Appello. Fermiamo la strage dei suicidi in carcere. Qui ed ora… si può! Ristretti Orizzonti, 12 novembre 2022 76 morti in poco più di 10 mesi. È il numero di suicidi in carcere registrati fino ad oggi. Un record lugubre, terribile, inaccettabile. Mai prima d’ora era stato raggiunto questo abisso. Sappiamo bene cosa si dovrebbe fare per evitare o contenere questo massacro quotidiano: depenalizzare e considerare il carcere solo come extrema ratio, moltiplicare le pene alternative, dare la possibilità al cittadino detenuto di iniziare un vero percorso di inclusione nella comunità. Chi è in custodia nelle mani dello Stato dovrebbe vivere in spazi e contesti umani che rispettino la sua dignità e i suoi diritti. Chi è in custodia dello Stato non dovrebbe togliersi la vita! Insomma, sappiamo bene, perché ne discutiamo da anni, da decenni quali siano le strade per fermare la strage, ma la politica, quasi tutta la politica, è sorda perché sul carcere e sulla pelle dei reclusi si gioca una partita tutta ideologica che non tiene in nessun conto chi vive “dentro”, oltre quel muro che divide i “buoni” dai “cattivi”. Insomma, non c’è tempo: il massacro va fermato qui ed ora. E allora proponiamo una serie di interventi immediati che possano dare un minimo di sollievo al disagio che i detenuti vivono nelle carceri “illegali” del nostro Paese. 1. Aumentare le telefonate per i detenuti. È sufficiente modificare il regolamento penitenziario del 2000, secondo cui ogni detenuto (esclusi quelli che non possono comunicare con l’esterno) ha diritto a una sola telefonata a settimana, per un massimo di dieci minuti. Bisognerebbe consentire ai detenuti di chiamare tutti i giorni, o quando ne hanno desiderio, i propri cari. 2. Alzare a 75 giorni i 45 previsti a semestre per la liberazione anticipata. 3. Creare spazi da dedicare ai familiari che vogliono essere in contatto con i propri cari reclusi per valorizzare l’affettività. 4. Aumentare il personale per la salute psicofisica. In quasi tutti gli istituti vi è una grave carenza di psichiatri e psicologi. 5. Attuare al più presto, con la prospettiva di seguire il solco delle misure alternative, quella parte della riforma Cartabia che contempla la valorizzazione della giustizia riparativa e nel contempo rivitalizza le sanzioni sostitutive delle pene detentive. I firmatari Roberto Saviano, scrittore Gherardo Colombo, ex magistrato Luigi Manconi, sociologo Giovanni Fiandaca, giurista Massimo Cacciari, filosofo Fiammetta Borsellino Mattia Feltri, giornalista Francesca Scopelliti, Fondazione Tortora Walter Verini, commissione Giustizia Senato Anna Rossomando, vicepresidente del Senato Mariolina Castellone, vicepresidente del Senato Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino Marco Cappato, Associazione Luca Coscioni Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace Riccardo Polidoro, osservatorio carcere Ucpi Gianpaolo Catanzariti, osservatorio carcere Ucpi Michael L. Giffoni, ex ambasciatore italiano Paolo Ferrua, giurista Giovanni Maria Pavarin, presidente Tribunale di Sorveglianza di Trieste Tommaso Greco, filosofo Tullio Padovani, giurista Ornella Favero e Redazione di Ristretti Orizzonti Rossella Favero, Cooperativa AltraCittà Annamaria Alborghetti, Commissione Carcere Camera Penale Padova Sviste e omissioni sul 4 bis: lo strano caso della Consulta di Salvatore Curreri Il Riformista, 12 novembre 2022 Il rinvio è stato deciso sulla base di un decreto non ancora convertito, eterogeneo - e quindi a detta della stessa Corte incostituzionale - e persino peggiorativo della legge precedente. C’è da essere perplessi. Per quanto prevedibile e prevista, l’ordinanza - anticipata con comunicato stampa - con cui la Corte costituzionale ha deciso di non decidere sul cosiddetto ergastolo ostativo, rinviando gli atti alla Cassazione penale che aveva sollevato la questione d’incostituzionalità, desta talune perplessità sotto il profilo giuridico e, soprattutto, lascia l’amaro in bocca a chi ancora riesce a scorgere dietro l’apparente astrattezza delle questioni giuridiche la vita di persone che oggi subiscono un trattamento penitenziario illegittimo e però ancora una volta prorogato. Illegittimo perché così la Corte costituzionale (ordinanza n. 97/2021), e ancora prima la Corte europea dei diritti dell’uomo (13.6.2019 Viola c. Italia n. 2 confermata dalla Grande Camera, 8.10.2019), ha giudicato il divieto assoluto per i condannati all’ergastolo per reati di particolare allarme sociale (tra cui mafia e terrorismo) che non hanno collaborato con la giustizia di potere accedere dopo ventisei anni di pena alla libertà condizionale, al pari degli altri condannati. Il “fine pena mai” per costoro costituisce, infatti, un trattamento inumano e degradante in contrasto con la finalità rieducativa della pena. Non perché si voglia sminuire o rendere irrilevante il significato della collaborazione (in questo - e solo in questo - può giustificarsi il richiamo alla memoria di Giovanni Falcone) ma perché è irragionevole ritenere questa l’unica condizione per accedere ai benefici penitenziari, escludendo coloro che - ripetiamo: dopo ventisei anni - hanno dato piena prova di essersi allontanati dal sodalizio mafioso e di fattiva partecipazione al percorso rieducativo. Se, infatti il legislatore può legittimamente premiare chi collabora con la giustizia, di contro non può sanzionare chi non lo fa, presumendo in modo assoluto e senza prova contraria che la scelta di non collaborare implichi la perdurante collaborazione con l’organizzazione criminale d’appartenenza. Come la scelta di collaborare con la giustizia non implica di per sé “un vero pentimento” e la “decisione di tagliare ogni legame con le associazioni per delinquere”, potendo essere dettata da ragioni utilitaristiche di convenienza, così la scelta di non collaborare non equivale ad una presunzione assoluta di pericolosità sociale, per assenza di ravvedimento o persistenza di contatti con le organizzazioni criminali, ma può essere dettata da ragioni diverse che rendono tale rifiuto non libero (ad esempio, per l’integrale accertamento dei fatti, la limitata partecipazione al reato o il timore di ritorsioni contro i propri cari). Occorre dunque distinguere tra chi oggettivamente può, ma per scelta soggettiva non vuole collaborare (Cass., I pen. 41329/2022) e chi soggettivamente vuole ma oggettivamente suo malgrado non può collaborare (Cass., V pen. 36887/2020) perché come ci si può ravvedere anche senza collaborare, così si può tacere senza per questo essere omertosi. Sulla base di queste premesse, la Corte costituzionale l’anno scorso ritenne in contrasto con la finalità rieducativa della pena non l’ergastolo ostativo in sé ma l’automatica esclusione dalla libertà condizionale degli ergastolani non collaboranti. Trattandosi però di una condizione di estinzione della pena, e non di sua semplice sospensione (come nel caso dell’esclusione di costoro dai permessi premio, dichiarata incostituzionale: sentenza n. 253/2019), la Corte allora decise - per esigenze di collaborazione istituzionale - di rimettere al legislatore il compito di ridefinire la materia dapprima entro il 15 maggio 2022 (ordinanza n. 97 dell’11 maggio 2021) e poi entro 1’8 novembre 2022 (ord.122/2022), concedendo inusualmente un’ulteriore proroga in considerazione del testo legislativo approvato dalla Camera lo scorso 31 marzo. Nonostante i 18 mesi trascorsi, le Camere, come al solito, non sono riuscite ad approvare la riforma per cui, in vista della predetta scadenza, è dovuto intervenire il Governo con il decreto legge n.162/2022 approvato lo scorso 31 ottobre che riprende in massima (ma non totale) parte il testo approvato dalla Camera il 31 maggio 2022 con il consenso di Pd, MSs, Forza Italia e Lega. In realtà il vero obiettivo di Fratelli d’Italia è modificare l’art. 27 della Costituzione per abrogare di fatto la finalità rieducativa della pena e vietare agli ergastolani ogni beneficio penitenziario. Ma poiché, come candidamente ammesso dalla presidente del Consiglio, tale obiettivo è al momento impossibile, si è preferito riproporre il testo approvato dalla Camera. Com’è stato scritto su queste colonne, con chiarezza d’argomenti e vis comunicativa, dal collega Pugiotto, si tratta di un testo che solo apparentemente accoglie quel bilanciamento auspicato dalla Corte tra i diritti dell’ergastolano e le esigenze di contrasto del fenomeno mafioso. In realtà, esso introduce tutta una serie di condizioni e di limiti che rendono di fatto impraticabile l’accesso alla libertà condizionale agli ergastolani non collaboranti: si aumentano i reati ostativi, includendo i principali contro la pubblica amministrazione nonché i casi di pene concorrenti inflitte per delitti diversi se commessi per lo stesso fine (ecco il peggioramento rispetto al testo approvato dalla Camera); si aumentano, rispetto agli ergastolani collaboranti gli anni di carcere (da 26 a 30) da scontare prima di poter chiedere l’accesso alla libertà condizionata, il cui periodo viene a sua volta prolungato da 5 a 10 anni; si obbliga il richiedente a provare l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata non solo attuali ma futuri (una vera e propria probatio diabolica); si abrogano i casi, oggi previsti, di collaborazione impossibile (perché fatti e relative responsabilità erano stati integralmente accertati) oppure inesigibile perché oggettivamente marginale e irrilevante. Di fronte ad un decreto legge che formalmente dà seguito alla sentenza della Corte ma ne rinnega di fatto le indicazioni, potevano i giudici costituzionali decidere altrimenti? Per quanto sia ormai inutile chiederselo (e non solo perché la decisione è stata già presa...), ci sono tre elementi critici da evidenziare. In primo luogo, sotto un profilo strettamente giuridico la Corte ha rinviato la questione sulla base di disposizioni contenute in un decreto legge in fase di conversione e che quindi può essere modificato o, per quanto sia politicamente improbabile, addirittura respinto. Prudenza avrebbe voluto quindi che la Corte avesse ulteriormente rinviato la questione di qualche settimana, così da avere certezza dell’approvazione del provvedimento. Evidentemente, invece, la Corte ritiene certa la conversione del decreto legge. Ma questa è una previsione politica, che un giudice che si basa sul diritto vigente (in questo caso provvisorio) non dovrebbe consentirsi. In secondo luogo, la Corte si è trovata per la prima a giudicare su un decreto legge in fase di conversione il cui contenuto è manifestamente eterogeneo perché contiene misure urgenti, oltreché sull’ergastolo ostativo, anche per il rinvio della riforma del processo penale, di contrasto dei cosiddetti rave party e di riammissione di medici e infermieri no-vax. Insomma siamo dinanzi a uno di quei decreti legge omnibus che la Corte ha diverse volte giudicato incostituzionali a causa di disposizioni presenti nel testo del tutto estranee o incoerenti rispetto al suo oggetto, contenuto, finalità o ratio dominante. La Corte ha affrontato tale profilo d’incostituzionalità o l’ha volutamente omesso ai fini del proprio giudizio? Infine, in terzo luogo, la Corte dovrebbe prendere finalmente atto che, per quanto ispirate al principio di leale collaborazione, le proprie sentenze monito e da ultimo, le ordinanze con cui, anziché - come dovrebbe per Costituzione - dichiarare incostituzionale una disposizione, fissa un termine entro cui il legislatore deve rimediare, continuano a non trovare seguito. Così è stato per la pena carceraria (ai giornalisti) in caso di diffamazione (132/2020-150/2021), per l’aiuto al suicidio (207/2018- 242/2019) ed ora per la revisione dell’ergastolo ostativo. Evidentemente una fiducia mal riposta nelle capacità decisionali del legislatore, il quale, ciò nonostante, gode ora di un’ulteriore apertura di credito ai fini non tanto della approvazione della nuova normativa quanto dell’effettivo recepimento delle indicazioni della Corte. Si obietterà: verrà comunque il giorno in cui la Corte avrà modo di pronunciarsi sulla nuova normativa e, se del caso, dichiararla illegittima. A parte che ciò significa implicitamente ammettere l’inutilità di tale rinvio, dato che sicuramente di fronte a un peggioramento della normativa, la Cassazione non potrà che ribadire l’eccezione d’incostituzionalità a suo tempo sollevata, peccato che in questa vicenda il fattore tempo non è irrilevante perché, come detto all’inizio, ci sono ergastolani, a cominciare da chi ha sollevato la questione di costituzionalità, che stanno patendo uno stato detentivo che la stessa Corte ha già riconosciuto illegittimo. Forse è da qui che si dovrebbe partire, dalla storia di Domenico Papalia in carcere da 44 anni, per contrastare la narrazione degli ergastolani che devono marcire in carcere. Perché, come scrisse Foster Wallace, noi crediamo di sapere tutto sui diritti umani e sulla dignità umana e quanto sia terribile privare qualcuno della propria umanità ma solo se succede a qualcuno che conosci, allora sì che lo sai per davvero. Il reato di tortura è efficace: sarà rivisto dal nuovo governo? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 novembre 2022 Dopo la notizia sui presunti pestaggi avvenuti nei confronti di un detenuto nel carcere di Bari, si riaccende lo scontro sul reato di tortura. Da una parte ci sono i sindacati della polizia penitenziaria come la Uilpa e Sappe che dicono di rivedere il reato perché costruito male. Dall’altra c’è ad esempio l’associazione Antigone che, alla luce dei diversi processi a seguito dell’introduzione del reato, è “segno di un testo che era e continua ad essere fondamentale per prevenire e perseguire abusi in un luogo chiuso come il carcere”. Nel caso specifico di Bari, ancora parliamo di una ipotesi e quindi bisogna attendere l’esito delle indagini e gli eventuali rinvii a giudizio. Ma ora la questione tutto ruota sul reato di tortura. “Riponiamo incondizionata fiducia nella magistratura - ha dichiarato il segretario generale Gennarino De Fazio - Chi sbaglia va individuato, isolato e perseguito, ma se le indagini per il reato di tortura sono ormai numerose e interessano carceri diverse in tutto il Paese, probabilmente, c’è molto di più di qualcosa nell’organizzazione complessiva che non funziona e da correggere”. Ma il governo Meloni cosa farà? Il terzo punto del programma del partito Fratelli d’Italia per le elezioni politiche del 2018 era dedicato alla “priorità a sicurezza e legalità”. Tra le altre cose si citava la “revisione della cosiddetta legge sulla tortura”. Nel programma delle elezioni scorse, però, non viene fatto menzione. E questo potrebbe far venire un sospiro di sollievo per chi, da anni, si è battuto affinché fosse introdotto questo reato come richiesto nell’aprile del 2015 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La Cedu, infatti, aveva insistito con l’Italia perché si dotasse di “strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura o altri maltrattamenti”, dopo averla condannata in riferimento al “comportamento tenuto dalle forze dell’ordine durante l’irruzione alla scuola Diaz”, avvenuta nei giorni del G8 di Genova del luglio 2001, con terribili e comprovate violenze contro persone inermi e innocenti. Il reato di tortura entrò in vigore nel luglio 2017 durante il governo Gentiloni, dopo un faticoso percorso legislativo durato quattro anni. Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia votarono contro il disegno di legge sul reato di tortura e il M5S si astenne. Ma fu espressa insoddisfazione per il testo della norma - per ragioni totalmente opposte - anche dagli stessi promotori. Luigi Manconi, all’epoca senatore del Partito Democratico, primo firmatario del disegno di legge nel 2013, disse che le modifiche avvenute negli anni rappresentavano uno “stravolgimento” del testo, che inizialmente “ricalcava lo spirito profondo che aveva animato le convenzioni e i trattati internazionali sul tema”. Uno “stravolgimento” perché nel testo finale della legge la tortura viene configurata come “reato comune” e non come “reato proprio”, come invece indicato dalle disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984 a cui Manconi fa riferimento: mentre il reato comune può essere commesso da “chiunque”, il reato proprio identifica infatti una particolare qualifica o posizione di chi lo commette. Ad opporsi all’approvazione del testo di legge nel luglio 2017, tra gli altri, anche Ilaria Cucchi e Enrico Zucca, pubblico ministero nel processo per le violenze alla scuola Diaz durante il G8, che firmarono un appello definendo il testo di legge “confuso, inapplicabile e controproducente”. Però, poi, nei fatti, da quando il reato è stato introdotto, tale legge si è dimostrata efficace. La stessa associazione Antigone, all’epoca critica per le stesse ragioni di Manconi, ha potuto verificare che - nonostante sia figlia di un compromesso - il reato di tortura approvato funziona, soprattutto grazie “alla cultura giuridica di chi poi quella legge la applica”. “Il rinvio della riforma Cartabia? Incostituzionale”. Parola di giudice di Valentina Stella Il Dubbio, 12 novembre 2022 Il Tribunale di Siena ha sollevato la questione di legittimità: la possibile efficacia della causa di estinzione del reato è stata impedita dal decreto Meloni del 31 ottobre. Il Tribunale di Siena con una ordinanza di 33 pagine ha sollevato questione di costituzionalità del decreto legge varato lo scorso 31 ottobre dal governo Meloni, nella parte in cui rinvia al 30 dicembre l’entrata in vigore della riforma del processo penale di mediazione Cartabia. I fatti: a luglio 2019 a Chianciano Terme un automobilista arresta improvvisamente la sua auto e costringe quello che sta dietro a frenare bruscamente. Ne nasce un diverbio, durante il quale il primo minaccia il secondo, ammaccando pure la macchina dell’altro con un pugno. La vittima sporge querela e il pm muove l’accusa di violenza privata e danneggiamento, chiedendo poi al termine del processo sei mesi per l’accusato. Mentre la difesa chiede di sollevare il dubbio di legittimità costituzione o in subordine l’assoluzione. Intanto però il 9 novembre 2019 la parte offesa aveva ritirato la querela, ma il pm aveva comunque “doverosamente” esercitato l’azione penale, dal momento che i reati di violenza privata e danneggiamento risultavano perseguibili d’ufficio. Nell’udienza dell’8 novembre 2022 il pm rende nota la remissione di querela, espressamente accettata dall’imputato. L’11 novembre il giudice invia gli atti alla Consulta. L’intreccio con la riforma Cartabia: il 17 ottobre viene pubblicata in GU la riforma del processo penale che sarebbe dovuta entrare in vigore il primo novembre. “In un’ottica di deflazione in concreto degli affari penali”, la norma - ricorda il giudice - ha previsto “un mutamento nel regime di procedibilità, tra gli altri, anche dei delitti di violenza privata e di danneggiamento” perseguibili solo a querela del soggetto offeso. Pertanto per questi due reati risulta ampliato “il novero delle fattispecie estintive della punibilità ad essi relative, ricomprendendovi anche la remissione di querela”. Tali mutamenti normativi, spiega il giudice senese, che “prevedono l’introduzione della più favorevole perseguibilità a querela in luogo della già prevista procedibilità d’ufficio, come noto rappresentano il terreno elettivo di applicazione del principio di retroattività della norma penale più favorevole al reo”. Dunque, se il primo novembre fosse entrata in vigore la riforma Cartabia, il giudizio non si sarebbe potuto che concludere “con una sentenza di non doversi procedere, adottata ai sensi dell’articolo 531 del codice di procedura penale, a seguito dell’intervenuta estinzione di entrambi i reati di danneggiamento e violenza privata ascritti all’imputato”. Tuttavia il 31 ottobre, attraverso il decreto-legge emanato dal governo appena insediatosi, l’entrata in vigore della riforma Cartabia è stata posticipata al 30 dicembre, sicché il magistrato sottolinea che allo stato “non può dispiegarsi la concreta efficacia operativa dei più favorevoli mutamenti”, in quanto “resta precluso al Tribunale l’accertamento dell’estinzione di siffatti reati, in ragione della perdurante procedibilità d’ufficio dell’azione penale”. Il rinvio alla Corte Costituzionale: “Le considerazioni e i rilievi innanzi esposti, allora - ha proseguito il magistrato - depongono tutti nel senso di escludere che il presente giudizio possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 6 del decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162” “per contrasto con gli articoli 73, terzo comma, e 77, secondo comma, nonché con il coordinato disposto degli articoli 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione sia all’articolo 7, primo paragrafo” della Cedu, sia all’articolo 15, primo comma, del Patto internazionale sui diritti civili e politici. I motivi del rinvio: innanzitutto secondo il giudice il decreto legge dell’esecutivo Meloni è stato emanato “in palese difetto dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza che legittimano ed abilitano il Governo ad esercitare funzioni legislative”. Secondo: secondo l’articolo 73 comma 3 della Costituzione “le leggi sono pubblicate subito dopo la promulgazione ed entrano in vigore il quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione, salvo che le leggi stesse stabiliscano un termine diverso”. In pratica l’entrata in vigore può essere posticipata solo se è la legge stessa a prevederlo, non un altro atto. E sebbene la sentenza n. 170 del 1983 della Consulta “autorizza il legislatore, nel suo potere discrezionale, a disporre diversamente prevedendo l’entrata in vigore di una legge oltre il quindicesimo giorno”, “siffatto potere discrezionale (…) può essere legittimamente esercitato soltanto nell’ambito del medesimo procedimento di formazione della legge cui tale termine deve riferirsi”, non con un decreto-legge emanato successivamente come avvenuto in questo caso. Infine l’articolo 6 del dl Meloni, “stabilendo un (nuovo) termine di vacatio legis al d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, impedisce di applicare, a decorrere dal 1° novembre 2022, le modifiche mitigatrici disposte all’art. 2, primo comma, lettere e) ed n) del citato d.lgs., precludendo così il riconoscimento di già maturate fattispecie estintive della punibilità, in evidente assenza di sufficienti ragioni che possano giustificare il diverso e più deteriore trattamento penale che consegue alla vigenza della censurata disposizione”. Bongiorno: “Giustizia e riforme. Non si abbia paura di toccare la Carta” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 12 novembre 2022 Ha ballato tra le caselle di ministro della Giustizia, dell’Interno e della Pa. Da mercoledì Giulia Bongiorno, penalista, molto impegnata nella tutela delle donne, ex ministro della Pa, è presidente della commissione Giustizia al Senato. Soddisfatta? “Sul momento, emozionata. Per chi va tutti i giorni in tribunale, partecipare al processo di formazione delle leggi è una grande opportunità”. Lo era già stata, alla Camera, con il governo Berlusconi-Fini. Cambiano gli obiettivi? “Ho sempre cercato di mantenere la linea dell’equilibrio. Si può contribuire in qualsiasi ruolo. Da presidente in commissione ho dato priorità alla legge sullo stalking e da ministro della Pa ho contribuito a scrivere il codice rosso. Spero che questa sia la legislatura della svolta”. Svolta? Verso dove? “Dobbiamo agire su due piani. Primo, velocizzare i processi senza ridurre le garanzie. Altrimenti falliamo”. La Riforma Cartabia non c’è riuscita? “Gli interventi sono stati poco incisivi, basti pensare al Csm. Immaginavo che il nuovo sistema non avrebbe cambiato nulla delle logiche correntizie. In un’intervista ho indovinato il numero di eletti per ciascuna corrente”. Auspica un’altra riforma? “Servono modifiche costituzionali. Non dobbiamo aver paura di toccare la Costituzione, abbiamo il dovere di usare equilibrio nel cambiarla. Serve un Csm all’altezza: magistrati liberi non dalle correnti ma dalla loro degenerazione”. Quando partirà la commissione? “La prossima settimana. Ci è già stato assegnato il decreto Rave, di cui ha parlato l’Italia intera e per il quale tutti, improvvisandosi giuristi, propongono stravolgimenti”. Lei come lo valuta? “Un decreto delicato che avrà l’attenzione che merita”. C’è chi critica, nel dl, le intercettazioni. Che ne pensa? “Non parlo del dl. In generale penso che le intercettazioni siano uno strumento fondamentale di ricerca della prova e non sono favorevole a cancellarle. Ma dilatarle troppo può essere fuorviante”. Analizzerete il dl in ottica garantista o da “linea dura”? “Ora ho il dovere di astenermi da giudizi nel merito. In generale, pero, coniugare garantismo e rigore è la scommessa di questa maggioranza e, credo, del governo”. Non è contraddittorio? “Si può trovare l’equilibrio tra fermezza e garantismo. Non si può condannare sommariamente una persona, ma non si può nemmeno continuare con il Far West”. Che intende per Far West? “La sistematica violazione delle regole e l’assuefazione all’illegalità. Questo vale per molti settori. Anche per l’immigrazione”. Ora tema di scontro con la Francia. Valeva la pena? “È una dialettica franca tra due Paesi alleati. Ma alcuni punti vanno fissati”. Cioè? “L’idea che l’Italia sia fuori dalle regole e che le Ong abbiano sempre ragione perché seguirebbero l’interesse dei migranti è sbagliata”. Perché? “Bisogna tracciare un confine netto tra il soccorso ai migranti e la tratta di esseri umani. Le Ong hanno il dovere di cooperare con le autorità nazionali competenti, informando tempestivamente lo Stato Sar (l’area di mare di ricerca e salvataggio, ndr) di riferimento e quello di bandiera, nel Aspetto delle direttive impartite. Quando invece agiscono in autonomia, senza coordinamento, potrebbero celare legami con trafficanti e perciò concorrere nella commissione di reati che non possono più rimanere impuniti”. Lei ha difeso il ministro Salvini nei processi sugli sbarchi. Continuerà a farlo? “Con questo incarico non c’è incompatibilità. I processi vanno avanti da anni, a Catania c’è stato il non luogo a procedere, in altre procure l’archiviazione, a Palermo è in dibattimento. Differente interpretazione di eventi analoghi. Difformità che andrebbe risolta a livello normativo nazionale e internazionale. Non si può lasciare ai magistrati la responsabilità di affrontare anche questo problema”. È una delle poche donne nominate. E le quote rosa? “Ho sempre preferito quelle fucsia: la promozione delle donne di valore, non una valorizzazione meccanica. Ma alla maggioranza non si può rimproverare nulla perché ha espresso il primo presidente del Consiglio donna nella storia d’Italia. Una donna che ha puntato solo sul suo talento”. Calabria. Suicidi in carcere, il Garante Muglia firma l’appello: “Fermiamo questa strage” ilreggino.it, 12 novembre 2022 Nell’ultima settimana all’interno delle carceri calabresi si sono verificati diversi episodi di autolesionismo, uno dei quali con un tragico epilogo. Il Garante regionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, Luca Muglia, ha condiviso, firmato e rilanciato l’appello sottoscritto da diverse personalità relativamente all’esorbitante numero di suicidi registrati in carcere dall’inizio dell’anno: ben 75 in 10 mesi. L’appello, rivolto alle istituzioni, alla politica e agli intellettuali, individua obiettivi precisi. Ricorrere al carcere come extrema ratio, garantire spazi e contesti umani che rispettino la dignità e i diritti, moltiplicare le pene alternative, garantire al cittadino detenuto la possibilità di iniziare un reale percorso di inclusione nella comunità. Tra i primi firmatari della petizione Roberto Saviano, Gherardo Colombo, Luigi Manconi, Giovanni Fiandaca, Massimo Cacciari, Fiammetta Borsellino, Mattia Feltri, Francesca Scopelliti, Rita Bernardini. Nell’appello si suggeriscono cinque vie d’uscita: 1. aumento delle telefonate per i detenuti, previa modifica del regolamento penitenziario del 2000 secondo cui ogni detenuto (esclusi quelli che non possono comunicare con l’esterno) ha diritto a una sola telefonata a settimana, per un massimo di dieci minuti; 2. innalzamento a 75 giorni a semestre per la liberazione anticipata rispetto ai 45 attuali; 3. creazione di spazi da dedicare ai familiari che vogliono rimanere in contatto con i propri cari reclusi per valorizzare l’affettività; 4. aumento del personale per la salute psicofisica, attesa la grave carenza di psichiatri e psicologi in tutti gli istituti; 5. attuazione immediata di quella parte della riforma Cartabia che contempla la valorizzazione della giustizia riparativa e, nel contempo, rivitalizza le sanzioni sostitutive delle pene detentive. Il Garante regionale, Luca Muglia, nel lanciare l’allarme e ribadire la necessità di un intervento immediato, ha evidenziato che nell’ultima settimana all’interno delle carceri calabresi si sono verificati diversi episodi di autolesionismo, uno dei quali con un tragico epilogo. Liguria. Ilaria Cucchi sostiene lo sciopero di Sansa: “Manca Garante, urgente una nomina” di Matteo Macor La Repubblica, 12 novembre 2022 Il sostegno al consigliere regionale, ex candidato giallorosso alla presidenza, in sciopero della fame per chiedere al Consiglio la nomina che manca da due anni. Si allarga, la protesta contro la nomina “sospesa” di un garante dei detenuti in Liguria. Per anni senza una legge regionale che lo istituisse, arrivata solo nel 2020 ma di fatto non ancora attuata, a portare la luce dei riflettori sul caso è stato in settimana il consigliere regionale Ferruccio Sansa, che ha iniziato uno sciopero della fame per ottenere risposte sul tema. “Non mangerò finché il Consiglio, paralizzato da veti e dal desiderio di accaparrarsi più poltrone possibile, non decide il nome del futuro garante”, ha promesso martedì scorso, quando ha iniziato la sua protesta personale. E in queste ore il suo appello è stato raccolto sino in Parlamento, dalla politica nazionale, rilanciato (tra gli altri) da Ilaria Cucchi, vicepresidente della Commissione Giustizia del Senato, il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni, Marco Cappato e Elly Schlein, fresca candidata alla segreteria del Pd. “La Liguria è una delle regioni italiane senza un garante dei detenuti, è necessario nominare con urgenza questa figura istituita nel 2020 dall’assemblea regionale ma mai realmente attivata - commenta Ilaria Cucchi, che per oltre dieci anni ha combattuto per avere giustizia per il fratello Stefano, ucciso mentre si trovava in custodia cautelare - Migliaia di persone sono recluse in strutture inadeguate in Liguria e nel nostro Paese, dove si susseguono proteste, atti di autolesionismo e suicidi. Soprattutto in un momento così drammatico per quanto riguarda la condizione di detenuti e detenute, questa figura risulta ancora più importante. Da tempo il mondo dell’associazionismo e del terzo settore ligure reclama questa nomina e il Consigliere regionale ligure Ferruccio Sansa da quattro giorni fa lo sciopero della fame per chiedere la nomina, una protesta estrema per essere ascoltato che sostengo con forza”. Arrivato al quarto giorno di sciopero della fame, in attesa di una convergenza sulla nomina che lo stesso governatore regionale Giovanni Toti ha detto “a portata di votazione, basterebbe un accordo del Consiglio e un voto di pochi minuti”, a esprimere solidarietà a Sansa sono anche esponenti delle stesse forze politiche che in questi due anni non hanno ancora trovato la quadra in Consiglio comunale per poter eleggere il garante. “L’assenza del difensore civico e del garante dei detenuti in Liguria è un’emergenza che ha bisogno di trovare una soluzione in tempi brevi - dichiara il senatore ligure del Partito Democratico, Lorenzo Basso - La sua è stata una decisione estrema, dettata da anni di mancanza di scelte, che stanno lasciando un vuoto che non è più accettabile. Mi unisco all’appello della minoranza in Regione Liguria che ha chiesto che venga sbloccata immediatamente la nomina del difensore civico e del garante dei detenuti uscendo dallo stallo in cui la Liguria versa da troppo tempo”. Torino. Un altro detenuto ha tentato di togliersi la vita. Disordini al Lorusso e Cutugno di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 12 novembre 2022 A poco meno di 24 ore dal suicidio nel padiglione C. Approfittando dell’assenza del compagno di cella un cinquantenne ha annodato un lenzuolo al gancio della plafoniera e ha cercato di impiccarsi. Non c’è pace per il carcere di Torino. Ieri, 11 novembre, a poco più di 24 ore di distanza dal suicidio di un detenuto nel padiglione C, un altro detenuto ha tentato di togliersi la vita nel padiglione dei “nuovi giunti”. Approfittando dell’assenza del compagno di cella l’uomo, cinquantenne, ha annodato un lenzuolo al gancio della plafoniera e ha cercato di impiccarsi. A salvarlo è stato l’intervento di un agente della polizia penitenziaria che, avendolo visto piangere pochi minuti prima, ha deciso di andare a controllare. La situazione all’interno della casa circondariale Lorusso e Cutugno è a dir poco esplosiva e, dopo i disordini scoppiati sera nel padiglione A, i sindacati di polizia penitenziaria hanno dichiarato lo stato di agitazione e interrotto le relazioni sindacali con l’amministrazione. Nel frattempo si è conclusa con l’irruzione di un centinaio di agenti la clamorosa protesta per la presunta di assistenza sanitaria. I detenuti si erano barricati nella sezione clinica e minacciavano gesti anticonservativi qualora i poliziotti avessero provato a entrare. Poco prima di mezzogiorno il personale ha segato le gambe del letto che sbarrava l’ingresso e gli agenti, con scudi e caschi, ma senza manganello, hanno messo fine alla rivolta. Terni. Detenuto ha un malore e resta invalido: condannato a pagare 10mila euro di spese legali di Nicoletta Gigli Il Messaggero, 12 novembre 2022 Affetto da una grave forma di diabete finì in coma per la carenza di insulina e cadde dal piano superiore del letto a castello di una cella del carcere di Sabbione. Il detenuto ternano, che riportò gravissime lesioni alla testa e fu costretto a un lungo ricovero in ospedale, è rimasto invalido e a distanza di nove anni attende che sulla sua vicenda venga fatta giustizia. Ad oggi il tribunale civile di Perugia l’ha condannato a pagare le spese legali al ministero della giustizia e all’asl per oltre 10mila euro. Contro la sentenza il suo legale, Attilio Biancifiori, ha fatto appello e lunedì ci sarà l’udienza di discussione. Protagonista dell’incidente, che si verificò nel 2013, un ternano di 57 anni. Quando fu arrestato per truffa aggravata ed entrò a Sabbione fece presente di essere affetto da diabete grave e della necessità di essere sottoposto a terapia con insulina ma pare che questa indicazione non sia stata ben compresa. Fatto sta che, una volta in cella, si addormentò sul letto a castello. Dopo qualche ora svenne e cadde sul pavimento battendo violentemente la testa. La corsa in ospedale in condizioni gravissime, il lungo ricovero e poi la successiva riabilitazione lo hanno costretto a convivere con un’invalidità permanente. Quando si riprese dal lungo calvario il 57enne ternano si affidò all’avvocato, Attilio Biancifiori, che scrisse al ministero della giustizia che però sulla richiesta risarcitoria non rispose. A quel punto iniziò la causa contro lo stesso ministero di fronte al tribunale di Perugia, il foro competente quando tra le parti ci sono organi dello Stato. Il tribunale acquisì le dichiarazioni della polizia intervenuta dopo l’incidente e del personale infermieristico e durante il procedimento il ministero della giustizia chiamò in causa l’usl, che cura gli aspetti sanitari, e che ribadì di non avere nulla a che fare con questa vicenda. Durante il processo di primo grado era emerso che la prescrizione dell’insulina non sarebbe stata ben compresa durante il cambio turno del personale. E che per questo non sarebbe stata somministrata. Il legale ha chiesto una consulenza tecnica d’ufficio che però non è stata ammessa. La sentenza di primo grado si è chiusa con la condanna del 57enne ternano a pagare 10mila euro di spese legali in quanto non è stato provato il nesso causale tra le lesioni e la caduta dal letto a castello della cella. Il 14 l’udienza di fronte alla corte d’appello di Perugia. Con l’avvocato Biancifiori che chiederà la perizia medico legale che dia contezza probatoria a questa vicenda. Catania. Mediazione penale per i minori, un protocollo anticipa la riforma Cartabia di Giuseppe Bonaccorsi Il Dubbio, 12 novembre 2022 Favorire la mediazione penale come strumento di giustizia riparativa, in grado di proporre un modello consensuale di gestione dei conflitti con la partecipazione attiva di tutte le parti in causa: il minore autore del reato, la vittima e nel complesso la società tutta. Questo il tema del protocollo firmato tra il Comune di Catania e il Tribunale dei Minorenni che nei fatti anticipa la riforma Cartabia. L’intesa mira a una effettiva mediazione penale per il recupero del minore attraverso altri strumenti oltre il carcere, per combattere allo stesso tempo i tassi elevatissimi di criminalità minorile e di dispersione scolastica in una delle città più a rischio del Meridione. Con questo innovativo strumento, anche attraverso l’azione di educatori specializzati, si intende contribuire alla responsabilizzazione del minore autore di reato, attraverso la rivisitazione dell’atto illecito posto in essere, con un percorso di reciproco riconoscimento e riparazione con la persona offesa dal reato. La mediazione penale, inoltre, si propone come strumento preventivo di politica criminale, tanto più importante perché sperimentato tra i minori, in quanto la sua applicazione mira a promuovere la risocializzazione e il reinserimento sociale del giovane autore di condotte antigiuridiche e antisociali. Alla firma sottoscritta a Palazzo degli Elefanti, sede del comune di Catania, hanno partecipato il commissario straordinario del Comune, Federico Portoghese, il presidente del Tribunale dei Minorenni etneo, Roberto Di Bella, il procuratore capo della Repubblica presso lo stesso Tribunale Carla Santocono e la responsabile per l’Ufficio servizio sociali minori di Catania del ministero della Giustizia, Roberta Montalto. “Un passo importante - ha detto il commissario Portoghese - che si inserisce nel processo più ampio che abbiamo intrapreso a favore dell’inclusione dei minori. A partire da questo modello assolutamente innovativo, stiamo sviluppando altre iniziative con circuiti educativi utili a creare un forte collante tra le diverse realtà impegnate sul territorio, in primo luogo la scuola, soprattutto nelle periferie”. “Si tratta di nuovo importante tassello - ha sottolineato il presidente Di Bella - che rientra nell’ambito delle attività previste dall’Osservatorio prefettizio. Il nostro obiettivo è rivolto alla priorità della questione minorile, così sentita a Catania che ha tassi elevatissimi di dispersione scolastica, devianza minorile, e inevitabilmente di disoccupazione giovanile. Oggi registriamo una nuova visione strategica complessiva da parte delle amministrazioni compresa quella comunale. È fondamentale sensibilizzare i ragazzi ma anche la collettività”. “Ogni giorno costruiamo il domani in questa città - ha evidenziato la procuratrice Santocono - e quello di oggi permette di indirizzare risorse ulteriori verso la questione minorile e in particolare la mediazione penale, strumento che permette la conciliazione tra la vittima e l’aggressore con un impatto sull’intera società, e consente inoltre un’anticipazione dei tempi delle azioni di recupero educativo e sociale, che è esigenza impellente soprattutto nel caso dei minori”. A operare sul progetto di mediazione sarà anche la direttrice del servizio decentrato per i minori del ministero Giustizia: “Una esperienza pilota in Sicilia - ha specificato Roberta Montalto di grande valore”. “Sul campo” l’intesa prevede anche il coinvolgimento di 15 scuole cittadine, in cui saranno aperti sportelli con psicologi, insegnanti formati appositamente, e inoltre, verrà prevista anche una mediazione intra familiare. Volterra (Pi). Carcere, la sartoria cerca un direttore di Ilenia Pistolesi La Nazione, 12 novembre 2022 Lo storico laboratorio conta 80 detenuti “La pandemia non ci ha mai fermato”. Il Maschio di Volterra apre le proprie porte per avviare un bando a caccia di un professionista cui affidare la direzione tecnica della storica sartoria carceraria, per il periodo compreso fra il primo gennaio 2023 e il 31 dicembre 2024. L’incarico ha come oggetto prestazioni d’opera per la direzione tecnica della sartoria industriale dell’istituto penitenziario: le attività riguarderanno principalmente le prestazioni per conto dell’amministrazione penitenziaria e l’incarico, nel dettaglio, dovrà riguardare la formazione dei detenuti-sarti, avviandone o incrementandone la qualifica professionale. Il compenso, che sarà corrisposto mensilmente, è pari a 20,42 euro orari (Iva inclusa) per una prestazione professionale di massimo 30 ore settimanali. Ecco i requisiti richiesti: possesso di cittadinanza italiana o di uno Stato dell’UE, possesso di titoli che provano esperienza nel settore sartoriale con attestati di corsi e superamento delle fasi finali degli stessi, non avere procedimenti penali a carico o condanne penali con sentenze passate in giudicato, possesso di una partita Iva. I candidati dovranno far pervenire le proprie domande entro e non oltre 15 giorni dalla pubblicazione del bando sul sito ministeriale www.giustizia.it (il bando è stato pubblicato il 9 novembre) e dovranno essere inviate al seguente indirizzo: Casa di reclusione di Volterra, via Rampa di Castello 4, 56048 Volterra (Pisa). Le domande potranno essere recapitate a mano, per posta ordinaria o all’indirizzo pec cr.volterra@giustiziacert.it. Le domande dovranno essere corredate dal curriculum vitae. Ago e filo per tessere nuove trame della propria vita: fra asole, stiratura e bottoni i detenuti imparano un mestiere perché la sartoria è una vera e propria attività lavorativa, una piccola fabbrica nel mondo ristretto della Fortezza Medicea, ed è una delle più importanti attività trattamentali e rieducative del carcere. E, nonostante la pandemia, la fucina non ha mai smesso di lavorare. “Sono ottanta in tutto i detenuti impiegati in sartoria - sottolinea la direttrice del carcere Maria Grazia Giampiccolo - il laboratorio impiega due squadre al mese di quaranta detenuti che si alternano. In questi anni segnati dalla pandemia il lavoro sartoriale non si è mai fermato, adottando le precauzioni previste per altri settori industriali. Un periodo in cui la sartoria si è concentrata principalmente sulla produzione interna del carcere e contiamo di riprendere a creare i nostri prodotti per l’esterno”. Mantova. Premiata la coop “Sapori di libertà” per il pane fatto nel carcere Gazzetta di Mantova, 12 novembre 2022 La cooperativa sociale mantovana è una delle due “Best start-up for impact” secondo Cariplo Factory e Fondazione Giordano dell’Amore. La mantovana cooperativa sociale Sapori di libertà è una delle due “Best Start-up For Impact” riconosciute da Cariplo Factory e Fondazione social venture Giordano dell’Amore, che beneficeranno di un investimento in equity da parte della Fondazione del valore di 100mila euro ciascuno, erogati in una logica di impact investing. L’annuncio è stato dato mercoledì a Milano all’Investor Day di Get it! per “Progetto Eco: Economia di Comunità”, il programma promosso da Fondazione Cariplo, che si pone l’obiettivo di rilanciare l’occupazione green, aumentare la capacità di attrarre investimenti legati alla sostenibilità e rafforzare le reti territoriali. Per raggiungere questi obiettivi, Fondazione Cariplo ha lanciato a inizio 2021 una “Call for ideas”, nel cui ambito sono stati selezionati tre macro progetti imprenditoriali territoriali: “P.o.s.t.i : Pane, Orti. Sartoria, Trasformazione, Inclusione” (capofila il Comune di Mantova), “Lecco Eco Platform” (capofila il Comune di Lecco) e “Valori verdi” (capofila il Parco della Pineta di Appiano Gentile e Tradate). Con un budget di più di un milione di euro, Fondazione Cariplo ha fornito un servizio di accompagnamento imprenditoriale dedicato alle start-up locali. Nello specifico, undici iniziative hanno beneficiato dei percorsi di incubazione, accelerazione e mentorship, realizzati nell’ambito di Get it!, il programma di empowerment promosso da Fondazione Social Venture Giordano Dell’Amore in collaborazione con Cariplo Factory. Davanti a una platea di investitori e stakeholders, le sei migliori start-up green hanno presentato i propri progetti innovativi e sostenibili. Al termine sono state annunciate le due Best Start-up For Impact: Sapori di Libertà e Archeologistics. Sapori di Libertà nasce nel 2016 come progetto sociale dell’associazione Libra per la formazione e il reinserimento socio-lavorativo di detenuti attraverso lo sviluppo di un’attività di panificazione svolta all’interno del carcere di Mantova. A luglio 2022 si costituisce come cooperativa sociale e finalizza una join-venture con Mantova Pane. “Avevamo l’obiettivo di trasformare il progetto Sapori di libertà in un’impresa sociale - dichiara Angelo Puccia, Ceo e fondatore della onlus - il percorso di incubazione offerto da Cariplo Factory e Fondazione social venture Giordano dell’Amore, ci ha dato il coraggio e le competenze per fare molto di più. Abbiamo creato una cooperativa e sottoscritto un accordo strategico con Mantova Pane per dare gambe al nostro credo: li vogliamo buoni come il pane. Ora puntiamo all’e-commerce e ai consumatori responsabili, perché acquistare i nostri prodotti deve essere un piacere per il palato e per l’anima”. Soddisfatta anche l’assessore Adriana Nepote: “Come Comune capofila di questo progetto, siamo felicissimi dei risultati ottenuti, non solo per Libra ma anche per il lavoro fatto da Hortus e DrittoFilo. Un progetto che ci ha permesso di rafforzare il legame tra le istituzioni del territorio con le imprese sociali che si impegnano per creare opportunità di crescita sostenibile”. Alessandria. “Fuga di Sapori” per l’inclusione: e i prodotti del carcere riconquistano l’outlet di Carmine Falanga* Corriere della Sera, 12 novembre 2022 Dopo il successo dello scorso anno i prodotti dei detenuti del carcere di Alessandria tornano fino al 31 gennaio in uno dei più grandi outlet del Norditalia. La bottega “Fuga di Sapori” e il progetto di inclusione lavorativa della cooperativa “Idee in fuga”. Dal panettone Maskalzone alle Sbarrette di cioccolato, dalla crema Brigantella ai taralli Maresciallo. Sono solo alcune delle delizie prodotte dai detenuti del carcere di Alessandria e in realtà hanno già fatto parlare di sé, anche su Buone Notizie: l’aggiornamento è dopo il debutto dello scorso anno si potranno di nuovo acquistare da adesso e per tutto il periodo natalizio anche in uno dei più grandi outlet del Norditalia, quello di Serravalle Scrivia, nella stessa provincia del carcere. Grazie alla preziosa accoglienza di Serravalle Designer Outlet avremo infatti a disposizione di nuovo, questa volta fino al 31 gennaio, uno speciale temporary shop battezzato “Fuga di Sapori” per far conoscere “il buono che viene da dentro”. Tutti gli allestimenti sono realizzati nella falegnameria del carcere e i fondi raccolti grazie a questa possibilità saranno utilizzati per continuare a sostenere le iniziative di inserimento lavorativo e educazione alla legalità già avviate sul territorio. All’origine di tutto questo c’è Idee in Fuga, una cooperativa sociale attiva nell’istituto penitenziario “Cantiello e Gaeta” di Alessandria, nata da un progetto di tre amici: Andrea. Dolores e il sottoscritto. Cerchiamo concretamente di aumentare le possibilità di formazione professionale, di creare reali opportunità di lavoro sia mentre i detenuti stanno scontando la loro pena sia soprattutto quando escono dal carcere; sosteniamo diverse realtà in difficoltà del territorio e sviluppiamo nuove collaborazioni tra cooperative sociali attive nelle carceri italiane e piccoli produttori artigianali locali, all’insegna della sostenibilità. Perché? Perché il lavoro è l’unico e più potente strumento per dare attuazione all’articolo 27 della Costituzione sulla rieducazione dei carcerati e abbattere la recidiva: una volta usciti di prigione tre detenuti su quattro commettono reati e ritornano dentro. Così, per invertire questa statistica, ha preso vita Fuga di Sapori: bottega solidale nata in un carcere italiano, ad Alessandria, dove diamo visibilità a quanto di buono viene prodotto nell’Istituto di reclusione, creando un link con il mondo esterno. Con la nostra cooperativa sociale, di cui fanno parte anche alcuni detenuti, abbiamo dato il via a una serie di produzioni alimentari e di falegnameria, che vendiamo non solo in negozio ma anche online. I nomi dei nostri prodotti giocano con le parole per richiamare curiosità: oltre a quelli già citati ci sono i liquori Malandrino, Bricconcello, Marmocchio, le conserve di frutta e verdura, le paste e le birre Skizzata, Pentita, Sbirra e Rubentjna prodotte attraverso la nascita del primo luppoleto di un carcere, proprio nell’intercinta di quello di Alessandria dove vengono ospitate anche le arnie per mettere in barattolo il miele Galeotto. *Presidente Idee in Fuga Milano. Da ex detenuto al “41Bus” che porta i familiari ai colloqui in carcere Il Riformista, 12 novembre 2022 Bruno Palamara ha 30 anni, ha vissuto l’esperienza del carcere ed è proprio lì che ha deciso di cambiare vita e di fare qualcosa di concretamente utile. Ha pensato ai vari problemi che devono affrontare le persone detenute e le loro famiglie e uno di questi è il riuscire a raggiungere fisicamente i carceri per fare i colloqui. Spesso le zone dove sono ubicati gli Istituti sono in zone dislocate o mal collegate con i mezzi pubblici e questo costituisce un grosso problema per le famiglie che spesso arrivano anche da molto lontano, fuori regione, e che già affrontano lunghi viaggi. Bruno in carcere ha studiato tanto marketing, imprenditoria ed economia ed è riuscito a mettere su la sua impresa dal nome geniale: 41Bus, il servizio di trasporto verso gli istituti penitenziari. E lo slogan è ancora più arguto: “Andare in carcere non è mai stato così facile”. Si tratta di un servizio di navette per le case di reclusione di Opera e Voghera. I punti di partenza sono la stazione di Milano Centrale e l’aeroporto di Milano Malpensa (Terminal 1). Un servizio che semplifica non poco la vita dei familiari dei detenuti che già soffrono tanto e almeno nel trasporto possono essere facilitati. Non solo, Bruno ha messo su una serie di iniziative a supporto dei familiari dei detenuti. Il lungo abbraccio di sua figlia quando è uscito dal carcere gli ha fatto capire quanto per i familiari dei detenuti sia dura la vita, bisognava fare qualcosa di costruttivo e lui l’ha fatto. Bruno ha deciso di raccontare la sua storia di riscatto in una lettera a Sbarre di Zucchero. Ne riportiamo qui di seguito il testo. Vengo dalla provincia di Milano da una famiglia come tante altre, la così detta classe media mio padre e calabrese mia madre tedesca. Da parte di mio padre una famiglia molto numerosa (da buon meridionale) mia madre in realtà è più calabrese che tedesca (e venuta in Italia con mio padre a 20 anni). Mi ritengo molto fortunato in quanto ho passato un infanzia invidiabile e indimenticabile grazie proprio alla famiglia numerosa, ho passato estati indimenticabili insieme i miei cuginetti e questo mi ha insegnato molto..il valore della famiglia è la semplicità. Sono stato un ragazzo che è voluto crescere troppo in fretta a 17 anni ho abbandonato la scuola è ho fatto qualche lavoretto saltuario (pizzerie, elettricista, muratore). Niente che mi appassionava veramente. Questa fretta e l’immaturità mi hanno fatto fare scelte sbagliate. A 20 anni mi sposo con la mia allora fidanzata (a proposito di fretta, lei aveva 18 anni), ci conoscevamo da quando lei ne aveva 13 e io 15. Dopo qualche tempo arriva la mia prima figlia. Eravamo solo ragazzi ma sentivo molto la responsabilità di padre e aveva paura di non essere all’altezza. Questo mi ha portato ad accentuare di più quelle scelte sbagliate. La mia vita correva e andava di fretta a 23 anni ho avuto la mia seconda figlia. Dopo qualche mese mi arrestarono, in flagranza di reato (droga). Mi portarono a Busto Arsizio dove passai le prime notti in isolamento (perché nelle sezioni non c’era posto). Mi mantenevo forte anzi forse ero curioso anche di salire in sezione per vedere come era realmente la sezione di un carcere. Dopo qualche giorno fui mandato alla prima sezione del carcere di Busto Arsizio dove mi misero in cella con un ragazzo africano stringemmo una buona amicizia. Mal grado la mia curiosità iniziale mi resi subito conto che il carcere era molto meno “avventuroso” di quanto in realtà pensassi. Alle 18 eravamo già con il pigiama e le pantofole alle 17 si cenava. Rendendomi conto della realtà iniziai a farmi le prime domande: ho corso così tanto per arrivare dove? Quella “pacifica quiete” come la chiamerebbe Goerge Cleason nel famoso libro L’uomo più ricco di babilonia, il mio libro preferito, mi aveva disarmato. Tutto si può pensare di un carcere tranne che sia un posto tranquillo, per chi non lo conosce. Ma nonostante questo continuavo non mi ero scomposto più di tanto. Passai 2 settimane senza vedere mia moglie e I miei figli. Fin quando un giorno non mi chiamarono al colloquio, non appena li vidi entrare qualcosa mi toccò dentro. In un secondo mi resi conto del mio fallimento. Guarda dove ho trascinato i miei bambini e mia moglie pensai. Come poteva essere che non mi ero reso conto prima di che direzione avevo preso? Pensavo di vincere in realtà stavo perdendo. Mi complicavo la vita per cosa? Correvo così veloce per cosa? Per trascinare mia moglie e i miei figli in un carcere è lasciandoli soli a combattere li fuori con tutte le complicazioni che la vita porta. E per essere alle 6 di sera già in pigiama? Qualcosa non era andato ormai mi era evidente. Dopo 6 mesi mi fecero il processo e mi diedero gli arresti domiciliari, ma non durarono tanto. Dopo 1 settimana che ero di nuovo a casa mi suonarono il citofono alle 4:30 del mattino con in mano una nuova ordinanza per dei fatti precedenti al mio primo arresto. Questa volta mi portarono a Monza. Come era possibile che mi avessero arrestato di nuovo dopo che io avevo capito i miei sbagli, mi domandai. Ricordo che non riuscivo a credere a quello che era nuovamente successo. Era estate ero nelle celle di transito della sezione di Monza, 2 ore d’aria al giorno per chi voleva farsela. L’area della sezione di transito di Monza erano 4 cubicoli dove in ogni cubicolo che misurava 3 metri per 2 stavano dalle 8 alle 10 persone sotto un sole “leone”. Non potrò mai dimenticare i detenuti delle altre sezioni che lanciavano fornelli per cucinare e beni di prima necessità a me ed a altri miei compagni di sezione. Dopo 2 settimane di transito mi portarono in sezione ma dopo un paio di mesi mi chiamarono e mi dissero che insieme ai detenuti comuni non potevo più starci per via di un articolo che mi fu contestato. Per questo motivo mi misero in isolamento e dopo una settimana mi portarono a Voghera in alta sicurezza. In realtà poi fui assolto in primo grado per quell’ articolo. Al contrario delle mie aspettative trovai un atteggiamento del personale della polizia penitenziaria più umano, quello che poi scoprì essere professionalità e competenza. A Voghera ho passato la maggior parte della mia detenzione, 3 anni circa. Ho conosciuto tante persone e molte realtà anche inaspettate. Dopo qualche tempo mi iniziai ad interrogare su come passava il tempo e feci una grossa riflessione su come vivevo furi da “libero”, ormai quasi un anno e mezzo prima. Chi non perde mai la libertà credo non la sappi neanche apprezzare a pieno. Vedete, affrontare certe situazioni non è facile, anche solo il fatto dell’attesa di poter sapere tra quanto tempo si può riprendere in mano la propria vita è snervante e molto complicato. In Italia i tempi dei processi sono molto lunghi. Alla fine o si accetta quell’impotenza di non essere padroni di sapere quando si può riconquistare la propria vita o si respinge e si soffre la situazione. Io accettai di non avere il controllo della mia vita e di non sapere quando poterla nuovamente vivere. Ma non solo, dovevo reagire in qualche modo: fumavo 2 pacchetti di sigarette al giorno fuori, dentro le buttai da un giorno all’altro mi iniziai ad allenare con intensità, ma non bastava. Mi domandai cosa poteva aiutarmi per non tornare lì dentro di nuovo, cosa mi poteva aiutare a non perdere più il controllo sulla mia vita? Mi detti una risposta: studiare! Ma cosa? Economia, marketing, imprenditoria crescita personale e così via. Iniziai a dire a mia moglie di portarmi dei libri che parlassero di questi temi. Studiavo 2/3 ore al giorno mi allenavo altrettante ore. E come dimenticare le pulizie della cella. La soddisfazione di vedere tutto pulito e in ordine mi faceva sentire apposto con me stesso. Forse mi prenderete per pazzo ma in galera ho imparato ad apprezzare le piccole cose, le cose più semplici. La mattina mi piaceva molto prepararmi il caffè e le fette biscottate e nel frattempo sentire la radio. Sognavo sempre la libertà anche ad occhi aperti. Non sognavo soldi, vestiti firmati o donne. Sognavo gite in famiglia, la sensazione di una corsetta in un bosco, invece di correre in cerchio in un’aerea di un carcere. Mi resi conto che probabilmente ciò che stavo rincorrendo fuori per me non era veramente importante. Imparai a conoscermi davvero mi guardai dentro. Un giorno mi chiamarono in matricola per notificarmi un’altra ordinanza. In verità non mi importava più molto ormai avevo fatto quel salto nel vuoto e avevo trovato la forza di accettare che la mia vita fosse in mano a qualcuno, forse in mano al destino. Prima si accetta il dolore prima si finisce di soffrire. E così continuavo le mie giornate in carcere, tra allenamenti e studi. Leggendo così tanti libri di imprenditoria e marketing mi resi conti che tutti finivano con un unico messaggio: individua un problema trova una soluzione e così crei valore. Li per li dissi a me stesso “in Galera e pieno di problemi”, però non sapevo bene ancora come risolverli. Dopo qualche giorno leggendo un libro (che poi diventerà il mio libro preferito, L’uomo più ricco di Babilonia), si è accesa una lampadina. Il problema da risolvere era quello dei colloqui familiari e della difficoltà di raggiungere gli istituti penitenziari per i familiari. Quel libro mi cambiò proprio la vita, un giorno lessi delle frasi che ancora oggi sono scolpite dentro di me che mi toccarono nel profondo. In un attimo quel libro mi fece capire che in realtà avevo trasformato un fallimento personale in una vittoria, avevo sfruttato un problema trasformandolo in un vantaggio per me per come avevo affrontato la sofferenza. Non mi ero abbattuto non avevo permesso ai problemi di sopraffarmi ma anzi li avevo usati per creare per costruire qualcosa dentro di me. Dissi a me stesso che non mi importava più del carcere e di quanto tempo ancora dovessi starci (ancora avevo un processo per droga in corso). L’importante è che avevo imparato tanto da quei problemi. Mi resi conto che mi avevano dato una marcia in più invece di darmi una marcia in meno. Per ironia della sorte o per un segno del destino in quel preciso momento sentii il rumore delle chiavi della agente (quel giorno sezione era quasi vuota per la giornata dove si giocava a calcetto, io ero rimasto a leggere). Sapevo che stava venendo davanti alla mia cella, avevo una strana sensazione, mi misi le scarpe e lo aspettai in piedi davanti al blindo. Arrivò davanti alla mia cella e mi disse di andare in matricola, sapevo che mi stavano dando il foglio di scarcerazione già prima di arrivare in matricola. Arrivai nell’ufficio dove mi dettero il foglio e da lì a poche settimane mi scarcerarono. Prima promisi a me stesso di provare a realizzare quello che poi sarebbe diventato 41bus.it il servizio di supporto dei familiari dei detenuti che facilita il viaggio verso il carcere per i colloqui familiari e non solo. Quando uscì fu una gioia non potrò mai dimenticare l’abbraccio di mia figlia maggiore che mi strinse alle sue braccia per 10 minuti senza dire una parola. Con quell’abbraccio capì realmente quanto gli ero mancato, e purtroppo non me ne ero reso conto fino a quel momento. Mantenni fede alla promessa che mi feci in galera, contattai tramite internet l’agenzia che poi si è occupata dello studio di 41 bus (Isola di Comunicazione). In un secondo momento ho coinvolto il mio avvocato che non appena gli presentai il progetto capì subito le potenzialità, a sua volta ha coinvolto numerose associazioni, istituzioni, direttori di carceri e business man. E così abbiamo creato quello che oggi è 41bus.it, “andare in carcere non è mai stato così facile”. Nelle prossime settimane partirà l’area “terapeutica del sito” dedicata in particolar modo alle donne e mamme dei figli di detenuti, tutto in modo del tutto gratuito per i familiari. Catanzaro. Dall’ergastolo ostativo allo studio come “gesto d’amore” di Giorgio Curcio Corriere della Calabria, 12 novembre 2022 La strategia di sopravvivenza di Salvatore Curatolo. Detenuto da trent’anni, il 66enne è dottore in Sociologia grazie al percorso di studi con l’Umg di Catanzaro. Il libro è stato presentato a Lamezia. Fuggire dalla retorica affrontando un tema che da un po’ di tempo rappresenta uno dei punti cruciali della discussione sulla giustizia italiana e la gestione delle carceri e dei detenuti. Parlare, oggi, di ergastolo ostativo significa inserirsi in un dibattito animato che contrappone tesi e visioni differenti ma che si incrociano sul campo minato della presunta incostituzionalità di una legge tutta da verificare e di un continuo confronto tra Consulta e Cassazione. Sullo sfondo due governi - quello di Mario Draghi e di Giorgia Meloni - e poi storie che assomigliano a paradossi che, tradotti nella realtà, sono destinate a cambiare visioni e prospettive, a ribaltare preconcetti e teorie. Forse la più significativa arriva proprio dalla Calabria, dal penitenziario “Ugo Caridi” di Catanzaro. A riecheggiare ad oltre un anno di distanza è il nome di Salvatore Curatolo, ormai 66enne, originario di Caltanissetta, finito in carcere oltre trent’anni fa e con una sfilza di condanne per associazione mafiosa, estorsione e omicidi. Curatolo però da uno stato di totale analfabetismo, complice una storia familiare affatto semplice, segue in regime detentivo ostativo un percorso di studi che lo porterà prima a conseguire la quinta elementare, poi la licenzia media e il diploma all’istituto tecnico per geometri. Ma il sorprendente percorso di studi di Curatolo prosegue, fino al conseguimento della laurea in Sociologia con l’ottimo 110 e lode dell’estate scorsa, grazie alla sinergia tra il penitenziario del capoluogo e l’Università Magna Graecia. La sua tesi, ora, è diventata un libro: “Ergastolo ostativo, percorso e strategie di sopravvivenza”, edito da Rubbettino, presentato a Lamezia Terme. Curatolo ha quindi tradotto il suo stato detentivo e ostativo ininterrotto da trent’anni in una opportunità, quella di realizzare un’autoetnografia condotta da sociologo, che segna un nuovo percorso personale e umano. Il suo libro è stato presentato a Lamezia nel corso di un evento organizzato insieme al Comune, all’assessore alla Cultura, Giorgia Gargano, il sindaco e il vicesindaco, Mascaro e Bevilacqua, oltre a Claudia Atzeni dell’Umg e l’avvocato Carlo Petitto. A seguire il suo percorso di studio (quasi riabilitativo) è stato il relatore della tesi, il professor Charlie Barnao, docente di Sociologia all’Università “Magna Graecia” di Catanzaro e delegato del Rettore per il “Polo universitario per studenti detenuti”, anche lui presente all’evento lametino. “La storia - ha spiegato ai microfoni del Corriere della Calabria - è quella di Salvatore Curatolo, un ergastolano ostativo che è da 30 anni ininterrotti in carcere che ha fatto la quinta elementare, poi la terza media e poi si è anche laureato”. Il “racconto di sopravvivenza” affronta in maniera diretta le condizioni di un detenuto, ristretto in carcere, e condannato ad una pena che, sostanzialmente, prevede la fine dei propri giorni all’interno di un carcere, senza alcun orizzonte temporale. Il riscatto di Salvatore Curatolo è, in questo, legato al ruolo assunto all’interno del carcere “in collaborazione con l’amministrazione penitenziaria perché già diversi detenuti sono iscritti alle nostre università. Nel caso specifico, Curatolo è uno dei 25 studenti detenuti di cui 17 in alta sicurezza che sono iscritti ai corsi universitari dell’UMG e lui è il primo tutor pari interno a livello italiano all’interno delle nostre carceri, cioè una figura che esiste soltanto a Catanzaro, la figura di un detenuto che aiuta altri detenuti a studiare”. La principale strategia di sopravvivenza di cui parla Curatolo in questo libro sostanzialmente è “lo studio ma non tanto e non solo come emancipazione da un punto di vista anche un po’ retorico, ma lo studio come gesto d’amore”. Già perché Salvatore Curatolo, dopo 12 anni di detenzione al 41bis, ha iniziato ad aver paura di perdere il contatto e il rapporto con le proprie figlie, Valentina e Serena, che nel frattempo si emancipavano, studiavano e si laureavano, diventavano delle professioniste stimate. E quindi, nonostante non avesse neanche la quinta elementare, Curatolo “ha iniziato a leggere libri - spiega Barnao - e da lì è stata una catena che adesso l’ha portato essere iscritto a una laurea specialistica in Sociologia ma, come dice lui, “io non smetterò mai di studiare”. L’ergastolano Curatolo è a tutti gli effetti l’espressione positiva di un percorso. “Abbiamo avuto un ottimo rapporto tra docente e studente, e lui è stato un ottimo studente di Sociologia. Tuttavia, seguire Salvatore Curatolo mi ha permesso di conoscere la realtà carceraria, di conoscere altri detenuti in alta sicurezza e, di fatto, si è creato un gruppo e oggi possiamo dire di avere un gruppo di ricerca misto, costituito sia da docenti della UMG che da detenuti in alta sicurezza, abbiamo sia degli assegnisti di ricerca, abbiamo anche un archeologa e l’assessore Gargano del Comune di Lamezia Terme partecipa attivamente a questo gruppo di ricerca che si sta trasformando in un gruppo di ricerca sul carcere, e stanno emergendo i primi lavori di ricerca sul campo”. La collana Rubbettino - Quello di Rubbettino e della collana è un percorso con una direzione ben precisa. “Il secondo volume della collana - spiega ancora Barnao - sarà quello di un altro detenuto, già dei casalesi, Sergio Ferraro, che racconta nel suo caso non tanto le strategie di sopravvivenza in carcere ma piuttosto i suoi processi di socializzazione prima all’interno del clan, poi all’interno del carcere, mettendo a confronto quanto sia il clan che il carcere siano delle istituzioni totali con tantissimi punti di contatto. Sono lavori che mettono in evidenza quanto le carceri italiane svolgano purtroppo spesso principalmente la funzione di discarica sociale, all’interno della quale individui non vengono rieducati, e quello di Curatolo è uno dei casi eccezionali, legati a situazioni contingenti molto particolari che coinvolgono altre figure e un lavoro di particolari figure che fanno più del loro lavoro sia a livello dell’amministrazione penitenziaria e degli agenti”. “Ma nella normalità tutto ciò non accade e il carcere, quindi, in quanto discarica sociale, diventa un luogo dove gli individui vengono dimenticati, abbandonati e marginalizzati ulteriormente e possiamo dire a un certo punto di vista anche torturati, è ovviamente una mia opinione personale”. L’ergastolo ostativo - Il macrotema è quello dell’ergastolo ostativo. In queste ore infatti la Corte costituzionale ha rimandato l’intero dossier alla Cassazione, la stessa che per prima ha sollevato il problema della compatibilità dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario con la nostra Carta. “Il tema è l’ostatività, l’ergastolo ostativo - ha spiegato al Corriere della Calabria l’avvocato Carlo Petitto - ma più in generale l’interrogativo legato alla compatibilità della misura con la carta costituzionale”. “Io - spiega l’avvocato - il mondo dei giuristi, le camere penali, i professori di diritto penale, riteniamo tutti che l’ergastolo ostativo sia fuori dell’orizzonte della Costituzione, fuori da quell’articolo 27 che pone la rieducazione, la riabilitazione del soggetto, la ripartecipazione al consorzio sociale come elemento baricentrico. Questo è l’obiettivo delle pene e della penalità, non escludere l’ergastolo che deve avere invece la sua finalità rieducativa. Per questo un ergastolo fine pena mai, 9999 come è scritto nei fogli matricola, non può essere compatibile con l’orizzonte democratico del nostro Paese”. Busto Arsizio. Una pena più umana quando i detenuti possono giocare con i figli varesenoi.it, 12 novembre 2022 Nella casa circondariale di Busto è stata inaugurata la ludoteca, resa possibile da un contributo dei Lions Gorla Valle Olona. Un modo per facilitare le relazioni familiari, in un luogo dove i piccoli possono sentirsi a loro agio. Rendere la pena più umana, creare un clima il più possibile familiare allentando eventuali tensioni. Questo vuole essere la ludoteca inaugurata oggi pomeriggio, 11 novembre, alla casa circondariale di via per Cassano con finanziamenti del Lions club Gorla Valle Olona. Superato il metal detector, accanto alle sale degli avvocati che si allineano al piano terra, si apre un’auletta colorata, un angolo che contrasta con l’ambiente intorno, uno spazio-giochi con banchi gialli e verdi, costruzioni ludiche, materassini, pareti tappezzate di immagini gioiose, quadretti, palloncini, disegni dove i piccoli possono sentirsi a loro agio, dove i bimbi dai 3 ai 10 anni possono incontrare papà o nonni detenuti in un clima più affettuoso, più umano. “È da tre anni che avevamo in mente il progetto - ha spiegato il direttore Orazio Sorrentini - ma a causa del Covid tutto si era bloccato. Si tratta di un progetto importante che inerisce ai rapporti con la comunità esterna, elemento fondamentale per il trattamento educativo”. A rendere possibile il taglio del nastro è stato il Lions club Gorla Valle Olona che in epoca pre-Covid aveva organizzato una serata teatrale con “I dilettanti allo sbaraglio”, curata dalla compianta Lillina Loyonet Fontana, il cui ricavato è stato destinato alla sistemazione della ludoteca del carcere. “In precedenza c’era una struttura ma con giochi fatiscenti - ha spiegato il presidente Lions Adelio Colombo - Abbiamo destinato 4mila euro per la sistemazione della sala e la sostituzione degli arredi”. “Come Lions siamo venuti a conoscenza di particolari necessità - aggiunge l’ex presidente Lions, l’avvocato Walter Picco Bellazzi - e siamo intervenuti. Andando in carcere per lavoro ho visto che c’era la necessità di un ambiente più dignitoso e più fruibile per i piccoli. Così abbiamo voluto destinare la somma a questo intervento: un modo per andare incontro a bambini già sfortunati, affinché possano trascorrere quei minuti di attesa in un ambiente dove sia possibile svagarsi”. Un ambiente accogliente, che ricorda la scuola materna che permette ai bambini di stare e giocare con i loro papà e sostenere così la genitorialità che molto spesso la detenzione affievolisce. I disegni sono stati realizzati dai detenuti. Significativa la frase in inglese di Antonie de Saint-Exupery che viene ripetuta spesso sui disegni che abbelliscono la saletta: “To be a man is precisely to be responsible”, per essere un uomo bisogna essere responsabili. All’inaugurazione erano presenti i soci Lions e il sindaco di Ferno Sarah Foti. Negli ergastolani ho visto la faccia nera della luna di Daniele Mencarelli* Il Domani, 12 novembre 2022 Nella casa circondariale Giuseppe Panzera di Reggio Calabria, nel carcere, ognuno ha le sue ragioni, le giustificazioni. Qui gli infami sono i giudici, tra tutte le manifestazioni non richieste d’innocenza ce n’è qualcuna vera, tragicamente vera. Un ragazzo stava fuori un bar quando lo hanno preso. “Quanti anni ti mancano?”, “Dodici, se tutto va bene”. Qui è arrivato il primo atto dell’èra Meloni. Sembra passato un secolo. Nel mezzo tanta vita è scorsa. Un’estate torrida che ancora oggi, a novembre, sembra non volerci abbandonare, che ci ha portato in dono la caduta del governo Draghi e, ad autunno appena iniziato, il ritorno alle urne. Lo scorso 25 settembre, gli italiani hanno scelto un nome e un cognome: Giorgia Meloni. E un partito. Fratelli d’Italia. Tutto il resto è marginale, residuale. L’Italia, che strano rimescolio di temi presenti e passati, di fenomeni assolutamente trendy e di altri vetusti, ma incredibilmente resistenti, si è così ritrovata per la prima volta una premier donna. Di nero vestita. Una donna che rappresenta l’esatto opposto, nessuno si offenda, rispetto all’ideale auspicato da tante e tanti per quel ruolo e quella poltrona. Uno scatto nella contemporaneità, dunque, ma dal sapore assolutamente novecentesco, nostalgico. Una leader di un partito di destra, all’interno di una maggioranza dove gli altri partiti giocheranno ruoli secondari, se non suicidari. Il primo è Forza Italia, che dovrebbe rappresentare l’area moderata del governo medesimo. Partito guidato, ricordiamolo, da un uomo che si cala ogni giorno di più nella scrittura veterotestamentaria, nel mito, perché Silvio Berlusconi oramai questo è: un Sansone attorniato da filistei che periranno assieme a lui. Uno spettacolo che impietosisce. È un giudizio duro, ma questo viene da dire a guardarlo. L’altro partito, destrorso tanto quanto Fratelli d’Italia, soltanto più caotico e disperatamente legato a un leader che negli ultimi due anni ha sbagliato tutto quello che era possibile, Matteo Salvini, che sino all’ultimo lotterà per avere più caselle possibile nello scacchiere del potere reale. Questo ha voluto il popolo italiano scegliendo democraticamente i suoi rappresentanti, e con questo convivremo, almeno per i prossimi mesi. Parlare di anni, nella politica italiana, è diventato per certi aspetti inelegante. Ma ritorniamo a quelle date messe nero su bianco in esergo. Martedì 10 e mercoledì 11 maggio 2022. Per il progetto Adotta uno scrittore, organizzato dal Salone Internazionale del Libro di Torino, in collaborazione con Fondazione Con il Sud, mi sono ritrovato alla casa circondariale Giuseppe Panzera di Reggio Calabria. L’idea nobile del progetto Adotta uno scrittore è di spedire autori viventi nelle scuole di ogni ordine e grado, anche dentro quelle che si svolgono negli istituti di pena e gli alunni sono detenuti. Dove il titolo da raggiungere è quello sancito dal diritto allo studio: la licenza elementare o il diploma di scuola media.Arrivo a Reggio Calabria e di corsa mi portano al carcere, per la prima lezione. Ne terrò quattro in tutto, due per ciascuno dei gruppi che incontrerò. Entrare in un carcere, per chi non lo avesse mai fatto, e per chi come lo scrivente fa fatica a sentirsi obbligato in luoghi chiusi, non è piacevole affatto, ma questa è cosa nota. Una teoria di porte inchiavate alle mie spalle. Senza telefono, senza nulla in grado di potersi trasformare in oggetto di offesa, arrivo all’aula. In mia compagnia il professore di ruolo che esercita nel carcere, Stefano Morabito, un ragazzo calabrese, un uomo che conosce bene l’humus di queste zone, che ne è difensore e accusatore come capita spesso a chi ama la propria terra. E lui la Calabria, tutta, la ama sinceramente. Ed ecco il primo gruppo. E la prima sorpresa. Mi si presentano una quindicina di uomini tra i trenta e i sessanta. “Loro sono tutti calabresi, tutti ‘ndranghetisti, tanti all’ergastolo”. La faccia nera della luna. Quella che non vediamo, ma possiamo solo immaginare. Ognuno di questi uomini ha le sue ragioni, giustificazioni, qui gli infami sono i giudici, e tra i tanti occhi che mi guardano, alcuni colmi di una pena da togliere il fiato, chissà, se fra tutte queste manifestazioni non richieste d’innocenza ce n’è qualcuna vera, tragicamente vera. Un ragazzo, il più giovane del gruppo, mi racconta che l’unica sua colpa è avere in quella terra un cognome troppo pesante, da sempre mischiato alla criminalità, ma lui, lui non ha mai fatto niente. Stava fuori un bar. E lo hanno preso. “Quanti anni ti mancano?” Mi guarda con un sorriso che non dimenticherò. “Dodici, se tutto va bene”. Nel 2034, questo ragazzo finirà la sua pena nel 2034. E qui dentro, mi spiega il professor Morabito, è uno di quelli messo meglio. Dopo qualche minuto, una decina di ragazzi giovanissimi, tutti tra i 20 e i 30 anni al massimo, prende il posto dei calabresi. “Loro sono tutti napoletani, pure loro affiliati, tanti scissionisti, barbudos”. È sempre Morabito a darmi le informazioni del caso. Nei due gruppi che incontro non c’è uno straniero. Il Panzera è un carcere, almeno le sezioni che mi hanno fatto conoscere, dedicato esclusivamente a persone che scontano reati legati all’affiliazione di stampo mafioso. Tutti italiani. I ragazzi sono più duri, almeno all’inizio, poi basta una battuta sul Napoli e lentamente il clima si stempera. La dinamica è contraria a quella accaduta nella lezione precedenti con i calabresi più adulti. Ora i ragazzi napoletani non stanno più zitti. Ognuno vuole raccontare il suo personale pezzo d’inferno. Anche qui l’innocenza è il minimo comun denominatore. Anzi, non l’innocenza, ma la necessità. I reati non si negano, è il perché, le ragioni che ne hanno scatenato il bisogno, che a loro interessa spiegare, discutere. In tanti raccontano le condizioni del carcere in cui sono reclusi. Il Panzera, effettivamente, non sembra messo nel migliore dei modi. Il mito, per tutti, è Bollate. L’istituto di pena milanese. Ne parlano come di un albergo a cinque stelle, con servizi e possibilità, altra cosa rispetto a questo palazzone vecchio e fatiscente. Bollate, lo è veramente, è uno delle realtà più innovative sul nostro territorio, soprattutto in termini di rieducazione e di formazione al lavoro dei detenuti. “Professò”. Un ragazzo bellissimo, con la barba lunga, curata come fosse appena uscito dal barbiere, mi chiede attenzione, è uno di quelli che non ha mai parlato. “Io ho due figli fatti in provetta, perché la legge solo così me li fa fare, ho una compagna, secondo lei una seconda possibilità me la merito?” “Una seconda possibilità se la meritano tutti. Sempre. Non solo una seconda”. Ancora oggi, non so quale parte di me abbia risposto con tanto impeto. Credo che a darmi tanta sicurezza non sia stata l’educazione laica, l’amore per la letteratura, ma l’immagine delle immagini. Anche per chi, come me, aspira alla fede senza averla. Il Golgota. È il ladrone che con l’ultimo filo di fiato si addossa le sue responsabilità e infine chiede a Cristo di ricordarsi di lui. Un paradiso, per chi si pente, per chi ha espiato, deve pur esistere. E se non esiste quello oltremondano, lo sapremo solo a fine vita, almeno qui sulla terra uno stato che si dichiara civile deve prevedere, come un comandamento fondamentale, la possibilità di reinserire nella società un essere umano che ha commesso uno sbaglio. Lui si carezza la barba lunga e fluente, mi guarda con un sorriso storto. “Allora perché non va in televisione a dire che il fine pena mai esiste ancora? Che l’ergastolo ostativo è la stessa cosa? Se non cambiano la legge io qui ci rimango per sempre. Allora perché non spararmi in testa. Non è più onesto, professò?”. Ne so poco, troppo poco, e quello che so è da lettura di giornali. “L’ergastolo ostativo è disposto per quelli che non si pentono, o non aiutano la giustizia, per quelli…”. Esplodono tutti a ridere. È sempre lui, il barbudos, a riprendermi. “Professò, ma se lei stesse chiuso dentro un carcere, con la famiglia fuori, con nessuno che li difende, ma lei si metterebbe a parlare? O farebbe il sacrificio di starsene chiuso per sempre dentro un posto di merda come questo pur di non fargli succedere niente?”. Non rispondo. Semplicemente perché di fronte agli occhi ho mia moglie e i miei figli. E l’immedesimazione a fare il resto. “Bravo professò. A parlare da liberi si fa presto”. Lunedì 31 ottobre - Il primo decreto legge del governo Meloni, la prima azione del nuovo esecutivo, per ironia della sorte ha avuto come oggetto proprio l’ergastolo ostativo. E non certo per rendere questa pratica più umana. Fra le novità, l’esclusione dell’automatismo ai benefici previsti e l’innalzamento da 26 a 30 anni di pena trascorsa in carcere prima di accedere agli stessi. Di fatto, anziché procedere in direzione delle richieste della Corte europea, che da tempo addita l’ergastolo ostativo quale misura penale non comprimibile, e dunque contraria al principio di dignità umana, si è andati verso un ulteriore imbarbarimento della norma. Anche la giunta dell’Unione delle camere penali, in una nota, ha parlato di: inammissibile peggioramento - rispetto a quello già oggetto della valutazione di incostituzionalità della Corte - del quadro normativo in tema di ostatività. Da Cesare Beccaria al Vangelo secondo Luca. Il primo decreto legge del governo Meloni è riuscito a mettere tutti d’accordo. Ai detenuti della casa circondariale Giuseppe Panzera di Reggio Calabria, a tutti i detenuti, un abbraccio. La promessa è stata mantenuta. *Scrittore Migranti, il grande equivoco di Antonio Polito Corriere della Sera, 12 novembre 2022 Meloni chiede “una soluzione europea” al problema delle migrazioni. Ma la via per ottenerla è la condivisione di regole comuni per tutti, compresi gli “amici” del Patto di Visegrád. Non le soluzioni “à la carte” che hanno consentito alla Francia, impegnatasi a ospitare 3.500 migranti sbarcati in Italia, di accoglierne finora soltanto 38 La fine era nota. Eppure il nuovo governo di Giorgia Meloni si è infilato in una prova di forza che fin dall’inizio sembrava destinato a perdere. L’ha fatto per un’ossessiva coazione a ripetere il “romanzo Viminale” di Matteo Salvini, stavolta per interposta persona. Ed è cascato in trappola per un’evidente inesperienza diplomatica, perché il comunicato con il quale martedì scorso Palazzo Chigi festeggiava “la decisione della Francia di condividere la responsabilità dell’emergenza migratoria” non andava fatto: è servito solo a far scattare la reazione di Le Pen e Zemmour, e a mettere Macron nei guai per aver aperto le porte all’Ocean Viking. Il presidente francese si è così “pentito” dell’aiuto offerto, e ha reagito decisamente oltre misura. Siccome ognuno ha i suoi sovranisti, e i nazionalismi per definizione si combattono, il risultato è quello che abbiamo davanti agli occhi: una crisi senza precedenti tra i cugini del Trattato del Quirinale, che minaccia di tracimare ai rapporti dell’Italia con l’intera Unione Europea. E che ora Sergio Mattarella, con l’aiuto della Farnesina, dovrà ancora una volta disinnescare. Di errori ne sono stati commessi molti, da questa parte delle Alpi. Il ministro Piantedosi ha condotto il braccio di ferro con le Ong in maniera quantomeno “bizzarra”, affidando alle Asl il compito improprio di separare i migranti “deboli” da quelli “forti”, con l’involontario effetto-boomerang di consegnare ai medici un potere di veto sulle scelte dell’esecutivo. È finita con lo sbarco in Italia di tutti i migranti della Geo Barents e della Humanity 1. Ma quel che si doveva evitare è che un Paese come il nostro, che dall’inizio di quest’anno ha accolto 90 mila migranti, 9.500 dei quali già con la destra al governo, finisse accusato da Parigi di “disumanità” davanti all’intera Europa. Abbiamo così sacrificato sull’altare di un braccio di ferro simbolico con le Ong, che trasportano non più del 10% dei migranti, la credibilità necessaria ad ottenere accordi per ricollocare il restante 90% nell’ambito di una solidarietà europea. Eppure il governo francese, già prevenuto nei confronti della destra al potere in Italia, visto che aveva annunciato per bocca di una sua ministra di voler “vigilare” sul rispetto dei diritti umani nel nostro Paese, non ha davvero le carte in regola per darci lezioni di “umanità”. Il presidente della Liguria Toti, la cui regione condivide il confine con la Francia, dice che “basta fare un salto a Ventimiglia per vedere lo schieramento di agenti equipaggiati di tutto punto che ogni mattina riportano in Italia decine di migranti che hanno camminato tutta la notte, rischiando la vita per attraversare la frontiera”, magari per ricongiungersi a parenti che non vedono da anni. Si calcola che ogni giorno Parigi respinga verso l’Italia 80/100 migranti, scovandoli ovunque, tra gli scogli, per strada a piedi, nascosti nei tir. Le organizzazioni umanitarie hanno spesso denunciato violenze, brutalità, false certificazioni, espulsioni illegittime di minori non accompagnati. In sette anni 28 persone hanno perso la vita tentando di varcare quel confine. L’ultimo è stato un giovane afgano di 19 anni, travolto lunedì scorso prima da un’auto e poi da un camion mentre camminava sul ciglio di un’autostrada verso la speranza. Quindi, non per ripicca nazionalistica, ma per amore della verità: nella fortezza-Europa nessuno può scagliare la prima pietra contro l’Italia, ottomila chilometri di costa nel Mediterraneo, primo approdo di una marea umana che fugge da guerre, miseria e bisogno, lasciata sostanzialmente sola a fronteggiare l’emergenza dal lato del Mediterraneo. Altri Paesi, destinatari anche di altri flussi provenienti dai Balcani, accolgono in verità più richiedenti asilo di noi (siamo solo quarti in questa speciale graduatoria). Ma questo non li esime certo dal dovere di una solidarietà nei nostri confronti, peraltro riconosciuto negli accordi di giugno di diciotto Stati con il governo Draghi. Le colpe degli altri non assolvono però il governo italiano. Anzi, avrebbero dovuto renderlo più accorto. Alla vigilia del debutto a Bruxelles ci eravamo permessi di mettere sull’avviso la nuova presidente del Consiglio: in Europa mostrare i muscoli non risolve niente. Perché tutti gli altri governi muoiono dalla voglia di mostrare i loro alle rispettive opinioni pubbliche. Dunque, riservate gli show per l’audience nazionale, e tentate piuttosto di risolvere i problemi in sede europea. Servono compromessi, non liti, e per fare compromessi servono alleati. Alcuni sono migliori (più forti) di altri. Mettersi in competizione “sovranista” con la Francia, nazione nella quale è stato inventato il concetto stesso di “sovranità” (Jean Bodin, nel 1576) non è saggio, e comunque non è produttivo. Il governo di Giorgia Meloni è parso flirtare all’inizio con l’idea di poter trovare in Parigi una sponda migliore di Berlino, proprio per questa fratellanza “sovranista”. Abbiamo perfino imitato i francesi varando un ministero della “sovranità alimentare”. Ma in realtà l’Italia ha bisogno sia della Francia sia della Germania. Ha ragione Giorgia Meloni a reagire ai toni minacciosi di Parigi dicendo che “l’Italia non può essere isolata”. Ma converrà che nemmeno la Francia può esserlo. E anzi, questa vicenda dimostra che l’idea di una “Europa confederale”, in cui Bruxelles fa poco e le capitali fanno tutto, illustrata dalla neo-premier nel libro di Bruno Vespa, è di fatto contraria agli interessi italiani, perché favorirebbe solo i vasi di ferro. Ora Meloni chiede correttamente “che si costruisca una soluzione europea” al problema delle migrazioni. Ma la via per ottenerla è la condivisione di regole comuni e cogenti per tutti, compresi gli “amici” del Patto di Visegrád, per riscrivere il “regolamento di Dublino”. Non le soluzioni “à la carte” che hanno consentito alla Francia, impegnatasi a ospitare 3.500 migranti sbarcati in Italia, di “ricollocarne” finora sul proprio territorio soltanto 38. La domanda da farsi è: dopo questa crisi siamo più vicini o più lontani dal raggiungere un tale obiettivo? Migranti, sbarchi e ricollocamenti: la strategia del governo per la tregua in Europa di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 12 novembre 2022 Dopo le accuse di “comportamento disumano” nei confronti del nostro Paese, si prova a ricucire lo strappo. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani lunedì ribadirà a Bruxelles la necessità che ognuno faccia la propria parte. Abbassare i toni e puntare l’attenzione sui numeri. È questo il cambio di strategia del governo dopo lo scontro durissimo con la Francia per lo sbarco dei migranti dalle navi delle Ong. Una linea che il titolare della Farnesina Antonio Tajani ribadirà lunedì al consiglio degli Affari Esteri di Bruxelles sottolineando la necessità che “ognuno faccia la propria parte”. E il Viminale fa propria con il segnale distensivo del ministro Matteo Piantedosi al collega Gérald Darmanin: “Il rafforzamento dei controlli alla frontiera italo-francese per limitare i movimenti secondari dall’Italia alla Francia, annunciato in queste ore, avverrebbe su uno scenario che già si avvantaggia della consolidata esperienza dei pattugliamenti misti, a cui concorre anche la polizia, che ha dato ottimi risultati per contrastare il passaggio illegale dei migranti tra i due Paesi e a cui intendiamo continuare a dare il nostro contributo”. Il rischio isolamento - Le dichiarazioni trionfanti degli ultimi giorni provenienti da diversi esponenti di Lega e Forza Italia dopo la decisione della Ocean Viking di fare rotta verso la Francia, avevano ottenuto l’effetto di scatenare la reazione furiosa di Parigi. Con il rischio sin troppo evidente di compattare il fronte internazionale e causare un isolamento in cui il nostro Paese potrebbe trovarsi in Europa non soltanto sui migranti, ma anche sugli altri dossier che dovranno essere esaminati, primo fra tutti quello economico. Un rischio che Palazzo Chigi sa bene di non poter correre. Ecco perché a Bruxelles Tajani porterà i numeri del ministero dell’Interno che fotografano la situazione reale. E ribadirà come gli accordi che la Francia minaccia di voler stracciare in realtà non sono mai stati rispettati dai membri della Ue. I 561 ricollocati - Negli ultimi quattro anni su 203.309 migranti giunti nel nostro Paese, 26.327 erano a bordo delle navi delle Ong. Durante il 2022 ci sono stati 90.297 arrivi, di cui 10.980 tramite le Organizzazioni non governative. Nel 2021 erano stati 9.933 a fronte di 67.477 sbarcati, stessa media nel 2019 con 1.998 presi dalle Ong a fronte degli 11.471 totali. Ebbene, il patto siglato a Malta il 23 settembre 2019 tra i partner europei per il ricollocamento degli stranieri ha portato al trasferimento fuori dai nostri confini di appena 1.273 persone. Tra loro, 561 sono andate in Francia, 396 in Germania, 132 in Portogallo, 73 in Irlanda, 32 in Spagna. È vero che la crisi afghana e quella ucraina hanno costretto molti Stati a provvedere ad altre esigenze, ma è pur vero che sono proprio i numeri a dimostrare come la collaborazione più volte promessa non è in realtà mai arrivata. Tanto che negli ultimi giorni il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e papa Francesco hanno ritenuto di dover rivolgere un appello accorato alla Ue “affinché si facciano scelte condivise e ci sia solidarietà”. La nota di Berlino che ribadisce di voler “continuare a fare la nostra parte fino a quando l’Italia garantirà l’accoglienza” sembra andare in questa direzione, sia pur ponendo condizioni ben precise. Del resto il tema relativo all’accoglienza dei migranti ha sempre diviso gli Stati della Ue, nonostante le buone intenzioni manifestate dopo i naufragi e le tragedie con centinaia di morti che hanno segnato gli ultimi dieci anni. Il “primo ingresso” - Durante il vertice straordinario dei ministri dell’Interno a Bruxelles Piantedosi ribadirà che “per le Ong dobbiamo trovare una soluzione unitaria per rafforzare i meccanismi di gestione e di solidarietà così scongiurando che tutto il peso dei crescenti flussi migratori via mare possa ricadere esclusivamente sui Paesi di primo ingresso”. La revisione del trattato di Dublino, tentata da anni ma sempre fallita, potrebbe tornare sul tavolo. Martedì scorso a chi gli chiedeva se fosse soddisfatto per la Ocean Viking in navigazione verso la Francia, Piantedosi aveva risposto: “Non sono né soddisfatto né insoddisfatto. Mi premeva affermare il principio giuridico che abbiamo sollevato in Europa”. E adesso ribadisce: “In quel caso la posizione del Viminale e di tutto il governo è stata sempre quella di responsabilizzare i Paesi di bandiera e mai è stato affermato che la nave dovesse attraccare in porti francesi o di altro Paese europeo diverso da quello di appartenenza della nave”. Un altro segnale per siglare la pace. Meloni prepara la stretta sulle Ong ma vuole ricucire. Sponda da Berlino di Emanuele Lauria e Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 12 novembre 2022 La premier è convinta di essere nel giusto e ha annotato come un successo il fatto che diversi Paesi, a partire dalla Germania, hanno fatto sapere di non aderire al “boicottaggio” invocato dalla Francia. “Bisogna isolare gli scafisti, non l’Italia”. Sta tutto in questa frase di Giorgia Meloni il senso di una reazione che viaggia su due binari diversi. La crisi nei rapporti con la Francia è profonda quanto improvvisa e la premier ci tiene a sottolineare che la posizione durissima del governo transalpino - che ha chiesto agli altri Paesi dell’Ue di non accogliere più migranti dall’Italia - sia stata “incomprensibile e ingiustificata”. Sotto questo punto di vista, nessun passo indietro: ad altre navi che si avvicineranno all’Italia sarà riservato lo stesso trattamento dell’Ocean Viking. Saranno accolti solo i migranti più deboli o bisognosi di cura. Di più: contro le Ong che agiscono nell’illegalità “saranno presi provvedimenti”, afferma Meloni. E quei provvedimenti, confermano fonti di Palazzo Chigi, sono la confisca delle imbarcazioni e multe per gli armatori, da inserire nei nuovi decreti sicurezza allo studio del governo. Meloni è convinta di essere nel giusto e ha annotato come un successo il fatto che diversi Paesi, a partire dalla Germania, hanno fatto sapere di non aderire al “boicottaggio” invocato dalla Francia. E si è rallegrata dopo la visita di Manfred Weber, presidente del Ppe, che ha detto che “l’Italia non può essere lasciata sola” ad affrontare l’emergenza migranti. Ma, allo stesso tempo, Meloni lascia aperta la porta della diplomazia. “Non abbiamo nulla contro la Francia e non c’è alcun interesse - dice il sottosegretario alla Presidenza Giovanbattista Fazzolari - ad alimentare tensioni con Parigi. Ci sono dossier che possiamo portare avanti insieme, dal tetto al prezzo del gas al patto di stabilità. Ma questa vicenda può essere l’occasione perché l’Europa si occupi finalmente del tema migranti”. I pontieri sono al lavoro. Fra questi c’è il ministro per gli Affari Europei Raffaele Fitto, che nei giorni scorsi ha incontrato l’omologa francese Laurence Boome che cita Mattarella: “Incombono sull’Ue sfide drammatiche che richiedono unità e fiducia reciproca tra i partner”. L’obiettivo del governo Meloni rimane quello di giungere a una soluzione europea comune, in collaborazione con i Paesi del Nord Africa, che blocchi la partenza delle imbarcazioni con gli immigrati a bordo. I primi passi concreti potrebbero vedersi già lunedì, al consiglio europei dei ministri degli Esteri: Antonio Tajani ha chiesto di mettere in agenda l’emergenza migranti. Poi c’è il G20 di Bali, in programma a metà settimana: fonti dell’Eliseo informano che un bilaterale Macron-Meloni non è previsto al momento ma a Roma non escludono un incontro, anche in modo informale. Appuntamenti che precederanno la riunione straordinaria fra i ministri dell’Interno che la commissione chiede per affrontare un piano d’emergenza e superare i contrasti fra i Paesi dell’Ue. Certo, le scorie dello scontro fra Italia e Francia non vanno via facilmente. E Palazzo Chigi punta molto sulla Germania come sponda per uscire dall’impasse. Il ministero dell’Interno tedesco, tirato per la giacchetta dalla Francia perché stracci il meccanismo di solidarietà europeo, ne conferma la piena validità - “continuiamo a sostenerlo” - e puntualizza che la solidarietà mostrata sinora “vale in particolare per l’Italia” che “ha accolto tre navi”. Ma vale “finché l’Italia si prende la sua responsabilità di accettare i migranti salvati in mare”. Scholz, insomma, a costo di creare nuovi malumori a Parigi, tiene fede al suo impegno di accogliere 3.500 migranti dall’Italia. Un messaggio distensivo arrivato dopo giorni di silenzio e dichiarazioni centellinate. Non a caso. A Berlino l’irritazione per una vicenda che rischia di isolare l’Italia è palpabile. E il desiderio di chiudere la querelle sui migranti altrettanto. I primi contatti tra il cancelliere Scholz e la premier Meloni, riferisce una fonte politica, “sono andati molto bene”. “Al di là delle differenze politiche, ci sono irrinunciabili interessi che legano l’Italia e la Germania”, avrebbero concordato entrambi. Tanto più in un momento di “grande freddo” tra Germania e Francia: il cancelliere sa di avere su dossier come i Balcani e l’Africa, e in particolare sulla Libia, una sponda molto più forte con Roma che con Parigi. Il segno tangibile di questa volontà di approfondire i legami è il “Piano d’azione” tra Italia e Germania concordato da Draghi e Scholz. La notizia è che il lavoro va avanti e che nella bozza che Repubblica è in grado di anticipare si coglie l’embrione di un Trattato che garantirebbe una collaborazione molto più stretta tra i due Paesi. Nel testo si legge di un “Forum industriale dell’industria” e di un “Forum macroeconomico bilaterale” per discutere di Recovery Plan e di riforme Ue. Un “Dialogo strutturato” tra ministeri e sherpa consentirebbe di coordinarsi in vista dei vertici come i G7 o i Consigli Ue. E c’è l’intenzione di avviare delle consultazioni Difesa-Esteri per consolidare strategie comuni e progetti industriali. Tutto dipenderà, però, dalla capacità dell’Italia di non “esportare la politica identitaria in Europa”, come riassume una fonte governativa. Insomma, di archiviare posizioni che rischiano di isolare il nostro Paese. Nordio: “Migranti, l’Europa dia risposte razionali. Sacrosanta la linea del governo” di Roberto Papetti Il Gazzettino, 12 novembre 2022 “Carceri, fino al 50% della popolazione è extracomunitaria. Cosa farne? Vorrei che si prendessero posizioni chiare”. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, interviene sul tema dei migranti e della tensione Italia-Francia: “La linea del governo è sacrosanta. Il problema è stato quasi sempre affrontato in termini politici, ideologici o emotivi. Va posto in termini razionali. Nella sola Africa vivono 300 milioni di persone in estremo disagio. Quanto possiamo accoglierne? E chi li deve accogliere? Da Onu e Ue mi aspetto risposte razionali. Con la Francia si può e si deve ricucire. Condizioni mutate, si può cambiare l’accordo di Dublino”. Signor ministro, le scelte del governo sulla gestione dei flussi migratori hanno creato polemiche in Italia e incrinato i rapporti con la Francia. Era inevitabile in un contesto già così complicato aprire questo fronte? “Era inevitabile perché il problema è stato quasi sempre affrontato in termini politici, ideologici o addirittura emotivi, mentre va posto in termini razionali. Nella sola Africa vivono almeno trecento milioni di persone in stato di estremo disagio. Quanto possiamo accoglierne? Tutti? O cinquanta milioni? O cinque milioni? E che li deve accogliere? L’Italia da sola, o l’Europa? O il resto del mondo? Ecco,sul punto mi attenderei una risposta da tutti i nostri interlocutori, dalla Ue all’Onu, perché il problema è globale”. Un certo numero di migranti dobbiamo comunque accoglierli. Per ragioni umanitarie ma non solo. La questione è: chi decide chi può entrare e chi no? In altre parole, usando un termine un po brutale, chi fa la selezione? “Questo è proprio il secondo problema che, in ordine logico, va affrontato: quale sia il criterio di selezione di questi migranti. Se dovessimo seguire quello etico e umanitario dovremmo dare la precedenza ai più poveri tra i poveri, ai malati rispetto ai sani, e poi ai vecchi, ai bambini e più in generale ai soggetti deboli. Invece la selezione non viene fatta da noi, ma dalle organizzazioni criminali che raccolgono solo quelli in grado di pagare l’oneroso pedaggio dai due ai cinquemila euro che questi richiedono, Certo, tra di loro vi sono donne incinte e persino neonati. Ma questa è una brutale scelta strategica degli stessi scafisti, che li inseriscono come una sorta di ricatto morale, perché nessuno oserebbe respingerli, men che mai un Paese come il nostro di nobile tradizione cristiana-Ed infatti li abbiamo accolti subito. Ma in questo modo alimentiamo le finanze di queste organizzazioni, dietro le quali esiste una strategia politica, e non certo un intento umanitario. Ne fanno fede le testimonianze di quei migranti che hanno raccontato i maltrattamenti e persino le torture cui sono stati sottoposti”. Una volta entrati in Italia, questi uomini e donne vanno anche accolti e va trovata loro una sistemazione. Ma dove e come? Le esperienze dei centri di accoglienza, ancorché necessari, hanno presentato spesso criticità. “E questo è il terzo problema. Queste persone arrivano senza denari, senza lavoro, e senza prospettive. L’unica cosa che hanno sono i debiti contratti con gli scafisti, che non ne esigono il pagamento tramite avvocati, ma minacciando di tagliar loro la gola. Quindi per la gran parte di questi poveretti è quasi inevitabile ricorrere a finanziamenti illegali, come il piccolo spaccio di droga, i furti, e per molte donne la prostituzione. D’altro canto lo Stato non può certo garantire a tutti un lavoro dignitoso, anche perché non tutti sarebbero in grado di svolgerlo. E nemmeno può garantire alloggi salubri, perché non ci sono. E tantomeno un reddito, visto che parte degli stessi italiani non riesce nemmeno ad arrivare alla fine del mese con i rincari dell’energia. Anche queste sono domande per le quali ci attenderemmo, non solo dall’opposizione, ma dal resto della UE, delle risposte ragionevoli, senza polemiche sterili, ma anche anche senza vuote aspirazioni astratte e irrealizzabili”. Questione carceri. Anche se molti preferiscono ignorare questo dato, sappiamo che gli immigrati irregolari rappresentano una quota rilevante della popolazione carceraria nel nostro Paese e sono ben note le condizioni di inadeguatezza del nostro sistema penitenziario. Un aspetto che la chiama in causa direttamente come ministro della Giustizia. Come intende intervenire? “Continuando così il problema, già oggi grave, diventa insolubile. Le nostre carceri sono già oltre il limite della sopportazione, e d’altra parte la sicurezza collettiva esige che i reati contro la persona, contro il patrimonio, e di spaccio di stupefacenti commessi da questi immigrati non restino impuniti. Una percentuale elevatissima della nostra popolazione carceraria, talvolta fino al cinquanta per cento, è costituita da extracomunitari responsabili di questo tipo di reati, commessi per le ragioni che ho detto prima. Questa non è discriminazione, è statistica, e anche qui mi piacerebbe una risposta razionale: cosa vogliamo farne? Vorrei che ciascuno prendesse una posizione chiara, mentre ci si rifugia spesso in fumose dichiarazioni di principio, che poi confliggono con la realtà che siamo costretti ad affrontare”. In Italia sul tema della gestione dei flussi migratori si sono spesso contrapposte due linee entrambe viziate da posizioni ideologiche: porte aperte o linea dura. Qual è secondo lei la strada possibile da percorrere? “In primo luogo va affermato il principio che la legge va applicata. La prima legge sul tema, firmata da un governo di sinistra, la cosiddetta Turco-Napolitano, stabiliva princìpi assai semplici e ragionevoli: in Italia, membri dell’UE a parte, si entra con il permesso; chi entra illegalmente viene espulso, e chi vi rimane dopo l’espulsione viene processato e punito. Questa legge non è ma stata applicata in concreto, perché le espulsioni non erano reali rimpatri ma semplici intimidazioni cartacee. Del resto un accompagnamento coattivo del clandestino nel paese di origine è procedimento lunghissimo e costosissimo, e spesso impraticabile. Ora il problema è più globale, va affrontato e risolto in ambito europeo, e direi persino nell’ambito dell’Onu, perché prima o poi riguarderà tutti gli altri paesi. Ma al momento attuale la linea del governo è sacrosanta: dobbiamo mandare a tutti il messaggio che l’Italia non è, o almeno non è più, l’unico principale stato di approdo dei migranti, che poi ne curi la permanenza . Su questo la linea dev’essere fermissima: con correttezza e garbo, le domande che ho prospettato prima vanno poste agli amici della Ue, dai quali ci attendiamo risposte razionali”. Va rivisto l’accordo di Dublino? “Se l’accordo di Dublino fosse applicato davvero, i migranti raccolti dalle navi delle Ong straniere dovrebbero esser portati, magari dopo i primi soccorsi urgenti, negli stati di bandiera delle imbarcazioni, perché quello è lo Stato di primo accesso. Le navi, secondo il diritto internazionale e secondo l’art 4 del nostro codice penale, sono Stati che galleggiano, e rappresentano una estensione della nazionalità. Ed è singolare che questo principio sia stato fino ad ora ignorato, o addirittura contestato. Detto questo, l’accordo di Dublino è stato firmato quando questa problematica era molto diversa, e può benissimo essere rivisto. D’altro canto i princìpi del diritto internazionale, dai tempi di Ugo Grozio, sono due: Pacta sunt servanda, e rebus sic stantibus: se cambiano le condizioni, si cambiano gli accordi”. Le recenti scelte del governo hanno aperto una crisi diplomatica con la Francia, suscitando la dura reazione di Macron. Si può ricucire? E come? Non solo si può, ma si deve. La Francia è un grandissimo paese amico, e Napoleone era in realtà un italiano. È già programmato nei prossimi giorni un mio incontro a Parigi con il mio omologo francese. ha avuto la cortesia di invitarmi. Ho chiesto di recarmi al Mont Valerien per rendere omaggio ai martiri della Resistenza durante l’occupazione nazista, e sono certo che, anche senza entrare nel merito di questa problematica, ci intenderemo sui problemi più importanti. Del resto le liti, vere o costruite, avvengono più spesso proprio tra affini: Amantium ira, amoris integratio est: l’ira degli amanti è l’integrazione dell’amore”. Le piazze non si riempiono, i diritti si dimenticano di Filippo Zingone Il Manifesto, 12 novembre 2022 Cop27. “11/11”: questi due numeri, che indicano la giornata di ieri 11 novembre, indicavano anche la chiamata, girata sui social, a scendere nelle piazze egiziane per manifestare contro il governo di Al-Sisi. La data coincide con l’arrivo del presidente Usa Joe Biden alla Cop27 di Sharm el-Sheikh. Nella giornata di ieri però non si sono viste grandi manifestazioni antigovernative. Un corteo dei giovani del movimento Fridays for Future ha sfilato nei pressi delle strutture che ospitano le conferenze della Cop27, durante il discorso di Biden. Gli stessi manifestanti hanno alzato degli striscioni di protesta, per poi essere accompagnati fuori dalle guardie di sicurezza. Gli arresti preventivi, la militarizzazione delle piazze e la chiusura obbligata di negozi e iniziative culturali hanno raggiunto l’obbiettivo del presidente Al-Sisi: evitare ogni possibile interferenza nei giorni in cui gli occhi del mondo sono puntati sull’Egitto. Giovedì notte, però, su alcuni profili twitter di cittadini egiziani sono comparse immagini di proteste nelle città di Suez, Alessandria e il Cairo. Nei video si vedono diverse persone sfilare per le strade e molti mezzi delle forze dell’ordine egiziane impegnate a disperdere la folla. Non ci sono dati rispetto alle manifestazioni di giovedì ma alcuni testimoni dicono di aver visto la polizia caricare i manifestanti e disperderli con i gas lacrimogeni. Arrivato ieri nel primo pomeriggio a Sharm el-Sheikh il presidente Biden ha avuto un incontro bilaterale con l’omologo egiziano Al-Sisi prima di fare il suo discorso alla Cop27. L’incontro tra i due capi di stato, il primo dall’inizio della presidenza Biden, ha avuto come risultato la conferma delle solide relazioni tra Egitto e Stati uniti, con elogi da una parte e dall’altra. Il presidente Usa ha ringraziato l’Egitto per il suo ruolo di mediatore negli sviluppi del conflitto israelo-palestinese e anche per la presa di posizione del paese nord africano contro l’invasione russa dell’Ucraina. Il tema più atteso però era quello del rispetto dei diritti umani in Egitto. In merito Al-Sisi ha rassicurato la sua controparte statunitense, affermando che “in Egitto abbiamo lanciato una strategia per i diritti umani e abbiamo un comitato presidenziale per la grazia, che esamina le liste di persone che la meritano” e si è detto “desideroso di migliorare”. Una dichiarazione che sembra più che altro utile a dare un’immagine ripulita ai media internazionali e utile a sbloccare i finanziamenti militari americani fermati per il basso rispetto dei diritti umani nel paese. Sono bastati i circa 800 detenuti rilasciati, come riporta l’Ong Epir, per convincere il dipartimento di Stato americano che a settembre ha sbloccato 75 dei 130 milioni di aiuti militari promessi. Il Presidente Biden, nei giorni scorsi, aveva fatto sapere di voler unirsi agli altri capi di stato per chiedere il rilascio dell’attivista Alaa Abdel Fattah. L’attivista anglo-egiziano è detenuto con l’accusa di istigazione alla violenza e da aprile è in sciopero della fame che ha deciso di inasprire domenica smettendo anche di bere. I famigliari di Fattah e il suo legale non sono ancora riusciti a vedere l’attivista dopo che mercoledì è stato prelevato dalla sua cella per un “trattamento sanitario” che la famiglia pensa consista nel nutrirlo forzatamente. La madre ha chiesto al presidente americano di spingere per il suo rilascio, ma a Biden sono bastate le rincuoranti parole di Al-Sisi per dimenticare Alaa e i 60.000 mila prigionieri politici trattenuti nelle carceri egiziane. I giudici che difendono la Polonia di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 12 novembre 2022 Igor Tuleya, magistrato, è stato sospeso perché non in linea col governo. Ma non è il solo ad essere vittima del sistematico smantellamento dello stato di diritto nel Paese. “La Polonia non è più neanche paragonabile all’Ungheria di Orbán. Siamo piombati nella Turchia di Erdogan. Noi giudici veniamo perseguitati e minacciati ad ogni livello, se non emettiamo sentenze che piacciono al governo”. Igor Tuleya è collegato da Varsavia via Zoom. In questi anni il suo volto spigoloso, sempre serio, i suoi occhi celesti, sono comparsi su miriadi di manifesti per le strade di Varsavia, via via che lo stato di diritto si spegneva nelle aule dei tribunali. Il verdetto che lo ha allontanato nel 2020 dalla sua scrivania ha mobilitato le piazze; ogni ulteriore udienza è stata accompagnata da migliaia di manifestanti che hanno sfilato accanto ai giudici “ribelli” nelle loro toghe scarlatte. Da anni chi difende l’indipendenza della dea bendata, grida nelle piazze una parola sola: “Costituzione”. Nemico pubblico - Tuleya è diventato uno dei giudici-simbolo dello smantellamento sistematico della giustizia e della Costituzione ad opera della forza politica che guida la Polonia da sette anni, il partito Diritto e giustizia (Pis). Due anni fa il Consiglio disciplinare della Corte suprema lo ha sospeso dal suo incarico, gli ha tagliato lo stipendio del 25 per cento e gli ha tolto l’immunità. “E a nulla è servito che la Corte di Giustizia europea abbia dichiarato illegittima la Camera disciplinare che mi ha sospeso, che la Commissione Ue abbia bloccato i fondi alla Polonia finché quella Camera non veniva cancellata”. Di recente, è vero, il governo del premier Mateus Morawiecki ha abolito la Camera disciplinare. “Ma l’ha sostituita con una “Camera della responsabilità professionale” che ha solo un nome diverso ma lo stesso identico scopo. Una beffa totale”, racconta. I procedimenti disciplinari contro di lui continuano ad accumularsi: al momento sono sette. Per il governo è un nemico dello Stato. Ma non è tutto. Le campagne diffamatorie nei suoi confronti, anche sulle televisioni pubbliche rigorosamente controllate dal Pis, gli attacchi incessanti sui social media, le minacce telefoniche e gli insulti per strada sono gli effetti neanche troppo collaterali del suo calvario giudiziario. “Le aggressioni stanno diventando più brutali: l’anno scorso, se non mi fossi protetto con una mano, mi avrebbero spezzato i denti con un pugno”, confessa. Già quando indossava ancora la toga, Tuleya era famoso per i suoi verdetti indipendenti e per aver fatto infuriare il Pis, il partito che dal 2015 è padrone del Paese ed è stato co-fondato dall’ex premier Jaroslaw Kaczynski. Il tribunale in cui Tuleya lavorava è stato evacuato due volte per allarmi antrace, la sua porta di casa imbrattata di escrementi. “No, non mi sento ancora un dissidente. Ma questa Polonia è molto peggio di quella comunista degli anni Ottanta, per certi versi. Allora non c’era questa sistematica persecuzione dei giudici considerati scomodi”. Metodi stalinisti - Nel 2013, quando il Pis era all’opposizione, Igor Tuleya presiedette un celebre processo e annullò molte delle accuse rivolte contro un medico, Miroslaw Garlicki, condannato ai tempi in cui Diritto e giustizia non era ancora al governo. Tuleya, assolvendolo in parte dalle accuse, aveva parlato di “metodi stalinisti” usati dalle autorità pubbliche contro il medico. Il giudice ricorda che “la polizia aveva arrestato il medico, lo aveva sottoposto a lunghi interrogatori notturni, aveva usato mezzi illegali” per inchiodarlo. Il partito di Kaczynski non gli ha mai perdonato quell’“onta”. Così come non gli ha perdonato un altro episodio: nel 2016, poco dopo aver vinto nuovamente le elezioni, il Pis impedì all’opposizione di votare il bilancio in Parlamento. È il famoso episodio della “Sala delle Colonne”. Un anno dopo, Tuleya fu chiamato a giudicare quell’evento. E non ebbe dubbi: “La democrazia è stata sepolta. La maggioranza parlamentare ha deliberatamente e con premeditazione calpestato le regole costituzionali”, sentenziò in aula. Così il Pis gli ha scatenato contro la Camera disciplinare, che gli ha strappato l’immunità e la toga con la scusa che quel processo era stato “illegittimamente” tenuto a porte aperte, con la presenza dei media. La crociata contro le toghe è giustificata dal Pis come una battaglia contro la “casta”: persino il presidente della Repubblica, Andrzej Duda, anche lui proveniente dalle fila del Pis, se la prende spesso con le “élite dei giudici”. Ma la propaganda del governo giustifica la persecuzione delle toghe anche come una purga contro presunti, immarcescibili comunisti che si nasconderebbero ancora nei tribunali. E questo è forse l’aspetto che fa più sorridere Waldemar Zurek, un passato giovanile nei movimenti anticomunisti, un presente di persecuzioni giudiziarie e personali e di campagne intimidatorie. Anche Zurek è tra i giudici più famosi della Polonia attuale. “Non mi sento un dissidente, perché ho conosciuto i grandi eroi che hanno lottato contro il comunismo, ai tempi di Solidarnosc. Ma che il Pis si sia messo sotto i tacchi la giustizia è una cosa ormai assolutamente innegabile”. Raggiungiamo anche lui via Zoom, a Cracovia, mentre sta lottando contro l’ultimo capitolo della politicizzazione delle toghe: l’occupazione della Corte suprema. Anni fa Zurek era il portavoce del Krs, il Consiglio nazionale giudiziario, che nomina i togati e tutela la loro indipendenza. Nel 2018 il vecchio Krs è stato spazzato via per fare posto a giudici vicini al governo. E Zurek ha fatto ricorso alla Corte europea per i diritti umani. Strasburgo non solo gli ha dato ragione, ma ha anche denunciato una campagna più ampia di delegittimazione contro il togato: “C’è stata una strategia per intimidire (o persino silenziare) il giudice per le sue opinioni”. Un giorno dopo le critiche espresse da Zurek contro le ampie riforme giudiziarie avviate dal governo Morawiecki, l’Ufficio anticorruzione ha sguinzagliato i suoi ispettori a perquisire i suoi uffici presso la corte di Cracovia, il Fisco ha ordinato un’indagine sul suo patrimonio e altri cinque procedimenti disciplinari sono stati avviati contro di lui. La Corte di Strasburgo ha poi comminato una multa alla Polonia per averlo perseguitato: 25mila euro. Ma il ministero degli Esteri ha bloccato tutto. Ventidue cause - “Nel frattempo” sottolinea il magistrato, “i procedimenti disciplinari contro di me sono diventati ventidue. E hanno anche cercato di intimidire mia moglie”. Zurek può ancora indossare la toga, ma è vittima di un persistente mobbing: “Mi hanno spostato da un tribunale all’altro senza il mio consenso. Mi annullano o mi spostano le ferie. Un giorno sono arrivato al lavoro e il parcheggio per la mia auto era sparito. Continuano ad arrivarmi telefonate di insulti, di minacce, sui social partono continuamente campagne d’odio”. Nonostante le condanne di tutte le istituzioni europee, allarmate per le violazioni continue dello stato di diritto in Polonia. “Il fatto che Zbigniew Ziobrio possa essere allo stesso tempo ministro della Giustizia, Procuratore generale e capo di un partito è solo la punta dell’iceberg di un sistema che ormai ha totalmente assoggettato la giustizia alla politica”, conclude. E quando non c’è più la separazione dei poteri, come già insegnava secoli fa un certo Montesquieu, anche la libertà muore. Turchia. La scure di Erdogan contro gli avvocati: decine di condanne di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 12 novembre 2022 Si è concluso a Istanbul il processo-farsa contro l’associazione degli avvocati progressisti turchi (Chd), un iter lunghissimo durato nove anni (la prima udienza risale addirittura al 2013). Naturalmente si tratta di una sentenza già scritta, una sentenza tutta politica, ma anche di un avvertimento da parte del regime del “sultano” Erdogan a tutti i suoi oppositori e a chi ha l’ardire di difenderli in nome del diritto alla difesa e al giusto processo. In Turchia la giustizia e la politica sono un unico mostro intrecciato, e quasi nessun magistrato prende decisioni che possano irritare o scontentare il governo. Se finisci nel mirino delle autorità, neanche un miracolo può riuscire a salvarti. Sono così ventidue le condanne emesse ieri pomeriggio dalla 18esima corte penale che si è riunita nell’aula bunker del carcere di Sliviri, tutte pesantissime e con l’accusa di “appartenenza a organizzazione terroristica”, “propaganda” e “crimini di resistenza”. Rimarranno in prigione, nella famigerata struttura penitenziaria, piena zeppa di prigionieri politici e di figure invise a Erdogan e al suo clan, dissidenti, giornalisti, professori universitari e, per l’appunto, gli odiati avvocati difensori. Tra le figure più note finite alla sbarra c’è quella di Selcuk Kozagacli, (presidente del Chd) che è stato condannato a un totale di 13 anni, Barkin Timtik, sorella di Ebru Timtik l’avvocata morta in prigione nel 2020 dopo oltre 200 giorni di sciopero della fame, ha ricevuto un totale di 20 anni e sei mesi, Oya Aslan 16 anni e sei mesi. La cosa sconvolgente è che l’intero processo si fonda su prove inesistenti, con il supporto di testimoni di cui nessuno conosce l’identità e mai portati in udienza, sono una quarantina e un terzo di loro è stato ascoltato unicamente dall’ufficio del pubblico ministero. Gli avvocati denunciano decine di testimonianze estorte con la forza o con la tortura. Inoltre i documenti incriminanti sono stati prodotti direttamente dalla polizia turca e non avrebbero alcuna rilevanza in un sistema giudiziario democratico costruito sullo stato di diritto. Come ad esempio i Paesi bassi che alcuni anni fa li ritennero del tutto inattendibili in un processo per terrorismo internazionale. L’impianto dell’accusa oltre a occuparsi dei singoli casi ha voluto dimostrare (non riuscendoci) che la stessa Chd, animata da legali laici e di ispirazione progressista, sarebbe un’organizzazione tesa a rovesciare il potere o comunque a diffondere in Turchia propaganda eversiva. Il Consiglio nazionale forense (Cnf) e l’Osservatorio Internazionale degli avvocati in pericolo (OIAD) di cui è vice - presidente il consigliere Francesco Caia, coordinatore della commissione diritti umani del CNF, hanno monitorato, attraverso i propri osservatori (gli avvocati Antonio Fraticelli, componente dell’Ordine degli avvocati di Bologna, Massimo Chioda del Foro di Monza, Fausto Pelizzari, Presidente del coa di Brescia e Adriana Vignoni, componente dell’Ordine degli avvocati di Brescia), unitamente ad una delegazione internazionale composta da più di 60 avvocati, le udienze finali del processo. E denunciano la completa violazione dei diritti della difesa e l’assimilazione odiosa compiuta dal regime tra avvocati e clienti. Tra difensori e imputati. “Queste sentenze colpiscono l’indipendenza della giustizia e le regole del diritto, è la stessa democrazia a rssere sotto assedio”, si legge nel comunicato diffuso ieri sera dagli osservatori dell’Oiad Molti dei condannati avevano infatti difeso degli oppositori politici o semplicemente persone accusate di ordire complotti eversivi, o di aver partecipato al tentato golpe del luglio 2016 oppure militanti del partito dei lavoratori curdo (Pkk) che Ankara considera una formazione terrorista. O ancora dei ragazzi che si scontrarono ruvidamente con la polizia nelle rivolte di Gezi park del 2013. Oppure i minatori di Soma, l’impianto di carbone esploso nel 2014 causando quasi trecento vittime per la negligenza del governo e del proprietario Alp Gurkan, grande amico di Erdogan, che venne assolto con formula piena. Iran. Il rapper Saman Yasin rischia la pena di morte di Nicolò Guelfi La Stampa, 12 novembre 2022 L’Onu: “Oltre 14mila arresti nelle ultime settimane, serve un’azione internazionale”. Il musicista di origini curde è stato incarcerato giorni fa dopo aver sostenuto pubblicamente le proteste nel Paese. Nel frattempo il regime annuncia processi pubblici per i manifestanti e i legislatori iraniani chiedono pene severe. Saman Yasin, un rapper curdo iraniano, rischia la pena di morte dopo la formalizzazione dell’accusa di aver “dichiarato guerra a dio” per il suo sostegno social alle proteste per la morte di Mahsa Amini. Lo riferisce il Guardian. Il giovane, 27enne, è stato prelevato dalle forze di sicurezza nella propria casa tre settimane fa. La sua sorte è ora affidata a una corte iraniana, in una decisione attesa “nei prossimi giorni”. Sono oltre 14mila le persone arrestate - comprese donne e bambini - nel corso della repressione delle dimostrazioni, stima l’Onu. Intanto, la famiglia di Toomaj Salehi, l’altro rapper arrestato per il suo sostegno alle proteste, denuncia “torture” subite dal 32enne nel carcere di Isfahan dove è recluso dal 30 settembre scorso. Il suo destino, che sarà deciso nei prossimi giorni dai tribunali iraniani, potrebbe essere condiviso da migliaia di altri giovani manifestanti detenuti, mentre le organizzazioni per i diritti umani avvertono che il regime potrebbe scatenare una sanguinosa campagna di vendetta nel tentativo di reprimere le continue proteste. Le istituzioni del Paese hanno scelto tutte la linea dura fino a questo momento, e non è da escludere che scelgano di sacrificare altre vite per spegnere la rivolta. Quella che era partita come una protesta che chiedeva solo pochi diritti e libertà in più per le donne si è trasformata in una lotta contro i simboli dell’oppressione e del potere. La posta in gioco è diventata molto alta, anche per Raisi e Khamenei. Secondo le Nazioni Unite, si stima che almeno 14 mila persone, tra cui anche bambini, siano state arrestate e messe in carcere dal regime dall’inizio delle proteste, ormai oltre due mesi fa. Delle loro condizioni si sa molto poco perché entrare nelle carceri iraniane è facile. Uscirne è la parte complicata. Javaid Rehman, relatore speciale sulla situazione dei diritti umani in Iran, ha affermato: “Nelle ultime sei settimane sono stati arrestati migliaia di uomini, donne e bambini, tra cui difensori dei diritti umani, studenti, avvocati, giornalisti e attivisti della società civile”. Rehman ha proseguito: “In un altro sviluppo molto inquietante, le autorità iraniane hanno annunciato all’inizio di questa settimana che terranno processi pubblici per oltre mille persone arrestate a Teheran e un numero simile fuori dalla capitale... Le accuse contro queste persone includeranno accuse... che comportano la pena di morte. In assenza di canali interni di responsabilità, vorrei sottolineare l’importanza del ruolo e della responsabilità della comunità internazionale nell’affrontare l’impunità per le violazioni dei diritti umani in Iran”. Il 6 novembre, 227 legislatori iraniani hanno esortato la magistratura ad “affrontare con decisione gli autori di questi crimini e tutti coloro che hanno assistito ai crimini e provocato i rivoltosi”, cosa che gli attivisti per i diritti umani temono porterà a un’ondata di esecuzioni e condanne all’ergastolo comminate dai tribunali nelle prossime settimane. Le autorità hanno annunciato l’intenzione di celebrare processi per mille manifestanti detenuti a Teheran. L’Organizzazione Hengaw per i diritti umani ha affermato che prigionieri di alto profilo come Yasin potrebbero essere utilizzati dal regime iraniano per tentare di terrorizzare coloro che continuano a protestare. In sostanza: punirne uno per educarne cento. Yasin, noto e acclamato artista e rapper, è stato un critico del regime. Ha scritto messaggi di sostegno ai manifestanti sui suoi canali di social media e ha scritto diverse canzoni di protesta. “Sappiamo che il governo uccide facilmente le persone e condanna direttamente a morte i detenuti”, ha dichiarato Soma Rostami di Hengaw. “Saman Yasin è in grave pericolo e noi dovremmo essere la sua voce”. Altre organizzazioni per i diritti umani affermano che le autorità hanno tentato di mettere a tacere la famiglia di Yasin, che non ha più avuto notizie da quando è stato accusato di moharabeh (inimicizia contro Dio) all’inizio di questa settimana. La condanna a morte che pende su Yasin arriva tra le denunce di torture subite da lui e da altri manifestanti durante la detenzione. I familiari di Toomaj Salehi, un musicista e rapper di 32 anni, anch’egli in carcere dopo essere stato arrestato il 30 settembre insieme a due amici, sostengono che sia stato sottoposto a “gravi torture” da parte del regime per aver pubblicato canzoni a sostegno dei manifestanti e per aver postato foto che lo ritraevano mentre scandiva slogan contro le forze di sicurezza a Isfahan. L’arresto del popolare artista ha portato a petizioni online che chiedono il suo rilascio e i suoi sostenitori hanno ampiamente condiviso l’hashtag #FreeToomaj. “Quando abbiamo saputo del suo arresto, siamo rimasti sconvolti ma non sconfitti. Attualmente stiamo cercando di fare il possibile per portare avanti ciò per cui lui si batteva e sollecitare i leader della comunità internazionale a ritenere la Repubblica islamica responsabile dei suoi crimini contro l’umanità, a rilasciare Toomaj e tutte le persone iraniane che vengono imprigionate e torturate quotidianamente, solo perché cercano la libertà”, ha dichiarato uno degli amici di Salehi, di cui non si fa il nome per motivi di sicurezza. “Sappiamo che vogliono traumatizzarci ancora di più e instillarci la paura. Ciò che conta è che il brutale regime della Repubblica islamica sta arrestando critici e civili innocenti e sta violando le proprie leggi”, ha detto. “Anche se gli avvocati si presentano ai tribunali per conto delle loro famiglie, anche loro rischiano di essere arrestati. Non abbiamo informazioni sulla sua salute, su ciò di cui è stato accusato o sulle sue condizioni di salute, e siamo seriamente preoccupati per la sua vita”. La scorsa settimana due giornaliste che hanno contribuito a diffondere la notizia della morte di Mahsa Amini sono state denunciate dalle autorità iraniane come spie della Cia, un’accusa che comporta la pena di morte. La protesta non risparmia nessuno, nemmeno le celebrità del mondo della musica o dello sport. Anche la lottatrice iraniana Melika Balali afferma di essere stata minacciata dal governo del suo Paese: La iraniana che ha vinto l’oro per la Scozia è stata protetta dalla polizia dopo aver ricevuto presunte minacce dal suo governo. Melika Balali ha protestato contro l’obbligo di indossare l’hijab sulla pedana dei vincitori dei Campionati britannici di lotta libera a giugno. La 22enne ha dichiarato che la sua famiglia ha tagliato i contatti con lei. Il fatto è avvenuto due mesi prima della morte di Mahsa Amini. Trasferitasi in Scozia lo scorso novembre, la Balali si è unita alla Scottish Wrestling Association, per la quale ha vinto l’oro nella gara femminile senior ai campionati britannici di Manchester. Durante la cerimonia di consegna della medaglia, ha tenuto in mano un cartello con la scritta “smettete di imporre l’hijab, ho il diritto di essere una lottatrice”. Balali oggi vive a Edimburgo e benché sia vista dalle autorità del suo Paese come una dissidente pericolosa, continua la sua opera di racconto delle proteste e la prosegue nel portare avanti il suo messaggio di parità dei diritti per le donne. Giornali chiusi e politici arrestati, il Bahrain vota nella paura di Michele Giorgio Il Manifesto, 12 novembre 2022 A oltre dieci anni dalla breve “primavera” che venne spenta nel sangue dal re Hamad. Sono 344.000 i bahraniti chiamati oggi alle urne per eleggere i 40 membri della Camera bassa dell’Assemblea nazionale, oltre a 30 membri di consigli municipali. I ballottaggi, se necessari, si terranno il 19 novembre. Questa è la sesta legislatura da quando si svolsero le elezioni sulla scia delle primavere arabe e della rivolta popolare in Bahrain per la democrazia nel febbraio-marzo del 2011, chiusa nel sangue dalla repressione compiuta da re Hamad con l’intervento contro il campo di tende in Piazza della Perla a Manama di 500 poliziotti degli Emirati e di mille soldati sauditi. In quella occasione e nelle settimane successive furono uccisi decine di manifestanti,,e centinaia arrestati. In 11 anni non c’è stato alcun miglioramento, malgrado qualche breve periodo di dialogo tra la monarchia sostenuta dalla minoranza sunnita, che da sempre ha il controllo del Bahrain, e la maggioranza sciita. Nel 2015 Al Wefaq, il più grande partito sciita, che aveva sempre ottenuto tra i 15 e i 18 seggi nella Camera bassa, è stato dichiarato illegale e i suoi leader arrestati. Le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno e gli oppositori restano in carcere - i più noti sono Abduljalil Al Singace, Abdulhadi al Khawaja, Naji Fateel e Ali Salman. Alcuni di loro sono stati condannati a morte per “attività terroristiche”. Contro la pena di morte e per il pieno rispetto dei diritti umani e della libertà religiosa si è pronunciato papa Francesco durante il suo recente viaggio nel piccolo arcipelago nel Golfo. La monarchia Al Khalifa gode del pieno sostegno degli altri regnanti sunniti del Golfo, a cominciare dalla famiglia reale saudita. Determinante è l’appoggio di Usa e Gran Bretagna. Il Bahrain, in una posizione strategica tra l’Arabia saudita e l’Iran, ospita la V Flotta americana e altre basi militari occidentali. Forte dell’alleanza con gli altri monarchi arabi e l’Occidente, re Hamad nega offese ai diritti nel suo paese. Piuttosto, afferma, i problemi del Bahrain sono causati dalle “attività sovversive” sostenute dall’Iran. Le elezioni di oggi, aggiunge il governo, hanno il maggior numero di candidati nella storia del regno, 561 dei quali 107 donne. Un sondaggio prevede la percentuale dell’affluenza alle urne tra il 63% il 69%. Le forze dell’opposizione, anche dall’estero, chiamano al boicottaggio di quello che descrivono come “voto-farsa”. “Le elezioni parlamentari del Bahrain” denuncia Amna Guellali, vicedirettrice regionale di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa “si terranno in una atmosfera di repressione politica dopo un decennio in cui le autorità hanno violato i diritti umani, soggiogato la società civile, bandito i partiti politici di opposizione e chiuso i media indipendenti. E da quando le autorità hanno chiuso il quotidiano indipendente al-Wasat nel giugno 2017, tutte le televisioni, le radio e i giornali del paese sono filogovernativi o controllati dal governo”.