Appello. Fermiamo la strage dei suicidi in carcere. Qui ed ora… si può! Ristretti Orizzonti, 14 novembre 2022 76 morti in poco più di 10 mesi. È il numero di suicidi in carcere registrati fino ad oggi. Un record lugubre, terribile, inaccettabile. Mai prima d’ora era stato raggiunto questo abisso. Sappiamo bene cosa si dovrebbe fare per evitare o contenere questo massacro quotidiano: depenalizzare e considerare il carcere solo come extrema ratio, moltiplicare le pene alternative, dare la possibilità al cittadino detenuto di iniziare un vero percorso di inclusione nella comunità. Chi è in custodia nelle mani dello Stato dovrebbe vivere in spazi e contesti umani che rispettino la sua dignità e i suoi diritti. Chi è in custodia dello Stato non dovrebbe togliersi la vita! Insomma, sappiamo bene, perché ne discutiamo da anni, da decenni quali siano le strade per fermare la strage, ma la politica, quasi tutta la politica, è sorda perché sul carcere e sulla pelle dei reclusi si gioca una partita tutta ideologica che non tiene in nessun conto chi vive “dentro”, oltre quel muro che divide i “buoni” dai “cattivi”. Insomma, non c’è tempo: il massacro va fermato qui ed ora. E allora proponiamo una serie di interventi immediati che possano dare un minimo di sollievo al disagio che i detenuti vivono nelle carceri “illegali” del nostro Paese. 1. Aumentare le telefonate per i detenuti. È sufficiente modificare il regolamento penitenziario del 2000, secondo cui ogni detenuto (esclusi quelli che non possono comunicare con l’esterno) ha diritto a una sola telefonata a settimana, per un massimo di dieci minuti. Bisognerebbe consentire ai detenuti di chiamare tutti i giorni, o quando ne hanno desiderio, i propri cari. 2. Alzare a 75 giorni i 45 previsti a semestre per la liberazione anticipata. 3. Creare spazi da dedicare ai familiari che vogliono essere in contatto con i propri cari reclusi per valorizzare l’affettività. 4. Aumentare il personale per la salute psicofisica. In quasi tutti gli istituti vi è una grave carenza di psichiatri e psicologi. 5. Attuare al più presto, con la prospettiva di seguire il solco delle misure alternative, quella parte della riforma Cartabia che contempla la valorizzazione della giustizia riparativa e nel contempo rivitalizza le sanzioni sostitutive delle pene detentive. I firmatari Roberto Saviano, scrittore Gherardo Colombo, ex magistrato Luigi Manconi, sociologo Giovanni Fiandaca, giurista Massimo Cacciari, filosofo Fiammetta Borsellino Mattia Feltri, giornalista Francesca Scopelliti, Fondazione Tortora Walter Verini, commissione Giustizia Senato Anna Rossomando, vicepresidente del Senato Mariolina Castellone, vicepresidente del Senato Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino Marco Cappato, Associazione Luca Coscioni Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace Riccardo Polidoro, osservatorio carcere Ucpi Gianpaolo Catanzariti, osservatorio carcere Ucpi Michael L. Giffoni, ex ambasciatore italiano Paolo Ferrua, giurista Giovanni Maria Pavarin, presidente Tribunale di Sorveglianza di Trieste Tommaso Greco, filosofo Tullio Padovani, giurista Ornella Favero e Redazione di Ristretti Orizzonti Rossella Favero, Cooperativa AltraCittà Annamaria Alborghetti, Commissione Carcere Camera Penale Padova Luca Muglia, Garante dei detenuti della Regione Calabria Ascanio Celestini, scrittore e attore Detenuti, fondi al reinserimento di Maria Sole Betti Italia Oggi, 14 novembre 2022 Partendo da donne e Sud, grazie a Cassa delle ammende. È questo il cuore del programma nazionale 2022-2024 dedicato all’innovazione sociale. La giustizia riparativa si aggiorna con nuove linee di finanziamento per le attività di reinserimento e inclusione occupazionale. E lo fa grazie al supporto centrale di Cassa delle ammende, partendo da donne e Sud. È il cuore del programma nazionale 2022-2024 dedicato all’innovazione sociale dei servizi di reinserimento delle persone in esecuzione penale. Una strada intrapresa da governo, regioni e autonomie locali nel 2018 ma consolidata nel corso di quest’anno da un nuovo accordo e da un protocollo d’intesa stipulato lo scorso 28 giugno tra Ministero della giustizia e Cassa delle ammende, l’ente pubblico istituito presso il Mig e individuato come organo di raccordo e coordinamento interistituzionale. L’obbiettivo è quello di attivare diversi percorsi di inclusione lavorativa, istruzione e di formazione-lavoro per le persone sottoposte a provvedimenti limitativi o privativi della libertà personale. Un vero e proprio sistema integrato di interventi e servizi, percorribile grazie ai fondi provenienti da cauzioni e sanzioni pecuniarie o disciplinari. Due i livelli di intervento. Da un lato la programmazione condivisa con regioni e province autonome attraverso la definizione di un piano d’azione regionale triennale, con finanziamenti sia locali che centrali. Dall’altro la realizzazione di tutti quegli interventi proposti direttamente dagli istituti penitenziari e dagli uffici di esecuzione penale esterna. La pianificazione dei programmi potrà infatti percorrere le richieste di Iipp e Uuepe, in modo da valorizzare le specificità e le potenzialità delle singole realtà territoriali. Lo sa bene la casa circondariale femminile di Pozzuoli e il suo programma di reinserimento, in partenza dal prossimo gennaio. L’intervento, presentato lo scorso 18 agosto dal carcere femminile in provincia di Napoli, è infatti il primo progetto di formazione professionalizzante e inclusione occupazionale ad essere stato approvato e co-finanziato da Cassa delle ammende. La linea di sovvenzione permetterà ad un range di 5/10 detenute di frequentare corsi di formazione nel settore alberghiero, crescendo professionalmente grazie alla qualifica regionale di addetta al servizio piani. Sul tavolo anche due borse di lavoro per l’inserimento all’interno di strutture alberghiere presenti nel territorio, erogate a termine delle lezioni. Eppure, quello campano è ad oggi il primo e unico progetto approvato all’interno del programma nazionale. Anche per questo, per facilitare al massimo le domande di finanziamento da parte degli istituti penitenziari, il ministero ha reso disponibili alcune linee guida sulle operazioni di richiesta di accesso ai fondi, in modo da ampliare il numero di progetti formativi e professionalizzanti per la popolazione detenuta. Il vademecum redatto da Cassa delle ammende e consultabile sul portale giustizia.it chiarisce infatti non solo le modalità per la presentazione delle domande, ma anche le tipologie di interventi ammessi. Si va dall’implementazione di opportunità di lavoro professionalizzanti, alla realizzazione di laboratori innovativi per la formazione professionale e per lo svolgimento di attività lavorative, passando per lo sviluppo di attività culturali e teatrali, delle arti e dei mestieri e sportive, e per la realizzazione di biblioteche innovative collegate in rete con altre del territorio, delle scuole e con i poli didattici universitari. Questi gli interventi finanziabili, legati a doppio filo con la missione del programma nazionale biennale di Dap e Cassa delle ammende, per favorire lo sviluppo di cultura, formazione e lavoro anche in carcere. Ergastolo ostativo, Scarpinato: “Benefici ai boss: chi non collabora spieghi perché” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 14 novembre 2022 Gli emendamenti dell’ex procuratore antimafia (oggi senatore M5S) al decreto legge: “Permessi solo se il silenzio non è motivato da omertà o timore di ritorsioni”. Il Parlamento non avrà alibi nel momento in cui esaminerà il decreto legge sull’ergastolo ostativo ai benefici per detenuti mafiosi e terroristi che non hanno collaborato con la giustizia. Se davvero vuole che non vengano premiati detenuti mafiosi per sempre e anche stragisti ci sono gli spazi per rendere più stringente il decreto. Ieri, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, Fdi, ha detto che sull’ostativo “non si arretra”. Vedremo. C’è una proposta dell’ex Pg di Palermo Roberto Scarpinato, ora senatore M5s, che blinda chi i benefici non li merita perché è un boss pericoloso travestito da detenuto modello. La ratio della modifica al decreto, concepita dall’ex magistrato, una vita sul fronte antimafia, è che non si possono mettere sullo stesso piano i boss-collaboratori di giustizia e quelli che non hanno mai collaborato. Non ci può essere, addirittura, un trattamento più favorevole, ai fini della concessione dei benefici, per chi non collabora. È la ragione per la quale Scarpinato propone l’obbligo per il detenuto che vuole accedere alla libertà condizionata di motivare la mancata collaborazione. Perché è così importante? Perché fornisce al giudice di Sorveglianza un elemento fondamentale per valutare se ci sia stato “l’avvenuto ravvedimento” previsto dalla legge (ex articolo 176 c.p.). È un concetto diverso dalla pericolosità e, come ha stabilito la Cassazione, imprescindibile per la concessione di un beneficio. Basti ricordare che il mancato ravvedimento ha portato a negare richieste avanzate persino da collaboratori. Per capirci: se un detenuto che vuole la condizionale scrive che non collabora perché non fa “l’infame”, è chiaro che anche se, per ipotesi, non può avere collegamenti con la sua cosca, non è certo ravveduto. Nella proposta M5s si dice che si può accedere alla libertà condizionata solo se la mancata collaborazione “non sia motivata dal timore di subire ritorsioni contro la propria persona, dalla volontà di non rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di correi e di terzi” e se non si è dichiarato il falso sulla situazione patrimoniale personale, dei familiari e di terzi con cui si ha un legame. Il decreto legge, invece, concede al detenuto il silenzio. Ma anche questa dichiarazione è cruciale. Non a caso la legge obbliga i collaboratori a una dichiarazione scritta e se mentono si vedono revocato il programma di protezione. Quindi, senza l’introduzione di questo obbligo i collaboratori saranno svantaggiati rispetto ai detenuti mafiosi che non hanno mai parlato. Un incentivo a stare zitti. Va da sé che il detenuto che ha scritto il falso, riscontrato dai pm cui spettano le indagini, è pericoloso, non può ottenere il beneficio. È anche un modo per “evitare un salto nel buio”, scrive Scarpinato, nel momento in cui si ha di fronte un detenuto la cui mancata collaborazione è “giustificabile” in quanto “inesigibile”, “irrilevante”, “impossibile” perché, ad esempio, oggettivamente lo Stato non è in grado di proteggere i suoi numerosi familiari che rischiano la vita. In questi casi, non si può sapere come si sarebbe comportato l’ergastolano per mafia o per terrorismo se la collaborazione fosse stata possibile: l’avrebbe scelta o no?. L’obbligo di motivare la mancata collaborazione e l’obbligo di dichiarazione sul patrimonio sono, dunque, funzionali alla verifica del ravvedimento e agli altri accertamenti: sulla pericolosità attuale o immediatamente futura del detenuto e sul risarcimento alle vittime, se non è impossibile. Una proposta, quella firmata da Scarpinato, che è in linea con l’invito, finora trascurato, della Corte costituzionale. Sì, proprio della Corte che ha bocciato l’ostativo assoluto trasformandolo in relativo, in autonomia, nel 2019, per quanto riguarda i permessi premio. Nel 2021, invece, “sdoganando” anche la libertà condizionata, ha ordinato una riforma al Parlamento, dando 12 mesi di tempo ma, come si sa, la riforma è stata approvata solo dalla Camera. Nelle motivazioni la Corte ha scritto che “appartiene alla discrezionalità legislativa decidere quali ulteriori scelte risultino opportune per distinguere la condizione di un tale condannato alla pena perpetua rispetto a quella degli altri ergastolani, a integrazione della valutazione sul suo sicuro ravvedimento (ex art. 176 c.p.), scelte fra le quali potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione”. Appunto. La Corte europea ordina al governo: curate nelle Rems quei due detenuti di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 14 novembre 2022 La “Cedu-Corte europea dei diritti dell’uomo” di Strasburgo ha ordinato al governo italiano, pena condanna dell’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione, di cessare dal continuare a rinchiudere nel carcere di San Vittore, e di assicurare invece un posto di cura nelle apposite “Rems-Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive”, due detenuti “non imputabili” e perciò assolti nei processi per reati commessi in stato di “incapacità di intendere e volere”, ma nel contempo non liberabili perché indicati dalle perizie e poi quindi dai giudici come “socialmente pericolosi” a motivo dei propri disturbi psichiatrici. In una frustrante ripetizione dell’identico, è l’ennesima puntata di un tema terribile e irrisolto quale le carenze delle varie Regioni nel predisporre nelle Rems (subentrate dal 2017 alla sacrosanta chiusura dei 6 vecchi ospedali psichiatrici giudiziari) un numero di posti proporzionati al numero dei soggetti destinativi dall’autorità giudiziaria, con il risultato di allungare anche a 5/6 mesi le liste d’attesa in media per 60/70 persone: le quali o vengono dunque trattenute illegalmente in carcere se già in custodia cautelare, con il rischio che facciano del male a se stessi o agli altri detenuti (e quindi con annesse responsabilità per gli incolpevoli direttori e agenti delle carceri, che anzi accettano di tamponare una situazione assurda), o restano in libertà ma con il rischio di riversare la loro pericolosità sociale sugli altri cittadini. Nel caso delle due ingiunzioni cautelari ottenute a Strasburgo dagli avvocati Antonella Calcaterra e Antonella Mascia insieme al professore di diritto pubblico Davide Galliani, un 24enne algerino arrestato il 4 giugno per aver scassinato la sella di uno scooter, e assolto il 19 luglio per totale incapacità di intendere e volere con applicazione della misura di sicurezza in Rems per 6 mesi rivalutabili, in realtà attende già da allora, e cioè da quasi 4 mesi, un collocamento ritardato per giunta dal fatto che la Rems di Castiglione delle Stiviere ha un reparto chiuso per ristrutturazioni. Stesso schema per un 46enne australiano arrestato l’11 marzo per rapina a una signora ad una fermata del bus, e in attesa di Rems dall’11 luglio. Guarda caso, ecco che, appena arrivato l’ordine di Strasburgo, il governo italiano ha comunicato che per uno dei due il posto è già saltato fuori, magicamente, a partire almeno dal 23 novembre in Liguria, nella nuova Rems inaugurata a giugno a Santa Maria La Cassorane di Calice al Cornoviglio (La Spezia). E del resto in un terzo caso di questi giorni si sta vedendo la medesima tendenza già riscontrata negli ultimi tempi: e cioè che, per azzerare o quantomeno ridurre il rischio che Strasburgo nelle sempre più numerose cause di merito condanni l’Italia, l’agente diplomatico del governo in una “dichiarazione unilaterale” inizia a riconoscere appunto la violazione dei diritti del ricorrente, e in cambio di ciò e del ritiro del ricorso offre una somma (ad esempio 30 mila euro) a risarcimento dei danni morali, nel contempo tenendo però a rassicurare Strasburgo che l’Italia sia “in procinto di adottare ogni iniziativa per risolvere il problema dei posti disponibili nelle Rems”. Il prof dei detenuti: “Insegno a killer e mafiosi. Ogni laurea è una gioia” di Alessandro Belardetti quotidiano.net, 14 novembre 2022 Giancarlo Monina porta l’università in carcere: tutti hanno diritto di imparare “Lo studio fa crollare la recidiva. Indimenticabili le lacrime dopo la tesi”. Da Salvatore Parolisi a Rudy Guede, da Angelo Izzo a Winston Reyes, fino a Federico Ciontoli. La lista dei detenuti noti che si sono iscritti all’università dietro le sbarre è lunghissima e lui, Giancarlo Monina, 57enne professore di Storia contemporanea, ne ha accompagnati molti verso la laurea. “Ma per motivi di privacy non posso fare nomi”, spiega. Monina è il delegato dell’ateneo Roma Tre per la formazione universitaria negli istituti penitenziari: attualmente segue 80 carcerati a caccia del titolo di studio più alto, con una media di 5 laureati all’anno. Sotto la sua gestione l’ateneo capitolino è arrivato al terzo posto in Italia per numero di iscritti, dietro alla Statale di Milano (100) e alla Federico II di Napoli (90). Qual è la laurea che le ha dato più soddisfazione? “L’ultima. Uno studente di 34 anni di Filosofia. L’ho visto crescere in consapevolezza e capacità. Sta per uscire dal carcere e ha deciso che studierà ancora: si è laureato con 110 e lode, tesi sul Giappone contemporaneo. Venendo dal circuito della malavita all’inizio faceva lo sbruffone, si pompava i muscoli in palestra: io ho visto la metamorfosi, in lui è emersa una dolcezza inattesa. Ha cambiato il registro della solidarietà: dall’omertà al sostegno dei compagni. Ha avuto un permesso per discutere l’elaborato e le lacrime di quel giorno sono indimenticabili”. Ha mai vissuto situazioni di rischio? “Ci sono stati momenti di tensione. Alcuni detenuti non hanno strumenti sviluppati di mediazione, ma non è molto diverso rispetto alle scuole classiche”. Che tipo di persone trova in aula? “La varietà delle figure in carcere è simile a quella che si trova tra gli studenti liberi. Un detenuto volenteroso, però, è più motivato di quanto non lo sia uno in libertà. Molti sentono la necessità del riscatto e della rieducazione, a volte in modo strumentale per avere benefici. Ma per avere ‘sconti’ serve aver fatto esami, non solo iscriversi. In generale i carcerati sono rispettosi verso i docenti, hanno un grande senso di gratitudine se vedono un impegno concreto”. Ha avuto davanti a sé stupratori, pedofili, serial killer. Come riesce a rimanere impassibile? “Insegno a pedofili e stupratori, ad assassini e mafiosi: lo faccio per dovere d’ufficio, farò sempre lezione a chiunque perché è un diritto universale. Si può partire da un pregiudizio, ma tutti diventano uguali agli altri quando si tratta di didattica. Io non chiedo mai che reato hanno commesso, voglio restare super partes. Gli assassini? Hanno storie incredibili e ho le mie curiosità, ma non cambia nulla: davanti ho studenti. Alcuni mi hanno rivelato i loro ‘peccati’, ma spesso succede perché si sentono ingiustamente dentro”. Si ricorda il primo impatto? “La prima volta è indimenticabile: senti i cancelli che si chiudono, quel tintinnio metallico, il brusio delle voci e l’eco, svuoti le tasche e lasci tutto in portineria. Quindici anni fa ho salito i leggendari ‘tre scalini’ di Regina Coeli; nel mondo criminale si dice “se non sali i tre scalini, non sei davvero romano”. Poi scopri un mondo duro, difficile”. Perché ha scelto di insegnare dietro le sbarre? “Tenevo un corso al Dams e il rettore nel 2006 mi chiese di seguire un detenuto, alla fine portai due ragazzi di Regina Coeli alla laurea. L’esperienza mi incuriosì molto, così estesi il mio ruolo: avendo una certa sensibilità, diventai delegato dell’ateneo”. Ai condannati che tornano in libertà il titolo di studio serve? “All’esterno chi usa la laurea è una parte residuale. Però, tra chi ha studiato crolla il numero di quanti commettono di nuovo un reato”. Cosa si può migliorare nel percorso universitario? “Una falla è che non seguiamo i laureati all’esterno. Bisogna avviare progetti e accompagnarli nel nuovo mondo, perché chi ha studiato ha una grande voglia di ricominciare”. Qual è stata la sua più grande delusione? “Un mio laureato che all’esterno ha proseguito a delinquere. A quel punto ti poni un problema: con lo studio, io l’ho aiutato a potenziare la sua astuzia criminale? La risposta, però, è sempre la stessa: ne vale la pena, noi siamo docenti”. Quanti anni hanno i suoi studenti? “Si va dai venti ai 70, con quasi la metà di over 40. Vogliono occupare il tempo, allargare l’orizzonte mentale o fare bella figura con i figli e la famiglia. Devono farsi perdonare qualcosa”. Quali sono i corsi più gettonati? “Scienze della comunicazione, Giurisprudenza, Scienze dell’educazione ed Economia”. È rimasto legato ad alcuni studenti? “Un ucraino, del quale non so la storia giudiziaria ma aveva qualcosa di pesante alle spalle, studiava Filosofia e venne trasferito a Torino. Avevamo tenuto un rapporto epistolare e mi chiese di fargli da correlatore. Alla sua tesi mi ha detto: “Grazie prof, se lei non mi avesse convinto a iscrivermi all’università, sarei ancora un criminale”. Ora fa il traduttore per connazionali con le associazioni umanitarie ed è ben inserito nel mondo”. “Una giustizia efficace e veloce”, la sentenza degli avvocati di Isidoro Trovato Corriere della Sera, 14 novembre 2022 Revisione della riforma Cartabia, spinta sul digitale, riconoscimento del ruolo della categoria: le proposte di penalisti e civilisti. Agli avvocati non piace la “riforma Cartabia” della Giustizia. Lo hanno confermato a chiare lettere nel recente Congresso nazionale di Lecce dove sono emerse tutte le divergenze nelle varie aree. Nel penale, per esempio, la massima assise dell’avvocatura chiede che si modifichino vari aspetti della riforma (dal doppio grado di giudizio di merito e al giudizio di legittimità, dalle impugnazioni alle notificazioni e poi il processo telematico, i criteri di priorità dell’azione penale e il processo in assenza dell’imputato), ma si chiede anche un forte investimento sulla giustizia riparativa e l’istituzione di un albo dei mediatori penali che veda la primaria partecipazione della categoria. Le proposte - Sul processo civile invece il Consiglio nazionale forense ribadisce le richieste di correzione della riforma recentemente approvata che comprime il diritto di difesa e l’importanza di intervenire su risorse e personale. Ma dal congresso di Lecce sono emersi spunti e proposte a tutto campo per una giustizia che gli avvocati richiedono più veloce ed efficace. La platea con il voto ha indicato quelli che saranno i temi di confronto con il Parlamento e il nuovo governo. Emerge una forte spinta verso la modernizzazione della giustizia: intelligenza artificiale e giustizia predittiva (più risorse, più formazione, eliminazione del digital divide e l’istituzione di una Autorità indipendente di studio e vigilanza) e potenziamento, razionalizzazione e unificazione delle piattaforme del processo telematico. Nuova generazione - Ma anche un richiamo alla centralità dell’avvocato che rimane a svolgere un ruolo insostituibile nella tutela dei diritti e per il rispetto della Carta dei diritti dell’uomo, della Costituzione europea e della Costituzione italiana. Centralità che deve essere prevista pure con la presenza di avvocati nel consiglio direttivo della Cassazione e nei consigli giudiziari anche con il riconoscimento del diritto di voto. “Nell’ottica di un profondo rinnovamento della nostra categoria - sostiene Maria Masi, prima donna presidente del Cnf - con lo sguardo alle giovani e prossime generazioni di avvocate e avvocati, è imperativo partire da una seria e completa riforma dell’accesso alla professione perché il nostro obiettivo deve essere quello di formare l’avvocato del futuro dal punto di vista delle conoscenze e delle competenze non trascurando il ruolo e le funzioni sociali della professione forense. Una rivoluzione culturale che, necessariamente, deve prendere l’avvio dalla Università in un percorso di studi e di formazione fondato sulla qualità e non sui numeri. Formare un avvocato e un giurista deve tenere conto anche delle sensibilità culturali e delle opportunità necessarie per andare oltre il sistema attuale, che pur amiamo, ma che non può e non deve escludere altro”. Una nuova generazione di avvocati che tenga conto anche della differenza territoriale e che pertanto chiede la difesa e la stabilizzazione dei presidi di legalità e giustizia, il riconoscimento di ‘sedi disagiate’ delle sedi distaccate insulari o l’istituzione di nuovi modelli di Tribunale per le isole. Rave, la ricetta di Forza Italia: niente carcere, ma maxi-multe fino a 200mila euro di Lorenzo De Cicco La Repubblica, 14 novembre 2022 La proposta di legge degli azzurri alla Camera, a prima firma Barelli: sanzioni amministrative, ma non c’è un nuovo reato. Il capogruppo Cattaneo: “Noi garantisti, il testo del governo è da migliorare”. Non un nuovo reato per punire i rave (niente carcere fino a 6 anni, come prevede il contestato decreto sfornato dal governo Meloni), ma maxi-sanzioni da 100mila a 200mila euro per chi li organizza e multe per i partecipanti. È la ricetta di Forza Italia per contrastare i raduni musicali illegali. E si discosta non poco dal testo licenziato da Palazzo Chigi. La proposta di legge è stata presentata alla Camera dai parlamentari azzurri il 31 ottobre. Casualità, lo stesso giorno in cui il Consiglio dei ministri varava la stretta, che introduce l’articolo 434-bis del codice penale, con la creazione di un nuovo reato, “invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico”, e pene da tre a sei anni di reclusione, più una multa da mille a 10mila euro per gli organizzatori. Da subito il partito di Silvio Berlusconi ha avanzato dubbi sulla formulazione del testo. Sia per la durata della pena in carcere, che in questo modo consente le intercettazioni (“non possiamo intercettare i ragazzini”, si è sfogato già in Cdm il vicepremier Antonio Tajani), sia sull’enunciazione troppo lasca del reato, che consiste nella semplice “invasione di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta”. In questo modo, secondo l’opposizione, potrebbero essere puniti anche sit-in, manifestazioni, occupazioni dei liceali. FI chiede dunque correttivi. L’ha già fatto capire il vice-ministro azzurro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto. E la pdl presentata a Montecitorio fornisce un’alternativa al progetto di Meloni e Salvini. La proposta, si legge nel testo, “si applica ai raduni a carattere musicale organizzati in spazi, aperti o chiusi, non attrezzati ovvero non destinati al pubblico spettacolo, comunemente denominati “rave party”, che presentano rischi per la sicurezza dei partecipanti a causa della mancanza di allestimenti o per la particolare configurazione del luogo nel quale si svolgono”. Agli organizzatori dei rave viene chiesto di dare comunicazione dell’evento alla questura, “almeno trenta giorni prima”, e di garantire un presidio medico, addetti alla sicurezza, servizi igienici, un circuito di raccolta dei rifiuti. Chi non rispettasse queste indicazioni, soprattutto chi organizza i rave illegalmente, sarebbe punito non col carcere, “salvo che il fatto non costituisca reato”, ma con sanzioni amministrative. Comunque molto pesanti: “da 100.000 a 200.000 euro” per i responsabili dell’organizzazione e “da 500 a 1.000 euro” per i partecipanti. Spiega Paolo Barelli, primo firmatario della pdl: “Ci siamo attivati sulla scia del rave di Modena, così come avevamo fatto nella scorsa legislatura, dopo quello di Viterbo”. È un caso che il testo sia stato presentato lo stesso giorno del decreto? “Sì, ma ora questa proposta sarà un elemento di valutazione quando il provvedimento del governo arriverà in Commissione”. Sulla stessa lunghezza d’onda il capogruppo di FI alla Camera, Alessandro Cattaneo: “Da quando abbiamo visto il decreto abbiamo fatto presente il nostro approccio garantista e abbiamo detto di voler migliorare il testo tenendo conto dei nostri valori, come testimonia questa pdl”. Lillo, il poliziotto dimenticato nei segreti mafiosi di Palermo di Attilio Bolzoni Il Domani, 14 novembre 2022 Uno dei tanti morti dimenticati della Palermo del 1982: Calogero “Lillo” Zucchetto è stato assassinato per il suo contributo al giudice Giovanni Falcone e al maxiprocesso a Cosa Nostra. E nessuno lo ricorda. Sembravano due fidanzatini. A spasso su un Vespone, alla ricerca di intimità per le campagne. Lui davanti con i riccioli scombinati al vento e lei dietro, aggrappata ai suoi fianchi. Intorno il profumo della zagara che stordisce e i giardini dei Ciaculli, l’ultima gola di quel che resta della Conca d’Oro. Palermo, 1982. Un giorno come tanti sotto la cima di Gibilrossa, la montagna dalla quale si domina la borgata e dove giù si estende la Favarella, la splendida tenuta di Michele Greco, il capo della Cupola. Quelli che sembravano fidanzatini sono lì, a un passo dalla masseria del vecchio boss circondata da alberi di arancio e di mandarino. E all’improvviso incrociano una moto che scende veloce. È un attimo. Il motociclista rallenta, allunga il collo, guarda con attenzione il ragazzo sul Vespone, lo fissa negli occhi, lo riconosce. È un suo compagno di scuola, del liceo. Ma soprattutto è un compagno di scuola che è diventato poliziotto. Poliziotta è anche lei, Margherita, la ragazza che lo accompagna. In un giorno come tanti la caccia ai latitanti è finita, comincia il conto alla rovescia per uno degli omicidi più strategici e dimenticati di Palermo. Il compagno di scuola - Chi sa chi è Calogero “Lillo” Zucchetto? Chi conosce veramente quale è stato l’aiuto prezioso che ha offerto al giudice Giovanni Falcone e al suo maxi processo? Chi si può immaginare oggi come si poteva vivere o morire in quella Palermo? Lunedì, 14 novembre, fanno quarant’anni. Me la ricordo ancora quella domenica, a Largo degli Abeti, spigolo fra la via Libertà e la via Notarbartolo, a neanche cento metri dove un decennio dopo sarebbe stato celebrato l’Albero Falcone. Serata di vento e di pioggia, le insegne luccicanti del cinema Fiamma, le luci del bar Collica, il cadavere di un ragazzo a terra. Aveva appena mangiato un panino e bevuto una birra, stava raggiungendo Maria, la sua fidanzata, quella vera. Sono arrivati prima quei due, i due sicari più famosi di Cosa Nostra, Pino Greco detto “Scarpuzzedda” e Mario Prestifilippo, il compagno di classe. Gli sono scivolati alle spalle. Era ancora vivo Lillo quando Prestifilippo è tornato indietro e ha puntato il revolver alla sua testa. Il colpo di grazia. Mario Prestifilippo, il motociclista incontrato ai Ciaculli. Lillo aveva ventisette anni. Lotta alla mafia fatta in casa. Il Vespone era color sabbia e gliel’aveva prestato come ogni mattina Ninni Cassarà, il capo della sezione Investigativa della squadra mobile, una delle più formidabili formazioni di poliziotti mai viste in Sicilia. “Qualche mese prima avevamo comprato un Vespone l’uno e, visto che il ministero dell’interno non ci voleva assegnare nemmeno un’auto in più, Ninni dava il suo a Zucchetto per andare a cercare i mafiosi che fino ad allora nessuno trovava mai”, racconta Francesco Accordino, un sopravvissuto di quella squadra mobile dove dirigeva la sezione Omicidi. La benzina per il Vespone Lillo la pagava di tasca sua. Come accadeva a Cassarà, quando andava in giro con la vecchia 127 del padre. Prima smontava la targa originale, poi ne appiccicava un’altra fasulla per non farsi identificare nei suoi giri ai Ciaculli. Una lotta alla mafia fatta in casa, sostenuta con finanziamenti personali, perché a Roma non erano molto popolari e ben visti quelli dell’Investigativa palermitana. Lo stato non c’era e quando c’era faceva finta di niente. “Ai miei tempi andavamo in bicicletta, arrangiatevi pure voi”, rispose un questore di Palermo alla richiesta di avere un paio di auto in più per i cacciatori di latitanti. Qualche volta sul Vespone montava pure Cassarà, quasi sempre però c’era Margherita, Pluchino. E alla guida Lillo. Perché conosceva ogni viottolo della borgata, gli abitanti di ogni casa, i confini di ogni possedimento. Il “papa” e la sua tenuta - “Mi ha visto bene e ha capito che ero io e cosa stavo facendo là”, disse spaventato Calogero Zucchetto a Ninni Cassarà il giorno che Mario Prestifilippo lo aveva trovato nel regno dei Greco.Il 1982, un anno infame. A fine aprile l’agguato al segretario siciliano del partito comunista Pio la Torre, a inizio settembre quello al prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. E in estate gli omicidi a Palermo avevano già superato quota 100. Guerra di mafia. I mandanti e gli esecutori venivano dai Ciaculli. Calogero Zucchetto era entrato dentro ogni segreto di quel mondo, sapeva chi era Michele Greco, quello che chiamavano “il papa” ma che per la giustizia era solo un signorotto di campagna socio in affari di conti e marchesi e baroni, campione italiano di tiro al piattello, ricchissimo imprenditore agricolo con tanto di passaporto. Nella sua casa alla Favarella aveva come ospiti abituali il primo presidente della Corte di Appello Giovanni Pizzillo, il comandante dei carabinieri di Palermo Giuseppe Russo, Sua Eminenza il cardinale Ernesto Ruffini. Chi lo doveva toccare mai il “papa”? Chi avrebbe osato fargli un torto nella Palermo dove stato e mafia andavano a braccetto e all’origine del maxiprocesso Michele Greco era un pupo nelle mani dei Corleonesi di Totò Riina? Calogero “Lillo” Zucchetto aveva portato alla sezione Investigativa della squadra mobile tutte queste informazioni, sul “papa” e sugli altri rappresentanti della famiglia dei Ciaculli. Il processo - “Non c’era giorno che non ci comunicasse notizie importanti, era un segugio che batteva anche di notte tutta Palermo, conosceva il popolo delle discoteche e delle paninerie palermitane, aveva agganci negli ambienti della prostituzione, delle sale corse e del mercato ortofrutticolo, ma proprio perché conosceva Mario Prestifilippo era stato assegnato alle indagini del gruppo che lavorava sui Ciaculli”, ricorda Accordino che quell’estate mise anche la sua firma (con Ninni Cassarà e con il capitano dei carabinieri Angiolo Pellegrini) su un dossier che ha cambiato Palermo: il rapporto “Michele Greco + 161”, in pratica l’origine del maxi processo a Cosa Nostra che si sarebbe aperto da lì a qualche anno. L’ultima operazione di Lillo, probabilmente quella che ha convinto i mafiosi a farlo fuori subito, appena una settimana prima. La cattura del latitante Salvatore Montalto a Ciaculli. Preso il 7 novembre, il 14 novembre l’esecuzione in Largo degli Abeti. Era solo il prologo di ciò che sarebbe accaduto nella squadra mobile di Palermo. In quella squadra mobile che mese dopo mese aveva messo sottosopra Palermo. Il 28 luglio 1985 l’uccisione di Giuseppe Montana, il capo della Catturandi. Il 6 agosto dello stesso anno l’uccisione di Ninni Cassarà e di Roberto Antiochia, un poliziotto che era tornato dalle ferie per stare vicino ai suoi colleghi. Il 14 gennaio 1988 l’uccisione di Natale Mondo, sporcato con le infamie, ammazzato e sporcato ancora da morto. Tutti eliminati. Lapidi e squilli di tromba - C’è una lapide a Largo degli Abeti. Ogni anno la polizia celebra una piccola cerimonia in suo onore, un discorso, una corona di fiori, uno squillo di tromba. Ma pochi sono i palermitani che hanno memoria di Lillo nonostante quel cippo nel cuore della Palermo più ricca. Uno dei tanti altarini, una delle tante croci che si confondono nel passato della città. Alla sua vita sconosciuta, una decina di anni fa, ha dedicato un bellissimo romanzo (il titolo: Un giorno sarai un posto bellissimo) l’attore e regista palermitano Corrado Fortuna che è nato proprio all’angolo di via Notarbartolo. Fa dire al protagonista del suo racconto: “Ogni mattina della mia vita, per andare a scuola, sono dovuto passare davanti a quella lapide che dice: caduto assassinato da vile mano mafiosa, la municipalità di Palermo per ricordarlo pose… non l’hanno ricordato tantissimo a Palermo Calogero Zucchetto… ho dovuto aspettare l’avvento di Internet per capire chi fosse quel ragazzo ammazzato come un cane sotto casa mia...”. Lillo proveniva da un piccolo paese della Sicilia. Era nato a Sutera, case sul pizzo di una roccia al confine fra le province di Caltanissetta e Agrigento. Alla vigilia del quarantesimo anniversario della sua morte il comune gli assegnerà la “Cittadinanza Benemerita”. Ci sarà un cantastorie a narrare in mezzo alla piazza. E a Sutera ci sarà anche Francesco Accordino, l’ultimo superstite dell’avamposto degli uomini perduti, come chiamavano una volta la squadra mobile di Palermo. Liguria. Manca il Garante per i detenuti. La rivolta non violenta di Ferruccio Sansa di Nando dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 14 novembre 2022 Ma che strano questo paese. Il cui scrittore più venerato inventò un felicissimo nome, “Azzeccagarbugli”, per celebrare il potere di una categoria di stabilire la verità e il diritto. Nel cui parlamento quella stessa categoria è padrona delle leggi. E dalle cui carceri, due anni e mezzo fa, i boss sono potuti uscire a centinaia in pochi giorni in nome delle “garanzie”. Strano paese perché poi giusto qui capita che una regione come la Liguria lasci tranquillamente per anni i detenuti senza il garante previsto da una propria legge. Dal Bollettino Ufficiale del primo giugno 2020: “Istituzione del garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale”. Una renitenza singolare, come singolare è la “storia italiana” di cui è oggi protagonista un consigliere regionale che ha scelto di denunciarla attraverso una scelta esemplare e drammatica. Il suo nome è Ferruccio Sansa, giornalista genovese, per anni firma de Il Fatto Quotidiano, giunto in consiglio quasi due anni fa dopo essersi candidato alla presidenza della Regione. E che ha scelto di protestare contro l’accidia istituzionale con l’arma che nella politica italiana rese famoso mezzo secolo fa Marco Pannella: il digiuno. “Sono ormai al quinto giorno di digiuno”, ha spiegato venerdì sera Ferruccio. “Certo è una scelta estrema, ma è estrema anche la vicenda da cui nasce. Un incarico pensato per porre fine a condizioni carcerarie all’origine di suicidi o episodi sconvolgenti, che non viene assegnato per indolenza, meglio, perché non ci si mette d’accordo politicamente nella divisione delle spoglie istituzionali. Da due anni, capisci? Due anni senza muovere un dito. E non solo per questo garante. Ma nemmeno per quello dei minori. E nemmeno per quello delle vittime di reato. E tanto meno ancora per il difensore civico. La classica ‘morta gora’. Paura di mettersi contro gli abusi di potere? Forse la questione è ancora più misera: non riuscire a mettersi d’accordo sulle poltrone. E intanto ci vanno di mezzo dei disgraziati”. Ferruccio appare incredulo. Tanti pensano che entrando in parlamento o in un consiglio regionale o comunale si possa influenzare la vita pubblica. Il famoso “Lei che può…”. Utopie, acide utopie. Ne sta facendo esperienza amara. “Ho sollevato il problema decine di volte in consiglio e sono stato sempre ignorato”. Un sistematico senso di impotenza. Da qui il salto verso il metodo Pannella, perché “occorre che la notizia circoli, che si sappia, che nasca finalmente un caso Liguria”. Faticoso? “Un po’ sì, ma soprattutto sorprendente per il rapporto che nasce con il proprio corpo. Non avevo valutato esattamente cosa significasse non mangiare. Quanti riti e gesti siano legati al nutrirsi”. “Ho appena buttato la pasta per i miei figli”, ha confessato sul suo blog, “e ci ho messo un etto e mezzo di troppo, ho apparecchiato la tavola con un piatto che resterà vuoto”. Aggiungendo: bevo cappuccino come Pannella, o litri di terribili tisane. Ha promesso che aggiornerà i lettori del suo diario Facebook sullo stato di salute, il peso, la pressione, le analisi del sangue. E mi sembra incredibile che, di fronte a questo, non ci sia una rivolta almeno degli avvocati. È proprio vero che viviamo in un mondo che conia nuovi diritti a manetta, a volte sfiorando il parossismo, e poi non sa rispettare nemmeno quelli fondamentali. Lo sciopero della fame non sarà forse il modo migliore per reagire, come gli rimprovera qualche lettore in rete, ma certo smuove le nostre corde più di un’invettiva. Quanto a Ferruccio, come spiega lui stesso, qualche conseguenza c’è. La parola fame gli rimbalza tra la vista del mare, il fischio del treno e il profumo del rosmarino. È pur sempre Genova. Chissà che non la spunti. Ma in effetti, a pensarci: come si fa a far passare due anni senza nominare un garante per i detenuti, i minori o le vittime di reato? Calabria. Il Garante regionale dei detenuti: “Superiamo il pregiudizio culturale” crotoneok.it, 14 novembre 2022 Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Cita così l’articolo 27 della Costituzione italiana. Le carceri in Italia non servono solo per “scontare” le pene ma sono luoghi di rieducazione in cui va rispettata la dignità umana. Abbiamo intervistato Luca Muglia, Garante dei detenuti della Regione Calabria. Di cosa si occupa esattamente il Garante Regionale dei detenuti? La legge regionale del 2018 che ha istituito il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale in Calabria, oltre ad essere ben scritta, ha recepito i principi fondamentali in materia sanciti dalla Carta Costituzionale e dalle Convenzioni internazionali. I destinatari della legge sono le persone ristrette negli istituti penitenziari, quelle in esecuzione penale esterna, le persone sottoposte a misure cautelari personali, in stato di arresto ovvero di fermo, quelle sottoposte a misure di prevenzione, quelle ricoverate nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, quelle ricoverate nelle comunità terapeutiche o strutture assimilate, le persone presenti nelle strutture sanitarie perché sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio, nonché le persone trattenute in qualunque altro luogo di restrizione o limitazione della libertà personale. Si aggiungano gli stranieri extra-comunitari irregolari ospitati nei centri di permanenza per i rimpatri. Il Garante regionale, chiamato ad operare in piena autonomia e con indipendenza di giudizio, non è sottoposto ad alcuna forma di controllo e può richiedere alle amministrazioni responsabili, senza che da ciò possa derivare danno per le attività investigative, le informazioni e i documenti necessari. Inoltre ha diritto di accesso o visita senza autorizzazione alle strutture e di comunicazione con le persone nei luoghi e istituti dove esse si trovano. Qual è la situazione delle case circondariali calabresi? C’è un sovraffollamento anche nelle nostre carceri? Gli istituti penitenziari calabresi sono 12, cui occorre aggiungere un Istituto Penale Minorile e due residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). I dati riguardanti gli istituti di pena segnalano la presenza di 2.684 detenuti, tra cui 55 donne e 535 stranieri. I detenuti in attesa di primo giudizio sono 612, i condannati non definitivi 464, quelli definitivi 1.600. Quanto al sovraffollamento, gli istituti calabresi non hanno problematiche di questo tipo in quanto formalmente non superano la capienza regolamentare massima stimata in 2.704 unità. E’ evidente, tuttavia, che la differenza è esigua, che i posti sono calcolati in ragione di un criterio standard opinabile e che in molti casi il limite di quattro posti per stanza non è rispettato. Il personale è adeguato nel numero e nelle professionalità? I servizi sono efficienti e garantiti? L’inadeguatezza numerica del personale è stata evidenziata in più sedi e da più parti. La carenza degli organici mette a rischio la gestione della sicurezza e determina una riduzione delle prestazioni minime e dei livelli essenziali di assistenza. Senza considerare che le lacune della sanità penitenziaria, unitamente all’assenza di figure professionali specifiche, assumono una rilevanza decisiva per i detenuti con fragilità psicologiche o patologie psichiatriche. Le criticità evidenziate hanno inciso non poco sul fenomeno dei suicidi e degli atti autolesionistici che hanno registrato un forte aumento anche in Calabria. Quali saranno i suoi obiettivi? Gli obiettivi che mi propongo sono due. Il primo è quello di ridurre le situazioni di vulnerabilità e di tutelare i diritti fondamentali della persona detenuta affinché gli stessi non rimangano mere affermazioni di principio. Mi riferisco alla presunzione di innocenza, al diritto alla salute, al diritto a spazi adeguati, al diritto al lavoro, allo studio e al reinserimento sociale, al diritto di praticare il culto religioso, al diritto alle relazioni e agli affetti familiari, al diritto a poter usufruire di mediatori culturali. Il secondo è quello di fornire un contributo al superamento del pregiudizio culturale che colpisce tutti i detenuti, etichettati personalmente e socialmente. Nell’immaginario collettivo chi ha vissuto un’esperienza carceraria continua ad essere percepito come un soggetto pericoloso, in conflitto con la legge, quali che siano le ragioni che lo hanno indotto al crimine e qualunque sia il percorso di recupero effettuato. Questi due obiettivi, l’effettività dei diritti e lo scoglio culturale, potranno essere realizzati solo attraverso un monitoraggio costante delle condizioni di vita dei detenuti e una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e della società civile. La creazione di una rete permanente, che il mio Ufficio cercherà di promuovere, e la costruzione dei programmi di giustizia riparativa (previsti dalla riforma Cartabia) rappresenteranno strumenti importanti ed assai utili. Lucca. Al Garante nazionale un reclamo per violazione dei diritti dei detenuti di Vincenzo Brunelli luccaindiretta.it, 14 novembre 2022 Dal sovraffollamento all’assistenza sanitaria: nella relazione 2022 ben 48 le segnalazioni dalle case circondariali toscane. Diversi e differenti i motivi dei reclami e delle segnalazioni arrivate sul tavolo del garante nazionale dei detenuti che nei giorni scorsi ha pubblicato il dossier 2022 nella relazione annuale al Parlamento. A Lucca la presenza media è di circa 102 detenuti, secondo il report, dove la capienza dovrebbe essere di circa 62 detenuti. Negli ultimi giorni, infatti, è stata rilanciata dalla politica la proposta di costruzione di un nuovo carcere fuori dalle mura cittadine. Ma nella relazione annuale del garante nazionale dei detenuti al Parlamento è descritta la situazione regionale relativa agli ultimi 12 mesi monitorati. Nel corso del 2021 il garante ha potuto riprendere l’attività di visita degli Istituti penitenziari, che nel 2020 era stata fortemente limitata a causa della pandemia. Sono state effettuate, nel corso dell’anno 2021, 18 visite negli istituti penitenziari della Toscana. Le richieste pervenute al Garante nel corso del 2021 sono state complessivamente 154, in complessivo aumento rispetto agli anni precedenti. È importante riportare le tematiche di maggior doglianza poiché ci dà conto di come le criticità del carcere vengano percepite dai diretti interessati, i detenuti e coloro che li supportano. “Vi sono, al primo posto, la violazione di diritti (26% dei casi), al secondo posto la specifica violazione del diritto alla salute (18,8%) che è stata conteggiata separatamente, vista la sua importante incidenza sul totale, al terzo posto le istanze volte a ottenere supporto per misure alternative alla detenzione (17,5%); al quarto posto, le istanze finalizzate a richiedere un supporto del Garante per ottenere un trasferimento (13,6%); a seguire altre tipologie, su cui si rinvia alla relazione del Garante regionale. Il Garante individua due macro aree di maggiore criticità nell’ambito del penitenziario: la vita penitenziaria e i percorsi in uscita dal carcere. La vita penitenziaria. La vita quotidiana in carcere, l’ordinarietà, è definita da un insieme di condizioni che sono accumunate da una situazione di tendenziale immobilismo. Passata la pandemia, non si intravedono misure di svolta per il recupero e il superamento delle condizioni di disagio, già presente prima e aggravato poi dalla chiusura forzata. Si possono elencare, tra i molti, alcuni punti particolarmente critici. In primo luogo, la salute in generale: il personale medico, già messo a dura prova, è stato ridotto nel corso del 2021 a causa di carenze complessive di medici in tutti i servizi della Regione; molte richieste di intervento dei detenuti riguardano, infatti, il diritto alla salute. La salute mentale è gestita in carcere in modo non organico: a fianco dell’Atsm, presente nel carcere di Sollicciano (Firenze), vi è un numero definito vasto dagli operatori, ma al momento non esattamente quantificato, di persone detenute con sofferenza psichica, che non accedono né all’Atsm né a programmi comunitari territoriali con misure alternativa alla detenzione. Di fatto, i detenuti non escono per il mancato utilizzo del rimedio previsto dalla Corte costituzionale con la sentenza 99/2019, ovvero la detenzione in deroga garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale 203 per motivi umanitari ex articoli 47-ter, comma 1-ter o.p. (su questo tema, e più in generale sul diritto alla salute mentale in condizioni di privazione della libertà, il garante sta conducendo una ricerca insieme all’Università di Firenze)”. E ancora prosegue il dossier: “I trasferimenti, o meglio i mancati trasferimenti, costituiscono un punto particolarmente dolente, perché frutto di una prassi abituata a ignorare i bisogni dei detenuti. È noto che l’avvicinamento ai familiari renderebbe molto meno gravosa la detenzione, in alcuni casi risolvendo anche situazioni di grossa sofferenza personale, peraltro facilitando il lavoro agli stessi operatori penitenziari; tuttavia, sul punto si continua a riscontrare un atteggiamento meramente punitivo e premiale, per cui il trasferimento viene concesso, se ciò accade, soltanto con tempi contati in anni. La questione dell’affettività, in senso più ampio chiede di essere affrontata seriamente, con un programma di interventi concreti che progettino “casette dell’affettività” come luogo di incontro intimo; tuttavia, anche sul punto, non sono state intraprese iniziative dall’amministrazione penitenziaria. Infine, ma non meno importante, i programmi per le donne detenute (Sollicciano e Pisa) sono quasi inesistenti, in ragione dello scarso numero di presenze, anche l’investimento risulta scarso”. E infine sulla rieducazione del reo: “I percorsi in uscita: perché l’uscita dal carcere possa acquistare un senso di riprogettazione della propria esistenza, servirebbero - è noto - strumenti adeguati al reinserimento. Ma con il personale educativo, ridotto ai minimi termini e ancora non adeguatamente reintegrato (le assunzioni che si faranno a seguito del nuovo concorso saranno gocce nel mare) la progettualità è quasi impossibile. Una formazione adeguata in vista dell’uscita e un inserimento lavorativo durante la detenzione e in uscita dal carcere sono gli strumenti, minimi, necessari per evitare la recidiva, ma le realizzazioni sul punto sono al momento inadeguate. Su questo punto dobbiamo segnalare il grande impegno dell’assessora al welfare, che sta predisponendo bandi dedicati al supporto sociale dei detenuti, dai quali si auspica, nei prossimi anni un miglioramento di questa delicata fase di passaggio verso la libertà. Il garante individua, inoltre due macro aree di positive potenzialità ravvisabili rispetto agli istituti penitenziari della propria regione: alcune esperienze di lavoro e il polo universitario penitenziario”. Lavoro. “Nonostante la situazione generalmente inadeguata rispetto al lavoro - si spiega -, vi sono in Toscana alcune esperienze lavorative specifiche che è importante valorizzare. Si tratta del carcere di Massa, in cui sono presenti laboratori interni, di livello professionale e inseriti nell’indotto economico sia penitenziario che extra-penitenziario nell’ambito della tessitura e della piccola sartoria, in cui sono impiegati la maggioranza dei detenuti presenti nella casa di reclusione. Vi è poi l’esperienza delle isole-carcere (Gorgona e Pianosa), esperienza di lavoro agricolo, a contatto con la natura che meriterebbe maggiore riconoscimento. Abbiamo un provveditore regionale stabile, il dottor D’Andria, dopo molti anni di provveditori temporanei, possiamo pensare a un programma di interventi, a progettualità di più lungo periodo sugli istituti”. Insomma il mondo carcerario è un mondo che avrebbe bisogno di una vera e propria rivoluzione. Si vedrà. Milano. A Bookcity una riflessione sulle carceri attraverso quattro incontri dedicati imgpress.it, 14 novembre 2022 Favorire una importante riflessione sulle carceri, sullo stato del sistema detentivo italiano e sulla necessità di un rinnovamento del modello fin qui utilizzato. Con questo obiettivo il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Francesco Maisto, promuove quattro incontri aperti alla partecipazione dei cittadini e alle cittadine milanesi nell’ambito di Bookcity. Si parte giovedì 17 novembre alle 18.30 con l’incontro “Carceri e solo carceri?!” che si terrà presso il Museo del Risorgimento, a Palazzo Moriggia, a partire dalla presentazione del libro di Pietro Buffa “La galera ha i confini dei vostri cervelli”, che affronta il tema della gestione delle emozioni di chi, per lavoro o perché sta scontando una condanna, deve trascorrere una parte della sua vita in carcere. Ne discuteranno insieme all’autore l’assessore al Welfare e Salute Lamberto Bertolé, il Garante Francesco Maisto, Carlo Renoldi, capo del dipartimento Amministrazione penitenziaria, Adolfo Ceretti, professore ordinario di criminologia all’università di Milano Bicocca e Claudia Mazzuccato, docente di diritto penale all’Università Cattolica di Milano. Venerdì 18 novembre alle 10.30 si terrà, presso l’Aula Magna del Tribunale di Milano, l’incontro “Carceri chiuse o carceri aperte?”. A partire dal libro “Senza sbarre - Storia di un carcere aperto” di Cosima Buccoliero - ex direttrice del carcere di Bollate e ambrogino d’oro nel 2020 - e Simona Uccello - giornalista del Sole 24 Ore - si affronterà il tema della funzione rieducativa della pena, sul modello di quanto messo in campo a Bollate. Interverranno, oltre alle autrici, Francesco Maisto, Lucia Castellano, provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Regione Campania, Giuseppe Ondei, presidente della Corte di Appello di Milano, Giovanna Di Rosa, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano, Valentina Alberta, avvocato della Camera penale, Vinicio Nardo, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano. Sabato 19 novembre alle 10.30 la discussione varca le soglie della casa circondariale di San Vittore dove si terrà l’incontro “Il carcere dopo la pandemia: a cosa serve l’istituzione penitenziaria?”, a partire dal libro di Valeria Verdolini dal titolo “L’istituzione reietta - Spazi e dinamiche del carcere in Italia”. Negli ultimi anni il carcere è stato spesso protagonista delle cronache italiane, per la situazione di sovraffollamento, per le rivolte avvenute nei primi mesi della pandemia e per le conseguenze che accompagnano la privazione della libertà. L’autrice del libro, insieme a Stefano Anastasia, portavoce della Conferenza dei garanti, Antonella Calcaterra dell’Osservatorio Carcere Lombardia di Antigone, il Garante Francesco Maisto, Michela Morello, comandante della Polizia penitenziaria di San Vittore, e Giacinto Siciliano, direttore della Casa circondariale di San Vittore, discuterà di quali possano essere le funzioni di un carcere contemporaneo e se possa ancora definirsi un’istituzione totale. Sempre sabato, alle ore 17, presso l’Icam di via Macedonio Melloni 53, si parlerà di carcere e bambini. L’incontro, dal titolo “Ancora bambini in carcere”, parte dal libro di Lorenzo Marone “Le madri non dormono mai”. Parteciperanno, la consigliera comunale e presidente della Commissione consiliare Pari Opportunità Diana De Marchi, Marianna Grimaldi, funzionario giuridico-pedagogico dell’Icam, il Garante Francesco Maisto e Giacinto Siciliano, direttore della Casa circondariale di San Vittore. Anche gli spazi WeMi parteciperanno a Bookcity per promuovere la lettura condivisa. Sette spazi ospiteranno altrettanti incontri in cui i lettori professionisti messi a disposizione dal Patto di Milano per la lettura leggeranno brani tratti da libri dedicati a bambini e bambine, adolescenti, adulti e famiglie. Ferrara. Quando l’idea di carcere non deve essere “buttare via la chiave” di Lucia Bianchini estense.com, 14 novembre 2022 Giustizia, pena, detenzione, recupero: questi i temi della conversazione che si è svolta all’Arci Bolognesi dove, durante il dialogo, si è affrontato da punti di vista differenti la vita reclusa nelle carceri, che dovrebbe essere, ed è, la privazione della libertà, ma può essere anche la privazione di ogni altro diritto, e, come hanno spiegato i relatori, questo produce rancori, indisciplina, ribellione e non aiuta ad uscire dal carcere migliorati. Come ha raccontato Paolo Li Marzi, della segreteria regionale di Uilpa, di carcere si parla quasi unicamente in occasione di eventi tragici o violenti, e cita: “Le recenti rivolte, i suicidi di detenuti e poliziotti, le continue aggressioni. Secondo me - prosegue - si deve avviare un processo di conoscenza del carcere da parte della gente comune, al fine di conoscere in cosa consista la pena detentiva e quali siano le condizioni della detenzione, che si riflettono sui detenuti in prima battuta, ma anche sul personale e su tutti gli operatori che lavorano in carcere. Ogni volta che si parla di carcere si deve collocare l’informazione in un contesto per capirla, ma la persona comune che conoscenza ha del carcere? Ci si rifà ad un immaginario da cinema americano, perché probabilmente non si conoscono altri contesti”. A denunciare l’alto numero di suicidi che avvengono nelle strutture carcerarie è monsignor Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara: “Nei primi 9 mesi di quest’anno vi sono stati 70 suicidi, comprese alcune donne, cosa che solitamente non avveniva. Bisognerebbe legare questo aspetto non solo alla pandemia, che ha aggravato la situazione dei legami in carcere e verso l’esterno, alla realtà stessa del carcere, dove sempre di più assistiamo ad una doppia diagnosi, persone che hanno grossi problemi psicologici se non psichiatrici, tossicodipendenza, sieropositività, distanza dalla propria terra, nazionalità diverse. Forse quindi il primo aspetto fondamentale è non dimenticare che in carcere ci sono delle persone e partire da qui per interpretare il valore costituzionale della rieducazione”. L’arcivescovo continua parlano di rieducazione e lavoro: “Se l’Italia è fondata sul lavoro non può non esserlo il carcere, non possiamo dire che il lavoro è il primo elemento per il recupero dell’autonomia di una persona e non favorire questo aspetto. Se vi sono persone malate non si può non essere attenti alla diagnosi e alla cura. Se il carcere è luogo anche della cittadinanza e del recupero di responsabilità si deve lavorare sull’educazione alla cittadinanza. Se le persone che vanno in carcere hanno avuto una debolezza nei rapporti bisogna favorire i legami. Non si può pensare che una persona esca dal carcere e magicamente diventi una brava persona se non si fa questo percorso. Si deve investire in misure alternative alla pena, liberare la pena dal carcere”. A questa idea si ricollega Pasquale Longobucco, avvocato e presidente della Camera penale di Ferrara: “Il carcere è un tema scottante e quando se ne parla si dicono cose come ‘non la passeranno liscia’ e ‘buttare via la chiave’, termini aberranti per un paese civile. Si fa poi passare l’idea della sanzione penale legata esclusivamente al carcere: non vi è invece un automatismo tra processo penale e condanna, come non vi è tra condanna, esecuzione della pena e carcere. Ci sono infatti pene alternative alla detenzione, non è vero che si devono stravolgere la Costituzione o l’ordinamento giudiziario per dire che il carcere è lo strumento estremo dell’esecuzione della pena. Oggi invece - aggiunge - la carcerazione è il principale strumento applicato, perché il legislatore continua a implementare l’articolo 4 bis dell’ordinamento giudiziario, che vieta la possibilità di scontare le pene in misura alternativa alla detenzione, articolo che era nato invece per determinati crimini”. Progetto che si è via via esteso nelle varie strutture carcerarie, tra cui Bologna e Ferrara, è quello di creare una squadra di rugby composta da detenuti. Dell’importanza di questo sport ha parlato Giacomo Berdondini, presidente regionale della Federazione Rugby: “Credo che il vantaggio del rugby nella popolazione carceraria sia di essere uno sport di combattimento ma di squadra, in cui l’aspetto fisico è esasperato, e si porta all’esterno del proprio essere quelle che sono le frustrazioni, il confronto è talmente acceso che non lascia spazio a secondi pensieri, se vengo demolito dall’avversario è lui che è stato più forte di me, non ha barato. È un concetto basilare ma potentissimo, a cui si collegano una serie infinita di questioni, devo avere un compagno che mi aiuta a fare meta, servono fisici e caratteristiche diverse, dobbiamo seguire le regole insieme. Il rugby credo sia l’unico sport in cui l’arbitro cerca di prevenire il giocatore nel commettere infrazioni, e crea uno straordinario parallelo con la vita. È secondo me uno sport che si adatta in maniera specifica ad un approccio di riabilitazione e proposta diversa verso un individuo, per risolvere le difficoltà di approccio verso la società che portano una persona ad entrare in carcere”. Roma. Carcere, la frontiera dei diritti: l’incontro all’ambasciata francese La Repubblica, 14 novembre 2022 “Carcere, la frontiera dei diritti?”. È questo il titolo del prossimo incontro del ciclo Ad alta voce: il futuro delle democrazie indetto da Institut Francais e ospitato all’ambasciata francese a Palazzo Farnese, a Roma, lunedì 14 novembre alle ore 18.30. Partendo dalle recenti osservazioni in Europa di problemi di sovraffollamento e violazioni di diritti in carcere, il dialogo tra la garante francese dei luoghi di privazione di libertà Dominique Simonnot, il suo omologo italiano Mauro Palma e la direttrice della Casa circondariale di Torino Cosima Buccoliero si propone di ribadire la questione delle condizioni e dei diritti dei detenuti. È sotto un punto di vista italo-francese che i tre relatori tenteranno di affrontare la questione della dignità in carcere. Non riducendosi alla sola dimensione punitiva, la detenzione potrebbe essere ripensata nel suo modello tramite azioni di tutela e reinserimento dei detenuti nel rispetto dei diritti democratici. Modera l’incontro la giornalista Giulia Merlo Dominique Simonnot è una giornalista francese specializzata in questioni giudiziarie. Il 5 ottobre 2020 è stata nominata dal presidente Emmanuel Macron Controllore generale dei luoghi di privazione della libertà. Cosima Buccoliero dirige la Casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. In precedenza ha ricoperto la guida dell’Istituto penale minorile di Milano Cesare Beccaria e della Casa di reclusione di Milano Bollate. In questi anni ha rivoluzionato l’approccio alla detenzione, contribuendo a trasformare Bollate in un carcere modello. Ha pubblicato, con Serena Uccello, Senza sbarre. Storia di un carcere aperto (Einaudi 2022). Mauro Palma già fondatore e presidente di Antigone e presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT) e del Consiglio europeo per la Cooperazione penalistica (PC-CP) e oggi primo Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Per accedere a Palazzo Farnese è obbligatorio esibire un documento di identità in corso di validità e il rispetto delle misure per il contrasto e il contenimento del coronavirus in vigore al momento dell’evento. Diritti civili spazzati via dall’agenda politica. Anche il nuovo ddl Zan non ha chance di Stefano Iannaccone Il Domani, 14 novembre 2022 I diritti civili sono stati spazzati via dall’agenda politica. Come previsto, infatti, il governo Meloni ha cancellato qualsiasi spiraglio di dialogo sulle questioni che spaziano dal contrasto all’omofobia fino alla riforma della cittadinanza, che si tratti di Ius soli o Ius scholae. Diventa così vano anche il tentativo di Alessandro Zan, che ha ripresentato la sua proposta di legge contro la “discriminazione” e la “violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”, in una versione modificata. In particolare sono stati cancellati due articoli dal testo, il primo, relativo proprio alla definizione di genere, e il quarto, che punta a intervenire sulla tutela del pluralismo di opinioni, ribattezzato “salva idee”. Ideologia anti ddl Zan - Erano i passaggi da sempre stati giudicati più controversi dal centrodestra e comunque frutto di lunghe mediazioni. Un tentativo di fare chiarezza e aprire uno spiraglio in materia di diritti civili, che però si infrange contro il muro impenetrabile eretto dal centrodestra. Un rifiuto totalmente ideologico, proprio da quei partiti, come Fratelli d’Italia e Lega, che hanno accusato di posizioni ideologiche i sostenitori di un ampliamento dei diritti civili. Il ddl Zan, infatti, trova la totale contrarietà del braccio destro di Giorgia Meloni a palazzo Chigi, il sottosegretario Alfredo Mantovano, che porrà il veto anche solo al confronto. La sua posizione è stata esplicitata nel libro, di cui è curatore, dal titolo inequivocabile Legge omofobia, perché non va. Nella pubblicazione c’è una disamina, articolo per articolo, della proposta di Zan. E qui emerge il vero orientamento della destra: il nodo non è rappresentato da due soli articoli. Nel testo di Mantovano, addirittura, la legge sull’omofobia viene definita come la “minaccia dell’olio di ricino per chiunque si opponga a un ricatto ideologico subdolamente totalitario, che pretende di portare alle estreme conseguenze quello “sbaglio della mente umana” che è l’ideologia gender”. Accuse al gender - Insomma, una tesi contraria a prescindere che peraltro fa fatica addirittura ad accettare la piaga dell’omofobia, giudicata come un “stigma” che colpisce chi persegue la visione della cosiddetta famiglia tradizionale. Lo spazio del dialogo viene, peraltro, chiuso di fronte all’ipotesi di istituire una giornata nazionale contro l’omotransfobia, che secondo il Mantovano-pensiero è il “grimaldello per l’ingresso del gender nelle scuole” e serve per “legittimare gli insegnamenti sull’identità di genere”. Del resto alla base della teoria del sottosegretario alla presidenza affiora una convinzione: l’ostilità alla legge Mancino che si basa sui reati d’odio, in quel caso legato alla discriminazione per motivi etnici, razziali o religiosi, che Zan vorrebbe estendere all’omotransfobia. Insomma, con queste premesse le conclusioni sono logiche: il ddl non avrà spazio. Anche perché all’interno di Forza Italia è stata cancellata l’area più dialogante in merito ai diritti civili, che vedeva in Renata Polverini un punto di riferimento. Contro i diritti - La questione non è solo relativa al ddl Zan, ma riguarderà qualsiasi ipotesi di intervento sui diritti civili. Agli atti parlamentari ci sono altre proposte di legge firmate da rappresentanti delle opposizioni. La riforma della cittadinanza, lo Ius scholae naufragato alla fine della precedente legislatura, sembra un obiettivo che interessa principalmente il Partito democratico, che ha presentato vari testi, alla Camera, con l’ex presidente del partito Matteo Orfini, e al Senato, con la capogruppo Simona Malpezzi. Sull’eutanasia sono stati depositate numerose pdl, dal Movimento 5 stelle con Elisa Pirro a +Europa con Riccardo Magi, ma anche dal Pd con Alfredo Bazoli e dal terzo polo con Enrico Costa. Mentre sulla cannabis, oltre a Magi c’è la proposta di Cecilia D’Elia del Pd. Con l’attuale maggioranza di destra, si configurano come iniziative impossibili da attuare. Tuttavia, un varco può aprirsi almeno per portare la discussione all’ordine del giorno, tenendo viva la fiammella del confronto. I regolamenti parlamentari consentono infatti di portare in aula dei provvedimenti proposti dalle opposizioni. Servirà trovare una quadra tra Pd, Movimento 5 stelle e terzo polo su queste battaglie. Per non agevolare ancora di più l’ostruzionismo della destra sui diritti civili, che sono già destinati a sparire dai radar politici per cinque anni o comunque per l’intera durata della legislatura. “Ragazzi isolati e più aggressivi”: ecco l’effetto del lockdown sui giovani e come sono cambiati di Gianni Santucci Corriere della Sera, 14 novembre 2022 Studio sull’impatto psicologico dell’isolamento. I risultati: trasgressività e autolesionismo. Più colpiti i maschi. Il rifiuto di aiuti terapeutici. Più trasgressivi, più tendenti alla violazione delle norme sociali, in qualche modo più impulsivi: tutto come reazione all’isolamento. La definizione scientifica che raccoglie questi atteggiamenti è “rule breaking behaviour”, ed è l’elemento che emerge con maggior evidenza in una delle prime ricerche scientifiche che valuta le conseguenze del lockdown sull’emotività e i comportamenti di adolescenti e ragazzi in Lombardia. Un cambiamento nelle relazioni con l’esterno non generalizzato, ma che ha riguardato soltanto i giovani maschi, e che è stato tanto più accentuato quanto più è stato lungo il periodo di “reclusione” a causa delle norme anti-Covid. La ricerca offre in via indiretta una fondatezza scientifica a una percezione dettata dalle cronache (e dalle esperienze di molte famiglie) rispetto a gruppi di ragazzi e ragazzini che dopo il lockdown sembravano covare un’accentuata smania di andare oltre i limiti e infrangere le regole. La ricerca si intitola: “Impatto dell’isolamento sociale per il Covid-19 sugli esiti comportamentali nei giovani adulti”. È stata realizzata da un gruppo di medici e ricercatori dell’università di Brescia in collaborazione con alcuni colleghi statunitensi, ed è il frutto di una sorta di “riconversione”. Molte analisi sugli impatti psicologici dell’isolamento sociale a causa del Covid sono state infatti realizzate solo nel periodo successivo alla pandemia. Il gruppo di ricercatori che fa capo all’ateneo lombardo aveva invece già in corso un progetto di studio che comprendeva test e valutazioni sull’intelligenza, l’emotività e il comportamento di circa duecento giovani con età media di 19 anni: quel lavoro, dopo la diffusione del Covid-19 e la lunga stagione delle più rigide misure di contenimento della pandemia, è stato la base rispetto alla quale sono stati ripetuti tutti i test per valutare le differenze. Il limite dello studio è che solo una parte degli iniziali partecipanti ha risposto anche alla seconda fase della valutazione. I dati sono stati però sufficienti per verificare una conseguenza diffusa, indipendente dal genere: “L’isolamento sociale è associato con maggiori thought problems”, di fatto la ricorrenza di pensieri negativi, che possono coinvolgere anche la sfera dell’autolesionismo o del suicidio, anche se si tratta solo (appunto) di pensieri. Questo aspetto, pur comune alla maggioranza dei ragazzi “arruolati” nella ricerca, è significativo, ma non spicca comunque per particolare rilevanza. L’elemento che ha invece avuto la crescita più alta nella comparazione tra il prima e il dopo lockdown, è quello che riguarda i ragazzi: “Tra i maschi, il maggior tempo speso in isolamento (dalle 14 settimane) è associato con un aumento dei comportamenti di rottura delle regole”. E ancora, rilevano i ricercatori: “L’isolamento sociale ha avuto un impatto negativo sulla psiche. In particolare, si nota che i maschi tendono a proiettare di più all’esterno la propria condizione”, un dato in linea con l’evidenza che gli uomini “sono meno portati a cercare un intervento terapeutico per trattare la propria salute mentale o i disordini dell’umore”. Migranti e Ong, le nuove regole: soccorso solo in caso di pericolo, multe e sequestro della nave di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 14 novembre 2022 Il piano del Ministero dell’Interno guidato da Matteo Piantedosi: rafforzare gli accordi bilaterali per i flussi e i rimpatri. Le ong dovranno sottoscrivere un codice di condotta per entrare nelle acque italiane. Le Ong che vorranno attraccare nei porti italiani dovranno dimostrare di aver soccorso imbarcazioni a rischio naufragio. Chi non rispetterà questa regola e violerà il divieto di approdo subirà una sanzione amministrativa che potrà prevedere anche il sequestro della nave utilizzata per l’attività di ricerca e salvataggio in mare. È lo schema del provvedimento che il governo sta studiando per regolamentare l’attività delle organizzazioni non governative impegnate al largo delle coste della Libia. Sarà il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi - chiamato mercoledì a riferire in Parlamento sullo scontro diplomatico con la Francia - a confermare la volontà di procedere con un’azione che serva a “gestire i flussi migratori agendo in due direzioni: gli accordi bilaterali con i Paesi d’origine dei migranti e il codice per le navi private”. E in quella sede spiegherà che “l’Italia non aveva emesso alcun divieto per Ocean Viking, sono stati loro a decidere di dirigersi verso la Francia non avendo ottenuto risposta alla richiesta di porto sicuro”. Gli accordi bilaterali - Le intese siglate negli ultimi anni in sede europea per il ricollocamento e la distribuzione dei richiedenti asilo non sono mai state rispettate. Sembra difficile che possa accadere adesso, nonostante le buone intenzioni dichiarate dalla Commissione europea in vista del vertice straordinario dei ministri dell’Interno che si svolgerà a fine mese. In quella sede si chiederà un impegno formale a sostenere gli Stati di partenza dei migranti con progetti di sviluppo sostenuti dalle organizzazioni internazionali, concessione di contributi economici e apparecchiature per il potenziamento dei controlli sia alle frontiere interne della Libia, sia con la Tunisia. Ma proprio come già accaduto troppo spesso in passato, non sembra ci sia alcuna possibilità - almeno al momento e vista l’altissima tensione tra i partner europei - di andare oltre una dichiarazione formale di impegno che però non porterà ad alcun accordo di cooperazione nella distribuzione e ricollocazione degli stranieri. I flussi - L’ipotesi alternativa che si intende esplorare passa dunque per la riattivazione di quegli accordi bilaterali stretti con alcuni Paesi - in particolare la Tunisia, ma anche il Marocco, il Niger, la Nigeria e altri Stati africani - per aumentare il numero di quanti potranno giungere in Italia con flussi regolari in cambio dell’impegno a garantire il rimpatrio di chi non aveva i requisiti per arrivare. Un’attività congiunta tra Viminale e Farnesina che però deve poter contare su stanziamenti anche europei e che finora ha mostrato di non funzionare proprio per la mancanza delle risorse necessarie, ma anche per la scarsa cooperazione di quei governi che chiedono una contropartita adeguata. Per questo si potrebbe utilizzare il Team Europe, il progetto europeo messo a punto durante la pandemia per intervenire sulle situazioni di emergenza e l’Italia chiede di coinvolgere anche i Paesi africani in modo da destinare loro “il 10% delle risorse già allocate” e poi contribuire con altri sostegni di tipo economico. L’attività delle Ong - È certamente il capitolo più controverso del piano che il Viminale vuole rendere operativo. Ma anche quello ritenuto “prioritario”. Perché riguarda l’attività di organizzazioni non governative impegnate nelle attività umanitarie del soccorso in mare. Sulla falsariga di quanto accaduto quando ministro dell’Interno era Marco Minniti, sarà approvato un nuovo codice di condotta per le Ong. Per entrare nelle acque italiane diventerà obbligatorio averlo sottoscritto e la regola principale da rispettare sarà di intervenire soltanto quando esiste un effettivo pericolo per i migranti. In sostanza non si potrà più segnalare la propria posizione a chi è in attesa di partire dalle coste africane in modo da effettuare il trasferimento dai barchini alle navi delle Ong. E anche nei casi in cui si effettua il soccorso di imbarcazioni in pericolo, la procedura prevedrà di avvisare le autorità del Paese più vicino comunicando il tipo di intervento che si sta effettuando. Multe e sequestri - Per chi non rispetterà il codice e questa regola preliminare scatterà automatico il divieto a entrare nelle acque territoriali. In caso di violazione saranno previste sia le sanzioni amministrative (in base alla gravità dei comportamenti) sia il sequestro delle navi. Le ipotesi che vengono studiate dagli esperti giuridici non prevedono al momento contestazioni penali, né lo strumento del decreto legge anche perché sarebbe complicato sostenere la necessità e l’urgenza di intervenire. La strada più agevole sembra quella di una regolamentazione che valga come impegno formale e che farà scattare automaticamente le multe se non sarà rispettata. Regimi che odiano la musica di Siegmund Ginzberg Il Foglio, 14 novembre 2022 “Bella ciao” è tra le canzoni che accompagnano la protesta in Iran. I casali di campagna dove si svolgevano i concerti clandestini venivano circondati dalla polizia. Gli edifici venivano sequestrati. Talvolta dati alle fiamme. I giovani venivano fermati e schedati. I musicisti arrestati. Ci furono processi e condanne. I rave, pardon, i concerti rock, vennero proibiti. Il governo cercò di cancellarne la memoria. Traviavano la gioventù, si disse. Avevano “un effetto sociale negativo”. Diffondevano uno spirito anarchico, di teppismo. Erano brutti, sporchi, probabilmente drogati. Erano pericolosi per sé e per gli altri giovani. Per giunta esercitavano un insopportabile, disgustoso lassismo sessuale. E avevano pure i capelli lunghi. Pericolosi lo erano davvero. Anche se loro non sapevano di esserlo. Fecero cadere un regime che si pensava incrollabile. Siamo in Cecoslovacchia, negli anni 70 del secolo scorso. L’arresto, nel 1976, dei Plastic People of the Universe (sì, pure un decadente nome straniero, occidentale, si erano scelti...) ispirò Carta 77, la Rivoluzione di velluto a Praga, la caduta del Muro di Berlino, il crollo dell’Urss. Tom Stoppard, il più grande autore di teatro britannico vivente nel 2006 gli ha dedicato una delle sue opere più famose: Rock ‘n’ roll. Usa le loro canzoni per spiegare il 1989, e anche il clima cupo dell’Inghilterra di quegli anni. Da una parte è finita in Putin, dall’altra nella Brexit. Ma questo nessuno poteva prevederlo. “Come decine, centinaia di altre bande musicali, noi non volevamo fare la rivoluzione, amavamo il rock ‘n’ roll, volevamo diventare famosi”, ha ricordato il bassista della banda, Milan Hlavsa. Cantavano il disgusto della loro generazione: “La costipazione mi sta torturando / E’ come avessi una pietra nello stomaco / E fuoco nella vescica / Come stessero marcendo le viscere…”. “Se hai 20 anni ti viene voglia di vomitare / Se ne hai 40, anche più conati / Solo gli sclerotici di 60 dormono tranquilli”. O qualcosa che potrebbero cantare oggi i giovani russi: “Perché dovrei arruolarmi? Me lo sto chiedendo davvero / Per farla finita / Per un inferno di sangue / Come se non mi bastasse la vita da civile…”. Una delle loro canzoni era intitolata “100 bod?”, I cento punti. Elencava le cento cose di cui il potere ha paura: “Hanno paura dei vecchi causa la loro memoria […] / Hanno paura dei giovani causa la loro innocenza / dei morti e i funerali […] / della Chiesa, dei preti e delle suore / dei lavoratori […] / dei pittori e dei cantanti […] / della destra / della sinistra […] / degli impegni che hanno firmato / di Marx / di Lenin […] / della democrazia / dei diritti dell’Uomo / del socialismo[…]”, e così via, a ripetere il ritornello “Hanno paura”, contando fino a cento, fino a concludere: “E perché mai noi dovremmo avere paura di loro?”. Altra epoca. Altro paese. Quasi mezzo secolo dopo in Iran e nel mondo impazza un’altra canzone. È diventata l’inno delle donne che si tolgono il velo. Risuona in tutte le manifestazioni. Si intitola Baraye, che in persiano vuol dire: “per”. È un elenco di motivi per lottare, per protestare. “Per danzare nelle strade / Per la paura di baciarsi / Per mia sorella, tua sorella, le nostre sorelle / Per cambiare menti marce [degli ayatollah] / Per la vergogna di essere poveri / Per volere giusto una vita normale / Per il ragazzo che raccoglie la spazzatura, e i suoi sogni / Per la nostra economia pianificata / Per l’aria inquinata che respiriamo / […] Per i cani, innocenti ma banditi / Per le troppe lacrime / Perché è venuto il momento / Per i volti che sorridono / Per gli studenti, il nostro futuro / Per il Paradiso forzato / Per quelli che sono in prigione / Per i bambini afghani / Perché finisca l’elenco di tutti questi per / Per gli slogan vuoti / Per le case che crollano come castelli di carte / Per la pace / Per il sole dopo lunghe notti/ Per le pillole contro l’ansia e l’insonnia / Per gli uomini, la patria, lo sviluppo / Per le ragazze che vorrebbero essere maschi / Per le donne, la vita, la libertà / Per la libertà / Per la Libertà / Per la libertà…”. Era diventato un tormentone subito dopo la morte di Mahsa Amini, la ragazza curda morta dopo essere stata arrestata dalla “polizia della morale” perché il fazzoletto che le copriva il capo lasciava libera una ciocca di capelli. L’autore, Shervin Hajipour, venticinquenne, era stato anche lui arrestato poco dopo. Pare sia stato liberato, e gli hanno persino fatto fare un video in cui dice che non fa politica e invita i suoi coetanei a cessare le proteste. Avevano evidentemente strumenti convincenti. Nel video, girato in un veicolo, si intravede qualcuno alle sue spalle, che non mostra il volto, né è dato vedere se indossi un’uniforme. Ormai si spara ad altezza d’uomo. Dall’inizio delle proteste ci sono stati 244 morti, tra cui 23 minorenni, e chissà quanti feriti o arrestati. Ma non sono riusciti a fermare né la protesta né la canzone. Spesso è accompagnata da un’altra canzone, sempre in persiano, ma con una melodia a noi molto familiare: Bella ciao. Della versione in farsi ce n’è, su tutti i social, una cantata con straordinaria passione da Yashgin Kiyani. È una canzone che dilaga ormai in tutto il mondo, ovunque ci sia una protesta contro l’autoritarismo, i soprusi. Quasi sempre è cantata al femminile, da donne per donne. In Iran è cantata dalle ragazze che, a rischio della vita, si tolgono il fazzoletto, lo fanno roteare come fosse una frusta, lo bruciano. E dire che da noi, anziché esserne fieri, c’è stato qualche imbecille che si è risentito perché qualcuno la intonava, con l’argomento che sarebbe troppo “politica”, troppo “di parte”. Politica e di parte, certo. Ma almeno dalla parte giusta. Ero a Teheran quando, quarantacinque anni fa, il popolo, tutto il popolo, donne e uomini, laici e islamici, sinistra e destra, era insorto contro il dispotismo dello Scià. Le scene di questi giorni mi sembrano un déjà vu: i lavoratori di Abadan che paralizzano l’estrazione e le raffinerie di petrolio, la protesta nelle strade, i militari che sparano sulla folla, il labirinto del bazar con le saracinesche abbassate, le strade e i giardini attorno all’università teatro di inseguimenti, le rincorse tra gruppi di dimostranti e forze dell’ordine, la vibrazione metallica delle pallottole che fischiano, le macchie di sangue sull’asfalto (ho visto un cervello che l’esplosione della scatola cranica aveva gettato per terra, a lungo tornava nei miei incubi), lo schiocco degli spari da una parte e l’esplosione dei canti e degli slogan gridati dall’altra. Allora “Azadi”, “libertà” si alternava a: “Allahu akbar, Khomeini rahbar”, “Allah è grande, Khomeini è il leader”. La notte, durante il coprifuoco, per strada risuonavano gli spari, dai tetti e dalle finestre di tutte le case, con voci maschili e femminili, gli slogan e i canti rivoluzionari. Non c’erano ancora i cellulari. Né Twitter o TikTok. Venivano diffuse capillarmente cassette audio o video (in video i discorsi di Khomeini). Avevo raccolto un’intera collezione, centinaia di quelle cassette. Alcune erano musiche potenti, di grandi compositori. Anche a trovare il mangianastri giusto, mi ci vorrebbero settimane per risentirli. Alcune erano canzoni e musiche altisonanti, retoriche. La differenza con i canti e le musiche di questi giorni è che quelle di allora erano molto violente, urlate. Come violentissimi sono molti inni nazionali che in Europa abbiamo ereditato dall’Ottocento o addirittura dalla Rivoluzione francese, Allons enfant cantata da Mireille Mathieu fa venire i brividi. Se poi si bada alle parole (“abbeveriamo i nostri campi con il sangue impuro…”), siamo nel truculento. In confronto le canzoni del ‘68, che invitavano a “prendere il martello e picchiare con quello” erano quasi gentili. La differenza tra ieri e oggi è notevole. Quanto erano sanguinari i canti iraniani di allora, quanto è duro, a risentirlo oggi, il metal dei Plastic People of the Universe, tanto colpisce la mitezza ragionata, la dolcezza di voce e di toni del “Baraye” di Hajipour. Quasi un pianto sommesso, ma che spacca le pietre. Mezzo secolo fa era tutto più truculento. Accanto alle cassette passavano di mano in mano polaroid tremende, di arti amputati accatastati in un angolo degli obitori. Ci si compiaceva del sangue e del martirio. Poi venne il massacro vero, il milione e più di morti negli otto anni della guerra con Saddam Hussein. E gli passò ogni voglia di guerra, le guerre erano tanto impopolari che l’Iran si guardò bene dall’intervenire in Afghanistan, dove pure aveva un interesse diretto. Oggi la protesta ha un viso dolce, femminile. Scherza: è virale una compilazione di video in cui si vedono ragazzi e ragazze arrivare alle spalle dei religiosi e fargli volar via, con uno scappellotto, il turbante. Sono giovanissimi, non erano ancora nati negli anni di ferro e di fuoco. Forse non si rendono conto che stanno scherzando col fuoco. Possiamo considerarlo un assioma. Ai regimi autoritari e ai governi di destra non piacciono giovani che cantano e ballano. Sin dai tempi della Repubblica di Platone. Ma soprattutto nell’atroce “secolo breve”, che pure vide il trionfo del jazz, del rock, dei Beatles, della contestazione giovanile e della democrazia liberale. Non amavano la musica, per dirla meglio non amavano una musica che non fosse la loro, i nazisti. Disponiamo di una documentazione scrupolosamente conservata negli archivi della Gestapo: le denunce da parte di infiltrati della Hitlerjugend nei rave di quelli che chiamavano gli “swing di Amburgo”. I delatori sono inorriditi dal fatto che quei loro coetanei delle scuole medie siano irretiti dagli anglicismi, si vestano da inglesi, con tanto di immancabile ombrello, abbiano i capelli lunghi, le ragazzine siano truccate e si mettano il rossetto, sono scandalizzati dal loro modo di muoversi effeminato, che ballino in modo frenetico e scomposto, saltellando come scimmie, al suono di musiche “degenerate”, anglo-americane, che si salutino l’un l’altro con uno “Swing heil!” anziché un “Hitler heil!”. Soprattutto sono scioccati dalla loro promiscuità sessuale. La Gestapo circonda i raduni, identifica, prende impronte digitali, nota che tra le musiche ci sono quelle di ebrei, negri e “degenerati” tipo Benny Goodman, Louis Armostrong, Duke Ellington, Ella Fitzgerald. Mandano a casa, con una ramanzina, i “figli di papà”; spediscono in campo di concentramento i figli di famiglie “rosse” o di ebrei. Uno di loro, Axel Springer, sarebbe diventato il più importante editore tedesco del Dopoguerra. All’inizio c’è chi, nel regime, è un po’ più furbo degli altri e invita alla tolleranza: tra questi il capo della propaganda Goebbels, al quale la musica “degenerata” non dispiaceva. Ma il capo delle SS Himmler non ha dubbi: “Questo male va totalmente estirpato alle radici”, “tutti i caporioni vanno mandati in campo di concentramento, e per non meno di due-tre anni”, “solo così si potrà evitare il diffondersi di queste tendenze anglofile in un momento in cui la Germania sta lottando per la sua stessa sopravvivenza”. Più tardi li manderanno a morire al fronte, o li impiccheranno in pubblico, come fecero con gli Edelweißpiraten, sorpresi a ballare musica decadente nei boschi. È capitato a tutte le latitudini. Nell’Urss degli anni 20 avevano tentato di mettere al bando i sassofoni. In Sudafrica, durante l’apartheid, la censura su radio e tv graffiava i dischi sgraditi di modo che non potessero più essere mandati in onda. In Afghanistan i talebani avevano bandito ogni tipo di musica. Le primavere arabe aveva visto fiorire rock e heavy metal islamici. Poi è tornato l’inverno. In Cina negli anni della Rivoluzione culturale erano proibiti, oltre a tutto il resto, anche Mozart e Beethoven. Era considerato controrivoluzionario ascoltare quasi tutto, ad eccezione di L’Oriente è rosso, di Senza il Partito comunista non ci sarebbe la Nuova Cina, e poco altro. Poi sono arrivati anche lì il pop e il rock. Una nuova stretta c’è stata nella Cina di Xi Jinping. Non solo restano proibite le canzoni di piazza Tiananmen. E’ stato chiuso da poco un sito che faceva milioni di click. Era dedicato al rap cinese. Le canzoni denunciavano la corruzione. Non che avessero avuto vita facile, nella “terra dei liberi”, il jazz o il rock ‘n’ roll. E nemmeno il gangsta rap. Facevano scandalo, c’erano state retate, li avevano proibiti esattamente come avevano fatto per l’alcool. Per il bene della gioventù, della patria e della morale, ça va sans dire. Ma tutto inutile: boys will be boys, and girls too. Le proibizioni furono travolte, il rock prevalse, anzi trionfò, dando vita, negli anni 50 e 60, alla più straordinaria, inarrestabile rivoluzione dei costumi che l’America e forse il mondo intero abbiano conosciuto. Vedere Glenn Altschuler, All Shook Up: How Rock ‘n’ Roll Changed America (Pivotal Moments in American History) per i particolari di cronaca. Il pendolo inverte direzione. Anche in America. Non so se oggi sarebbe possibile organizzare o lasciar svolgere spontaneamente un raduno di giovani e di concerti che sconvolse e cambiò un’intera generazione, come quello di 50 anni fa in un campo abbandonato, upstate New York, a Woodstock. Ma ho l’impressione che nessuno, nemmeno i trumpiani, sarebbe così stupido da proibirlo per legge. La carta stampata non consente di rendere i suoni. Per chi volesse anche vedere e sentire, aggiungo un abbozzo di discografia in web. Sull’Iran: Arghawan Farsi, “Songs for Freedom: the Power of Music in Iranian Protests” (su www.resetdoc.org); sul rock cinese all’epoca del massacro di piazza Tiananmen: “Nothing in my Name” (www.wikipedia.org); sui Plastic People of the Universe, la compilazione “Egon Bondy’s Happy Hearts Club”, ovviamente a suo tempo bandita in Cecoslovacchia (si trova tutta su YouTube). Turchia. Curdi, Stato Islamico e armeni: i nemici trasversali di Erdogan di Daniele Raineri La Repubblica, 14 novembre 2022 L’attivismo turco in politica estera moltiplica le piste per individuare la matrice dell’attentato a un anno dalle elezioni. Una strage di passanti con una bomba nel centro di Istanbul ci porta subito verso due grandi sospettati: il primo è il Pkk, il partito curdo dei lavoratori, che della Turchia è nemico acerrimo; il secondo è lo Stato islamico, il gruppo di fanatici che in Medio oriente non è più potente come un tempo e che considera il governo turco una potenza infedele da colpire - e non un alleato come talora si dice in modo davvero troppo sbrigativo. La pista islamista è quella più debole. Di solito lo Stato islamico è veloce nelle rivendicazioni, che arrivano il giorno stesso degli attentati sui canali Telegram del gruppo perché sono preparate con grande anticipo, ma questa volta non è successo. Inoltre il gruppo estremista usa nel novantanove per cento dei casi attentatori maschi. Invece ieri le autorità turche hanno pubblicato le immagini di una donna accusata di avere piazzato la bomba, dentro a una borsa, ai piedi di una panchina. Tutto, dalla sua maglietta ai pantaloni mimetici attillati, fa pensare che la sospettata non sia una seguace dello Stato islamico, che segue regole molto rigide in fatto di vestiario. La bomba è stata fatta detonare con un comando a distanza e anche questo non coincide con il modus operandi degli islamisti, che quando possono usano un attentatore suicida per massimizzare l’effetto dell’attacco. Quest’ultimo - volontario suicida oppure no - non è un elemento dirimente, ma è necessario tenerlo presente assieme a tutto quello che sappiamo. Un giro sui canali Telegram del gruppo, che solitamente sono molto sensibili alle notizie di attentati, non tradiva picchi di attenzione da parte dei simpatizzanti. Il Pkk è l’altro grande indiziato. Da nove mesi siamo assorbiti dall’invasione russa in Ucraina, ma naturalmente questo non vuol dire che le altre aree di crisi nel mondo abbiano cessato di produrre violenza estrema. A ottobre i curdi hanno accusato l’esercito turco di avere usato armi chimiche contro un campo del gruppo nel nord dell’Iraq, durante uno dei raid che la Turchia lancia con frequenza contro i militanti del Pkk nei paesi vicini. La notizia non è stata ancora verificata, ma rende l’idea dell’intensità della lotta in quella regione. Negli ultimi dieci giorni ci sono stati anche molti bombardamenti turchi nel nord della Siria, sempre nelle zone controllate dai curdi. Già a giugno, durante una visita di Repubblica in una zona contesa del confine siriano, le unità militari curde avevano spiegato che i droni di Ankara “ci colpiscono almeno un paio di volte a settimana”. Il sospetto contro il Pkk ha scatenato la solita ridda di polemiche contro i politici curdi, che in Turchia sono considerati contigui ai terroristi. Ieri i media armeni hanno parlato anche di una rivendicazione dell’attentato da parte del gruppo Asala, sigla dell’Esercito segreto armeno per la liberazione dell’Armenia. Si tratta di una fazione che è in ibernazione dal 1991. Quando era attiva, firmò una lunga sequenza di attentati contro la Turchia come rappresaglia per il genocidio degli armeni e per il negazionismo turco. Il fatto che arrivi dopo trent’anni di silenzio rende la rivendicazione poco credibile - per adesso. Ecco, il problema della Turchia è che è al centro di troppe piste e di troppi scenari per attribuire con certezza la responsabilità di un attacco, in mancanza di rivendicazioni chiare. La bomba fatta esplodere a quell’ora di pomeriggio di sabato aveva l’obiettivo di attirare il massimo dell’attenzione su Ankara, che in questo momento è protagonista sulla scena internazionale. Da mesi il presidente Erdogan è il mediatore più efficiente fra Ucraina e Russia, l’unico a portare a casa qualche risultato - dalla sospensione del blocco navale che impediva l’esportazione del grano ucraino fino alle complesse trattative per gli scambi di prigionieri. Ora che Kherson è stata liberata e anche l’Amministrazione Biden fa pressione sugli ucraini affinché accettino di negoziare con i russi, il ruolo da mediatore di Erdogan è sempre più forte - e a lui non dispiace, soprattutto in vista delle elezioni del giugno 2023. Il leader turco oggi parte per il G20 di Bali. Iran. Prima condanna a morte dall’inizio delle proteste La Repubblica, 14 novembre 2022 Un tribunale di Teheran ha condannato a morte, per la prima volta, una persona accusata di aver partecipato alle “rivolte” esplose dopo la morte di Mahsa Amini, la 22enne curda deceduta dopo essere stata arrestata dalla polizia morale per non aver indossato nel modo corretto l’hijab. Secondo il verdetto, riportato dall’agenzia di stampa della magistratura iraniana Mizan, questa persona, di cui non è stata rivelata l’identità, è stata condannata a morte per “aver appiccato il fuoco a un edificio governativo, turbato l’ordine pubblico, per essersi riunito e aver cospirato per commettere un crimine contro la sicurezza nazionale”. Mentre un altro tribunale della capitale ha condannato cinque persone a pene detentive dai 5 ai 10 anni per aver “riunito e cospirato per commettere crimini contro la sicurezza nazionale e aver disturbato l’ordine pubblico”. I condannati, scrive Mizan, possono decidere di ricorrere in appello contro la decisione. L’Iran è stato scosso da un’ondata di proteste dopo la morte, il 16 settembre, di Mahsa Amini. Gli iraniani continuano a manifestare da mesi contro il governo e la violenta repressione delle autorità. Segni di sfida, come tagliarsi i capelli o bruchiare l’hijab, si sono diffusi in tutto il mondo per sostenere il grido degli iraniani: “Donne, vità e libertà!”. Secondo le organizzazioni per i diritti umani che monitorano la situazione dall’estero, gli arrestati sono 15 mila, ma Teheran smentisce il dato. Il direttore generale della giustizia della provincia di Hormozgan, citato da Mizan, ha annunciato l’incriminazione di 164 persone “accusate dopo le recenti rivolte per la sicurezza” nella provincia. “A margine di una visita al centro di detenzione provinciale di Hormozgan, il capo della giustizia provinciale, Mojtaba Ghahremani, ha annunciato che 164 persone detenute durante i recenti disordini saranno processate da giovedì, alla presenza dei loro avvocati”, ha riferito Mizan. Sono accusati di “raduno e cospirazione contro la sicurezza del Paese”, “propaganda contro il regime”, “disturbo dell’ordine pubblico”, “sommossa”, “incitamento all’omicidio”, “ferimento di agenti di sicurezza” e “danneggiamento di proprietà pubbliche”. Asadollah Jafari, direttore generale dell’Autorità Giudiziaria della provincia centrale di Esfahan, citato dall’agenzia Tasnim sabato sera, ha dichiarato che sono state intentate 316 cause in relazione ai recenti disordini. Secondo lui, 12 imputati sono già stati processati. Ancora, altre 276 persone sono state accusate nella provincia di Markazi, secondo Abdol-Mehdi Mousavi, direttore della giustizia della provincia, citato dall’agenzia ufficiale Irna. Intento, un centinaio di giovani arrestati durante le recenti proteste sono stati rilasciati senza processo dopo aver firmato l’impegno a non partecipare a ulteriori “disordini”. L’Unione europea domani discuterà un nuovo pacchetto di sanzioni contro l’Iran dopo la sanguinosa repressione delle manifestazioni da parte delle autorità. Nel Consiglio Affari Esteri che si riunirà domani a Bruxelles sul tavolo ci saranno due dossier, uno ucraino e l’altro iraniano. “Stiamo seguendo con rispetto e attrazione gli iraniani che combattono per i propri diritti umani. Dobbiamo sostenere la loro battaglia e per farlo probabilmente i ministri adotteranno un nuovo pacchetto di sanzioni all’Iran”, ha spiegato un alto funzionario europeo secondo il quale i ministri discuteranno anche dell’invio delle armi iraniane a Mosca.