Appello. Fermiamo la strage dei suicidi in carcere. Qui ed ora… si può! Il Dubbio, 11 novembre 2022 76 morti in poco più di 10 mesi. È il numero di suicidi in carcere registrati fino ad oggi. Un record lugubre, terribile, inaccettabile. Mai prima d’ora era stato raggiunto questo abisso e per questo Il Dubbio vuole lanciare un appello alle istituzioni, all’intellettualità e alla politica per fermare questa strage. Sappiamo bene cosa si dovrebbe fare per evitare o contenere questo massacro quotidiano: depenalizzare e considerare il carcere solo come extrema ratio, moltiplicare le pene alternative, dare la possibilità al cittadino detenuto di iniziare un vero percorso di inclusione nella comunità. Chi è in custodia nelle mani dello Stato dovrebbe vivere in spazi e contesti umani che rispettino la sua dignità e i suoi diritti. Chi è in custodia dello Stato non dovrebbe togliersi la vita! Insomma, sappiamo bene, perché ne discutiamo da anni, da decenni quali siano le strade per fermare la strage, ma la politica, quasi tutta la politica, è sorda perché sul carcere e sulla pelle dei reclusi si gioca una partita tutta ideologica che non tiene in nessun conto chi vive “dentro”, oltre quel muro che divide i “buoni” dai “cattivi”. Insomma, non c’è tempo: il massacro va fermato qui ed ora. E allora proponiamo una serie di interventi immediati che possano dare un minimo di sollievo al disagio che i detenuti vivono nelle carceri “illegali” del nostro Paese. 1. Aumentare le telefonate per i detenuti. È sufficiente modificare il regolamento penitenziario del 2000, secondo cui ogni detenuto (esclusi quelli che non possono comunicare con l’esterno) ha diritto a una sola telefonata a settimana, per un massimo di dieci minuti. Bisognerebbe consentire ai detenuti di chiamare tutti i giorni, o quando ne hanno desiderio, i propri cari. 2. Alzare a 75 giorni i 45 previsti a semestre per la liberazione anticipata. 3. Creare spazi da dedicare ai familiari che vogliono essere in contatto con i propri cari reclusi per valorizzare l’affettività. 4. Aumentare il personale per la salute psicofisica. In quasi tutti gli istituti vi è una grave carenza di psichiatri e psicologi. 5. Attuare al più presto, con la prospettiva di seguire il solco delle misure alternative, quella parte della riforma Cartabia che contempla la valorizzazione della giustizia riparativa e nel contempo rivitalizza le sanzioni sostitutive delle pene detentive. I firmatari Roberto Saviano, scrittore Gherardo Colombo, ex magistrato Luigi Manconi, sociologo Giovanni Fiandaca, giurista Massimo Cacciari, filosofo Fiammetta Borsellino Mattia Feltri, giornalista Francesca Scopelliti, Fondazione Tortora Walter Verini, commissione Giustizia Senato Anna Rossomando, vicepresidente del Senato Mariolina Castellone, vicepresidente del Senato Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino Marco Cappato, Associazione Luca Coscioni Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace Riccardo Polidoro, osservatorio carcere Ucpi Gianpaolo Catanzariti, osservatorio carcere Ucpi Michael L. Giffoni, ex ambasciatore italiano Paolo Ferrua, giurista Giovanni Maria Pavarin, presidente Tribunale di Sorveglianza di Trieste Tommaso Greco, filosofo Tullio Padovani, giurista Ornella Favero e Redazione di Ristretti Orizzonti Rossella Favero, Cooperativa AltraCittà 76 suicidi da inizio anno: mai così tanti. In prigione è morta anche la speranza di Stefano Anastasìa Il Riformista, 11 novembre 2022 Gli ultimi a Torino e Reggio Calabria. Sono il 51 per cento delle morti tra i detenuti nel 2022, neppure questo era mai successo. Nelle nostre prigioni non c’è più speranza, solo disperazione. E volete costruirne di nuove? Secondo i dati raccolti da Ristretti orizzonti nel suo dossier Morire di carcere, con gli ultimi tragici casi di Torino e Reggio Calabria, siamo a 76 suicidi accertati nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno, il numero più alto di sempre (solo nel 2009 a fine anno i suicidi superarono le 70 unità, fermandosi però a 72). I suicidi costituiscono il 51% dei casi di morte registrati in carcere nel corso dell’anno, e anche questa è una percentuale mai così alta dall’inizio del secolo (non era mai arrivata al 50%, solo il 2018 registrò un 45% di suicidi sul totale dei morti in carcere nel corso dell’anno). Ogni caso è caso a sé, con la storia di quella persona e della sua disperazione, ma il dato generale è impressionante ed è indice di una generale mancanza di speranza nelle nostre carceri. Salvo poche, ammirevoli, esperienze di sostegno e accompagnamento al reinserimento sociale, la grande maggioranza dei detenuti e delle detenute vive la carcerazione come un periodo più o meno lungo di abbandono. Se le stelle non si allineano in cielo (una forte motivazione personale e una solida rete di sostegno familiare fuori, personale penitenziario quantitativamente adeguato e qualitativamente capace e motivato in istituto, un territorio ricco e capace di accogliere e accompagnare una persona proveniente dal carcere, una magistratura di sorveglianza sensibile e determinata a scommettere sulle alternative alla detenzione e l’ufficio di esecuzione penale esterna che ce la fa), senza questa congiunzione astrale favorevole, la gran parte dei detenuti e delle detenute sono costrette ad aspettare l’ultimo giorno di pena per venirne fuori, spesso avendo perso legami affettivi e familiari, talvolta un lavoro, sempre un po’ di salute e di fiducia in se stessi. In quel momento, quando il “liberante” si affaccia sulla soglia del portone del carcere, con la sua busta di masserizie residue di anni o mesi di detenzione, spesso senza sapere dove andare, in ognuno di quei momenti si consuma una sconfitta dello Stato, incapace di attuare l’articolo 27 della Costituzione che obbliga le istituzioni, con il concorso della società esterna, ad accompagnare il condannato nel reinserimento sociale, avendogli offerto mezzi e strumenti per una vita diversa. Invece sappiamo che il 30 giugno scorso, 7.658 dei 38.959 condannati in via definitiva scontavano pene inferiori ai tre anni, generalmente ammissibili ad alternative alla detenzione, e addirittura 6.996 avevano un residuo pena inferiore a un anno, prossimi quindi a raccogliere le proprie masserizie per andarsene, eppure ancora in carcere. Paradossalmente, l’emergenza pandemica dava più stimoli a sopravvivere, facendo sentire i detenuti, seppure chiusi in carcere, parte della società esterna, anch’essa alle prese con la prevenzione e la cura del virus. Ma oggi il carcere è tornato a essere un luogo di isolamento e di disperazione, e il numero di suicidi ne è una drammatica testimonianza. Sulla carta, quel che andava fatto è stato fatto: un piano nazionale di prevenzione del rischio suicidario, decine di piani regionali, centinaia di piani per ogni singolo istituto. Ma la carta non basta, e neanche l’abnegazione degli operatori, a cui non è possibile imputare, a ciascuno di essi singolarmente, la responsabilità di una morte scelta volontariamente da una persona disperata. Se non vogliamo rassegnarci a questa tragedia, o scaricarne la responsabilità sugli operatori penitenziari e sanitari in trincea, bisogna veramente ridurre il carcere a extrema ratio e aprirlo alle attività e al mondo esterno. In questo modo, solo in questo modo il sistema penitenziario può farsi carico di chi debba effettivamente scontare una pena in carcere, e magari - con il concorso della società civile e degli enti territoriali - offrirgli le condizioni per un migliore reinserimento sociale. Ancora nei giorni scorsi abbiamo risentito la solita litania: bisogna costruire nuove carceri per ridurre il sovraffollamento. Ma perché? Per tenere in carcere anziani malati condannati a pochi mesi di carcere, o giovani soli o indisciplinati? Il carcere in Italia è un grande ospizio dei poveri. Gli autori di gravi reati contro la persona o in associazione con organizzazioni criminali non arrivano a 30mila unità. Perché tenerne in carcere 56mila, e domani 60 e dopodomani 70, come qualcuno pensa sia giusto prevedere? Per dare al carcere la funzione che fu dei manicomi, di custodire la devianza e la marginalità sociale, allora etichettata come folle, oggi come criminale (quando non l’una e l’altra cosa insieme)? 30mila o 70mila detenuti? Che società vogliamo essere? Extrema ratio o ospizio dei poveri? Investire nel reinserimento sociale o nella costruzione di nuove carceri? Dalla risposta a queste domande vengono tutte le scelte politiche successive, e anche la chance di restituire ai detenuti la speranza in un futuro degno di essere vissuto. *Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale per la Regione Lazio, Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà Colonia penale per poveri ed emarginati: ecco cos’è il carcere di Marco Chiavistrelli* Il Riformista, 11 novembre 2022 Il carcere non è per il popolo italiano ma per una minoranza precisa, con una reiterazione del prelievo “delinquenziale” costante nel tempo e nello spazio sociale. Il carcere è una colonia penale per poveri e altre minoranze emarginate. I detenuti oggi sono circa 56.000. Credo che i più pensino che andare in carcere sia un fatto casuale, di tendenza soggettiva, per cui - per esempio - se in un Paese ci sono 20 persone di cui 10 coi capelli neri e 10 coi capelli rossi in carcere troverai 2 coi capelli neri e 2 coi capelli rossi. Poi negli anni a venire ci sarà magari qualche oscillazione, 3 e 1, e così via. La delinquenza sarebbe soggettiva, quindi casuale e colpirebbe in modo similare più o meno tutti i colori dei capelli, i ceti sociali. Ma ci accorgiamo che non è così, in carcere trovi quasi sempre una maggioranza schiacciante di cittadini coi capelli neri e non un anno a caso, ma sempre. Mistero? No. Secondo le statistiche il 90% dei carcerati è povero, cioè è assunto da quella fetta di popolazione italiana che vive sotto la soglia di povertà (Istat) che, attenzione, è solo il 6%, cioè 5 milioni di poveri che forniscono il 90% dei carcerati, cioè 50.400 persone che dovrebbero essere 3.300 per percentuale effettiva. Ma dei 5 milioni, 3 e mezzo sono italiani, mentre 1 milione e mezzo sono immigrati irregolari e stranieri, che sono l’8% della popolazione che vive in Italia ma incidono, con circa 17.800 presenze, al 32,4% sulla popolazione carceraria. Ma, attenzione, potremmo pensare che gli stranieri, gli africani delinquono di più ma la percentuale di povertà in loro è del 30% per cui se usiamo la povertà come base, la percentuale di delinquenza è sempre il famoso glaciale 1%. Per i 3 milioni e mezzo di italiani, poveri al 6%, e per il milione e mezzo di stranieri, poveri al 32,4%, esce lo stesso 1% di carcerazione, cioè abbiamo una legge matematica: qualsiasi gruppo povero delinque all’1%. Non c’entra il colore della pelle ma della povertà, che accomuna tutti in un simile destino. È dimostrato che gli immigrati se accolti delinquono meno degli italiani, felici del risultato raggiunto. Nella parte di popolazione superiore alla soglia di povertà, la probabilità nella propria vita di impattare il carcere è di 1 su 12.000! Mentre 5 milioni di nati male hanno una probabilità di 1 su 100 di finire dentro e forniscono 50.400 detenuti su 56.000. I restanti 55 milioni di italiani “comodi”, non ricchi ma nemmeno disgraziati, forniscono solo 4.600 detenuti o poco più, 1 su 12.000! Ma vi sembra normale? Non bisognerebbe fare qualcosa? Quindi, a parte un 10% di detenuti casuali per provenienza in cui è più alto il contenuto soggettivo del crimine perché non motivato dall’indigenza, il carcere non è per il popolo italiano, è una colonia penale per poveri, per indigenti. Perché se il crimine fosse soggettivo, di indole, i 5 milioni di poveri cristi fornirebbero pochissimi carcerati, poco più di 3.000 mentre superano quota 50.000! Quasi tutti! Passiamo ora a un’analisi che ci spieghi l’origine dei detenuti per condizione scolastica. Uno pensa che cosa c’entra la scuola? Se sei cattivo, se propendi a delinquere, in carcere troverò un po’ di tutti secondo percentuale. Ma, statistiche ministeriali alla mano, l’83% dei detenuti italiani, 45.650, ha una formazione scolastica bassissima: medie o solo elementari o senza aver mai studiato o analfabeta. Ma come percentuale di popolazione dovrebbero essere solo 9.900 in carcere. Attenzione: su 56.000 detenuti i laureati sono solo 1.100, il 2%, ma in Italia sono il 20% e per logica dovrei trovarne 11.000 in carcere. E i diplomati? Sono 8.250 in galera, il 15%, ma dovrebbero essere 34.100 se il crimine fosse casuale e soggettivo, perché sono il 62% della popolazione. Quindi c’è un nesso catastrofico tra livello di istruzione e carcere che è una colonia penale per pochi milioni di poveri e non istruiti. Allora, se si aiutasse la povertà e l’istruzione i carcerati sarebbero pochissimi. Ancora, uno pensa: Nord e Sud saranno rappresentati in carcere secondo la loro percentuale di abitanti. Ma no: il 46% dei detenuti, 25.300, è meridionale, anche se quelle stesse regioni hanno solo il 25% della popolazione italiana; quindi, forniscono un contributo di 11.500 detenuti in più alla comunità carceraria. Sono più delinquenti? No, sono più poveri in percentuale (gli indicatori mostrano più povertà al Sud) e riempiono di più le galere rispettando quel famoso 1% dei poveri che delinquono ovunque nella stessa maniera: una legge matematica. Quindi, il carcere non è per tutti, e per i poveri, non istruiti e soprattutto meridionali. Un incubo. *Cantautore Le carceri sempre più sovraffollate e “rifugio dei deboli” di Nunzio Smacchia Gazzetta del Mezzogiorno, 11 novembre 2022 Si deve intervenire quanto prima sul decongestionamento, se si vuole evitare un aggravamento delle inquietudini e delle tensioni esistenti all’interno degli Istituti, che porti a un processo di “normalizzazione” fatto di sicurezza e governabilità. Il nuovo governo è chiamato a risolvere, almeno in parte, le molte problematiche che esistono all’interno degli Istituti penitenziari: il sovraffollamento, i suicidi e i detenuti in attesa di giudizio. Il Carcere è abitato dai più “indifesi”, dai più deboli, dai “rifiutati”, è diventato un luogo in cui i veri criminali vanno sempre meno e dove si accalcano gli esclusi e i più fragili. Tra questi ci sono senza dubbio i tossicodipendenti, anche se gli studiosi, e non solo loro, si battono per estrometterli dalle galere per la loro specificità soggettiva. Questi disastrati spesso vogliono stare dentro, perché fuori la società non li vuole più accogliere, non comprende il loro disagio psicologico, lasciandoli in balìa di se stessi. Si deve intervenire quanto prima sul decongestionamento, se si vuole evitare un aggravamento delle inquietudini e delle tensioni esistenti all’interno degli Istituti, che porti a un processo di “normalizzazione” fatto di sicurezza e governabilità. La piaga che negli ultimi tempi si sta allargando sempre di più è quella dei suicidi. Molti detenuti, negli ultimi tempi, pur essendo di sana e robusta costituzione, non avendo nemmeno problemi psichiatrici, si sono suicidati: alcuni, sfilando i lacci delle scarpe, hanno formato un cappio delle dimensioni del loro collo, altri si sono impiccati o si sono tagliati le vene. È il “male oscuro” che opprime i carcerati, ma anche coloro che sono chiamati a sorvegliarli. Le statistiche suicidarie sono in stretta correlazione con il sovraffollamento, che è, purtroppo, una triste realtà e costituisce una concausa. Il dato inaspettato e più sconcertante è quello che misura la distanza temporale tra il gesto definitivo e il fine pena. Contrariamente a ciò che si può pensare, i più deboli non sono quelli che hanno davanti l’ergastolo o condanne lunghissime, ma coloro ai quali manca poco alla fine della detenzione. Perché allora decidere di togliersi la vita, di farla finita? La verità è che soffrono la paura del rientro in società, hanno timore del reinserimento soprattutto quando si è indigenti, o non si ha nessuno che li aspetti fuori, e che quindi sono sicuri di essere condannati a una vita da reietti. Su un dato bisogna riflettere: l’età media è intorno ai 37 anni. Il che significa che i giovani sono meno capaci di affrontare la carcerazione, si rendono conto di finire nel vicolo cieco dell’inutilità. Sono consapevoli che il tema Carcere è diventato marginale, che la politica non se ne interessa e che non è più al centro della discussione pubblica; tutto questo porta alla frustrazione e alla consapevolezza che si trasforma in ozio, l’ozio in disagio e che le corde dell’assoluta emarginazione prendono a vibrare. Molti detenuti non riescono a completare gli studi, perché vengono spostati continuamente da un Istituto all’altro. In Italia il tasso dei suicidi è venti volte superiore a quello della popolazione libera ed è tra i più alti in Europa. Studi recenti hanno evidenziato che ci si suicida alcuni giorni dopo l’ingresso o nei primi mesi. I nuovi entrati sono consapevoli che il carcere è un vero contenitore sociale, dove è rappresentata tutta la fauna della criminalità esistente, un mondo a sé stante, che ha la sua vita, le sue regole ferree che nessuno conosce bene se non si è stati “dentro”. È un invaso altamente criminogeno, un vulcano pronto a esplodere, se non si sanno contenere i malumori e le agitazioni con una politica di intelligente “accomodamento”. Il carcere può continuare a essere una perversione istituzionale, un ricettacolo di alienati, di poveri, di disagiati mentali, una “discarica” umana, come più volte è stato detto. L’ultimo nodo da sciogliere è quello drammatico della carcerazione preventiva che paga la fisionomia strutturale e le difficoltà di funzionamento pratico dovuto all’attuale lentezza dei processi. Questa classe di detenuti, purtroppo, occupa il 42% dell’intera popolazione penitenziaria. Tale assurda incongruenza danneggia i detenuti in attesa di giudizio o di una sentenza definitiva, perché non possono usufruire delle misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario; in molti casi il periodo di carcerazione preventiva paradossalmente finisce per essere pari o addirittura superiore alla pena che verrà inflitta definitivamente con sentenza passata in giudicato. Per non parlare di quei casi in cui alla fine della carcerazione preventiva, lunga o breve che sia stata, il detenuto si vede definitivamente assolto dall’imputazione per la quale è stato in carcere (?!). È un’anomalia indegna di un sistema giudiziario che passa per essere uno di quelli con più alta qualità giuridica al mondo. La detenzione preventiva deve imperativamente mantenere un carattere eccezionale e non deve servire, in alcun modo, come mezzo di pressione per ottenere confessioni. Questa è una spina nel fianco del sistema giuridico-processuale. E sempre nel quadro dei rimedi di “sfoltimento” carcerario è ora di pensare come “controspinta” a un maggior utilizzo e potenziamento dei centri di servizio sociale e delle strutture correlate (Enti locali, cooperative, ecc.), in modo da assicurare operatività alle misure alternative e renderle più “premiali” e meno “clemenziali”. Occorre una “strategia differenziata” tra le forze politiche, legislative e giudiziarie per l’adozione di nuove tipologie di pena, più brevi e meno afflittive, e creare un nuovo equilibrio tra il sistema penale e penitenziario, nella prospettiva di una scrupolosa osservanza della legalità. L'ergastolo ostativo e le pronunce di “incostituzionalità differita” di Vincenzo Vitale L'Opinione, 11 novembre 2022 Da anni, la Corte costituzionale ha inaugurato una particolare tipologia di decisioni: le “decisioni di incostituzionalità differita”. Normalmente, la Corte, se ritenga la illegittimità costituzionale di una norma, la dichiara, abrogandola immediatamente: quella norma cessa di far parte dell’ordinamento giuridico e ne cessano gli effetti. Questo è ciò che prevede la Costituzione e che prescrive la legge istitutiva della Corte: nulla di più e nulla di meno. Nel caso invece della “decisione di incostituzionalità differita”, la Corte dichiara la incostituzionalità di una certa norma, ma blocca gli effetti abrogativi che ne dovrebbero derivare per un certo tempo (un anno o più) esortando il Parlamento ad intervenire allo scopo di evitare la caducazione della norma, seguendo le indicazioni fornite dalla stessa Corte. Evidentemente, la Corte considera ragioni di opportunità prevalenti sulla esigenza di eliminare la norma istantaneamente. I benpensanti - coloro che pensano con la testa altrui - trovano ovvia questa procedura, senza avvedersi dei problemi enormi che invece essa suscita. So bene che la Corte, nel nostro sistema, partecipa della funzione “normogenetica”, cioè alla produzione delle norme, istituzionalmente riservata al Parlamento e al Governo, anche quando opera in modo fisiologico: anche la semplice abrogazione di una norma, infatti, modifica il quadro normativo in modo radicale. E fin qui, siamo nei limiti del consentito. Lo siamo anche, sia pure con sofferenza, nel caso di decisioni “additive”, allorché la Corte si spinge fino al punto di aggiungere parole ai testi normativi allo scopo di evitarne la caducazione. Non siamo più invece nei limiti consentiti (anche la Consulta incontra dei limiti) in casi come questo, oggi venuto alla ribalta per l’ergastolo ostativo. Cosa è infatti accaduto? Circa due anni fa la Corte giudica illegittima la norma che vieta i benefici penitenziari agli ergastolani per reati di mafia che non abbiano collaborato con gli inquirenti; tuttavia, la lascia sopravvivere, concedendo a Governo e Parlamento un anno di tempo (poi diciotto mesi) per apportare modifiche ad impedirne la caducazione. Il termine fissato scade fra pochi giorni e dunque il nuovo Governo scodella un decreto con un testo nuovo che, seguendo le istruzioni della Corte, dovrebbe scansare ogni censura. Tutto bene? No. Tutto male, malissimo: un horror istituzionale e giuridico, al quale i giuristi, ormai avvezzi ad ogni mostruosità, dovrebbero ribellarsi per almeno tre buoni motivi. Il primo. Operando da tempo con questa disinvoltura istituzionale, la Consulta, ritenendosi al di sopra della stessa Costituzione, la quale non si è mai sognata di attribuirle tali facoltà in spregio alla divisione dei poteri, si propone quale Terza Camera accanto a Camera e Senato; e, per di più, Camera Alta, anzi Altissima, in quanto fornisce indicazioni vincolanti alle altre due che si sentono tenute a seguirle, pena la caducazione delle norme altrimenti approvate. Qui, lo Stato di diritto va a ramengo, perché un organo giurisdizionale quale la Consulta, profittando di fatto di una partecipazione fisiologica all’attività di produzione di norme, la alimenta a dismisura fino a sovrapporsi alle assemblee legislative. Il secondo. A che titolo far sopravvivere nell’ordinamento giuridico una norma dichiarata incostituzionale, congelandone la caducazione in attesa che il Parlamento e il Governo provvedano? Così la Corte fornisce di un inedito lasciapassare giuridico una norma già bollata come illegittima, per il tempo che essa stessa stabilisce, a suo insindacabile piacere. Qui, lo Stato di diritto va ancor di più a ramengo, perché la Corte, vittima di un delirio di onnipotenza, si ritiene assurdamente legittimata a ciò che nessuno potrebbe: far sopravvivere per il tempo che desidera una norma già dichiarata morta. Una norma incostituzionale cui si consente volontariamente di produrre effetti giuridici come nulla fosse: un morto vivente, uno “zombie” giuridico che offende le istituzioni e la compagine sociale. Il terzo. Come si fa a dire ad un ergastolano che la norma che gli inibisce i benefici è incostituzionale e che tuttavia egli deve portar pazienza per un paio d’anni, il tempo necessario per trasformarla in norma legittima? Una perversione giuridica e umana! Anche perché la mancata collaborazione dell’ergastolano potrebbe dipendere dal semplice fatto che egli sia innocente e condannato ingiustamente: lo Stato di diritto è quello che in linea di principio ammette tale possibilità, perché ammette di poter essere nel torto. Qui, a ramengo andiamo tutti noi. Accompagnati per mano da una Consulta ormai fuori controllo e da una coorte di giuristi che preferiscono tacere. Perché? Il carcere a vita è pena di morte lenta di Carmelo Musumeci* Corriere Cesenate, 11 novembre 2022 La Corte costituzionale, con la sentenza del 15 aprile 2021, ha stabilito che la pena dell’ergastolo ostativo è incompatibile con la nostra Costituzione. Adesso a me sembra che, con il decreto legge del nuovo governo, l’ergastolo ostativo diventi ancora più ostativo. Sulla “pena di morte viva”, che ti ammazza lasciandoti vivo, le maggioranze politiche cambiano ma la musica è sempre la stessa. Penso che ci siano alcune persone “perbene”, con mentalità mafiosa, che non commettono reati, ma creano le condizioni per farli commette agli altri. Per questo credo che forse un giorno riusciremo a sconfiggere la mafia che fa reati, ma penso che sarà molto più difficile sconfiggere la devianza di una certa parte dell’antimafia politica che non ha nessun senso della misura e che da decenni non fa altro che produrre altra mafia culturale. Una certa classe politica pensa che si possa sconfiggere il male aggiungendo altro male e da circa 30 anni è convinta che si possano sconfiggere certi fenomeni criminali solo con l’ergastolo ostativo, con il regime di tortura democratico del 41 bis o costruendo altre carceri. Non sanno quanto si sbagliano, perché certi fenomeni non si sconfiggono così, ma dal punto di vista culturale. L’ergastolo ostativo è disumano, perché l’uomo per vivere e morire ha bisogno di sapere che la sua vita un giorno forse sarà diversa o migliore. La pena perpetua è un sacrilegio perché anticipa l’inferno sulla terra e la pena eterna senza possibilità di essere modificata è competenza solo di Dio (per chi crede). L’uomo è l’unico animale che può cambiare, per questo non potrebbe e non dovrebbe essere a prescindere considerato cattivo e colpevole per sempre. La giustizia potrebbe, anche se non sono d’accordo, ammazzare un criminale quando è ancora cattivo, ma non dovrebbe più tenerlo in carcere quando non lo è più. O farlo uscire solo quando baratta la sua libertà con quella di qualcun altro collaborando e usando la giustizia. Se la pena è solo vendetta, sofferenza e odio, come può fare bene o guarire? Voglio ricordare che per chi ha commesso un crimine il perdono fa più male della vendetta. Il perdono lo costringe a non trovare dentro di sé nessuna giustificazione per quello che ha fatto. Ecco perché converrebbe combattere il male con il bene, col perdono, con una pena equa e rieducativa. La pena dell’ergastolo ostativo ti lascia la vita, ma ti divora la mente, il cuore e l’anima. Questa terribile condanna è un omicidio raffinato che vorrebbe salvare le coscienze, ahimè anche di molti cristiani, ma è inumano punire per sempre, senza un fine pena certo. Una punizione che solo in rari casi non è eterna perde di senso e si trasforma in tortura, vendetta e sadismo. E soprattutto questa pena leva il rimorso per qualsiasi male uno abbia commesso, perché le punizioni crudeli e senza futuro fanno sentire innocenti anche i peggiori criminali. Che cosa è “la pena di morte viva”? È una morte al rallentatore. Trasforma la giustizia in vendetta e violenza perché ti toglie tutto, persino la possibilità di morire una volta sola. È, come l’ha definita papa Francesco, una “pena di morte nascosta”, una morte civile che ti tiene in uno stato di sofferenza insopportabile, perché è crudele fare coincidere la fine della pena con la fine della vita. Molti ergastolani non sono più quelli che erano al tempo dell’arresto. Per questo alcuni non capiscono perché debbano continuare a scontare una pena che non finisce mai, per reati che non commetterebbero più. L’ergastolo non offre nessuna possibilità certa, la pena di morte almeno offre la fine della sofferenza. Il carcere a vita è una pena di morte dove il boia è il tempo e vieni ammazzato e torturato ogni secondo, ogni minuto, ogni giorno, ogni anno che passa. L’ergastolo non è come la pena di morte, come pensano in tanti, ma è molto peggio, perché muori rimanendo vivo. *Ex ergastolano ostativo Il degrado delle carceri: una piaga tutta italiana di Roberto Gramola La Voce e il Tempo, 11 novembre 2022 “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”: così Voltaire, il padre dell’illuminismo, nel 1700 si esprimeva circa la necessità che i penitenziari fossero luoghi dignitosi. Sono passati più di tre secoli ma la piaga del degrado dei penitenziari è ancora uno dei nodi cruciali che affligge gran parte dei 192 istituti di detenzione italiani. Se n’è parlato venerdì 28 ottobre nell’aula consiliare di Palazzo Lascaris a Torino durante un seminario sul tema “Architettura vs Edilizia. Le sfide del carcere contemporaneo” promosso dal Bruno Mellano, garante dei detenuti della Regione Piemonte che in apertura ha evidenziato l’assenza della direttrice del carcere di Torino e del Provveditore dell’amministrazione carceraria a causa del suicidio di un detenuto, nuovo giunto, avvenuto nella notte al “Lorusso e Cutugno”. Si aggiunge ai 71 suicidi registrati nel 2022 nei penitenziari italiani senza contare gli agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita, il Corpo di polizia con il più altro tasso di suicidi nel Paese. Un malessere che ha a che fare anche con l’obsolescenza dei nostri penitenziari: Gianluca Gavazza, consigliere regionale, ha sottolineato che la collocazione periferica delle carceri indica chiaramente l’esclusione dei detenuti dal tessuto cittadino come se fossero “malati irrecuperabili. La periferizzazione e la mancanza di spazi impedisce la possibilità ai ristretti di avere luoghi dedicati al lavoro, allo sport, alla scuola e alla organizzazione di iniziative culturali promosse con la cittadinanza libera”. L’atmosfera tetra e alienante dell’edilizia carceraria attuale è la conferma della frattura insanabile fra liberi e reclusi. Sonia Caronni, garante dei diritti dei detenuti del Comuna di Biella, ha presentato due spunti di riflessione: il primo parte dall’art. 27 della Costituzione che insiste “sulla rieducazione della pena volta al reinserimento dei detenuti: imperativo che riguarda anche l’architettura del carcere. Per rieducare è necessario uno spazio che possa contenere più persone che abbiano la possibilità di interagire tra loro e gli operatori. Servono spazi molto ampi per poter lavorare, aule capienti per poter soddisfare il diritto allo studio, dalle scuole primarie alle università e infine locali adatti per gli incontri sulla giustizia riparativa”. Secondo: “Non si può considerare il carcere come un luogo periferico e marginale come accade nella maggior parte dei Comuni che ospitano istituti di pena. Sono necessari spazi che possano essere usufruiti dalla comunità come il carcere di Bollate che ospita una scuola per bambini e bambine figli degli agenti penitenziari e delle donne detenute o come nel carcere di Volterra dove è allestita una mostra d’arte aperta a tutti con la finalità di promuovere cultura e socializzazione nel territorio”. Matteo Negrin, direttore della fondazione “Piemonte dal vivo” e Angelica Corporandi D’Auvare Musy, presidente del “Fondo Alberto e Angelica Musy” hanno illustrato il contributo delle fondazioni che, con il sostegno della Compagnia di San Paolo, sono impegnate a dare un lavoro a chi esce dal carcere e al Polo Universitario per etenuti dell’Ateneo torinese, il primo aperto in Italia e in Europa all’interno di un penitenziario. La proiezione del film del regista iraniano Milad Tangshir “VR Free” realizzato nel carcere di Torino ha offerto ai partecipanti possibilità di entrare al “Lorusso e Cutugno” con una tecnica che consente di immergersi nella realtà virtuale. Hanno poi preso la parola gli architetti che studiano gli spazi degli istituti penitenziari. Cesare Burdese, della Commissione architettura penitenziaria del ministero della Giustizia, ha denunciato “che le strutture carcerarie del nostro Paese violano la norma del dettato costituzionale (art. 27) e sono sempre state concepite con “criteri di quantità e non di qualità”. Inoltre la maggioranza delle carceri hanno un’edilizia che risale a 150 anni fa, salvo rarissime eccezioni: per questo siamo costantemente condannati dall’Unione europea con notevoli esborsi pecuniari per violazioni dei diritti umani. “Le principali criticità che affliggono le nostre carceri sono note da tempo” ha detto l’architetto Burdese “la cronica mancanza di spazi detentivi che conduce al sovraffollamento è una piaga alla quale nessuno ha mai posto rimedio. La mancanza di spazi per attività lavorative, sportive e lo stato di degrado fisico delle strutture denotano una precisa mancanza di volontà di porvi rimedio perché sono interventi che non pagano elettoralmente. Lo stato di abbandono dei servi igienici, ad esempio, che conduce al mancato rispetto del regolamento penitenziario del 2000, aiuta a deprimere e alienare il detenuto e non certo a rieducarlo”. Emanuela Saita, direttore del Master in Psicologia penitenziaria e profili criminologici all’Università Cattolica di Milano ha citato alcuni studi di psicologia che attribuiscono allo spazio una influenza molto importante sulla salute: il benessere del singolo porta al benessere di tutti. “La pena detentiva è una pena corporale, che dà dolore fisico, produce malattie e morte. I sensi delle persone recluse subiscono una trasformazione patologica sin dai primi momenti dell’esperienza detentiva” ha detto Saita citando il libro di Daniel Gonin “Il corpo incarcerato” (Mondadori). Il dolore che si patisce in carcere porta a un rischio suicidario 13 volte superiore alla media della popolazione esterna. I soggetti più a rischio sono i giovani, agli anziani e gli stranieri e pure gli stessi operatori penitenziari. Lo spazio ristretto del carcere crea uno stress così forte che favorisce la violenza e il desiderio di togliersi la vita ha avvertito la psicologa. È poi intervenuto Davide Ruzzon, docente di Composizione architettonica all’Università Iuav di Venezia, che ha spiegato come “la scienza abbia dimostrato in modo incontrovertibile che le lunghe frequentazioni di spazi ristretti e con scarsa luce producono cambiamenti biologici, fisiologici e strutturali permanenti. Gli stessi materiali usati per costruire le carceri sono talmente poveri che fanno pensare ai detenuti di vivere in un garage”. L’architetto Marella Santangelo, docente all’Università Federico II di Napoli ha rimarcato i diritti negati nelle carceri. “La cronica mancanza di spazi porta proprio alla negazione della affettività che invece è riconosciuta nella maggioranza delle carceri europee. In Italia non c’è bisogno di nuovi Istituti ma bisogna modificare quelli esistenti aggiungendo nuovi spazi più consoni alla permanenza dei detenuti” Le ha fatto eco Giulia Mantovani, docente di Diritto processuale penale presso l’Università di Torino che, citando la riforma penitenziaria del 1975 in cui si insiste sull’umanità della pena e della qualità della vita carceraria, ci deve essere una relazione stretta tra le funzioni assegnate alla pena e l’architettura penitenziaria. Le soluzioni architettoniche “possono essere decisive tra il rapporto delle esigenze di sicurezza e delle esigenze trattamentali”. Un primo passo è stato fatto con l’abbandono degli ospedali psichiatrici giudiziari e la collocazione degli autori del reato psichicamente infermi in residenze per le misure di sicurezza. Ma è importante che venga applicata la legge n. 354 in cui si dettano le regole per una nuova architettura carceraria sugli spazi “per l’umanità della pena che non si limita solo allo spazio accordato al detenuto ma alla qualità della vita con spazi per la cultura, sport, lavoro, funzioni religiose e l’affettività per ora negata. L’esecuzione penale non è solo il carcere ma molto importanti sono le pene alternative a cui la magistratura di Sorveglianza dovrebbe accedere in modo più massiccio”. Le conclusioni al garante Bruno Mellano che ha fatto notare come in Piemonte esiste un carcere ricavato da un ex convento nel centro di Fossano e che soddisfa pienamente l’art. 27 della Costituzione. “La speranza è che con i fondi pubblici si possano riadattare le vecchie strutture carcerarie del Piemonte, unici edifici che possano fornire spazi fedeli al dettato Costituzionale perché posti nel cuore delle città”. Tra le esperienze straniere, merita ricordare il Carcere di Bastoy in Norvegia in linea con il pensiero di Papa Francesco che sostiene da sempre che “la pena non deve compromettere il diritto alla speranza, ma deve garantire e prospettive di riconciliazione e reinserimento. Mentre si rimedia agli sbagli del passato, non si può cancellare la speranza nel futuro”. Bastoy è un carcere di “minima sicurezza” in cui vivono 115 fortunati detenuti, semplici abitanti di un’isola a 75 km a sud di Oslo, senza celle e senza sbarre. “Liberi di crescere”, così la Fondazione Con i Bambini sostiene i figli minori dei detenuti di Chiara Ludovisi redattoresociale.it, 11 novembre 2022 Pubblicato il bando: 10 milioni per progetti che sostengano lo sviluppo personale e il protagonismo dei ragazzi e delle ragazze e aiutino i detenuti a svolgere la loro funzione genitoriale. Rossi-Doria: “La pena deve essere occasione di cambiamento positivo”. Scadenza il 10 febbraio. 10 milioni per i figli dei detenuti: tante sono le risorse messe a disposizione dal nuovo bando di Coi i bambini, “Liberi di crescere”, promosso nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Ogni anno sono decine di migliaia i minorenni che entrano in un istituto penitenziario per fare visita a un familiare detenuto. Per esattezza, nel 2021 in Italia si sono svolti 280.675 colloqui tra detenuti e almeno un familiare minorenne. Attraverso questo bando Con i Bambini si propone di promuovere processi di crescita e di integrazione sociale dei minorenni figli di detenuti e di garantire la continuità del legame affettivo con i genitori che vivono la condizione detentiva, arginando gli effetti negativi prodotti dalla separazione all’interno del contesto familiare. Tali effetti, infatti, si riversano sugli equilibri emotivi e relazionali e sullo sviluppo dei figli, portando a possibili ricadute negative sulla salute e sullo sviluppo cognitivo, sul sereno e regolare accesso ai percorsi scolastici e sulla tendenza a entrare nei circuiti dell’illegalità. “Su questo articolato e delicato tema vi sono almeno due diritti fondamentali che vanno assolutamente tutelati e garantiti: quelli dei bambini e delle bambine ad avere una crescita sana e ad avere un normale rapporto con i propri genitori, e quello delle persone detenute che, nonostante lo stato di detenzione, devono poter svolgere la loro funzione genitoriale” sottolinea Marco Rossi-Doria, presidente di Con i Bambini. “Con i Bambini, con questo bando - aggiunge Rossi-Doria - intende contribuire a evitare che siano i bambini e bambine, ragazzi e ragazze a pagare un prezzo inaccettabile per le condizioni dei genitori detenuti, a offrire a questi ultimi la possibilità di esercitare bene la loro funzione anche da detenuti, a dire a tutta la società che la pena deve essere occasione di cambiamento positivo. Questo avviene attraverso un necessario accompagnamento di educatori e operatori qualificati, mettendo in rete tutti gli attori coinvolti, organizzazioni di terzo settore e istituzioni. Anche per questo bando, abbiamo previsto la valutazione d’impatto degli interventi”. I progetti finanziati dovranno assicurare l’accesso a eque e significative opportunità di socializzazione e di integrazione ai minorenni con almeno un genitore detenuto, mediante percorsi di accompagnamento socio-educativo, di inclusione scolastica ed extra-scolastica, di costruzione di progetti di sviluppo personale e di protagonismo dei ragazzi e ragazze stessi, che, se adeguatamente sostenuti da agenzie educative competenti, possano ridurre l’impatto negativo che l’esperienza detentiva della madre e/o del padre esercita sul loro processo di crescita. Gli interventi dovranno, inoltre, favorire un ruolo attivo e consapevole dei genitori detenuti nella crescita e nell’educazione dei figli e prevedere interventi volti a mantenere e a tutelare la relazione genitore-figlio durante il periodo di detenzione del genitore. Si raccomanda, inoltre, l’adozione di procedure dedicate alla tutela dei minorenni dai rischi di abuso, maltrattamento, sfruttamento e condotta inappropriata (“child safeguarding policy”) da parte degli operatori. Il partenariato deve essere composto da almeno tre organizzazioni, con un ente di terzo settore in qualità di responsabile. I partner possono appartenere, oltre che al mondo del terzo settore e della scuola, anche a quello delle istituzioni, dei sistemi regionali di istruzione e formazione professionale, dell’università, della ricerca e al mondo delle imprese. Salvo nel caso la proposta preveda l’avvio di una nuova casa famiglia protetta, il partenariato deve includere l’istituto penitenziario con il quale si collaborerà per l’individuazione dei beneficiari e l’implementazione delle attività progettuali. Nessun partner, con la sola eccezione delle università e dei centri di ricerca, delle amministrazioni locali e degli istituti penitenziari, potrà partecipare a più di un progetto, pena l’esclusione di tutti i progetti in cui esso è presente. Le proposte di progetto devono essere presentate esclusivamente on line, tramite la piattaforma Chàiros, raggiungibile tramite il sito internet di Con i bambini, entro il 10 febbraio 2023. Il contesto - Secondo le statistiche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) del Ministero della Giustizia, al 31 dicembre 2021 la popolazione carceraria ammontava a 54.134 detenuti (2.237 di genere femminile) dei quali 24.908 genitori. Considerando il numero di detenuti genitori e il numero di figli per ciascuno di essi, si stima che approssimativamente, in Italia fossero circa 56.000 le persone di minore età coinvolte in situazioni di detenzione genitoriale. Dal punto di vista legislativo, in più occasioni si è posta l’attenzione sul diritto dei minorenni a ricevere assistenza materna con continuità e in un ambiente familiare. La legge n. 40 del 2001 (conosciuta come “Legge Finocchiaro”) ha inserito attenuanti di pena per le madri detenute con figli di età inferiore a 10 anni, come la detenzione domiciliare speciale e la possibilità di assistenza all’esterno dei figli minori. Tali misure, tuttavia, non sempre risultano applicabili, soprattutto per le detenute socialmente deboli o in condizioni di particolare fragilità. Proprio per superare i limiti posti dalla precedente legislazione, con la legge n. 62 del 2011 è stata disposta l’istituzione degli Icam (“Istituti a custodia attenuata per detenute madri”) e delle case protette, con l’obiettivo di creare speciali strutture pensate per poter ricreare un’atmosfera prossima a un normale ambiente familiare. Anche per effetto delle misure straordinarie previste in seguito alla pandemia, al 31 maggio 2022 erano 17 le detenute madri con figli al seguito, per un totale di 18 bambine e bambini presenti negli istituti penitenziari, ovvero nelle sezioni nido e nei cinque ICAM presenti in Italia. Nonostante quanto contenuto nella legge del 2011, le risorse pubbliche per creare contesti detentivi attenuati sono insufficienti e ad oggi si contano solo due case protette (a Roma e a Milano), inaugurate su iniziativa delle pubbliche amministrazioni, ma gestite dal terzo settore. Per sopperire a tale deficit, la legge di bilancio del 2020 ha previsto una dotazione di 4,5 milioni di euro per il triennio 2021-2023 in favore delle Regioni, con lo scopo di finanziare l’apertura di case famiglia protette. Se io fossi Carlo Nordio di Pietro Di Muccio de Quattro L'Opinione, 11 novembre 2022 Se io fossi Carlo Nordio, non aspetterei che la finestra di opportunità si chiudesse alle spalle come la porta del ministero. Sarei ben consapevole d’incarnare la speranza. Da trent’anni fanno a cornate garantisti e giustizialisti, due categorie sbagliate perfino nei nomi che non significano nulla e dicono nulla se non ai tifosi dei due tori da talk-show. Chi mi conosce e mi apprezza, nutre verso di me i migliori sentimenti e la migliore predisposizione. La mia vita di magistrato, quello che ho detto e scritto, dentro e fuori delle sentenze, sta lì a comprovare che bisogna poter credere alla giustizia come essa è rappresentata dalla statua nei palazzi dei tribunali: una dea bellissima, bendata, che impugna una spada e regge una bilancia. Ebbene la bellezza, la dea italica l’ha persa da un pezzo; la benda le consente di vederci bene o nient’affatto, a discrezione; la spada è sdentata o tagliente a seconda dove colpisce; la bilancia, ah la bilancia, è un vero problema! Perciò, se io fossi Carlo Nordio mi sentirei un grande restauratore e comincerei dal volto della dea, ma non con un semplice make-up, piuttosto con una bella stirata, con una plastica levigante, da farne una star hollywoodiana. Le darei una freschezza giovanile. E un sorriso meno arcigno. Vorrei conferirle una serenità compiaciuta di aver fatto innamorare i giusti, che scappano davanti a quei tori. Poi le regalerei una frusciante benda di seta fittamente tessuta, trama e ordito impenetrabili, in modo che non potesse vedere proprio nulla, né luce, né cose, né persone. Preciso meglio: in modo che non potesse distinguere gli abiti degli avvocati difensori, dei testimoni, dei colpevoli e delle vittime. Senza vista, sarebbe costretta a concentrare l’attenzione sul senso dell’udito e far tesoro delle argomentazioni soltanto, quelle volte che esistono. Così non riconoscerebbe neppure il pubblico ministero, senza poterlo guardare in faccia. La spada la terrei sempre affilata e pulita, affinché cadendo dove deve cadere, non faccia più male del dovuto e non infetti la ferita del colpito. Quanto alla bilancia, la farei tarare elettronicamente e metterei i piatti in perfetto equilibrio perché l’equilibrio è, alla fin fine, l’essenza della “giustizia del diritto”, opposta alla “giustizia della politica”, tant’è che l’applicazione pratica la chiamano giurisprudenza. Se fossi Carlo Nordio rivoluzionerei la giustizia civile, che tanto civile non pare perché son secoli che viene invocato il processo orale mentre anche le bagattelle esigono carte da distruggere intere foreste. Se io fossi un così stimato ministro, scelto provvidamente dal nuovo Governo, vorrei un giudice di pace degno del nome, che dovrebbe fare giustizia come in antico il saggio sotto una quercia. Adesso dovrebbe essergli appesa alle spalle, non più la ridicola e pretenziosa targa “la legge è uguale per tutti”, bensì “sono vietate le carte, ogni rivendicazione solo a voce”, consentendo ai cittadini anche di patrocinarsi finalmente da sé, se vogliono. E se fossi davvero lo stimato ministro Carlo Nordio non dimenticherei di restituire alla giurisdizione tutti i magistrati annidati negli uffici del ministero. Gli ricorderei che il nostro comune editore Liberilibri ha pubblicato il pamphlet “L’ideologia italiana” dove sta scritto che “non esiste separazione dei poteri senza separazione degli uomini di potere”. Un giurista liberale chiamato al ministero della Giustizia dovrebbe farne tesoro. I giudici di Milano all’Ocse: “In Italia esiste il giusto processo” di Simona Musco Il Dubbio, 11 novembre 2022 L’Organizzazione aveva criticato la giustizia italiana per l’alto numero di assoluzioni nei processi per corruzione internazionale, in primis Eni-Nigeria. I presidenti di Tribunale e Corte d’Appello: “Accettiamo le critiche, non le delegittimazioni”. È la “cultura della ricerca della prova”, bellezza. Il presidente facente funzione del Tribunale di Milano Fabio Roia e il presidente della Corte d’Appello Giuseppe Ondei rispediscono al mittente le accuse formulate dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che aveva criticato i giudici italiani - e in particolare quelli meneghini - per l’eccessivo tasso di assoluzioni nei processi per corruzione internazionale. Un’accusa tacciata sia dalla magistratura sia dalla politica come una indebita invasione di campo, una mossa partita come difesa d’ufficio dei magistrati che hanno rappresentato l’accusa nel processo Eni-Nigeria e che è finita col minare la cultura dell’indipendenza della stessa magistratura. Per Roia e Ondei - che hanno inoltrato la missiva anche al ministro della Giustizia Carlo Nordio e al Csm -, se si può accettare “ogni critica alle sentenze pronunciate”, tali critiche non possono debordare “in un ulteriore grado di giudizio surrettiziamente introdotto che delegittimi le decisioni adottate secondo le regole del giusto processo italiano”. Nel suo rapporto, l’Ocse aveva criticato l’Italia innanzitutto per aver assolto troppa gente: gli ultimi sette processi per corruzione internazionale si sono chiusi con cinque assoluzioni, una sesta parziale e una condanna. E in particolare, il gruppo di lavoro aveva portato ad esempio il procedimento Eni-Nigeria, conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati e una scia di critiche ai magistrati Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, che ora rischiano il processo a Brescia per la gestione delle prove di quel procedimento. Per l’Ocse, invece, sarebbero proprio loro due a dover essere presi come esempio. Una conclusione alla quale l’organizzazione è giunta senza valutare l’enorme mole di atti del processo, che ha richiesto 45 udienze istruttorie e 13 udienze dedicate alla discussione e le cui prove erano contenute in 40 faldoni. L’errore dei giudici, secondo l’Ocse, sarebbe quello di non aver considerato “contemporaneamente la totalità delle prove fattuali”, valutando “ciascun elemento di prova solo singolarmente”. Parole che ricalcano in maniera quasi pedissequa le considerazioni fatte mesi fa da De Pasquale nel proprio appello contro le assoluzioni, appello al quale la procura generale ha poi rinunciato, non senza qualche polemica nei confronti dei pm che hanno rappresentato l’accusa in primo grado. L’Ocse ha anche criticato lo “standard di prova molto pesante nei casi di corruzione all’estero” richiesto dalla giustizia italiana. Parole, spiegano i vertici degli uffici giudiziari milanesi, che “stupiscono” perché così si ritiene che “nella migliore delle ipotesi” i giudici non siano “adeguatamente capaci nella valutazione del materiale probatorio” e “troppo esigenti sul piano della richiesta di una consistenza probatoria”. Roia e Ondei hanno dunque difeso “l’impegno e la professionalità dei giudici chiamati a celebrare processi di grande impatto mediatico, di rilevanza internazionale ma che necessariamente devono seguire delle precise regole di giudizio e di civiltà giuridica non derogabili neppure per questioni, peraltro condivisibili, che riguardano il contrasto alla corruzione nazionale e internazionale”, si legge ancora nella lettera. I due magistrati hanno difeso il metodo di valutazione della prova, ricordando “come l’ordinamento costituzionale e penalistico prevedano primariamente una lettura del singolo indizio per accertarne la matrice ontologica e per depurarlo dalla categoria metagiuridica del sospetto e quindi una valutazione in punto di consistenza, precisione, unidirezionalità e ciò nell’ambito del principio del libero convincimento del giudice, controllato attraverso la logicità e coerenza della motivazione e validato attraverso tre gradi di giudizio esperibili da tutte le parti processuali”. E in ogni caso, hanno ricordato, per valutare gli indizi ci sono “tre gradi di giudizio esperibili da tutte le parti processuali”. Ma quello che l’Ocse non ha calcolato è anche il principio della responsabilità penale “al di là di ogni ragionevole dubbio” e che “gli indicatori di pesatura probatoria” non possono “variare a seconda della difficoltà del reato da accertare”, pur “comprendendo la problematicità di provare un patto corruttivo fra due o più soggetti cointeressati maturato in territorio estero”. Roia e Ondei hanno anche ricordato che è compito dell’organo inquirente l’onere della raccolta delle prove per arrivare ad una condanna, elemento che nel caso Eni-Nigeria rappresenta proprio uno dei nodi problematici. “La motivazione della sentenza, che ha ricostruito 20 anni di vicende per la cessione della licenza petrolifera, è stata di circa 500 pagine”, hanno dunque concluso i due magistrati, evidenziando lo sforzo “doverosamente enorme” nella trattazione della vicenda. Una carriera rovinata e un suicidio. Ma l’indagine sulla sanità è un flop di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 11 novembre 2022 Processo “Pasimafi”, il professore Fanelli verso l’assoluzione. Ma intanto il rettore dell’Università di Parma Borghi si è ucciso per colpa della gogna. Il professore Guido Fanelli, luminare delle cure palliative, è il padre della legge 38 del 2010 sulla terapia del dolore. Milanese, classe 1955, per la sua attività di ricerca venne insignito della medaglia d’argento al merito della sanità pubblica e per anni ha rappresentato l’Italia in tutte le sedi internazionali dove si affrontava il tema delle cure palliative. Agli inizi del 2000, Fanelli diventa primario di anestesia all’ospedale di Parma nonché ordinario di rianimazione. Molto intraprendente, riesce ad avere 8 milioni di euro di fondi per la ricerca sul dolore, portando l’università ducale ai vertici europei. Si avvale di un staff di giovani ricercatori, molti dei quali lasciano incarichi all’estero per trasferirsi nella città emiliana. In poco tempo il suo ambulatorio aumenta del 100 per cento le prestazioni, circa 20mila l’anno, divenendo uno dei cinque hub in Italia, l’unico in Emilia Romagna, per la terapia del dolore. All’alba dell’8 maggio del 2017 Fanelli viene arrestato insieme ad una ventina di di persone, fra medici e dirigenti di case farmaceutiche, in una maxi retata dei carabinieri del Nas. Altri 50, fra cui il rettore dell’Università Loris Borghi che dopo qualche mese si suiciderà tagliandosi le vene sotto un ponte della ferrovia, vengono invece indagati a piede libero. Per la Procura di Parma, pm Giuseppe Amara, che lo ha intercettato per due anni, Fanelli sarebbe la mente di un “vasto sistema di corruzione e riciclaggio”. Anzi, per utilizzare le parole della conferenza stampa dell’allora procuratore Salvatore Rustico, di “corruzione quasi permanente, con mercimonio delle funzioni pubbliche per interessi privati”, con l’obiettivo di pilotare il “business” delle cure palliative e delle terapie del dolore.I reati contestati a vario titolo alle persone coinvolte sono associazione a delinquere aggravata, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, riciclaggio, truffa aggravata, abuso d’ufficio, peculato, comparaggio farmaceutico, trasferimento fraudolento di valori. Fanelli, in pratica, avrebbe messo in piedi una fitta rete di interessi creando società di comodo per il riciclaggio del denaro illecito e che gli permettevano di acquistare immobili, auto di lusso ed anche uno yacht, il Pasimafi, che poi darà il nome all’indagine del Nas di Parma. L’allora ministro della Salute Beatrice Lorenzin, alla notizia dell’arresto del professore, esprimerà “profondo sgomento perché si tratta di uno dei settori più delicati che riguardano il fine vita”. Senza attendere il processo, comunque, Fanelli viene subito licenziato dall’ospedale di Parma. Nel 2018 le indagini vengono chiuse e spacchettate in due filoni: il primo per la corruzione, il secondo per i concorsi universitari che sarebbero stati pilotati da Fanelli. Il procedimento, si scopre, si fonda quasi esclusivamente sulle intercettazioni. Molte delle quali tradotte in maniera erronea. “Peer review”, la procedura di revisione degli articoli scientifici ad opera di studiosi competenti nell’argomento specifico, diventa per i carabinieri del Nas “Pay review”, ovvero “revisione dei pagamenti”, intendendosi ricerca di maggiori compensi di natura illecita. “Macrogold”, che viene tradotto come un compenso in oro, si riferisce invece a un farmaco, il Naloxegol. “Bias”, termine inglese che significa errore nella redazione di un protocollo di ricerca, viene trascritto dal Nas “buyers”, con il significato quindi di compratori. Comunque, a parte ciò, l’anno successivo il gip di Parma si dichiara incompetente e trasferisce circa il 70 percento dei capi d’imputazione a Lecco e La Spezia. Nella cittadina lombarda, scrive il gip, “le ipotesi accusatorie apparivano claudicanti” e nelle “informative riepilogative dei Nas non si rinvengono elementi tali a dimostrare la consapevolezza degli indagati nelle (ipotetiche) condotte illecite”. “Nel caso di Fanelli - scrive nel provvedimento di archiviazione il gip - tale aspetto presenta indubbie difficoltà e incertezze, in quanto trattasi di un soggetto che, da un lato ricopre diversi incarichi pubblici … dall’altro lato, lo stesso soggetto, … riveste un ruolo di c.d. opinion leader nella materia della terapia del dolore e in tale veste, del tutto informale, svolge tutta una serie di attività, … del tutto separate da quelle attinenti e collegate alla sua qualifica pubblica, …strettamente privatistiche che nulla hanno a che fare con l’attività della pubblica funzione ricoperta dal Fanelli”. “In altri termini, quando Fanelli presenta un lavoro scientifico … o quando fornisce … consulenze indebite su strategie di marketing farmaceutico … non esercita alcuna funzione pubblica e sicuramente non svolge alcun atto pubblico”. Il giudice lecchese, per rendere più esplicito il provvedimento di archiviazione, fa un esempio: “È come se un magistrato facesse, a pagamento, delle consulenze commerciali e giuridiche per uno studio legale del circondario dove presta servizio, ma senza occuparsi di aspetti relativi ai procedimenti allo stesso assegnati. Si tratterebbe di un grave illecito disciplinare, ma certamente non si potrebbe parlare di corruzione”. Circostanza che era comunque già nota al Nas di Parma, ricorda il gip, in quanto “nell’informativa conclusiva, elenca gli incarichi debitamente autorizzati svolti da Fanelli per le aziende private, definendoli appunto “incarichi extraistituzionali”, cioè che non hanno alcuna attinenza con le attività della Pubblica Funzione”. Preso atto di ciò, il tribunale di Parma ha dovuto restituire circa 1,7 milioni di euro, tra denaro e beni, che erano stati sequestrati a Fanelli, tra essi il famoso yacht. Finito, allora, in un sostanziale nulla di fatto il filone sulla corruzione, è adesso rimasto in piedi quello sugli eventuali abusi concernenti i concorsi condotti dall’Azienda ospedaliera universitaria per l’assunzione di dirigenti medici. Il pm di Parma Paola Dal Monte che ha ereditato il fascicolo dal collega Amara, trasferito nel frattempo a Modena, aveva chiesto la trascrizione di alcune intercettazioni che inchioderebbero Fanelli. Il collegio, però, ha negato la loro trascrizione sulla scorta dei principi espressi dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione Cavallo. All’udienza della scorsa settimana, visto il diniego, la pm era pronta a chiedere l’assoluzione per tutti, suscitando la sorpresa dei presenti, giudici per primi che hanno deciso per un rinvio a luglio. Per la parola fine su un procedimento costato fino ad ora qualche milione di euro, bisognerà attendere ancora qualche mese. Ad assistere Fanelli, l’avvocato Ennio Amodio. Stalking, irrilevante l'assenza di veri intenti persecutori: il reato scatta per l'ansia perdurante della vittima di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2022 La reiterazione può emergere anche da condotte antecedenti l'introduzione della nuova fattispecie penale. Il comportamento insistente, molesto e disturbante che ingenera un perdurante stato di ansia nella vittima, fino al punto di farle modificare le proprie abitudini di vita quotidiana, è reato di stalking. E l'imputato non può pretendere di difendersi facendo rilevare il proprio intento “non persecutorio” per vedere derubricata la propria condotta alla fattispecie di molestie o disturbo alla persona (articolo 660 Cp). Infatti, gli atti sono “persecutori” e quindi imputabili a norma dell'articolo 612 bis del Codice penale, proprio per le conseguenze psicologiche ed esistenziali che si determinano -in maniera non occasionale - nella vita della parte offesa. La “scusa” del lavoro non scrimina - La Corte di cassazione con la sentenza n. 42856/2022 ha respinto il ricorso di un paparazzo che era stato condannato per stalking per il suo comportamento “lavorativo”, con cui insistentemente cercava di contattare o incontrare la vittima per ottenere informazioni sul mondo del calcio in cui essa lavorava e dalla quale pretendeva anche continui favori consistenti nell'intercedere presso i calciatori al fine di realizzare servizi fotografici. La vittima aveva rinunciato a recarsi sul luogo di lavoro per le proprie attività professionali, aveva dovuto bloccare le chiamate in arrivo e cercava di non frequentare altri luoghi di ritrovo individuabili dal ricorrente paparazzo. Il verificarsi di tali conseguenze negative non occasionali nella sua vita quotidiana ha portato alla conferma della condanna per atti persecutori respingendo la diversa qualificazione, pretesa dal ricorrente, della condotta penalmente rilevante. La rilevanza penale dello stalking - Con un'altra sentenza, la n. 42880/2022, la Cassazione penale ha affermato che rilevano penalmente ai fini dell'accertamento della reiterazione della condotta gli atti persecutori commessi prima della previsione normativa del reato. Per cui il reato è unitario in relazione ai comportamenti persecutori reiterati dopo l'introduzione della fattispecie penale. Inoltre, la Cassazione respinge il motivo di ricorso con cui la difesa contestava la mancata presa in considerazione del ritiro della querela da parte della vittima per le minacce gravi subite. Infatti, la novella normativa che ha reso perseguibile la minaccia grave su querela di parte non è applicabile al caso specifico in cui le minacce reiterate hanno determinato lo stalking ai danni della parte offesa. Infatti, secondo l'articolo 612 bis la querela contro lo stalker è irretrattabile se questi ha agito con minacce reiterate. Torino. “Ho sbagliato, ma volevo solo consegnare un regalo a mio figlio per il compleanno” di Massimiliano Peggio La Stampa, 11 novembre 2022 Il biglietto del carcerato che si è ucciso. “Scusatemi. Ho sbagliato, lo so: volevo solo consegnare una busta di denaro a mio figlio per il suo compleanno, non volevo importunare la mia ex”. Era accusato di stalking verso l’ex compagna. Antonio ha lasciato sul tavolino una lettera-testamento. Di fronte al giudice, tre giorni fa, si è era dimostrato sereno, collaborativo: accusato di stalking dall’ex compagna, aveva spiegato di aver violato i divieti di avvicinamento per fare un regalo al figlio minorenne. Antonio, 56 anni, autotrasportatore torinese, era in carcere dall’agosto scorso, in una cella del padiglione C del Lorusso e Cutugno. Detenuto sottoposto a misura cautelare. Tra pochi giorni, grazie a quella buona impressione fatta in udienza, sarebbe sicuramente uscito. L’altra notte, dopo aver strappato le lenzuola a striscioline per ricavarne una corda, si è impiccato alla grata della porta. Un agente della polizia penitenziaria ha trovato il cadavere al mattino, durante il controllo di routine. Ieri sera c’è stata una protesta dei carcerati torinesi, poi rientrata. Dall’inizio dell’anno sono 76 i suicidi avvenuti nelle carceri italiane, il numero più alto di sempre. Nel 2009 erano stati 72. “I suicidi - afferma Stefano Anastasìa, portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà - costituiscono il 51% dei casi di morte registrati in carcere nel corso dell’anno, anche questa percentuale mai così alta da inizio secolo”. Pochi giorni fa un detenuto, di 22 anni, originario della Repubblica Dominicana, si era tolto la vita nel carcere di Udine, in attesa di giudizio per tentato di omicidio, dopo una rissa a Trieste. A Torino, dall’inizio dell’anno si sono registrati quattro casi: il precedente, meno di un mese fa. Un giovane di origine africana, Tecca Gambe, si era tolto la vita nello steso modo, annodando strisce di tessuto strappate dalle lenzuola. Era in cella per un piccolo furto. Antonio era accusato di atti persecutori. “A luglio era stato arrestato una prima volta, su ordine di custodia cautelare, a seguito della denuncia della sua ex compagna - spiega il suo legale, Margherita Pessione - Dopo tre settimane trascorse dietro le sbarre era uscito ma aveva l’obbligo di non avvicinarsi alla donna. Ad agosto aveva violato il divieto presentandosi sotto casa della madre di lei: così era scattato un secondo provvedimento cautelare. “Ormai eravamo in dirittura d’arrivo, sarebbe stato scarcerato a breve: in sede di udienza preliminare avevano definito la situazione, chiarendo i motivi di quel comportamento. Il mio assistito poteva sembrare assillante ma, a detta della stessa donna, non si è mai dimostrato violento, testualmente non le ha mai torto un capello”. Nelle carceri, stando alle continue denunce dei sindacati della polizia penitenziaria, la mancanza di personale è cronica: non solo per tenere a bada la violenza dei detenuti, ma anche per proteggere le loro vite in preda alla disperazione. “Salvo poche, ammirevoli, esperienze di sostegno e accompagnamento al reinserimento sociale la grande maggioranza dei detenuti e delle detenute vive la carcerazione come un periodo più o meno lungo di abbandono e di disperazione - aggiunge Anastasìa. Il numero di suicidi ne è una drammatica testimonianza”. Bari. Arresti per tortura nel carcere, la novità non è la violenza ma chi ha denunciato di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2022 Nelle scorse ore sono stati disposti gli arresti domiciliari per tre agenti di polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Bari e altri sei sono stati sospesi dal servizio per un anno. L’accusa per i primi è quella di tortura, per un presunto pestaggio nei confronti di una persona detenuta che sarebbe avvenuto lo scorso 27 aprile. Ai secondi, che avrebbero assistito alla scena senza muovere un dito, è contestato il concorso in tortura. Sono sotto indagine anche tre infermieri e il medico di guardia all’infermeria dell’istituto. Non avrebbero segnalato le ferite sul corpo del detenuto, coprendo così gli abusi che sapevano essere stati subiti. Nulla di nuovo sotto il sole, si potrebbe pensare. Dopo che tutta Europa ha visto le immagini riprese dalle videocamere interne al carcere di Santa Maria Capua Vetere, che mostravano la mattanza avvenuta nell’aprile 2020 per la quale si è aperto il processo proprio qualche giorno fa, non è una novità scoprire che in carcere può esistere la violenza. Vero. Ma la novità è un’altra. A denunciare l’accaduto sono state a Bari la direttrice dell’istituto e la comandante di polizia penitenziaria. Questo sì che è qualcosa alla quale non eravamo abituati. Lo spirito di corpo che troppe volte abbiamo visto marmoreo nelle forze dell’ordine ci ha fatto conoscere in passato omertà, silenzi e difese aprioristiche. Ai quali purtroppo non sono stati estranei neanche direttori e dirigenti dell’amministrazione penitenziaria che, forse sentendo indebitamente una qualche pressione, non hanno denunciato episodi di violenza dei quali pur erano venuti a conoscenza. Quando a volte in passato abbiamo chiesto il perché di queste mancate denunce, sembrava quasi che la nostra domanda fosse frutto di ingenuità, quasi che il comportamento da tenersi fosse obbligato, quasi che la denuncia fosse un tabù. Invece no. Si può fare. Questo ci dice la vicenda barese. Un comandante può denunciare i propri sottoposti che deviano dalla legalità. Allo stesso modo può farlo un direttore di carcere. Possono e devono farlo. I detenuti hanno il diritto di poter contare sulla loro protezione. E i tanti poliziotti penitenziari onesti hanno il diritto di venire distinti da chi onesto non è, senza che possa passare l’idea generica e impersonale che “in carcere si mena”. Un grande grazie, dunque, alla direttrice e alla comandante del carcere di Bari. Ci auguriamo che possano essere di esempio affinché sempre e comunque si condanni la violenza indebita delle forze dell’ordine e si isoli chi abusa del proprio potere. Un grande grazie da parte di chiunque abbia a cuore la democrazia. *Coordinatrice associazione Antigone Bari. Spuntano nuovi particolari dall’inchiesta sul pestaggio di un detenuto di Angela Balenzano Corriere del Mezzogiorno, 11 novembre 2022 “Rapporto degli agenti smentito dalle immagini”. “Gli agenti riferirono nella relazione di servizio di aver messo in salvo” il detenuto “dopo l’incendio accompagnandolo immediatamente nel locale infermeria, senza nulla riferire in ordine a quanto risulta acclarato dalle telecamere”. È un altro dei retroscena che emerge dalle carte dell’inchiesta che nei giorni scorsi hanno portato all’arresto di 3 agenti della polizia penitenziaria e alla sospensione di altri 6 per un pestaggio ai danni di un detenuto di 41 anni con problemi psichiatrici avvenuto lo scorso 27 aprile nel carcere di Bari. L’uomo poco prima aveva dato fuoco ad alcune suppellettili nella sua cella. I reati contestati agli indagati (che saranno sottoposti ad interrogatorio di garanzia il 14 novembre) sono a vario titolo tortura, falso ideologico e materiale, omissione di atti d’ufficio per non aver impedito le torture, violenza privata e omessa denuncia. La relazione di servizio a cui fa riferimento il gip nel provvedimento cautelare è smentita proprio dalle immagini delle telecamere al piano terra della seconda sezione dell’istituto di pena che riprendono le fasi del pestaggio e il 41enne “rannicchiato in posizione fetale sul pavimento che cerca di proteggersi dalle violenze degli agenti”. Il segretario generale aggiunto dell’Osapp, Pasquale Montesano parla di “tortura mediatica nei confronti degli agenti della polizia penitenziaria non più accettabile. Aggiunge ancora che “a prescindere da quella che sarà la verità processuale” quello che è accaduto “dimostra ancora una volta la totale e disastrosa funzionalità del sistema penitenziario e una persistente emergenza mai affrontata compiutamente”. “I recenti episodi di violenza nei confronti dei detenuti, sia ben chiaro, appartengono soltanto a responsabilità fortemente personali che non riguardano minimamente il corpo della polizia penitenziaria. Io a questo ci tengo. Perché se è vero che la nostra Costituzione dice che le responsabilità penali sono personali, mai come in questo caso la responsabilità penale è personale e quegli episodi vanno ascritti a quei soggetti che sono accusati, salvo la possibilità di dimostrare la loro estraneità nel processo”. Lo ha detto il viceministro per la Giustizia Francesco Paolo Sisto a SkyTg24. Roma. “Hasib preso per i piedi dai poliziotti e buttato giù”: l'accusa dei pm di Andrea Ossino e Giuseppe Scarpa La Repubblica, 11 novembre 2022 Il giovane disabile a luglio scorso finì in ospedale dopo un blitz nella sua casa. Quattro agenti indagati per tentato omicidio e falso. Hanno tentato di ucciderlo, perché dopo averlo “percosso e minacciato” lo hanno afferrato “per i piedi gettandolo dalla finestra della stanza da letto dell'abitazione” dove Hasib Omerovic viveva con la sua famiglia, tra i lotti popolari della periferia romana di Primavalle. E hanno mentito ai loro stessi superiori, scrivendo “nella relazione di servizio” che il giovane disabile si sarebbe improvvisamente lanciato “nel vuoto dalla finestra della camera da letto, omettendo anche di indicare che lo stesso era stato percosso, minacciato e che era stata sfondata la porta di una stanza interna dell'appartamento”. È questo il capo d'imputazione che la procura di Roma contesta a quattro “appartenenti alla Polizia di Stato” in servizio al commissariato di Primavalle, accusati di falso e tentato omicidio. Due di loro hanno già avuto un faccia a faccia con gli investigatori. Fabrizio ha spontaneamente chiesto e ottenuto di essere ascoltato per chiarire l'accaduto, per riassumere quei venti minuti trascorsi al civico 24 di via Girolamo Aleandro. Una poliziotta con appena tre mesi di servizio, ha scelto di rimanere in silenzio, di avvalersi della facoltà di non rispondere. Gli atti riassumono i fatti accaduti lo scorso 25 luglio, quando i quattro indagati hanno bussato alla porta del giovane sordo “per procedere - si legge negli atti - alla sua identificazione”, un intervento terminato nel peggiore dei modi, con una foto che immortala il corpo di Hasib Omerovic disteso sull'asfalto e una cartella clinica che parla di diverse fratture alla testa, alle costole e allo sterno, una lussazione dell'omero, traumi alla milza, al fegato, al rene e ferite al torace. Le accuse sono da provare, il movente da trovare. Le ragioni che avrebbero portato all'intervento muscolare dei poliziotti emergono tra le voci di quartiere e i post su Facebook che dipingono Hasib come un ragazzo problematico che avrebbe disturbato diverse ragazze, forse anche la nipote di uno degli indagati. Ma quello che negli atti è descritto come un intervento “per procedere all'identificazione” di Hasib, nelle parole della sorella della vittima ricorda più un pestaggio. È Sonita, una 32enne con un ritardo mentale, l'unica testimone oculare. La ragazza dice di aver visto tre agenti picchiare Hasib con un manico di scopa nella sua camera da letto, un bastone che è stato poi trovato spezzato e appoggiato a una parete della casa, vicino a un termosifone divelto, poco distante da una porta con la serratura spaccata. In quell'appartamento è accaduto qualcosa e i magistrati romani intendono scoprire cosa. Quindi hanno ascoltato numerose persone e anche due dei quattro indagati. La linea difensiva trapela dalle relazioni di servizio, dalle chiacchiere scambiate dagli indagati con i colleghi durante la pausa caffè e dai rumors che circolano tra i corridoi della Questura. La serratura della porta della camera di Hasib infatti, secondo uno dei poliziotti coinvolti sarebbe stata rotta da un agente con una spallata. Gli indagati avrebbero chiesto al ragazzo le chiavi del lucchetto che proteggeva la porta della sua camera, lui si sarebbe rifiutato e così uno dei poliziotti avrebbe sfondato la porta. Poi la vittima si sarebbe gettata improvvisamente dalla finestra, dopo aver alzato la tapparella, una serranda che tuttavia, sostiene la famiglia di Hasib, era rotta da tempo, non si apriva se non forzandola. Nessuna spiegazione invece sul manico della scopa spezzato e sul pestaggio denunciato dalla famiglia del ragazzo. Le domande sono numerose, le indagini sono in corso e nel frattempo Hasib è ancora in ospedale, vittima di una vicenda che non può raccontare. Milano. La Metamorfosi dei barconi in legno: ecco il “Violino del Mare” realizzato dai detenuti di Opera di Francesca Morandi Corriere della Sera, 11 novembre 2022 Il progetto nel laboratorio di Liuteria e falegnameria del carcere. Lo strumento musicale esposto al museo del Violino di Cremona. “Offre una chiave di lettura su quanto sta accadendo tra Mediterraneo e Lombardia”. Si chiama Violino del Mare. Lo hanno realizzato alcuni detenuti del carcere milanese di Opera con il legno delle barche recuperate nel Canale di Sicilia. È una coincidenza, ma assume la forza di un impetuoso atto simbolico e politico la presentazione dello strumento oggi, giovedì 10 novembre, al Museo del Violino di Cremona, mentre nel cimitero “liquido” del Mar Mediterraneo si stava consumando l’ennesimo dramma: la morte di un neonato di appena 20 giorni ucciso da freddo su un barchino di migranti a Lampedusa, la porta del dolore. Un dolore che a mille chilometri di distanza, ora, si trasforma in vita, in speranza. Il Violino del Mare, esposto accanto ai capolavori degli Stradivari, fa parte della collezione dei Guarneri e degli Amati. Si chiama Metamorfosi il progetto - un unicum - della Casa dello spirito e delle arti fondata e presieduta da Arnoldo Mosca Mondadori. L’idea è nata nel dicembre del 2021 quando, all’interno del Laboratorio di Liuteria e falegnameria del carcere di Opera, la Fondazione Casa dello spirito e delle Arti ha chiesto a Francesco Tuccio, falegname di Lampedusa, di portare legni per costruire presepi che in tempo di pandemia potessero essere un segnale di speranza per tutti, credenti e non credenti. Nell’ambito di questa iniziativa, con gli stessi legni, aiutati dal maestro Enrico Allorto, i detenuti hanno costruito il violino, utilizzando una tecnica perfezionata già nel sedicesimo secolo dagli artigiani cremonesi. Il viaggio del Violino del Mare è cominciato il 4 febbraio scorso, in occasione dei 10 anni della nascita della Fondazione, con la benedizione di Papa Francesco. Il maestro Nicola Piovani, il primo ad ascoltarlo, ha deciso di scrivere la composizione “Canto del legno” suonata oggi da Lena Yokoama, violinista del MdV. “Lo strumento - ha osservato il vescovo Antonio Napolioni - offre una chiave di lettura su quanto sta accadendo tra Mediterraneo e Lombardia, tra carceri e cattedrali, tra musica e spiritualità, e tra tanti altri soggetti e luoghi che si incontreranno, come in una danza senza fine. Dal sapore profetico più che ludico”. Per il sindaco Gianluca Galimberti, presidente della Fondazione Museo del Violino, “Metamorfosi, un nome bellissimo, evoca l’idea di un cambiamento intrinseco e continuo nelle cose del mondo. Un’imbarcazione che si trasforma in uno strumento musicale. Il dramma dei tanti viaggi della speranza che si intreccia con la vita dei detenuti di un carcere alla ricerca di un futuro migliore e si fa arte e musica”. “Non abbiamo avuto dubbi nell’accettare di essere parte del progetto Metamorfosi della Casa dello spirito e delle arti di Arnoldo Mosca Mondadori - ha sottolineato Virginia Villa, direttrice generale del Museo del Violino. È una scelta di cuore. Il Violino del Mare sarà esposto e sarà suonato nelle audizioni, in particolare in quelle dedicate ai bambini”. Un documentario di Giovanni Pellegrini racconta la storia del Violino del Mare e degli strumenti futuri. Il sogno di Mosca Mondadori è di realizzare una orchestra di archi. Un progetto di adesione che prenderà vita nel momento in cui gli strumenti ricavanti dai barconi saranno suonati dalle orchestre che aderiranno al progetto e viaggerà, attraverso di loro, per testimoniare, in Italia e all’estero, il dramma che vivono quotidianamente migliaia di persone migranti in tutto il mondo. “È una immensa gioia - ha concluso Mosca Mondadori - sapere che il Violino del Mare possa essere ascoltato al Museo del Violino di Cremona per divenire strumento di testimonianze per le nuove generazioni. Un segno che si oppone a quello che pap Francesco definisce cultura dell’indifferenza. Un violino che cerca invece di essere strumento di consapevolezza perché possa nascere in ogni società uno sguardo di fratellanza verso ogni persona in fuga dalla guerra, dalla fame e dalla persecuzione”. Roma. “La libertà vista dal carcere”, in mostra i sogni dei giovani detenuti agenziacult.it, 11 novembre 2022 L’iniziativa, ospitata presso il complesso monumentale di San Michele a Ripa, nasce per dare voce attraverso l’arte ai sogni di detenuti minorenni collegando i loro pensieri alle riflessioni sulla libertà e sulla dignità della pena dei padri fondatori dell’Europa. L’Istituto Centrale per il Restauro ospiterà dal 12 novembre al 10 dicembre presso il complesso monumentale di San Michele a Ripa (Via di S. Michele, 25, 00153 Roma) la mostra “Nel Segno della Libertà. ‘Occupo un piccolo spazio di mondo, ma non l’ho delimitato’ (Altiero Spinelli)”. L’esposizione è nata nel contesto del Progetto di recupero del carcere borbonico di Santo Stefano/Ventotene, coordinato dalla Commissaria straordinaria di governo Silvia Costa, ideato e organizzato dagli Istituti di Cultura dei Paesi Ue in Italia (EUNIC Cluster Roma) e dall’Istituto Centrale per il Restauro, con il sostegno della Rappresentanza in Italia della Commissione europea e in collaborazione con l’Archivio storico dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze e il Ministero della Giustizia. Sono giovani. Occupano un piccolo spazio di questo mondo, di libertà, di speranza, di “alti pensieri”. E alcuni di loro sono detenuti. Questa mostra è dedicata a loro, alla libertà vista dal carcere e alla luce dell’arte. L’iniziativa nasce per dare voce attraverso l’arte ai sogni di giovani detenuti minorenni collegando i loro pensieri alle riflessioni sulla libertà e sulla dignità della pena dei padri fondatori dell’Europa. Supportato dall’Ufficio di rappresentanza in Italia della Commissione Europea e promosso dal Commissario straordinario per il recupero del carcere borbonico di Santo Stefano/Ventotene Silvia Costa, il progetto artistico vede la collaborazione delle rappresentanze diplomatiche di sette paesi europei: Bulgaria, Fiandre, Italia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Turchia, del cluster Eunic. Cecilia Casorati, Direttrice dell’Accademia di Belle Arti di Roma, è la coordinatrice artistica, mentre la curatela della mostra è stata affidata al Dispositivi Comunicanti, collettivo curatoriale composto da studenti ed ex studenti dell’Accademia stessa. Sono dodici gli artisti europei coinvolti, chiamati a partecipare dalle istituzioni promotrici che li hanno esortati a interpretare con le loro opere artistiche alcuni dei concetti a fondamento dell’Unione Europea: libertà, unità, memoria, comunità e parità. E proprio partendo dalla parola libertà sono stati evocati desideri, sogni e aspirazioni da parte di alcuni giovani reclusi nel Carcere minorile di Casal del Marmo a Roma coinvolti in un laboratorio di scrittura creativa dall’attore Salvatore Striano, realizzato in collaborazione con il Dipartimento della Giustizia minorile del Ministero della Giustizia nei primi mesi dell’anno. I testi prodotti sono stati poi affidati tramite gli Istituti di Cultura ai diplomandi delle Accademie di Belle Arti dei sei Paesi europei (Bulgaria, Repubblica Ceca, Fiandre, Polonia, Slovacchia, Turchia) che hanno realizzato, partendo dalla reinterpretazione, delle opere artistiche di grande valore, collegate tra loro da un elemento simbolico: la dimensione delle celle del carcere. Altre parole sulla libertà, espresse da precursori dell’Unione europea come Altiero Spinelli, Henri Frenay, Simone Weil, Eugen Kogon, Otto Molden ed altri ancora, selezionate dagli Archivi storici dell’Unione europea a Firenze, sono state l’elemento ispiratore per il lavoro di sei diplomandi dell’Accademia di Belle Arti di Roma che sono partiti da qui per la realizzazione di altrettante opere presenti nella mostra. Una chiave nuova per uno storytelling capace di valorizzare l’importanza della libertà proprio a partire da quei contesti in cui essa è negata, e che unendo sensibilità a speranza arrivare a diffondere un messaggio emotivo di grande impatto grazie all’intervento dei giovani artisti, uniti dalla visione di una Europa basata sui diritti e sulla dignità della pena. Artisti coinvolti: Lieze De Middeleir, Lena Demirhan, Giorgia Errera, Weronika Guenther, Martin Jurik, Katerina Kuchtova, Marianna Panagiotoudi, Karina Popova, Ilaria Restivo, Maria Giovanna Sodero, Valerio Tirapani, Laura Zawada. Istituzioni coinvolte: Rappresentanza in Italia della Commissione europea, Commissario straordinario del Governo per il recupero e la valorizzazione dell’ex Carcere borbonico dell’isola di Santo Stefano-Ventotene, EUNIC (European Union National Institutes for Culture) Roma: Centro Ceco di Roma, Istituto Bulgaro di Cultura a Roma, Istituto Polacco di Roma, Istituto Slovacco a Roma, Istituto Yunus Emre Centro Culturale Turco di Roma, Rappresentanza Generale della Comunità fiamminga e della Regione delle Fiandre in Italia, Accademia di Belle Arti di Roma, Archivi Storici dell’Unione europea, Biblioteca Europea, Istituto Centrale per il Restauro, Istituto Penale Maschile e Femminile per Minorenni Casal del Marmo, Ministero della Cultura, Ministero della Giustizia, Società Dante Alighieri. Como. L’arte esce dal carcere e invade il Tribunale di Federica Pacella Il Giorno, 11 novembre 2022 L’arte esce dal carcere e invade l’atrio del Palazzo di Giustizia di Como, con le opere di Giovanni Marelli. Fino al 19 novembre rimarranno esposti i quadri, espressione di un’arte a cui l’artista si è avvicinato anche durante gli anni di detenzione, quando si è avvicinato alla poesia e poi alla pittura. A Como sono approdate circa trenta opere, molte delle quali riprodotte in litografie messe a disposizione del pubblico per raccogliere donazioni a favore dell’Associazione di promozione sociale “Cisonoanchio”, che si occupa di accoglienza e di reinserimento nel mondo del lavoro di persone che si trovano in condizioni svantaggiate, tra cui ex detenuti, portando avanti attività anche legate alla cultura. Giovanni Marelli, 71 anni, canturino, un passato nella Milano della moda e dei locali di tendenza negli anni Ottanta, ma anche nell’arte degli anni Novanta, prima che la sua vita prendesse altre direzioni, espone opere in cui la gamma di colori rappresenta una sua interpretazione della cromoterapia, alla ricerca di equilibrio e armonia. Colori definiti “medicina”, con le varie tonalità del blu, che corrispondono alla profondità dell’essere, o i gialli che danno energia, intervallati da passaggi delle sue poesie. La mostra può essere visitata negli orari di apertura del Tribunale. Pa.Pi. Da Torino a Catania, i volti e le voci delle detenute di Valentina Farinaccio La Repubblica, 11 novembre 2022 “Da domani faccio la brava” è il titolo scelto per il video e il libro fotografico del fotoreporter Giampiero Corelli che racconta le storie di chi vive nelle carceri femminili. La prima a parlare è una quarantatreenne di origini sarde. Ha ucciso un uomo che conosceva a malapena e che “non mi aveva fatto niente”. È in carcere da sette anni, pensa che “sia una malattia terminale, il senso di colpa”. Da domani faccio la brava. Donne, madri nelle carceri italiane è un progetto del fotoreporter Giampiero Corelli: un video, che pubblichiamo in anteprima, e un libro fotografico, uscito per Danilo Montanari Editore, per raccontare le detenute e le loro storie. Con la sua camera, Corelli è entrato nelle celle, nei cortili, nelle ore d'aria di tredici istituti penitenziari: Torino, Palermo, Catania, Messina, Napoli, Reggio Calabria, Bologna, Roma, Firenze, Forlì, Venezia, Trani e Milano. A dimostrazione della fiducia che il fotografo si è conquistato sul campo, sfilano sulle pagine e in video decine di facce scoperte. Ritratti vivissimi, passeggiate con i muri intorno, mani e braccia fra le sbarre, un piede su cui è tatuata la parola freedom. Le interviste sono piccole confessioni raccolte nei due anni di pandemia. Omicidi, furti, droga, oppure niente: “Il giudice scrive di avere contezza del fatto che io copro il vero colpevole, però mi condanna a un fine pena mai”, racconta una detenuta. Un'altra dice di venire da una famiglia perbene, e di esserne la pecora nera: “Sono l'unica pregiudicata della stirpe”. Un'altra ancora si presenta come camminante: “Andiamo in giro con i camper o con le roulotte. Ci sono dei camminanti che vendono i palloncini, camminanti che fanno gli arrotini, aggiustano cucine a gas. Poi ci sono camminanti tipo me, che vanno a rubare”. Nel progetto di Corelli, c'è spazio anche per guardare il carcere da un altro punto di vista. Come a una gabbia che protegge da quello che non c'è: un ponte fra l'interno e l'esterno, per esempio. Il fotografo conferma: “Sento la responsabilità del mio lavoro proprio per l'importanza che ha portare fuori, grazie alle mie immagini, un mondo che purtroppo non si conosce o che non si vuole conoscere”. E infatti affida la conclusione a una detenuta che ammette commossa: “La società non si pone il problema. Mentre qua, almeno qua, non siamo i nostri reati, ma delle persone”. “Peso morto”. 21 anni in cella da innocente, l’odissea di Angelo diventa film di Angela Stella Il Riformista, 11 novembre 2022 Un’intercettazione trascritta male: una “s” che diventa “t” e spalanca per Angelo Massaro le porte del carcere con l’accusa di omicidio. La sua storia nel docufilm “Peso morto”, di Errorigiudiziari.com. La storia di Angelo Massaro, 21 anni in carcere da innocente, diventa il soggetto di un documentario realizzato dall’associazione Errorigiudiziari.com, dei giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone. Il titolo è Peso morto (regia di Francesco Del Grosso, produzione esecutiva di Black Rock Film). Massaro ha trascorso dietro le sbarre ventuno anni dei suoi 54 di vita, accusato ingiustamente dell’omicidio del suo miglior amico. In “Peso morto” lo spettatore rivive l’odissea umana e giudiziaria di Angelo Massaro. L’uomo finisce nel drammatico buio delle carceri a causa di una intercettazione telefonica trascritta male e interpretata peggio (una “t” al posto di una “s”): parlando con sua moglie, diceva che sarebbe rientrato tardi perché doveva trasportare “umuors”, che in dialetto tarantino fa riferimento ad un oggetto ingombrante, un “peso morto” appunto, nel caso specifico un attrezzo per lavorare la terra. Nella trascrizione diventerà “umuort”, il morto. E da quel momento resterà schiacciato da una mala giustizia. Massaro vivrà un incubo giudiziario che ha avuto ripercussioni sulla sua salute psicofisica, sulla sua famiglia, sulla sua vita professionale. “Sto ancora aspettando le scuse di chi ha indagato su di me e di chi mi ha condannato a ventiquattro anni di carcere solo per un’intercettazione telefonica”, accusa oggi Angelo Massaro. “È inaccettabile vedersi rubare un pezzo di vita lungo 21 anni senza che nessuno abbia mai pagato per questo colossale errore giudiziario”. “La prima volta che incontrammo Angelo Massaro era tornato a essere un uomo libero da pochi giorni”, raccontano Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone. “Si presentò a noi con due borsoni pieni di carte, atti giudiziari, codici e quaderni con i suoi appunti scritti durante la lunga carcerazione. Ci travolse con la sua voglia di raccontare, di far sapere quello che aveva passato in quasi la metà della sua vita. Capimmo subito che ciò di cui era stato involontario protagonista era uno degli errori giudiziari più gravi della storia repubblicana. Per questo, alla fine di quella prima giornata passata insieme, gli facemmo una promessa: la sua storia sarebbe diventata un docufilm. Ora, cinque anni dopo quell’incontro, siamo orgogliosi di aver mantenuto quell’impegno con Peso morto”. L’opera è stata presentata in anteprima mondiale il 18 settembre a Milano, nell’ambito del Festival internazionale del documentario “Visioni dal mondo”. Da poco proiettata anche al Matera Film Festival, ha appena intrapreso un percorso che la porterà nelle prossime settimane a toccare diverse località italiane tra festival cinematografici, proiezioni in università e altri eventi. Domenica 13 novembre l’anteprima a Roma al museo MAXXI. In Italia ci sono 3 milioni di giovani che non studiano, non lavorano e non si formano di Angelo Agrippa Corriere del Mezzogiorno, 11 novembre 2022 Aumenta il popolo dei Neet, il dato più allarmante è quello sulle donne. Se l’Italia è il paese europeo con il più alto numero di Neet, vale a dire di giovani dai 15 ai 34 anni che non lavorano, non studiano e non si formano (nel 2020 più di 3 milioni, con una prevalenza femminile di 1,7 milioni) le regioni del Mezzogiorno sono quelle che presentano la percentuale più elevata di esponenti delle nuove generazioni bloccati ai nastri di partenza. Infatti, l’incidenza dei Neet raddoppia nel Sud rispetto al Nord. È maggiore tra le donne, nelle due fasce d’età dei 25-29 anni (30,7%) e 30-34 anni (30,4%). E più si cresce con l’età, più aumenta la loro quota. La regione d’Italia con la più significativa presenza di Neet è la Sicilia, con il 41,1%. Subito dopo c’è la Calabria, con il 39,9 e quindi la Campania, con il 38,1%. Un quadro preoccupante, insidiato da disuguaglianze territoriali, di genere e di cittadinanza che Action-Aid e Cgil hanno analizzato nel Rapporto Neet tra disuguaglianze e divari. Alla ricerca di nuove politiche pubbliche. Alla presentazione a Roma hanno preso parte Chiara Saraceno, sociologa e honorary fellow al Collegio Carlo Alberto; Giustina Orientale Caputo, docente dell’Università Federico II di Napoli; Alessandro Rosina, docente dell’Università Cattolica di Milano e Cristina Tajani, presidente e ad Anpal servizi spa; Marco De Giorgi, capo dipartimento Politiche giovanili e Raffaele Tangorra, commissario straordinario Anpal. Dunque, è nel Sud Italia che permane la più alta presenza di giovani condannati all’immobilismo: sono il 39% rispetto al 23% del Centro Italia, al 20% del Nord-Ovest e al 18% del Nord-Est. Ma il dato complessivo italiano supera l’incidenza media dei Neet sulla popolazione giovanile in Europa nel 2020 che resta al 15%. Ai primi posti, come detto, ci sono tutte le regioni del Sud, con quote molto alte per Sicilia, Calabria e Campania. Per il Centro Italia, il Lazio ha la più alta incidenza con circa il 25,1%. La prima regione del Nord per incidenza dei Neet è la Liguria (21,1%), che è anche la più anziana del paese, ed a seguire il Piemonte (20,5%) e la Valle d’Aosta (19,6%). I Neet sono per il 56% donne e la prevalenza femminile resta invariata negli anni: un trend che conferma come per una donna sia molto più difficile affrancarsi da questa condizione. Le disuguaglianze di genere si riproducono anche osservando i ruoli in famiglia dei Neet: il 26% sono genitori e vivono fuori dal nucleo familiare di origine; tra questi c’è un’ampia differenza tra donne e uomini che vede un 23% di madri Neet rispetto ad un 3% di padri Neet. La più alta percentuale di giovani Neet donne pari al 27% sul totale della popolazione Neet si concentra tra le persone inattive che non cercano e non sono disponibili; il 20% delle Neet sul totale della popolazione dei Neet italiani sono madri inattive. “La motivazione all’inattività - è stato specificato - è spesso legata alla disparità di genere nei carichi di cura che impediscono o suggeriscono alle donne di rimanere fuori o uscire dal mercato del lavoro. I Neet italiani sono per la maggior parte inattivi, persone che, scoraggiate, hanno smesso di cercare lavoro: il 66% del totale, quindi 2 su 3, e tra questi circa il 20% non cerca ma è disponibile. C’è una tendenza ad essere inattivi soprattutto tra i diplomati (32%) o con un titolo di studio minore (16%). Rispetto ai disoccupati (coloro che cercano regolarmente un lavoro) il dato preoccupante è relativo al tempo: il 36,3% dei disoccupati è in cerca di un lavoro da più di un anno. Quasi 1 su 2 ha avuto precedenti esperienze lavorative e tra questi il 54,3% è donna”. Soumahoro: “Meloni può anche darmi del tu ma deve leggere Hannah Arendt” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 11 novembre 2022 “Nel Governo è in corso una gara a chi è più identitario. E lo si fa sui corpi dei più indifesi. Alla presidente del Consiglio consiglierei la lettura di alcuni libri di Hannah Arendt, a cominciare dalla Banalità del male”. Il consiglio viene da Aboubakar Soumahoro, 42 anni, eletto alla Camera dei deputati come indipendente nella lista Alleanza Verdi e Sinistra Italiana. Soumahoro è tra i fondatori della “Coalizione Internazionale Sans-Papiers, Migranti e Rifugiati” (Cispm). Nel 2012, organizzò insieme ai compagni del Cispm una marcia dei sans-papiers che attraversarono 6 paesi europei senza documenti per chiedere la libertà di circolazione delle persone come già accade per le merci. È stato inoltre sindacalista del Coordinamento Agricolo dell’Unione sindacale di base (Usb), occupandosi soprattutto della tutela dei diritti dei braccianti, della lotta al caporalato e dello sfruttamento lungo la filiera agricola. La sofferenza l’ha conosciuta e vissuta in prima persona. “Appena arrivato in Italia - ha raccontato in una intervista a Le Figaro - giravo con un pezzo di carta che diceva ‘Cerco lavoro’. Ho dormito per strada e ogni giorno venivo sfruttato per 12 ore di lavoro. Ho lavorato come benzinaio, fattorino, muratore e bracciante agricolo. Conosco la fame, il sacrificio e il sudore”. Il 27 ottobre, Soumahoro aveva lanciato un appello a tutti i suoi neo colleghi parlamentari a favore dei migranti, e contro il rinnovo del memorandum Italia-Libia. “Lancio l’invito a tutti i parlamentari dell’opposizione ad andare sulle navi che salvano gli esseri umani nel Mediterraneo - ha spiegato - per far valere i principi di umanità racchiusi nella nostra bella e attuale Carta costituzionale. In questo momento, in cui alcuni ministri si apprestano a tenere sospese vite umane in mare, non si può solo continuare a parlare ma bisogna agire. Servono azioni risolutive e determinanti anche per fermare i disumani accordi libici”. Lui su quelle navi c’è salito, con pochi altri parlamentari, purtroppo. “La Presidente Giorgia Meloni può darmi anche del tu”, dice riferendosi al giorno della fiducia alle Camere del nuovo Governo: “l’importante è che parliamo degli oltre nove milioni di persone in povertà del nostro Paese, di chi non ha diritto a curarsi, dei morti sul lavoro, dei nostri giovani”. Blocco dei porti, selezione dei migranti, respingimenti di massa. Umberto Eco scrisse del “Fascismo eterno”. Siamo a questo oggi in Italia? Siamo dentro a quello che lo stesso Eco ha definito il processo di produzione e demonizzazione del nemico. Dove per nemico in questo caso intendiamo il profugo. Un processo attraverso il quale si dà una dimensione visuale, corporea della propria identità. In questo caso l’identità si manifesta a partire da quanto si è fermi nel trattenere corpi di uomini e donne, neonati profughi, in palese violazione delle normi internazionali, tra l’altro adottate dal nostro stesso Paese. Identità, presa singolarmente, non è una parola che racchiude in sé un’accezione peggiorativa ma è nel come la si va a declinare. E qui entra in gioco il tema del processo di costruzione della propria identità a partire dalla demonizzazione dell’altro, che non è un turista su un taxi del mare. Non è come i nostri giovani con i voli low cost ai quali non si dà speranza né si offrono prospettive. Ma quando si parla di questi giovani si usa la definizione “cervelli in fuga”, che non hanno avuto il diritto, le opportunità di restare. Quei giovani sono “cervelli”. Mentre i migranti sono dei “corpi”, qualcosa di residuale, profughi ai quali si nega la possibilità di essere soccorsi in mare. Questo è il processo di costruzione del nemico. Questa è una decadenza di civiltà. Nel mio piccolo ho sempre pensato che il senso della propria esistenza si misuri con il riconoscimento della vita degli altri. “A bordo delle navi Ong non ci sono naufraghi ma migranti”. Così la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Nei giorni scorsi lei è salito su una delle navi delle Ong nel Porto di Catania... Vorrei consigliare alla presidente Meloni la lettura di un libro di Hannah Arendt “C’è solo un diritto dell’Uomo”. È un libro la cui sostanza è nel diritto ad avere dei diritti. Questo è il punto, il nodo centrale. Per tornare all’affermazione della presidente del Consiglio e soprattutto ai comportamenti assunti dal Governo. Qui siamo di fronte non solo a un’astri in violazione del diritto costituzionale, di quello umanitario e internazionale. Ma i comportamenti assunti, la guerra scatenata contro le Ong, tutto questo espone il nostro Paese ad una deriva che toglie autorevolezza all’Italia e alle sue istituzioni. Quando si ha come punto di riferimento valoriale Viktor Orban vuol dire che l’azione del Governo toglie credibilità al nostro Paese in ambito internazionale. E in questo caso non solo nei confronti dei nopartners europei. Mi riferisco all’Europa della solidarietà, l’Europa che guarda alla propria sofferenza a partire dalla sofferenza altrui. Mi riferisco anche ai rapporti con l’Unione Africana. Con il linguaggio “la pacchia è finita”, nessun capo di Stato o di Governo africano si siederà con il nostro per definire insieme soluzioni, per individuare insieme proposte non solo sul tema dei profughi. Che facciamo: chiediamo all’Angola il petrolio e al tempo stesso chiudiamo le porte ai profughi? Non è solo un discorso di giustizia, di umanitarismo. È anche un discorso di difesa degli interessi delle nostre aziende, e di chi lavora in esse, impegnate in determinati territori. Quando Papa Francesco dice che prima di parlare dell’Africa bisogna andare in Africa ha ragione, chi fugge lo fa perché non ha altra scelta. L’identitarismo razzista calpesta anche quegli interessi nazionali che la presidente Meloni dice di voler difendere in ogni sede. Vogliamo che la selezione della razza, che un tempo riguardava gli schiavi e poi tragicamente gli ebrei, venga riproposta anche oggi? Io sono salito sulla Humanity1 e sono stato sul molo per oltre trenzione ta ore, senza dormire, assieme agli equipaggi, e ho potuto constatare in prima persona quel che succedeva e anche la vergogna delle operazioni di selezione. Qualcosa di disumano che mi resterà sempre impresso nel cuore e nella mente. La selezione dei migranti come selezione della razza. Questo è quel “Fascismo eterno” di cui scriveva Umberto Eco! Si stanno violando le basi stesse della nostra Costituzione, dei principi e dei valori che ne sono a fondamento, quelli sanciti nella sua prima parte. Inoltre agendo come sta facendo il Governo l’Italia viola gli impegni internazionali. Da questo punto di vista, lo scontro con la Francia è molto più che un campanello d’allarme. Con Parigi che chiede che tutta l’Europa sospenda gli accordi con l’Italia. A questo punto siamo arrivati. E per seguire cosa? Ecco, per seguire cosa? L’identità. Perché dentro il Governo vi è una competizione che si sta consumando sul corpo di esseri umani su chi è più identitario. E in questo caso chi ha la capacità di banalizzare la costruzione della propria identità attraverso il corpo di esseri umani. E qui interviene ancora Hannah Arendt con La banalità del male. Siamo di fronte alla banalità del male. La logica disumana della selezione ci riporta a tempi bui della nostra storia, come quando i nostri bisnonni partivano per le Americhe e venivano selezionati, alcuni - come è accaduto dalla nave Geo Barents di Medici Senza Frontiere - si gettavano in mare. Molto si discute a sinistra, soprattutto dopo la sconfitta politica ed elettorale del 25 settembre, di rinnovamento, rifondazione etc. Partendo dalla sua esperienza, su cosa dovrebbe costruire la sinistra un “nuovo inizio”? Innanzitutto dovrebbe darsi una identità. E questa identità si costruisce schierandosi dalla parte delle partite Iva impoverite. Schierandosi dalla parte di chi viene costretto a vivere nell’impoverimento e stiamo parlando di milioni di nostri concittadini che vivono nella povertà. Schierandosi dalla parte delle piccole e medie imprese, del mondo dell’artigianato, delle lavoratrici e dei lavoratori. Schierandosi dalla parte di chi è nato e cresciuto nel nostro Paese e non ha ancora accesso alla cittadinanza, bambini nati e cresciuti in Italia. Io penso che mai come oggi l’identità va costruita attraverso la presenza nel corpo vivo della società, nei luoghi dove più forte è il disagio e la sofferenza sociale, accompagnando a questo la capacità di elaborare pensiero in quei luoghi, da quei luoghi. Teoria e prassi. Unendo mondi diversi, sentimenti diversi, a partire da una idea di società. Per fare questo occorre spogliarsi da un “io” egocentrico. Questo è l’impegno al servizio del quale ci metteremo un po’ tutti. Perché penso davvero che sia giunto il momento di dare una casa a tutto questo mondo del disagio alla ricerca di un riscatto e di una rappresentanza adeguata. Una casa in cui ci sia l’affermazione di una sinistra che abbia la capacità di dare una prospettiva in termini di progresso, d’innovazione, in termini di dignità. Quindi una radicalità posturale. Proposte radicali e al tempo stesso innovative. Occorre dare una casa a tutto questo mondo nel nostro Paese. Avere il coraggio di aprirsi, d’includere, di sperimentare, e non di chiudersi all’interno delle proprie confort zone. Migranti. La Francia accusa l’Italia: “Comportamento inaccettabile, accogliete la Ocean Viking”. di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 11 novembre 2022 Meloni: “Rispettate tutte le regole”. Durissima presa di posizione del portavoce del governo francese: “La nave si trova in acque territoriali italiane, ci sono regole europee chiare e da voi accettate, e l’Italia è il primo beneficiario del meccanismo di solidarietà europeo”. Il portavoce del governo francese, Olivier Veran, esprime tutta la distanza possibile con la posizione del governo italiano. E riceve, a distanza di alcune ore, una risposta - sia pure indiretta - da parte della premier italiana, Giorgia Meloni: decisa a ribadire la correttezza delle posizioni del suo governo sulla gestione degli sbarchi dei migranti. In serata fonti della ue hanno ribadito che i migranti della Ocean Viking devono essere sbarcati al più presto perché l’obbligo dei soccorsi è “chiaro e inequivocabile”. “La Commissione ricorda il principio di leale cooperazione e invita gli Stati membri a collaborare per garantire una risposta comune, tenendo in considerazione la sacralità della vita che è di massima importanza e di primaria considerazione” riferisce una nota della Commissione europea. Il governo francese e le critiche all’Italia - Intorno alle 8 e 30 di oggi, parlando alla radio del servizio pubblico France Info, Veran ha detto che la Ocean Viking “si trova attualmente nelle acque territoriali italiane. Ci sono regole europee estremamente chiare, che del resto sono state accettate dagli italiani, che sono di fatto i primi beneficiari del meccanismo di solidarietà finanziaria europeo. Questa nave deve essere accolta in Italia. L’atteggiamento attuale del governo italiano, quanto alle sue dichiarazioni e al rifiuto di fare attraccare la nave, contrario a tutte le regole europee che sono state accettate dall’insieme dei Paesi europei, è inaccettabile. Noi auspichiamo, nel momento in cui la nave è ancora nelle acque territoriali italiane, che l’Italia faccia la sua parte e rispetti i suoi impegni italiani”. E quando al portavoce del governo viene chiesto: “quindi quando la presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni ringrazia la Francia per avere accolto la nave non dice la verità?”, la risposta è dura: “Le dico che la verità è quel che è firmato dagli Stati europei, che impegna anche l’Italia, che riceve fondi per questo, e che rappresenta un meccanismo umanitario di solidarietà europea, peraltro un meccanismo di base del funzionamento dei Ventisette”. Il governo francese chiede alla Ocean Viking di cambiare rotta, di dirigersi non più verso la Francia ma verso l’Italia? “Ancora una volta, la nave è attualmente ancora nelle acque territoriali italiane. I meccanismi diplomatici sono ancora in azione mentre stiamo parlando. Voglio solo ricordare che questa nave che chiamiamo “di migranti” è una nave di esseri umani, che sono stati salvati in mare, alcuni vengono da molto lontano e hanno attraversato molti mari prima del Mediterraneo, ci sono una cinquantina di bambini a bordo di questa nave e in ogni caso non lasceremo che queste persone corrano il minimo rischio”. La risposta di Meloni - La risposta di Meloni arriva dopo quasi sette ore, durante l’assemblea con i gruppi parlamentari di Fratelli d’Italia. Il governo italiano, ha detto la presidente del Consiglio, “rispetta tutte le convenzioni”. E “non è dipesa dal governo la decisione dell’autorità sanitaria di far sbarcare tutti i migranti presenti sulle navi ong, dichiarandoli fragili sulla base di possibili rischi di problemi psicologici. Scelta, quella dell’autorità sanitaria, che abbiamo trovato bizzarra”. Ancora: “Il divieto imposto a queste navi ong di sostare in acque italiane, oltre il termine necessario ad assicurare le operazioni di soccorso e assistenza dei soggetti fragili, è giustificato e legittimo. A bordo di queste navi non ci sono naufraghi ma migranti: le persone sono salite a bordo in acque internazionali trasbordando da altre unità navali di collegamento e la nave che li ha presi in carico è attrezzata ed equipaggiata per ospitarli e provvedere a tutte le loro esigenze di accoglienza”. “Il tema della legalità”, ha continuato, “lo consideriamo un tratto distintivo di questo Governo: bisogna tornare a rispettare le regole e questo vale per ogni ambito. È finita la repubblica delle banane in cui si vessano i cittadini e che piace tanto alla sinistra: si può fare tutto, nel rispetto delle leggi e nel rispetto degli italiani che le leggi le rispettano”. E Meloni ha sostenuto anche che “in queste prime due settimane al governo abbiamo già smentito i pronostici e la narrazione di una sinistra anti-italiana che parlava di “Italia isolata” se fossimo andati al governo Vogliamo che l’Italia sia centrale nello scacchiere internazionale e lavoriamo per questo”. Dove si trova ora la Ocean Viking - Ocean Viking -secondo quanto rilevato dal sito Marinetraffic - attorno alle 18 era in navigazione tra la Sicilia e la Sardegna dunque ancora in zona Sar italiana; stava seguendo una rotta verso nord ovest, in direzione della Corsica. Nel frattempo, il sindaco di Marsiglia, Benoit Payan, si è detto “pronto ad accogliere la nave umanitaria Ocean Viking nel porto della città, anche se - ha aggiunto - questa decisione sarà del governo di Parigi”. Secondo il primo cittadino di Marsiglia si tratta comunque di una decisione “necessaria” perché “si tratta di naufraghi, donne e bambini a bordo di una barca che stavano annegando e ai quali non dobbiamo chiedere loro documenti o il colore della loro pelle”. Si tratta, ha aggiunto Payan, di “un dramma umanitario”. Sulla nave ci sono oltre 230 migranti, tra cui 55 minori dei quali 43 non accompagnati. Quel neonato morto in mare era un naufrago o un migrante? di Iuri Maria Prado Il Riformista, 11 novembre 2022 I dati Eurostat sono chiari: nel 2021 Berlino ne ha accolti 148.200, Parigi 104.mila, Madrid 62.100. Noi al quarto posto con 43.900 arrivi, solo 7mila in più della piccolissima Austria. E sui richiedenti asilo siamo al 15° posto in Europa. È morto un bambino africano al largo di Lampedusa. Non sappiamo neppure come si chiamasse. Sappiamo che aveva 20 giorni, veniva dalla Costa d'Avorio, stava con la mamma, una ragazza ivoriana di 19 anni. È stato soccorso troppo tardi. Non è un mistero che il sistema dei soccorsi nel Mediterraneo ormai è ridotto ai minimi termini. È guerra alle Ong, è guerra agli sbarchi, è guerra agli africani e ai naufraghi. I confini del paese sono minacciati da un'orda barbarica. Mammamia, che disastro morale. L'altro giorno Giorgia Meloni ci ha spiegato che questi che arrivano, sui barchini, sui gommoni, o ripescati tra le onde, oppure che non arrivano per niente perché affondano, non sono naufraghi, né profughi, ma migranti. Presidente, ci spieghi: questo bambino era un profugo, o un migrante, o un violatore di confini? Sulla pelle dei migranti la politica mostra tutti i suoi limiti. La guerra ideologica, la speculazione elettorale, il circo mediatico che ruota intorno a chi rischia la vita per solcare il Mediterraneo, affida a un mare di parole quel che i dati metterebbero a nudo senza infingimenti. La fonte ufficiale è il Ministero dell’Interno. Secondo il conteggio bollinato dal Viminale sono 89.926 i migranti approdati via mare nel nostro Paese nel corso del 2022, dal primo gennaio al dieci novembre. Negli ultimi dieci giorni, con tutti i ministeri del nuovo governo in piena funzione, sono stati 4543 ad arrivare sulle nostre coste. Approdi che tengono conto di chi arriva con il suo barchino, con i barconi stracarichi, chi viene recuperato dalla guardia costiera italiana nelle missioni S.A.R. e chi viene recuperato a bordo delle navi delle Ong internazionali. A fronte di 4.543, per circa 500 si sono accesi i riflettori mediatici, concentrando il focus sulle tre Ong che hanno effettuato operazioni di recupero e salvataggio in acque internazionali. Nel 2020, con il governo Conte 2 sorretto da Pd e M5s i migranti sbarcati erano stati 30.780, ovvero un terzo degli attuali. Nel 2021, con il governo Draghi, questa cifra era arrivata a 57.458. In dieci anni, dal 2011 al 2021, sono arrivati dal Mediterraneo 800mila migranti, con una media di 80mila all’anno. Un volume del tutto gestibile, se si pensa che quindici anni fa la popolazione straniera residente aumentava al ritmo di 300mila persone all’anno. Il 32° dossier Idos del 2022, presentato la settimana scorsa sulla base dei dati del ministero dell’Interno, ribadisce ancora una volta che l’Italia non è più un Paese di immigrazione. E non lo è ormai da diversi anni. Nel corso del 2021 nell’Ue - dove i 3,5 milioni di rifugiati e richiedenti asilo incidono per appena lo 0,8% sulla popolazione totale - sono state presentate complessivamente 632.655 domande di asilo (di cui 537.630 per la prima volta), con un aumento del 33,8% rispetto al 2020, ma nello stesso tempo con un calo del 9,5% rispetto al 2019, cioè prima che la mobilità umana venisse stravolta dalla pandemia. La vulnerabilità estrema che caratterizza questi flussi è testimoniata anche dall’ampio numero di domande che hanno riguardato minorenni: 183.720, quasi 1 ogni 3 (il 29,0% del totale). Di queste, 23.335 concernono minori stranieri non accompagnati. Solo il 38,5% delle 524.470 domande d’asilo esaminate, nello stesso anno, dagli Stati dell’Unione ha ricevuto, in primo grado, una risposta positiva, ma il tasso cambia a seconda dei vari Paesi membri (dall’8,6% della Slovenia all’84,6% dell’Irlanda) e delle nazionalità dei richiedenti. Alle decisioni di primo grado si aggiungono le 207.820 definitive, ottenute a seguito di ricorso, di cui quelle positive sono state a loro volta il 34,8%. Ne risulta che complessivamente nel 2021 i Paesi Ue hanno concesso protezione a circa 274.145 richiedenti. Colpisce sia l’elevato numero di richieste di trasferimento della domanda allo Stato di primo ingresso, in base al Regolamento di Dublino (126mila, secondo i dati provvisori di Eurostat, pari a 1 ogni 5 richieste), sia, in ottica di lungo periodo, l’elevata quota di richiedenti che avevano già fatto istanza di protezione in passato: il 61,7% dei 510.696 set biometrici archiviati presso la banca dati Eurodac riguarda richiedenti asilo che negli ultimi 10 anni avevano già presentato una domanda. A sua volta il 2022, oltre ai quasi 4 milioni di ucraini beneficiari di protezione temporanea registrati tra marzo e agosto, ha conosciuto, nei primi 5 mesi, una consistente ripresa dei flussi, con 300mila richieste di asilo presentate (l’85% in più rispetto allo stesso periodo del 2021). In assenza di informazioni ufficiali sulle modalità di ingresso dei richiedenti asilo in Italia, tornano utili i dati del Sistema di accoglienza e integrazione (Sai) riferiti alle persone che vi sono accolte, i quali attestano la prevalenza degli arrivi via mare (68,6% nel 2021), seguiti da quelli via terra (11,5%, soprattutto dalla Slovenia) e via aerea (7,3%, esclusi i rinviati in Italia da altri Stati Ue ai sensi del Regolamento Dublino e i casi di resettlement). Secondo i dati Eurostat più aggiornati, nel 2021 in Italia hanno fatto per la prima volta richiesta di protezione internazionale oltre 42 mila persone, il quarto numero più alto tra i 27 Paesi dell’Ue, dietro a Germania, Francia e Spagna. Nei dieci anni tra il 2012 e il 2021, il dato italiano sale a circa 592 mila richiedenti asilo, al terzo posto, dietro a Germania e Francia. Le cifre parlano chiaro: in Germania nel 2021 ci sono stati 148.200 ingressi di extracomunitari; in Francia, 103.800. La Spagna ne ha accolti 62.100 (a fronte di una popolazione di trenta milioni in meno dell’Italia) e quindi noi, quarti con 43.900 arrivi. Quinta in classifica è la piccola Austria, con 36.700 migranti accolti. Una differenza di settemila migranti tra Roma e Vienna, a dispetto della notevole differenza tra i due Paesi. È proprio nel considerare l’accoglienza in rapporto alla dimensione demografica degli Stati Ue che la classifica cambia, impietosamente. Soprattutto se guardiamo ai dati dei richiedenti asilo. Nel 2021, l’Italia era quindicesima su 27 Paesi membri, con una persona che ha fatto per la prima volta richiesta di protezione ogni 1.308 abitanti. Il nostro Paese ricopre la stessa posizione se si guardano i dati relativi ai dieci anni tra il 2012 e 2021, con un richiedente asilo ogni 100 abitanti. In entrambi i casi, gli altri tre grandi Paesi Ue - Germania, Francia e Spagna - erano davanti a noi in classifica. L’Italia si incaponisce in una guerra ideologica senza capo né coda, finendo vittima di una demagogia razziale, una Caporetto morale innervata sull’amplificazione di dati clamorosamente poco consistenti. L’ultimo allarme, per capirci, ha riguardato un approdo a Lampedusa di 28 persone provenienti da Costa d’Avorio, Burkina Faso, Guinea, Camerun e Nigeria. Migranti che dal centro Africa si trovano, per arrivare nel Mediterraneo, ad essere detenuti per mesi nei centri libici. Dai quali si esce turbati, fisicamente provati e psicologicamente distrutti, come non possono che diagnosticare i medici coinvolti negli esami a bordo delle navi attraccate in questi giorni. Per rispondere con misure finanziarie adeguate al flusso migratorio, la Commissione Europea ha attivato strumenti diversi, a partire dal “Fondo asilo migrazione e integrazione 2014-2020” (Fami)”, istituito con Regolamento UE n. 516/2014 con l’obiettivo di promuovere una gestione integrata dei flussi migratori sostenendo tutti gli aspetti del fenomeno: asilo, integrazione e rimpatrio. Ma la materia è oggetto di un prisma di finanziamenti e dotazioni diverse. La Direzione Degenerale Re.Gio. (“Poltiiche Regionali”) della Commissione Europea è l’hub da cui vengono assegnate, secondo il fabbisogno, le risorse necessarie ai diversi Stati membri, in ragione del numero di migranti accolti. All’interno di questa vi è la gestione del Fondo di Solidarietà Europeo, nato per rispondere alle comunità naturale e in realtà diventato un fondo-omnibus. Che interessa sempre di più l’emergenza migranti. La dotazione originaria prevista per l’Italia era pari ad € 310.355.777,00. Attualmente le risorse complessive, riferite all’ultima versione approvata del Piano Nazionale, ammontano a € 399.075.470,00 di quota comunitaria, cui si aggiunge una pari somma di risorse nazionali. Giorgia Meloni rispondendo a Parigi che sul caso della Ocean Viking (diretta verso le coste francesi), ha invitato l’Italia a rispettare gli accordi europei in tema di accoglienza, ha dichiarato che “Il governo italiano rispetta tutte le convenzioni internazionali”, aggiungendo poi che le persone presenti sulla nave della ONG Sos Mediterranée non possono definirsi “naufraghi ma migranti”. Il ministro Piantedosi protesta: “La reazione che la Francia sta avendo di fronte alla richiesta di dare accoglienza a 234 Migranti - quando l’Italia ne ha accolti 90mila solo quest’anno - è totalmente incomprensibile di fronte ai continui richiami alla solidarietà dovuta a queste persone. Ma dimostra anche quanto la postura delle altre nazioni di fronte all’immigrazione illegale sia ferma e determinata. Quello che non capiamo è in ragione di cosa l’Italia dovrebbe accettare di buon grado qualcosa che gli altri non sono disposti ad accettare”. Lo dice il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. Che evidentemente non conosce i veri numeri dell’accoglienza altrui. Alla Cop27 la protesta silenziosa delle donne: “Non c'è giustizia climatica senza diritti umani” di Giacomo Talignani La Repubblica, 11 novembre 2022 Con la bocca tappata da un fazzoletto e vestite di bianco le attiviste (molte provenienti da Paesi in via di sviluppo) hanno protestato alla conferenza dell'Onu contro il regime di Al Sisi e chiedendo fondi per le aree del mondo che pagano di più per il riscaldamento globale. La bocca tappata da un fazzoletto bianco per rimarcare l'impossibilità di parlare imposta dal governo egiziano. Il pugno alzato, i vestiti bianchi e gli striscioni: “Non c'è giustizia climatica senza diritti umani”. La prima protesta forte e corposa, autorizzata all'interno della Cop27 (che è spazio Onu a differenza dell'esterno gestito dal governo di Al-Sisi), è guidata dalle donne. Ci sono attiviste provenienti dall'Amazzonia, altre dal Sud Africa, Filippine e sud est asiatico, o dai paesi dell'Africa più colpiti dalla crisi climatica. Reggono cartelli e messaggi scritti in tutte le lingue, chiedono - in questa Cop definita “plastica e senza diritti” - che i dissidenti politici e gli attivisti ambientali ingiustamente imprigionati vengano liberati. Urlano slogan contro la dipendenza dalle fonti fossili, sfogano la rabbia contro un Paese - l'Egitto - dove il dissenso è stato vietato in partenza. Davanti a loro decine di giornalisti: quando invocano un minuto di silenzio per ricordare tutti i difensori dell'ambiente uccisi si sentono soltanto i click delle macchine fotografiche. Le proteste, all'interno della Cop, dato che fuori è troppo pericoloso nella blindatissima Sharm El-Sheikh, stanno crescendo. Spesso sono i rappresentanti dei paesi più vulnerabili, colpiti da fenomeni meteo intensi o siccità e dove regna devastazione e fame, a lanciare il grido di aiuto. Viene chiesto ai potenti di agire subito e con “soldi e impegni inderogabili” per garantire finalmente uno strumento finanziario che garantisca fondi per il “loss and damage”, le perdite e danni delle aree più impattate dagli eventi legati al surriscaldamento. Viene chiesto di liberare e aiutare tutti coloro che sono stati ingiustamente arrestati nel tentativo di battersi per i diritti sociali e per l'ambiente. Nella protesta delle donne, prende la parola anche la giovane Alab Ayroso, filippina il cui padre è considerato un “desaparecidos”, un attivista ambientale scomparso nel nulla vent'anni fa. Piange, ma poi trova la forza per urlare più forte: “Dobbiamo unirci e combattere contro questo sistema, dobbiamo lottare per un mondo che rimetta al centro la salute del Pianeta e le persone, non i soldi e i profitti”. Poi, in un elenco lunghissimo, le attiviste sudamericane leggono i nomi di tutte le donne e i difensori dell'ambiente uccisi ingiustamente, chiedendo giustizia per loro, così come per i prigionieri politici. Nelle prossime ore, nuove azioni dimostrative sono attese alla Cop27: fra le più curiose c'è quella organizzata da Bts Army e Kpop4planet, fans del K-pop coreano che daranno vita a una manifestazione per chiedere la protezione delle foreste. Altre iniziative potrebbero essere in programma poi in vista dell'arrivo del presidente Usa Joe Biden atteso l'11 novembre. Egitto. “Alaa alimentato a forza”. Oggi protesta anti-regime di Chiara Cruciati Il Manifesto, 11 novembre 2022 Azioni in solidarietà con Abdel Fattah a Sharm el-Sheikh, mentre la madre denuncia un trattamento sanitario obbligatorio. In previsione delle manifestazioni (senza leader ufficiali) di oggi, il governo blinda le città: mezzi militari ovunque, 300 arresti preventivi e negozi chiusi. Alla vigilia della manifestazione antigovernativa “11/11”, lanciata a metà ottobre e tuttora senza madrine o padrini ufficiali, è il destino di Alaa Abdel Fattah a sovrastare Il Cairo e Sharm el-Sheikh. L’attivista egiziano, prigioniero politico sotto ogni governo da Mubarak ad al-Sisi, passando per il fratello musulmano Morsi, è in sciopero della fame da 220 giorni. Da lunedì ha rinunciato anche all’acqua. Nei padiglioni della Cop27, la conferenza Onu sul clima che quest’anno ha scelto di legittimare con la sua presenza il regime di al-Sisi, il nome di Alaa Abdel Fattah risuona da giorni, tra ong e leader politici occidentali. Alla fine delle tavole rotonde tanti interventi si chiudono con “Non siete stati ancora sconfitti”, il titolo del suo libro pubblicato in Italia da Hopeful Monster. Ieri si è svolta l’azione più significativa in una Sharm el-Sheikh blindata, dove la protesta è stata anestetizzata dal governo con divieti e spazi speciali dove relegare il dissenso: centinaia di persone, vestite di bianco come i prigionieri egiziani, hanno gridato il loro slogan, “Liberatelo, liberateli tutti”, tutti e 60-100mila detenuti politici stimati. Ieri a parlare è stata di nuovo la famiglia, una dei pilastri del dissenso della storia contemporanea dell’Egitto: Alaa, in carcere di nuovo dal 2019 (condannato a cinque anni nel dicembre 2021), potrebbe essere stato alimentato a forza. La denuncia giunge dopo la notifica ufficiosa delle autorità carcerarie: il blogger è “sotto trattamento medico”. Una formula volutamente vaga, consegnata alla madre, Laila Seif, che ieri ha raggiunto la prigione di Wadi al-Natrun, mega-carcere descritto da al-Sisi come il non plus ultra del rispetto dei diritti dei detenuti. Cento chilometri dal Cairo, lontano da occhi indiscreti e dalle visite familiari: “È stato condotto un intervento sanitario, le autorità giudiziarie sono state informate - hanno detto a Seif - Alaa sta bene”. Parole che hanno avuto l’effetto opposto: non hanno tranquillizzato, hanno impaurito. Il timore è l’alimentazione forzata, palese violazione dei diritti umani. A preoccupare è anche un altro arresto, quello di Ahmed Nazir al-Helw, avvocato di diversi prigionieri politici, alcuni membri della Fratellanza musulmana, martedì al Cairo. Una detenzione che molti vedono legata alla protesta prevista per oggi dopo la preghiera di mezzogiorno, ribattezzata “11/11”, di per sé vietata dalla legge anti-terrorismo del 2013, uno dei primi atti del golpista al-Sisi. Chi ci sia dietro non è chiaro, a far girare l’appello da qualche settimana sono video e hashtag sui social media. In attesa dell’arrivo del presidente statunitense Joe Biden, l’Egitto non sa cosa attendersi da un venerdì di potenziale protesta: il capo della Casa bianca parlerà di fronte ai rappresentanti di duecento paesi di clima ed emergenza ambientale, mentre fuori un intero paese soffoca di repressione. A centinaia sono stati già arrestati preventivamente, 300 solo al Cairo, attivisti, dissidenti, avvocati, comuni cittadini. A 165 di loro, scrive The New Arab, sarebbero già stati comminati quindici giorni di detenzione. Secondo l’agenzia indipendente Mada Masr, molti sono accusati di aver chiamato alla piazza con messaggi vocali e video in cui criticano il regime, lamentano la crisi economica, condannano le politiche del governo. E Il Cairo è già militarizzata, come Alessandria, Luxor, Giza: agenti in borghese e mezzi militari nelle piazze principali, poliziotti che consegnano ordini di chiusura ai negozi, eventi culturali e sportivi sospesi fino alla giornata di sabato. Lo spettro della rivoluzione del 2011 spaventa ancora. La rivolta in Iran ricorda i suoi martiri. E le attrici ci mettono il volto di A. Divanabadi Il Manifesto, 11 novembre 2022 Dalle piazze ai social. Proiettili d’assalto contro le proteste, prosegue nelle piazze la strage delle milizie Basiji. La foto di un manifestante ucciso dopo essere stato legato a un palo diventa performance di piazza. La foto di un manifestante ucciso dopo essere stato legato a un palo diventa performance di lotta. E la star del cinema iraniano Taraneh Alidoosti si schiera, le colleghe la seguono: “Gridiamo ciò che grida la nostra gente: donna, vita, libertà” Non si fermano le proteste in alcune delle principali città iraniane. A Teheran, Marivan, Mashhad, Rasht, Esfahan, Shahrekord, Mahabad, Sanandaj e Bandar Abbas anche ieri i manifestanti sono scesi in strada e si sono registrati nuovi episodi di violenza. A Qahdarijan, nella provincia di Isfahan, si parla di numerosi feriti a causa della repressione particolarmente feroce. Ma le proteste si protraggono da talmente tanti giorni che siamo già agli anniversari. A Marivan infatti, giovedì i manifestanti hanno organizzato un corteo per ricordare la morte di Mokhtar Ahmadi, uccisa con un proiettile d’assalto da parte delle forze dell’ordine durante una protesta il 1° ottobre scorso. Per le strade del centro di Marivan i manifestanti gridavano “donna vita libertà e morte al dittatore”. A Mahabad si sono tenuti i funerali di Faeq Mam Qaderi, ferito anche lui da proiettili d’assalto esplosi contro la sua auto il 15 ottobre scorso. Il ragazzo è morto il 9 novembre all’ospedale cittadino di Urmia, nei cui pressi si sono poi radunati i suoi concittadini. Non si fermano neanche gli assalti delle forze di sicurezza e degli squadroni del Basij, le milizie filogovernative, contro le università. Durante un attacco a sorpresa di alcuni gruppi in assetto antisommossa a uno studentato dell’università di Kerman nelle ore serali di mercoledì 9 novembre, almeno tre studenti sono rimasti ferite da proiettili di gomma di calibro simile a quello dei pallettoni da caccia. Taraneh Alidoosti, famosa attrice iraniana, ha pubblicato sul proprio profilo Instagram una foto mentre non indossa il velo e tiene tra le mani un cartello con su scritto “Jin Jiyan Azadi” (donna, vita libertà in curdo). Poco dopo, altre tre attrici iraniane hanno seguito Alidoosti. La prima è Donya Madani, che ha pubblicato una sua foto mentre non indossava il velo come gesto di solidarietà con Alidoosti e ha scritto: “Io combatto per Zan Zendeghi Azadi (donna vita libertà in farsi, ndr) e tu ci aiuti ad abituarci a quella libertà”; poco dopo ha seguito il suo esempio Khazar Masoumi, che ha pubblicato una dichiarazione più o meno simile. La terza, Mina Akbari ha invece scritto: “Taraneh tra il cinema e il popolo ha scelto quest’ultimo e anch’io ho intenzione di fare la mia parte e grido ciò che grida la mia gente: Zan Zendeghi Azadi”. In varie città i giovani hanno dato vita a una sorta di performance per inscenare una foto che ritrae Khodanour Lajei, un manifestante ucciso durante le proteste di venerdì 30 settembre a Zahedan. Lajei due mesi prima dell’inizio delle proteste era stato legato a un palo in città dalla polizia e quando ha chiesto dell’acqua, hanno lasciato un bicchiere per terra davanti a lui. Elham Afkari, sorella del lottatore iraniano Navid Afkari che è stato condannato a morte con la falsa accusa di omicidio dopo le proteste del 2019, è stata arrestata dalle forze della sicurezza iraniane a Shiraz con l’accusa di collaborazione con Iran International, l’emittente in lingua farsi con base a Londra (da poco aggiunta alla lista dei gruppi terroristici da parte delle autorità iraniane). Nonostante Iran International abbia smentito qualsiasi collaborazione con la ragazza, le autorità non hanno acconsentito alla sua liberazione. Come spesso è avvenuto nelle ultime settimane, il governo ha fatto sentire la sua voce per mezzo dei vertici militari. Il generale Yahya Rahim Safavi, consigliere militare dell’ayatollah Khamenei stavolta si è rivolto direttamente ai Paesi del golfo che “non devono intervenire nei nostri discorsi nazionali e devono scegliere tra i loro media e la loro sicurezza territoriale quale importa di più. Anche perché i loro media hanno cercato di infiltrarsi in Iran usando delle spie”. A supporto delle sue accuse Safavi non ha fornito alcuna prova. Intanto ieri si è saputo che il comitato delle famiglie vittime del volo ucraino PS752, abbattuto dai missili della Guardia della rivoluzione nel gennaio 2020, ha convocato per il 19 novembre una manifestazione nazionale in ricordo delle vittime dell’aereo e delle proteste del 2019. Alessia liberata dall’Iran dopo 45 giorni: “Tenuta anche bendata, è stata dura” di Giuliano Foschini La Repubblica, 11 novembre 2022 Il lavoro dei Servizi per convincere la polizia che non era una spia. E la telefonata di Tajani. Quarantacinque giorni di carcere, bendata, accusata di essere una spia. E una storia che “sarebbe potuta durare molto di più se qualcuno avesse sbagliato: e invece tutti sono stati bravi e siamo qui ad abbracciarla” dice chi ha seguito questa storia dal primo minuto. Alessia Piperno è tornata a casa. La giovane blogger romana arrestata a Teheran un mese e mezzo fa è atterrata ieri pomeriggio a Roma: da giorni filtrava grande ottimismo, ma tutto è successo nelle ultime 48 ore con due contatti telefonici tra il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e il suo omologo iraniano, Ami Adullahian. E poi la telefonata della premier Giorgia Meloni ai genitori di Alessia: “E' con noi, sta rientrando”. La trattativa - La grande accelerata c'è stata negli ultimi due giorni ma il risultato è il frutto di un lavoro che è cominciato un mese e mezzo fa. E che ha avuto momenti di grande tensione. Alessia era stata arrestata con un'accusa non semplice per le leggi iraniane: era infatti indagata per aver partecipato ad alcune delle manifestazioni contro il Governo e soprattutto di averle filmate. Quando infatti la Polizia ha fatto irruzione nell'ostello dove la ragazza dormiva insieme con decine di altri europei, anch'essi arrestati, è stato sequestrato del materiale che aveva sui telefoni e sui computer. Si trattava del suo lavoro: Alessia è una travel blogger, era in Iran per raccontare quello che vedeva. Difficile però da spiegare ai governi di certi regimi, travolti dalle paranoie. “Temevano che stesse lì per fare riprese per conto di qualcuno” spiega a Repubblica una fonte di Intelligence. E per questo è stata portata nel carcere più duro, quello di Evin, riservato a chi è sospettato di spionaggio. E' stato il momento più difficile. Alessia rischiava di affrontare un processo lunghissimo che, al di là dell'esito, sarebbe inevitabilmente durato per mesi, forse anni. E rischiava di affrontarlo in carcere. Era quello che la nostra diplomazia doveva evitare. L'ambasciatore italiano in Iran, Giuseppe Perrone, e tutti i suoi funzionari; un diplomatico esperto come Luigi Vignali, direttore generale per gli italiani all'estero; i ministri Luigi di Maio prima e Antonio Tajani poi, gli uomini dell'Aise: hanno giocato ciascuno il proprio ruolo, e lo hanno fatto bene. Tranquillizzando la famiglia Piperno per evitare lo scontro pubblico con l'Iran; spiegando a Teheran che Alessia non aveva alcun ruolo politico (essendo sconosciuta alla nostra intelligence) né lavorando per qualcuno all'estero ma solo per il suo blog; offrendosi come interlocutori di Ali Khamenei su partite europee. I segnali - Il primo segnale che le cose si stavano mettendo sul binario giusto è arrivato esattamente un mese fa, tra il 9 e il 10 ottobre quando la nostra ambasciata ha potuto vedere per la prima volta Alessia in carcere. Stava bene, non aveva subito alcuna violenza. La tenevano in cella in quel momento con un'altra ragazza, iraniana, che non parlava l'inglese. Era spaventata anche perché, ha raccontato, spesso la tenevano bendata. “Ma mi danno da mangiare, cibo occidentale, e non mi hanno mai fatto del male”. Da quel momento è cominciata l'interlocuzione con Aise: i nostri 007 sono stati in grado di dimostrare che Alessia non fosse un'attivista e soprattutto che non lavorasse per alcun governo straniero. La famiglia Piperno ha raccolto la richiesta del silenzio e si è affidata alla Farnesina. Che ha cominciato il lavoro politico: l'Iran ha la necessità di mostrarsi all'Occidente come credibile, per arrivare al ritiro delle sanzioni. E ha chiesto l'aiuto dell'Italia. L'ambasciata nel frattempo continuava a tenere i rapporti con Alessia: ci sono stati altri due incontri in carcere nei quali hanno verificato le sue condizioni, sostanzialmente buone. Tra martedì e mercoledì l'accelerata: due telefonate a livello ministeriale, con Tajani che si è mosso personalmente. Il segnale decisivo è stata una nota, con le foto dei due ministri, mandata dall'ambasciata dell'Iran con i riferimenti “al negoziato per la revoca delle sanzioni” e le dichiarazioni di Tajani: “Iran e Italia sono gli eredi di antiche civiltà e possono avere relazioni estese e crescenti. L'Italia farà ogni sforzo per raggiungere un accordo che soddisfi gli interessi di tutte le parti”. Dopo nemmeno un'ora Alessia era fuori dal carcere. La premier Meloni ha aspettato che fosse con l'ambasciatore per chiamare i genitori. “Sta tornando. Ci vediamo a Ciampino”. Ghana. Il cammino lungo e inesorabile verso lo stop alla forca di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 11 novembre 2022 Il presidente Nana Akufo-Addo si è espresso per l’abolizione della pena capitale: “La cosa logica da fare, avendo deciso di non eseguire più le condanne”. L’imminente voto all’Onu sulla moratoria è un’occasione. Nello stemma che la Regina Elisabetta II concesse al Ghana il 4 marzo del 1957, due giorni prima della sua indipendenza, è raffigurato - accanto al motto “Libertà e Giustizia” - un albero di cacao. Questa pianta originaria dal Sudamerica fu importata dai coloni e fece la fortuna del Paese, divenuto tra i principali produttori mondiali di cacao. Chiudo allora gli occhi e provo a visualizzare un’altra forma di ricchezza, quella della saggezza che come ogni albero anche questo può dispensare. Una leggenda vuole che il cacao sia germogliato dal sangue versato da una principessa, uccisa dai nemici del suo sposo, un Dio buono, che l’aveva lasciata a tutela dei tesori per andare a difendere i confini del regno. Quando il re tornò e scoprì quanto accaduto decise di donare agli uomini a ricordo della sua amata quella pianta con quel suo frutto che nasconde un tesoro di semi amari come le sofferenze dell’amore, forti come il coraggio, rossi come il sangue ma che, debitamente lavorati, diventano dolcissimi. Non a caso il nome scientifico è Theobroma cacao che si traduce letteralmente in “cibo degli Dei”, considerato elisir di lunga vita e un tempo usato in medicina per accelerare la guarigione delle ferite. Accade allora che il Presidente del Ghana, Nana Akufo-Addo, che difende la produzione locale di cacao dalle multinazionali arrivando anche a promettere cioccolato gratis per tutti i bambini, si sia di recente espresso per l’abolizione della pena di morte. Lo ha fatto in occasione di un incontro, il 5 novembre scorso, con una delegazione di Amnesty International durante il quale ha detto che “dopo che il Ghana ha consapevolmente deciso di non eseguire le condanne a morte, si dovrebbe ‘fare la cosa logica’ e abolirla completamente dall’ordinamento, cosa che si sarebbe dovuta compiere da tempo”. In effetti, l’abolizione della pena di morte è nell’agenda politica del Paese da oltre un decennio. Ricordo quando con Marco Perduca ci recammo ad Accra, la capitale del Paese, nel dicembre del 2010, per incontrare, accompagnati dall’Ambasciatore italiano Tullio Guma e nell’ambito di un progetto sostenuto dall’Unione europea, l’allora Mumuni, che già aveva discusso di pena di morte con il Ministro della Giustizia trovandosi entrambi d’accordo sull’abolizione. Incontrammo anche Raymond Atuguba, Segretario esecutivo della Commissione per la revisione della Costituzione, alle prese con una consultazione nazionale e con l’organizzazione di una Conferenza nazionale costituzionale in cui ci volle coinvolgere. Vi partecipò Matteo Mecacci come esperto per conto di Nessuno tocchi Caino. Accadde così che la Relazione conclusiva della Commissione di Revisione Costituzionale, divenne un Libro Bianco, che raccomandò di sostituire la pena di morte con l’ergastolo e venne firmato dall’allora Presidente della Repubblica John Evans Atta Mills, che lo rese pubblico sulla Gazzetta ufficiale il 15 giugno 2012. Vi si legge: “La sacralità della vita è un valore così radicato nell’anima della società ghanese che non può essere messa a repentaglio con incertezze giudiziarie”. Una raccomandazione illuminante accolta dal Governo e che trovò nel 2014 anche il conforto di un sondaggio che rilevò come il 48,3% dell’opinione pubblica fosse contraria alla pena di morte rispetto al favore del 40,7%. Intanto però i detenuti in attesa di esecuzione sono saliti ad almeno 171. In questi anni, a sfoltire le presenze nel braccio della morte, ci hanno pensato i Presidenti del Ghana, con una serie di grazie, l’ultima delle quali intervenuta nel luglio del 2020 quando l’attuale Presidente Akufo-Addo ha concesso l’amnistia a 794 detenuti, tra cui 2 condannati a morte, come parte delle misure per decongestionare le prigioni a seguito della pandemia. Ecco allora che il voto imminente all’Assemblea generale dell’Onu sulla risoluzione pro moratoria diventa un’occasione per il Ghana di passare dalla consapevolezza della bontà della moratoria sul piano interno a una elevazione di coscienza con un voto a favore sulla risoluzione stessa. Certo, Nana Akufo-Addo ha voluto sottolineare che per quanto riguarda i reati di terrorismo occorre considerare la particolare delicatezza della questione, ritenendo che sia “importante che l’educazione e la sensibilizzazione siano sufficientemente orientate per affrontare la questione”. Una cosa è sicura: il processo abolizionista in Ghana è lento ma inesorabile. Sta anche a noi accelerarlo con idee, parole che riattivino quelle forme di giustizia che, più che punire e separare, siano volte a guarire e riparare, un po’ come fa il cacao. In Africa non si tratta di portare qualche cosa di nuovo quanto piuttosto rivitalizzare ciò che è sedimentato in memorie che come occidentali abbiamo ritenuto di dover rimuovere. Somalia. La strage della carestia di Guido Alfani La Repubblica, 11 novembre 2022 Il Paese africano vive l'ennesima crisi alimentare, aggravata dalle conseguenze del Covid e dell'invasione russa dell'Ucraina. Mentre l'attenzione dell'Occidente rimane concentrata sulla guerra in Ucraina, la Somalia scivola rapidamente verso quella che, secondo le Nazioni Unite, potrebbe risultare la peggiore carestia degli ultimi cinquant'anni. Già a fine settembre, la Fao aveva avvisato che quasi sette milioni di somali non avrebbero avuto cibo a sufficienza negli ultimi mesi dell'anno, e che nel Sud del Paese la carestia era quasi inevitabile. Da allora, la situazione non è migliorata. Per avere un'idea della possibile entità del fenomeno basti ricordare che durante la più recente carestia somala, nel 2010-12, morirono di fame tra un minimo di 50-100.000 persone e un massimo di 250.000. Prima, all'epoca della carestia del 1991-92, le vittime potrebbero essere state 300.000. Ma i danni umani che una carestia può causare vanno ben oltre la conta dei morti: nel 2012, un milione di somali cercarono salvezza fuori del proprio Paese, dirigendosi principalmente verso campi profughi allestiti in Kenya ed Etiopia. A un decennio di distanza, molti tra loro non hanno ancora potuto fare ritorno, viste le difficili condizioni in cui la Somalia continua a versare. Per giunta, l'esperienza prolungata della fame può causare danni permanenti: sia fisici, sia psicologici (l'Organizzazione Mondiale della Sanità stima che circa un terzo dell'attuale popolazione della Somalia soffra di qualche forma di disturbo mentale). La Somalia, purtroppo, tende a figurare costantemente nella lista dei Paesi con i peggiori livelli di sicurezza alimentare, in ragione della sua estrema povertà e della guerra civile che la affligge da decenni. Nell'immediato, i problemi da fronteggiare sono due: primo, fornire aiuti adeguati a contenere la catastrofe umanitaria (a settembre le Nazioni Unite avevano già raccolto 1.4 miliardi di dollari a favore della Somalia, ma stimavano che occorresse urgentemente almeno un altro miliardo). Secondo, accertarsi che i fondi raccolti possano essere spesi in modo efficace, anche garantendo la sicurezza degli operatori delle Ong attive sul territorio. E tuttavia, l'aspetto forse più preoccupante della crisi in corso è che potrebbe solo essere la prima di una serie. La guerra ha pesanti responsabilità: sia l'eterna guerra civile in Somalia, sia la guerra tra Russia e Ucraina, due dei massimi produttori mondiali di cereali, che ha causato massicci aumenti dei prezzi degli alimenti. La situazione si è ulteriormente aggravata negli ultimi giorni per il temporaneo (ma molto allarmante) ritiro della Russia dall'accordo, negoziato dalle Nazioni Unite, sull'esportazione di grano ucraino dal porto di Odessa. La Storia insegna che la guerra è sempre stata capace d'innescare crisi alimentari. Tuttavia, nel lungo periodo la causa prevalente delle carestie è un'altra: il verificarsi di episodi di instabilità metereologica in presenza di una forte pressione demografica sulle risorse disponibili. In Somalia, la popolazione è quasi raddoppiata rispetto ai livelli degli anni Novanta e il Paese sta soffrendo per la peggiore siccità degli ultimi quarant'anni, che ha compromesso o interamente distrutto i raccolti. La siccità, così come altre forme di instabilità meteorologica, tende a diventare più probabile in fasi di rapido cambiamento climatico. Anche se riusciremo, nei prossimi anni, nell'arduo compito di contrastare efficacemente il surriscaldamento globale, è troppo tardi per evitare una lunga fase di instabilità meteorologica globale e i relativi rischi per la sicurezza alimentare - come peraltro la Fao rilevava da ben prima che Covid-19 e guerra in Ucraina complicassero ulteriormente la situazione. Dobbiamo riconoscere apertamente il problema, come primo passo per costruire il consenso politico internazionale necessario a rafforzare la nostra capacità di fronteggiare le prossime, inevitabili minacce per la sicurezza alimentare, che non colpiranno solo la sfortunata Somalia ma coinvolgeranno certamente molte altre parti del mondo.