Appello. Fermiamo la strage dei suicidi in carcere. Qui ed ora… si può! Ristretti Orizzonti, 13 novembre 2022 76 morti in poco più di 10 mesi. È il numero di suicidi in carcere registrati fino ad oggi. Un record lugubre, terribile, inaccettabile. Mai prima d’ora era stato raggiunto questo abisso. Sappiamo bene cosa si dovrebbe fare per evitare o contenere questo massacro quotidiano: depenalizzare e considerare il carcere solo come extrema ratio, moltiplicare le pene alternative, dare la possibilità al cittadino detenuto di iniziare un vero percorso di inclusione nella comunità. Chi è in custodia nelle mani dello Stato dovrebbe vivere in spazi e contesti umani che rispettino la sua dignità e i suoi diritti. Chi è in custodia dello Stato non dovrebbe togliersi la vita! Insomma, sappiamo bene, perché ne discutiamo da anni, da decenni quali siano le strade per fermare la strage, ma la politica, quasi tutta la politica, è sorda perché sul carcere e sulla pelle dei reclusi si gioca una partita tutta ideologica che non tiene in nessun conto chi vive “dentro”, oltre quel muro che divide i “buoni” dai “cattivi”. Insomma, non c’è tempo: il massacro va fermato qui ed ora. E allora proponiamo una serie di interventi immediati che possano dare un minimo di sollievo al disagio che i detenuti vivono nelle carceri “illegali” del nostro Paese. 1. Aumentare le telefonate per i detenuti. È sufficiente modificare il regolamento penitenziario del 2000, secondo cui ogni detenuto (esclusi quelli che non possono comunicare con l’esterno) ha diritto a una sola telefonata a settimana, per un massimo di dieci minuti. Bisognerebbe consentire ai detenuti di chiamare tutti i giorni, o quando ne hanno desiderio, i propri cari. 2. Alzare a 75 giorni i 45 previsti a semestre per la liberazione anticipata. 3. Creare spazi da dedicare ai familiari che vogliono essere in contatto con i propri cari reclusi per valorizzare l’affettività. 4. Aumentare il personale per la salute psicofisica. In quasi tutti gli istituti vi è una grave carenza di psichiatri e psicologi. 5. Attuare al più presto, con la prospettiva di seguire il solco delle misure alternative, quella parte della riforma Cartabia che contempla la valorizzazione della giustizia riparativa e nel contempo rivitalizza le sanzioni sostitutive delle pene detentive. I firmatari Roberto Saviano, scrittore Gherardo Colombo, ex magistrato Luigi Manconi, sociologo Giovanni Fiandaca, giurista Massimo Cacciari, filosofo Fiammetta Borsellino Mattia Feltri, giornalista Francesca Scopelliti, Fondazione Tortora Walter Verini, commissione Giustizia Senato Anna Rossomando, vicepresidente del Senato Mariolina Castellone, vicepresidente del Senato Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino Marco Cappato, Associazione Luca Coscioni Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace Riccardo Polidoro, osservatorio carcere Ucpi Gianpaolo Catanzariti, osservatorio carcere Ucpi Michael L. Giffoni, ex ambasciatore italiano Paolo Ferrua, giurista Giovanni Maria Pavarin, presidente Tribunale di Sorveglianza di Trieste Tommaso Greco, filosofo Tullio Padovani, giurista Ornella Favero e Redazione di Ristretti Orizzonti Rossella Favero, Cooperativa AltraCittà Annamaria Alborghetti, Commissione Carcere Camera Penale Padova Luca Muglia, Garante dei detenuti della Regione Calabria Ascanio Celestini, scrittore e attore Carceri, 76 suicidi. “Il sistema non sa cosa fare” di Peppe Rinaldi Tempi, 13 novembre 2022 Ogni quattro giorni un uomo dietro le sbarre si toglie la vita. Intervista a Riccardo Arena (Radio Carcere): “La maggior parte dei detenuti è composta da persone psicologicamente fragili”. “Ma il carcere costruito in tal modo mi sembra troppo comodo, no? Comodo dev’essere se volete attirare più clienti”. Fu il principe Antonio De Curtis, gigante della fantasia, in “Totò terzo uomo” a pronunciare l’irresistibile frase. Ma era fantasia, appunto. Un uomo in cella rimanda a mozioni interiori ancestrali, sbanca le montagne della storia e si annida nell’anima di una società, qualunque essa sia. E la nostra, parafrasando qualcuno, non si sente tanto bene al riguardo. Si entra (e non si entra) per mille ragioni ma dopo, spesso, troppo spesso, non si sa come va a finire. I numeri oggi ci dicono che in molti casi va a finire male: settantacinque suicidi dall’inizio del 2022, uno ogni quattro giorni di media. E manca ancora un mese alla fine dell’anno. Tempi ne ha parlato con Riccardo Arena, giornalista, avvocato penalista, storico direttore della rubrica di Radio Radicale “Radio Carcere”. Insomma, uno che conosce bene l’argomento. Settantacinque suicidi dall’inizio dell’anno secondo il rapporto diffuso nelle scorse ore da Antigone: secondo te perché c’è stata questa recrudescenza, ammesso che sia possibile individuare una sola causa? Intanto i suicidi nelle carceri sono diventati 76, l’ultimo, per ora, si è impiccato nel carcere di Torino. Ma, al di là dei numeri, che mai sono stati così alti dal 2009 quando contammo 72 suicidi, resta il fatto che negli anni la tipologia della popolazione detenuta è cambiata profondamente, mentre il carcere è rimasto lo stesso, rigido come un monolite. Oggi infatti, e a differenza di anni fa, sono una minoranza i cosiddetti banditi incalliti, i duri e puri che resistono al degrado carcerario, mentre la maggior parte dei detenuti è composta da persone psicologicamente fragili, disperate, persone che arrivano da una libertà emarginata. Persone per le quali la detenzione, così come viene eseguita oggi, equivale a ricevere un colpo di grazia. Ecco, credo che quest’impennata di suicidi dimostri prima di tutto l’assoluta incapacità dell’attuale sistema penitenziario, che è rimasto sempre lo stesso da oltre 30 anni, ad affrontare questo cambiamento. Mi indichi, con relativa precisione, dove e in cosa l’Italia è “fuori” dalle leggi e regolamenti europei/internazionali in tema di regime carcerario? L’elenco sarebbe lungo e forse noioso. Mi limito a citare l’articolo 3 della Convezione Europea dei Diritti dell’uomo che vieta trattamenti disumani e degradanti. A questo proposito la Corte Europea ha stabilito che vi è trattamento disumano e degradante quando una persona detenuta vive in cella con meno di 3 metri quadrati calpestabili. Ebbene, oggi abbiamo in Italia 56.225 detenuti che sono ristretti in circa 47 mila posti effettivi e sono davvero poche, per non dire pochissime, le celle delle carceri dove i detenuti vivono con più di 3 metri quadrati a testa. Ora, provate a contare 3 metri quadrati e poi provate a immaginare di vivervi per 2, 3 o 6 anni senza poter fare nulla di utile per tutto il giorno, senza poter sperare di rifarvi una vita. Questa è la realtà della maggior parte dei penitenziari italiani, anche se l’Europa, dopo la sentenza Torreggiani, sembra averlo dimenticato. Nelle altre nazioni Ue c’è una situazione analoga a quella italiana in tema di suicidi in carcere? Gli ultimi dati disponibili, che risalgono al 2019, ci dicono che in Italia il 38 per cento dei decessi era dovuto a suicidio, mentre la media dei suicidi nelle carceri europee era del 28 per cento. Un dato che va preso con le molle, non solo perché datato, ma anche perché tra i Paesi dell’Unione Europea le singole realtà detentive sono assai diverse, come diverse sono le soluzioni adottate. In carcere si muore per le stesse ragioni per le quali ci si suicida? Il problema della tutela della salute in carcere è di grande portata. E questo non solo per i decessi dovuti a malattia che sono avvenuti dall’inizio del 2022 (ben 76 anche qui), ma per le sofferenze patite da chi si ammala in carcere e non riceve cure adeguate. Penso a chi è affetto da un tumore e non riceve una terapia costante, penso a chi per giorni ha avuto in cella un infarto ed è stato ignorato o a chi ha perso un rene o una gamba perché non si è intervenuti in tempo. Senza dimenticare chi soffre di una patologia psichiatrica, chi patisce il peso di una dipendenza o chi è anziano e non ha nessuno, se non un compagno di cella che lo possa accudire. Ora, per carità, chi sbaglia è giusto che paghi, ma c’è scritto da qualche parte che chi è condannato debba anche rischiare di morire per una pena o debba patire sofferenze non previste in nessuna sentenza penale di condanna? Quanto incidono la relazione e la gestione delle funzioni tra guardie carcerarie e detenuti in questo fenomeno? Sono tantissimi gli agenti della polizia penitenziaria che sono bravi e che salvano delle vite. Poi, certo, come in ogni categoria, c’è chi non fa bene il proprio lavoro e quando questo accade nelle carceri diventa drammatico. Ma il punto credo sia un altro. Ovvero che nelle carceri gli agenti si devono occupare solo della sicurezza, mentre sono costretti loro malgrado a fare da educatori, da psicologi o da mediatori culturali, che non è il lavoro per cui sono stati formati, anzi non è proprio il loro lavoro. E questo perché i nostri penitenziari sono privi di quelle figure professionali che sarebbero assolutamente necessarie per rendere la pena un tempo utile e far sì, anche a tutela della nostra sicurezza, che si esca da lì migliori e non peggiori rispetto a quando si è entrati. Insomma, le nostre galere assomigliamo sempre di più a enormi magazzini dove stipare corpi dalle vite sospese, magazzini dove oltre ai custoditi ci sono solo i custodi. Anche la polizia penitenziaria lamenta forte carenza d’organico e pessime condizioni di lavoro, in questi anni abbiamo assistito anche ad un aumento dei suicidi tra il relativo personale in servizio: come te lo spieghi? È vero. Oggi la polizia penitenziaria è costretta a fare un lavoro più che usurante, direi disperante. E se a questo aggiungi un’assoluta mancanza di un supporto psicologico o occasioni per ricevere un minimo di ascolto, la ricetta per un dramma annunciato è pronta. Ed è in questo che i destini e le sofferenze tra “guardie” e “ladri” si ritrovano, perché nelle carceri custodi e custoditi sono vittime dello stesso degrado. Quale è il carcere peggiore in assoluto in Italia e quale il “migliore” e perché? Eh! I peggiori sono tanti e per diverse ragioni. Mi viene in mente l’inferno di Poggioreale, Canton Mobello di Brescia, quello di Taranto, quello di Termini Imerese, o quello di Pordenone che è un castello del 1200! Sui migliori invece spicca, o almeno spiccava, il carcere di Bollate. Un carcere dove i detenuti lavorano, si rifanno una vita e dove è bassissimo il tasso di recidiva. Un carcere, che dovrebbe essere la normalità in un paese civile, che però è nato e resta come un esperimento. Tradotto: in Italia ciò che funziona resta arginato ad eccezione e i risultati positivi di quell’esperimento restano tali e non diventano prassi. Mi sembra un tipico paradigma italico o no? Da dove bisognerebbe cominciare, quale potrebbe essere l’inizio vero di una inversione di rotta? I problemi nelle carceri sono tanti e sono aumentati nel tempo per colpa di una politica indifferente. Oggi credo che sarebbe importante iniziare raccogliendo la proposta del Comitato contro la Tortura del Consiglio d’Europa che ha invitato gli Stati membri a introdurre il numero chiuso nelle carceri. Ecco quella sì che sarebbe una bella partenza. Cartabia: una riforma dai meccanismi complessi per soggetti professionalmente attrezzati di Giorgio Spangher sicurezzaegiustizia.com, 13 novembre 2022 Anche se la sua entrata in vigore è stata differita al 30 dicembre 2022 la riforma Cartabia della giustizia penale, pur non escludendosi modifiche in fase di conversione del d.l. n.162 del 2022, consente di sviluppare alcune riflessioni di ordine generale sull’origine e gli sviluppi della legge delega e della sua attuazione, nonché sulle sue linee portanti. Nata dall’esigenza di bilanciare la riforma della prescrizione nel contesto della legge “Spazzacorrotti”, la riforma di cui all’AC 2435 ha subìto le modifiche determinate dalle variazioni della compagine di governo e dalle determinazioni europee connesse al PN e alla conseguente esigenza di decongestionare il carico giudiziario nella misura del 25%. Il testo, attuativo della l. delega n. 134 del 2021, evolutosi alla luce dei lavori delle Commissioni ministeriali, ci consegna un prodotto (il d.lgs. n. 150 del 2022) che integrato dalle previsioni immediatamente operative dell’art. 2 della cit. l. n. 134 del 2021, che ha introdotto l’art. 344 bis c.p.p. che disciplina l’improcedibilità per superamento dei termini delle fasi di impugnazione si regge su tre pilastri: modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e normativa di attuazione, giustizia riparativa (oltre a norme di raccordo riguardanti le previsioni collaterali: giudice di pace, processo minorile, in primis). In termini contenutistici e di sistema sono molte le considerazioni che possono essere sviluppate tra elementi generali e profili di maggiore specificità (che tuttavia, in alcuni casi rappresentano linee di tendenza dell’evoluzione normativa nei peculiari settori interessati: interessi civili e confische, ad esempio). Naturalmente, c’è la piena consapevolezza che le norme processuali e quelle sostanziali non sono sufficienti a risolvere i deficit di efficienza della macchina giudiziaria. Conseguentemente, la manovra di adeguamento dei presupposti e dei percorsi processuali è accompagnata dal rafforzamento degli organici (magistrati e personale amministrativo), da personale di supporto (l’ufficio del processo: il relativo d.lgs. al n. 151 non è stato rinviato) nonché dall’ informatizzazione della macchina giudiziaria. Nell’impossibilità di procedere all’amnistia ed alla depenalizzazione si è proceduto per perseguire il riferito obiettivo di decongestionare il carico giudiziario attraverso strumenti deflattivi e premiali, ma anche cercando di superare alcune incrostazioni dei percorsi procedimentali. L’operazione si regge in primo luogo su di una forte integrazione tra il diritto penale sostanziale e il diritto processuale penale. La chiave di volta è costituita dalle modifiche del sistema sanzionatorio attraverso la trasformazione delle sanzioni sostitutive di cui alla l. n. 689 del 1991, in pene sostitutive delle detenzioni brevi, così da intercettare la fascia medio-bassa della criminalità, quella numericamente più diffusa e in qualche modo recuperabile attraverso la premialità e l’uscita dal processo. Naturalmente queste pene e vere proprie, ancorché sostitutive, con i loro presupposti, esecuzione, contenuti, preclusioni e divieti si innestano nei percorsi processuali tradizionali che per questo inserimento diventano oggetto di valutazione da parte dell’imputato e del suo difensore. Conseguentemente, anche perché integrati da ulteriori elementi di favor, procedimento per decreto, messa alla prova, patteggiamento e tenuità del fatto diventano valutabili in chiave di definizione anticipata così da definire il processo in termini ragionevoli e favorendo i carichi di lavoro delle vicende processuali per le quali gli sviluppi premiali non sono possibili ovvero la difesa ritiene di non utilizzarli. Si tratta di pene con contenuti effettivi, con preclusioni, oneri comportamentali la cui violazione è sanzionata, nel cui contesto assume rilievo l’effettività della pena pecuniaria, che principale o sostitutiva andrà eseguita pena la trasformazione in una pena sostitutiva restrittiva. Ai tradizionali e consolidati percorsi se ne affiancano dei nuovi come l’accentuato possibile ricorso alla remissione della querela ed alla archiviazione delle contravvenzioni in caso di adempimento delle prescrizioni imposte dall’ente accertatore delle violazioni. Si consideri che nella valutazione soggettiva e diversificata potranno entrare molti elementi pendenti, non ultimo il blocco della prescrizione, i filtri e gli oneri (non solo economici dei gravami), l’alea del loro esito, solo per citarne alcuni. Naturalmente molta attenzione è dedicata alla semplificazione, all’accelerazione dei percorsi, alle sanatorie, alla messa a punto di alcuni istituti tesi a definire meglio i tempi processuali (verifica sulla tempestività della iscrizione nel registro delle notizie di reato; scansioni dei tempi per il deposito degli atti e per l’esercizio dell’azione penale) con ridimensionamento del ricorso alla proroga delle indagini. Anche i criteri di priorità nello svolgimento delle indagini e il calendario delle udienze dibattimentali si collocano, pur nella diversa funzionalità, in questa direzione. Non mancano norme che tendono ad anticipare comportamenti per evitare ritardi negli sviluppi processuali (per la costituzione di parte civile e per la verifica della effettiva conoscenza del processo da parte dell’imputato) nonché per sgombrare il campo da sviluppi incidentali che ne possano rallentare il regolare svolgimento (regolamento preventivo di competenza territoriale). Non meno significative in tutto il quadro delineato sono le regole di giudizio per l’archiviazione e la sentenza di non luogo costituita dalla ragionevole previsione di condanna, anche se restano incerti se non anche i suoi contenuti, certamente la sua effettiva efficacia essendo i giudici chiamati a farne un corretto uso secondo gli intendimenti della riforma. Il dato appare così rilevante che stante l’ampliamento delle competenze del giudice monocratico - altro elemento che unito agli altri dovrebbe favorire il decongestionamento - si è prevista una inedita udienza predibattimentale tutta da costruire o da verificare, con possibile applicazione di pene sostitutive concordate tra p.m. e imputato. Un processo, quindi, con meccanismi complessi e inediti che richiedono professionalità da parte di tutti, scelte valoriali che escludono soluzioni improvvisate e di scarsa ponderazione perché il processo penale è uno strumento sempre più sofisticato che non può essere lasciato all ‘improvvisazione di protagonisti e neppure dei comprimari. Le toghe onorarie scrivono a Nordio “Ora stabilizzateci, lo Stato ci tuteli” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 novembre 2022 Ai giudici di pace diritti analoghi a quelli di magistrati togati: sentenza storica dalla Corte Ue di Lussemburgo. Il direttivo AssoGot, l’associazione dei giudici onorari, ha inviato una lettera al ministro della Giustizia Nordio. “Lei ha sempre espresso parole di apprezzamento per l’attività che svolgiamo e di censura per il modo in cui lo Stato ci tratta”, scrivono i magistrati, ricordando che pure Meloni, i sottosegretari Delmastro Delle Vedove e Ostellari e numerosi esponenti dell’attuale maggioranza “hanno assunto reiteratamente (…) il preciso impegno di procedere ad una vera stabilizzazione, con il riconoscimento della retribuzione e delle tutele dei magistrati di ruolo”. Pertanto “confidiamo in una coerente trasposizione di queste promesse e nella volontà del governo di procedere, nel pieno rispetto delle indicazioni dell’Unione europea e dei valori costituzionali, ad una riforma da attuarsi al più presto”. “La nostra categoria - lamentano ancora - versa oggi in condizioni insostenibili e necessita di misure immediate”. Quali? La prima: “Promuovere, con decreto d’urgenza, un nuovo reclutamento dei colleghi che sebbene prorogati fino al 31.05.2024, nei giorni scorsi sono stati destinatari di frettolose delibere consiliari di cessazione dal servizio, basate su una disposizione da noi già denunciata come estorsiva e liberticida”. Secondo: “Adeguare dopo oltre venti anni, e con effetto retroattivo, i compensi a cottimo dei magistrati onorari al costo della vita, in continua e drammatica ascesa”. Terzo: “Porre fine alla consuetudine di resistere sistematicamente e “a prescindere” in tutti - tutti - i giudizi che contrappongono il ministero ai magistrati onorari, all’evidente scopo di fiaccarne gli animi, scoraggiando la proposizione di ulteriori azioni”. Quarto: “Attuare misure immediate per una gradazione delle sanzioni disciplinari e per consentire ai magistrati onorari il trasferimento in caso di esigenze personali o familiari, in linea con la proposta presentata nella scorsa legislatura dal senatore Balboni”. Nordio, come ha ascoltato il “grido di dolore” delle procure, farà suo anche questo, prendendo di conseguenza dei provvedimenti che ridiano dignità al lavoro dei magistrati onorari? Così le leggi d’emergenza hanno generato mostri… mostri in carne e ossa di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 13 novembre 2022 Erano gli anni del terrorismo e della repressione di uno Stato impaurito che si aggrappò a risposte che fecero vacillare lo Stato di diritto. Mi chiesero: “Lei è responsabile dei reati che le sono ascritti?” Risposi veloce: “Sì”. Non era vero, e lo sapevano anche loro - ma non importava. C’era il reato associativo e questo bastava. E con il “concorso morale”, di qualunque gesto fosse stato responsabile uno di noi, ne eravamo tutti colpevoli. D’altra parte, anche noi la pensavamo così: “loro” erano una associazione, “loro” erano tutti colpevoli, fosse anche per omissione, e quanto meno per concorso morale. Gli uni e gli altri, ci eravamo comportati di conseguenza. Al primo processo a Napoli mi diedro 8 anni, era caduta l’accusa di banda armata - Il primo processo a Napoli - per associazione sovversiva e banda armata che aveva operato al Sud - mi diedero otto anni; era caduta l’accusa di banda armata: non eravamo così temibili, non c’erano gravi reati di sangue, qualche attentato, qualche rapina. Mi andò bene perché l’avvocato mi convinse a prendere parte a un riconoscimento: c’era un testimone. Io non ne avevo intenzione - non partecipavamo ai “riti del processo”, ma lui mi disse una cosa del tipo: “Che ti costa, tanto non ti riconosce”. Così andai, e in effetti il testimone disse che - no, non ero io l’affittuario del covo. Così evitai forse qualche anno in più, anche se invece lo diedero a un mio compagno che era rimasto fedele all’impegno di non accettare confronti e venne considerato, lui, l’affittuario del covo dove avevano trovato tutto il materiale che riconduceva ai vari attentati. Ero io, l’affittuario, ma andò così: a loro serviva uno qualunque. Nel secondo processo a Roma, il primo costruito intorno ai “pentiti”, mi diedero 30 anni - Il secondo processo, a Roma, mi diedero invece trent’anni. Qui c’era un’altra banda armata e c’erano tanti reati, al nord, al sud e al centro: non c’erano morti, per fortuna. Fu il primo processo costruito intorno ai “pentiti”. Tutti venimmo considerati responsabili di tutto. Era il “concorso morale”, dispiegato in pieno; al di là anche di una mera considerazione “geografica”: che i meridionali fossero colpevoli dei reati al Sud, e i settentrionali di quelli a Nord - macché. Stavolta tutti avevamo degli avvocati - tutti quelli in aula, altri erano latitanti da anni. Ma erano come imbambolati, basiti - aspettavano che passasse la buriana. Ma il pm giocava sporco. Durante l’interrogatorio di uno di noi il pm citò il processo di Napoli per costruire connessioni e responsabilità e aggravare un quadro fosco di pericolosità - a esempio, la quantità di armi a disposizione. Che era stata invece proprio la motivazione in sentenza per attenuare la nostra pericolosità. Dalla gabbia in aula, chiesi di intervenire e spiegai. La cosa irritò molto il pm. Irritò anche gli avvocati difensori - era una osservazione banale ma puntuale che avrebbe potuto fare uno qualunque di loro, ma non conoscevano la cosa e d’altronde quanti mai procedimenti avrebbero dovuto conoscere, quante migliaia di carte avrebbero dovuto sapere? Loro aspettavano che passasse la buriana. Avevo scritto di aver “contribuito all’estinzione di quella organizzazione”, ma per il pm era “all’estensione dell’organizzazione” - A me avevano sequestrato in carcere dei fogli su cui stavo scrivendo una sorta di mia memoria difensiva. Nelle carceri speciali - e io li ho girati quasi tutti - facevano di queste cose: servivano per le loro “prove”. Bene: avevo scritto che avevo “contribuito all’estinzione di quella organizzazione” - e era andata proprio così: ci eravamo sciolti, troppo militarismo e il rapporto con strutture di base di lotta, di cui ci consideravamo solo il braccio operativo, armato, si stava perdendo, si era perso. Non volevamo essere come le Br. Il pm usò quei fogli per dire che io avevo contribuito “all’estensione dell’organizzazione”: un piccolo slittamento semantico che diceva proprio l’opposto: d’altronde, ero un “colonnello” - e quei gradi dovevano ben significare qualcosa. Lo feci notare, come prima; e come prima, il pm stizzito, gli avvocati impagliati. E così, arrivammo ai trent’anni. In Cassazione il giudice Carnevale smontò il nostro “concorso morale” - In appello, divennero ventitrè. Non cambiava poi molto. Poi, finimmo in Cassazione, e qui trovammo il giudice Carnevale. Non sono in grado di dare un giudizio sull’uomo, che suscitò molte controversie e una campagna aggressiva, anche perché la sua “linea di condotta” non si applicò solo alla nostra sentenza ma, successivamente, a altre per associazione mafiosa; ma Carnevale smontò il nostro “concorso morale”. Fu la prima volta, il primo processo per il quale decadde - anche se la cosa non provocò un “ripensamento” dei legislatori. Così, noi tornammo in appello. Avevamo iniziato uno sciopero della fame. Durò trentadue giorni e io arrivai a pesare cinquantadue chili - Nel frattempo, era intervenuta la legge per la dissociazione - e io ne ero stato, nell’Area autonoma di Rebibbia, tra quelli che si era impegnato di più negli incontri con politici, dirigenti dell’amministrazione penitenziaria (con qualcuno sono ancora in contatto), personalità ecclesiastiche, giornalisti, per portarla avanti. Quasi tutti noi del secondo processo vi aderimmo. Ma io uscii per il mio stato di salute: ero prostrato e frustrato, anche per vicende personali. Ero stato arrestato a aprile del 1978 - in pieno sequestro Moro: eravamo finiti a Poggioreale, sparsi tra i padiglioni dei detenuti comuni; poi, avevano deciso di isolarci in un repartino, e lì avevamo iniziato uno sciopero della fame. Durò trentadue giorni, e io arrivai a pesare cinquantadue chili e un mio compagno perse un rene; ma dissero che ci avrebbero riportato nei padiglioni e intanto ci misero in quello sanitario per riprenderci; poi, di notte, ci impacchettarono e ci portarono negli speciali: il generale dalla Chiesa aveva deciso così, eravamo sulla sua lista. E iniziò il mio percorso nel “circuito dei camosci”: uscii a febbraio del 1985, ma agli arresti domiciliari, fino a novembre - altri nove mesi infernali. Poi, tra cumulo e legge della dissociazione finì che feci più carcere di quello che mi toccava. Capitava, con la giustizia forfettaria. Un tanto a chilo - che faccio, lascio? Lasci. Le leggi di emergenza sono state mostruose - La legislazione d’emergenza è stata mostruosa e ha costruito mostri: non parlo solo delle “figure giuridiche” ma delle persone in carne e ossa. E dalla parte dei “combattenti” e dalla parte dello Stato. C’è un episodio emblematico. Siamo verso i colpi di coda del terrorismo - dopo le confessioni di Peci e le centinaia di arresti. Un gruppo che si era costruito intorno la figura di un ex- detenuto che si era politicizzato in carcere avvicinandosi alle Br e era poi uscito a fine pena - compie una rapina alla fine della quale uccide due guardie giurate, ormai disarmate e a terra, lasciando un volantino di “campagna contro la dissociazione” accusando un’altra terrorista, da poco arrestata, di essere in realtà un’infiltrata dei servizi segreti. Nell’aula di un processo che si svolgeva in quei giorni, viene letto un comunicato delle BRrche smentisce categoricamente che la terrorista accusata sia un’infiltrata - avevano fatto una “indagine interna”; implicitamente, prendono le distanze da quella azione. Il gruppo viene arrestato e succede che alcuni finiranno con chiedere la legge sulla dissociazione. È il caos totale. Ci trovammo imprigionati tra leggi di emergenza e terrorismo - In un bel libro di Fernando Aramburu, Patria, i cui personaggi vivono in una cittadina dei Paesi Baschi dilaniata dalle azioni dell’Eta e dagli schieramenti, anche all’interno di una stessa famiglia, che esse provocano, un giovane militante accusato di gravi reati finisce all’ergastolo: è arrogante, rabbioso, fragile nella sua ideologia. Aramburu non ha tentennamenti nel mostrarci l’insensatezza delle azioni armate, l’alone di sostegno, convinto o forzato, e la scia di dolore che esse provocano - non ha neppure tentennamenti nell’additare la violenza dello Stato e del carcere e delle torture. Era quella stessa spirale di violenza in cui ci trovammo imprigionati qui - tra legislazione d’emergenza e terrorismo. Quando l’Eta dichiara finita la lotta armata, quelli rimasti in carcere erano i più refrattari, e chi mostrava dubbi o perplessità veniva ostracizzato, isolato. Tra loro, il giovane protagonista della storia, che intanto è invecchiato, che intanto si è staccato da tutto, dai suoi antichi compagni e anche da se stesso. Gli rimane solo un pezzo della sua famiglia. In Italia mancò una soluzione politica al terrorismo: la “linea della fermezza” dal sequestro Moro non ebbe più incrinature, ripensamenti, riletture - Quello che mancò anche in Italia - e che finì per caricare tutto sulle spalle discrezionali della magistratura, che assunse un ruolo di supplenza e salvifico, quindi con una sorta di “investitura” sociale e morale - fu una soluzione politica al terrorismo. Il che significa che una questione politica venne trattata solo come questione criminale - fatto questo che nella storia di questo paese non è propriamente del tutto nuovo. Mancò, quel ruolo, soprattutto quando le due principali organizzazioni della lotta armata, le Brigate rosse e Prima linea, l’avevano sostanzialmente dichiarata finita. Mancò, intendo, da parte delle principali forze politiche del paese: la “linea della fermezza” che era scesa in campo, con enorme sostegno della stampa, durante il sequestro Moro non ebbe più incrinature, ripensamenti, riletture. Non le ha mai più avute. E in un modo e nell’altro - sempre lì si viene rimandati. Sono passati quarantaquattro anni dal 16 marzo 1978 - e la “soluzione biologica”, ovvero la naturale morte sta ormai prendendo il posto di ogni ipotesi di soluzione politica. Chissà, magari prima di arrivare a cinquanta se ne potrebbe riparlare. Giusto per dire, che ormai. Capita ripetutamente che negli istituti superiori dove qualche insegnante si avventura nei territori della storia contemporanea, alla domanda sui responsabili della strage di piazza Fontana la risposta degli studenti sia: le Brigate rosse. Nel buio della conoscenza, tutte le vacche sono nere. “Essere la moglie di un detenuto significa avere ogni giorno il cuore rotto” di Rossella Grasso Il Riformista, 13 novembre 2022 Lettere sul carcere a Sbarre di Zucchero. Il carcere non è un dramma solo per i detenuti, ma anche per le loro famiglie. Spesso la pena non la paga solo chi ha commesso un reato, ma anche sua moglie o marito, i figli, le mamme, i fratelli. Persone che soffrono non solo la lontananza fisica, che a volte è lunga chilometri, ma anche il quotidiano fuori dalle mura del carcere che è più difficile da affrontare in solitudine. A Sbarre di Zucchero scrive la moglie di un detenuto che racconta la sua vita che è come una corsa ad ostacoli: nel crescere i figli da sola, nell’andare e venire dal carcere lontano 172 chilometri da casa, nel trovare e mantenere un lavoro “perché quando chiedi il giorno di permesso per andare ai colloqui si spaventano e pensano che anche tu non sei una brava persona e quindi devi essere emarginata”. Nel riuscire a mantenere un rapporto affettivo diviso tra 4 telefonate da 10 minuti e 6 ore di colloquio al mese. “Essere la moglie di un detenuto è sacrificio ma è anche coraggio e forza di affrontare la vita da sole, perché l’unica cosa che ti senti dire ‘beh se sta lì qualcosa ha fatto”. Riportiamo di seguito la lettera della moglie di un detenuto. Oggi ti voglio raccontare cosa significa essere la moglie di un detenuto. Essere la moglie di un detenuto significa avere ogni giorno il cuore rotto. Avere la responsabilità di crescere i figli da sola e non importa se sia, un figlio o più. Perché comunque è dura. Essere la moglie di un detenuto significa dover fare avanti e indietro nelle carceri o nelle comunità, e quando non sei né compagna né moglie ma semplicemente il vostro amore è nato da poco devi combattere per avere la 3° persona e non sai nemmeno se te la accettano. Se sì, vali poco. Perché l’amore tra un detenuto e la 3° persona non vale come amore? No sembra di no. Ti scrivo per dirti che mio marito oggi ha già finito le 4 chiamate, gliele hanno messe solo ieri ma sai, 10 minuti volano e adesso dobbiamo aspettare lunedì per poterci sentire ancora 10 minuti. Niente videochiamata sta settimana perché ha solo 6 ore di colloquio visivo e se fa la video non posso andare al colloquio. Ci separano 172 chilometri e ogni mese sono soldi per poter andare da lui, soldi per la persona che ti guarda i bambini, soldi per chi ti accompagna, soldi per il pacco, soldi da lasciare a lui. Tutto questo per avere 2 ore di ossigeno. Ma sono anche tanti sacrifici che vengono fatti con il cuore ma pesano su una famiglia dove solo la madre porta avanti tutto. Essere la moglie di un detenuto alla quale un magistrato di sorveglianza ha dato solo rigetti anche per i lavorativi. Un lavoro capisci! Un lavoro con cui voleva cambiare vita e mantenere la famiglia e qualcuno ha deciso per un no. Essere la moglie di un detenuto significa perdere ogni lavoro che trovi perché quando chiedi il giorno di permesso per andare ai colloqui si spaventano e pensano che anche tu non sei una brava persona e quindi devi essere emarginata. Essere la moglie di un detenuto significa dover sostenere da sola le spese dei figli della casa e di tuo marito che avendo un fine pena magari più breve di altri allora non ha diritto a lavoro ma ha comunque una dignità e tu da moglie la devi portare in alto. Essere la moglie di un detenuto è sacrificio ma è anche coraggio e forza di affrontare la vita da sole, perché l’unica cosa che ti senti dire “è beh se sta li qualcosa ha fatto”. Essere la moglie di un detenuto è questo e molto altro. Ma una cosa è certa: essere la moglie di un detenuto è anche sapere che il vostro amore è più forte di tutto questo e che fuori da quelle 4 mura siete più forti di tutto ciò che avete passato. Scusa lo sfogo. Lettera firmata Liguria. Pd, M5s e Lc pronti a scegliere il Garante dei detenuti. “Sansa sospenda sciopero della fame” telenord.it, 13 novembre 2022 Al lavoro per la nomina entro la fine di novembre. “Sorpresi dall’iniziativa individuale di Sansa”. “In questi mesi abbiamo lavorato per trovare, dopo ritardi inaccettabili, una sintesi e uno sbocco della vicenda della nomina dei garanti e del difensore civico. Una discussione in cui vi sono diffuse responsabilità sui ritardi, di cui nessuno è esente. Condividiamo l’urgenza delle nomine, ma, proprio perché nessuno è esente da responsabilità, ci ha sorpreso l’iniziativa individuale di Sansa proprio nella fase conclusiva e più delicata della vicenda, che sta avvicinandosi a una risoluzione positiva”. Lo affermano in una nota congiunta i capigruppo di Pd, M5s e Linea condivisa in consiglio regionale Luca Garibaldi, Fabio Tosi e Gianni Pastorino. “Per questo chiediamo a Sansa di sospendere lo sciopero della fame, sia per non mettere a rischio la sua salute, sia per consentire la conclusione del lavoro e una individuazione serena e severa dei profili di tutti i candidati, che devono essere di alto livello. Anche in questi giorni abbiamo proseguito nel lavoro, anche di stimolo, con la maggioranza per definire un percorso che porti al voto entro la fine di novembre. Una soluzione che è alla portata, con la possibilità di esaminare i profili e votarli, si spera con una larga maggioranza, entro pochi giorni. Le date naturali per il voto saranno i consigli regionali votanti di fine mese: nelle prossime commissioni, già annunciate, si potranno votare i profili e le proposte, e stiamo lavorando per una positiva sintesi, a cui speriamo vogliano aderire tutti”. Torino. La Camera penale: “Basta indifferenze, un minuto di silenzio per i suicidi in carcere” di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 13 novembre 2022 Contano anche i gesti simbolici, in attesa (perenne) delle riforme: per questo, con una lunga lettera aperta, la Camera penale invita il Comune a “un minuto di silenzio cittadino, per ricordare coloro che si sono tolti la vita nel nostro carcere, per poi dare spazio a un serio programma di sostegno dell’istituzione carceraria”. È un modo per ricordare a tutti le condizioni vergognose della casa circondariale “Lorusso e Cutugno”. Contano anche i gesti simbolici, in attesa (perenne) delle riforme: per questo, con una lunga lettera aperta, la Camera penale “Vittorio Chiusano” invita il Comune a “un minuto di silenzio cittadino, per ricordare coloro che si sono tolti la vita nel nostro carcere, per poi dare spazio a un serio programma di sostegno dell’istituzione carceraria”. È un modo, semplice ma istantaneo, per ricordare a tutti le condizioni vergognose della casa circondariale “Lorusso e Cutugno”: tra sovraffollamento (1400 detenuti per 1098 posti), strutture fatiscenti, inchieste, rivolte e suicidi. “Se un uomo affidato alla custodia dello Stato si toglie la vita tutti noi abbiamo perso”, scrive il Consiglio direttivo, appena eletto dai penalisti del Piemonte occidentale e della Valle D’aosta. “I ripetuti suicidi verificatisi nel carcere “Lorusso e Cutugno”, al pari di episodi tristemente analoghi avvenuti nelle altre carceri piemontesi - argomenta la Camera penale - non possono e non devono lasciare indifferente la nostra città, perché rappresentano una ferita drammaticamente intollerabile”. Va da sé, tanti suicidi si trascinano il tema delle eventuali responsabilità, ma “questo non può bastare perché, di fronte alla morte, l’accertamento di chi ha sbagliato appare davvero riduttivo e anche un po’ inutile”. Di certo è il tempo di “provare a cambiare le cose”, anche partendo da un minuto di silenzio, la prossima settimana: “Il nostro è un invito, misto di dolore e rabbia, rivolto alle istituzioni, politiche e non, perché mettano al primo posto della loro agenda investimenti di idee e di denari che possano aiutare il nostro carcere a recuperare un livello di adeguatezza”. Un’iniziativa rivolta anche “alla società civile, agli imprenditori, alle associazioni, a tutti i presidi sociali, alla magistratura, perché solo attraverso una rete di impegno si può pensare a un carcere più umano e a percorsi rieducativi effettivi per chi si trova ad affrontare la detenzione”. L’avvocatura torinese - promette la lettera - è pronta a fare la propria parte, “per cercare soluzioni che consentano di avere una struttura carceraria adeguata”, senza dimenticare l’applicazione delle “misure alternative alla detenzione”. Non c’è bisogno di scomodare Voltaire - “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri” - ma di aprire gli occhi. Siracusa. Agente penitenziario si suicida vicino al carcere Gazzetta del Sud, 13 novembre 2022 Il poliziotto ha aperto il fuoco contro se stesso con l’arma di ordinanza. Il sindacato Sappe: “Il ministero non può continuare a tergiversare”. Tragedia a Siracusa, dove un agente di polizia penitenziaria si è suicidato nei pressi del carcere cittadino utilizzando l’arma di ordinanza. Lo ha reso noto il sindacato autonomo polizia penitenziaria Sappe. “È una notizia inquietante che ci sconvolge tutti. Quello dei poliziotti penitenziari suicidi è un dramma che va avanti da tempo senza segnali di attenzione da parte del ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Dall’inizio dell’anno quattro sono stati i poliziotti suicidi, tre dei quali in Sicilia”, ha affermato il segretario generale del Sappe, Donato Capece. Dati allarmanti - Il Sappe denuncia una situazione allarmante. I poliziotti penitenziari “sono lasciati abbandonati a loro stessi, mentre invece avrebbero bisogno evidentemente di uno strumento di aiuto e di sostegno”. Nel 2021 si sono registrati cinque suicidi tra i poliziotti penitenziari, sei nel 2020 e 11 nel 2019. “Lo Stato intervenga” - Secondo Capece, ministero della Giustizia e Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria “non possono continuare a tergiversare su questa drammatica realtà. Servono soluzioni concrete per il contrasto del disagio lavorativo del personale di polizia penitenziaria. Come anche hanno evidenziato autorevoli esperti del settore, è necessario strutturare un’apposita direzione sanitaria della categoria, composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare e promuovere la salute di tutti i dipendenti dell’amministrazione penitenziaria. Servono azioni concrete e non chiacchiere”, ha consluso il leader del sindacato. Ancona. Terremoto, tensioni nel carcere. I detenuti: “Lasciateci le celle aperte per la notte” ansa.it, 13 novembre 2022 È appena trascorsa una nottata di paura e tensione nel carcere di Ancona Montacuto. Dopo le 21, “dopo avere sentito in tv delle scosse di assestamento nella zona, i detenuti della sezione Alta Sicurezza hanno preteso di trascorrere la notte con le celle aperte”, ha raccontato Nicandro Silvestri, segretario regionale per le Marche del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Secondo Silvestri, a una risposta negativa della polizia penitenziaria, i detenuti avrebbero aggredito quattro agenti e “preso possesso delle chiavi del reparto e delle celle”. Silvestri definisce i momenti “drammatici” e riferisce che la situazione si è calmata quando, dopo una trattativa, le persone detenute hanno ottenuto di poter dormire con le celle aperte. Alle 21.41 di ieri è stata registrata una scossa d’assestamento di magnitudo 3.9 sulla costa pesarese, a circa 25 km da Fano e a una profondità di 10 chilometri. È stata la più forte della giornata, che ha visto la rilevazione di 15 scosse di intensità superiore a 2.0 davanti alla costa marchigiana, dopo le 50 dell’altro ieri e la scossa principale - di magnitudo 5.7 - del 9 novembre. Ancona. Il Garante regionale dei detenuti: “In caso di sisma le celle resteranno aperte” Il Resto del Carlino, 13 novembre 2022 “Il pretesto di alcuni rischiava di degenerare in qualcosa di molto pericoloso. Ho incontrato i detenuti del braccio dell’Alta Sicurezza, mi hanno spiegato le loro ragioni, ma è chiaro che qualcuno subirà una punizione per quanto accaduto”. Intanto un primo risultato c’è: in caso di ulteriori scosse le celle del carcere di Montacuto verranno aperte e ai detenuti sarà consentito d sfruttare uno spazio comune. Il Garante Regionale dei Detenuti, Giancarlo Giulianelli, ha trascorso un’ora e mezzo dentro la sezione incriminata ieri pomeriggio e prima di addentrarsi nella vicenda e nelle possibili cause ci tiene a evidenziare il comportamento di una figura: “Il comandante della polizia penitenziaria di Montacuto, Nicola De Filippis, ha gestito alla grande una situazione che rischiava di sfociare in un grosso guaio per tutti - spiega Giulianelli. Dagli stessi detenuti ho ricevuto parole di apprezzamento sul modo in cui il comandante si è comportato anche nelle fasi più concitate. A lui ho fatto i complimenti e agli agenti rimasti feriti lancio un grosso in bocca al lupo di pronta guarigione. In particolare all’ispettore ferito in maniera più grave e con una prognosi di trenta giorni”. Le ricostruzioni degli addetti ai lavori collimano sin qui, eppure c’è qualcosa che non quadra. La paura dello sciame sismico ha scatenato la reazione dei detenuti della sezione di Alta Sicurezza, almeno di una parte degli 87 presenti, eppure le scosse più paurose ci sono state ormai quattro giorni fa: “Credo che alcuni detenuti, pochi, abbiano usato la questione come pretesto e a loro l’ho ricordato: la paura è legittima, ma la reazione non è stata proporzionata - ha aggiunto Giulianelli che il carcere di Montacuto lo consce bene ai tempi in cui difendeva Luca Traini, condannato per la sparatoria a Macerata il 3 febbraio 2018, ora detenuto nella prigione di Barcaglione. Inoltre ho fatto capire loro che spostare 87 detenuti nel campo sportivo, come chiedevano, è praticamente impossibile, a tutto c’è un limite. Usare la violenza nei confronti di quei lavoratori non passerà inosservato, il comandante farà presto rapporto per ricostruire i fatti e probabilmente alcuni detenuti ne subiranno le conseguenze”. Caserta. La Garante: “C’è chi inizia a drogarsi quando entra in carcere” di Rossella Grasso Il Riformista, 13 novembre 2022 “La droga in carcere è un problema enorme, un malessere silente. Chiedo alle istituzioni aiuto e cooperazione per avviare una catena di interventi che sia efficace e risolutiva”. È questo l’appello di Emanuela Belcuore, Garante dei detenuti della Provincia di Caserta. La garante racconta al Riformista che stanno aumentando le segnalazioni di droga che circola in carcere. Un problema che è sintomo di un malessere diffuso e che peggiora l’inferno delle carceri. “Ho denunciato alle autorità competenti la presenza di droga in carcere, un vero dramma - spiega la Garante - Succede che ex tossicodipendenti, che magari erano riusciti a non fare più uso di sostanze dopo tanto tempo, una volta in carcere riprendano a drogarsi. E c’è anche chi inizia proprio quando entra. Così ci troviamo madri con figli carcerati che diventano anche tossicodipendenti, difficoltà all’interno delle celle tra chi vorrebbe fare bene il suo percorso e chi non è lucido e persino liti per debiti per comprare la droga. Ci sono madri, mogli e sorelle che lavorano e si ammazzano di fatica per guadagnare soldi che poi i loro figli, mariti e fratelli detenuti chiedono per pagare la dose. A volte scattano anche liti familiari per questo motivo che le mura del carcere e la condizione emotiva che questo comporta rendono impossibili da gestire. Una situazione che sta diventando sempre più insostenibile”. All’origine del problema secondo la garante c’è sia un problema di sotto organico degli agenti che non riescono a fare bene il loro lavoro e i controlli, ma anche la carenza di attività dell’area trattamentale e di lavoro. “C’è chi sente il bisogno di fuggire almeno mentalmente dalla dura realtà del carcere, di trovare sollievo in qualche modo, e per farlo ricorre allo ‘sballo’ della droga, dell’alcol o addirittura respirando il gas dei fornellini. Qualcuno prepara anche dei beveroni con frutta lasciata a fermentare e alcol per ubriacarsi più facilmente”. La garante racconta di denunce fatte dai familiari per fermare questo vortice di malessere in carcere che può essere causa e sintomo allo stesso tempo di come e quanto le carceri siano un luogo invivibile. “Se pure il carcere fosse davvero un luogo rieducativo, cosa ce ne facciamo di detenuti storditi, impossibili da rieducare?”, si chiede la garante. “Ci sarebbe bisogno di maggiori controlli - continua Belcuore - magari anche con l’aiuto di cani antidroga. Per esempio, a Santa Maria Capua Vetere potrebbe essere una proposta che venga fatta una ristrutturazione degli ambienti. Lo so che lo spostamento dei detenuti è complesso, ma questo renderebbe più semplice fare i controlli evitando il rischio di mattonelle o muri malmessi che possono essere perfetti nascondigli”. “Ci battiamo per i diritti dei detenuti come una buona sanità in carcere, il lavoro e il loro reinserimento nella società - continua la garante - Combattere la droga in carcere significa continuare a battersi per la tutela dei diritti dei detenuti, di chi è in condizione di fragilità e cede alla droga che può solo farlo stare peggio, di chi vuole fare un percorso positivo in carcere e nel rispetto della legalità: il carcere non può essere una piazza di spaccio”. La garante aggiunge che in carcere sta prendendo piede anche un altro problema, quello del gioco d’azzardo. “Se i detenuti non sono stimolati diversamente, spinti a fare qualcosa di costruttivo, si finisce che anche un mazzo di carte possa diventare un problema. E anche in questo caso partono le liti, l’isolamento e chi chiama il divieto di incontro con gli altri detenuti. Oltre ovviamente al problema dei debiti che spesso ricadono sulle famiglie”. Belcuore non è disposta a cedere su queste battaglie che sono il diritto a stare bene in carcere. Il 30 novembre nel palazzo della Provincia di Caserta ha organizzato un convegno proprio sul tema della tossicodipendenza in carcere, del gancio che ci deve essere tra interno ed esterno, sulle comunità a doppia diagnosi e sulle comunità dove far andare i detenuti tossicodipendenti. Al confronto prenderanno parte esperti del settore tra cui psicologi, sanitari, personale dei Sert per ragionare insieme su come affrontare al meglio questo dramma che rischia di catapultare le persone in un buco nero senza ritorno. E il dramma dei 77 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno ne è la testimonianza. Milano. Case Aler occupate: “È associazione a delinquere”. Nove pesanti condanne fino a 5 anni di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 13 novembre 2022 Per la prima volta in Italia il Tribunale di Milano utilizza questa qualificazione giuridica per la sentenza. Proteste alla lettura del verdetto. Il volantino indicava un telefono “SOS anti-sgombero” e invitava “Sei sotto sfratto? Non riesci a pagare luce e gas? Aler e Mm ti vogliono cacciare di casa perché sei moroso? Vieni allo sportello sociale contro la crisi”, cioè al “Comitato Abitanti Giambellino Lorenteggio” (collegato al centro sociale “Base di Solidarietà Popolare” di via Manzano), che viveva queste assemblee e le successive azioni come asserita attività politica di risposta all’emergenza abitativa di “10 mila case vuote non assegnate e 23 mila famiglie in graduatoria ancora in attesa”. Ma ieri il Tribunale di Milano accoglie, per la prima volta in Italia sotto il profilo della qualificazione giuridica, l’opposta prospettiva dell’inchiesta avviata nel 2018 dall’allora pm Piero Basilone (oggi procuratore della Repubblica a Sondrio) e sostenuta in aula dal collega Leonardo Lesti: e cioè che si trattasse invece di una “associazione a delinquere” in senso tecnico. Una “struttura criminosa” nata per “la consumazione continuativa e professionale dei delitti di “invasione di terreni e edifici” di “resistenza a pubblico ufficiale”“; avente “il programma sociale di invadere e occupare alloggi di edilizi residenziale pubblica Aler”; e “dotata di idonei supporti logistici” quali “attrezzi per scassinare le porte o le lastre di metallo all’ingresso degli immobili Aler, nuove serrature e porte per sostituire quelle divelte, attrezzature per lavori elettrici e di idraulica e muratura, telefoni cellulari e schede per i contatti”. Il risultato è che le condanne ai 9 imputati si rivelano pesanti, persino più delle richieste del pm, e nonostante le attenuanti generiche riconosciute prevalenti sulle aggravanti per tutti tranne che per Virgilio Moscatiello. Per questo attivista 62enne, al quale sono date solo equivalenti a causa di alcuni vecchi precedenti per tutt’altre vicende, la condanna schizza a 5 anni e 5 mesi; 4 anni e 3 mesi sono inflitti al 32enne laureato 110 e lode in filosofia Niccolò Bosacchi; 3 anni e 7 mesi a Marco Benedetto Bolognini, un mese in meno alla 38enne Clelia Contestabile, due mesi in meno al 29enne Nicolò Fasiello, tre mesi in meno a Mirko Lavezzoli; 3 anni a Janact Vasquez Condori, 2 anni a Federica Ruggeri, 1 anno e 7 mesi a Lisandro Parra Lemus. In aula gli animi si scaldano, la piccola folla di simpatizzanti rumoreggia, il presidente Giuseppe Fazio chiede l’intervento dei carabinieri e interrompe per qualche minuto la lettura del dispositivo, al cui termine al suo indirizzo viene scandito “bravo, bel lavoro, sei un nemico dell’umanità, fate schifo”. La sentenza condanna anche a rifondere i danni patrimoniali ad Aler in sede civile, e a pagare all’istituto danni non patrimoniali quantificati in 8.000 euro. La particolarità del tema giuridico apre ovviamente all’impugnazione in Appello da parte dei legali Eugenio Losco, Mauro Straini e Giuseppe Pelazza. Il “Comitato”, del resto, rivendica di aver svolto attività lecite di aiuto scolastico, mensa popolare, doposcuola, feste di quartiere e appunto (nella sua ottica) aiuto per l’emergenza abitativa, sicché anche le (pur negate) condotte illecite avrebbero dato luogo se mai a singoli reati e non a un’associazione a delinquere. Gli imputati negano di aver organizzato le occupazioni abusive o le opposizioni agli sgomberi, e sostengono invece di aver sempre espresso solidarietà (con la presenza fisica sul posto) a chi li attuasse. Rimarcano che la resistenza a pubblico ufficiale è contestata loro dagli inquirenti non per atti di violenza commessi o minacce profferite, ma perché l’accusa la ravvisa integrata già dalla presenza di un gran numero di persone idoneo di per sé a impedire ai funzionari Aler e alle forze dell’ordine lo svolgimento del lavoro. E additano la contraddittorietà a loro avviso tra il programma (che deve caratterizzare l’associazi0ne a delinquere) e il carattere invece per definizione estemporaneo del reato-fine di resistenza a pubblico ufficiale. Sassari. La musica dei Milestones a Bancali: un respiro di libertà per i detenuti di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 13 novembre 2022 Un successo il concerto dell’unica cover band sarda dei Rolling Stones. Batte le dita sulle ruote della sua sedia a rotelle, al ritmo di “Let me go” e “Ruby Tuesday”. Si emoziona, in prima fila, davanti a quella rock band che regala momenti di spensieratezza. E l’intensità del sentimento è talmente forte che a un certo punto chiama un agente di polizia penitenziaria e chiede di essere accompagnato in infermeria per un controllo. Alla fine va tutto bene, si è trattato solo di un attimo in cui il suo cuore deve aver battuto più velocemente del solito. E allora torna in sala, non si può mica perdere tanta bellezza. “Questo concerto ha messo le ali a molti dei nostri sogni... è stato un volo di libertà”. Sta in queste parole spontanee e intrise di verità - pronunciate da un detenuto - la risposta più bella che i Milestones potessero ricevere ieri pomeriggio dopo l’esibizione sul palco allestito nella sala teatro del carcere di Bancali. L’unica tribute band ufficiale dei Rolling Stones in Sardegna ha regalato un’ora e mezza di grande musica e leggerezza a circa cinquanta detenuti dell’istituto penitenziario della borgata a pochi chilometri dalla città. Fabio, originario del Salento, sta scontando la sua pena a Sassari da sei anni. Accetta di parlare: “La musica è vita, io prima di finire qui dentro amavo andare a ballare e ai concerti. E questo momento vissuto oggi è stato un grande respiro di libertà, e ne abbiamo bisogno...”. In un carcere che ultimamente fa molto parlare di sé per le criticità legate principalmente alla carenza di personale, quello voluto ieri dalla direzione e dalle responsabili dell’area trattamentale è stato un modo per far capire che le difficoltà - seppure gravi e impellenti - non fermano la voglia di lavorare bene. Né di fare in modo che dentro uno dei più importanti istituti penitenziari d’Italia - un carcere di massima sicurezza che ospita boss della mafia e terroristi in regime di 41 bis - possano viversi momenti di normalità. “Il concerto si ripete, così come accadde tre anni fa, quando in un sabato pomeriggio di maggio - ha ricordato Ilenia Troffa, una delle responsabili dell’area trattamentale, insieme a Maria Bandinu e Silvia Pais - i Milestones ci hanno regalato una giornata unica, bella ed entusiasmante”. Una presentazione cui ha fatto seguito il ringraziamento al personale della polizia penitenziaria, al suo comandante Bruno Mulas, ai detenuti che hanno avuto un comportamento impeccabile. E a ciascuno dei componenti della band: Nicola Porcu (voce e armonica), Riccardo Frau e Luciano Uzzanu (chitarre), Mauro Forteschi (basso), Carlo Rettaroli (batteria) e Pierpaolo Piu per la parte tecnica. Una scaletta che ieri ha fatto ballare e cantare a squarciagola alcuni accaniti fan delle “Pietre Rotolanti”. C’era persino chi conosceva a memoria i testi di alcuni brani. Tra quelli proposti “Paint it black”, “Hoochie coochie man”, “It’s only rock and roll”, “Sympathy”, “Jumping jack flash”. E ancora “Brown sugar” (espressamente richiesta da un detenuto), “Start me up”, “Miss you” e altre ancora. Per poi chiudere con un grande classico: “Satisfaction”, che ha fatto alzare tutti in piedi. Un’iniziativa di successo che è stata citata anche sul sito di Rolling Stones Italia, il fan club ufficiale che ha dedicato un lungo spazio all’appuntamento nel carcere di Bancali nato nell’ambito delle celebrazioni dei 60 anni di carriera dei Rolling Stones. A fine concerto alcuni detenuti si sono fermati con i musicisti. Pietro Solinas, 54 anni, di Ittiri, ha mostrato i suoi dipinti ad acquerello, custoditi gelosamente in una cartella: “Ero depresso e un giorno mi hanno dato carta e colori. Da allora disegno sempre, anche di notte. Ho sempre fatto il pastore e dipingo quel mondo”. In attesa di colorare ancora nuove tele, respirando i profumi della sua terra. Milano. A teatro nel carcere di Opera: in scena “Pinocchio” e “Noi guerra” Corriere della Sera, 13 novembre 2022 Due spettacoli aperti alla città, per un pubblico misto di persone detenute ed esterni, andranno in scena il 24 e il 25 novembre nel teatro della casa di reclusione di Opera nell’ambito della masterclass “L’officina di Opera Liquida: un incrocio di sguardi tra teatro e accademia”. Si inizia il 24 novembre, alle 20.00, con “Pinocchio”, della compagnia Corpi Bollati. Chi non si sente un po’ Pinocchio? Se a porsi questa domanda è un gruppo di giovani detenuti del laboratorio teatrale interno al carcere di Bollate, il risultato è uno spettacolo. E non solo uno spettacolo, ma il primo completamente ideato e gestito da persone detenute, Antonio Fioramonte e Carlo Bussetti del gruppo teatrale Corpi Bollati, grazie alle capacità attoriali e registiche modellate in questi anni di “teatro dentro” sotto la guida di Michelina Capato. Con la partecipazione di attori ex reclusi. Il giorno successivo, il 25 novembre, alle 20.00, va in scena “Noi guerra! Le meraviglie del nulla”, della compagnia Opera Liquida, attiva da tredici anni nel carcere di Opera: un visionario e coinvolgente lavoro di drammaturgia collettiva contro la guerra, con i testi delle persone recluse, scritto prima della pandemia e di drammatica attualità. Con le opere ispirate alle celebri colate rosse ideate per lo spettacolo dall’artista cinetico Giovanni Anceschi a partire dalle sue “Tavole di possibilità liquide” del 1959. Con i detenuti attori della compagnia, gli ex detenuti attori Carlo Bussetti, Alfonso Carlino, Vittorio Mantovani e Giulia Marchesi, i costumi del fashion designer Salvatore Vignola realizzati dalla modellista Silvia D’Errico con i detenuti costumisti, gli interventi coreografici di Riccardo Olivier/Fattoria Vittadini. La progettazione dell’allestimento tecnico di Luca De Marinis e Domenico Ferrari, dipartimento tecnico della compagnia Marina Conti e Silvia Laureti. Cura del progetto di Nicoletta Prevost. Montaggio drammaturgico e regia di Ivana Trettel. Per accedere alle due rappresentazioni nella casa di reclusione di Opera in via Camporgnago 40, è necessario prenotarsi entro il 21 novembre seguendo le modalità sul sito www.operaliquida.org. Punire, una passione contemporanea di Didier Fassin Il Dubbio, 13 novembre 2022 Un estratto del libro di Didier Fassin “Punire, una passione contemporanea” - Feltrinelli 2018. “La Francia attraversa il periodo più repressivo della sua storia recente, in tempo di pace. Fatta eccezione per gli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, non sono mai stati incarcerati così tanti uomini e donne. In poco più di sessant’anni, la demografia carceraria si è moltiplicata di tre volte e mezzo. Nel 1955 si contavano 20.000 detenuti, 43.000 nel 1985 e 66.000 nel 2015. Nel 2016 si è battuto un nuovo record, con quasi 70.000 prigionieri. L’aumento è ancora più marcato per quello che riguarda persone condannate ma seguite al di fuori delle carceri, quasi quadruplicate in trent’anni. Oggi si contano anche più di 250.000 persone che hanno a che fare con la giustizia. Ma questo aumento non è dovuto, come si sarebbe tentati di credere, a un aumento della criminalità. Benché le statistiche in materia siano difficili da interpretare a causa delle numerose variazioni tanto nella definizione delle infrazioni quanto nella loro denuncia da parte delle vittime e nella loro registrazione da parte dell’amministrazione, e benché le tendenze non siano comunque omogenee per le diverse categorie di fatti implicati, gli elementi di cui disponiamo confermano, negli ultimi cinquant’anni, una diminuzione quasi costante delle forme più preoccupanti di criminalità, a partire dagli omicidi e, più in generale, delle tipologie più gravi di violenza. Possiamo certo immaginare che gli eventi legati al terrorismo abbiano a che fare in maniera significativa con la trasformazione osservata. Ma, nei fatti, è una trasformazione iniziata negli anni settanta, quindi ben antecedente ai primi attentati; in più, essa riguarda soprattutto reati minori, che costituiscono la maggioranza dell’aumento delle condanne. Tutt’al più, le tragedie causate da questi attacchi hanno permesso di consolidare e legittimare un processo repressivo che era già di lunga data, facendo sì che risulti ancora più difficile metterlo in discussione, benché riguardi essenzialmente fatti di gravità minore. Come spiegare allora una simile impennata, visto che non è dovuta a un reale aumento della criminalità? Si coniugano due fenomeni che influenzano in profondità la società francese: un’accresciuta sensibilità per gli atti illegali e la devianza, e una focalizzazione del discorso e dell’azione pubblica sulle questioni di sicurezza. Il primo fenomeno è culturale, il secondo è politico. Da un lato, gli individui si dimostrano sempre meno tolleranti verso ciò che disturba le loro esistenze. Dagli atti incivili alle minacce, dalle aggressioni verbali ai litigi fra vicini fino agli alterchi nelle coppie, ormai tutta una serie di conflitti interpersonali che prima potevano trovare soluzioni empiriche locali passano per la polizia, spesso per la giustizia e a volte per la prigione. E questa tendenza riguarda anche le infrazioni senza vittime, come il consumo di stupefacenti, lo stazionamento agli ingressi dei condomini, l’oltraggio alla bandiera, il ricorso alla prostituzione o l’indossare certi simboli religiosi. L’abbassamento della soglia di tolleranza di fronte a pratiche fino a poco tempo fa ignorate da parte della legge va di pari passo con una tendenza generale alla pacificazione degli spazi sociali, insieme a un aumento delle attese morali”. Dal clima alla pace, i partiti non riescono a parlare ai movimenti di Marco Damilano Il Domani, 13 novembre 2022 “Nessuna domenica contiene la stessa promessa, né l’energia del giorno che la precede”, scrive Ian McEwan in Saturday, il romanzo del 2005 dedicato a una giornata particolare della storia inglese e mondiale, il sabato 15 febbraio 2003, quando tutto il mondo scese in piazza per protestare contro l’imminente inizio dell’intervento americano in Iraq con l’alleato Regno Unito. Si scrisse allora che il movimento della pace, con la bandiera arcobaleno, si era trasformato in soggetto politico globale, il più potente, pur non contando su un apparato militare e economico. Ma non servì a evitare il conflitto e le sue conseguenze disastrose di medio e lungo periodo. Qualcosa del genere si è tornato a scrivere nel 2019 dei Fridays for Future, i ragazzi e le ragazze in campo per protestare contro l’inerzia dei governanti di fronte agli effetti devastanti del cambiamento climatico. Oggi la scelta di Greta Thunberg di non andare alla Cop27 e di “lasciare il megafono ad altri” è sembrata come un precoce ritiro. Anche se non è così - il movimento dei giovani in lotta per l’ambiente è senza leader riconosciuti e molecolare, collettivo, come i nodi della rete, dunque contemporaneo - è vero che a Sharm el-Sheikh è andato così in scena il vertice sul clima più recintato degli ultimi anni, con le ong impossibilitate a manifestare, il divieto di protesta, in uno stato retto dal regime militare di un generale golpista. Gli ultimi venti anni ci consegnano un paradosso, la crescita dei movimenti e la loro irrilevanza sulle scelte della politica. Il recinto più difficile da scavalcare, il muro da abbattere è la separazione che si è consumata in questi anni tra le due sfere, i non-governativi e i governi, la moltitudine che si mobilita sulle singole questioni, il clima, la pace, i diritti civili, e la politica ufficiale e istituzionale che segue un’agenda diversa. Una frattura cui si devono aggiungere, negli ultimi anni, la crescita dei populisti che ha significato anche questo: fine dei corpi intermedi, rapporto diretto tra il capo e il popolo, considerato come un insieme di singolarità, di rabbie, rancori, frustrazioni, gli stati nervosi indagati da William Davies. Lo dimostrano le ultime elezioni di midterm americane, dove l’onda repubblicana è stata fermata ma con la maggioranza dei candidati repubblicani che ha negato o messo in dubbio la vittoria di Joe Biden del 2020. Un elettorato invecchiato, in schiacciante maggioranza bianco, prevalentemente insoddisfatto o arrabbiato. Il cittadino-elettore senza territorio, senza classe, senza appartenenza, così come si manifesta sui social, emotività, reattività, è stato il terreno di caccia, il boccone prelibato dei neopopulismi e dei sovranismi europei che coprono il vuoto con il richiamo alla tradizione e alla difesa dei confini nazionali. I movimenti degli ultimi anni da spinta al rinnovamento della politica, un altro mondo è possibile perché un’altra politica è possibile, si diceva a inizio secolo, tra Seattle e Genova, hanno finito per partecipare (inconsapevolmente) alla dinamica populista. La sfiducia verso la politica e nei confronti delle istituzioni, incapaci di rappresentare e di decidere, ha saldato le rivendicazioni più radicali alla narrazione populista che spingeva nella stessa direzione, ma con obiettivi opposti: la verticalizzazione del potere, la concentrazione in poche mani. Oggi, con la destra al governo in Italia, si assiste a una ulteriore radicalizzazione, soprattutto nel mondo giovanile. Le azioni del gruppo di Ultima generazione, dai blocchi stradali alla zuppa lanciata contro le opere d’arte, sono il segno che il distacco si sta allargando. Sono finite le buone maniere, la finzione dei grandi della Terra che ascoltano i giovani sull’apocalisse ambientale. Questo è il momento della rivolta contro l’indifferenza dei governanti mascherata da buoni sentimenti, il greenwashing dei vertici politici. Il rivoltarsi è un gesto in sé e chiama la repressione, due dimensioni che si tengono sempre compagnia. Tra i giovani c’è la frammentazione, tipica della rete. Il gesto che si chiude in sé, da condividere e da rilanciare sui social. Ma non c’è solo la lotta per l’ambiente. In molte scuole italiane, tra gli studenti, cresce ad esempio l’avversione verso gli strumenti dell’alternanza scuola-lavoro, il Pi-ci-ti-o, come i ragazzi nelle loro assemblee scandiscono il Pcto, l’acronimo che sta per percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento, si denunciano lo sfruttamento, le condizioni di insicurezza sul lavoro (Giuliano De Seta, morto sul lavoro, è quasi un’icona e anche Giorgia Meloni lo ha citato nel discorso sulla fiducia), la perdita di ore di studio catturano l’attenzione ben più che il generico diritto allo studio. Su ambiente e lavoro, e pace, i ragazzi e le ragazze italiane sono molto più arrabbiati e inquieti dei loro fratelli più grandi. È di nuovo una domanda di partecipazione che non trova riscontro nelle forme tradizionali della politica. L’incognita italiana dei prossimi mesi, il 2023, è come saranno giocate queste braci che ardono sotto la cenere del desolante dibattito culturale e politico italiano. Bisognerà vedere se il fuoco dei movimenti troverà uno spazio di ascolto o resterà non rappresentato. E se la destra proverà a spegnere i focolai di radicalizzazione o finirà per alimentarli, anche in modo indiretto. I fratelli maggiori o i padri e le madri si sono ritrovati in piazza il 5 novembre, alla manifestazione per il cessate il fuoco in Ucraina, tra i “corpi di pace”, come li ha definiti il quotidiano della Cei Avvenire. Tra le indicazioni più interessanti c’è quella del segretario della Cgil Maurizio Landini, estendere il modello della manifestazione per la pace in Europa. Con i movimenti giovanili condividono una condizione apolide, sono senza casa politica, senza punti di riferimento. In una società che ha fatto parlare di volta in volta di fine dei partiti, di scomparsa dei sindacati, ma anche di eclisse del mondo cattolico organizzato. Eppure i movimenti e le associazioni viste in piazza San Giovanni appartengono a quella storia. Una storia in cui il rapporto con la politica era il pane quotidiano, il canale più importante. Con la politica e con i rappresentanti nelle istituzioni, i consigli comunali, regionali, il parlamento nazionale, si intrecciava un corpo a corpo, una ricomposizione complicata di interessi e di valori, la mediazione, parola quasi estinta. Per i partiti della sinistra, per il Pd che si avvia a congresso, è un problema in più. Non sono riconosciuti come interlocutori dai nuovi movimenti. Devono affrontare la concorrenza di un leader come Giuseppe Conte che si pone come costruttore di una nuova sinistra ma con un rapporto diretto con l’elettorato che scavalca il lavoro sui territori, una dinamica populista. E la loro tradizionale base di consenso, dal sindacato al reticolo di associazioni che si riconoscono nel cattolicesimo sociale, nella galassia pacifista e ecologista, si è ristretta e al tempo stesso è in cerca di nuove forme di rappresentanza. Tutto questo magma potrebbe costituire una straordinaria opportunità. Ma serve una politica capace di ascoltare e di mediare, senza complessi di inferiorità, consapevole del proprio ruolo, che non è né l’inseguimento delle rivendicazioni di piazza né la chiusura nel fortino di palazzo. È la storia di questi venti anni, nel centrosinistra. Il mito fondativo delle primarie del Pd alludeva a questo incontro, tra la società e la politica, fusi tra loro nei gazebo. Un mito, certamente, un’allusione, la suggestione di un incontro da cui far scaturire una novità. La speranza si è rapidamente esaurita. L’incontro tra i partiti e i movimenti non si è più ripetuto, non ha contenuto la promessa e l’energia delle battaglie che lo hanno preceduto, come la domenica con il sabato. Negli ultimi anni i mondi sono tornati a chiudersi nei loro rispettivi recinti: i partiti, il Pd, è diventato più oligarchico, pur restando un partito in apparenza contendibile e non personale, a differenza di tutti gli altri, i movimenti sono diventati più autoreferenziali, meno allegri, più ossessivi. E più irrilevanti, dunque più rabbiosi, rancorosi. Come si vede nei talk televisivi e perfino negli elenchi delle cose da fare che scrittori, sceneggiatori, psicanalisti, hanno esibito come consigli non richiesti per il Partito democratico. Da raccogliere e conservare, perché fotografano bene non solo la dissoluzione del partito ma in una certa misura anche del contesto che lo circonda: l’assenza del pensiero, la fine dell’intellettuale che vorrebbe un rapporto con la politica senza essere in grado di esprimere un pensiero politico che non sia un’indicazione toponomastica (ripartire dalle periferie, dai quartieri, dai territori) o di metodo (partito aperto, semi-aperto) o un’invettiva (sciogliersi, azzerrarsi). Con questi intellettuali, oltre che con questi dirigenti, non vinceremo, non vinceranno mai. Serviranno i nuovi politici, i mediatori tra le spinte della società, sempre più frammentate, e una visione generale che tiene insieme le forze in campo. I movimenti fuori dal recinto. Le promesse e le energie del sabato, da mantenere quando verrà la domenica. Il rifiuto delle guerre torna ad unire i movimenti europei di Riccardo Chiari Il Manifesto, 13 novembre 2022 Nella prima giornata delle assemblee di convergenza di 150 fra organizzazioni e reti sociali continentali, si discute delle nuove campagne di sensibilizzazione e di protesta. A partire dalla pace sempre più necessaria, mentre le istituzioni nazionali e sovranazionali spingono per il riarmo “fino alla vittoria finale”. È il rifiuto delle guerre, da quella russo ucraina ai conflitti “dimenticati” nel continente africano, il filo che torna a legare i movimenti sociali continentali, riuniti a Firenze non tanto per ricordare l’esperienza del primo Forum sociale di vent’anni fa, quanto per evidenziare alcuni macro-temi su cui avviare nuove campagne di sensibilizzazione e di protesta. “Le grandi sfide di oggi - sintetizza Tommaso Fattori - che oltre alle guerre ci interrogano sul collasso climatico e ambientale del pianeta, sull’aumento esponenziale delle disuguaglianze, e sullo svuotamento di fatto della democrazia da parte di un sistema di potere a-democratico e sempre più pervasivo”. Nella prima giornata di una “assemblea di convergenza” che andrà avanti anche oggi, di fronte all’interrogativo su dove stia andando l’Europa e quale sia il suo ruolo in una fase così tumultuosa, gli interventi degli attivisti delle circa 150 organizzazioni presenti si concentrano anzitutto sul conflitto bellico in corso nel cuore del vecchio continente. Denunciando ancora una volta la sordità delle istituzioni nazionali e sovranazionali, che invece di ascoltare le richieste di ampi strati della società per l’avvio di reali negoziati tesi a fermare bombardamenti quotidiani, migliaia di lutti e devastazioni di interi territori, vanno avanti sull’assunto di una guerra che va alimentata “fino alla vittoria finale”. “Il Parlamento europeo - ricorda nel suo intervento il presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo - ha dato il suo via libera a una risoluzione che parla proprio di ‘vittoria finale’, assecondando la decisione della Commissione Ue di finanziare massicciamente l’invio di ulteriori armamenti. Nella risoluzione non compaiono mai le parole ‘pace’ e ‘negoziato’, stracciando di fatto il Trattato di Lisbona e i suoi principi, all’epoca solennemente sanciti”. Sembra così di tornare al 2003, quando le proteste di decine di milioni di persone in tutto il pianeta contro la guerra in Iraq, che pure avevano fatto scrivere al New York Times che si era manifestata una superpotenza mondiale, non avevano smosso di un millimetro i governanti dell’epoca. Una ferita profonda, si osserva in sala, che ebbe riflessi negativi anche sul cammino dei movimenti sociali. E che oggi pone, come allora, gli stessi interrogativi: “Perché non riusciamo ad incidere sulle agende politiche nazionali e dell’Ue? - si chiede dunque Fattori - perché non riusciamo a parlare, a raggiungere, quella massa di persone che come noi subisce le crisi del nostro tempo ma resta chiusa in una solitudine arrabbiata, terreno di coltura delle destre?”. Sono domande a cui, appunto, l’assemblea di convergenza cerca di rispondere tornando ad alimentare nuove mobilitazioni: “Dopo la grande manifestazione italiana del 5 novembre - osserva sul punto Giulio Marcon a nome della rete Sbilanciamoci - il nostro obiettivo, il nostro sogno deve essere quello di fissare una nuova data, per manifestare nelle principali città europee così come abbiamo fatto a Roma”. Nella grande sala del Palaffari la lingua comune è l’inglese, e un efficace sistema di traduzione simultanea permette agli attivisti di ascoltare nella propria lingua gli interventi che si susseguono. Come quello di Martial Mbourangon della rete Ras le bol della Repubblica democratica del Congo, abrasivo ma efficace nel chiedere ai movimenti europei di non fermarsi alle sole manifestazioni pacifiste: “Perché non iniziate a contestare le fabbriche di armi, quelle stesse armi che vengono vendute in Africa e che condannano il mio continente a guerre su guerre?” Un ragionamento che vale anche per altri conflitti, dalla Palestina al Kurdistan, dall’Armenia allo Yemen. All’assemblea intervengono anche Luca Sardo dei Fridays for Future, Jan Robert Suesser dell’European Civic Forum, l’ungherese Vera Mora, Vittorio Agnoletto di Medicina Democratica, Sergio Bassoli di Europe for Peace, l’attivista irakeno Sahar Salam, Stefano Castagnoli del Movimento Federalista Europeo e l’inglese Chris Nineham di Stop the War Coalition. Pronto a ricordare una incontestabile verità: “Le conseguenze delle guerre sono sempre patite dalla gente comune”. Migranti e Ong, la linea di Meloni: l’Italia non è il primo porto sicuro, tutti rispettino gli accordi di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 13 novembre 2022 La mossa del ministro dell’Interno Piantedosi con gli altri Stati che si affacciano sul Mediterraneo per un piano di emergenza. “L’Italia non è il primo porto sicuro per chi arriva dall’Africa, soprattutto non è l’unico. Nessuno può pensare che il nostro Paese sia subalterno ad altri. Questo non è tollerabile”. La linea che filtra da Palazzo Chigi alla vigilia del vertice europeo dei ministri degli Esteri tiene alta la tensione sul dossier migranti. Tanto che a Bali, dove martedì comincia il G20, non è al momento previsto alcun bilaterale tra la premier Giorgia Meloni e il presidente Emmanuel Macron. “In agenda ci sono incontri con leader non europei”, confermano dallo staff della presidenza del Consiglio. L’atteggiamento nei confronti delle Ong non cambia, ma adesso la priorità è trasferire la questione a Bruxelles chiedendo che sia l’Unione Europea a farsi carico di “far rispettare gli accordi che già ci sono, sono stati sottoscritti da tutti, però sembrano valere soltanto per noi”. Il documento congiunto firmato con Malta, Grecia e Cipro - che arriva in una giornata segnata dallo sbarco di centinaia di migranti approdati sulle coste siciliane a bordo di pescherecci e gommoni - va proprio in questa direzione. E serve a costringere l’Europa a intervenire con un piano di emergenza. Il rischio isolamento - È stato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi a tessere la tela per una presa di posizione che conferma l’alleanza degli “Stati di primo ingresso” in modo da evitare l’isolamento dell’Italia rispetto al resto d’Europa. E a ribadire la necessità di una revisione delle intese “che hanno ampiamente dimostrato di non funzionare perché non vengono rispettate, senza che questo provochi danni a chi le ignora”. Le dichiarazioni dei giorni scorsi di Germania e Lussemburgo che confermavano la volontà di partecipare alla distribuzione dei migranti erano infatti un segnale positivo ma ritenuto non sufficiente. Perché pongono comunque come condizione preliminare l’obbligo per l’Italia ad occuparsi della prima assistenza dei migranti dopo lo sbarco. E soprattutto perché non fissano nuove regole rispetto all’attività delle Organizzazioni non governative. Non a caso nella nota dei Paesi del sud viene evidenziata la necessità che “il modus operandi delle navi private non è in linea con lo spirito della cornice giuridica internazionale sulle operazioni di search and rescue, che dovrebbe essere rispettata”. È la richiesta che sarà rinnovata domani dal titolare della Farnesina Antonio Tajani durante il consiglio dei ministri degli Affari esteri in programma a Bruxelles e ribadita da Piantedosi al G7 sulla sicurezza che si svolgerà in Germania mercoledì e durante il suo omologo tedesco. Con un obiettivo chiaro: “Un meccanismo di condivisione degli oneri che sia efficace, equo e permanente”. I “confini europei” - Nei colloqui di queste ore con i ministri titolari del dossier immigrazione la premier Meloni ha ribadito di voler affermare in ogni sede il principio “di difesa dei confini” che aveva già evidenziato durante la sua prima uscita pubblica in Europa. “Su questa linea non daremo mai la sensazione di un arretramento. Si deve impedire che le navi delle Ong puntino direttamente verso il nostro Paese, saltando Tunisi, Malta e tutti gli altri porti sicuri”, dice. Rimane però il problema di portare avanti questa linea senza creare dissidi gravi con quegli Stati che dell’Italia sono sempre stati alleati. E la Francia è in cima alla lista anche in virtù del Trattato del Quirinale firmato a Roma il 26 novembre 2021 da Macron e dall’allora presidente del Consiglio Mario Draghi “per garantire la cooperazione nei settori industriale e culturale”. L’attività diplomatica delle ultime ore si è concentrata sul raffreddamento della crisi tra Roma e Parigi alla ricerca di una linea che possa diventare comune sul sistema di “ricollocazione dei migranti temporaneo e volontario”, ma il nuovo attacco della ministra degli Esteri francese Christine Colonna contro Meloni rischia di far esplodere nuovamente la tensione. I decreti Sicurezza - In questo quadro sembra difficile che si decida di rinnovare subito i decreti Sicurezza approvati quando premier era Giuseppe Conte e ministro dell’Interno Matteo Salvini, ma poi corretti dal Quirinale e annullati in parte dalla Consulta. Il governo punta a misure deterrenti che consentano il sequestro delle navi delle Ong che non rispettano il divieto di ingresso nelle acque internazionali, ma dopo le polemiche scatenate dal provvedimento per impedire i rave party si valutano misure di tipo amministrativo. Tra queste, il sequestro delle imbarcazioni. Cassese: “Migranti, fare la voce grossa non è nell’interesse nazionale” di Roberta Lanzara Adnkronos, 13 novembre 2022 “I decreti Piantedosi sono atti amministrativi conformi ad una legge nazionale”, pertanto non possono essere considerati incostituzionali. “Altra questione è se la legge nazionale (decreto-legge 130 del 2020 - ndr) sia legittima costituzionalmente”. Per quanto riguarda la così detta “selezione” dei migranti a bordo, nessun profilo di illegittimità in quanto “sotto il profilo del diritto interno” il diritto d’asilo presuppone “una verifica uno per uno della situazione degli immigrati” che “come si evince anche dalle premesse dei decreti interministeriali” sarebbe spettata “allo Stato di cui ciascuna nave batte la bandiera” con “obbligo del comandante della nave di accertare a bordo se l’emigrante ha diritto di asilo”. “I decreti Piantedosi (uno per ogni nave impegnata in operazioni Sar) sono fondati sull’articolo 1.2 del decreto-legge 130 del 2020, che ha riscritto, con modifiche, un’analoga norma introdotta l’anno prima dal governo Conte I. Dispongono il divieto di sostare nelle acque territoriali nazionali oltre il tempo necessario per assistere le persone in precarie condizioni di salute. Si tratta, quindi, di atti amministrativi conformi ad una legge nazionale. Altra questione è se la legge nazionale sia legittima costituzionalmente - spiega il costituzionalista - Da questo punto di vista, bisogna tener conto della disposizione dell’articolo 10 della Costituzione, secondo il quale lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla costituzione italiana, ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Nessun margine di incostituzionalità pertanto nella cosiddetta “selezione” dei migranti a bordo delle navi in quanto “sotto il profilo del diritto interno, vale quanto appena detto, che comporta una verifica uno per uno della situazione degli immigrati. Questo obbligo è imposto dal diritto internazionale, secondo il quale vi è un divieto di respingimento collettivo, divieto rafforzato dalle norme convenzionali sovranazionali”. Tra l’altro “come si evince anche dalle premesse dei decreti interministeriali, l’Italia ha cercato di avvalorare la tesi secondo la quale l’accoglienza degli immigrati spetterebbe allo Stato di cui ciascuna nave batte la bandiera - sottolinea Cassese - Da ciò conseguirebbe un obbligo del comandante della nave di accertare a bordo se l’emigrante ha diritto di asilo”. Cassese ricorda che “non è la prima la prima volta che nel mondo si cerca di operare sul concetto di frontiera per tenere sotto controllo l’immigrazione. Gli Stati Uniti d’America hanno la regola delle 100 miglia, all’interno delle quali un immigrato individuato non ha gli stessi diritti che sono assicurati sul territorio americano a tutte le persone”. Come interpreta allora il rifiuto delle Ong a presentare richiesta di asilo agli stati battenti bandiera mentre in acque internazionali? “Immagino che le Ong abbiano consultato gli Stati di cui le navi battono la bandiera, i quali debbono aver reagito nello stesso modo in cui hanno reagito rispetto alla iniziativa del governo italiano, una volta che le navi sono entrate nelle acque territoriali italiane”, risponde evidenziando poi la necessità di “un inquadramento complessivo” del fenomeno in corso della così detta “emigrazione economica”, non contemplato nell’articolo 10 della nostra Costituzione. “Ricordo - prosegue - soltanto che l’Africa ha una popolazione di 1 miliardo 216.000 milioni di persone, che l’Italia ne ha poco meno di 60 milioni e l’Unione Europea circa 440 milioni. Se si tiene conto del fatto che l’Africa è il continente meno sviluppato e che l’Europa è tra le aree più sviluppate, e si ricorda che, dal 1955 al 1970, 9 milioni di italiani hanno lasciato il Sud sottosviluppato per correre nel Nord sviluppato, ci si rende conto della necessità di un inquadramento generale, che suggerisce di non fare la voce grossa in sede europea perché non è nell’interesse nazionale. L’interesse nazionale consiglia di cercare più cooperazione europea, per assicurare quella ricollocazione che il tentativo del biennio 2015-2017 non è riuscito ad ottenere, nella speranza che l’iniziativa francese del giugno 2022 possa avere successo”. Quindi Cassese guarda alla reazione della Francia: “Premetto che l’Italia ha il massimo interesse a raffreddare lo stato di tensione con la Francia, perché fare la voce grossa non è nell’interesse nazionale, visto che questo può essere soddisfatto soltanto con un impegno collettivo. Se si vogliono calcolare le dimensioni giuste del fenomeno, bisogna ricordare che la Germania ha il più alto numero di immigrati, il 12% della popolazione, la Spagna l’11, l’Italia 8,4, la Francia 7,6. Senza dimenticare che l’Italia ha 5,2 milioni di immigrati e 5,8 di italiani emigrati. Aggiungo che vi sono ora i più di 4 milioni di emigrati ucraini”. Secondo il costituzionalista, “il governo ha cominciato bene con le dichiarazioni programmatiche, che insistevano sulla regolazione delle partenze, non degli arrivi, e con l’idea di un piano a favore dei paesi africani, denominato piano Mattei. Un dato che nessuno ha fornito finora, e che dovrebbe essere abbastanza rappresentativo - sollecita Cassese - è quello del numero degli immigrati che furono bloccati sulle navi dal ministro Salvini, che oggi sono in Italia. Sarebbe interessante anche sapere con sicurezza quanti sono gli immigrati che sono arrivati sulle coste italiane con mezzi di trasporto di minori dimensioni, e che quindi non hanno avuto bisogno di attraccare nei porti. La lezione fondamentale che si trae da tutta questa vicenda - conclude - è che contrapporre l’interesse nazionale alla sovranità europea è una finta contrapposizione, perché è nell’interesse nazionale quello di andare più d’accordo possibile con l’Unione europea”. Egitto. Alla Cop27 la grande marcia per chiedere giustizia climatica e la liberazione di Alaa di Giacomo Talignani La Repubblica, 13 novembre 2022 In testa al corteo la sorella Sanaa. Mandato ad Al-Sisi un appello per la grazia. Centinaia di manifestanti protestano al vertice per assenza di impegni su “loss and damage” e diritti umani. “Uniti non saremo mai battuti”. È il grido di rabbia, dolore e protesta che si leva alle 12 in punto all’interno della Cop27 in Egitto. Il messaggio, ispirato alle parole del libro (“Non siete ancora stati sconfitti”) del dissidente politico Alaa Abd El-Fattah imprigionato dal governo di Al-Sisi, è il tema scelto da centinaia di persone provenienti da tutto il mondo giunti alla Conferenza delle parti sul clima per chiedere “giustizia climatica” e “giustizia sociale”. Il tema dei diritti umani, spiegano gli attivisti che oggi hanno preso parte alla grande marcia globale sfilata fra i padiglioni della conferenza, è infatti strettamente connesso a quello della giustizia climatica: il blogger e ambientalista El-Fattah, che è in sciopero della sete dal 6 novembre giorno di inizio del summit, è diventato il simbolo di questo concetto. Centinaia di persone, dall’Amazzonia alla Filippine, dall’Africa all’Australia, si sono così unite in corteo dai mille colori e le mille culture: in testa c’era Sanaa Seif, sorella di Alaa, la cui famiglia ieri ha scritto una lettera appello al presidente egiziano Al-Sisi chiedendo la grazia. Il dissidente al momento è assistito medicalmente e in condizioni di salute precarie: la famiglia chiede da tempo la sua liberazione e ora con l’aiuto della pressione internazionale guidata dal premier francese Emmanuel Macron, il britannico Rishi Sunak e il tedesco Olaf Sholz che hanno parlato di diritti umani con il presidente egiziano Al-Sisi, sembra avere nuove speranze seppur deboli di poterlo riabbracciare. Al fianco di Sanaa, indossando una maglietta con scritto “Alaa Free”, un attivista ha letto un messaggio dedicato all’egiziano incarcerato condannato nel 2014, parole della sorella: il sogno di un Alaa tornato al Cairo da uomo libero, la consapevolezza che ora in questa battaglia ci siete “tutti voi” e quelle parole che riecheggiano in continuazione fra i padiglioni della Conferenza, “Uniti non saremo mai sconfitti”. La folla risponde: “Liberateli tutti”. Una manifestazione, quella avvenuta all’interno dell’area summit di Sharm El-Sheikh, in cui gli attivisti hanno rimarcato il valore di una “Cop ipocrita”, priva di diritti, carica di lobbisti delle fonti fossili e dove non è possibile nemmeno esprimere il proprio dissenso: all’esterno le regole egiziane non permettevano le proteste, l’unico modo era dunque quello di sfilare all’interno, sul suolo Onu. “Non possiamo marciare fuori ma non accettiamo di stare zitti” gridano i rappresentanti delle comunità indigene, gli attivisti in difesa dei diritti gender, i giovani di Fridays For Future e decine di associazioni africane che hanno preso parte alla marcia. “Questa non è una cop africana, è una cop sul loss and damage, sulle perdite e danni subite da tutti i paesi vulnerabili del mondo e per cui i grandi emettitori dovrebbero pagare, per riparazione e danni. Pagate i debiti climatici” gridano i presenti. Proprio nella giornata di oggi, i cui temi chiave sono quelli dell’adattamento e del cibo, si respira un deciso scetticismo sui risultati finali della Cop27, già criticata per contraddizioni di ogni tipo, dai jet privati alla sicurezza eccessiva, dai diritti negati a un eccessivo “bla bla bla” che non sta portando a conclusioni in grado di salvare il Pianeta. Dato che si parlerà di agricoltura, gli attivisti si chiedono per esempio come si possa ignorare la necessità di una riforma di questo settore: un terzo delle emissioni globali di gas serra provengono dai sistemi alimentari industrializzati e dagli effetti devastanti che la crisi climatica sta avendo su agricoltura e sicurezza alimentare. Serve dunque un cambio di rotta “immediato”, dalla giustizia climatica a quella dei diritti dei popoli, in tutti i settori: “Non vi libererete mai di noi - ha urlato davanti a centinaia di persone un attivista - diventeremo più forti e quando non ci saremo più i nostri figli ci sostituiranno”. Stati Uniti. La Louisiana ha votato contro l’abolizione dei lavori forzati. Ecco perché di Anna Lombardi La Repubblica, 13 novembre 2022 La Louisiana non ha abolito, e a larga maggioranza, i lavori forzati. Nel corso di un referendum che si è tenuto martedì, in concomitanza con le elezioni di Midterm, ben il 60 per cento degli elettori dell’ex stato schiavista ha votato contro l’emendamento 7 della Costituzione che avrebbe bandito senza alcuna eccezione quella che nelle prigioni ancora viene legalmente chiamata “schiavitù e servitù involontaria”. Il Paese che pure, dopo una sanguinosissima guerra, ha abolito la schiavitù nel 1865 con la ratifica del 13esimo emendamento della Costituzione, ha conservato in molti stati la possibilità di condannare i criminali appunto a quei lavori forzati - coi lavoratori incatenati che da “Nick Mano Fredda” a “Fratello dove sei?” abbiamo visto spesso nei film - che appunto ad una forma di schiavitù equivalgono. Dopo che già tre stati - il Colorado nel 2018, seguito da Nebraska e Utah nel 2020 - hanno abbandonato la pratica sottoponendola a referendum, quest’anno altri cinque hanno infatti voluto seguire una procedura analoga. Ma mentre Alabama, Oregon, Tennessee e Vermont hanno votato ad altissima maggioranza per l’abolizione di quello che è ormai considerato un vero abuso dei diritti umani dei carcerati, la Louisiana ha opposto un solido “no”. Le cose, però, sono più complicate di quel che sembra. A chiedere agli elettori di opporsi è stato infatti lo stesso deputato democratico Edmond Jordan, paladino dei diritti civili, che aveva avanzato la proposta: denunciando quanto, durante l’iter legislativo, la sua proposta fosse stata talmente annacquata dai suoi colleghi del Pelican State - per paura di dover poi revisionare migliaia di processi - da svuotarla fino a levarne efficacia. Approvare la formulazione approdata al referendum, insomma, avrebbe significato solo permettere di cambiar nome alla crudele pratica, senza di fatto sopprimerla. Come già accaduto in Colorado. Con buona pace delle indicazioni date invece da organizzazioni che si battono per i diritti dei prigionieri, come l’Abolish Slavery National Network, che pur concordando avevano chiesto comunque un “sì”: “Pensiamo poi a migliorare ancor più le cose”. Il no della Louisiana ha però riportato sui giornali americani la realtà quotidiana di migliaia di prigionieri: costretti a lavorare a costo quasi zero (in sette stati non vengono pagati. In altri guadagnano da 2 a 20 centesimi l’ora, non arrivando a mettere insieme nemmeno due dollari dopo l’intera giornata) per un’industria che - lo scrive il Washington Post - produce beni per 2 miliardi di dollari l’anno, con quei poveretti “prestati” in subappalto ad aziende private (e fra queste, sostiene un’inchiesta della rivista Mother Jones, pure la catena di lingerie Victoria’s Secret, Microsoft e Starbucks) e agenzie governative. Il loro impiego, d’altronde, permette di risparmiare 9 miliardi l’anno alle stesse prigioni, dove i carcerati sono usati per la manutenzione degli edifici e per ogni altro mestiere interno. Uno di questi carceri, proprio in Louisiana, è ospitato negli stessi capannoni della piantagione, fondata nel 1846 dallo schiavista Isaac Franklin, chiamata Angola. Sebbene il nome legale sia oggi Louisiana State Penitentiary, penitenziario di stato, tutti la conoscono ancora con l’antico nome dello stato africano (da cui gli schiavi di Franklin provenivano in massa). Qui ancora oggi i prigionieri - in maggioranza afroamericani - raccolgono il cotone a mano come duecento anni fa. Chi non fa la sua parte viene punito dai “guardiani” bianchi. Dormono in casermoni con letti a triplo castello. E quando muoiono vengono seppelliti in una fossa comune ai bordi del campo. Iran. “Le dittature si basano sulle bugie, gli scrittori cercano la verità. Per questo sono pericolosi” di Sabina Minardi L’Espresso, 13 novembre 2022 Il potere della femminilità, che terrorizza il regime. E quello della letteratura: arma di resistenza e di democrazia. Parla l’autrice di “Leggere Lolita a Teheran”, Azar Nafisi. “Leggere Lolita a Teheran” è un libro nel cuore di molti lettori. Nel 2003, quando uscì, fu un caso internazionale: per oltre cento settimane nella lista dei best-seller del New York Times, tradotto in 32 lingue, un premio dopo l’altro. Nel 2009 il Times lo consacrò come uno dei libri più importanti del decennio. Perché “Leggere Lolita a Teheran”, pubblicato in italiano da Adelphi, non era solo il racconto di una docente che, costretta a lasciare l’insegnamento universitario, proseguiva le sue lezioni di letteratura clandestinamente, a casa sua, con le sue studentesse migliori. Ma svelava al mondo la libertà degli iraniani calpestata. Provocando l’indignazione generale: perché certi autori, che avevano emozionato milioni di lettori occidentali - “Orgoglio e pregiudizio”, “Madame Bovary”, “Lolita”, “Il grande Gatsby”…, - in Iran erano severamente vietati? La protagonista, Azar Nafisi stessa, invitava tutti a immaginare quella libertà di leggere improvvisamente confiscata. E a non dimenticare quelle donne, che tutti i giovedì, per due anni, “con il sole e con la pioggia sono venute a casa mia, togliendosi il velo e la veste scura per diventare di colpo a colori”. Levandosi di dosso, con quel gesto, anche di più: “Ognuna di loro acquisiva una forma, un profilo, diventava il suo proprio, inimitabile sé. Quel piccolo mondo, quel soggiorno con la finestra che incorniciava i miei amati monti Elburz, diventò il nostro rifugio, il nostro universo autonomo, una sorta di sberleffo alla realtà di volti impauriti e nascosti nei veli della città sotto di noi”. Della Repubblica islamica Nafisi, figlia di Ahmad Nafisi, ex sindaco di Teheran, e di Nezhat Nafisi, prima donna a essere eletta al parlamento, è sempre stata oppositrice. Professoressa di Letteratura inglese all’università Allameh Tabatabai di Teheran (dopo studi tra l’Inghilterra e l’università di Oklahoma), fu espulsa, tra il 1981 e il 1987, per aver rifiutato di indossare il velo. Qualche anno dopo, impossibilita a vivere in un ambiente accademico più preoccupato del potenziale sovversivo di una ciocca di capelli che sbucava dall’hijab che della qualità degli insegnamenti, “di espungere la parola vino da un racconto di Hemingway o di cassare dai programmi di studio Emily Bronte”, lasciò l’incarico. E di lì a poco anche il Paese: si trasferì con la famiglia a Washington, dove ha insegnato Letteratura inglese alla Paul H. Nitze School of Advanced International Studied della John Hopkins University e diretto il Dialogue Project & Cultural Conversations. Da lì ha continuato a far sentire la sua voce critica contro gli ayatollah: con libri come “Le cose che non ho detto”, “La Repubblica dell’immaginazione”, “Quell’altro mondo. Nabokov e l’enigma dell’esilio”. Col suo ultimo saggio, “Read Dangerously”, è tornata a riflettere sul potere sovversivo della letteratura: attraverso lettere inviate al padre e dedicate alla scrittura di Toni Morrison, James Baldwin, Margaret Atwood, Salman Rushdie. Arma di resistenza ai tempi bui, come quelli che l’Iran sta vivendo. E che Azar Nafisi segue con trepidazione. “Provo emozioni contrastanti, dentro di me”, dice la scrittrice a L’Espresso: “Da una parte sono arrabbiata per il modo in cui il regime sta uccidendo così tanti giovani che chiedono soltanto libertà, dall’altra nutro grande speranza verso questo tempo: sono convinta che queste rivolte siano davvero diverse da quelle passate. Sono piena di fiducia perché penso che siamo arrivati a un punto di svolta: a prescindere da cosa accadrà, queste proteste cambieranno la faccia della società iraniana, in meglio”. Studenti in rivolta e ragazze in prima linea. Basiji armati fino ai denti, pronti a colpire con coltelli e pistole. E quello slogan che non accenna ad attenuarsi: “Donna vita libertà”. Le sue indomabili ragazze, che sfidavano la sorveglianza di fratelli e di mariti per leggere insieme libri proibiti, stanno idealmente guidando le manifestazioni: “In questi 43 anni in cui la Repubblica islamica è stata al potere ci sono state moltissime azioni di protesta. Una delle più importanti, quasi un’anticipazione di ciò che accade ora, è avvenuta all’inizio della Rivoluzione islamica, l’8 marzo 1979, quando milioni e milioni di iraniane sono scese in strada chiedendo libertà. Lo slogan era “la libertà non è dell’Est o dell’Ovest, la libertà è globale”. Sin dall’inizio, il regime ha avuto nel suo obiettivo donne e minoranze. Questi gruppi, in particolare le donne, hanno fatto sentire la loro voce di protesta. Ma una delle differenze tra allora e oggi è che prima la gente riponeva speranza nel movimento delle riforme. Se ricordate la maggior parte delle elezioni presidenziali proponeva candidati riformisti, a partire da Khatami. E tutte le volte che questi candidati riformisti salivano al potere, ingiustizie e corruzione peggioravano. Ma questa volta nessuno ha come obiettivo le riforme: le persone sanno chiaramente che questo regime non vuole concederne. E a questo punto cercheranno di fermarlo più velocemente possibile”. “Abbiamo mandato le nostre figlie, il nostro bene più prezioso, a lottare per la libertà di tutti”, ha scritto Kader Abdolah su L’Espresso. “Gli iraniani, e le donne iraniane in particolare, hanno preso coscienza di come possono usare il potere”, aggiunge Nafisi: “Sembra che siano solamente vittime ma non lo sono. Loro hanno capito quanto sono potenti perché solamente essendo sé stesse sono diventate pericolose per il regime. Non è un gesto politico, il loro, è la consapevolezza di una condizione esistenziale. Ricordo quando sono stata espulsa dall’università per non aver voluto indossare il velo. Ho sentito, come donna, di dover proteggere la mia individualità e il mio senso di dignità: non potevo permettere allo Stato di definire chi io dovessi essere. E questo è ciò che provano milioni di donne iraniane oggi. Hanno scoperto quanto potenti possano essere andando nelle strade di Teheran senza il velo. Significa che qualcosa di fondamentale è cambiato: il regime è spaventato. Usano tanta violenza perché non hanno più altre armi. Il solo modo di dialogare è attraverso le pistole. Il regime ha paura e il popolo ha potere. Questo influenzerà non solo l’Iran e non solo il regime, ma tutto il mondo”. Perché? “Gli iraniani, per 43 anni, hanno provato cosa vuol dire vivere senza democrazia. Sono stati arrestati, imprigionati, torturati e uccisi senza alcuna colpa, solo per la democrazia”, prosegue la scrittrice: “E quello che sta accadendo ora è in nome della democrazia, ragione per la quale il mondo dovrebbe supportare l’Iran, la democrazia di una parte di mondo dovrebbe aiutare la democrazia in altre parti del mondo. La mia speranza per l’Iran è che quanto sta accadendo non porti solo una nuova vita per gli iraniani, ma che diventi un modello. Allo stesso modo in cui è accaduto in Sud Africa o in Sud America, dove movimenti per i diritti civili sono diventati modelli per il resto del mondo. E questa rivoluzione contro la teocrazia è la prima guidata da donne: un fatto storico”. La premio Nobel per la pace Shirin Ebadi ha chiesto, parlando con L’Espresso, sanzioni sempre più dure contro il regime e i pasdaran da parte dell’Occidente. Le sembra una strada concreta? “Prima di tutto, penso che la condanna che il mondo ha fatto dovrebbe andare oltre le parole. Per esempio, abbiamo bisogno che l’Iran sia espulso dalle istituzioni delle Nazioni Unite che hanno a che fare con le donne e con diritti umani. Come può questa gente sedere in queste sedi e rappresentare l’Iran, mentre le donne sono barbaramente uccise: non ha senso. Altre cose che i governi possono fare è congelare gli asset degli ufficiali di governo i cui figli e parenti vivono in lusso assoluto in diversi Paesi occidentali. È veramente vergognoso che mentre gli iraniani a stento hanno da mangiare ci siano persone che vivono da miliardari in Europa e nel Nord America. Penso che i loro patrimoni dovrebbero essere congelati. E che quelle istituzioni che hanno a che fare con il governo, come le Guardie della rivoluzione, la televisione e la radio di Stato, dovrebbero essere sanzionate. Dovrebbe essere fermato il riciclaggio di denaro che si sta verificando, specialmente ora che molti del regime hanno paura e stanno mandando i loro soldi fuori dal Paese. Fino a questo momento l’Occidente è stato molto, molto cauto, in attesa di vedere cosa accadrà. A prescindere da come andrà a finire, dovrebbe fare la cosa giusta”. Nella stanza tutta per loro, nella Teheran del 1995, fare la cosa giusta era aiutare giovani donne a sopravvivere in un contesto di censura. “Non cercavamo formule o risposte facili; speravamo invece di trovare un collegamento tra gli spazi aperti dei romanzi e quelli chiusi in cui eravamo confinate”, scrive nel suo romanzo più famoso Nafisi, che non ha mai smesso di evocare la potenza della letteratura: quel “mondo portatile” fatto di autori che rispondono alla nostra fame di vita, desiderio, libertà. E che atterrisce i fondamentalisti... “Sono spaventati dalla letteratura, perché arte e letteratura si basano sulla verità”, prosegue Nafisi: “Quello che l’autore di un romanzo fa è portare alla luce la verità del tema di cui sta scrivendo. Lo fa attraverso una struttura democratica, perché se sei un grande scrittore devi dare voce a tutti i personaggi, all’interno di un libro. Vai sotto la pelle di ogni singola figura per empatizzare e scrivere un buon racconto. Anche i più cattivi hanno diritto alla loro voce. Perciò i romanzi diventano pericolosi, come del resto accade col giornalismo. Il giornalismo scava nei fatti, per raggiungere la verità. La fiction vuole scoprire la verità attraverso l’immaginazione. Ed è per questo che entrambi sono considerati pericolosi per i regimi: da quando il regime islamico è salito al potere ha iniziato il suo attacco alla letteratura, all’arte, all’immaginazione. Khomeini ha detto: “Le università sono più pericolose delle bombe per noi”. Umanità e creatività li spaventano. Non la scienza o l’ingegneria: sono sempre stati terrorizzati dagli artisti, dagli scrittori, dai filosofi. Hanno ucciso sin dal primo giorno e imprigionato e arrestato tantissimi scrittori. Anche adesso, mentre noi parliamo, ci sono artisti e scrittori che vengono arrestati e imprigionati nelle carceri iraniane. Come ogni regime totalitario, anche questo sin dall’inizio ha attaccato soprattutto tre gruppi di persone: donne, minoranze e oppositori. E ora vediamo che in particolare i più giovani sono scesi in strada, chiedendo libertà di riunione, libertà di scelta, non permettendo al regime di silenziare più la loro voce”. Allo scrittore Salman Rushdie, vittima di una indelebile fatwa, e recentemente aggredito a New York, ha dedicato un capitolo di “Read Dangerously”. “Non ho idea di come stia, ma non dovremmo dimenticare cosa ha subito. Nel libro mi sono chiesta cosa c’è in un uomo, la cui sola arma sono le sue parole, che lo rende così pericoloso al punto che alcuni dei più potenti sulla terra vorrebbero distruggerlo. Perché Rushdie parla con le sue parole e non ha altre armi. Eppure il regime è così terrorizzato che il solo obiettivo che ha è ucciderlo. Questo non ha a che fare con la religione, ma col potere politico. I regimi totalitari sanno che scrittori, artisti e giornalisti sono altamente pericolosi per loro. Perché si basano sulle bugie. Più grande è la bugia più si sentono a casa. Sono terrorizzati dalle verità degli scrittori”. La letteratura insegue la verità. Ma mentre il sangue scorre per le strade si può ancora evocare il diritto all’immaginazione? “Sì, non penso ci sia contraddizione. Quando ero in Iran i miei studenti fotocopiavano centinaia e centinaia di romanzi per connettersi al mondo. Ciò che è successo dopo è che gli iraniani sono stati tagliati fuori dal mondo. Noi leggevamo clandestinamente libri proibiti, ballavamo danze vietate, cantavamo canzoni e ascoltavamo musica messa al bando, guardavamo arte proibita. Quella parte della nostra vita era ciò che ci dava speranza e ci faceva sentire connessi col mondo. Da bambina a casa si parlava di cinema francese e italiano. Poi, è arrivata la Rivoluzione, e Fellini, Antonioni, Rossellini, visti clandestinamente, erano i nostri spazi aperti. Gli iraniani faranno di tutto per ritrovarli”.