda verde continua di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 16 novembre 2022 La cannabis legale vince 2 dei 5 referendum per cui si è votato in occasione delle elezioni di metà mandato negli Stati Uniti. Una lettura affrettata potrebbe archiviare questa tornata elettorale come un insuccesso del movimento americano. In effetti non è così, semmai è il contrario. A parte il Maryland che ha una tradizione progressista e che ha visto prevalere in modo ampio il sì alla legalizzazione, negli stati del Missouri, Arkansas, North e South Dakota vivono comunità solidamente conservatrici, e sono saldamente in mano ai repubblicani. In Arkansas poi gli oppositori hanno fatto scendere in campo a sostegno del no anche pesi massimi, come l’ex Vicepresidente Mike Pence e il Governatore uscente Asa Hutchinson - già a capo della DEA, l’Agenzia Antidroga USA. Risulta quindi evidente come il movimento per la cannabis legale in questa tornata abbia alzato il tiro. Come già scritto su queste pagine (vedi L. Fiorentini, 10 novembre 2022), il risultato del Missouri è in qualche modo storico e al contempo simbolico. La legalizzazione arriva nel cuore geografico, e nella pancia elettorale, degli Stati Uniti dimostrandosi questione capace di creare opinione anche in contesti politici, sociali e culturali ostici. Poco più a nord, nel Wisconsin, dopo che diverse città e contee hanno approvato referendum locali a favore della decriminalizzazione della cannabis, l’appena rieletto governatore Tony Evers si è impegnato a includere la riforma nella proposta di bilancio del prossimo anno. In Minnesota il neogovernatore democratico Tim Walze ha annunciato che la legalizzazione della cannabis sarà una delle prime leggi che usciranno dalla prossima sessione parlamentare, dopo la riconquista della maggioranza nel congresso statale. Anche la Pennsylvania, con l’elezione di Josh Shapiro, sostenitore della riforma, e la riconquista della maggioranza alla Camera da parte dei democratici, potrebbe tentare di approvare una legge per la regolamentazione legale nei prossimi mesi. In attesa dei risultati definitivi del voto per il Congresso, l’impressione è che con la maggioranza della Camera passata in mano repubblicana e quella del Senato confermata ai democratici, difficilmente potranno vedere la luce leggi complessive di regolamentazione legale della cannabis a livello federale. Sia il More Act, già approvato dalla Camera per ben due volte, e il Caoa Act sotto scacco al Senato per l’impossibilità di superare la soglia dei 60 voti che consentirebbero l’aggiramento del filibustering, l’ostruzionismo ad oltranza permesso dai regolamenti, sembrano quindi non avere grandi possibilità di essere approvate. Ma questo non significa che non possa succedere niente. Proprio in una situazione di maggioranze non omogenee, alcune misure parziali che hanno già dimostrato di avere un appoggio bipartisan potrebbero avere una chance, già prima che i nuovi eletti si insedino. Fra queste le norme per permettere al settore bancario di aprire rapporti con la filiera della cannabis legale (oggi costretta alle transazioni in contanti ed in cryptovalute), quelle per la cancellazione delle pene per reati nonviolenti legati alla cannabis e di promozione della ricerca. Il ruolo del Presidente Biden diventa quindi cruciale. A seguito dell’annuncio del mese scorso, nulla si è più saputo della grazia agli oltre 6500 detenuti nelle carceri federali per possesso di cannabis e dell’avvio del processo di riclassificazione della cannabis. Ma il ruolo dei giovani e dei movimenti per i diritti sul risultato elettorale di mid term, molto più favorevole ai democratici rispetto all’ondata rossa prevista dai sondaggi, esige ora una risposta politica chiara ed efficace, che a questo punto solo l’iniziativa presidenziale può dare. Libano. La crisi colpisce duramente le carceri. Ong in campo vita.it, 16 novembre 2022 Cibo insufficiente, mancanza di medicinali e sovraffollamento colpiscono il sistema detentivo libanese in un Paese. A supportare le ong libanesi nel fornire un aiuto dal 2018 è attivo il progetto Droit, cofinanziato da Aics e con il supporto di Arcs, l’ong di Arci.Giovedì 17 novembre, alla Beit Beirut è in programma l’incontro “Rights, Justice and Basic Needs in Lebanese Prisons” in cui si presenteranno i risultati raggiunti. Dal 2019, il Libano sta vivendo una crisi economica senza precedenti. Il Pil pro capite è sceso del 40%, la valuta locale ha visto perdere il 95% del proprio valore, a fronte di un’inflazione crescente e che, secondo dati recenti, ha portato circa l’80% della popolazione sotto la soglia di povertà. Se la crisi socio-economica del Paese è drammatica in generale, le conseguenze si fanno ancora piú gravi all’interno delle strutture carcerarie. I casi di evasione dalle strutture detentive, la piú recente della quali di é verificata dal carcere sotterraneo di Adlieh, a Beirut, ne riflettono la situazione di insostenibilitá. La qualità e la quantità dei pasti distribuiti dall’amministrazione carceraria sono diminuite. L’inflazione sta riducendo i mezzi finanziari dei detenuti e rende difficile l’approvvigionamento di cibo. Le visite dei familiari sono sempre meno frequenti, anche a causa dell’elevato costo del carburante (un pieno di benzina, dopo la rimozione dei sussidi statali, è arrivato a costare quanto uno stipendio medio statale), così come la fornitura di beni di prima necessità. In Libano la popolazione carceraria conta più di 8mila detenuti (tra carceri e altre strutture detentive), di cui quasi l’80% in attesa di giudizio. Nella sola prigione di Roumieh, la più grande del Paese, il numero di detenuti supera di tre volte la capacità prevista, e la proporzione non differisce molto nelle altre carceri, come a Tripoli, nel Nord, e a Zahle, nella Valle della Bekaa. A livello operativo, sono le Forze di Sicurezza Interna libanesi (Isf), quindi il ministero dell’Interno, a essere responsabili della gestione. Ma in un contesto di grave crisi le organizzazioni della società civile sono spesso chiamate a fornire molti dei servizi che per legge dovrebbero essere garantiti dallo Stato: assistenza legale, formazione del personale, supporto psicologico o medico. Il progetto Droit, co-finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, e gestito da Arcs (Arci Culture solidali) in partenariato con le ong libanesi Mouvement Social e Ajem, attivo dal 2018, ha contribuito a potenziare i servizi di recupero, il reinserimento sociale, l’assistenza rivolta a detenuti/e, alle persone a rischio e alle loro famiglie e alla formazione degli operatori del settore. L’intervento ha supportato il potenziamento dei servizi offerti in due penitenziari libanesi (Roumieh e Bek), per migliorare le condizioni generali di detenzione, e presso il centro di riabilitazione di Rabieh, per sostenere i processi di riabilitazione e di reintegrazione sociale delle persone detenute. Il progetto ha previsto l’incontro e lo scambio di pratiche sulla tematica carceraria grazie alla collaborazione con i partner italiani di Arci Toscana, il Garante dei Diritti dei Detenuti delle Regione Toscana, Antigone e Non C’è Pace Senza Giustizia. Oltre a una serie di tavole rotonde organizzate in presenza e online tra il 2019 e il 2022, a giugno di quest’anno una delegazione libanese, composta da rappresentanti delle ong, del ministero della Giustizia e del ministero dell’Interno libanesi, ha svolto una visita presso diversi centri penitenziari italiani, in Toscana e a Roma, durante la quale è stato possibile confrontare i due sistemi e le tradizioni legislative alla base della gestione carceraria, mettendo sul tavolo anche le difficoltá e le sfide comuni affrontate, a partire dalla questione del sovraffollamento. Da queste occasioni di scambio tra Italia e Libano, è stata creata, a marzo di quest’anno, una Task Force per il monitoraggio delle condizioni dei detenuti, coordinata da Arcs attraverso il prof. Omar Nashabe, cui partecipano rappresentanti della società civile e delle istituzioni libanesi. A questo riguardo, padre Marwan Ghanem, fondatore e presidente del “Juvenile Reform Center” presso l’associazione Nusroto, e membro della sopracitata task force, ha affermato - in una intervista rilasciata, insieme a Omar Nashabe all’emittente libanese VdL24: “Noi come organizzazioni ci stiamo incontrando regolarmente e la cosa bella è che tutti condividiamo lo stesso principio sulle prigioni. Per esempio, insieme siamo riusciti a far chiudere il carcere sotterraneo di Adlieh”, luogo di detenzione famigerato per le degradanti condizioni e l’anonimitá della struttura in cui erano incarcerate circa 130 persone, molte delle quali migranti domestiche e rifugiati siriani. Giovedì 17 novembre, come evento conclusivo del progetto Droit, si terrà alla Beit Beirut l’incontro “Rights, Justice and Basic Needs in Lebanese Prisons”, un’importante occasione per presentare e discutere i risultati raggiunti attraverso il progetto e analizzare le necessità sempre più urgenti del sistema penitenziario in Libano. Sono previsti gli interventi della Direttrice dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo di Beirut, la direttrice di Arcs, rappresentanti del ministero della Giustizia e dell’Isf, delle due ong partner di progetto Mouvement Social e Ajem, del coordinatore della Task Force, e il contributo finale dell’ex ministro dell’Interno libanese Ziyad Baroud. La direttrice di Aics Beirut, Alessandra Piermattei, dichiara: “La detenzione, cioè la riduzione della libertà personale, è la pena per chi viola le regole della convivenza sociale. Pena che per la cultura e la normativa italiana si dovrebbe concludere con il reinserimento. In questo percorso non devono esistere pene “accessorie”, spesso frutto del sovraffollamento e della carenza di risorse, che colpiscono la dignità e la salute della persona detenuta. È per la difesa di questi principi che la Cooperazione Italiana in Libano è impegnata in iniziative volte a migliorare la qualità della vita dei detenuti e il loro reinserimento, senza tralasciare l’assistenza legale a chi è accusato o in detenzione per garantire il diritto alla difesa e a un processo equo. Attività che ci vedono al lavoro con Arcs in coordinamento e sinergia con le istituzioni libanesi”. La direttrice di Arcs, Silvia Stilli, sottolinea l’importanza del progetto e delle sinergie create tra Italia e Libano: “Ringraziamo chi ci ha accompagnato in questi anni nel percorso: l’Aics e il Governo italiano che hanno co-promosso e sostenuto finanziariamente il progetto Droit, la Tavola Valdese che ha permesso di ampliare alcune attività, i nostri partner in Libano, Mouvement Social e AJem, e quelli in Italia, Arci Toscana, il Garante dei Diritti dei Detenuti della Regione Toscana, Antigone, e Non C’è Pace Senza Giustizia, che hanno offerto relazioni e competenze in grado di garantire un partenariato duraturo. Non da ultimo, la Task Force è una risorsa preziosa che intendiamo valorizzare nella collaborazione con le istituzioni libanesi in una collaborazione efficace e fattiva”. Il libro nero della Turchia e del Medio Oriente di Alberto Negri Il Manifesto, 16 novembre 2022 L’attentato di domenica nel cuore di Istanbul riapre il “libro nero” della Turchia e del Medio Oriente. L’ultima ondata di attentati, 2015-2017, era stata soprattutto di marca jihadista e questa attribuzione della autorità ai curdi del Pkk, che indicano addirittura il centro dell’operazione a Kobane - città siriana martire che nel 2014 ha resistito eroicamente al Califfato - lascia molti dubbi. Sia per la dinamica, assai sospetta, dell’arresto della presunta responsabile - verrebbe da Afrin che è però zona saldamente controllata dai turchi, come ha ricordato Murat Cinar sul manifesto - sia per la smentita del Pkk (che solitamente colpisce i militari non i civili). Siamo nel pieno del “malessere turco”, come scrive nel suo saggio lo studioso turco Cengiz Aktar, nelle contraddizioni di un Paese sempre belligerante, all’esterno e all’interno, classificato dall’Indice della Pace Globale al 149esimo posto su 163 Paesi. Che cos’è il “libro nero” della Turchia (e del Medio Oriente)? È una costante nella storia di decenni di attentati e assassinii condotti in un intreccio torbido tra terrorismo, guerriglia e servizi segreti, a partire dagli anni 70-80 quando, dopo il golpe nel 1980 del generale Evren, gli attentati erano una minaccia alla vita dei turchi ma anche uno strumento per seminare paura e repressione. Erdogan - ieri a colloquio con la premier Meloni a Bali - dal 2019 lancia attacchi militari, spacciati come “lotta al terrorismo”, contro i curdi in Siria usando come mercenari miliziani (e terroristi) di Isis, Al Qaeda e Al Nusra che commettono crimini di guerra con la complicità dei generali turchi e l’assenso dell’opposizione “legale”, visto che quella curda dell’Hdp in Parlamento è stata decapitata e incarcerata. In prigione qui ci sono 300mila persone (al secondo posto in Europa dopo la Russia) di cui quasi la metà per motivi politici e reati di opinione. Questa Turchia assai poco democratica e oscura è stata indicata come il “Deep State” turco, lo stato profondo, quello manovrato in varie epoche prima dai militari e poi dall’Akp il partito del presidente Erdogan, al potere da 21 anni che punta nel 2023 alla rielezione. L’ultimo attentato è avvenuto in un quadro politico complesso e che potrebbe spingere la Turchia a una nuova operazione militare in Siria dove occupa un’ampia fascia del Nord manovrando, oltre all’esercito, le formazioni jihadiste, milizie che i turchi hanno schierato in Siria ma anche in Libia e nel Nagorno Karabakh. Inoltre la Turchia sta negoziando con Stoccolma l’estradizione di esponenti curdi o almeno la loro “neutralizzazione”: senza un’intesa Ankara mantiene il veto all’ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia. La Turchia, Paese Nato che non ha imposto sanzioni a Mosca, pur rifornendo di droni Kiev, si è posta come mediatrice con Putin ed esercita un ricatto sugli alleati occidentali - compresa la questione dei 3,5 milioni di profughi siriani per cui la Ue versa sette miliardi di euro - puntando al riconoscimento, più o meno formale, della sua occupazione in Siria. Se guardiamo in prospettiva i rapporti tra Putin, Erdogan e Israele - che con il ritorno di Netanyahu si rafforzano (l’israeliano è il leader che è stato più volte al Cremlino) - notiamo che Russia, Turchia e Israele sono stati che occupano territori altrui in violazione delle leggi internazionali e delle risoluzioni Onu. La cartina di tornasole di questa situazione è stata proprio la guerra in Ucraina. Forse qui in Italia è sfuggito che la scorsa settimana in una risoluzione Onu sul coinvolgimento della Corte internazionale di giustizia nella disputa sulla Cisgiordania, Roma ha abbandonato la linea dell’astensione votando contro assieme a 16 altri Paesi. Ma soprattutto Kiev ha votato a favore annusando aria di accordo tra Putin e Netanyahu. L’occupazione russa di una parte dell’Ucraina per Israele potrebbe essere accettabile in cambio del via libera di Mosca ai raid sui pasdaran iraniani in Siria mentre la Turchia nella stessa area continua a bombardare i curdi quando vuole. Il governo ucraino era, fino a qualche mese fa, incredibilmente filo-israeliano. Uno dei primi atti di Zelensky fu ritirarsi dal comitato Onu sui diritti dei palestinesi. E nelle interviste rilasciate durante i bombardamenti su Gaza, nel 2021, Zelensky ha affermato che l’unica tragedia nella Striscia era quella vissuta dagli israeliani. Ora invece Ucraina e Israele sono ai ferri corti perché è evidente che Tel Aviv punta sempre sul quel “doppio standard” internazionale che ha segnato tragicamente la sorte dei palestinesi, dei curdi, e, appunto, dei territori occupati. L’obiettivo della Turchia è far sparire il Rojava, l’entità delle Forze democratiche curde, alleate del Pkk ma anche degli Usa nella lotta al Califfato e che insieme agli Stati Uniti e ad altre milizie arabe controllano l’Est siriano dei pozzi petroliferi. Ecco perché la Turchia ha rifiutato le condoglianze Usa per l’attentato di domenica: Ankara accusa Washington di armare il Rojava e di essere dietro il fallito golpe del 15 luglio del 2016, quando Erdogan chiuse la base americana di Incirlik con i missili Usa puntati contro Mosca e Teheran. Erdogan aveva già minacciato un’altra invasione del Nord della Siria in primavera ma era stato fermato da Russia e Iran - presenti al Nord in appoggio alle forze di Damasco - che con Ankara fanno parte del cosiddetto formato di Astana. Il Rojava è una doppia minaccia per la Turchia: è curdo ma anche caratterizzato da leggi democratiche, laiche e multi-etniche. Non sia mai che nel cuore del Medio Oriente nasca qualcosa di diverso dal “libro nero” denso di crimini e ingiustizie. Repubblica democratica del Congo. Omicidio Attanasio: rinvio a giudizio di due funzionari Onu di Matteo Giusti Il Manifesto, 16 novembre 2022 Il filone romano delle indagini per l’attentato a Luca Attanasio, Vittorio Iacovacci e Mustapha Milambo del 21 febbraio 2021 ha fatto un importante passo in avanti. La Procura di Roma, tramite il procuratore Francesco Lo Voi e l’aggiunto Sergio Colaiocco, ha infatti chiesto il rinvio a giudizio per due funzionari del World Food Programme: il vicedirettore Rocco Leone e il responsabile della sicurezza del convoglio delle Nazioni unite Mansour Rwagaza. Entrambi sono accusati di omicidio colposo per aver attestato il falso con l’obiettivo di ottenere i permessi di viaggio omettendo la presenza di Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci, non garantendo così la sicurezza dei nostri connazionali e ignorando l’estrema pericolosità della zona dove si stavano muovendo. Il problema resta però l’opposizione da parte dell’agenzia delle Nazioni unite a far processare i propri dipendenti, coperti secondo l’Onu da immunità diplomatica. Un’immunità che la Farnesina contesta e che sarà tema di un’aspra battaglia legale. Parallelamente sta continuando anche il processo della magistratura congolese che tra rinvii e ritrattazione sta facendo molta fatica. Sotto processo ci sono cinque congolesi accusati di essere parte della banda che prese d’assalto il convoglio, mentre il capobanda e pare autore materiale dell’omicidio dell’ambasciatore italiano, soprannominato Aspirant, resta ancora latitante. La difesa contesta il tribunale militare che non potrebbe processare dei civili e soprattutto i cinque sotto inchiesta avrebbero ritrattato le confessioni dichiarando che sono state estorte. Una corsa ad ostacoli che comunque la nostra sede diplomatica a Kinshasa sta continuando a seguire per far sentire la presenza italiana in un caso così delicato. Intanto nonostante gli sforzi della Comunità dei paesi dell’Africa orientale che ha schierato un contingente militare non si fermano gli scontri nella provincia del Kivu del Nord nella Repubblica Democratica del Congo, il luogo dove un anno mezzo fa furono assassinati i nostri connazionali. La milizia M23, ormai apertamente organizzata e finanziata dal Ruanda, sta continuando ad attaccare le forze armate congolesi schierate in questa remota regione orientale del gigante africano. Secondo fonti francesi le Fardc (Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo) avrebbero scatenato una grande offensiva sia terrestre che aerea riconquistando alcune zone in mano ai ribelli da giorni. I combattimenti più aspri si tengono nel settore di Kibumba, dove le forze regolari hanno bloccato l’avanzata di questi miliziani che nelle settimane scorse non avevano trovato resistenza. La popolazione sta abbandonando la zona nei pressi del vulcano Nyiragongo dove l’artiglieria dell’esercito congolese sta martellando le posizioni del movimento M23. La città di Goma, capitale regionale del Kivu del Nord, ha visto un grande afflusso di profughi e i militari e le forze di polizia stanno addestrando la cittadinanza a difendersi da un eventuale attacco degli M23. Già nel 2013 Goma era caduta in mano a questi ribelli che avevano preso il controllo di quasi tutta la provincia orientale occupando la città per diversi mesi. Il fronte di Goma è molto caldo e le avanguardie ribelli sono a meno di 20 chilometri dalla più grande città del Kivu del Nord. Il secondo fronte si trova invece nella parte settentrionale della provincia dove i miliziani controllano già le cittadine di Rutshuru e Mabenga, oltre ad una importante base militare dove gli M23 hanno catturato un ingente quantitativo di armi delle Fardc. Dietro all’ennesima guerra in Congo c’è la mano del Ruanda e dopo l’espulsione dell’ambasciatore di Kigali dal Paese, sono moltissime le manifestazioni anti-ruandesi nelle strade delle città congolesi. Per cercare di evitare che la situazione degeneri ulteriormente è arrivato a Kinshasa l’ex presidente del Kenya Uhuru Kenyatta in qualità di mediatore designato dalla Comunità degli stati dell’Africa orientale. Kenyatta lunedì 21 novembre ha in programma una nuova serie di colloqui fra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo, mentre saranno proprio i soldati del Kenya che arrivati nei giorni scorsi in Kivu del Nord dovranno fare da cuscinetto fra i combattenti, visto che la missione Monusco delle Nazioni unite è malvista dalla popolazione locale. Una trattativa che appare molto complicata perché il Ruanda ha tutto l’interesse a mantenere nel caos il suo barcollante vicino, così da sfruttarne le ricchezze del sottosuolo.