Appello. Fermiamo la strage dei suicidi in carcere. Qui ed ora… si può! Ristretti Orizzonti, 15 novembre 2022 76 morti in poco più di 10 mesi. È il numero di suicidi in carcere registrati fino ad oggi. Un record lugubre, terribile, inaccettabile. Mai prima d’ora era stato raggiunto questo abisso. Sappiamo bene cosa si dovrebbe fare per evitare o contenere questo massacro quotidiano: depenalizzare e considerare il carcere solo come extrema ratio, moltiplicare le pene alternative, dare la possibilità al cittadino detenuto di iniziare un vero percorso di inclusione nella comunità. Chi è in custodia nelle mani dello Stato dovrebbe vivere in spazi e contesti umani che rispettino la sua dignità e i suoi diritti. Chi è in custodia dello Stato non dovrebbe togliersi la vita! Insomma, sappiamo bene, perché ne discutiamo da anni, da decenni quali siano le strade per fermare la strage, ma la politica, quasi tutta la politica, è sorda perché sul carcere e sulla pelle dei reclusi si gioca una partita tutta ideologica che non tiene in nessun conto chi vive “dentro”, oltre quel muro che divide i “buoni” dai “cattivi”. Insomma, non c’è tempo: il massacro va fermato qui ed ora. E allora proponiamo una serie di interventi immediati che possano dare un minimo di sollievo al disagio che i detenuti vivono nelle carceri “illegali” del nostro Paese. 1. Aumentare le telefonate per i detenuti. È sufficiente modificare il regolamento penitenziario del 2000, secondo cui ogni detenuto (esclusi quelli che non possono comunicare con l’esterno) ha diritto a una sola telefonata a settimana, per un massimo di dieci minuti. Bisognerebbe consentire ai detenuti di chiamare tutti i giorni, o quando ne hanno desiderio, i propri cari. 2. Alzare a 75 giorni i 45 previsti a semestre per la liberazione anticipata. 3. Creare spazi da dedicare ai familiari che vogliono essere in contatto con i propri cari reclusi per valorizzare l’affettività. 4. Aumentare il personale per la salute psicofisica. In quasi tutti gli istituti vi è una grave carenza di psichiatri e psicologi. 5. Attuare al più presto, con la prospettiva di seguire il solco delle misure alternative, quella parte della riforma Cartabia che contempla la valorizzazione della giustizia riparativa e nel contempo rivitalizza le sanzioni sostitutive delle pene detentive. I firmatari Roberto Saviano, scrittore Gherardo Colombo, ex magistrato Luigi Manconi, sociologo Giovanni Fiandaca, giurista Massimo Cacciari, filosofo Fiammetta Borsellino Mattia Feltri, giornalista Francesca Scopelliti, Fondazione Tortora Walter Verini, commissione Giustizia Senato Anna Rossomando, vicepresidente del Senato Mariolina Castellone, vicepresidente del Senato Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino Marco Cappato, Associazione Luca Coscioni Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace Riccardo Polidoro, osservatorio carcere Ucpi Gianpaolo Catanzariti, osservatorio carcere Ucpi Michael L. Giffoni, ex ambasciatore italiano Paolo Ferrua, giurista Giovanni Maria Pavarin, presidente Tribunale di Sorveglianza di Trieste Tommaso Greco, filosofo Tullio Padovani, giurista Ornella Favero e Redazione di Ristretti Orizzonti Rossella Favero, Cooperativa AltraCittà Annamaria Alborghetti, Commissione Carcere Camera Penale Padova Luca Muglia, Garante dei detenuti della Regione Calabria Ascanio Celestini, scrittore e attore Michele Passione, Avvocato Grazia Grena, Associazione Loscarcere Antigone Veneto Concetta Fragasso, volontaria in carcere a Padova Settantasette detenuti e cinque agenti di Polizia penitenziaria si sono tolti la vita da inizio anno di Silvia Mancinelli Adnkronos, 15 novembre 2022 Un numero mai tanto alto, che non si ferma e cresce. L’ultimo suicidio ieri mattina, ad Ariano Irpino, in provincia di Avellino. “È una strage senza fine - commenta Aldo di Giacomo, segretario generale di S.Pp. Polizia Penitenziaria. Non è pensabile che in meno di un anno si siano uccise oltre ottanta persone, giovanissimi per lo più e con pene irrisorie. A suicidarsi sono quelli che in galera non ci devono stare, alcol o droga dipendenti, malati psichiatrici: insomma, i soggetti più fragili, gli stessi che creano disordini all’interno dell’istituto penitenziario”. Ma come arginare una marea di eventi critici, suicidi in primis ma anche aggressioni, rivolte, che non pare arretrare? “La prima cosa che va fatta è costruire nuove carceri - spiega il sindacalista - evitare che in galera ci sia questa tipologia di detenuti per i quali il carcere è peggiorativo. Oltre alle chiacchiere, si provveda immediatamente ai fatti o le morti continueranno. Ogni settimana gli agenti in servizio salvano in media tre detenuti dal suicidio. Il carcere è diventato un posto dove i soggetti più fragili non vengono curati e patiscono le pene dell’inferno”. Quel male oscuro dei detenuti. “Fermate i suicidi in cella” di Fulvio Fulvi Avvenire, 15 novembre 2022 Sono 77 le persone che si sono uccise dietro le sbarre dal 1° gennaio a oggi. Le ultime 2 ad Ariano Irpino e Lecce. Il garante, Palma: “Tanti scontano pene irrisorie”. Dietro le sbarre ogni giorno si consuma un massacro. Ieri, altri due detenuti si sono tolti la vita. Ad Ariano Irpino, nell’Avellinese, carcere di Tricolle, un 40enne originario della provincia di Salerno si è impiccato all’inferriata della sua cella utilizzando una cintura. Inutili i tentativi di salvarlo. L’altro suicidio è avvenuto nel penitenziario di Lecce. E non è il primo dentro quelle mura. Arrivano così a 77 le morti “per mano propria” di detenuti dall’inizio dell’anno ad oggi, un tragico primato che non ha uguali in Europa, in rapporto alla popolazione carceraria, e nemmeno nella storia recente del nostro Paese (furono 72 in tutto il 2009, anno dell’ultimo triste primato). A fornire la cifra ufficiale dei suicidi è Mauro Palma, presidente dell’Autorità del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Numeri inquietanti. Quali sono le cause? E qual è il “male oscuro” che spinge i ristretti in cella a uccidersi o, in altri casi, a scatenare aggressioni, disordini e sommosse? Inghiottiti dal vortice sono per la maggior parte giovani, finiti dentro per reati minori, con pene irrisorie o in attesa di processo, migranti o persone senza dimora. “Insomma, quelli che in galera non ci devono stare, soggetti dipendenti da alcol o droga, malati psichiatrici, i più fragili” commenta Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria (Spp). Anche qui, per cercare di capire il fenomeno, bisogna partire dai numeri: fino a ieri, i detenuti nelle 192 case circondariali italiane erano 56.434, cioè oltre seimila in più rispetto alla capienza regolamentare consentita. Perché il sovraffollamento è la prima ragione del disagio. Ci sono poi la carenza di personale e l’inadeguatezza degli ambienti, spesso in condizioni igienico-sanitarie precarie. Ma l’aspetto forse più grave è che tra tutti quelli che si trovano chiusi in una prigione, solo 39.860 hanno avuto una condanna definitiva, il resto è in attesa di giudizio oppure sconta una pena per una sentenza non ancora passata in giudicato. Palma sottolinea inoltre come tra questi, 1.461 hanno sulle spalle pene già inflitte che vanno da zero a un anno mentre 2.577 devono scontare tra uno e due anni. E sono queste categorie le più esposte al suicidio. Come affrontare questa emergenza che sembra senza fine? “La prima cosa è costruire nuovi carceri - risponde il sindacalista - evitare che in carcere ci siano queste persone per le quali la detenzione è peggiorativa”. “Bisogna fare attenzione quando entrano, è il momento cruciale, parliamo di immigrati che non conoscono l’italiano o di senza dimora che non hanno nemmeno uno straccio di avvocato a cui affidare le proprie sorti, 5mila detenuti poi non hanno conseguito l’obbligo scolastico” risponde il Garante, che aggiunge: “Servono strutture territoriali di controllo e supporto per evitare che vada in carcere chi potrebbe invece fare un percorso alternativo”. Altro dato allarmante: sono 186 i carcerati deceduti nel 2022, tra essi ve ne sono 27 “per cause da accertare”. E ieri si è suicidato anche un agente di polizia penitenziaria, il quarto in dieci mesi. Perché chi deve sorvegliare spesso si trova nelle stesse condizioni di disagio e di angoscia di chi è recluso. Spesso però, la decisione di uccidersi dipende da fattori esterni, come nel caso di Antonio R. che si è tolto la vita alle Vallette di Torino la scorsa settima perché, come si è dedotto dal biglietto che ha lasciato in cella, aveva perso la potestà genitoriale del figlio. E dicono “basta” al massacro dei suicidi in carcere anche i firmatari di un appello al governo promosso da “Ristretti Orizzonti” che chiedono di aumentare le telefonate per i detenuti, di alzare a 75 giorni i 45 previsti a semestre per la liberazione anticipata, di creare spazi da dedicare ai familiari che vogliono essere in contatto con i propri cari reclusi, attuare al più presto, per seguire il solco delle misure alternative, quella parte della riforma Cartabia che contempla la valorizzazione della giustizia riparativa. E, infine, depenalizzare e considerare il carcere solo come extrema ratio, moltiplicare le pene alternative, dare la possibilità al detenuto di iniziare un vero percorso di inclusione nella comunità. L’ennesimo suicidio in carcere dovrebbe scuotere le coscienze Il Dubbio, 15 novembre 2022 Il Direttivo di “Carcere possibile Onlus” sostiene l’appello de “il Dubbio”. Registriamo - con estrema amarezza - il verificarsi dell’ennesimo suicidio in carcere, questa volta nel penitenziario Lorusso e Cutugno di Torino dove un detenuto si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo. Era in attesa di giudizio, detenuto per una accusa di stalking ai danni dell’ex compagna. Continua ancora, dunque, la triste catena di suicidi tra i detenuti nelle carceri italiane. Da inizio gennaio, infatti, sono oltre sessanta le persone che si sono tolte la vita in cella, una media di un suicidio ogni tre giorni, probabilmente perché i detenuti hanno più paura di vivere che di morire. Assistiamo sgomenti a questi numeri in continuo incremento in cui il disagio della vita detentiva diventa insopportabile spingendo chi lo vive a compiere il gesto estremo. Un tema che sembra essere senza soluzione, rinviato più e più volte dalla politica perché scomodo, complesso, non prioritario come se tutti ci fossimo gradualmente assuefatti alla tragedia delle morti in carcere. Il carcere in Italia sembra non insegnare molte cose ma una cosa pare sappia fare bene vale a dire “convincerti” che è meglio togliersi la vita piuttosto che vivere la quotidianità in cella. Pensiamo non solo alla disperazione che sta dietro ad un simile gesto estremo ma traiamo conferma - ancora una volta - della totale inadeguatezza del sistema carcerario, incapace di assolvere alla funzione che gli sarebbe propria. Coloro che giungono aduna decisione così estrema sono persone che non reggono l’impatto con la realtà carceraria tanto disumana quanto sterile nel reinserimento sociale del recluso. I problemi degli istituti penitenziari sono atavici ma la loro soluzione non è mai una priorità, quasi che anche la sola accusa mossa renda la vita - o anche la sola sopravvivenza - delle persone detenute questione di poco conto. La solitudine del recluso, in uno agli interminabili tempi della giustizia, aggravata dalle condizioni spesso inumane della detenzione, favorisce la triste decisione da parte di alcuni di porre fine alla loro vita. Ci si è spesi tanto al fine di tenere alta l’attenzione sulle misure cautelari come extrema ratio, sulla necessità che anche la Magistratura di Sorveglianza sorvegli davvero il fenomeno, sulla sanità penitenziaria e sulle patologie psichiatriche sempre più presenti nei nostri istituti senza una adeguata risposta. Il problema è evidentemente la carenza di personale, strutture, risorse e strumenti idonei a supportare il percorso psicologico dei detenuti più in difficoltà. Le stime su misure alternative e detenzione mostrano da tempo i risultati nei Paesi in cui le prime vengono privilegiate sulle seconde ovvero che il tasso di suicidi è nettamente più basso cosi come il rischio di reiterazione del reato una volta espiata la pena. Ed allora, ben vengano amnistie e indulti, referendum contro l’abuso della carcerazione preventiva, modifiche dell’ordinamento penitenziario che consentano un parziale svuotamento delle carceri. Piuttosto che evocare la carcerazione come unica risposta, bisogna aspirare ad un carcere ridotto in cui i detenuti possano trovare nei loro educatori, nei loro psicologi, nei loro magistrati di sorveglianza quel rapporto di vicinanza che è l’unico strumento per consentire un reale percorso di recupero. La reazione all’ennesima tragedia in carcere dovrebbe scuotere le nostre coscienze, indurci a volere il meglio per ogni essere umano che non merita solo slogan e promesse perché questo non basta più e non deve bastare più. Sopravvivere alla restaurazione. Il carcere invisibile e la questione psichiatrica di Dario Stefano Dell’Aquila napolimonitor.it, 15 novembre 2022 Sebbene non ancora concluso, quest’anno segna per il mondo penitenziario il dato più alto da tredici anni a questa parte di detenuti che si sono tolti la vita: ben settantasette suicidi, tra cui cinque donne. Secondo i dati dell’associazione Antigone, il tasso di suicidi è, per le persone ristrette, venti volte più alto che per la popolazione libera. Un carcere sovraffollato, in cui la pena si sconta per venti ore su ventiquattro in cella con altre persone (a volte in camere con dodici presenze), in cui le attività terminano alle 18.00, nel quale le figure sociali (educatori, psicologi, volontari, insegnanti) sono in numeri risibili in proporzione alla popolazione detenuta, è un contesto che mortifica ogni senso di umanità, indipendentemente dallo sforzo e dall’impegno dei singoli. Quanto più aumenta la popolazione detenuta, tanto più peggiorano le condizioni di detenzione e aumenta la possibilità di quelli che in linguaggio tecnico si chiamano “eventi critici”. Secondo i dati del rapporto di Antigone 2022 “negli ultimi cinque anni osserviamo un costante crescita dell’autolesionismo che nel 2020 arriva a contare 11.315 episodi”. È il segno di una crisi che, pur tenendo conto delle biografie e delle storie dei singoli, ognuna delle quali ha la sua unicità, dovrebbe portare a interrogarci e analizzare il contesto complessivo in cui queste morti sono avvenute. Torna dunque molto utile il lavoro di Luca Sterchele, Il carcere invisibile. Etnografia dei saperi medici e psichiatrici nell’arcipelago carcerario (Meltemi, 2021) che, con una ricerca sul campo in tre istituti di pena e interviste a operatori e reclusi, offre un’analisi interessante di come il sapere medico-psichiatrico operi all’interno del campo di forze del sistema penitenziario. Nell’articolato e denso lavoro di Sterchele centrale è l’analisi della “questione psichiatrica” che l’autore scompone in tre “blocchi” di indagine. Il primo interrogativo è se, come affermato da molti operatori, la riforma, che ha portato alla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari e alla apertura di REMS e articolazioni psichiatriche negli istituti di pena, abbia “costretto” il carcere a divenire “un nuovo manicomio”. Questa tesi, scrive Sterchele, sembra “non reggere molto di fronte ai dati disponibili: il sistema complessivo delle misure di sicurezza pare avere in carico un numero di soggetti piuttosto elevato, che sommando i ricoverati in Rems (circa seicento) con quelli in lista d’attesa per entrarvi (circa trecento) raggiunge cifre molto simili a quelle delle presenze in Opg negli ultimi anni della sua esistenza. Considerando inoltre la cospicua quota di soggetti presi in carico a livello territoriale […] l’ipotesi di un fallimento totale della legge 81, che avrebbe scaricato sul carcere i “pazienti” degli Opg, sembra nel complesso poco sostenibile”. Il secondo blocco di indagine si concentra “sulle dimensioni di salute che interessano le soggettivita? recluse all’interno dell’istituzione penitenziaria” e può essere a sua volta scomposto in due considerazioni. La prima è che entrano in carcere persone già dallo stato di salute compromesso, in particolare per l’impossibilità ad accedere al servizio sanitario territoriale. Il secondo punto, suggerisce Sterchele, è che è la condizione detentiva stessa, per come funziona il sistema penitenziario, a creare uno stato di malessere che si aggiunge alla condizione iniziale di vulnerabilità. La detenzione, lungi da consentire una presa in carico del paziente, aggiunge sofferenza a sofferenza, di fatto replicando quei meccanismi manicomiali che la riforma degli Opg si proponeva di superare. Il terzo blocco di indagine riguarda la costruzione della “etichetta di psichiatrico” che appare “il frutto della riconfigurazione, in termini medici, di una categoria il cui carattere è perlopiù disciplinare, che non apre all’indagine degli stati di salute, ma che orienta la messa in atto di strategie di intervento appositamente calibrate su delle dimensioni di intemperanza comportamentale, alle quali risulta difficile attribuire un senso sulla base degli schemi culturali consolidati tra gli operatori che lavorano all’interno dell’istituzione”. Questo interrogarsi sulla categoria di “psichiatrico” nel mondo penitenziario, e il sottolinearne la sua ambiguità, non nega certo la sofferenza psichica di chi si ritrova ristretto, ma mostra come l’insieme dei detenuti individuati come “psichiatrici” si venga a determinare “in maniera parzialmente autonoma rispetto a quello dei soggetti che vivono ed eventualmente manifestano condizioni di disagio o malessere”. In altre parole, prosegue l’autore, le definizioni di “psichiatrico” e “sofferente” rispondono a una esigenza che mira a “delineare ed elaborare strategie di gestione e governo di un fenomeno che vede una profonda ibridazione tra gli elementi disciplinari che regolano la vita quotidiana dell’istituzione e le istanze di nominazione e normazione che - pur richiamandosi ad un linguaggio medico-psichiatrico - si configurano come diretta emanazione delle finalità di ordine e sicurezza proprie del penitenziario”. In altri termini, potremmo dire che l’utilizzo della categoria psichiatrica è il modo in cui un complesso universo di sofferenze, che viene prodotto da più cause nonché dal carcere stesso, viene ricondotto a un unico problema, la cui soluzione è quasi esclusivamente farmacologica. Questo consente all’istituzione e ai suoi operatori di evitare di interrogarsi sulle cause profonde di queste dinamiche. La psichiatria penitenziaria, dunque, sarebbe riconducibile più alla vecchia psichiatria manicomiale, chiamata a garantire ordine e sicurezza, che ai servizi territoriali di salute mentale chiamati alla cura e alla inclusione. Una riflessione, questa sulla “questione psichiatrica” che è, nel lavoro di Sterchele, strettamente connessa a ciò che l’autore definisce “gli usi sociali del farmaco in carcere”, ovvero la complessa triangolazione e gioco di forze tra medici, detenuti e personale penitenziario che fa si che la somministrazione dei farmaci (benzodiazepine, calmanti, tranquillanti) sia regolata in un equilibrio continuo di negoziazioni. Se da un lato, infatti, i farmaci sono indispensabili per superare le ore di vuoto e angoscia che genera la reclusione, dall’altro i medici devono contenere i rischi dati dalla dipendenza dai farmaci, dai loro effetti tossici e che si crei un mercato “sommerso” in cui pillole e valium diventino merce di scambio. Le conclusioni cui l’autore arriva sono “radicali”. Emerge con chiarezza la centralita? della contro-idea abolizionista: “Messi di fronte alla persistente inadeguatezza e inefficacia del carcere, oltre che agli effetti disabilizzanti che questo continuamente produce sulla popolazione che rinchiude, ci si trova di fronte alla possibilita? di forzare quel realismo carcerario che rappresenta il penitenziario come unica soluzione al problema della criminalita? e del conflitto normativo”. Liberarsi dunque dalla necessità del carcere, “pur consapevoli dell’esistenza di criticità che rendono forse immatura una praxis abolizionista radicale”, ma al tempo stesso considerando spinte che arrivano “dai femminismi, dai movimenti anti-razzisti, dai disability rights movements, che mantengono viva l’immaginazione verso un orizzonte abolizionista il quale, se certamente non e? ancora prossimo, potrebbe un giorno diventare quantomeno futuribile, evolvendosi in un costante dialogo tra pratiche garantiste e visioni abolizioniste”. Finisce qui un libro che dimostra come l’osservazione partecipata e la ricerca sul campo forniscano indispensabili elementi di analisi e di riflessione politica (si veda anche l’ottimo lavoro di Valeria Verdolini), la cui chiarezza d’orizzonte però non ci solleva dagli interrogativi dell’agire presente. Che fare dunque, per mutare questa sofferenza qui e ora, sapendo che il carcere è un luogo capace di vanificare gli effetti della pur migliore riforma? Le risposte possibili sono molte, a noi piace ricordare questa che diede Sergio Piro rispondendo agli studenti che gli chiedevano del futuro sulla riforma dei servizi di salute mentale: “Considerazioni tristi e pessimismo grave. Eppure, quel movimento non è mai morto, come non sono mai morti gli ideali di eguaglianza, giustizia e libertà. Bisogna attivamente sopravvivere alla restaurazione andando avanti nel processo trasformazionale e nel lavoro intellettuale che vi è connesso. Senza fine”. La presunzione assoluta di pericolosità sostituita da un percorso che scarica sul detenuto l’onere della prova di Alberto Cisterna* altalex.com, 15 novembre 2022 Il D.L. 31 ottobre 2022, n. 162 pubblicato nella G.U. n. 255 del 31 ottobre 2022 modifica il regime del cd. ergastolo ostativo, ossia dell’impossibilità di accedere ai benefici penitenziari se non in presenza di una collaborazione di giustizia, e lo sostituisce con un complesso iter di accertamento che richiede al detenuto di allegare e dimostrare una serie di circostanze (risarcimento delle vittime, mancanza di collegamenti con l’esterno, inesistenza di un pericolo di un ripristino con gli ambienti di provenienza e via seguitando). È prevista la raccolta di informazioni, notizie, dati, ma è del tutto evidente che l’intera responsabilità della mitigazione del regime carcerario sarà rimessa alla magistratura di sorveglianza, potendosi escludere che - per reati di grave allarme sociale - ogni altra autorità giudiziaria, di polizia o amministrativa vorrà por mano a pareri favorevoli a detenuti ritenuti pur sempre pericolosi o potenzialmente pericolosi. Quale sarà la sorte parlamentare del D.L. n. 162/2022 è del tutto prevedibile. La delicatezza dell’argomento in discussione e la pressione dell’opinione pubblica giocheranno, probabilmente, a favore di una conversione integrale del testo rilasciato dal Governo che - come noto - ha semplicemente fatto proprio l’esito dei lavori parlamentari in corso nella precedente legislatura per ovviare alla messa in mora della Corte costituzionale sul regime di carcerazione speciale. È stata, infatti, l’ordinanza n. 97/2021 della Corte costituzionale a evidenziare l’incompatibilità con la Costituzione delle norme che individuavano nella collaborazione di giustizia l’unica possibile strada a disposizione del condannato all’ergastolo per un reato ostativo, per accedere alla liberazione condizionale. L’opzione della Corte di rimettere al legislatore il compito di operare scelte di politica criminale per mediare le esigenze di prevenzione generale e sicurezza collettiva con il rispetto del principio di rieducazione della pena affermato dall’articolo 27 della Costituzione non era apparsa, sin dall’inizio, la più persuasiva. Una declaratoria di illegittimità costituzionale, oltre che conforme alle ordinarie attribuzioni del Giudice delle leggi, avrebbe anche avuto il vantaggio di orientare il legislatore nell’inevitabile compito di por mano alla disciplina dell’ergastolo ostativo. Il testo rilasciato dal Governo si muove, invero, senza tener in conto alcuna delle obiezioni di fondo sollevate per il regime di massimo rigore, ma mosso dall’unica intenzione di sostituire al regime di presunzione assoluta un coacervo di prescrizioni che rovesciano sul condannato una sorta di probatio diabolica che attenui il precedente rigore assoluto. Non a caso la relazione che accompagna il disegno di legge n. 274 di conversione al Senato premette che si tratta di regolare la concessione dei benefìci penitenziari ai detenuti e agli internati “non collaboranti”, laddove con la locuzione - in fin dei conti - si opera un rinvio al medesimo problema di fondo: ossia come mitigare la pena dell’ergastolo verso i cosiddetti irriducibili. La qualificazione di questo largo spettro di reclusi con un riferimento preso a prestito dal terrorismo interno dei decenni scorsi, non rappresenta solo un escamotage locutorio, ma il tentativo di meglio perimetrare il cluster criminologico che il decreto-legge 162 prende in considerazione. Sono coloro i quali si ritiene abbiano irreversibilmente abbracciato la logica criminale mafiosa e, in quanto tali, siano lontani da qualsivoglia resipiscenza o rieducazione in carcere. In quanto “irriducibili” solo il pentimento ne può attestare il definitivo scorporo dai sodalizi di appartenenza. In mancanza di esso occorre accontentarsi di surrogati probatori che, comunque, portino in evidenza il medesimo retroterra antropologico e criminologico, ossia la cesura da una vita anteatta che la lunga detenzione non permette di apprezzare in mancanza di altri, importanti indici di conferma. L’articolo 1 del decreto-legge incide sul comma 1 dell’articolo 4-bis, che - in caso di condanna per alcuni gravi delitti indicati come ostativi - esclude la concessione delle misure dell’assegnazione al lavoro all’esterno e delle misure alternative alla detenzione, fuori dei casi di collaborazione con la giustizia (ai sensi dell’articolo 58-ter ord. Penit. ovvero dell’articolo 323-bis c.p.). In forza del rinvio operato dall’art. 2 della L. 12 luglio 1991, n. 203, il divieto si applica anche alla liberazione condizionale. Rispetto al testo approvato dalla Camera dei deputati il 31 marzo 2022 (Atto Senato n. 2574), il decreto-legge ha apportato due modifiche: a) l’estensione del regime ostativo è operata con riferimento all’ipotesi “di esecuzione di pene concorrenti” che - ai sensi dell’art. 663 c.p.p. - si verifica quando vi sia stata condanna con più sentenze o decreti penali per reati diversi e anche quando la condanna per reati ostativi e non ostativi sia stata adottata con un’unica sentenza; si è ritenuto di eliminare dal testo della norma l’aggettivo “concorrenti” con cui si era inteso qualificare le pene in esecuzione; b) poi si è attribuita rilevanza anche all’accertamento della connessione qualificata eventualmente compiuto in fase esecutiva. Quindi l’articolo 1, comma 1, ha interamente modificato la disciplina del comma 1-bis dell’articolo 4-bis ord. penit. che - prima della novella in esame - per i cosiddetti reati ostativi consentiva la concessione di benefici e misure nelle ipotesi in cui sia accertata l’inesigibilità (a causa della limitata partecipazione del condannato al fatto criminoso) o l’impossibilità (per l’accertamento integrale dei fatti) della collaborazione: in questi casi, non sussistendo margini per un’utile cooperazione con la giustizia, non operava la preclusione assoluta stabilita dal comma 1, a condizione che fossero stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. Il nuovo regime del D.L. n. 162/2022 prevede la sostituzione del comma 1-bis con tre nuovi commi che recano i requisiti per l’accesso ai benefici. Come detto la norma poggia sulla costruzione di un apposito regime probatorio, fondato sull’allegazione da parte dei detenuti di elementi specifici che consentano di escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi. Orbene, mentre nel primo caso la lunga detenzione dovrebbe di per sé assicurare che il regime detentivo abbia consentito la rescissione pretesa, per le altre ipotesi la discrezionalità appare davvero ad ampio compasso. In caso, poi, di reati non associativi, tra i quali in particolare quelli contro la pubblica amministrazione, dovranno essere acquisiti elementi per escludere collegamenti con il contesto nel quale il reato era stato commesso. Ora, a parte l’evocazione letteraria di sciasciana memoria, quale portata descrittiva e precettiva possa avere il “contesto” nel caso di reati contro la pubblica amministrazione (ad esempio) è davvero ardimentoso immaginare. Certo la giurisprudenza dovrà faticosamente perimetrare la disposizione e trovarle uno spazio ragionevole di applicazione. Con riferimento, invece, ai delitti associativi, il decreto-legge - come detto - reca una regolamentazione destinata a superare la previgente presunzione legislativa assoluta secondo cui la commissione di determinati delitti indichi la permanente appartenenza dell’autore alla criminalità organizzata e rappresenti, quindi, un indice di pericolosità sociale incompatibile con l’ammissione ai benefici penitenziari extramurari. Invero il divieto di ammissione ai benefici in assenza di collaborazione resta in piedi a può essere superato - anche in caso di collaborazione impossibile e inesigibile - in presenza delle concomitanti condizioni: - dimostrazione da parte dei detenuti di aver adempiuto alle obbligazioni civili e agli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento; si ricordi che spesso si tratta di altissimi risarcimenti in favore delle parti civili che sono rimasti insoddisfatti per decenni, quindi, si è in presenza di una pura prescrizione “manifesto”; - allegazione da parte degli istanti di elementi specifici che consentano di escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, sia il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi; una prova positiva che grava sul detenuto - spesso in regime di 41-bis - che non è chiaro come possa conseguire, se non a patto di contatti e collegamenti con l’ambiente esterno che potrebbero essere, a loro volta, la prova dell’attualità del loro inserimento; Comunque, il nuovo comma 1-bis.1. detta una apposita disciplina, di stampo meno rigorista, per i reati non associativi, tra cui i delitti contro la pubblica amministrazione, per i quali si esclude la sussistenza dell’onere di allegazione in relazione all’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata e al pericolo di ripristino di tali collegamenti. L’onere di allegazione è, altresì, escluso in relazione al pericolo di ripristino dei collegamenti con il contesto nel quale il reato venne commesso. Il comma 1-bis.2, tuttavia, prevede che si applichi il più gravoso regime di cui al comma 1-bis quando il detenuto o l’internato abbia riportato una condanna anche per il delitto di cui all’art. 416 c.p. finalizzato alla commissione dei delitti indicati nel medesimo comma 1-bis.1. Il comma 1-bis, poi, evoca espressamente una delle argomentazioni della sentenza della Corte costituzionale n. 253/2019 che, in relazione ai permessi-premio, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis comma 1 nella parte in cui non prevedeva che potessero essere concessi tali permessi anche in assenza di collaborazione con la giustizia “allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti”. La sentenza della Consulta aveva evidenziato che il “regime probatorio rafforzato” si estende all’acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata “ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali”. La Corte costituzionale aveva ricordato che questa simmetria si rendeva necessaria “al fine di evitare che il già richiamato interesse alla prevenzione della commissione di nuovi reati, tutelato dallo stesso articolo 4-bis ord. penit., finisca per essere vanificato”. La pronuncia del 2019 evidenziava, infatti, fosse onere dello stesso condannato che richiede il beneficio “fare specifica allegazione di entrambi gli elementi - esclusione sia dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata che del pericolo di un loro ripristino”. Quindi l’accertata permanenza dei collegamenti o il rischio di un loro ripristino si equivalgono e sono concorrenti; c’è da attendersi, però, non sotto il profilo del gradiente probatorio che deve avere, necessariamente, una diversa consistenza. A questo proposito si deve ricordare che la Corte di legittimità si è di recente espressa precisando, quanto alla concessione del permesso premio a soggetto condannato per delitti ostativi, che è illegittima l’ordinanza del giudice di sorveglianza che dichiari l’inammissibilità dell’istanza per omessa specifica allegazione di elementi di prova idonei a dimostrare la sussistenza dei requisiti sulla base dei quali, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 253/2019, può essere concesso il beneficio (vale a dire l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata e del pericolo del loro ripristino), essendo a tal fine sufficiente l’allegazione di elementi fattuali (quali, ad esempio, l’assenza di procedimenti posteriori alla carcerazione, il mancato sequestro di missive o la partecipazione fattiva all’opera rieducativa) che, anche solo in chiave logica, siano idonei a contrastare la presunzione di perdurante pericolosità prevista dalla legge per negare lo stesso, potendo, eventualmente, il giudice completare l’istruttoria anche d’ufficio (Cass. pen., Sez. I, 14/7/2021, n. 33743). E, con una pronuncia ancora più recente ha precisato che “a seguito della declaratoria di parziale incostituzionalità dell’art. 4-bis, comma 1 - nella parte in cui, in difetto di collaborazione con la giustizia, escludeva il riconoscimento dei benefici ai detenuti per delitti ostativi di cd. prima fascia, anche allorché fossero stati acquisiti elementi che escludessero sia l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata che il pericolo di un loro ripristino - il giudice di sorveglianza, al fine di verificare la concedibilità di un permesso premio ex art. 30-ter ord. penit., è tenuto a compiere un esame in concreto degli elementi “individualizzanti” che caratterizzano il percorso rieducativo del detenuto, dai quali si possa desumere la proiezione attuale a recidere i collegamenti criminali mafiosi e a non riattivarli in futuro” (Cass. pen., Sez. V, 28/2/2022, n. 19536). Lo snodo cruciale della nuova norma si annida, quindi, in questo onere di allegazione che la Cassazione aveva già chiarito come dovesse essere declinato “allegazione specifica, in particolare, significa che gli elementi di fatto prospettati nella domanda devono avere una efficacia “indicativa” anche in chiave logica, di quanto occorre a rapportarsi al tema di prova”. Sennonché il decreto-legge - sconfinando nel giardino proibito dell’apprezzamento delle prove - ha stabilito che gli elementi che l’istante dovrà allegare per ottenere l’accesso ai benefici dovranno essere diversi e ulteriori rispetto: a) alla regolare condotta carceraria; b) alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo; c) alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza; e che il giudice di sorveglianza dovrà in proposito: 1) tenere conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile; 2) accertare la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa. Una linea molto fluida in cui rischiano di confluire anche mere informazioni di polizia prive di riscontri e di elementi concreti e che rimette alla magistratura di sorveglianza una ampia discrezionalità, ma solo contra reum. Ma, a ben considerare, è esattamente il percorso che la Corte costituzionale aveva tracciato nell’ordinanza n. 97/2021 ove aveva chiarito che “la presunzione di pericolosità sociale del condannato all’ergastolo che non collabora, per quanto non più assoluta, può risultare superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione. A fortiori, per l’accesso alla liberazione condizionale di un ergastolano (non collaborante) per delitti collegati alla criminalità organizzata, e per la connessa valutazione del suo sicuro ravvedimento, sarà quindi necessaria l’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere, sia l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del loro futuro ripristino”. Il tema cruciale è stabilire, però, su quale parte gravi l’onere di allegazione; circostanza, questa, che la Corte costituzionale non ha risolto secondo la traiettoria del decreto-legge 162. Il nuovo comma 2 dell’articolo 4-bis ord. penit. rimodula il procedimento per la concessione dei benefici penitenziari in favore dei detenuti non collaboranti condannati per reati cosiddetti ostativi, stabilendo che il giudice di sorveglianza, prima di decidere sull’istanza, abbia l’obbligo di chiedere il parere del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado o, se si tratta di condanne per i gravi delitti indicati dall’art. 51, commi 3-bis e 3-quater del codice di procedura penale, del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado e del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Il tutto in linea con quanto previsto dal D.L. n. 28/2020 che - interpolando gli articoli 30-bis e 47-ter ord. penit. - ha parimenti voluto che, prima della concessione di un permesso (articolo 30) e della cosiddetta detenzione domiciliare “in surroga” (articolo 47-ter, comma 1-ter), oppure della proroga di quest’ultima, l’autorità procedente debba acquisire alcuni pareri: in caso di richiesta proveniente da detenuti per delitti ex art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p., il parere del procuratore distrettuale, cui si aggiunge - in relazione a soggetti sottoposti al regime speciale di cui all’art. 41-bis ord. penit. - quello del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Inoltre, il giudice di sorveglianza deve: a) acquisire informazioni dalla direzione dell’istituto dove l’istante è detenuto o internato; b) disporre nei confronti del medesimo, degli appartenenti al suo nucleo familiare e delle persone ad esso collegate, accertamenti in ordine alle condizioni reddituali e patrimoniali, al tenore di vita, alle attività economiche eventualmente svolte e alla pendenza o definitività di misure di prevenzione personali o patrimoniali. Il timing di questo, invero defaticante procedimento, è stato regolato dal decreto-legge il quale prevede che i pareri, con eventuali istanze istruttorie, e le informazioni e gli esiti degli accertamenti siano resi entro sessanta giorni dalla richiesta, prorogabili di ulteriori trenta giorni in ragione della complessità degli accertamenti e che decorso tale termine, il giudice decida anche in assenza dei pareri e delle informazioni richiesti. La norma di nuovo conio assicura, inoltre, che in caso di acquisizione di elementi “negativi” sia data al condannato la facoltà di fornire, entro un congruo termine, idonei elementi di prova contraria (in linea con quanto previsto dalla citata sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale). Chiunque abbia un minimo di esperienza del settore sa bene che nessuna delle autorità coinvolte sarà disponibile a rendere un parere favorevole al detenuto di massima pericolosità e che tutta la responsabilità sarà gravante sul giudice di sorveglianza chiamato a distinguere tra allarmanti supposizioni e declamazione e concreti elementi di prova. In chiusura si precisa che il decreto-legge subordina la concessione dei benefici ai detenuti soggetti al regime carcerario speciale ex art. 41-bis ord. penit., alla previa revoca di tale statuto di detenzione cui - quasi sempre - ostano i medesimi elementi suggestivi di cui si è detto. *Magistrato, Presidente di sezione al Tribunale di Roma L’anarchico delle bombe che ora rischia di morire in cella come un boss. Ma non ha ucciso nessuno di Luigi Manconi La Repubblica, 15 novembre 2022 Cospito è sottoposto all’ergastolo ostativo nel carcere di Sassari. Dal 20 ottobre fa lo sciopero della fame contro il 41 bis: ha già perso 20 chili. Cosa si prova a guardare un rettangolo di cielo solo attraverso una rete? Quali danni subisce un individuo che trascorre l’intera giornata all’interno di una stanza chiusa e che può accedere all’esterno per una sola ora al giorno. E questo tempo viene trascorso tutto dentro un cubicolo di cemento di pochi metri quadrati, delimitato da muri alti che interdicono lo sguardo e da quella rete di metallo che filtra la visione del cielo. La possibilità di comunicazione di quell’individuo è ridotta da anni alla conversazione occasionale con un unico interlocutore, mentre viene interdetta la facoltà di trasmettere all’esterno - attraverso lettere e scritti - il proprio pensiero. La deprivazione sensoriale - Se un simile regime si protrae nel tempo è fatale che si determini una condizione che in psicologia e in psichiatria viene definita deprivazione sensoriale, ovvero la riduzione fino alla soppressione degli stimoli sensoriali correlati ai cinque sensi. A esempio, la mancata profondità visiva può incidere sulla funzionalità del senso della vista. La deprivazione sensoriale è una pratica adottata dai sistemi autoritari e totalitari nei confronti dei reclusi ed è un rischio immanente di tutti i regimi speciali di detenzione realizzati all’interno delle democrazie. In Italia l’applicazione estensiva e incontrollata del regime di 41 bis può portare a un simile esito. Condannato all’ergastolo ostativo - È il caso di Alfredo Cospito, nato a Pescara nel 1967, residente a Torino, che sconta l’ergastolo ostativo nel carcere di Bancali (Sassari). Cospito ha subito una condanna per l’attentato contro Roberto Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo Nucleare (maggio 2012), e una all’ergastolo per strage contro la sicurezza dello Stato. La condanna si riferisce a quanto è avvenuto, nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 2006, nella Scuola allievi carabinieri di Fossano (Cuneo), dove esplodono due pacchi bomba a basso potenziale che non determinano morti, feriti o danni gravi. In primo e secondo grado il reato era stato qualificato come delitto contro la pubblica incolumità, ma nel luglio scorso la corte di Cassazione ha modificato l’imputazione nel ben più grave delitto (contro la personalità interna dello Stato) di strage, volta ad attentare alla sicurezza dello Stato (art. 285 del codice penale). Non avendo collaborato in alcun modo con la magistratura, a Cospito viene applicata l’ostatività: ovvero l’ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale e di ottenere benefici. Fino all’aprile scorso, pur sottoposto per dieci anni al regime di Alta sicurezza, il detenuto aveva l’opportunità di comunicare con l’esterno, di inviare scritti e articoli così da partecipare al dibattito della sua area politica, di contribuire alla realizzazione di due libri e di scrivere e ricevere corrispondenza. L’applicazione del 41 bis cambia radicalmente le condizioni di detenzione. Da molti mesi le lettere in entrata vengono trattenute e questo induce il detenuto a limitare e ad autocensurare le proprie. Le ore d’aria e quelle di socialità sono ridotte nei termini prima descritti. Lo sciopero della fame - È contro tutto questo che Cospito, dal 20 ottobre scorso, ha intrapreso lo sciopero della fame. Da allora sono passati 25 giorni e il corpo di Cospito ha già perso una ventina di chili e, tuttavia, la dottoressa incaricata di monitorare il decorso, trova difficoltà a incontrare il detenuto: mi rivolgo, dunque, al capo del Dap, Carlo Renoldi, che è persona per bene, affinché a Cospito sia garantita la migliore assistenza. L’applicazione irrazionale del 41 bis - Ciò che questa storia racconta è, innanzitutto, la situazione così drammaticamente critica che l’applicazione arbitraria e irrazionale del 41 bis può determinare. Tale regime non dovrebbe avere in alcun modo come sbocco una condizione di deprivazione sensoriale, anche perché - pur se ciò contraddice lo stereotipo dominante - questo tipo di detenzione non corrisponde (non dovrebbe corrispondere) al “carcere duro”. La finalità del regime speciale è una ed esclusivamente una: quella di interrompere le relazioni tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna. Qualunque misura e qualunque limitazione deve tendere a quel solo scopo. Tutte le altre misure e limitazioni adottate senza una documentata ragione vanno dunque considerate extra-legali. Ovvero illegali. E come tali risultano, palesemente, le condizioni di detenzione di Alfredo Cospito. La sua scelta estrema, quella del digiuno, appare, di conseguenza, come “ragionevole” nella situazione data: in quanto porre in gioco il proprio corpo e sottoporlo alla prova terribile dello sciopero della fame, sembra la sola possibilità rimasta a Cospito di contestare radicalmente ciò che considera un’ingiustizia. Intanto i suoi legali hanno presentato un’istanza di reclamo contro l’applicazione del 41 bis che verrà discussa il primo dicembre. Il timore è che Cospito arrivi a questo importante appuntamento in condizioni di salute troppo pericolose per la sua stessa sopravvivenza. Il carcere e l’ossessione per gli anarchici: così il Paese cerca di nascondere il suo caos di Massimo Cacciari La Stampa, 15 novembre 2022 Il grado di civiltà di una nazione si misura anche nell’equilibrio tra il reato commesso e la pena inflitta. La nazione che riduce la libertà per sentirsi più sicura rischia di diventare prigioniera del più forte. Come è stato più volte denunciato a livello internazionale per il nostro regime carcerario, e trasformarsi così in crudele giustizialismo. L’opinione pubblica appare oggi del tutto disattenta su queste questioni, ma occorre essere davvero ciechi e sordi per non vedere come esse facciano tutt’uno coni modi in cui tutti, più o meno, i Paesi democratici stanno affrontando sul piano della pura emergenza e con logiche esclusivamente “securitarie” ogni “minaccia”, dall’immigrazione alla pandemia, alla crisi economica. Tra i pericoli per il nostro regime democratico sembra sia emerso negli ultimi anni, incredibile a dirsi, quello dell’anarchia. Non dell’anarchia in quanto mancanza di governi stabili, di un ordinato rapporto tra legislativo ed esecutivo, di eque politiche fiscali e sociali, ecc.., ma proprio dell’anarchia in quanto movimento anarchico, quello nato coi Godwin, Proudhon, Bakunin, due secoli fa. Uno di questi anarchici, Alfredo Cospito, è ospite delle patrie galere e si sta facendo morire di fame per protesta contro il regime che gli è stato inflitto. È accusato di un attentato contro la Scuola allievi carabinieri di Fossano avvenuto nel 2006, in cui fortunatamente non vi furono né morti né feriti. La Cassazione ha deciso di qualificare tale atto come strage contro la sicurezza dello Stato, reato che prevede l’ergastolo e che non era stato applicato neppure per le stragi-stragi di Piazza Fontana e della Stazione di Bologna. Se ciò non bastasse, per il Cospito si è deciso anche per il carcere duro ai sensi dell’art. 41 bis, introdotto, come noto, per combattere le associazioni mafiose, ai fini di impedire i collegamenti tra i criminali in carcere e i loro colleghi all’esterno. Che c’entra di grazia questa misura con gli anarchici? Risulta che il movimento anarchico abbia solide strutture gerarchiche, un’organizzazione particolarmente solida e diffusa, qualcosa di analogo a Cosa Nostra? E anche altri anarchici sono oggi colpiti da regimi di sorveglianza pesantissimi pur se accusati di reati del tutto minori, neppure da art.272 (propaganda sovversiva). Quando si toglie a una persona ogni libertà di muoversi, comunicare, quando si sopprime quella dimensione essenziale della nostra natura che è la vita di relazione, senza dimostrare aldilà di ogni ragionevole dubbio che la misura sia assolutamente necessaria ciò è sintomo di una paurosa decadenza della nostra civiltà giuridica. La responsabilità di chi amministra la giustizia è davvero tremenda, poiché comporta il potere di sopprimere, magari a vita, la nostra libertà. Un simile straordinario potere deve giustificarsi a sua volta - e può farlo soltanto se le pene che commina siano le meno penose ragionevolmente concepibili. Difronte a pene come quelle che abbiamo ricordato inflitte agli anarchici c’è da chiedere dove sono andati a finire i dibattiti degli scorsi decenni sulle alternative al carcere o sul significato e sul fine della stessa detenzione. Ricorda qualcuno che si discettava sui nobili scopi pedagogico-rieducativi della pena? La critica di questa consolatoria ideologia è davanti ai nostri occhi - ma est modus in rebus, vi deve essere una misura nelle cose, e cioè occorre riconoscere che la distanza tra l’ideologia del reinserimento sociale, predicata tuttavia dalla Costituzione, e la realtà dei fatti mai può essere maggiore che nei casi come questo, quando un accusato di reati di natura essenzialmente politica viene trattato da criminale mafioso. Certo è questo il modo più proficuo e rapido per avviarlo a pentirsi dei propri errori e per reintegrarlo nell’armoniosa trama della nostra comunità. C’è da credere quasi che l’accanimento contro gli anarchici - della cui esistenza forse l’opinione pubblica non era neppure informata - esprima l’inconscia volontà di liberarsi da un senso di colpa che ci affligge. Chiudendo l’anarchico in una prigione senza porte o finestre nascondiamo l’anarchia in cui ci troviamo e che da anni consente soltanto di “tamponare” i nostri malanni. Astuzie della storia o della Provvidenza. Ma si sappia che i regimi che tirano avanti senza sapere affrontare le proprie contraddizioni se non inventando di emergenza in emergenza capri espiatori hanno un destino certo: chi non può governarsi da sé, si lasci governare da altri - ce lo diceva il nostro grande Vico - e io aggiungerei sommessamente: il Paese che per sentirsi più sicuro riduce i diritti della persona, aumenta il ricorso alla prigione e ne aggrava il regime, illudendosi che questi mezzi siano i più idonei a raggiungere quello scopo, finirà inevitabilmente col trovare la propria sicurezza nel farsi prigioniero del più forte. Carcere e detenzione, ogni vita “di scarto” possiede le sue vite di scorta di Luigi Mollo vocedinapoli.it, 15 novembre 2022 Nessuno è mai perso per sempre. Tutti hanno diritto ad una seconda opportunità, a quella tanto agognata esistenza mai vissuta. Nessun detenuto è irrimediabile, vale sempre la pena di dare una possibilità concreta di reinserimento a chi ha sbagliato e per chi sta scontando una giusta pena il trattamento sia attuato nel rispetto dei diritti umani sanciti dalla Costituzione. A tal proposito una riforma carceraria avrebbe senso se servisse a costruire un sistema penale più equo e giusto. Nei penitenziari spesso è detenuto chi potrebbe star fuori e purtroppo sta fuori chi invece dovrebbe esser detenuto. Spesso ci si trova di fronte ad abusi di potere perpetrati ai danni dei detenuti, celati dall’omertà delle Istituzioni. A mio avviso occorre intervenire principalmente sulle cause sociali della devianza utilizzando le misure alternative, per chi come alternativa alla sua vita vede solo il buio. Il carcere non può essere la soluzione alla mancanza di politiche sociali ed economiche da parte dello Stato. Dobbiamo avere il coraggio di dire che nelle nostre galere non ci sono solo corruttori, mafiosi, stupratori e assassini. La metà dei detenuti in carcere sono responsabili di reati contro il patrimonio. Se rubo una bottiglia di olio in un supermercato e sono l’ultimo degli ultimi rischio sicuramente la detenzione. Ci sono invece persone che provocano molti più danni alla società, dal punto di vista politico ed economico, ma in carcere non ci metteranno mai piede. Il dettato costituzionale e il moderno diritto penale sono gli strumenti con cui operare. La politica italiana però dovrebbe cominciare a riflettere seriamente e concretamente sul futuro del sistema carcerario. Su questo tema purtroppo il dibattito è fermo alla sola teoria, tutto ciò ha provocato 76 notti di suicidi dall’inizio dell’anno, cavalieri erranti che non vedranno mai più la luce del giorno. Perché nella nostra società gli ultimi non vengono tutelati? Nell’ordinamento penale, per espressa previsione Costituzionale, la pena deve tendere alla rieducazione del reo. E invece… si perde la possibilità di vivere nuovamente. Uomini di buonsenso, la pena detentiva è una pena corporale, che dà dolore fisico, produce malattie e morte. I sensi delle persone recluse subiscono una trasformazione patologica sin dai primi momenti dell’esperienza detentiva. Se errare è umano, perseverare nel non accorgersi della moltitudine di violazioni in atto è diabolico. Nordio, la versione beneducata dell’odiatore fascio-leghista di Iuri Maria Prado Il Riformista, 15 novembre 2022 Salvini fa propaganda truce contro i migranti, ma non ci si può aspettare niente da uno che agita il rosario mentre lascia morire i bambini. Chi inquieta è il Guardasigilli: parole miti, ma messaggi orribili. Il governo ha il diritto di fare ciò che crede a contrasto dell’immigrazione clandestina, che è clandestina perché una legge la fa tale. Ma, accanto a quel diritto, il governo ha il dovere di non disinteressarsi delle accuse che ad esso rivolge chi sostiene che nell’apprestare le proprie misure di respingimento questo esecutivo, come altri che l’hanno preceduto, stia in molti casi andando contro la legge. Bisognerebbe, come si dice, rispondere nel merito: e il governo non lo sta facendo. Ma un altro tratto dell’azione governativa lascia quanto meno perplessi. Ed è il carattere intollerabilmente propagandistico che assumono spesso le dichiarazioni dei plenipotenziari di centrodestra. Su quelle del ministro Salvini è salutare non dir nulla, non perché siano giustificabili ma perché non ci si può attendere qualcosa di diverso da un tipo che agita il rosario a tutela dei sacri confini della patria mentre uomini donne e bambini muoiono di sete e di fame davanti ai porti chiusi. Su quelle di altri è invece doveroso puntare un po’ di attenzione perché, sia pur meno truculente, condividono tuttavia la medesima portata rappresentativa: nell’idea, propugnata per esempio dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, secondo cui si tratterebbe di “mandare a tutti il messaggio” che ormai in Italia c’è un nuovo corso. Il ministro, persona di buone coltivazioni liberali, comprenderà che in democrazia non si fanno leggi né si assumono provvedimenti di governo per “mandare messaggi”, ma per regolare la vita delle persone e delle istituzioni. E comprenderà che un’azione di governo sostenuta da una messaggistica di questo tipo rischia di essere la copia solo più beneducata, ma altrettanto populista, del proclama sulla fine della pacchia: una cosa con qualche problema di presentabilità quando si discute di ordinarie beghe comunitarie, ma semplicemente disgustosa quando - perché di questo si tratta - quella retorica da comizio è adoperata mentre si recupera il cadavere di un bambino di venti giorni. Il ministro Nordio dice che i migranti raccolti dalle Ong dovrebbero essere riportati negli Stati di bandiera delle imbarcazioni: “magari”, spiega, “dopo i primi soccorsi urgenti”. Non so se è chiaro: “magari”. Non si sa se gli sia sfuggito di bocca, e lo dico con tutto il rispetto che porto alla sua persona, ma l’uso di quella parola denuncia pienamente il problema che si fa finta di poter trascurare, e cioè che qui occorre innanzitutto assumere e rispettare l’impegno di salvare questa gente. Ripeto, innanzitutto, cioè prima: perché se non si fa prima questo, se prima non si opera per salvarla dalla morte, se lo si fa “magari”, questa gente muore come continua a morire. Poi facciano tutti i decreti che vogliono, mandino tutti i messaggi che vogliono: ma dopo. Prima dichiarino che è prioritario obbligo salvare queste persone: e lo facciano. Altrimenti avremo il diritto di ritenere che il “messaggio” è che chi prova a venire in Italia muore. Liguria. “Fissata dopo due anni la seduta per nominare il Garante dei detenuti” Il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2022 Il consigliere Sansa sospende lo sciopero della fame. Lunedì, al settimo giorno senza mangiare, il consigliere regionale ligure e giornalista del Fatto Ferruccio Sansa ha sospeso la protesta annunciata l’8 novembre contro la mancata nomina del garante delle persone private della libertà, ma anche del difensore civico, del garante dei minori e di quello delle vittime di reato. “Ho parlato con il presidente Giovanni Toti che mi ha dato la sua parola che entro fine mese arriverà la nomina da parte del Consiglio”, racconta. Era entrato in sciopero della fame l’8 novembre, chiedendo che il Consiglio regionale nominasse il garante dei detenuti (figura istituita nel 2020 da una legge mai messa in pratica) ma anche il difensore civico, il garante dei minori e quello delle vittime di reato: “Almeno così spero di riuscire a smuovere qualcuno, visto che un accordo tra maggioranza e opposizione non si riesce a trovare”. Ieri, al settimo giorno senza mangiare, il consigliere regionale ligure e giornalista del Fatto Ferruccio Sansa ha sospeso la protesta annunciando che “la prima Commissione ha fissato per il prossimo 21 novembre la seduta per presentare le candidature. Ho parlato con il presidente Giovanni Toti che mi ha dato la sua parola che entro fine mese arriverà la nomina da parte del Consiglio”, racconta Sansa in un post su Facebook. “Gliene sono grato. Siamo stati d’accordo su una cosa: devono essere nomine di alto livello che tengano conto delle competenze e non delle appartenenze. Sospendo lo sciopero della fame che riprenderò se le date non saranno rispettate. Sono stati sette giorni di fatica, ma è stata un’esperienza che non dimenticherò”. “Sono due anni che gli oltre mille carcerati liguri chiedono al Consiglio Regionale la nomina del garante dei loro diritti”, aveva spiegato Sansa annunciando lo sciopero in Consiglio regionale. “Gli spetta per legge. Sono persone che vivono già senza libertà in strutture che spesso non garantiscono la loro dignità di persone. Non solo: in gioco ci sono altri incarichi fondamentali per tutti i cittadini: il difensore civico, il garante dei minori e quello delle vittime di reato. Eppure da due anni il Consiglio non decide, paralizzato da veti e dal desiderio di accaparrarsi più poltrone possibile. Non mi resta oggi che cominciare uno sciopero della fame finché non arriverà la nomina dei garanti per i carcerati e di quelli per tutti i cittadini”. Negli scorsi giorni ha tenuto sui social un “diario” quotidiano su Facebook in cui raccontava l’esperienza fisica e mentale dello sciopero, comunicando i propri parametri sanitari. Poco più che un gesto simbolico. Non so quanto sarà utile a carcerati, minori e vittime di reato che attendono un garante. Ma a me togliere qualcosa ha dato molto: mi ha fatto sentire vicino a migliaia di persone”, ha scritto in uno degli ultimi post. In Liguria è giunto il momento di nominare un Garante dei detenuti di Ferruccio Sansa Il Domani, 15 novembre 2022 Da sette giorni sto facendo lo sciopero della fame per ottenere che la Liguria nomini finalmente il Garante dei diritti delle persone private della libertà. È tutto paralizzato da due anni per il disinteresse generale e per la lotta a dividersi le poltrone: “Tre a noi e uno a voi”, ci siamo sentiti dire a una delle prima riunioni per risolvere la questione. No, non decidere in base a competenza ed esperienza, ma solo per appartenenze. Ho chiesto per mesi e mesi, all’inizio di Consiglio regionale, che si affrontasse finalmente la questione. Senza ottenere una risposta seria. In carcere raccontano di un detenuto che appena uscito si era ritrovato solo nel piazzale. E per prima cosa aveva abbracciato un albero. Non toccava niente di vivo - piante, alberi, animali - da oltre vent’anni. È una storia vera. Una delle tante che ho ascoltato visitando gli istituti di pena liguri. È una delle prerogative di noi consiglieri regionali ed è un’esperienza che cambia la vita. Da sette giorni sto facendo lo sciopero della fame per ottenere che la Liguria nomini finalmente il Garante dei diritti delle persone private della libertà. I detenuti, appunto. Ma anche il Garante dei minori, delle vittime di reato e il difensore civico. Insomma, tutte quelle figure che tutelano le persone deboli. È tutto paralizzato da due anni per il disinteresse generale e per la lotta a dividersi le poltrone: “Tre a noi e uno a voi”, ci siamo sentiti dire a una delle prima riunioni per risolvere la questione. No, non decidere in base a competenza ed esperienza, ma solo per appartenenze. Ho chiesto per mesi e mesi, all’inizio di Consiglio regionale, che si affrontasse finalmente la questione. Senza ottenere una risposta seria. E alla fine non mi è rimasta altra arma che cominciare lo sciopero della fame. Per chiedere il semplice rispetto di una legge. La situazione nelle carceri - In Liguria i detenuti sono oltre mille, ma in Italia sono circa 55mmila. Sono anni che associazioni, organizzazioni e figure come Luigi Manconi ci ricordano inutilmente la sorte di queste persone dimenticate. Dall’inizio dell’anno nelle nostre carceri ci sono già stati 76 suicidi, più di quanti se ne siano contati in tutto il 2021 (58). Ma le statistiche non dicono degli infiniti atti di autolesionismo, compiuti da chi non ha più un grammo di speranza. Oppure da chi non ha più altro mezzo per provare a farsi ascoltare se non il proprio corpo. Se ne parla da anni, da decenni, ma niente è cambiato. In fondo consideriamo i detenuti delle donne e degli uomini perduti. Mancano le risorse per costruire istituti nuovi, che garantiscano dignità e un minimo di speranza di riabilitazione (è questo, anche, lo scopo della condanna). Non è garantita un’adeguata assistenza sanitaria, è ignorato il problema dei detenuti tossicodipendenti (quasi la metà) e di quelli con problemi psichiatrici che, dopo la chiusura sacrosanta degli Ospedali psichiatrici giudiziari, sono spesso stati sbattuti negli istituti comuni. Ma c’è di più: le condizioni delle celle, la qualità del cibo. Soprattutto ciò che garantisce un presente dignitoso e lascia aperto uno spiraglio di futuro. Quindi l’accesso dei carcerati a forme di lavoro, di istruzione e formazione professionale, di attività fisica e culturale. Più di tutto, però, i contatti umani: il covid ha compresso in modo insostenibile il diritto ai colloqui, alle telefonate con i parenti. Per non parlare della privazione dell’affettività; insomma, l’amore e, sì, anche la sessualità, che costituisce una pena accessoria e terribile. Non soltanto per i detenuti, ma anche per compagni/e e coniugi. “Sono stata condannata anch’io a dieci anni”, mi ha detto un giorno una donna che ogni mese va a trovare il marito rinchiuso: pochi minuti di colloqui, magari separati da una lastra di plexiglass, con le mascherine, senza neanche toccarsi. Nessun passo avanti. Le mancate riforme - Nessuna riforma seria che si occupi del reinserimento di chi alla fine esce: i legami con la famiglia (quando ne rimane ancora una), la casa, il posto di lavoro. Così come restano inascoltate le richieste di aiuto della Polizia penitenziaria: personale assolutamente inadeguato nei numeri, turni massacranti, un trattamento economico spesso umiliante. Soprattutto l’estrema difficoltà di compiere un lavoro di cui si stenta a vedere un senso. Sono tutti in qualche modo prigionieri: i carcerati, le loro famiglie, e gli operatori che oltre le mura di cinta trascorrono anch’essi gran parte della propria esistenza. Servono strutture e personale, servono investimenti consistenti. Occorre soprattutto volontà del mondo politico, ma anche di tutta l’opinione pubblica. Certo, un Garante può sembrare poca cosa di fronte a tutto questo, ma è invece indispensabile. Consente di denunciare violenze e maltrattamenti che altrimenti faticano a emergere; può sollecitare piccoli provvedimenti che, per chi vive di niente, cambiano la vita (una telefonata, una lezione scolastica, l’acquisto di un paio di attrezzi per la palestra). Ma può anche contribuire a rendere la giustizia più giusta. Come? Sollecitando incontri con i magistrati di Sorveglianza (anch’essi spesso sotto organico) oppure assicurandosi che i detenuti ricevano un’adeguata assistenza legale (dietro le sbarre non ci sono i Berlusconi, ma indagati o condannati spesso senza mezzi economici per difendersi adeguatamente). Così si recuperano le persone alla loro vita, ma anche alla società dove potranno tornare senza delinquere ancora. Sono sette giorni che digiuno. In fondo è poco più che un gesto simbolico. Non so se sia stato utile per i detenuti, ma certo è servito a me: privarci di qualcosa ci avvicina alla condizione di molte migliaia di persone. Ci fa sentire meno soli. Lecce. Detenuto di 40 anni si suicida: è il secondo caso in meno di un mese di Claudio Tadicini Corriere del Mezzogiorno, 15 novembre 2022 Ancora un suicidio nel carcere di Lecce. Il secondo in meno di un mese, dopo quello di un detenuto 32enne leccese avvenuto il 16 ottobre scorso, che si impiccò in cella durante il cambio turno degli agenti. Anche stavolta si tratta di un detenuto italiano, un 40enne, suicidatosi nelle scorse ore (anche lui per impiccagione) all’interno della sezione “Transito” del penitenziario del capoluogo salentino. Lo rende noto il segretario regionale Osapp Puglia, Ruggiero Damato, che parla di “sconfitta per il sistema carcere, in quanto il sistema non regge più per i turni massacranti che variano dalle 8 alle 14 ore, ripercuotendosi sulla qualità del servizio”. “Un personale con un’età media di 52/54 anni di età e con oltre 30 anni di servizio non consente un controllo capillare dell’utenza e non riesce a tutelare i detenuti fragili, che vengono non individuati in tempo utile. Così si perdono vite umane - denuncia Damato - ed il carcere non dovrebbe consentirlo”. Ariano Irpino (Av). Detenuto si impicca con una cintura Il Mattino, 15 novembre 2022 Un detenuto nel carcere di Ariano Irpino, in provincia di Avellino, si è tolto la vita all’interno della sua cella. L’annuncio è di Emilio Fattorello, consigliere nazionale del sindacato autonomo Osapp. Secondo una prima ricostruzione, l’uomo, 40 anni, originario della provincia di Salerno, si è impiccato all’inferriata della cella utilizzando una cintura. Sono risultati vani i tentativi di rianimarlo da parte degli agenti della polizia penitenziaria e del personale sanitario in servizio presso la casa circondariale. Sul posto è giunto il medico legale per i primi accertamenti. “Anche in questa drammatica occasione e con l’amarezza per una vita spezzata - sottolinea Fattorello - torniamo a denunciare con forza l’abbandono in cui versa la struttura che, in particolare in determinate zone, non garantisce una condizione dignitosa e umana della detenzione”. “È il sesto suicidio in Campania dall’inizio dell’anno. In Italia, dall’inizio di quest’anno a oggi, si è arrivati a 77 suicidi. Quattrocento novantuno i tentati suicidi negli istituti penitenziari e sessantaquattro i tentati sucidi in Campania: grazie al pronto intervento della polizia penitenziaria si è evitata una strage. Questi dati sono allarmanti, considerando che non sono mai stati così alti dall’inizio del secolo, in carcere il suicidio è la prima causa di morte” ha dichiarato il garante dei detenuti Samuele? Ciambriello, appena ha saputo della notizia del tossicodipendente, arrivato nel carcere da una settimana, che si è suicidato nella casa di reclusione di Ariano Irpino. Gli interventi sono stati tempestivi: gli agenti hanno cercato di rianimarlo sul posto prima dell’arrivo del 118. Ha detto che non c’era “nulla che lasciasse presagire quanto è accaduto. Certo ogni caso è un caso a sé, con diverse motivazioni, molte volte di solitudine di angoscia. Ma i dati allarmanti accendono i riflettori sulle carceri italiane: istituzioni totali, che non possono essere luoghi di isolamento dai territori, dalla società civile e dalla politica. Il carcere deve essere extrema ratio”. Bari. Torture nel carcere su 42enne con problemi psichici riprese dalle telecamere di Chiara Spagnolo La Repubblica, 15 novembre 2022 I pm chiedono l’interdizione anche per il medico e altri due agenti in servizio in carcere la notte dell’aggressione del detenuto, lo scorso 27 aprile. Dal fascicolo d’inchiesta sull’uomo emergono episodi di aggressione e minacce agli operatori e ad altri detenuti. Intanto dal fascicolo d’inchiesta emergono particolari sul detenuto affetto da problemi psichici, un 42enne barese che in due anni avrebbe aggredito otto volte operatori del carcere e tre altre persone in custodia, messo in atto sette atti di autolesionismo, minacciato sette volte gli agenti, causato tre incendi in cella e distrutto suppellettili per otto volte. Un quadro che se certo non giustifica il comportamento dei poliziotti violenti, servirà ai loro avvocati per cercare di delineare il clima difficile che si vive nel carcere di Bari, più volte denunciato dai sindacati e certificato anche nella prima comunicazione di notizia di reato alla Procura, in cui la comandante della Penitenziaria, Francesca Maria De Musso, citava il “depauperamento dell’organico”. I precedenti del detenuto - I cosiddetti “eventi critici” sono tanti. E non soltanto quelli avvenuti nel carcere di Bari, ma anche a Foggia, Lecce e San Severo. Il 4 febbraio, per esempio, aveva minacciato di morte alcuni agenti dicendo “se entri nella mia cella ti sgozzo” e lanciato fuori dalla stanza il telecomando e il televisore. Il 3 febbraio aveva ingerito una pila e lo stesso aveva fatto il 7 marzo. Il 23 gennaio aveva colpito con un manico di scopa un altro detenuto. In due occasioni aveva fatto a pezzi la coperta, ricavandone strisce per impiccarsi, e altre due volte aveva incendiato il materasso, rotto suppellettili, divelto il water e il lavandino. Il giorno dopo l’aggressione da parte dei poliziotti è stata trasmessa alla Procura una denuncia sull’incendio appiccato dal 42enne, con tanto di lancio di bombolette nella cella di tre detenuti di colore: “Per l’incolumità dei detenuti si procedeva all’evacuazione di tre stanze mentre il detenuto si barricava dentro la sua cella e poi veniva tratto in salvo dal personale”. I superiori all’oscuro di tutto - Dopo i fatti del 27 aprile nessuno aveva informato la direzione del carcere né il Comando della Polizia penitenziaria, al contrario di quanto è richiesto da specifici ordini di servizio. La notizia dell’aggressione è stata portata all’attenzione dei vertici soltanto dopo che il detenuto, protagonista di un procedimento disciplinare, ha riferito di essere stato picchiato. Subito dopo era stata avviata un’indagine interna, dalla quale era emerso che “i poliziotti, con i distinguo fra le varie posizioni, hanno commesso atti di evidente rilievo penale. “Hanno infierito contro un detenuto psichiatrico - è scritto nella nota inviata alla Procura - il quale giaceva sul pavimento della sezione, percuotendolo e abusando della loro autorità, violando i loro doveri istituzionali. Sicuramente non hanno giovato alla corretta gestione dell’emotività, la frustrazione e la tensione accumulata per mettere in sicurezza l’istituto e il detenuto ma questi fatti appaiono inaccettabili e coprono di discredito l’intero Comando”. Bari. Torture nel carcere, un agente arrestato ammette tutto e chiede scusa di Chiara Spagnolo La Repubblica, 15 novembre 2022 Interrogatorio di garanzia per i tre uomini della polizia penitenziaria ai domiciliari accusato di violenze su un detenuto con patologia psichiatrica. Un altro agente ha risposto al giudice respingendo le accuse, il terzo si è avvalso della facoltà di non rispondere. Ha ammesso i “fatti contestati”, chiedendo “scusa” e riferendo di “aver sbagliato” D.C., uno dei tre agenti di polizia penitenziaria di Bari messi agli arresti domiciliari dal 9 novembre scorso con le accuse di “torture” nei confronti di un detenuto di 41 anni affetto da patologia psichiatrica. D.C. e un altro agente, R.F. hanno risposto alle domande del gip nel corso dell’interrogatorio di garanzia, mentre il terzo collega, G.D., si è avvalso della facoltà di non rispondere. La presunta aggressione sarebbe avvenuta il 27 aprile scorso in carcere dopo che il detenuto aveva dato fuoco ad un materasso nella sua cella. Contrariamente a C. difeso dall’avvocato Fabio Schino, il secondo agente, R.F., difeso dall’avvocato Donato Marcucci, ha respinto le accuse riferendo di essere intervenuto in una “situazione di pericolo in seguito all’incendio”. Nessuna risposta, come detto, dal terzo agente ai domiciliari, il 57enne G.D., difeso dal legale Antonio La Scala. Lunedì 14 novembre ci sono stati anche gli interrogatori di garanzia degli altri sei agenti penitenziari indagati per i quali il gip ha disposto la misura della sospensione temporanea, dagli 8 ai 12 mesi. Tra gli agenti con l’interdizione più alta (12 mesi), A.R. ha fornito la propria versione dei fatti respingendo le accuse. Rosati è difeso dall’avvocato Salvatore Campanelli. Sono quindici complessivamente gli indagati, tra cui un medico e tre infermieri del penitenziario barese. I reati contestati a vario titolo sono tortura, falso ideologico e materiale, omissione di atti d’ufficio per non aver impedito le torture, violenza privata e omessa denuncia. Intanto i pm che coordinano le indagini, Giuseppe Maralfa e Carla Spagnuolo, hanno disposto per il 17 novembre prossimo un accertamento tecnico non ripetibile sui telefonini sequestrati agli indagati. Torino. “In carcere situazione inumana” di Massimo Massenzio Corriere Torino, 15 novembre 2022 La visita del componente della Commissione Giustizia dopo il quarto suicidio nel penitenziario (su 78 in totale). Blitz del senatore Scalfarotto al Lorusso e Cutugno: “Ma nella struttura anche eccellenze”. Dopo due suicidi e due rivolte nel giro di poco più di un paio di settimane, la situazione esplosiva della casa circondariale Lorusso e Cutugno è finita sotto la lente di ingrandimento dei parlamentari eletti in Piemonte. Dopo la visita del senatore Pd Andrea Giorgis, ieri mattina all’ingresso del carcere delle Vallette si è presentato Ivan Scalfarotto (Italia Viva), membro della commissione giustizia di Palazzo Madama. Un’ispezione a sorpresa durata quasi tre ore, durante le quali ha ispezionato i padiglioni più critici dell’istituto penitenziario, accompagnato dal nuovo comandante della polizia penitenziaria Sarah Brunetti. Scalfarotto è stato fermato da diversi detenuti e ha voluto vedere la sezione dove due detenuti si sono impiccati nel giro di 15 giorni. Il Padiglione C, dove anche Tecca Gambe si è tolto la vita: “È la parte peggiore, una “kasbah”, disordine assoluto - continua Scalfarotto -. Ho visto gente ferita e sentito urla che facevano rabbrividire. Ho incontrato un detenuto che mi ha portato a visitare la sua cella fatiscente. Poi si è sollevato la maglietta e mi ha mostrato le ustioni sul corpo che gli avrebbero fatto altri detenuti versandogli addosso l’olio bollente. Mi ha detto che da tre mesi era in quel padiglione, se fosse vero sarebbe davvero inquietante. Purtroppo chi prende decisioni sulle carceri non sa come è fatta una cella ed è come se un dentista non sapesse quanto male fa il trapano. I trattamenti inumani e degradanti sono criminogeni. La persona del reo è sacra perché lo Stato amministra la giustizia, non la vendetta. Questa è una priorità per il Paese, bisogna farsene carico e tornerò presto a Torino” “Le condizioni del carcere? Sono la dimostrazione del fallimento dello Stato”. Parole dure quelle di Monica Cristina Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà per la Città di Torino. Dal 2015 a oggi Gallo ha denunciato moltissime volte le carenze strutturali del Lorusso e Cutugno, ma di cambiamenti se ne sono visti ben pochi: “Non posso che elogiare l’attuale direzione e quelle precedenti per l’impegno profuso, ma purtroppo le risorse dell’amministrazione penitenziaria centrale sono troppo poche”. La struttura è fatiscente e solo sul Sestante (il “reparto degli orrori”) è stato deciso un intervento di ristrutturazione massiccia, sull’onda emotiva delle inchieste giudiziarie: “La stessa cosa bisognerebbe farla con tutti gli altri padiglioni. Chiuderli, trasferire i detenuti e procedere a una riqualificazione che restituisca dignità. Invece si continua a impegnare la “manutenzione ordinaria” e ciclicamente ci si trova ad affrontare problemi che si ripresentano”. Anche Gallo, come Scalfarotto, è convinta che il carcere in queste condizioni perda la sua funzione rieducativa: “Vale la teoria delle “finestre rotte”, ma in senso letterale - continua la garante. Se un detenuto è costretto a chiedere il silicone per chiudere gli spifferi alla fine non è strano che quelle finestre voglia romperle, invece di ripararle. È evidente che il sistema penitenziario va ripensato. Pensiamo a cosa si potrebbe fare a Torino con 700 detenuti invece di 1400. Andiamo incontro alle festività natalizie, un periodo storicamente critico, bisogna fare attenzione”. Molte preoccupazioni sono state espresse anche dai sindacati di polizia penitenziaria. All’uscita del carcere due rappresentanti hanno incrociato casualmente il senatore Scalfarotto e hanno avuto un vivace confronto: “Siamo felici che un componente della commissione giustizia sia finalmente venuto a Torino, finalmente qualcosa si muove. Da anni denunciamo lo stato pietoso delle Vallette. Abbiamo segnalato la presenza di ratti e scarafaggi e più in generale, condizioni insalubri per un ambiente di lavoro. Quasi quotidianamente raccontiamo le aggressioni subite dagli agenti, 35 dall’inizio dell’anno, ma finora nessuno ci ha risposto. Siamo pienamente convinti che sia fondamentale garantire i diritti dei detenuti, ma vorremmo che qualcuno, ogni tanto, pensasse anche ai nostri. Un carcere sovraffollato dove mancano direttive precise da parte dell’amministrazione centrale, non è un luogo di rieducazione, ma un posto pericoloso. Dove un solo agente non riesce a proteggere i deboli dai soprusi dei forti”. Le organizzazioni sindacali chiedono di essere ascoltati dal ministro della giustizia, Carlo Nordio dal sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove e dal sindaco Stefano Lorusso. A Scalfarotto hanno mostrato le fotografie di alcuni dei 65 agenti feriti durante le “intemperanze” dei detenuti: “Non ci interessano le polemiche - hanno concluso -. Noi vogliamo un carcere trasparente come una “casa di vetro”, con telecamere nelle sezioni. Dove i detenuti non si rivoltano e rispettano le regole. Ma le regole ci devono essere e per questo chiediamo aiuto”. Udine. Morto in carcere, la madre chiede verità: “Avvisata appena il giorno dopo, perché?” di Nicolò Giraldi triesteprima.it, 15 novembre 2022 Leudy Gomez Rodriguez aveva solo 22 anni. È stato trovato morto nella sua cella lunedì scorso, ma in famiglia nessuno crede al suicidio. “Qual è la verità?”. La compagna Asia: “Tutte le persone che incontro mi dicono di andare a fondo. Avevamo in mente di sposarci, di ricominciare. Non può essere andata così”. “Tutte le persone che incontro mi dicono “Asia vai a fondo”, non può essere andata così. Dicono che si è suicidato con un lenzuolo ma la mattina mi aveva detto che aveva passato la notte al freddo, senza neanche un lenzuolo per coprirsi”. Leudy Gomez Rodriguez aveva solo 22 anni. L’hanno trovato morto una settimana fa, in una cella del carcere di via Spalato, a Udine. A far luce sulle cause del decesso ci penserà l’autopsia disposta dalla Procura della Repubblica del capoluogo friulano, in programma domani 15 novembre. Le prime notizie del decesso del giovane di origini dominicane parlano di suicidio, ma la madre Lucrecia e la compagna Asia non credono al gesto disperato. “Il giorno dopo avrebbe avuto un’udienza importante - così Asia -, perché mai si sarebbe dovuto togliere la vita quando c’era ancora la speranza che tornasse ai domiciliari? Avevamo parlato di fare l’istanza per il matrimonio, per ricominciare una nuova vita. Perché mai avrebbe scelto di farla finita?”. La telefonata delle 10:03 e l’udienza l’indomani - Il giorno dopo il decesso Leudy si sarebbe dovuto presentare in tribunale a Trieste. In quell’aula, il ventiduenne non c’è mai arrivato. Muore nel pomeriggio di lunedì 7 novembre. Asia ascolta la sua voce per l’ultima volta qualche ora prima, precisamente alle 10:03. “Ci siamo sentiti al telefono sabato (nel carcere di Udine i famigliari dei detenuti hanno a disposizione quattro chiamate da dieci minuti a settimana, più un’ora di videochiamata ndr), e gli ho detto che avevo prenotato la chiamata in video alle 9:40 di lunedì” racconta Asia. Si sveglia, ma alle 9:40 non arriva la telefonata concordata. “Avevo iniziato a scrivergli una lettera che non ho mai finito” sottolinea la compagna. L’ansia cresce, ma pochi minuti dopo le 10 ecco la telefonata, non in video però. “Fatti dare questa videochiamata, gli ho detto. Poi ha chiuso, ma da quel momento fino le 13 ho passato il tempo a sperare che mi passassero Leu. Ho pensato, non vogliono farmelo vedere, ma mi sono rassicurata grazie al fatto che l’avrei visto l’indomani”. Leudy non si presenta a quell’appuntamento perché è già morto, dentro ad una cella. Lucrecia viene avvisata 24 ore dopo: “Qual è la verdad?” - Passano le ore ma la madre Lucrecia non sa ancora niente, verrà avvisata del decesso solamente il giorno dopo. “Ho telefonato per vedere il corpo, ma mi è stato detto che non serviva andare a Udine, perché una volta trasferito il corpo a Trieste per la sepoltura lì avrei potuto stare con lui in una stanza quanto volevo. Ho risposto che ero già in viaggio, e che non potevo aspettare”. Lucrecia arriva in via Spalato il 9 novembre. Leu è lì, davanti ai suoi occhi. “Hanno detto che si è impiccato con un lenzuolo, ma quello che ho visto io non è un segno di un lenzuolo. Nella parte sinistra del collo c’è una macchia di sangue, ma io non ho mai visto nessun impiccato sanguinare da dietro il collo. Mi ha messo tanto in dubbio”. Lucrecia non si dà pace e focalizza la sua testimonianza su un dettaglio importante. “Lui è morto lunedì alle 15, ma io sono stata avvisata martedì pomeriggio, esattamente 24 ore dopo. Perché, mi chiedo, perché non mi hanno avvisata subito? Qual è la verdad di tutto questo?”. “Non vogliamo accusare nessuno, solo chiarimenti” - La famiglia sente “l’esigenza di avere qualche chiarimento, non vogliamo accusare nessuno” dicono. Secondo la madre e la compagna, dal carcere avrebbero fatto sapere che “l’unico recapito lasciato era quello della madre, ma io non ho ricevuto alcuna telefonata”. Se venisse confermata l’ipotesi del suicidio, nelle carceri italiane il caso di Leudy rappresenterebbe l’ennesimo dramma di un 2022 particolarmente tragico. “Abbiamo contattato anche l’associazione Antigone - spiega Asia - perché vogliamo ottenere la verità”. Secondo le testimonianze che Leudy aveva condiviso con la sua compagna al telefono, il giovane dominicano “aveva chiesto più volte ai secondini di essere spostato di cella. Il compagno gli chiedeva soldi, voleva i suoi tabacchi, era molto complicata la convivenza”. Quando chiede, la risposta che arriva al giovane è parte di un gergo che si impara tra le stelline delle uniformi, retaggio di anacronistici cameratismi, eppure evidentemente ancora in voga tra le carceri e le caserme. “Il compagno di cella è un problema tuo”. “Vogliamo la verità”, la forza della madre e della compagna - Leudy reagisce male a quella frase e sfoga la sua rabbia tirando un calcio ad una bomboletta di gas (modello campeggio ndr). Da lì viene portato in isolamento. “Da quando era arrivato a Udine - così Asia - mi diceva che la situazione era peggiorata, l’ambiente era poco permissivo e molto crudo”. Di che cosa aveva paura Leudy? “Non veniva ascoltato, mi diceva sempre che gli rispondevano male, si sentiva preso di mira”. Fuori piove e nel rione di Chiarbola, dove vive la famiglia, l’aria si è fatta pesante. “Non si arrendeva mai - spiega Asia -, le persone che incontro non credono a questa storia. Mi hanno detto vai in fondo, con quello che abbiamo in mano fino ad oggi non è andata così”. “Voglio che salti fuori la verità - conclude la madre -, per darmi pace, anche se so che non sarò mai più tranquilla in vita mia. Io voglio indagare, voglio capire se lui si è suicidato, se qualcuno l’ha portato al suicidio o se qualcuno l’ha ammazzato”. Viterbo. Suicidio in carcere, “Hassan si feriva le braccia e l’agente gli ha dato uno schiaffo” di Maria Letizia Riganelli Il Messaggero, 15 novembre 2022 “Mentre era nella cella di isolamento era agitato, più volte allungava le braccia dalla finestrella del blindo per richiamare l’attenzione. Si è anche ferito alle braccia e poco dopo è entrato un agente penitenziario e gli ha dato uno schiaffo che lo ha sbattuto contro il muro”. Il racconto degli ultimi istanti di vita del giovane Hassan Sharaf viene rivissuto in aula attraverso la testimonianza del maresciallo dei carabinieri a cui la Procura delegò le indagini. Hassan era un ventenne egiziano ristretto nel carcere di Viterbo, che l’estate del 2018, a meno di 90 giorni dal termine della pena, ha deciso di farla finita. Una decisione, che secondo la difesa dei suoi familiari - avvocati Giacomo Barelli e Michele Andreano - sarebbe stata indotta dalle condizioni disumane in cui vivono i detenuti di Mammagialla. Il 23 luglio del 2018 dopo una serie di atti autolesionisti Hassan tenta il suicidio nella cella dell’isolamento. Morirà una settimana dopo a Belcolle. I dettagli di quei momenti sono stati subito portati all’attenzione della Procura di Viterbo che ha prima aperto un fascicolo per istigazione al suicidio in carcere e poi ha chiesto l’archiviazione. Gli avvocati di parte civile hanno presentato opposizione. E dopo un lungo braccio di ferro, la Procura generale ha avocato il caso e ha revocato la richiesta di archiviazione. Questo lungo braccio di ferro ha scaldato molto gli animi tra le parti anche ieri mattina. Quando parte civile e Procura sono spesso state su fronti diversi. Tanto che la giudice Elisabetta Massini più volte è stata costretta ad intervenire, sottolineando che nella sua aula mai nessuno ha chiuso gli occhi e che la giustizia è davvero uguale per tutti. Nel processo celebrato ieri si parla solo di abuso dei mezzi di correzione di cui rispondono due agenti, difesi dall’avvocato Giuliano Migliorati, che avrebbero tirato un ceffone ad Hassan poco prima che lui tentasse il suicidio. Per capire cosa sia veramente successo tra i corridoi e le celle di Mammagialla i carabinieri del Nucleo investigativo hanno acquisito le immagini delle telecamere di sorveglianza. In particolare quelle della telecamera 35, che inquadra le stanze 2 e 3 dell’isolamento e quelle dei corridoi dove avrebbe transitato Hassan nei minuti prima dell’isolamento. “Vediamo la vittima uscire tranquilla dalla stanza numero 9. Camminava da solo e non sembrava agitato. Ma una volta dentro la stanza 2 dell’isolamento ha iniziato ad essere nervoso. Si vedono le sue mani più volte che escono dalle sbarre, gli atti di violenza sulle braccia e la costante ricerca di attenzione. E si vede uno degli agenti, oggi imputato, che più volte chiude la finestra del blindo e poi entra e toglie dalla stanza un secchio rosso e gli tira uno schiaffo che lo fa finire con la testa contro il muro. Poi chiude tutto e quando ritorna per controllare vede il tentativo di suicidio. Entra e 11 secondi dopo esce e richiude a chiave la cella. Probabilmente va a chiamare i soccorsi”. Il 118 arriverà solo molto dopo, quando per il ragazzo egiziano sarà già in coma. Roma. Il nido di Rebibbia senza puericultrici: interviene il Garante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 novembre 2022 Alla sezione nido del carcere romano di Rebibbia manca la figura professionale della puericultrice. È il garante nazionale delle persone private della libertà a stigmatizzare la carenza di personale specializzato nell’assistenza dei bambini in una Sezione dedicata all’accoglienza di donne con bambini di età tra i zero e tre anni. Tale osservazione scaturisce da una visita ad hoc effettuata il 24 settembre scorso dal Garante. La delegazione era composta dal Presidente Mauro Palma e da Daniela de Robert del Collegio. Come viene sottolineato dal rapporto, La casa circondariale femminile di Rebibbia è il più grande dei quattro Istituti femminili presenti sul territorio nazionale con 329 donne ristrette (con una capienza di 271 posti, di cui 264 disponibili). La cosiddetta “Sezione nido’, per le donne detenute con prole di età inferiore ai tre anni, ha una capienza di 13 posti e ospitava il giorno della visita cinque donne e sei bambini, tre dei quali avevano otto mesi e altri tre due anni. Due donne erano incinte, al sesto e all’ottavo mese di gravidanza. Il personale nella Sezione è composto da una unità di Polizia penitenziaria e, al mattino, un’operatrice socio sanitaria (Oss). Come è stato illustrato alla delegazione del Garante nazionale, tale limitata dotazione è conseguente al mancato rinnovo dei contratti alle sette puericultrici che garantivano una presenza nell’arco di tutta la giornata. Ciò è avvenuto nel luglio 2022: secondo quanto riportato, la motivazione addotta faceva riferimento alla mancata presenza di madri con bambini nella Sezione. In realtà, le statistiche ministeriali informano che al 30 giugno 2022 - data di risoluzione del contratto - erano presenti due madri con tre bambini, al 31 luglio ne erano presenti tre con quattro bambini e il dato si è ripetuto anche nel mese successivo, aumentando in settembre. Il Garante nazionale ha quindi chiesto al Dap di essere informato sulle motivazioni che hanno portato a tale decisione e altresì di conoscere come la Direzione dell’Istituto e il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria abbiano reagito a tale nuova situazione al fine di assicurare la dovuta assistenza ai bambini. Infatti - si legge nel rapporto - l’organizzazione precedente tale data, prevedeva la presenza di due puericultrici dalle ore 8.00 alle ore 14.00 e altre due dalle ore 14.00 alle ore 20.00. In totale le puericultrici precedentemente impiegate erano sette, alcune di consolidata esperienza. “Colpisce che - osserva il Garante Nazionale -, nel perdurare di un dibattito favorevole al superamento delle “sezioni nido’ e della conseguente presenza di bambini in carcere, e nel ripetersi di dichiarazioni, a ogni livello istituzionale, di volontà di procedere in tale direzione, non si sia provveduto a mantenere in questo Istituto neppure il livello dell’assistenza esistente e si siano implicitamente affidati compiti incongrui rispetto al proprio profilo professionale agli operatori socio-sanitari (afferenti alla Cooperativa ‘Nuova Sair’)”. Il Garante, precisa nel rapporto, ha ben chiaro che le ‘Sezioni nido’ rappresentano sempre una soluzione arretrata a un problema di complessiva civiltà e che devono essere prospetticamente superate quali strutture per alloggiare detenute madri con prole. Tuttavia, ha altresì chiaro che nel loro permanere devono soddisfare le esigenze richieste dalla tutela della cresciuta il più possibile armoniosa di bambini che si trovano in una condizione di oggettiva difficoltà. Pertanto, ritiene necessario richiamare le Autorità responsabili alla coerenza con gli standard nazionali e sovranazionali e raccomanda che: sia immediatamente ripristinato il servizio delle puericultrici nella ‘ Sezione nido’ e sia assicurata una copertura oraria per l’intera giornata; sia istituito un gruppo stabile di operatrici di Polizia penitenziaria che, adeguatamente formato, si dedichi alla sicurezza della ‘ Sezione nido’ nella piena considerazione della specificità di tale Sezione all’interno dell’Istituto penitenziario; sia assicurata alle donne ristrette nella ‘ Sezione nido’ la possibilità di accedere, con il supporto di tutte le figure professionali previste, a percorsi trattamentali (di istruzione, culturali, sociali, lavorativi) al pari delle donne delle altre Sezioni. Il Dap, recependo le osservazioni giunte dal Garante, ha preso contatti con i vertici della Asl Roma 2 per porre la questione della carenza di personale specializzato nell’assistenza ai bambini e a proporre un piano per il miglioramento degli standard assistenziali nella stessa sezione. Ma nulla, per ora, emerge sul piano trattamentale per le donne detenute, loro madri. Bologna. Dialogo tra detenuti e cittadini: al via il progetto “Parlami dentro” di Noemi di Leonardo bolognatoday.it, 15 novembre 2022 Un invito a dedicare un po’ di tempo e scrivere una lettera a un detenuto sconosciuto quindi “a persone ristrette che hanno perso la propria libertà e vivono la propria quotidianità tra le mura del carcere. Un’occasione per dedicare un pensiero, una riflessione, un augurio o un saluto alle persone detenute alla Casa circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna. L’iniziativa è stata ideata da Fondazione Vincenzo Casillo in collaborazione con Liberi Dentro - Eduradio & TV nell’ambito del progetto “...perché ci vuole una città: la Salute mentale come bene comune” Nell’ambito del progetto “...perché ci vuole una città: la Salute mentale come bene comune”, promosso da Azienda USL di Bologna, Università di Bologna e Comune di Bologna, la Fondazione Vincenzo Casillo e Liberi Dentro Eduradio & TV propongono ai cittadini della Città metropolitana di Bologna di entrare in contatto con i detenuti della Dozza, dedicando loro un pensiero, una riflessione, un augurio o un saluto. L’appello è di fermarsi un attimo e l’invito è di dedicare un po’ di tempo per riflettere e scrivere una lettera a un detenuto sconosciuto: persone ristrette che hanno perso la propria libertà e vivono la propria quotidianità tra le mura del carcere, immersi in un tempo vuoto, senza lancette, indistinto. E proprio per questo motivo in attesa, desiderosi di un contatto, di una parola, di un segno dall’esterno. Il progetto offre l’opportunità a ciascun cittadino di aprirsi all’altro, al simile e diverso: a chi vive una condizione di reclusione, di privazione, ma pur sempre desideroso di agire, di continuare a sperare e comunicare. Coloro che vorranno aderire all’appello hanno tempo fino all’11 dicembre per scrivere e inviare il proprio messaggio all’indirizzo mail parlamidentro@gmail.com. Una selezione di lettere verrà letta durante il mese di dicembre nel programma radio-televisivo regionale Liberi dentro - Eduradio & TV, in onda su Icaro TV (canale 18, Lepida TV) e su Radio Città Fujiko (103.1 FM), seguito dai circa 800 detenuti della Casa circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna. Tutte le puntate saranno anche disponibili sul canale YouTube di Liberi dentro - Eduradio & TV. L’iniziativa, ideata da Fondazione Vincenzo Casillo e realizzata con Liberi Dentro – Eduradio & TV, è sostenuta da Azienda USL di Bologna, Università di Bologna e Comune di Bologna, e nasce con lo scopo di rinsaldare il valore della comunità, in particolare abbattendo il muro di indifferenza e distanza che divide i cittadini e i detenuti. Un impegno emerso in modo forte e chiaro tra i partecipanti al tavolo di conversazione dedicato al carcere, condiviso con la cittadinanza in occasione di un evento organizzato in Piazza Dalla a fine ottobre. Livorno. Il documentario “Gorgona” vince il Festival dei Popoli iltelegrafolivorno.it, 15 novembre 2022 Il reportage di Antonio Tibaldi sull’isola carcere si aggiudica il premio “Il lavoro dei detenuti questo contesto assume un’importanza monumentale”. Cosa succede a Gorgona, l’isola-carcere nel mare toscano davanti Livorno? Lo ha raccontato Antonio Tibaldi in “Gorgona” documentario vincitore del Concorso Italiano alla 63esima edizione del Festival dei Popoli. La cerimonia di premiazione si è svolta sabato 12 novembre al cinema La Compagnia di Firenze. La Gorgona, a una trentina di chilometri da Livorno, è un’isola-carcere, ma del tutto particolare. È l’unico penitenziario in Europa concepito come una colonia agricola, in cui i detenuti lavorano per produrre verdure o formaggi, per allevare animali o curare orti. Uno spazio di lavoro che permette ai detenuti di vivere all’aria aperta, in un ambiente che sembra un paradiso. Antonio Tibaldi è un regista italo-australiano che vive a New York. I suoi film sono stati presentati in festival internazionali tra i quali Sundance, San Sebastian, IDFA, Rotterdam e Tribeca. Per UNTV (Televisione delle Nazioni Unite) realizza documentari in Sud America, Centro America, Africa e Asia. Lo sguardo della macchina da presa di Tibaldi segue le giornate di chi sconta una pena e di chi lavora in un carcere che non sembra un carcere e che la macchina da presa restituisce al nostro sguardo come fosse uno spazio fuori dal mondo. “Al termine del primo sopralluogo nel 2017 - racconta Tibaldi - ho scoperto che in Gorgona esiste un ‘mondo parallelo’ unico e sorprendente. Non essendoci negozi, ristoranti, cellulari, macchine, motorini, è come se il tempo si fosse fermato e non avesse contaminato l’isola. Il mio lavoro è stato quello di osservare con la telecamera il comportamento umano che avveniva di fronte a me. Osservare innanzitutto il lavoro dei detenuti che questo contesto carcerario assume un’importanza monumentale”. Il carcere raccontato da padre Trani di Roberta Pumpo romasette.it, 15 novembre 2022 Cappellano penitenziario da 50 anni, il francescano “restituisce” storie e volti incontrati prima a Rebibbia poi a Regina Coeli nel libro scritto con Natoli e Pellegrini. Una persona che ha violato la legge e finisce in carcere non deve perdere la dignità di essere umano. “È necessario avere un volto più tenero e più bello verso la realtà carceraria”. Ad auspicarlo è stato padre Vittorio Trani, francescano conventuale, da cinquant’anni cappellano penitenziario. Dal 1972 al 1974 ha svolto il suo ministero a Rebibbia; dal 1978 è nella casa circondariale di Regina Coeli. La sua esperienza pastorale, le sue riflessioni sulle misure alternative e sull’importanza della rieducazione, sui diritti dei carcerati e sul senso della pena, sono racchiuse nel libro “Come è in cielo, così sia in terra. Il carcere tra giustizia, perdono e misericordia”, edito dalle Paoline, presentato venerdì 11 novembre nella Sala del Refettorio di Palazzo Venezia. In dieci capitoli, dialogando con i giornalisti Stefano Natoli e Agnese Pellegrini, racconta alcune storie dei 250mila detenuti accompagnati in mezzo secolo. “Volti e nomi, storie e paure in queste pagine si susseguono - scrive nella prefazione il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano -. Sembra quasi di vederli, questi detenuti, con i loro sbagli, i loro errori, ma anche con la loro voglia di ricominciare, di tornare a sperare”. Non solo aneddoti: nelle pagine viene anche “dato risalto a ciò che non va, agli aspetti da rivedere” ha affermato padre Trani durante la presentazione, sottolineando che per esempio bisogna puntare sulle misure alternative e sulla rieducazione del detenuto anche in vista di un reinserimento nel mondo del lavoro una volta scontata la pena. “Bisogna ritrovare il buon senso - ha aggiunto -, bisogna trovare soluzioni alle tante questioni farraginose ma senza fare polemica, che è la cosa più stupida”. Il suo ministero da cappellano penitenziario, ha spiegato padre Trani, è iniziato per obbedienza al suo superiore ma oggi “la verità è che in questi cinquant’anni sono stato felice”, scrive nel libro. Ed è per questo che durante l’incontro, moderato dal direttore di Tv2000 Vincenzo Morgante, ha colto l’occasione per dire ai suoi confratelli che quella del cappellano “è un’esperienza arricchente, straordinaria che permette al sacerdote di approfondire la realtà umana”. Don Antonio Rizzolo, direttore generale dell’apostolato della Società San Paolo in Italia, che firma la postfazione, dati alla mano ha ribadito che l’attuale realtà carceraria “non funziona e bisogna concentrarsi sulla giustizia riparativa”. Citando i dati di un recente rapporto dell’associazione Antigone ha ricordato che solo il 38% dei detenuti è al suo primo ingresso in carcere, il restante 62% è stato recluso almeno un’altra volta, di questi il 18% cinque o più volte. Bisogna cambiare rotta perché “il carcere è lo specchio di una società e oggi lo specchio non ci mostra una bella immagine”. Nelle oltre 200 pagine del libro, per padre Francesco Occhetta, docente alla Pontificia Università Gregoriana, emerge anche “un volto bello di Chiesa”, un racconto che porta a “fare contemplazione” e che insegna “la forza dell’incontro”. Un testo che consiglia di “far leggere agli studenti universitari” perché è “luce nelle tenebre di un mondo dimenticato”. La giornalista Agnese Pellegrini da sei anni è volontaria in carcere, prima nella Casa di reclusione di Milano-Opera e ora a Regina Coeli. Soffermandosi sul “diritto alla dignità” dei carcerati ha parlato di “un mondo che non si aspettava”, dove la realtà di quello che vivono i reclusi rimane intrappolata tra le sbarre “e non viene mai raccontata all’esterno. Non si dice mai che nelle celle ad agosto si superano i 40 gradi, che non ci sono condizionatori, che spesso le docce d’inverno non hanno l’acqua calda, che i detenuti con malattie psichiatriche non hanno adeguate terapie e che i tossicodipendenti, i quali dovrebbero seguire un processo di disintossicazione, vengono invece abbandonati”. Situazioni che fanno risaltare come “il nostro Paese è incivile - ha aggiunto Stefano Natoli, volontario al Milano-Opera e membro dell’associazione Nessuno Tocchi Caino. Togliere ai detenuti ogni diritto è da incivili. Tutti possiamo sbagliare ma questo non significa che la propria vita debba essere annullata”. Migranti, profughi, naufraghi? Sono “persone”, non parole: vale la Legge degli Esseri Umani di Marta Serafini Corriere della Sera, 15 novembre 2022 I fatti di questi giorni di Catania hanno riproposto la drammaticità di un’emergenza. E ribadito come soccorrere oggi è ancora necessario: è un dovere morale. Come ti comporti con lo straniero, più di tutto questo dice chi sei, recita un proverbio che mi ha insegnato Jihan, una donna curda. Straniero è chi arriva da fuori. In questi giorni a Catania, mentre mi trovavo sul molo davanti alle navi su cui i migranti venivano “selezionati” - sono poi sbarcati tutti - ho faticato a non sentirmi straniera in casa mia. Ma consapevole quanto sia facile, quando si parla di migranti e di soccorsi in mare, cadere nella trappola della retorica, ho cercato di non farmi travolgere dalle emozioni, dalla rabbia e dal dolore, che può provocare il racconto e la vista delle cicatrici ben visibili su quei corpi. La questione - quella che qualcuno chiama “emergenza” - è strettamente legata alle vicende politiche. Ma è anche strettamente connessa agli ideali e ai principi che rendono un Paese democratico. Uguaglianza, solidarietà, fratellanza. E, ancora, in questi giorni abbiamo sentito ripetere più volte le parole naufraghi, migranti, sopravvissuti, richiedenti asilo: si cerca di trovare definizioni per tentare di regolare un flusso, quello migratorio, connesso alle guerre, le carestie, le crisi economiche e climatiche. Ma c’è - ed è fondamentale ricordarsene - un dato che va oltre le parole: siamo di fronte a esseri umani che lasciano la loro casa. Oggi tocca a loro, domani potrebbe toccare noi, come già accaduto in passato e come accade ancora. E c’è un altro dato da tenere bene presente impresso nella propria mente: morire di ipotermia o annegati in mare perché la politica non riesce a regolare le avidità di regimi, trafficanti e bande criminali, è inaccettabile. Ecco perché soccorrere, oggi, è ancora necessario. Nel rispetto delle regole, certe. Ma il diritto vale se è certo e se vale per tutti. Non se diventa un paravento dietro cui nascondere scelte funzionali alla ricerca del consenso dell’opinione pubblica, che a farlo sia un attore istituzionale, ossia i governi e i tecnici, o un attore della società civile, come le ong. È un dovere morale. Non è solo la legge del mare. È la legge che il diritto internazionale tenta di salvaguardare. È la legge degli esseri umani. Rispettarla significa potersi definire tali. Migranti. Il Colle ricuce lo strappo, ma il governo studia un decreto anti Ong di Paolo Delgado Il Dubbio, 15 novembre 2022 Colloquio Mattarella-Macron sulla questione migranti. Ma ora Meloni dovrà convincere l’Ue che ha difeso le navi dedite al salvataggio di vite. Sergio Mattarella ha fatto quello che poteva e ha creato una possibilità di uscire dall’impasse che fino a ieri non esisteva. Cogliere questa opportunità, difficilmente ripetibile, sta ora al governo francese ma soprattutto a quello italiano. Mettendosi direttamente in gioco, il presidente della Repubblica italiana ha permesso a quello della Repubblica francese di interrompere l’escalation degli ultimi giorni e di raffreddare la tensione senza perdere la faccia, cosa altrimenti impossibile dopo quanto la Francia si era esposta negli ultimi giorni. Sulla carta non è detto che Macron sfrutti la possibilità. Nei fatti dovrebbe invece essere quasi certo, altrimenti le diplomazie dell’Eliseo e del Quirinale avrebbero evitato l’incontro telefonico. Del resto, di una via d’uscita Macron aveva e ha bisogno quanto Giorgia Meloni. Sulla disponibilità del governo italiano a fare i passi indietro necessari per ricucire lo strappo, invece, è lecito e necessario dubitare. Non è chiaro se l’intervento del capo dello Stato sia stato discretamente chiesto da palazzo Chigi, nei guai sino alle guglie. Ma si può escludere che del passo del presidente il capo del governo non fosse stato informato in anticipo, dunque anche da questa parte delle Alpi una certa disponibilità dovrebbe esserci. Ma fino a che punto arriva questa disponibilità? E sarà sufficiente per rabbonire non solo Parigi ma anche una Ue che, pur non avendo affatto apprezzato l’escalation francese non intende però concedere niente a Roma e che si è premurata di chiarire che le navi che salvano persone in pericolo sono tutte uguali, estendendo così l’ombrello protettivo sulle Ong nel mirino del governo italiano? Per ora, nonostante sia consapevole dei problemi che il braccio di ferro sui migranti inevitabilmente creerà, Giorgia Meloni non sembra intenzionata a sacrificare la crociata, ultima ridotta del suo già per molti versi messo da parte sovranismo. È possibile che, fosse per lei, abbasserebbe quanto meno il volume di fuoco ma Salvini sta lì apposta per forzarle in continuazione la mano e comunque anche sulle sue intenzioni non vi sono certezze, se è vero che nei giorni scorsi ha manifestato franca irritazione nei confronti del ministro Piantedosi per aver aperto lo spiraglio attraverso il quale sono sbarcati tutti i migranti. Se le voci in questione sono fondate, è segno che la premier avrebbe voluto tenere i migranti a bordo, proprio come Salvini. La sola certezza è che il governo sta preparando un decreto che mira proprio a rendere la vita delle navi Ong difficile. Cosa conterrà il dl prossimo venturo non è ancora sicuro ma probabilmente ripristinerà in buona parte i vecchi decreti sicurezza di Salvini, riscriverà la lista dei porti sicuri, renderà molto meno cogenti le norme sulla protezione e cercherà una via per sequestrare o multare pesantemente le navi Ong. La dichiarazione della Ue mira proprio a evitare quest’ultimo passaggio e avverte l’Italia che procedendo su quella rotta entrerà in collisione anche con Bruxelles e Berlino, che per ora hanno respinto gli appelli francesi a fare muro contro l’Italia. Muoversi sulla fune sottile che permetterebbe all’Italia di sventolare la bandiera della linea dura rasentando la scontro con la Ue e con i Paesi europei, riuscendo però a evitarlo in extremis, non è impossibile. Però non è neppure facile e richiede una perizia diplomatica che si trova all’opposto esatto di quella che il neonato governo ha sin qui dimostrato. L’asse anti Ong con Cipro, Malta e Grecia è un ennesimo esempio di questa clamorosa imperizia. Per risolversi in una dimostrazione di forza e poter almeno ambire a incidere quella linea doveva essere adottata anche dalla Spagna. Senza l’adesione del secondo grande Paese del Sud Europa dopo la stessa Italia, il quadro si capovolge e il pronunciamento suona come una prova di debolezza e isolamento. L’Italia, tuttavia, ha deciso di muoversi comunque lungo quella linea, anche dopo il rifiuto della Spagna. La chance offerta dalla mossa del Quirinale è concreta ed è auspicabile che il governo Meloni non si lasci sfuggire l’occasione per rientrare in un clima più disteso, più che mai necessario per l’Italia data la portata delle altre partite in gioco, quella del Piano Energia e del Price Cup, quella delle nuove regole sui conti pubblici. Ma un po’ per la necessità di tenere il punto almeno su un fronte, un po’ per le non disinteressate pressioni di Salvini, un po’ per goffaggine e inesperienza, non è affatto detto che le cose vadano così. Migranti. A processo senza interprete: lo strano caso della Iuventa di Simona Musco Il Dubbio, 15 novembre 2022 Nuovo tentativo di interrogatorio a Trapani: l’improbabile traduttore è un ex poliziotto. La Ong: “Un procedimento senza prove e in violazione dei diritti”. Il più grande procedimento penale contro le Ong rimane ancora una volta senza interprete. E ancora una volta, l’interrogatorio di Dariush Beigui, capitano della nave Iuventa della tedesca Jugend Rettet, deciso a smentire ogni accusa con mille pagine di prove alla mano, non è stato portato a termine per via dell’inadeguatezza dell’interpretazione. Una violazione dei diritti degli indagati, “sia nei porti che nelle aule di tribunale”, si legge in una nota della Iuventa. Beigui, accusato di essere al comando di un “taxi del mare” e di concordare i soccorsi con i trafficanti, si era recato per la seconda volta in Questura a Trapani, accompagnato dall’avvocato Nicola Canestrini, tentando di chiarire la propria posizione. Ma dopo aver trovato, lo scorso 29 ottobre, una guida turistica al posto di un vero interprete, sabato scorso ad attendere l’indagato c’era un ex poliziotto, di madrelingua tedesca e a riposo da due anni, ma non iscritto all’albo dei traduttori e degli interpreti. L’uomo, per circa 25 anni, è stato in servizio presso la Squadra mobile di Bolzano, per poi svolgere, negli ultimi due anni di attività, il ruolo di funzionare presso l’Ufficio di Gabinetto della Questura di Bolzano. Ruolo che, secondo la difesa, poneva un problema di imparzialità, dato il suo vincolo gerarchico con i superiori. A difesa dell’ex poliziotto è però intervenuto un funzionario del Servizio operativo centrale presente all’interrogatorio, che ha ribadito la sua competenza linguistica ed evidenziato il suo ruolo di Ufficiale di collegamento con le forze di polizia austriache. Ma tale competenza è stata duramente contestata dalla difesa, che ha evidenziato la sua incapacità di tradurre in maniera simultanea le parole dell’indagato, nonché le carenze dal punto di vista della terminologia nautica. Da qui la singolare richiesta a Canestrini: “aiutare” l’interprete con la traduzione. Una proposta che ha lasciato basito il legale, che ha evidenziato l’obbligo di fornire all’indagato una traduzione di qualità, come richiesto dalla direttiva 2010/64/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 ottobre 2010 sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali, che impone che vengano tradotti gli atti fondamentali per garantire che gli indagati siano in grado di esercitare i loro diritti della difesa e per tutelare l’equità del procedimento. Tant’è che lo stesso Beigui, nelle quattro ore di “tentato” interrogatorio, ha dichiarato di non sentirsi adeguatamente tutelato, date le molteplici inesattezze grammaticali della traduzione, circostanza che ha spinto Canestrini a sollevare eccezione di nullità. I difensori hanno dunque reiterato la richiesta di poter svolgere l’interrogatorio alla presenza di un interprete qualificato, capace di garantire il diritto di difesa, chiedendo al pm di valutare se fare un ulteriore tentativo o emettere un ordine di indagine europeo per svolgere l’interrogatorio davanti alla polizia tedesca. “Nel più grande procedimento penale contro soccorritori civili in mare, da cinque anni non solo non ci sono prove sufficienti per giustificare il sequestro di una nave da soccorso ma nemmeno i presupposti per un’accusa che comporta pene detentive fino a 20 anni. Questo procedimento non garantisce inoltre i principi fondamentali per un giusto processo”, ha sottolineato con una nota l’equipaggio della Iuventa. Un diritto negato nonostante già due settimane fa la ong avesse richiesto di poter svolgere l’interrogatorio con tutte le garanzie del caso. “L’assistenza linguistica deve essere tale da consentire all’imputato di essere a conoscenza delle accuse contro di lui e di difendersi - ha commentato Canestrini -, in particolare permettendogli di presentare la sua versione dei fatti in tribunale: questo diritto fondamentale, garantito dal 1950 dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, è stato ripetutamente negato dall’accusa”. Ma il numero di interpreti, in Italia, scarseggia, anche a causa delle paghe da fame - il 10 per cento rispetto alla media europea -. L’Italia, infatti, insieme a Bulgaria e Romania, ha il budget più basso d’Europa per tali servizi. “È ridicolo - ha evidenziato Beigui. La stessa procura che si è coordinata con successo con cinque diverse agenzie di polizia, comprese le unità antimafia e i servizi di intelligence, per fermare una nave di soccorso che sarebbe necessario impiegare nel soccorso, ha ripetutamente fallito nel garantire il diritto fondamentale a un processo equo. Mi sembra che non vogliano nemmeno sapere cosa ho da dire. La procura è interessata a chiarire i fatti?”. Migranti. Il volto (poco) umanitario della Francia. “Li trattano come detenuti” di Francesca Pierantozzi Il Messaggero, 15 novembre 2022 Una commissione d’inchiesta ha denunciato “le pratiche illegali che violano i diritti fondamentali”. Il Centro vacanze del dopolavoro dell’Edf della penisola di Giens, sopra la bella spiaggia della Madrague, a una mezz’ora da Tolone, da venerdì non è più Francia, ma una zona di attesa internazionale. I mini appartamenti per vacanze in famiglia o colonie, le terrazze dove d’estate si fanno i BBQ o gli aperitivi, sono una zona extraterritoriale. Le persone sbarcate dall’Ocean Viking vi sono rinchiuse, un cordone di polizia presidia la zona. Da due giorni sono cominciate, dentro piccoli box, dei colloqui individuali con gli agenti francesi dell’immigrazione per stabilire chi ha diritto all’asilo e chi dovrà tornare indietro, (immediatamente ha ripetuto in questi giorni il ministero dell’interno) con un foglio di via. Gli aventi diritto verranno smistati in undici paesi europei volontari: la Germania ha già detto che è pronta ad accoglierne ottanta. 44 minori accompagnati sono invece in mano ai servizi sociali. Secondo il ministero dell’Interno francese ci vorranno une ventina di giorni. Al primo sbarco sulle sue coste, la Francia scopre quali difficoltà organizzative e burocratiche comporti l’attracco di una nave carica di migranti. Venti giorni per gestire l’accoglienza di 240 persone dà la misura della complessità della gestione degli arrivi. E senza nemmeno rispettare alla lettera le norme umanitarie. È l’idea di molte associazioni che da giorni criticano la Francia per la gestione di questo sbarco seguito da mezzo mondo. “Accogliere non significa rinchudere” ha dichiarato all’agenzia France Presse Laure Plaun, direttrice dell’Associazione nazionale di assistenza alle frontiere per gli stranieri (Anafé), che riunisce rappresentanti di Amnesty International o della Lega per i diritti umani. Il Sindacato degli avvocati di Francia ha da parte sua denunciato una privazione di libertà e chiesto il pieno rispetto dei diritti dei migranti. Si tratta di una scelta politica della Francia, denunciano tutti: la creazione di una zona extraterritoriale è considerata illegittima. Non ci sono le stesse garanzie sui diritti per le persone che si trovano sul territorio nazionale ha aggiunto Laure Plaun. La situazione non è considerata migliore ai posti di frontiera con l’Italia, diventati altrettanti zone di scontro di un fronte diplomatico che resta incandescente. Cinquecento agenti sono stati spiegati per aumentare i respingimenti verso l’Italia, un atto di ritorsione rivendicato dal governo francese. Le associazioni umanitarie denunciano regolarmente abusi da parte della polizia alla frontiera. Una commissione parlamentare d’inchiesta sulle migrazioni aveva denunciato alla fine dello scorso anno delle “pratiche illegali che violano i diritti fondamentali delle persone” alla frontiera con l’Italia, puntando in particolare il dito contro i prefabbricati in cui sono rinchiusi i migranti arrestati: locali “illegali” secondo il rapporto della commissione, ma defin”ti ripari dalle prefetture. Lo stesso rapporto denunciava “il respingimento sistematico verso l’Italia anche se una persona dichiara la volontà di chiedere asilo e anche se si tratta di minorenni non accompagnati”. La direttrice della polizia di frontiera delle Alpes Maritimes Emmanuelle Joubert (che ieri ha confermato l’arrivo di quattro unità mobili alla stazione di Garavan, a Mentone) ha precisato che dall’inizio dell’anno sono stati respinti in Italia 28 mila stranieri in situazione irregolare. Turchia. Erdogan trova i colpevoli ideali dell’attentato: i curdi del Pkk di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 15 novembre 2022 La caccia ai responsabili dell’attentato nella centralissima via di Istiklal Avenue che ha ucciso 6 persone, a Istanbul, e in pieno corso. Anche se il regime di Erdogan sembra aver trovato il colpevole “ideale”: il partito curdo dei lavoratori (Pkk). Al momento la polizia ha arrestato 46 persone quasi tutte curde. La maggiore indiziata sembra essere una donna siriana arrestata e mostrata in tv al pubblico. Ieri il ministro dell’Interno Suleyman Soylu ha confermato che i sospetti si appuntano su questa ragazza della quale, al momento, non si conosce il nome. Secondo il ministro della Giustizia Bekir Bozdag la donna era stata vista seduta su una delle panchine di Istiklal Avenue per più di 40 minuti. L’esplosione sarebbe avvenuta pochi istanti dopo che si è alzata. “Ci sono due possibilità. O c’è un meccanismo esplosivo messo in una borsa o qualcuno lo ha fatto esplodere a distanza”. I notiziari televisivi hanno anche mostrato immagini di una persona lasciare un pacchetto sotto un’aiuola rialzata che incrocia una linea di tram che corre per tutta la lunghezza della strada. Per le autorità turche non ci sono dubbi, l’attentato è opera dei curdi. Un ipotesi non ancora suffragata da evidenze, ma che secondo gli inquirenti sarebbe emersa dai primi interrogatori della presunta attentatrice la quale avrebbe confessato di essere stata addestrata in Siria ed entrata in Turchia attraverso la regione nord- occidentale di Afrin. Alcune fonti all’interno degli apparati di sicurezza hanno avanzato la possibilità che gli attentatori abbiano legami con l’Isis, ma questa eventualità viene tenuta sotto traccia. Anche il ministro degli Interni ha puntato il dito sul Pkk: “La nostra valutazione è che l’ordine per l’attacco terroristico mortale è venuto da Ain al- Arab (Kobane ndr.) nel nord della Siria” qui infatti l’organizzazione guidata da Ocalan in carcere da anni, ha il suo quartier generale. Poi la minaccia ai curdi siriani: “Ci vendicheremo contro coloro che sono responsabili di questo atroce attacco terroristico”. Nella corsa a indicare dei sicuri colpevoli il governo turco sta mettendo in un unico calderone sigle e gruppi diversi tra loro anche se riconducibili all’opposizione armata curda. Se Solyu insiste nell’accusare i militanti delle YPG (formazione legata al PKK) ancora bisogna aspettare che i servizi di sicurezza forniscano maggiori dettagli sui sospetti. In particolare, e sarebbe un elemento fondamentale, si deve capire il modo in cui. gli autori dell’attentato, hanno attraversato il confine turco- siriano. La Turchia infatti tiene sotto stretta sorveglianza i siriani che soggiornano nelle grandi città senza permessi di soggiorno o senza essere registrati. Rimane il fatto che il Partito dei lavoratori curdo ha negato la paternità dell’azione (altre volte aveva invece rivendicato politicamente attentati come quello avvenuto nel 2016 all’esterno di uno stadio di calcio di Istanbul nel quale rimasero uccise 38 persone e ferite 155). Secca smentita anche da parte delle SDF, le forze democratiche siriane, a guida curda che hanno operato contro l’Isis e che sono sostenute dagli Stati Uniti E tra la Turchia e Washington si sta creando una frizione dovuta proprio all’appoggio fornito ai combattenti contro lo stato islamico. Ankara infatti ha fatto sapere di non accettare le condoglianze degli Stati Uniti. Una risposta tutt’altro che ininfluente nonostante dalla Casa Bianca la Turchia venga considerata un preziosissimo alleato della Nato. Messaggi di cordoglio sono giunti da quasi tutte le capitali europee compresa Atene ma anche in questo caso la risposta arrivata oltre confine non è stata incoraggiante. Secondo i turchi un possibile complice dell’attentato avrebbe preso la via della Grecia per fuggire. Un implicito sospetto sulle autorità greche forse dovuto allo stato di perenne tensione tra i due paesi aumentato negli ultimi tempi a proposito dei trattamenti riservati ai migranti e a un confine mai pacificato. Iran. Prima condanna a morte per le proteste. Giovane suicida dopo il carcere di Chiara Cruciati Il Manifesto, 15 novembre 2022 Sessanta giorni di rivolta in Iran e di repressione: ieri comminata la prima condanna a morte “per protesta”, mentre tornano i missili sul Kurdistan. Una 19enne si toglie la vita dopo il rilascio. Il blogger Ronaghi in sciopero della fame. A 60 giorni dall’inizio della rivolta che sta trasformando la società iraniana, ieri una corte rivoluzionaria di Teheran ha comminato la prima condanna a morte di un iraniano accusato di aver preso parte alle proteste accese a metà settembre dall’uccisione della 22enne Jihna Mahsa Amini. A dare conto della pena capitale è la stessa magistratura iraniana: il manifestante, di cui non è stato indicato il nome, è accusato del reato peggiore, moharebeh, offesa a dio e allo stato. Potrebbe essere il primo di una serie: del migliaio di attivisti già incriminati (dei 14-15mila arrestati, numero probabilmente al ribasso), sono 20 quelli che rischiano la vita. Agli occhi delle autorità della Repubblica islamica, simili condanne dovrebbero frenare la protesta. Finora senza successo: 136 le città in aperta ribellione, 134 le università con gli studenti in prima linea da mesi. Ma la prigione, intesa da quattro decenni dal regime come bavaglio principe del dissenso in Iran, incombe e distrugge. Domenica la 19enne Yalda Aghafazli si è tolta la vita dopo dieci giorni di carcere: arrestata il 26 ottobre scorso, era stata rilasciata il 6 novembre senza che le venisse comunicata la natura delle accuse contro di lei e dopo giorni di sciopero della fame. “Overdose”, la causa della morte secondo la polizia. È qui, in cella, che si prosegue la rivolta delle strade: lo sta facendo Hossein Ronaghi, blogger di 37 anni e collaboratore del Washington Post e del Wall Street Journal, in sciopero della fame da 50 giorni come estrema forma di protesta contro l’incarcerazione. Una modalità comune a oppositori e dissidenti a ogni latitudine, unico strumento per togliere allo Stato il monopolio della violenza. Sabato Ronaghi aveva deciso di rinunciare anche l’acqua dopo il rifiuto delle autorità carcerarie a fornirgli cure mediche. Era stato arrestato a settembre, per aver condannato la reazione repressiva del regime. Stava rilasciando un’intervista quando è dovuto scappare. È stato catturato poco dopo. “È in condizioni critiche - ha detto sabato il fratello Hassan - Oggi ha perso conoscenza. Le autorità carcerarie di Evin stanno pianificando di ucciderlo”. Il giorno dopo Ronaghi è stato trasferito nell’ospedale Najmia di Teheran, ma la famiglia non è stata autorizzata a incontrarlo. Il gruppo di manifestanti che si è dato appuntamento fuori dall’ospedale è stato disperso dalla polizia con i lacrimogeni, mentre il sito della magistratura iraniana, Mizan, definiva “buone e completamente stabili” le sue condizioni di salute. È in tale contesto che ieri le guardie rivoluzionarie hanno ripreso gli attacchi missilistici contro postazioni curdo-iraniane nel Kurdistan in Iraq. Due i combattenti uccisi e sei i feriti dai missili sul quartier generale del Pdk-I a Koya e del partito Komala, vicino Suleymaniyah. “Il regime tenta di distogliere l’attenzione dal suo fallimento nell’opprimere il popolo. Vuole fingere che le proteste nazionali siano limitate alle aree curde e baluce”, dice Mohammed Saleh Qadri (Pdk-I). Afghanistan. Il leader dei talebani ordina l’applicazione della Sharia per punire i reati La Repubblica, 15 novembre 2022 La decisione è stata annunciata su Twitter dal portavoce. I giudici del Paese potranno attuare la legge islamica, che prevede esecuzioni pubbliche, lapidazioni e fustigazioni, contro “ladri, rapitori e sovversivi”. In Afghanistan torna la piena applicazione della Sharia per punire i reati con amputazioni, fustigazioni, lapidazioni ed esecuzioni pubbliche. La decisione è stata annunciata su Twitter dal portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid. L’“obbligo” di punire i reati secondo la sharia, viene spiegato, è stato ordinato dal Mullah Akhundzada, misterioso leader supremo dei talebani che non è mai stato filmato o fotografato in pubblico dalla presa del potere nell’agosto 2021. “Esaminate attentamente i casi di ladri, rapitori e sovversivi”, ha detto Akhundzada in un incontro con alcuni giudici, secondo quanto riferito dal portavoce. Un leader religioso afghano ha detto alla Bbc che le pene contemplate comprendono amputazioni degli arti, fustigazioni e lapidazioni. “Nei casi in cui tutte le condizioni della Sharia sono state soddisfatte, siete obbligati ad applicare” l’intera gamma di sanzioni, ha continuato. La Guida suprema si riferisce ai reati considerati più gravi dalla legge islamica e per i quali sono previste varie punizioni, comprese quelle corporali. Tra questi vi sono l’adulterio, l’accusa falsa di quest’ultimo reato, ma anche il consumo di alcolici, il furto, il banditismo, l’apostasia e la ribellione. La notizia segna un’ulteriore stretta da parte dei talebani che, al loro ritorno al potere, si erano impegnati a governare in maniera relativamente più moderata rispetto agli anni Novanta. Ma intanto le adolescenti non possono andare a scuola, le donne non possono viaggiare per lunghi tratti senza accompagnatori uomini e sono state praticamente escluse dal lavoro, con eccezioni solo nell’istruzione e la sanità. Da maggio le donne devono coprirsi il volto in pubblico e la settimana scorsa sono state bandite da tutti i parchi e il luna park di Kabul, così come da palestre e bagni pubblici.