Mafia, altri reati, collaborazioni: miglioriamo la legge sul 4bis di Franco Mirabelli* Il Riformista, 10 novembre 2022 Il provvedimento sull’ergastolo ostativo, contenuto nell’ultimo decreto del Governo, ripropone integralmente il testo approvato alla Camera nella scorsa legislatura, non licenziato definitivamente al Senato a causa dell’interruzione anticipata della stessa. Con questa norma si risponde, credo positivamente, a ciò che la Corte Costituzionale aveva chiesto al legislatore: da una parte consentire, nel rispetto della idea di funzione riabilitativa della pena contenuta nella nostra Costituzione, la possibilità di accedere ai benefici anche ai detenuti condannati per reati di mafia che non collaborano con la giustizia, dall’altra garantire che l’accesso a quei benefici non significhi mettere in libertà persone che mantengono rapporti o, addirittura, ruoli nelle organizzazioni criminali. Resta, in concreto, il tema della distinzione tra i reati ostativi. Il testo approvato alla Camera definisce giustamente un doppio binario tra reati di mafia e terrorismo e gli altri reati che negli anni sono stati aggiunti al 4bis. Su questo è necessario arrivare ad una definizione più chiara della differenziazione soprattutto delle procedure per l’accesso ai benefici. Credo che la sentenza della Corte sia giusta e benvenuta. Ristabilire il principio secondo cui a nessuno in carcere può essere tolta la speranza o esclusa la possibilità di cambiare è giusto e coerente con la funzione della pena così come è definita dalla nostra Costituzione. Certo di fronte a reati odiosi come quelli di mafia serve rigore nel verificare una reale presa di distanza dalle organizzazioni criminali e prevedere un numero di anni di reclusione più alto per poter accedere alla liberazione anticipata o agli arresti domiciliari. Ma resta sancito il principio che a nessuno può essere preclusa la possibilità di ottenere i benefici previsti dalla legge e il fatto che si dia esplicitamente valore agli atti riparativi per le decisioni dei magistrati di sorveglianza è una ulteriore importante innovazione. Sancire che la collaborazione non possa più essere necessaria per accedere ai benefici non può e non deve, in alcun modo, far passare in secondo piano il valore che lo Stato attribuisce alla collaborazione che è, e resta, uno strumento importante e spesso decisivo per la lotta alle mafie. Per questo serve, contestualmente all’approvazione della legge, magari emendandola su questo, una nuova normativa che incentivi ulteriormente la collaborazione, definendo nuovi benefici o, semplicemente, riducendo i tempi per accedervi. Di questo tema dobbiamo farci carico se vogliamo evitare che una nuova legge per quanto giusta faccia perdere di vista l’attualità della lotta alle mafie e la necessità di rafforzare gli strumenti per contrastarle. *Vice presidente del gruppo Pd al Senato Ergastolo ostativo, Grasso: “Adesso il testo va corretto in Parlamento” di Liana Milella La Repubblica, 10 novembre 2022 “Scelta obbligata quella della Consulta” dice l’ex magistrato antimafia. Con chi si professa garantista l’ex procuratore insiste: “È sempre necessaria la prova rigorosa dell’interruzione di qualsiasi collegamento del detenuto con le cosche”. Giovedì 17 ne parlerà a una platea online di 50mila studenti. “Obbligato il rinvio in Cassazione deciso dalla Consulta”. Non ha dubbi Piero Grasso, l’ex procuratore nazionale antimafia, che adesso, non più senatore, gira l’Italia per raccontare cos’è la mafia e come bisogna combatterla “senza abbassare mai la guardia”. Secondo Grasso il decreto Meloni “va migliorato perché contiene contraddizioni e sovrapposizioni”. Ma sbaglia chi sostiene che si possa concedere la liberazione condizionale a un ergastolano senza l’assoluta garanzia della sua rottura con l’organizzazione criminale di cui ha fatto parte. La Consulta rinvia alla Cassazione la palla sull’ergastolo ostativo, scelta “obbligata”, oppure una mossa da Ponzio Pilato? “Scelta obbligata, dal momento che il decreto è immediatamente in vigore e quindi, cambiando i presupposti del giudizio, investe nuovamente la corte di Cassazione che ha sollevato la questione, e che opportunamente immagino attenderà i 60 giorni e la definitiva conversione in legge del decreto, che spero contenga modifiche migliorative”. Beh, di sicuro la prima decisione importante della presidente Sciarra non va contro il governo Meloni. Savoir faire tra donne, o scelta compiacente? “Nessuna delle due: la Consulta, con alto senso di collaborazione istituzionale, ha atteso che il Parlamento modificasse la norma prima di dichiararne l’incostituzionalità, oggi la legge è cambiata e ne vanno rivalutati i profili di costituzionalità”. Ma lei è proprio sicuro che la Corte invece, seguendo il suo orientamento ormai consolidato dal 2019, con la sentenza sul 4bis e la concessione dei permessi anche senza la collaborazione, non avrebbe potuto chiudere subito la partita con una bella bocciatura del decreto Meloni? “Ne sono sicuro. Il decreto Meloni, riprendendo il testo approvato dalla Camera, ha superato i rilievi di incostituzionalità ammettendo la possibilità di benefici penitenziari anche senza collaborazione”. E ora che succede? “Ora si apre una partita nuova sui requisiti richiesti nella nuova legge per ottenere i benefici. Non dimentichiamo che la stessa Corte, intervenendo sui permessi premio, ha messo espressamente tra i requisiti necessari non solo la mancanza dell’attualità dei collegamenti, ma anche il pericolo del loro ripristino, dando un giusto equilibrio alle esigenze di sicurezza sociale rispetto al principio di rieducazione della pena”. Diciamo la verità, con il testo della Camera sull’ergastolo ostativo non uscirà più nessuno dal “fine pena mai”. Per questo a lei, da sempre magistrato antimafia, questo testo piace? “Il testo va corretto perché contiene contraddizioni e sovrapposizioni. Io presentai degli emendamenti che spero siano recuperati. Che sia necessaria la prova rigorosa dell’interruzione di qualsiasi collegamento con le mafie non c’è dubbio, si può discutere sull’equiparazione dei condannati per reati di criminalità organizzata e terrorismo con quelli per reati diversi, che non erano nel disegno originale della legge e sono stati aggiunti negli anni”. Scusi, ma l’Italia con questo testo non si fa beffe della corte europea di Strasburgo che è su una linea completamente differente? “Probabilmente non siamo stati capaci di spiegare bene ai giudici della corte di Strasburgo la pericolosità, la forza e l’indissolubilità del vincolo mafioso”. Ha visto che anche un magistrato che passa per un manettaro come Henry John Woodcock sostiene che il pentimento, che lui definisce “delazione”, non può essere l’unica via per ottenere permessi, soprattutto se uno ha scontato correttamente la pena e ha dato concreti segni di ravvedimento, nonché di effettiva rottura con il mondo mafioso? “Non sono d’accordo col termine “delazione”, perché è solo grazie ai pentiti che abbiamo potuto conoscere i segreti di Cosa nostra e arrivare vicini alla verità, anche se ancora parziale, sulle stragi. Sull’effettiva rottura sono d’accordo, e infatti la legge mira a stabilire i parametri e le procedure per verificarne l’effettività”. Lei è dell’idea che chi è stato mafioso lo sarà per sempre? “Io stesso ho sentito dalla viva voce di mafiosi un effettivo cambiamento che però è poi, coerentemente, sempre sfociato nella collaborazione con la giustizia. Nella legge in discussione, comunque, al centro non c’è la collaborazione ma, giustamente, il principio del ravvedimento, che si può dimostrare in molti modi: è su questo che i condannati saranno valutati, ed è giusto che i paletti restino non impossibili ma rigorosi”. Non è legittima per chi collabora la paura di ritorsioni verso i familiari? Non è un motivo sufficiente per non farlo? “Da uomo dello Stato ricordo che noi proteggiamo anche i familiari dei collaboratori di giustizia. Se allo Stato si chiede fiducia nel proprio cambiamento, sarebbe legittimo pretendere altrettanta fiducia in tema di protezione”. Lei ha scelto la strada di parlare ai giovani e raccontare la sua vita e il suo lavoro. Lo farà ancora la prossima settimana davanti a una foltissima platea di studenti. Cosa racconta a questi giovani che non hanno vissuto la stagione dei processi di mafia? Che non si esce da Cosa nostra se non abiurandone completamente l’appartenenza? “Sono stato invitato dalla piattaforma Unisona a parlare giovedì 17 novembre da Milano del mio libro “Il mio amico Giovanni” con Salvo Ficarra per un evento online in diretta streaming che nel corso delle settimane ha visto lievitare le adesioni fino al numero record di 50mila partecipanti. Già questo è il segnale che il tema appassiona i giovani e le scuole molto più di quanto non interessi la politica e i media. Agli studenti, che incontro ogni settimana in ogni parte d’Italia, racconto le storie di uomini e donne con cui ho lavorato, e che avevano come principi guida il senso del dovere e il senso dello Stato. La loro reazione per me è sempre toccante: le figure di Falcone e Borsellino devono rimanere esempi per le nuove generazioni” Ora che non è più né magistrato né senatore quale sarà il suo “lavoro”, raccontare cos’è stata la vita da magistrato accanto a Falcone e che cos’è la mafia ancora oggi? Risponderà anche all’eventuale domanda su come sarà vissuto da Cosa nostra un governo di estrema destra come quello di Meloni? “Con gli studenti non entro mai nelle questioni politiche quotidiane, parlo di grandi personaggi e di principi. Per me è importante spiegare che la mafia è la privazione di diritti, di libertà, di possibilità di lavoro, una forma di inquinamento dell’economia, della politica e dell’ambiente, ma che ci sono stati periodi in cui un gruppo di persone si è impegnata per battere non solo dei criminali, ma un sistema di potere e di consenso. Condividere con le nuove generazioni ricordi, idee e valori per far nascere scintille di futuro è la forma più alta di impegno cui voglio dedicarmi nei prossimi anni”. In regime ostativo per un furto di 200 euro: ha tentato il suicidio, ora è in coma di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 novembre 2022 La storia di Giovanni Presta, recluso senza diritto ai benefici per un reato che prevede una pena di 4 anni. Il suo avvocato: “Il reato ostativo non è giustizia, è solo vendetta!”. Non solo l’ergastolo, ma al tragico elenco del 4 bis (ostativo ai benefici penitenziari) si sono aggiunti nel tempo altri reati che nulla hanno a che vedere con il sodalizio mafioso con il quale recidere o mantenere i collegamenti. Il decreto legge varato dal governo Meloni, che ora la Corte costituzionale ha rimandato in Cassazione per una nuova valutazione, non contempla solo gli ergastolani come si vuol far credere. Era uno scippo ed è stato qualificato come rapina - E accade che si può finire in regime ostativo anche per una rapina di 200 euro come il caso di Giovanni Presta. Recluso al carcere calabrese di Vibo Valentia, lunedì scorso ha tentato il suicidio ed ora è in coma. A segnalare questo tragico episodio a Il Dubbio è il suo avvocato difensore Gianluca Garritano del foro di Cosenza. Il suo assistito era detenuto per una sorta di scippo, però il reato è stato qualificato come rapina. Prima della sentenza definitiva era agli arresti domiciliari con l’autorizzazione al lavoro. Parliamo di una pena inferiore ai 4 anni, quindi con la possibilità di accedere ai benefici. Ma il suo titolo di reato rientra nell’ostatività ed è quindi dovuto tornare in carcere: prima di presentare qualsiasi istanza, doveva aspettare la fine della pena ostativa. Taluni reati sono ostativi alla concessione di misure alternative al carcere - L’avvocato difensore Garritano spiega a Il Dubbio, e soprattutto ai non addetti ai lavori, che “l’ostatività” non riguarda solo la pena dell’ergastolo. “Taluni reati, come la rapina, sono ostativi per la concessione di misure alternative al carcere. E, di conseguenza - sottolinea l’avvocato -, può capitare che il mio assistito commetta una rapina (per un importo di 200 euro), e venga condannato ad una pena inferiore ai 4 anni di carcere (limite massimo per la concessione della misura alternativa dell’affidamento in prova ai servizi sociali) e che lo stesso non possa che scontare l’intera pena solo ed esclusivamente in carcere. Tutto ciò perché il titolo del reato è “ostativo”“. Nelle carceri mancano gli specialisti per un’adeguata assistenza psicologica - E l’avvocato Garritano prosegue: “Può capitare che colui che ha commesso la rapina di 200 euro (già questo ne dimostra la disperazione), dopo oltre un anno e sei mesi di carcere presso la Casa Circondariale di Vibo Valentia decida di suicidarsi ed ora si trovi ricoverato in stato di coma. Si, per una rapina di 200 euro, quel taluno non poteva beneficiare di nessuna misura alternativa”. E aggiunge: “Senza adeguata assistenza psicologica perché nelle carceri spesso mancano gli specialisti. Non si sa se sopravvivrà. Resta però vivo il reato ostativo, sempre, e per quei reati resta vivo in modo oggettivo, senza possibilità alcuna di valutare efficacemente la personalità del singolo soggetto”. L’avvocato: “Il reato ostativo non è civiltà, non è giustizia, ma è solo vendetta!” - L’avvocato Garritano si chiede se sia giusto così. “No, non è giusto, “il reato ostativo” non è civiltà, non è giustizia, ma è solo vendetta di uno Stato “democratico”! Tenetevi il reato ostativo e noi Avvocati continueremo a lottare per la vita e per la civiltà giuridica”, conclude amaramente. L’articolo 4 bis, quello ostativo, come già ricordato su Il Dubbio, è l’esempio perfetto del panpenalismo. Una norma che nasce come una eccezione (le stragi di mafia) ma che con il passar del tempo si è ampliata e come una calamita ha attirato a sé tutti quei reati che diventano - a seconda le emozioni del momento - delle vere e proprie emergenze. Anche quando le emergenze, di fatto, non ci sono. Tant’è vero che siamo arrivati fino alla “spazza-corrotti”. La riforma Bonafede ha allargato il 4 bis anche a chi commette reati di corruzione nella pubblica amministrazione - La famigerata riforma Bonafede, targata Movimento 5 Stelle, ha allargato il 4 bis anche nei confronti di chi commette reati di corruzione nella pubblica amministrazione. Se si analizza il catalogo dei reati ostativi contemplati nelle versioni di volta in volta innovate, si può allora constatare come tale catalogo si estenda al verificarsi di fenomeni criminali che suscitano un particolare allarme sociale. Che la pena sia temporanea o perpetua, dunque, dal carcere non si esce se non attraverso la collaborazione, oppure attraverso il superamento - come prevede il decreto legge difeso dall’attuale guardasigilli Carlo Nordio che ricalca e a tratti peggiora il testo di riforma approvato dalla camera nella scorsa legislatura - di rigidissimi paletti che diventano, di fatto, insormontabili. L’Italia è sotto osservazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa - La Corte costituzionale - come ha affermato l’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino - ha deciso di non decidere: prima al Parlamento con ben due rinvii e poi alla Cassazione a cui ha, come richiesto il governo, restituito gli atti per una valutazione del decreto. Il nostro Paese continua ad essere sotto osservazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per il rispetto della sentenza pilota Viola contro Italia, patrocinata dall’avvocato Antonella Mascia e sostenuta con un amicus curiae anche da Nessuno tocchi Caino. Sentenza che ha sancito la violazione sistematica dell’articolo 3 della Convenzione connessa alla disciplina dell’articolo 4 bis e ha affermato il diritto alla speranza come diritto umano fondamentale. Poco è cambiato tramite decreto. Certa retorica antimafia vorrebbe far credere che gli ostativi siano tutti come Totò Riina - Con l’ostativo alcuni continueranno ad uscire tramite la bara, altri - come Giovanni Presta per un furto di 200 euro - attraverso un tentativo di suicidio. Ora è in coma, ma secondo le notizie reperite dall’avvocato, rischia seriamente di non farcela. Potrebbe diventare il 74esimo suicido dall’inizio dell’anno. Da tenere bene in mente quando strumentalmente si usa una certa retorica antimafia facendo credere che gli ostativi siano tutti come Totò Riina. 78 anni, un tumore: dopo mezzo secolo ormai il carcere è dentro di me di Domenico Papalia* Il Riformista, 10 novembre 2022 Lo dico subito: della mia emarginazione e persecuzione sono responsabile anche io oltre allo Stato. Uno Stato che però non riesco a odiare. Uno Stato del quale avrei voluto fare parte. Voglio raccontare la mia storia anche se per me è un po’ faticoso. Non ho una base scolastica, ho imparato a leggere e scrivere in carcere, da autodidatta. Sono detenuto da circa mezzo secolo e una volta non c’era possibilità di studiare. Parto dall’inizio e dico subito che, oltre a quelle dello Stato, ci sono le mie responsabilità che hanno contribuito alla mia emarginazione e persecuzione. Ma sono incapace di odiare. Non riesco a provare odio contro lo Stato del quale avrei voluto far parte. Ho sempre pregato anche per i giudici che mi hanno condannato, spesso innocentemente. Sono nato e cresciuto in una famiglia numerosa e nella miseria. Avevamo del bestiame e ho fatto il pastore fino all’età di 18 anni. Eravamo ancora piccoli quando nostra madre si ammalò ed è caduta in depressione, costretta a letto per vent’anni, fino alla sua morte. Ho iniziato da ragazzo con piccoli furti. Per necessità, non perché in me era innata la tendenza a delinquere. Nel 1964 un mio fratello fu ucciso senza motivo da un paesano ubriaco. Ripeto, avevo 18 anni e per placare ogni istinto di vendetta sono emigrato a Corsico, Milano. Ho trovato lavoro in una impresa edile, ma il diavolo volle che io incontrassi cattive compagnie. Accettai di andare a rapinare una gioielleria. Me l’hanno fatta vedere ed esitai perché il luogo era pericoloso, cercai di scoraggiarli. Mi dissero che avevo paura e per dimostrare che non era così entrai con loro. Il gioielliere reagì e io sparai un colpo di pistola in aria per non fargli male. I clienti di un bar di fronte accorsero verso il negozio. Riuscii a scappare con un complice, un altro fu preso dalla folla e consegnato alla polizia. Confessò i nostri nomi, fui arrestato e pagai la mia pena. Dopo tre anni e mezzo uscii dal carcere e ritornai a Platì. Avevo capito la lezione e trovai un lavoro, ma quel precedente ha segnato la mia vita. Negli anni successivi sono rimasto legato come un cane alla stessa catena di fatti: soggiorno obbligato lontano da casa, lavoro che trovavo e che poi perdevo, ritorno obbligato a Platì e poi di nuovo via verso un altro soggiorno obbligato. Stavo lavorando a Platì con una ditta di Genova che operava nel campo elettrico quando per il precedente della rapina la questura di Reggio mi propose per le misure di prevenzione. Fui mandato al soggiorno obbligato in un paesino della provincia di Rovigo. Trovai lavoro in edilizia ma dopo quattro mesi il ministero mi trasferì a Lonate Mezzola, un paesino in provincia di Sondrio. Il Sindaco mi disse subito che se avesse avuto un posto di lavoro lo avrebbe dato a un suo cittadino e non a me. Ho resistito una settimana. Poi, pagai l’albergo, andai dal Sindaco, gli feci vedere la ricevuta, mi recai dai Carabinieri e comunicai che sarei tornato in Calabria. Mi avrebbero denunciato per allontanamento dagli obblighi. Me ne andai lo stesso, mi presentai al Procuratore della Repubblica di Reggio e gli raccontai la situazione. Non mi fece arrestare, mi disse di tornare al paese natio e aspettare la nuova assegnazione. Ero stato assunto dal comune di Platì e lavoravo da otto mesi quando arrivò il soggiorno obbligato nel comune di Cinisello Balsamo. Ho preso alloggio presso un albergo a spese del comune e trovai lavoro presso un’impresa edile. Una mattina di luglio del 1970 vennero a prendermi i carabinieri. Il giorno prima avevo prestato la mia macchina a un amico. Venne trovata a Firenze abbandonata poco distante da una banca che era stata rapinata. Ero un pregiudicato per rapina, non feci il nome dell’amico a cui l’avevo prestata e fui condannato a 5 anni e 6 mesi. A nulla valse la testimonianza del personale dell’albergo che il giorno della rapina non ero proprio uscito dalla camera. Dopo due anni sono stato scarcerato per decorrenza termini, ho scontato il residuo di soggiorno obbligato e come nel gioco dell’oca sono tornato al punto di partenza. In Calabria, a Platì. Mi venne incontro una ditta di Rozzano che vendeva mezzi meccanici per conto di un’impresa francese, la Ploclain. Raccontati al direttore la mia storia e i miei precedenti. Gli dissi che avevo solo 3 milioni di vecchie lire e chiesi di acquistare un escavatore a credito. Mi ha dato fiducia e un escavatore nuovo del costo di 30 milioni di lire. Altrettanto feci con la Fiat di Gioia Tauro che mi vendette un camion a rate. Avviai una ditta di movimento terra e a mano a mano che lavoravo pagavo tutte le cambiali anche in anticipo. Stavo lavorando onestamente, quando i “precedenti” mi riacchiapparono. Nel luglio del 1975, la Questura di Reggio mi propose nuovamente per il soggiorno obbligato e il Tribunale mi assegnò a Frasso Telesino, nella provincia di Benevento. Mi accolse la stessa storia di pregiudizio ed emarginazione da parte delle istituzioni locali. Scappai e mi diedi alla latitanza perché nel frattempo la pena per la rapina di Firenze era diventata definitiva e mi restavano tre anni e mezzo da espiare. Con la latitanza arrivarono nuove accuse e nuovi processi. Il 2 novembre 1976 ero in via Archimede a Roma quando il mio amico Antonio D’Agostino venne ucciso. Ero presente ma essendo latitante chiesi alle persone di chiamare un’ambulanza e mi allontanai. Sono stato arrestato l’8 marzo 1977 per un sequestro di persona e per il residuo pena della rapina di Firenze. Ma fui accusato anche dell’omicidio di D’Agostino. Per il sequestro tennero conto della mia posizione marginale, della breve durata del rapimento e del trattamento umano nei confronti dell’ostaggio. Mi furono concesse tutte le attenuanti e sono stato condannato a una pena tutto sommato lieve per il tipo di reato. Tra buona condotta, indulto e liberazione anticipata, dopo alcuni anni ho terminato la pena, ma sono restato dentro innocentemente per l’omicidio D’Agostino. Negli anni 90 lo stesso giudice che mi aveva fatto condannare, Ferdinando Imposimato, si era ricreduto e fece una campagna di stampa a mio favore. La prima istanza di revisione fu rigettata, ma non mi sono arreso e ho continuato a lottare finché, dopo 41 anni, la Corte di Appello di Perugia in sede di revisione mi ha assolto, grazie anche a una nuova perizia disposta dalla Corte che era sempre stata da me richiesta e rigettata. Purtroppo, sono ancora detenuto perché durante la carcerazione per l’omicidio D’Agostino sono stato accusato da falsi pentiti per l’omicidio dell’avvocato Pietro Labate di Reggio Calabria ucciso a Milano il 17 novembre 1983 dal poi collaboratore di giustizia Saverio Morabito. L’esecutore materiale mi aveva scagionato, ma sono stato condannato come mandante. Non è stata creduta la mia innocenza perché - si è sostenuto - ero un pregiudicato di omicidio, quello di Antonio D’Agostino che 41 anni dopo avrebbero riconosciuto di non aver commesso. In Cassazione, lo stesso Procuratore Generale chiese l’annullamento della sentenza e i miei avvocati stanno facendo le indagini investigative per la revisione del processo. Sempre per accuse false di collaboratori di giustizia sono stato condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’educatore carcerario Umberto Mormile, commesso l’11 aprile 1990. Anche per questo ci sono indagini difensive in corso per l’eventuale revisione. Ho già 78 anni, sono malato e di certo non vivrò altri 41 anni per vedere riconosciuta, come per l’omicidio D’Agostino, la mia innocenza. Nella mia vita carceraria, sono stato ammesso al lavoro esterno e ho usufruito di circa 50 permessi premio. Fino al 1992, anno di inizio dell’emergenza. Sono stato ricoverato in ospedale senza scorta o in detenzione domiciliare per motivi di salute. Mi sono costituito da solo quando non fu rinnovata. Ma non si tiene conto di tutto ciò per darmi fiducia. Proprio ultimamente mi è stato rigettato un permesso premio. Hanno considerato i due omicidi come reati ostativi, anche se l’ultimo risale all’11 aprile del 1990, prima della dichiarazione dello stato di emergenza. Non hanno tenuto conto delle sentenze della Corte costituzionale contro l’ergastolo ostativo e del mio percorso positivo: il mio impegno di studio universitario, la collaborazione con Ristretti Orizzonti, il corso di sociologia, i Laboratori Spes contra spem di Nessuno tocchi Caino. In carcere ho fatto sempre volontariato. Ho perso mio figlio di 19 anni la notte di capodanno quando una pallottola vagante rimbalzata sulla campana della chiesa del paese lo colpì a morte. Ho autorizzato l’espianto degli organi salvando la normalità della vita di sette persone. Da circa 32 anni sono iscritto al Partito Radicale e a Nessuno tocchi Caino. Sono 30 anni che collaboro con la Missione Don Bosco per i progetti nel terzo mondo. La sofferenza della detenzione per un reato che non ho commesso ha influito sulla mia salute. Le mie difese immunitarie sono venute meno a causa delle arrabbiature giornaliere. In mezzo secolo di detenzione ne ho ingoiate tante. Ora ho 78 anni e un tumore in metastasi. Ho chiesto una sospensione pena o la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute più di un anno fa e sono in attesa di una decisione del tribunale. In Italia esiste ancora lo stato di diritto? C’è o no una Costituzione che prevede che la pena debba essere rieducativa? Il prosieguo della mia sofferenza è inutile e gratuita. È un paradosso, ma il carcere di oggi è molto più disumanizzato e degradante di quello di una volta. Tutti questi circuiti detentivi differenziati non hanno fatto altro che peggiorare la situazione. Una volta esistevano le Case di Reclusione per i condannati definitivi con lavoro assicurato e celle singole; oggi si vive in promiscuità: giudicabili e definitivi, ergastolani e condannati a pene di qualche anno. Ricordo quando dal 1970 al 1972 ero detenuto a Firenze nel carcere di Santa Teresa. Lavoravamo tutti alla sartoria e all’Atala Sport. Le celle venivano aperte alle 7 e chiuse alle 23, cosa impensabile con la mentalità di oggi. Roba da medioevo. Per gli ergastolani che si comportavano bene, spesso, veniva chiesta la loro liberazione condizionale dal Direttore. Oggi non esiste che un Direttore chieda la liberazione condizionale o la grazia di un ergastolano che lo merita. A volte mi chiedo: se Cesare Beccaria fosse un nostro contemporaneo cosa scriverebbe a proposito del nostro carcere. Mi riferisco al carcere che abbiamo ognuno ormai dentro di noi. *Ergastolano detenuto a Parma Riforma penitenziaria: intervista al giurista Vincenzo Musacchio poliziapenitenziaria.it, 10 novembre 2022 Il giurista: “L’ordinamento penitenziario italiano è certamente da ripensare, ma s’illude chi pensa di poter fare a meno della detenzione in carcere”. Professor Musacchio cosa ne pensa delle varie proposte di abolire il carcere? Se mi si parlasse di abolire il carcere nella situazione in cui è oggi, sarei d’accordo. Nel caso s’intendesse abolizione del carcere come ripensamento della funzione della pena e della restrizione della libertà personale per determinati reati, il discorso diventerebbe molto più complesso e articolato. La pena non può non essere proporzionata alla gravità del delitto, non può essere mai vendetta contro il reo, ma non può neanche essere totalmente svuotata della sua essenza. L’afflittività è un elemento essenziale della pena che trova il suo limite quando viola la dignità della persona umana. Da dove occorrerà partire dunque per una vera riforma del sistema carcerario italiano? In primis credo si debba fare una fotografia evidenziando soprattutto le realtà non conformi alla nostra Costituzione. In questa circostanza i numeri sono decisivi per comprendere la situazione attuale. Le più recenti statistiche rese pubbliche dal Ministero della Giustizia ci confermano che il sovraffollamento in carcere è pari al 113%. I detenuti maggiorenni incarcerati in Italia, al 31 dicembre 2021, sono 54.134, distribuiti in 192 istituti, di cui 2.237 donne (il 4,1%). Del totale dei carcerati maggiorenni, 17.043 sono stranieri, circa il 31,5% e circa 16.000 sono in attesa di giudizio (29,5%) mentre 19.000 sarebbero i detenuti che devono scontare meno di tre anni. Una situazione simile non è più tollerabile. Cosa ne pensa della reclusione applicata ai tossicodipendenti? I dati ufficiali forniti dal Ministero della Giustizia ci dicono che un quarto dei detenuti è tossicodipendente. Da studioso ho sempre pensato che affinché la detenzione attuata nei confronti di un tossicodipendente possa avere una sola possibilità di riuscita occorra applicare quelle misure alternative alla detenzione finalizzate alla disintossicazione. Sono l’unico strumento idoneo al possibile reinserimento sociale di tali soggetti. Esiste anche un problema suicidi in carcere, come affrontare questo problema in costante aumento? Premetto di non essere un esperto della materia, ma credo che la riduzione del numero dei suicidi passi per la qualità di vita interna al carcere, per la condizione psicologica del soggetto, per l’isolamento e per la restrizione dei legami affettivi all’esterno. Il togliersi la vita spesso passa per situazioni traumatiche intollerabili come un abuso sessuale, una mancanza di psico-farmaci necessari, disperazione per il processo in corso o per la eventuale condanna. Le motivazioni possono essere davvero tante, ciò tuttavia non ci esime dall’impegnarci a individuarne le cause in primis per dare dignità a questi esseri umani sempre più spesso lasciati soli al loro inesorabile destino. In una situazione critica come questa appena tracciata i costi dell’ordinamento carcerario restano esorbitanti, come se lo spiega? È tutto concatenato. Emerge in tutta la sua evidenza, lo squilibrio tra il personale di custodia e quello dell’area trattamentale preposto alla reintegrazione sociale delle persone detenute. La detenzione costa allo Stato tre miliardi, di cui il 68% è impiegato per la polizia penitenziaria. Due sono le soluzioni. O si diminuisce drasticamente la popolazione carceraria o si deve assumere nuovo personale civile. Tertium non datur. In conclusione, il sistema carcerario attuale dunque va ripensato? La riforma carceraria ha un senso se serve a costruire un sistema penale più equo e giusto. Nei nostri istituti di pena spesso è recluso chi potrebbe star fuori e purtroppo sta fuori chi invece dovrebbe esser recluso. Nei miei studi e nelle mie ricerche ho sempre sostenuto con forze che occorre intervenire principalmente sulle cause sociali della devianza. Il carcere non può essere la soluzione alla mancanza di politiche sociali ed economiche da parte dello Stato. Dobbiamo avere il coraggio di dire che principalmente nelle nostre galere non ci sono corruttori, mafiosi, stupratori e assassini. La metà dei detenuti in carcere sono responsabili di reati contro il patrimonio. Se rubo una bottiglia di vino in un supermercato rischio la detenzione. Ci sono invece persone che provocano molti più danni alla società, dal punto di vista politico ed economico, ma in carcere non ci stanno. Il dettato costituzionale e il moderno diritto penale sono gli strumenti con cui operare. Dobbiamo però cominciare a riflettere seriamente e concretamente sul futuro del nostro sistema carcerario. Su questo tema purtroppo il dibattito è ancora fermo alla sola teoria. Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista e associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni 80. Carceri a pezzi: riprendete i progetti di edilizia penitenziaria dimenticati dal 1997 di Domenico Alessandro De Rossi Il Riformista, 10 novembre 2022 La “lettera aperta” pubblicata recentemente su Il Riformista dall’architetto Cesare Burdese, da tempo consulente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, affronta la grave situazione delle carceri italiane ormai resa drammatica. Il documento indirizzato ai ministri Nordio e Salvini e quindi anche al Dap, dalle pagine del giornale lamenta l’arretratezza degli interventi sulle carceri, e riguarda la decisione che il ministro della Giustizia dovrebbe prendere sul modello Genova per sciogliere il nodo gordiano se ristrutturare le carceri preesistenti o costruirne di nuove. La testimonianza volta all’attenzione di ben due ministri così come è stata congegnata parte da una prima asserzione riguardante le “…questioni irrisolte che appartengono alla nostra edilizia penitenziaria: i tempi biblici necessari per la realizzazione di un carcere e i limiti culturali che ne caratterizzano la vicenda progettuale…”. Per prudenza metodologica è appena il caso di osservare che qualora esistessero effettivi limiti culturali e altre questioni irrisolte, le diverse problematiche potrebbero essere meglio risolte proprio all’interno delle diverse compagini consulenziali chiamate dal Dap e partecipanti ai Tavoli tecnici e nelle Commissioni. L’architetto tiene a informare i ministri che “…più volte, nel corso dell’ultimo decennio, sono stato seduto ai tavoli tecnico-consultivi ministeriali, organizzati sulle questioni carcerarie ed in particolare sull’architettura penitenziaria…” e in forza di ciò, tiene a precisare che “…meno problematiche, sotto il profilo temporale, apparirebbero le ristrutturazioni delle carceri esistenti, che richiederebbero però una più matura e chiara visione delle soluzioni progettuali ed una programmazione strategicamente concertata…”. Nella lettera aperta purtroppo non si menziona quanto fu a suo tempo studiato, per volontà del presidente Di Gennaro, il problema dell’edilizia penitenziaria sulla base di una approfondita quanto fondamentale ricerca compiuta dai tecnici del Ministero della Giustizia nel lontano 1997 con lo studio “Repertorio del patrimonio edilizio penitenziario in Italia”. A confutare la pretesa originalità riguardante l’attualità del problema del recupero degli edifici, viene a sostegno anche quanto emerso ufficialmente nel più recente Seminario di Udine del maggio di quest’anno “Carcere: Ripartire dalla Costituzione” che sgombra in modo risolutivo il dubbio in merito alle più opportune azioni da intraprendere sulla preesistenza edilizia. Occasione quella del convegno nella quale uno dei relatori, l’architetto Leonardo Scarcella coautore insieme all’architetto Daniela Di Croce del sopra citato Repertorio, a chiare lettere nella sua relazione stigmatizzava: “…Fu così avviata ed effettuata un’attenta ricerca di archivio e un censimento “sul campo” dei dati di funzionamento degli istituti in attività così come di quelli ormai inattivi e degradati. Tutto questo materiale ha consentito la redazione del primo (ed unico) “Repertorio del patrimonio edilizio penitenziario italiano”, tre volumi in cui sono stati catalogati ben 219 complessi edilizi (di cui attivi 193) e individuate sette tipologie edilizie ripartite secondo l’epoca di costruzione e i finanziamenti operati dai diversi Governi post-unitari: dagli istituti definiti “storici” (alcuni dei quali addirittura di epoca medioevale) edificati per altre funzioni ed adattati a carcere, alle carceri di epoca pre-unitaria e via discorrendo sino al 1997…”. Ma il punto più significativo della relazione di Leonardo Scarcella, presentata a Udine nel maggio del 2022 e che scioglie definitivamente il quesito, dimostrando la consolidata attenzione tecnica (e culturale) del Ministero della Giustizia, riguarda proprio l’importanza del recupero delle preesistenze edilizie anche all’interno dei centri urbani consolidati. Infatti: “…oggi, come ieri, appare evidente l’utilità per l’Amministrazione di conservare il patrimonio immobiliare storico posto all’interno del tessuto urbano, sia per poter fronteggiare eventuali e specifiche esigenze logistiche che, come l’esperienza ha insegnato, emergono nel corso del tempo, sia per realizzare di fatto quella “differenziazione” di trattamento e degli istituti prevista dall’Ordinamento che dal 1975 regola l’attività penitenziaria italiana…”. A sostegno ulteriore di questa tesi, ormai da molti decenni culturalmente acquisita nel sistema tecnico e professionale degli architetti e degli urbanisti esperti in materia di edilizia penitenziaria e non solo, è appena il caso di menzionare anche alla precisa attenzione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al fine di ampliare la riflessione intorno al problema, il contributo di AA. VV. nei seguenti volumi che trattano in modo organico e sistemico la tematica in oggetto: “L’universo della detenzione, storia, architettura e norme dei modelli penitenziari” - Mursia ed. 2011 e “Non solo carcere, storia e architettura dei modelli penitenziari” - Mursia ed. 2016, di cui chi scrive è stato curatore e coautore. In finale, dato che il problema del più corretto approccio metodologico al recupero del patrimonio edilizio preesistente è ampiamente da tempo studiato, rimane ora ai più alti responsabili capire quanto sia fondamentale in questo momento consentire un dibattito il più articolato ed aperto possibile sul problema delle carceri avvalendosi anche di diversi contributi dei vari esperti in materia finora inascoltati. Maternità e carcere di Tina Boglione-Rino Rega settimananews.it, 10 novembre 2022 La proposta di legge presentata alla fine della scorsa legislatura dal deputato, non rieletto, Paolo Siani del Partito Democratico, avrebbe dovuto, con tutele più ampie, migliorare il rapporto tra detenute madri e figli minori. Gli attuali ICAM (Istituti di custodia attenuata minorile) sarebbero stati progressivamente sostituiti dalla collocazione in case di accoglienza dei soggetti contemplati nella normativa. In questo modo si sarebbe pienamente ottemperato agli articoli della Carta dei diritti dell’infanzia, sottoscritta dall’Italia trent’anni fa. In linea teorica, questa iniziativa politica risulta ancora pienamente condivisibile. Infatti è un sacrosanto dovere per lo Stato permettere a dei bambini inconsapevoli della colpa dei genitori di crescere nell’eguaglianza e, in pratica, con le stesse opportunità dei loro coetanei. A sua volta, non privare la madre, pur in stato di detenzione, di aver cura della prole, è non solo umanitario, ma anche possibile occasione di riscatto sociale. Ai Comuni, secondo il vecchio progetto di legge, sarebbe spettato il compito di reperire strutture adeguate dove allocare nel loro territorio madri e figli. La gestione di queste case di accoglienza sarebbe stata affidata al “Terzo settore”. La nuova legislatura. Nel nuovo Parlamento ci sarà la volontà di riprendere questo percorso, magari nell’ambito di una più articolata riforma del sistema carcerario italiano? Gli attuali ICAM hanno senza dubbio dei costi rilevanti e fissi. Mentre il numero delle detenute con prole e con i requisiti della legge in vigore, sta calando. A Milano attualmente è ridotto a un paio di unità. Si riuscirebbe ad ottenere un risparmio in termini economici affidando il servizio al Volontariato. Ma il “Terzo settore” potrà assumersi gli stessi oneri a un costo inferiore, cercando di mantenere la qualità che alcuni ICAM attualmente riescono ad offrire? Essi sono stati istituiti in base alla legge n. 62 del 2011. Prevedono che detenute madri possano restare con i loro bambini fino all’età di 6 anni, se non condannate con sentenza passata in giudicato, o fino all’età di 10 anni, se con condanna definitiva. Tuttavia, va precisato che, dall’entrata in vigore di questa legge, sono stati realizzati soltanto cinque istituti di questo tipo: a Milano, Torino, Venezia, Cagliari e Lauro (Avellino). L’esperienza di Lauro - Umanità e professionalità nella gestione di uno di questi ICAM si possono esperire a Lauro, un piccolo paese dell’Irpinia noto soprattutto per il Castello Lancellotti e per i suoi noccioleti. La gente che vi abita conosce vagamente questa realtà. Eppure dopo l’ICAM di Milano, aperto nel 2006, è considerato un istituto “pilota” nella realizzazione di norme più dignitose e propositive nei confronti della complicata e a volte drammatica realtà carceraria italiana. Lo dirige la dott.ssa Concetta Felaco, coadiuvata dal vice-commissario Felice Galeotalanza, che i bambini della struttura chiamano affettuosamente “zio”. Essi, nella direzione e nelle responsabilità di questa delicata cellula carceraria, sono affiancati da un pediatra, da psicologhe, da infermieri e da alcuni volontari. Madri e bambini sono, infatti, seguiti costantemente dal punto di vista educativo, psicologico, sociale e medico. Pertanto nell’ICAM di Lauro, entrato in funzione del 2017 come sezione distaccata della vecchia casa circondariale di Avellino, i canoni previsti dalla legge vengono travasati in una buona pratica quotidiana. Il progetto di ristrutturazione dell’istituto penitenziario è stato ideato dal Dipartimento di Architettura dell’Università Federico II di Napoli. Sono stati realizzati dei mini appartamenti, in tutto venti. Non ci sono cancelli, ma porte blindate chiuse soltanto di notte. Ogni singolo spazio è studiato per il benessere di chi è costretto ad abitarvi. Perfino i materiali usati all’interno e all’esterno rispondono a prove di sicurezza e alle esigenze dell’accudimento. Corridoi spaziosi permettono di non sentirsi rinchiusi anche con il tempo brutto e durante ogni ora del giorno. Crescere senza trauma - Tutto è organizzato affinché il bambino non subisca il trauma del carcere, ma abbia la rassicurante visione di una serena quotidianità familiare. Il personale di Polizia Penitenziaria vigila discreto in borghese e i sistemi di sicurezza non sono visibili. Lo spazio esterno è allestito come un parco giochi, le finestre si aprono su spazi verdi affinché le mamme e i loro bambini possano ammirare la natura e non immaginarla. C’è una biblioteca dove si possono ritagliare momenti di ascolto, di scoperte, di fantasie. In definitiva, sia il bambino sia la mamma non percepiscono pesantemente la reclusione, potendo accedere alle primarie opportunità culturali e ricreative. In questo particolare carcere, se ancora così si può definire, troviamo una sala computer, un teatro, un orto. E locali dove si tengono corsi di cucina, découpage, cucito. Attualmente la struttura ospita nove bambini e nove mamme. Parlare di carcere e di bambino può apparire un ossimoro. Eppure questa modalità detentiva che ancora rappresenta l’eccezionalità e non il normale status connesso ai luoghi di pena, quando ben realizzata, permette che l’affettività venga riconosciuta come diritto anche là dove molti diritti sono sospesi. Certo, guardarsi in fondo negli occhi e avere un corpo leggero e docile, come intitola Rosella Postorino un suo intenso romanzo del 2013 su queste problematiche, non sempre è semplice da realizzarsi. Sarà dunque necessario ripartire in Parlamento da uno scrupoloso esame delle condizioni degli attuali ICAM per capire se la soluzione delle case di accoglienza sia in grado di attuare pienamente questa aspirazione. Con “Liberi di crescere” il finanziamento a progetti per figli minori di detenuti agensir.it, 10 novembre 2022 “Liberi di crescere”. Ha questo titolo il nuovo bando di “Con i Bambini” promosso nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Obiettivo dell’iniziativa, si legge in una nota, è sostenere progetti a favore dei figli minorenni di persone detenute, mettendo a disposizione complessivamente 10 milioni di euro. “Ogni anno - sottolineano dall’impresa sociale - sono decine di migliaia i minorenni che entrano in un istituto penitenziario per fare visita a un familiare detenuto. Per esattezza, nel 2021 in Italia si sono svolti 280.675 colloqui tra detenuti e almeno un familiare minorenne”. Attraverso il nuovo bando “Con i Bambini” si propone di promuovere processi di crescita e di integrazione sociale dei minorenni figli di detenuti e di garantire la continuità del legame affettivo con i genitori che vivono la condizione detentiva, arginando gli effetti negativi prodotti dalla separazione all’interno del contesto familiare. “Tali effetti, infatti, si riversano sugli equilibri emotivi e relazionali e sullo sviluppo dei figli, portando a possibili ricadute negative sulla salute e sullo sviluppo cognitivo, sul sereno e regolare accesso ai percorsi scolastici e sulla tendenza a entrare nei circuiti dell’illegalità”, prosegue la nota. “Su questo articolato e delicato tema vi sono almeno due diritti fondamentali che vanno assolutamente tutelati e garantiti”, spiega Marco Rossi-Doria, presidente di “Con i Bambini”, riferendosi a “quelli dei bambini e delle bambine ad avere una crescita sana e ad avere un normale rapporto con i propri genitori”, e a “quello delle persone detenute che, nonostante lo stato di detenzione, devono poter svolgere la loro funzione genitoriale”. “‘Con i Bambini’, con questo bando - aggiunge Rossi-Doria - intende contribuire a evitare che siano i bambini e bambine, ragazzi e ragazze a pagare un prezzo inaccettabile per le condizioni dei genitori detenuti, a offrire a questi ultimi la possibilità di esercitare bene la loro funzione anche da detenuti, a dire a tutta la società che la pena deve essere occasione di cambiamento positivo”. Le proposte di progetto devono essere presentate esclusivamente on line, tramite la piattaforma Chàiros, raggiungibile tramite il sito internet www.conibambini.org, entro il 10 febbraio 2023. Perché l’amnistia può evitare la debacle del sistema giustizia di Gennaro De Falco Il Riformista, 10 novembre 2022 La giustizia in affanno e l’amnistia come urgente e indifferibile necessità. Ne ho già scritto sulle pagine di questo giornale e torno a farlo. La mia percezione, che poi ormai è una certezza, è che nessuno nell’avvocatura si opporrebbe ad un provvedimento di clemenza e, se devo dire la verità, non mi pare che le posizioni della magistratura siano diverse. Il problema a questo punto è spiegare e far capire all’opinione pubblica e alla politica quale è realmente la situazione della giustizia penale nel nostro Paese e che l’amnistia non sarebbe una resa della Stato di fronte alla criminalità. Io sono, ero e sarò sempre un accanitissimo avversario del codice di procedura penale del 1989 e mai potrò dimenticare cosa ne diceva il giudice istruttore del Tribunale di Marsiglia già nei primi anni ‘90 ma non riporto l’espressione che usò solo per rispetto al mio Paese. Bisogna riconoscere che le lungaggini dei primi gradi ritardano enormemente i processi facendoli prescrivere prima di iniziare, ci sono processi per fatti del 2010 ancora in primo grado alle primissime battute e questo non me lo hanno raccontato, lo vivo purtroppo ogni giorno. Le lungaggini dei primi gradi e delle indagini rallentano o spesso evitano l’arrivo dei processi in Appello, e quando e se ci arrivano restano lì per anni ed anni perché non si riesce a smaltirli neppure fisicamente. È anche vero che prima in Corte di Appello i magistrati erano cinque mentre ora sono tre e il lavoro che si fa in cinque non si può certamente fare in tre, tra l’latro con un personale amministrativo come quello che c’era, la cui età media era di oltre sessant’anni. Ora per fortuna sono arrivati dei giovani ma ormai la frittata è fatta. E poi, e soprattutto, prima periodicamente lo Stato perdonava, azzerava e ripartiva daccapo con le amnistie che erano parte strutturale e valvole di sicurezza di un sistema già di per sé molto ma molto più ragionevole, garantista coerente e per questo equilibrato ed efficiente. Ad esempio, il codice Rocco prevedeva che entro tre giorni dalla sentenza l’avvocato che volesse appellare dovesse presentare la cosiddetta dichiarazione di appello e così il giudice già da prima sapeva ed era stimolato ad essere più accurato nelle sue motivazioni. Orbene, partiamo da un dato: se gli appelli sono moltissimi e durano tanto, anche una decina di udienze e più, è perché sono difficili da decidere e se sono difficili da decidere una ragione c’è ed è evidente, vale a dire il fatto che gli errori in primo grado ci sono e sono tantissimi anche perché i processi più gravi e complessi, e quindi potenzialmente ed insostenibilmente costosi per il cliente, vengono per questa ragione decisi con il giudizio abbreviato dai gup che sono giudici monocratici e come può una sola persona, assediata e subissata da termini e scadenze perentorie e da istanze il più delle volte assolutamente inutili che gli avvocati sono costretti a presentare sotto la pressione dei clienti che a loro volta li assediano con le richieste più assurde, non cadere in errore? Quindi, nonostante il rito abbreviato che “protegge” le loro decisioni i gup sbagliano spessissimo. Inoltre, con il codice Rocco non tutto arrivava in Cassazione; oggi con il codice Vassalli devo dire giustamente in Cassazione arriva tutto, ma bene o male in quella fase il sistema tiene e ci sarebbe da domandarsi perché. Il mio lettore più ottimista, per non dire ingenuo, potrebbe dire che è vero che in Appello impiegano una decina di anni per decidere ma le sentenze le fanno bene perché la Cassazione dichiara inammissibili o rigetta quasi tutti i ricorsi. In realtà che la Cassazione dichiari inammissibili o rigetti quasi tutti i ricorsi è verissimo ma bisogna considerare due altri aspetti che possono spiegare il fenomeno, vale a dire che il ricorso per Cassazione ha binari molto rigidi e ristretti e soprattutto che i ricorsi vengono redatti il più delle volte in maniera molto poco accurata e questo per le solite ragioni, cioè la ridottissima capacità economica dell’utenza che rende impossibile un lavoro di buona qualità da parte degli avvocati che fossero in grado di prestarlo e la sostanziale impossibilità di ottenere i compensi dei ricorsi per Cassazione dei patrocini a spese dello Stato da parte delle Corti d’Appello. Dalla mia ormai ventennale esperienza posso dire che se il ricorso è fatto bene o anche in maniera sufficiente, la Cassazione annulla ed annulla anche molto spesso (e poi si ricomincia tutto daccapo per almeno altri dieci anni) ma la retribuzione dei ricorsi in favore dei non abbienti, dopo processi che pure sono durati decine di anni e solo perché si è fatto ricorso al rito abbreviato mediamente, quando avviene, richiede un’altra decina di anni, anche perché giudici e personale amministrativo in questo caso, quando raramente non perdono le carte e non dimenticano qualche timbretto, diventano di una meticolosità assolutamente certosina. In altri termini l’avvocato che voglia difendere un non abbiente in Cassazione deve essere ricco di suo e soprattutto immortale! A questo punto, visto che il sistema fa acqua da tutte le parti e anche se si viene in tribunale muniti di ombrello questo in un attimo di distrazione sparisce nel nulla in un battibaleno, sarebbe assai meglio una bella amnistia e provare a ripartire daccapo e dire a Bruxelles che da noi i processi durano poco anzi pochissimo, senza dirgli che abbiamo proprio rinunciato a farli, tanto non se ne accorgono o fanno finta di non accorgersene, che poi è la stessa identica cosa. Nordio silura il team di Cartabia: tutte le nomine di via Arenula di Paolo Comi Il Riformista, 10 novembre 2022 Fuori i magistrati di sinistra da via Arenula. Dopo non aver confermato l’incarico di capo di gabinetto a Raffaele Piccirillo, storica toga di Magistratura democratica, il neo ministro della Giustizia Carlo Nordio ha fatto un’altra vittima illustre nelle fila delle toghe progressiste, sostituendo la giudice Franca Mangano, numero uno dell’ufficio legislativo. Al posto di Piccirillo e Mangano, Nordio ha scelto Alberto Rizzo, presidente del Tribunale di Vicenza, e Antonello Mura, procuratore generale di Roma, due magistrati di Magistratura indipendente, la corrente di destra. Tutto secondo le norme, va detto, in quanto trattandosi di incarichi di diretta collaborazione del ministro, quest’ultimo ha la facoltà di nominare figure che godano della sua massima fiducia. La norma sullo spoil system dava a Nordio 90 giorni di tempo dal momento del suo insediamento per decidere. Il neo Guardasigilli, però, non ha voluto perdere tempo, procedendo con nomine in netta discontinuità con la gestione di Marta Cartabia. Discontinuità quanto mai evidente con la scelta proprio di Mura a capo dell’ufficio che dovrà gestire l’attuazione della riforma della giustizia realizzata dalla ex ministra. Mura a detta di tutti è un magistrato molto preparato. In passato è stato anche componente del Csm. Nei mesi scorsi era in lizza per diventare procuratore generale della Cassazione. Il suo gruppo, però, gli preferì Luigi Riello, procuratore generale di Napoli ed esponente di Unicost, una decisione che suscitò molti mal di pancia tra gli iscritti ad Mi. Nella sua lunga attività professionale, Mura ha anche rappresentato l’accusa in Cassazione in uno dei processi più importanti degli ultimi decenni, quello a Silvio Berlusconi per i diritti Mediaset che determinò poi la cacciata del Cav dal Parlamento per effetto della legge Severino. “È un processo carico di aspettative e che suscita passioni ed emozioni esterne che sono manifestazione del libero dibattito e della vita democratica, ma aspettative e passioni devono rimanere confinate fuori dell’Aula giudiziaria”, esordì Mura in una rovente mattina del 30 luglio del 2014. L’allora pg della Cassazione sposò appieno le tesi dei colleghi milanesi secondo cui il meccanismo messo in piedi da Berlusconi aveva l’obiettivo di gonfiare i costi per i benefici fiscali e produrre pagamenti per la costituzione all’estero di ingenti capitali. Una frode fiscale che non poteva essere derubricata a false fatturazioni, come sostenuto invece dai legali del Cav. Quel giorno Mura parlò per circa cinque ore, smontando tutte le tesi della difesa, a partire delle eccezioni di tipo procedurale sulle modalità di svolgimento del processo in primo e secondo grado. In particolare, per Mura, non vi era stata alcuna violazione del legittimo impedimento con cui l’allora premier aveva chiesto di rinviare le udienze per impegni elettorali e per le varie patologie che lo affliggevano, ad iniziare dalla uveite, l’infezione agli occhi che lo costrinse anche al ricovero all’ospedale San Raffaele. Tutte le tesi di Mura vennero accolte dal collegio presieduto da Antonio Esposito e con relatore Amedeo Franco, il quale, ad anni di distanza, parlò di “plotone d’esecuzione”. La mafia non è finita, ma anche l’Antimafia va totalmente ripensata di Alessandro Barbano Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2022 Non c’è salvezza per la giustizia italiana senza un riscatto profondo dello Stato di diritto. Vuol dire tornare a un diritto penale ordinario fondato su fatti, prove e convincimenti oltre ogni ragionevole dubbio. Vuol dire riportare le confische, i sequestri e tutte le misure di prevenzione all’interno del processo, ancorandole all’accertamento di un reato e limitandole alla lotta alla mafia. Vuol dire definire per legge il confine tra l’illecito e il lecito, tipizzare in maniera tassativa fattispecie come il concorso esterno. Vuol dire abiurare il paradigma del sospetto e del disdoro, separando il diritto dalla morale nella giurisprudenza e nella cultura giuridica e civile del Paese. Vuol dire dare un tempo preciso e breve alle misure emergenziali, come il 4ibis, nella prospettiva di tornare all’ordinario prima possibile. Vuol dire restituire una funzione di redenzione alla pena, rendendola certa nella misura e flessibile nell’esercizio, cancellando per sempre la vergogna dell’ergastolo ostativo. Vuol dire considerare come sanzioni e assisterle con le garanzie del processo penale, tutte le misure amministrative che comportino un’afflittività e una limitazione della libertà per i destinatari, come le interdittive antimafia. Vuol dire promuovere nel Paese un dibattito sulla crisi e sulla difesa dello Stato di diritto, che impegni al massimo livello le Commissioni giustizia delle due Camere. Vuol dire, da ultimo, diradare il polverone di sospetti, accostamenti superficiali, pregiudizi cognitivi e morali, rappresentazioni ideologiche con cui l’Antimafia racconta la società, sgombrare il campo dai fantasmi di una mafia che non risparmierebbe nessun territorio e nessun ambito civile del Paese, e tornare a studiarla per quello che è oggi. Non abbiamo della mafia nessuna rappresentazione attuale e attendibile. La macchina dell’investigazione giudiziaria è un’arma spuntata e autoreferenziale, sconnessa dai processi di territorio. Insegue una verità sempre più storica, tra le delazioni di pentiti pronti a tutto pur di garantirsi privilegi e immunità. Assume l’enorme mole di intercettazioni di cui dispone come unica fonte di prova, in assenza di riscontri efficaci. Cede alle congetture di una polizia giudiziaria che non risponde, come del resto il Pm, della raccolta e della proposizione di illazioni inconsistenti. Senza un’iniezione di responsabilità non si ferma la deriva, fuori controllo, del sistema investigativo. Né si ottiene, da una simile articolazione organizzativa e operativa, alcun fotogramma realistico della realtà criminale. Quello che passa nell’opinione pubblica è un racconto irrealistico, distorto dalla necessità di costruire consenso attorno a un’Antimafia che ha assunto, nell’assetto istituzionale, un ruolo politico. E che utilizza l’allarmismo come cassa di risonanza della propria propaganda. Questo non vuol dire che la minaccia della mafia nel Paese sia scongiurata o fittizia. Né che, dopo i colpi subiti negli anni seguenti le stragi e dopo la sconfitta dei corleonesi, non possa rialzare la testa in forma diverse. I soli ventotto omicidi del 2020, contro gli ottocento o mille di trent’anni fa, non bastano per dire che la mafia è morta. Ma neanche per sostenere il contrario, e cioè che la mafia non uccide più perché non ne ha bisogno, essendosi infiltrata in ogni dove. La mafia non è solo figlia di una condizione primigenia del potere, ma è sopravvissuta, in centocinquant’anni, ai cambiamenti sociali e alle strutture della modernità, trapiantandosi in due mondi e cogliendo ogni occasione di profitto e di potere. Nessuno ci garantisce che lo sviluppo tecnologico, i cambiamenti culturali, il controllo dello Stato e l’evoluzione della democrazia siano in grado di assorbire per sempre il fenomeno. E tuttavia sappiamo che il suo radicamento pesa su due fattori: la concentrazione del potere in forme occulte e l’arretratezza sociale del suo bacino di affiliazione. La trasparenza amministrativa e un clima civile di fiducia nelle relazioni pubbliche sono rimedi antimafiosi, assai più delle retate e dei maxi processi destinati a finire parzialmente in fumo. Allo stesso modo lo sono le occasioni di lavoro e di socialità e la lotta alla dispersione scolastica che, in alcune aree del Sud, riguarda uno studente su quattro. Sono i ghetti culturali e civili i bacini di incubazione della mafia. Nessuna guerra li ha mai cancellati, nessuna legge speciale li ha mai arginati. Semmai li hanno resi più impenetrabili. La stagione dell’eccezione perciò deve chiudersi. Alle condizioni date, e qui raccontate, la delega della politica all’Antimafia offende il diritto e la civiltà, è inutile, di più, è un danno per la democrazia. Prima cessa e meglio è. È ora di svelare l’inganno. Lazio. Anastasìa: “Bene l’ampliamento di compiti e poteri del Garante, riconoscimento al lavoro” Ristretti Orizzonti, 10 novembre 2022 Il Consiglio regionale del Lazio ha esteso l’ambito di attività del Garante dei detenuti alle camere di sicurezza delle forze di polizia, alle Rems, alle persone nelle comunità terapeutiche e nelle Rsa sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio. “Con questo ultimo atto della consiliatura, la Regione Lazio ha ulteriormente qualificato l’istituzione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà, attribuendogli formalmente la competenza anche su tutte le persone ristrette o interdette ospiti delle Rems, delle comunità e delle Rsa, e riconoscendogli incisivi poteri di accesso alle strutture e agli atti dell’amministrazione regionale, degli enti e delle aziende controllate. In questo modo, la Regione Lazio, prima in Italia, dà seguito alle Linee guida sugli organi di garanzia approvate dalla Conferenza dei Presidenti delle assemblee legislative regionali nel 2019”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasia, dopo aver appreso delle nuove norme introdotte dal Collegato alla legge di Stabilità 2022, approvato nella notte dal Consiglio regionale del Lazio. “Certo - ha proseguito Anastasìa -, si tratta di nuove responsabilità che spero possano essere adeguatamente supportate anche in termini di competenze e risorse umane e materiali, ma è anche il riconoscimento dell’importanza dell’istituzione che rappresento e del lavoro fin qui svolto con i miei collaboratori, e di questo sono molto soddisfatto”. Il Collegato introduce modifiche alla legge 31 del 2003, “Istituzione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale”, ampliando il novero delle persone oggetto di tutela dei diritti da parte del Garante: oltre alle persone presenti negli istituti penitenziari, negli istituti penali per minori, nonché nei centri di prima accoglienza, nei centri di assistenza temporanea per stranieri e nelle strutture sanitarie sottoposti al trattamento sanitario obbligatorio, si prevede che il Garante tuteli anche i diritti delle persone sottoposte a misure restrittive o interdette (ai sensi dell’articolo 414 del codice civile) presenti nelle camere di sicurezza delle forze di polizia, nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), nelle comunità terapeutiche, nelle Residenze socio-assistenziali (Rsa). Inoltre, sono aggiunti alcuni importanti compiti e poteri all’elenco dell’articolo 5: il Garante “esprime pareri in ordine alle proposte di provvedimenti legislativi e amministrativi di carattere generale nelle materie di propria competenza”; può essere audito presso il Consiglio regionale o presso una commissione consiliare, la Giunta regionale o l’assessore competente per materia; “può partecipare, senza diritto di voto, ad eventuali organismi di coordinamento o consultivi istituiti nelle materie di competenza presso la Giunta o il Consiglio regionale”. Sono conferiti al Garante la possibilità di accesso “senza necessità di autorizzazione, presso tutti gli uffici della Regione, degli enti dipendenti e società partecipate che svolgano attività inerenti alle materie di competenza” e il “diritto di accesso a tutta la documentazione necessaria all’ esercizio delle proprie funzioni in possesso della Regione, degli enti dipendenti e delle società partecipate”. Secondo il nuovo testo dell’articolo 5, il Garante “formula, nell’esercizio delle proprie funzioni, raccomandazioni alle autorità e agli enti competenti”. Il Collegato interviene anche con una piccola modifica sulla legge regionale 7/2007, “Interventi a sostegno della popolazione detenuta della Regione Lazio”. Il comma 3 dell’articolo 13, “Tavolo interassessorile per il trattamento” è sostituito dal seguente: “Il tavolo si riunisce con la partecipazione del Garante regionale e dei garanti comunali dei detenuti entro i primi tre mesi dell’anno, al fine di definire ed approvare le linee di intervento in materia di assistenza sanitaria, politiche sociali, politiche attive del lavoro, diritto allo studio universitario, sport e cultura in favore della popolazione in esecuzione penale”. Torino. Detenuto si impicca in cella, è il quarto caso dall’inizio dell’anno di Sarah Martinenghi La Repubblica, 10 novembre 2022 L’uomo di 56 anni si è ucciso con un lenzuolo. L’episodio a due settimane dalla morte di Tecca Gambe. Ancora un suicidio al carcere Lorusso Cutugno di Torino, il quarto dall’inizio dell’anno. Un italiano di 56 anni si è tolto la vita ieri sera intorno alle 23, impiccandosi. L’episodio è successo nel padiglione C: l’uomo è stato trovato seduto a terra, aveva anche scritto una lettera per spiegare le ragioni del suo gesto, legate a questioni personali. Antonio R. era detenuto nel carcere del quartiere Vallette per stalking, in attesa di giudizio. Era in cella da agosto. Anche lui ha utilizzato un lenzuolo per togliersi la vita, che ha attaccato alle sbarre, proprio come il 28 ottobre aveva fatto Tecca Gambe, il ragazzo del Gambia che era finito in carcere per aver rubato delle cuffiette. Storie diverse, ma tragedie analoghe, che ancora una volta lanciano l’allarme sul disagio delle persone ristrette in cella. L’uomo nei giorni scorsi non avrebbe mai parlato dei propri problemi né ai referenti del carcere né alla Garante dei detenuti. Reggio Calabria. Suicida in carcere un 21enne della Costa d’Avorio tempostretto.it, 10 novembre 2022 Un migrante ivoriano di 21 anni si è suicidato nel carcere di Reggio Calabria, dov’era detenuto. Era stato arrestato l’8 ottobre scorso a Monasterace - nell’Alto Jonio reggino - dai carabinieri della compagnia di Roccella Jonica con l’accusa di tentata rapina e violenza sessuale. Per l’anziana vittima, a causa delle violenze subite, si era reso necessario il ricovero in ospedale. L’ivoriano, che si diede alla fuga, venne bloccato poche ore dopo dai militari. Il giovane era arrivato in Italia agli inizi del 2021 con uno sbarco di migranti in provincia di Ragusa. Udine. Il suicidio nel carcere fa riemergere il dramma dei penitenziari in Italia di Epifanio Romano triesteallnews.it, 10 novembre 2022 Un giovane di 22 anni detenuto nel carcere di via Spalato a Udine, si è tolto la vita. Il suicidio è avvenuto lo scorso lunedì 7 novembre. Il giovane si trovava recluso nella struttura di Udine dallo scorso 22 settembre, quando era stato trasferito nel carcere udinese da Trieste, ove si trovava dall’estate del 2021 per una lite che era culminata nell’accoltellamento, da parte sua, di due coetanei e per la quale era stato formulato a suo carico il capo d’accusa di tentato omicidio. Il giovane si trovava in isolamento da qualche tempo, a seguito di un litigio con il compagno di cella e con un agente. A darne notizia è stato il Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive per il Comune di Udine, Franco Corleone. Che ha commentato così il fatto: “Siamo di fronte a una continua emergenza e non bisogna abituarsi a queste tragedie. Speravo che Udine si “salvasse”, ma non è stato così. La maggior parte dei suicidi avviene all’inizio del periodo detentivo.”. Un problema che per il garante è imputabile soprattutto al sovraffollamento delle carceri e a tutte le conseguenze che ne derivano e che rendono molto difficile la vita dei detenuti. Un problema che si fa sentire anche a Udine, secondo quanto rilevato da Corleone, che ritiene anche che con l’applicazione di misure diverse dalla detenzione per i reati minori la situazione migliorerebbe: “Servono maggiori misure alternative per chi ha pene brevi - ritiene infatti Corleone - poi c’è il problema di chi soffre di disagi psicologici e dei tossicodipendenti che dovrebbero stare in strutture per loro più tollerabili e adeguate: senza di loro, che costituiscono un’ampia fetta di detenuti, il carcere sarebbe meno sovraffollato e di più facile gestione. Il carcere - conclude - non deve essere una discarica sociale, ma volta al recupero dei suoi ospiti”. Honsell: fallimento per tutti - Sul fatto si è espresso il consigliere regionale di Open Sinistra Fvg, Furio Honsell. “Un suicidio in carcere di un giovane di poco più di 20 anni è un fallimento per tutta la società. Quanto è avvenuto a Udine l’altro ieri è gravissimo. Ormai da anni la prigione di Udine è sovraffollata ed è ben nota la mancanza di personale nelle carceri italiane, soprattutto di operatori per il sostegno psicologico e psichiatrico. Le persone psicologicamente più fragili e bisognose sono proprio quelle che finiscono più frequentemente in cella di isolamento. Quanto è avvenuto a Udine è quindi è stata una dinamica tragicamente molto frequente e ben nota”. Dal Zovo: problema carceri esplode di nuovo - “Un fatto grave e triste, che fa scoppiare nuovamente il bubbone delle condizioni nelle nostre carceri, tra sovraffollamento e carenza di personale” ha invece affermato la consigliera regionale del Movimento 5 Stelle, Ilaria Dal Zovo “Le difficoltà del sistema carcerario le conosciamo da tempo e purtroppo tornano di attualità quando succedono eventi drammatici come quello avvenuto lunedì scorso”. I suicidi in carcere sempre più frequenti, sono già 74 nel 2022 - Se il fatto in sé è una tragedia, ancor più amara è la constatazione che - come fatto notare tanto da Corleone quanto da Honsell e Dal Zovo - quello del giovane suicidatosi nel carcere a Udine non è affatto un caso isolato e che, anzi, i numeri di suicidi nelle carceri italiane sono in aumento. Dall’inizio dell’anno a oggi, infatti, sono già 74 i detenuti che dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita (i dati raccolti da ristretti.it riportano 76 casi ma, come fatto notare da Damiano Aliprandi su Il dubbio, vengono erroneamente conteggiati un suicidio avvenuto il 30 dicembre del 2021 e un tentativo di suicidio sventato dalle guardie carcerarie). Un numero elevatissimo, soprattutto se confrontato con i dati degli anni passati e che, con ancora un mese e mezzo dalla fine dell’anno sono destinati a crescere. Il dramma delle carceri è un problema a tutto tondo - Un numero che evidenzia una situazione difficile nelle carceri: dal sovraffollamento al disagio psicologico che si vive per la privazione della libertà - spesso anche per reati di poco conto - e per la condivisione di spazi troppo ristretti con molte persone. Senza dimenticare, talvolta, il problema della sovraesposizione mediatica dei protagonisti di alcuni casi di cronaca (nella maggior parte dei casi senza che l’eventuale colpevolezza sia stata accertata o comunque decretata da una sentenza definitiva, in sfregio all’articolo 27 della Costituzione italiana). Il problema delle carceri (che può a sua volta intersecarsi con quello, inteso in modo più ampio, della salute mentale) è una delle emergenze che le istituzioni dovranno risolvere. Per evitare che i numeri dei suicidi tra i detenuti continuino a crescere e per restituire dignità a chi, pur avendo sbagliato, rimane comunque una persona. E anche per fare in modo che, come prescrive sempre l’articolo 27 della Costituzione, il carcere possa avere davvero una funzione rieducativa sul detenuto. Non si tralasci, ovviamente, la questione legata al personale carcerario, costretto a una mole di lavoro sempre maggiore, per far fronte a carceri sovraffollate, con detenuti in difficoltà e con un organico la cui ampiezza è inadeguata a far fronte a tutti questi problemi. Il dramma delle carceri, insomma, riguarda le strutture a tutto tondo, non solo questa o quella parte. E va affrontato prima possibile. Bari. Il carcere come un lager. Tre agenti ai domiciliari con l’accusa di tortura di Angela Balenzano Corriere del Mezzogiorno, 10 novembre 2022 Un detenuto con problemi psichiatrici picchiato con calci e pugni da alcuni agenti della polizia Penitenziaria nel carcere di Bari. Quattro interminabili minuti di terrore mentre altri agenti stavano a guardare dimostrando “una disarmante naturalezza nell’adoperare o nel consentire che altri adoperassero violenza nei confronti del detenuto a riprova di un atteggiamento di prevaricazione e di abuso che parrebbe essere tutt’altro che occasionale”. Sono alcuni dei dettagli che emergono dal provvedimento cautelare, firmato dal gip Giuseppe Montemurro, e notificato dai carabinieri a tre agenti della penitenziaria finiti ai domiciliari con l’accusa di tortura in concorso. Complessivamente gli indagati sono 15, tra cui un medico di turno all’infermeria del carcere, Gianluca Palumbo, 44 anni, indagato per omessa denuncia e falso e poi ancora tre infermieri. Le indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Giuseppe Maralfa e dal sostituto Carla Spagnuolo, sono partite dalla segnalazione della direzione del carcere e del comando della polizia penitenziaria di Bari relativa ad “una violenta aggressione” avvenuta tra le 5,10 e le 5,14 del 27 aprile scorso nei confronti di un detenuto 41enne “con problematiche psichiatriche da parte di alcuni agenti mentre lo stavano portando in infermeria” dopo che aveva bruciato il materasso e alcune suppellettili nella sua cella. Le fasi dell’aggressione sono state riprese dalle due telecamere installate al piano terra della seconda sezione. “Ad innescare l’azione è scritto nelle carte dell’inchiesta - è il sovrintendente “il quale sferra il primo schiaffo” e poi a seguire ancora schiaffi e calci. Il detenuto finisce a terra e l’assistente capo Finestrone “già presente sulla scena partecipa a sua volta con violenza all’aggressione: sferra un calcio, poi una pedata violenta, poi un’altra ancora e in successione quattro calci con il piede sinistro sulla schiena” del 41enne. Le immagini registrate ritraggono il detenuto che, rannicchiato in posizione fetale sul pavimento, cerca di proteggersi dalle violenze degli agenti e con le braccia prova a schivare i calci dei suoi aggressori. “La vicenda non sarebbe mai stata portata all’attenzione del comandante della polizia penitenziaria se il 5 maggio il detenuto (picchiato, ndr) non avesse raccontato tutto l’accaduto” in occasione di una contestazione disciplinare che gli era stata mossa. A quel punto il direttore del carcere e il comandante della penitenziaria hanno fatto acquisire le registrazioni delle telecamere al piano terra della seconda sezione “riscontrando la veridicità di quanto riferito” dalla vittima. Hanno poi accertato che nel referto stilato dal medico del carcere che aveva medicato il 41enne non c’era traccia delle violenze subite: di qui l’iscrizione del professionista nel registro degli indagati e sulla sua eventuale interdizione dalla professione il giudice si è riservato. “Le violenze esercitate scrive il gip - hanno comportato un trattamento inumano e degradante” perché gli indagati avrebbero agito con “crudeltà” infliggendo “un carico di sofferenze certamente esuberante” per provocare al detenuto “conseguenze fisiche tese a perseguire una propria forma di soddisfazione”. Violenze che “hanno comportato sulla vittima acute sofferenze fisiche e ragionevolmente anche un verificabile trauma psichico”. In particolare “Coppi, Delia e Finestrone hanno posto in essere violenze che possono qualificarsi come gravi, alla luce della loro reiterazione, gratuità e attitudine lesiva”. Bari. I sindacati di Polizia penitenziaria in rivolta sul reato di tortura: “Va fatta chiarezza” di Chiara Spagnolo La Repubblica, 10 novembre 2022 È scontro sul reato di tortura, dopo l’inchiesta della Procura di Bari, che ieri ha portato all’arresto di tre agenti della polizia penitenziaria e alla sospensione di altri sei a causa delle presunte violenze nei confronti di un detenuto barese 42enne, affetto da problemi psichici. Per l’associazione Antigone (che si occupa della tutela dei diritti nel sistema penale e penitenziario), quanto accaduto a Bari dimostra che “la legge sulla tortura può aiutare a rompere il muro di omertà”. Mentre per i sindacati della polizia penitenziaria Uilpa e Sappe “Il reato di tortura è costruito male e l’organizzazione carceraria è pessima”. Il reato di tortura è contestato solo a sei dei quindici indagati, che avrebbero “agito con violenza e crudeltà nei confronti di un detenuto affetto da disturbi psichici”, infliggendogli volontariamente - dice il giudice nell’ordinanza cautelare - “un carico di sofferenze teso a perseguire una propria forma di soddisfazione”. Tale reato è stato introdotto in Italia nel 2017, dopo le ripetute sollecitazioni della Corte di Strasburgo che aveva evidenziato il vuoto normativo italiano, venuto alla luce con particolare forza dopo le violenze delle Forze dell’ordine al G8 di Genova del 2001. A distanza di anni, però, la sua applicazione è ancora contestata, tanto che La Uilpa polizia penitenziaria ha colto l’occasione dell’operazione dei carabinieri di Bari per chiedere al ministro della Giustizia Carlo Nordio (da cui dipende l’amministrazione penitenziaria) “di aprire immediatamente un tavolo di confronto permanente per discutere di riforme”. “Riponiamo incondizionata fiducia nella magistratura - ha dichiarato il segretario generale Gennarino De Fazio - Chi sbaglia va individuato, isolato e perseguito, ma se le indagini per il reato di tortura sono ormai numerose e interessano carceri diverse in tutto il Paese, probabilmente, c’è molto di più di qualcosa nell’organizzazione complessiva che non funziona e da correggere”. Ugualmente duro Donato Capece, segretario generale del Sappe: “Invito tutti a non trarre affrettate conclusioni prima degli accertamenti giudiziari. La presunzione di innocenza è uno dei capisaldi della nostra carta costituzionale e quindi evitiamo illazioni e gogne mediatiche. Niente è più barbaro dei processi mediatici”. Sulla stessa scia anche l’Osapp, il cui segretario pugliese Ruggiero D’Amato ha chiesto il rispetto della privacy dei colleghi indagati “fino alla sentenza definitiva”, ribadendo che se “saranno accertate dirette responsabilità penali bisognerà agire con il pugno duro”. L’associazione Antigone, dal canto suo, ha evidenziato anche il ruolo non secondario, che nella vicenda avrebbe avuto l’apparato sanitario del carcere: “Ci auguriamo che chiarezza venga fatta anche sul coinvolgimento del personale medico, più di una volta indagato o condannato in procedimenti simili, per la mancata refertazione di ferite e lesioni. Nel caso specifico di Bari la buona notizia è stata la collaborazione dei vertici del carcere per individuare i presunti colpevoli delle violenze e arrivare ad un primo accertamento dei fatti”. Bari. Antigone: “Fondamentale fare chiarezza. Buon segno collaborazione direzione dell’Istituto” di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 10 novembre 2022 15 persone sono indagate per le presunte torture ai danni di un detenuto avvenute nel carcere di Bari. Di queste, 9 agenti penitenziari sono accusati di “concorso in tortura” e tre di loro sono stati posti agli arresti domiciliari. Di seguito le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone: “Di questa indagine eravamo a conoscenza da tempo e aspettavamo il primo atto ufficiale arrivato nelle ore scorse. Come sempre avviene in questi casi ci auguriamo che la giustizia faccia il suo corso e si chiariscano le eventuali condotte e responsabilità. Da quando è stata introdotta la legge contro la tortura nel 2017 sono diversi i processi e le indagini in corso che vedono coinvolti appartenenti alla Polizia penitenziaria. Segno di un testo che era e continua ad essere fondamentale per prevenire e perseguire abusi in un luogo chiuso come il carcere. Ci auguriamo, altresì, che chiarezza venga fatta anche sul coinvolgimento del personale medico, più di una volta indagato o condannato in procedimenti simili, per la mancata refertazione di ferite e lesioni. Nel caso specifico di Bari la buona notizia è stata la collaborazione dei vertici del carcere - sia della direzione che della stessa Polizia Penitenziaria - per individuare i presunti colpevoli delle violenze e arrivare ad un primo accertamento dei fatti. Anche in questo caso, come ripetiamo, la legge sulla tortura può aiutare a rompere il muro di omertà che spesso si è creato in passato, garantendo ampio riconoscimento a chi porta avanti il proprio lavoro nel rispetto dei diritti e della dignità degli individui”. A Patrizio Gonnella fa eco Maria Pia Scarciglia, presidente di Antigone Puglia: “Quanto è accaduto è di assoluta gravità e chiediamo che si faccia chiarezza. Come associazione operiamo all’interno del carcere di Bari da qualche anno attraverso uno sportello di informazione legale rivolto ai detenuti e ben conosciamo il grande lavoro che svolgono la direttrice del carcere e la comandante della Polizia Penitenziaria. Non siamo dunque sorpresi della loro collaborazione alle indagini e continuiamo a riporre fiducia nel loro operato”. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Brescia. 107 detenuti più della capienza massima: “Serve l’anagrafe e la lavanderia” di Manuel Colosio Corriere della Sera, 10 novembre 2022 Sos alla Loggia anche sul bisogno di avere lavoro al di fuori dell’istituto e una casa una volta tornati in libertà. Un autobus da dieci posti che fatica a muoversi perché sovraffollato. Non si tratta solo del disegno realizzato da Cesare, detenuto al Nerio Fischione, scelto come copertina della relazione annuale presentata ieri dalla garante delle persone private di libertà del Comune di Brescia, Luisa Ravagnani, alla commissione servizi alla persona. È anche un’ottima sintesi di quanto accade nelle carceri bresciane, dove l’obiettivo di trasportare verso il reinserimento nella società le persone condannate è reso impossibile dal sovraffollamento al quale sono costretti. Un problema che si registra soprattutto al Nerio Fischione, sempre nelle zone alte della triste classifica italiana, con i suoi 296 detenuti rispetto ad una capienza di 189 posti. Il secondo carcere bresciano, quello di Verziano, ha un problema simile, anche se meno evidente: 107 le persone recluse di fronte ad una disponibilità di 72 posti. “Quello del sovraffollamento è un indicatore, insieme ai sucidi (3 in meno di due anni nelle carceri bresciane, dato che non si registrava da tempo), di come la detenzione non possa essere l’unica soluzione per soddisfare la funzione rieducativa della pena - osserva Ravagnani nell’esporre i dati alla Commissione, convocata volutamente dentro le mura del carcere cittadino in modo da aprire un canale di dialogo perché “le alternative al carcere si costruiscono attraverso le relazioni tra il mondo qui dentro e quello fuori”. Come le misure alternative, 2.385 in carico all’Uepe nel bresciano allo scorso 30 settembre, oppure i lavori di pubblica utilità bloccati durante la pandemia e oggi ancora fermi; o ancora i lavori retribuiti, frutto dell’accordo con Confindustria Brescia, che “al di là dei numeri risultano essere un importante canale aperto, seppure non sufficiente” commenta Ravagnani che ricorda anche la necessità di “reperire alloggi esterni, costruire percorsi di inserimento lavorativo e implementare il personale”. La parola è andata quindi ai detenuti per le loro richieste: “Un ufficio anagrafe nel carcere, perché riuscire ad avere documenti fuori è un delirio, la presenza di un assistente sociale, la possibilità di tornare a fare lavori socialmente utili all’esterno dell’istituto di pena, e avere una lavanderia interna, perché qui i vestiti stentano ad asciugarsi” elenca il portavoce Santino, al quale si aggiunge Walter chiedendo di “ottenere una residenza fuori, spesso negata dai Comuni, ma indispensabile sia per inserirsi in percorsi terapeutici nelle comunità che quando si torna in libertà”. Richieste delle quali la commissione ha preso nota, con parere positivo a soddisfarle sia della maggioranza che dall’opposizione, e alle quali ha risposto punto su punto l’Assessore ai servizi sociali Marco Fenaroli, premettendo che la giunta va in scadenza in primavera “ma quello che possiamo ci impegniamo a farlo, come trovare i fondi per una lavanderia, ripartire con il “servizio lavoro” o inserire alcune ore assistenti sociali qui in carcere. Per il resto ci possiamo impegnare a sensibilizzare l’assessorato per la questione anagrafe piuttosto che la Prefettura per le residenze, prendendone anche noi in carico una quota”. Brescia. Voci dal carcere: “Vita dietro le sbarre, incubo senza fine” bresciaoggi.it, 10 novembre 2022 Situazione molto grave a Canton Mombello nella relazione annuale del Garante. La voce dei detenuti che chiedono un sostegno. Sovraffollamento e mancanza di aiuto psicologico le criticità più marcate. Maria Luisa Ravagnani: “La giustizia riparativa preveda risposte diverse”. Un autobus da dieci posti colmo di passeggeri sino all’inverosimile, traboccante di gente al punto tale da costringere gli ultimi arrivati a sedersi sul tetto, a sporgersi pericolosamente dal finestrino o ad aggrapparsi precipitosamente alla carrozzeria. È la metafora del sovraffollamento carcerario espressa dal disegno satirico di un detenuto della casa circondariale Nerio Fischione: segnale di disagio che sotto forma di immagine intrisa di amaro umorismo apre emblematicamente la relazione annuale della Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Brescia. Il documento, presentato a Canton Mombello dalla dottoressa Luisa Ravagnani al cospetto della Commissione consiliare Servizi alla persona e Sanità, della direttrice della struttura Francesca Paola Lucrezi e di alcune persone recluse, mette in luce l’insostenibile cronicità di un sistema detentivo che continua a infliggere ferite anziché sanarle, rendendo molto difficoltosi la riabilitazione e il reinserimento sociale. I dati della capienza - Il tema della capienza oltre i limiti consentiti dalla legge rappresenta uno dei punti di maggiore vulnerabilità e sofferenza, e accomuna la realtà carceraria bresciana a quella del resto del Paese: i dati raccolti tra settembre 2021 e settembre 2022 mostrano sì una diminuzione del numero di detenuti accolti al Fischione (da 375 a 316), ma la situazione nella Casa di reclusione di Verziano è esattamente opposta (da 94 a 108) e si tratta di oscillazioni fisiologiche che non fanno comunque scendere le capienze al di sotto della soglia limite e non segnalano una significativa riduzione delle presenze. Intenzionata a far trapelare con maggiore evidenza le condizioni di vita tra le sbarre e le necessità quotidiane di chi si trova a vivere in spazi di chi metri quadrati piuttosto che un semplice elenco di numeri, Ravagnani si è soffermata soprattutto sulle conseguenze di un modello “punitivo” controproducente, non soltanto per chi ha commesso un reato. “Il sovraffollamento rallenta i progetti di recupero della persona e danneggia anche il lavoro dei dirigenti e del personale in servizio”, ha sottolineato la garante, ricordando la necessità “di immaginare una giustizia ripartiva che preveda risposte diverse dal carcere, da perseguire con il sostegno di un’ampia rete di attori territoriali”. L’incontro ha lasciato poi spazio alle riflessioni dei detenuti, i quali hanno chiesto alle istituzioni presenti una maggiore propensione all’ascolto e servizi adeguati per far fronte alle esigenze quotidiane: un ufficio dell’anagrafe dislocato per rinnovare un documento di identità o per poter procedere al riconoscimento dei figli, una lavanderia interna per poter lavare in autonomia i propri indumenti, una disinfestazione più puntuale contro zanzare e parassiti e sportelli di sostegno psicologico. La richiesta al Comune di Brescia - “Ci rivolgiamo al Comune affinché ci sostenga, una volta usciti dal carcere, nella ricerca di un lavoro o trovi risorse per impiegarci in attività di pubblica utilità”, ha precisato il portavoce Santino. Mentre Walter ha sollevato il problema legato all’attribuzione della residenza: “Molti ragazzi che seguono un percorso terapeutico e vorrebbero entrare in comunità non possono farlo perché non hanno un indirizzo di residenza diverso rispetto al carcere”. Altri compagni hanno infine auspicato un più costante supporto psicologico-psichiatrico e una maggiore presenza di medici incaricati di eseguire visite e controlli. Contestualmente al ruolo spettante al Comune, l’assessore ai Servizi sociali Marco Fenaroli ha assunto a nome della Giunta una serie di impegni a breve termine. “Cercheremo di risolvere la questione dell’anagrafe in accordo con la Prefettura e il problema della residenza dialogando con l’Associazione comuni bresciani - ha promesso -. Provvederemo anche a riattivare le prestazioni socialmente utili e a interloquire con la direzione per dotare il carcere di una lavanderia interna”.•. Milano. Donatella, Pasquale, Dahou: storie di suicidi in carcere di Luca De Vito La Repubblica, 10 novembre 2022 Una mostra in Tribunale nell’anno nero per le morti in cella. Una selezione delle fotografie della mostra “Ri-Scatti” accompagnate dai nomi e dalle vicende di chi si è tolto la vita in carcere nel 2022 nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano. “Esposizione di grande valore simbolico” Dahou Abderrazak era finito in carcere la prima volta a Prato, all’età di 19 anni, dopo aver lasciato il Marocco per l’Italia in cerca di fortuna. A settembre, poco dopo essere uscito, era stato nuovamente trovato con della droga a bordo di un motorino: non ha retto e poche ore dopo l’interrogatorio di garanzia si è impiccato nella sua cella al carcere di Sollicciano, morendo 24 ore dopo. È una storia tra tante e perla precisione una storia su 74: sono i suicidi che si sono verificati in carcere nel 2022, un numero che fa di quest’anno il record negativo in assoluto, anche peggio del 2009 quando in cella si erano tolte la vita 72 persone. Una parte di queste storie, con nomi e cognomi e una breve ricostruzione dei fatti, è stata raccolta in un estratto della mostra esposta al primo piano del tribunale di Milano: una selezione della fotografica “Ri-Scatti” esposta al Padiglione di Arte Contemporanea (Pac) fatta dagli avvocati della Camera Penale di Milano che hanno deciso di aggiungere un messaggio forte sul tema dei suicidi a quello del disagio negli istituti penitenziari raffigurato dalle immagini scattate da detenuti e agenti di polizia. Un’esposizione realizzata in collaborazione con l’ordine degli avvocati, l’Anm e il Ministero. La mostra mette il dito nella piaga, punta l’attenzione laddove il meccanismo della Giustizia si inceppa e invece di tutelare e rieducare, finisce per annientare. Simone Melardi era arrivato nel carcere di Caltagirone per aver rubato un telefono e un portafoglio al teatro Massimo Bellini di Catania, subito restituiti. Da tempo era in lista d’attesa per essere inserito in una comunità dato che soffriva di psicosi ed era sottoposto al regime di massima sorveglianza in cella. Il 25 agosto si è impiccato in carcere, all’età di 44 anni. E poi ancora la storia di David Selvaggio, che a marzo di quest’anno era finito dentro con l’accusa di aver rapinato alcune donne insieme alla compagna. Tossicodipendente, si era tolto la vita impiccandosi a poche ore dall’interrogatorio di garanzia nel carcere di Sondrio. Aveva 33 anni. “L’esposizione ha un grande valore simbolico - ha detto Giovanna Di Rosa, presidente del tribunale di Sorveglianza di Milano - perché viene fatta qui in Tribunale, dove si amministra la giustizia e si decidono le pene e come eseguirle. Va guardata lasciandosi andare al senso di umanità perché le foto e le storie grondano umanità. Sono rimasta molto colpita leggendo nomi e storie perché significa personalizzare e dare un senso ai numeri. Vanno guardate e lette lasciandosi andare all’emozione dell’uomo che guarda l’uomo”. Tra i pannelli esposti al Palazzo di Giustizia si trova anche la vicenda di Roberto Pasquale Vitale che al Pagliarelli di Palermo scontava una condanna per rapina. Anche lui aspettava di entrare in comunità perché, come raccontato dal padre, soffriva di un serio disturbo psichiatrico. È morto in ospedale dopo 18 giorni di agonia, il 21 settembre, perché aveva cercato di togliersi la vita con il classico lenzuolo appeso alle sbarre della cella. Giacomo Trimarchi è invece il più giovane a uccidersi quest’anno: aveva 21 anni ed è morto inalando il gas butano a San Vittore. Non doveva starci là perché destinato a un luogo di cura. Tra le storie in mostra, anche quella di Donatella Hodo, la ragazza che prima di togliersi la vita nel carcere veronese di Montorio ha chiesto perdono al suo amore. Per il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vinicio Nardo “non era scontato che avvocati e magistrati facessero insieme questa mostra. Per tanto tempo non ci siamo fatti carico dell’esecuzione della pena ma solo della celebrazione dei processi. Le foto del carcere servono a favorire questa commistione culturale tra il prima e il dopo ma non a farci sentire più buoni perché il carcere è più di quello che vediamo in queste immagini. Se vogliamo bere la cicuta, dobbiamo berla fino in fondo”. Napoli. Dal carcere al mare, i ragazzi di Nisida diventano sub di Viviana Lanza Il Riformista, 10 novembre 2022 Un nuovo mondo sta per aprirsi per i ragazzi dell’area penale di Napoli del Centro di giustizia minorile. E ci si augura che possa essere la metafora di un nuovo futuro, di un percorso diverso e lontano da quello che li ha portati nelle fila della giustizia minorile. Questi ragazzi diventeranno sub per conoscere e tutelare il patrimonio ambientale e culturale della città. “Per la prima volta - spiega Giuseppe Centomani, direttore del Centro minorile della Campania - si immergeranno per un’attività di tipo professionale dopo aver conseguito il brevetto. Questi ragazzi vedranno un altro mondo: il patrimonio ambientale sottomarino del golfo di Napoli e cercheranno di tutelarlo e di amarlo”. L’appuntamento è per sabato mattina alle nove, alla spiaggia Molo Cappellini di Nisida. Il giorno prima, venerdì al circolo Savoia, i ragazzi riceveranno il brevetto da 18 metri per sub e sabato potranno essere già operativi nell’ambito di un progetto di recupero complessivo dell’eco-sistema marino del Golfo. “Il Molo Cappellini di Nisida è un luogo doppiamente simbolico - spiega Centomani - anche perché saremo nel cuore del Campi Flegrei, in un’area geologicamente importante. Tanta l’emozione che vivremo nel vedere questi giovani approcciarsi ad un mondo nuovo”. Si tratta, dunque, di una doppia operazione: da una parte il recupero e la tutela del patrimonio ambientale e dall’altra l’avvio di un nuovo rapporto tra questi ragazzi e la città. I ragazzi indosseranno mute e maschera da sub e mentre loro si immergeranno, i volontari puliranno la spiaggia in superficie. “Ad accompagnare i ragazzi - Sto arrivando! sapere Rosario Santanastasio, presidente nazionale di Archeoclub D’Italia - ci saranno i palombari della Marina Militare e i sub di MareNostrum. Sono ragazzi che hanno aderito al progetto Bust Busters. Durante i corsi di formazione hanno visto e conosciuto il patrimonio ambientale della loro città”. Finalmente una buona notizia dal mondo penitenziario, e il fatto che riguardi minori non può che far ben sperare. Francesca Esposito, referente attività sociali di MareNostrum, aggiunge: “Molti di questi ragazzi provengono da situazioni di degrado ed emarginazione, grazie a progetti come questi possiamo dimostrare loro che un altro modo di vivere e di autodeterminarsi sia possibile. La nostra associazione ha da sempre ritenuto che migliorare le condizioni di vita dei minori sottoposti alla pena detentiva con attività socio educative legate al mare, possa essere non solo motivo di socializzazione, di interrelazione, ma anche una grande opportunità per il loro graduale reinserimento all’interno del tessuto sociale. Siamo anche convinti che questo sia solo l’inizio di una sempre più stretta e proficua collaborazione”. Il progetto nasce dalla collaborazione anche di Marina Militare, Corpo Militare dell’Ordine di Malta, Asia, Archeoclub D’Italia, MareNostrum, Arpac Campania, i ristoratori del Borgo dei Marinari, i circoli “Reale Yacht Club Canottieri Savoia”, “Club nautico della Vela”, “Circolo del Remo e della Vela”, “Circolo Rari Nantes Napoli”. Al centro ci sono questi ragazzi e la loro seconda chance. “È la volontà riparativa che parte da questi ragazzi napoletani - aggiunge Giuseppe Centomani - in quanto ragazzi che hanno vissuto esperienze di disagio e di devianza. Un percorso emozionante durante il quale la loro partecipazione è addirittura cresciuta. Sarà una sorta di riconciliazione tra loro e la città, tra loro e la società. Siamo partiti con cinque e poi sono aumentati, altri minori dell’area penale di Napoli hanno voluto partecipare. Vogliono conoscere un mondo nuovo, vogliono avvicinarsi alla conoscenza per dimostrare alla società che ci sono. È un percorso di conoscenza, in quanto durante le lezioni, i ragazzi hanno dovuto imparare le tecniche di immersione ma anche vedere i fondali marini come patrimonio ambientale da tutelare. Un patrimonio ambientale che spesso custodisce anche il patrimonio archeologico sottomarino”. Milano. Artisti Dentro, presentazione dell’antologia che raccoglie i lavori migliori dei detenuti di Simona Gelosa* Ristretti Orizzonti, 10 novembre 2022 Si terrà il prossimo 3 dicembre - al community hub HUG Milano (via Venini, 83), a partire dalle 19.45 - l’evento di presentazione della nuova antologia di Artisti Dentro Onlus, l’associazione culturale che si occupa di promuovere arte e cultura nelle carceri d’Italia in maniera del tutto originale. “L’antologia - precisa Sibyl von der Schulenburg, presidente di Artisti Dentro Onlus - è l’opera conclusiva di un anno di lavoro, una raccolta dei migliori contributi ai tre concorsi indetti dall’associazione e riservati ai detenuti: racconti, poesie, testi rap, ricette di cucina e piccole opere pittoriche di mail art. Sono tutte espressioni della creatività di persone detenute, voci che escono da carceri sovraffollate, luoghi di sofferenza e mancate occasioni di rieducazione e recupero sociale. Dobbiamo guardare al fenomeno della carcerazione con animo libero da desiderio di vendetta e considerare invece che senza un aiuto, la maggior parte dei detenuti a fine pena tornerà a delinquere. Ed è per questo motivo che abbiamo deciso di usare la creatività come strumento per una crescita personale del detenuto e l’agonismo come mezzo per risvegliare in persone psicologicamente smarrite l’interesse sufficiente a riaccendere motivazione, ambizione e autostima”. Artisti Dentro Onlus, le finalità dell’associazione. Le attività principali dell’associazione si esplicano in tre concorsi a premi relativi a tre campi artistici: scrittura, arte culinaria e arte visiva. Questo permette di tendere una mano anche a detenuti in celle di alta sicurezza, strutture dimenticate e istituti dove non ci sono corsi o altre attività organizzate. I membri delle giurie dei concorsi sono esperti dei settori specifici così, ad esempio, la giuria della scrittura è presieduta da Lella Costa, nota attrice e scrittrice, e quella della pittura da Domenico Piraina, direttore di Palazzo Reale a Milano. “Portare all’esterno le voci dei detenuti attraverso le loro opere d’arte - aggiunge Sibyl von der Schulenburg - ha creato un ponte tra il dentro e il fuori degli istituti di pena, una via che permette il contatto tra la società libera e quella detenuta. C’è bisogno di questo contatto affinché la società si renda conto di qualcosa che non per tutti è chiara: la gente cambia; il detenuto incarcerato dieci anni fa non è più la stessa persona, il suo cervello ha modificato il modo di lavorare e i suoi schemi mentali sono diversi. Se la svolta è stata in bene o in male dipende dall’ambiente in cui il soggetto è stato immerso per tanto tempo, questo è un elementare principio di pedagogia. Purtroppo c’è uno squilibrio enorme tra due bisogni: la società libera tende a negligere le carceri mentre i detenuti hanno l’esigenza di essere visti e riconosciuti quali esseri umani appartenenti alla stessa società. C’è, poi, un’altra finalità molto importante di tutte le attività di Artisti Dentro Onlus: combattere la noia nelle carceri, luoghi in cui la definizione di noia mortale si concretizza nel numero di suicidi dovuti al vuoto di obiettivi e speranza. I concorsi offrono scadenze e momenti di attesa che scandiscono il tempo dandogli una dimensione vivibile, in quello che un detenuto ha definito il cimitero dei vivi”. La creatività è uno degli strumenti per ritrovare i propri spazi mentali, anche in carcere. L’articolo 27 della Costituzione riconosce ai detenuti il diritto alla rieducazione, anche se in Italia questo diritto non è sempre tutelato tanto che il tasso di recidiva si aggira intorno al 70-75% (quello norvegese è del 20%). Fanno eccezione le poche carceri modello come quello di Bollate, una struttura che vanta un tasso di recidiva attorno al 17%. Un detenuto mentalmente più sano sarà anche più facilmente recuperabile, con un vantaggio per lui e soprattutto per l’intera collettività. *Ufficio Stampa Artisti Dentro Onlus Catanzaro. Riparte il torneo di calcio amatoriale Figc, gioca la squadra composta da detenuti giornaledicalabria.it, 10 novembre 2022 Una partita di pallone dà sempre una sensazione di libertà, di spirito di squadra, di passione. Una sensazione amplificata quando si gioca a calcio nel campo di un carcere. Torna a giocare la squadra composta dai detenuti della casa circondariale di Catanzaro, nuovamente iscritta, dopo la lunga pausa dovuta alla pandemia, al torneo amatoriale promosso dalla delegazione provinciale di Catanzaro della Lega nazionale dilettanti della Federazione Italiana Gioco Calcio. “Nell’ambito delle attività trattamentali promosse da questa Amministrazione rientrano le progettualità relative alla squadra di calcio interna di questo istituto formata da detenuti” spiega la direttrice della struttura, Patrizia Delfino, che aggiunge: “Lo sport è indispensabile negli istituti detentivi per allentare le tensioni, per favorire la mobilità a tutela del diritto alla salute, ma anche per promuovere la capacità di stare con gli altri, di rispettare le regole del gioco”. La squadra di calcio composta da detenuti si è già cimentata in passato in diverse partite amichevoli contro squadre di calcio esterne; già negli anni passati ed è stato possibile portare avanti questa attività grazie all’impegno del personale dell’area educativa e di polizia penitenziaria e alla collaborazione della Lega calcio che ha dato un esempio alla comunità esterna. I detenuti giocano sempre “in casa”, in quanto sono ovviamente le altre squadre che si recano in istituto; ma ciò non toglie che per 90 minuti lo sport fa la sua parte per portare il “mondo” oltre le sbarre. Il calcio non richiama solo l’idea di libertà, in carcere, ma anche quella di famiglia: sono molti i genitori detenuti che sanno cosa vuole dire tirare in porta come si farebbe nel cortile di casa, con i propri figli. Si tratta di un messaggio importante: è possibile giocare meglio “un secondo tempo”, non solo in una partita, ma anche nella vita. Si apre con questa idea il campionato 2022-23 al carcere di Catanzaro. Partite da giocare fino all’ultimo minuto, finestre aperte su una seconda possibilità. La svolta di Letta. “La sinistra riparte dagli ultimi: i migranti” di Angela Azzaro Il Riformista, 10 novembre 2022 Caro Luigi, caro Enrico... Uno scambio di lettere tra Manconi e Letta riapre il dibattito a sinistra sulla centralità dei migranti, degli ultimi tra gli ultimi. La sinistra se vuole rinascere deve ripartire da qui. Deve ripartire, ha scritto Luigi Manconi, da quello che sta accadendo nel Mediterraneo. La lettera, scritta su il quotidiano La Repubblica, ha proposto, come racconta lo stesso Manconi su Facebook “di iniziare il percorso congressuale del partito al porto di Catania, dove “la neo lingua” del neo governo parla di “sbarchi selettivi”. Perché lì in gioco c’è un principio essenziale che, prima ancora che ai progressisti, dovrebbe essere caro a tutti i democratici. Ovvero il principio del soccorso in mare, come diritto irrinunciabile e fondamento dell’intero sistema dei diritti universali della persona. Far nascere il nuovo Pd sulle banchine del porto di Catania può essere un’importante occasione, come si dice, “identitaria”, sottraendo questo termine all’abuso stucchevole che se ne fa oggi e dandogli un significato profondo. Insomma, il Pd - chiude l’ex senatore e il suo segretario dalla parte di quei povericristi che, fino a ieri, sono stati sottoposti alla pratica disumana di una selezione che diceva: tu sì, tu no”. L’appello questa volta non è caduto nel vuoto. Il segretario uscente - ma poi perché si è dimesso? - ha infatti rilanciato. “Ha ragione Luigi Manconi su la Repubblica: dal porto di Catania - al fianco di chi ha lasciato tutto per il diritto a una esistenza dignitosa - passano oggi le ragioni più profonde dell’identità della sinistra italiana. È per questo che il Partito Democratico è lì da giorni. Ed è per questo che continueremo ad esserci, anche se non porta consenso, anche se in passato sono stati commessi errori, di prospettiva o di inazione. Noi siamo quelli di Mare Nostrum, siamo quelli che si sono battuti per abolire i decreti Salvini, siamo quelli che in Europa con più forza e più argomenti reclamano responsabilità condivise e solidarietà. Noi siamo quelli - conclude Letta che giudicano la selezione dei disperati una aberrazione e uno schiaffo alla civiltà e allo Stato di diritto”. Il segretario dem indica una nuova strada che fa chiarezza su anni di ambiguità e di tentennamenti. E usa una parola che a sinistra fa paura: identità. Identità della sinistra italiana, cioè un consenso che si costruisce non a colpi di sondaggi, né di populismo, ma facendo quello che dovrebbe fare la sinistra: stare dalla parte di chi soffre, di chi ha di meno, di chi spera in un futuro migliore. Già nei giorni scorsi, davanti alla decisione del governo di fare la selezione dei migranti, il segretario dem aveva usato parole molto dure: “Un utilizzo politico becero e barbaro dei drammi di donne, uomini, bambini inermi”. “Il carico residuale e lo sbarco selettivo” sono “un linguaggio inaccettabile per scelte a Catania ancor più inaccettabili, contrarie ai principi di umanità e alle regole internazionali”. E ha parlato di “fatto gravissimo” a cui “stiamo reagendo e reagiremo con la massima determinazione”. Nelle stesse ora Giuseppe Conte prendeva tempo e, solo dopo essere stato tirato per la giacchetta, si è sforzato nel definire il dramma dei profughi a causa delle politiche del governo come “vuoto slogan per ingannare i cittadini”. Non è forse un caso che gli ultimi sondaggi - Swg e Ghisleri - parlino di un sorpasso del Pd da parte dei Cinque stelle. Se sui migranti si fa finta di nulla, se si volta la faccia dall’altra parte è molto probabile che il consenso cresca. Anni e anni di campagne stampa e politiche contro i migranti fanno sì che il tema susciti paure, egoismi, vero e proprio odio. Che cosa deve fare la sinistra? Hanno detto bene Manconi e Letta: non si devono girare dall’altra parte, anzi devono ripartire da lì. Forse si tratta di una traversata nel deserto, che potrebbe provocare anche una iniziale perdita di consenso, ma la strada è quella, è quella di una sinistra che davanti a fenomeni globali che ci investono sempre di più sta dalla parte dell’umanità. Sta dalla parte di chi soffre. La strada invece scelta da Conte - quella delle urla e del consenso - forse può funzionare nell’immediato ma porta dalla parte opposta: un populismo di stampo nazionalistico che nel Conte Uno ha già prodotto molti, troppi disastri. Ora lo scontro si è spostato anche sul piano delle istituzioni europee: le parole molto dure della Francia che accusa l’Italia di non aver rispettato le regole europee, Italia che peraltro riceve tanti soldi per affrontare l’emergenza, ci dicono che in gioco ci sono anche i rapporti con quell’Europa fondamentale per la tenuta democratica e per uscire dalla crisi. Meloni se lo ricorda solo quando non sa che cosa fare per affrontare il caro bollette, per far fronte alla povertà che diventa sempre più diffusa e pressante. Usa i migranti per distrarre, per attirare su di loro l’odio degli italiani. Su questo non ci possono essere ambiguità, non ci possono esser giudizi che non prendano posizione. Questa volta Letta è stato chiaro: la selezione operata dal governo Meloni è un’aberrazione. Bisogna partire da qui per ridefinire il Dna della sinistra, mettendo in agenda al più presto anche il contrasto dei patti con la Libia, altra aberrazione che purtroppo il Pd ha avallato. Ora lo scambio tra Manconi e Letta parla di una svolta, che non può evitare di toccare anche la questione del garantismo. Il nostro amico Manconi lo sa benissimo come i temi siano collegati e come le Ong siano state le prime vittime della tenaglia giustizialista. Il congresso che ha come faro i migranti non potrà che discutere anche di carcere e di una giustizia giusta. Strada lunga e difficile, certo. Ma finalmente si vede una luce in fondo al tunnel. Ong e migranti, tensione Italia-Francia: così è saltato l’accordo Meloni-Macron di Stefano Montefiori e Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 10 novembre 2022 La tensione tra Roma e Parigi è salita con il trascorrere delle ore. E mentre la Ocean Viking della Sos Mediterranee, con a bordo 243 persone, vagava tra la Sicilia e la Corsica in attesa dell’indicazione di un porto dove approdare, si è arrivati allo scontro frontale. Tanto che lunedì prossimo, quando si riunirà a Bruxelles il consiglio per gli Affari Esteri, l’Italia chiederà di discutere la questione migranti pur consapevole che non si tratta di un punto all’ordine del giorno. L’obiettivo appare evidente: rivendicare la linea della fermezza, sfidando i partner europei a provvedere all’accoglienza delle navi che battono la loro bandiera. E intanto puntare direttamente ai responsabili delle Ong. Un’arma che però si sta rivelando spuntata. La denuncia contro i comandanti della Humanity 1 e della Geo Barents per non aver rispettato l’ordine di lasciare il porto dopo lo sbarco dei migranti non prevede infatti alcuna conseguenza penale, ma soltanto una multa. Il botta e risposta - Il dialogo sembrava ben avviato martedì pomeriggio quando Ocean Viking comunica di fare rotta verso la Francia e si scopre che la decisione di Parigi è arrivata “dopo un colloquio a Sharm el Sheikh tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il presidente francese Emmanuel Macron”. La tifoseria italiana si scatena. “Bene così, l’aria è cambiata”, commenta la Lega. “La fermezza del governo paga”, fa eco Forza Italia. In realtà la telefonata tra il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi con il collega francese Gérald Darmanin non è servita a raggiungere un vero e proprio accordo, tanto che i migranti sono sbarcati a Catania per ordine dei medici. I politici del centrodestra rivendicano però la vittoria dell’Italia e ormai è sera quando una nota di Palazzo Chigi prova a smorzare l’esultanza manifestando “apprezzamento per la decisione della Francia di condividere la responsabilità dell’emergenza migratoria” e impegno “a trovare una soluzione condivisa nel pieno rispetto dei diritti umani e del principio di legalità”. Evidentemente, però, è troppo tardi. Appena un’ora dopo il governo francese dirama un comunicato in cui definisce “inaccettabile il comportamento delle autorità italiane, ci aspettiamo altre cose da un Paese che oggi è il primo beneficiario del meccanismo di solidarietà europea”. La linea di Parigi - In realtà la linea della Francia è sempre stata questa. Il ministro dell’Interno, Darmanin, ha ripetuto nei giorni scorsi che secondo il diritto internazionale la Ocean Viking doveva attraccare in Italia e poi la Francia avrebbe fatto la sua parte prendendosi una parte dei passeggeri. E ieri questa tesi è stata ripetuta del portavoce del governo, Olivier Veran intervistato dalla radio del servizio pubblico France Info: “La verità è quel che è stato firmato dagli Stati europei, che impegna anche l’Italia, che riceve fondi per questo. È un meccanismo umanitario di solidarietà europea che è alla base del funzionamento dei Ventisette. Questa nave deve essere accolta in Italia”. Veran è stato ministro della Sanità durante l’emergenza Covid e gli si prestano ambizioni per succedere a Macron nel 2027. Come portavoce del governo ieri è stato molto duro, e in Italia c’è il sospetto che i toni si siano inaspriti anche per rispondere agli esponenti della destra francese contrari a qualsiasi cedimento come ha chiarito Jordan Bardella il presidente del Rassemblement National che ha preso il posto di Marine Le Pen: “Con noi, l’Ocean Viking non sbarcherebbe mai sulle coste francesi”. Trattative e denunce - Ora c’è da trovare un accordo, se non si vuole correre il rischio di trasformare nuovamente la gestione dei flussi migratori in una sfida con le Ong che provochi una fibrillazione costante o peggio in una crisi a livello internazionale. Ci proverà la prossima settimana il ministro degli Esteri Antonio Tajani durante la riunione convocata a Bruxelles. Del resto le norme in vigore — archiviati dal precedente governo i decreti sicurezza — non offrono gli strumenti che qualcuno all’interno dell’esecutivo vorrebbe utilizzare. Il sequestro e la confisca dei mezzi non sono automatici e anche le denunce alla magistratura nei confronti dei responsabili delle Ong e dei comandanti delle navi possono trasformarsi in una semplice sanzione amministrativa. La strada da seguire passa dunque ancora una volta dalla trattativa con l’Unione europea ed è lì che l’Italia dovrà farsi valere per ottenere collaborazione per la ricollocazione degli stranieri. Minniti: “Scivoloso puntare su redistribuzione, prevediamo flussi migratori consistenti e legali” di Francesco Grignetti La Stampa, 10 novembre 2022 L’ex ministro dell’Interno: “Per una vera strategia bisogna investire nel Nord Africa. Putin ha cambiato tutto, ora nel Mediterraneo molti Paesi sono agganciabili all’Occidente”. A parlare di Mediterraneo instabile, flussi migratori, energia, e terrorismo islamista con Marco Minniti si scivola subito nella lezione universitaria. L’ex ministro dell’Interno è il presidente della fondazione Med-Or, un think tank della società Leonardo per i rapporti internazionali tra l’Italia e appunto i Paesi del Sahel, Corno d’Africa,e Oriente. La visita di Giorgia Meloni in Egitto non lo ha meravigliato, anche perché sono diversi anni che è in corso il riavvicinamento. “Il dialogo con il Cairo - dice Minniti - non è negativo in sé, ma è anche il banco di prova di che cosa sia una diplomazia esigente”. Esigente nel senso che l’Italia non può e non deve dimenticare nemmeno per un attimo la tragedia di Giulio Regeni. “Perché si può riconoscere a quel Paese un ruolo geopolitico, ma l’Egitto a sua volta deve riconoscere che ci deve una risposta. È un fatto di dignità nazionale”. Mentre parliamo di Mediterraneo, sta esplodendo il caso della “Ocean Viking”, che a dispetto di quanto emergeva martedì, non sarà accolta dalla Francia... “Sinceramente non mi sorprende. È la dimostrazione che in questa fase, puntare tutto sulla ridistribuzione di migranti in Europa è una strada particolarmente scivolosa. Può anzi aumentare il livello di conflittualità tra i paesi europei. Occorre altro. Occorre una strategia. Ma allora dobbiamo alzare lo sguardo e parlare innanzitutto di Ucraina”. E che c’entra l’Ucraina? “Guardi, con l’invasione russa, è cambiato tutto. Dall’Ucraina, come fossero scosse telluriche, si dipanano tre crisi globali: energetica, umanitaria, ed alimentare. Paradossalmente tutte e tre queste crisi si giocano nel Mediterraneo. Per l’energia, basti pensare al ruolo che ha assunto l’Algeria o anche, in prospettiva, quello che può avere l’Egitto, per non parlare della Libia. Per quella umanitaria, dobbiamo sempre ricordare che in Europa ci sono al momento 10 milioni di profughi fuggiti dall’Ucraina; di questi, 4,5 milioni sono in Polonia e 1,5 in Ungheria. L’Europa ha retto, ma non era scontato. Per la crisi alimentare, per fortuna ci sono i corridoi del grano, ma nei Paesi del Nord Africa è un equilibrio instabile. Il paradosso è che Putin sta perdendo sul piano militare e ora ricorre all’arma politica. Un’instabilità del Mediterraneo, creando problemi di approvvigionamento all’Europa, o spingendo masse all’emigrazione, è la sua arma contro l’Occidente. Sta scommettendo sulla nostra tenuta”. E quindi? “È evidente, anche alla luce di quello che sta accadendo con la Francia, che non possiamo dare le chiavi delle nostre democrazie ai trafficanti di esseri umani. Perché sarebbe da irresponsabili non vedere i contraccolpi nelle opinioni pubbliche e come riprende fiato la propaganda populista nei nostri Paesi. Occorre superare la Bossi-Fini e prevedere flussi consistenti di migrazione legale, gestiti dalle reti consolari. In cambio i Paesi di origine dovrebbero impegnarsi a riprendere immediatamente i loro migranti illegali. Uno scambio in cui vinciamo tutti, anche noi europei che siamo in piena recessione demografica”. Invece è ripartita la guerra alle Ong... “Mi piace qui ricordare lo stratega cinese Sun Tzu: “Una strategia senza tattica è la via più lenta per la vittoria, ma una tattica senza strategia è il rumore di fondo della sconfitta”. Oltre a governare i flussi di migranti, dobbiamo elaborare una strategia di sviluppo per l’Africa. Se abbiamo trasferito 6 miliardi alla Turchia, dobbiamo pensare ad almeno 3 miliardi per una prima annualità di aiuto all’Africa del Nord. Aiuto finalizzato alla crescita economica, alla stabilità, alla prosperità. Vede, in questi giorni la Tunisia sta negoziando un oneroso prestito con il Fondo monetario internazionale. L’Egitto lo ha appena concluso. Immaginate quale ruolo potrebbe avere un’Europa che arriva da protagonista con un corposo assegno in mano. La questione ha anche un aspetto diplomatico importante: nel Mediterraneo c’è un cospicuo numero dei cosiddetti Paesi “indifferenti” alla guerra in Ucraina. Sarebbe bene agganciarli all’Occidente. L’Italia può riuscirci, ma deve aprire una sua offensiva diplomatica per portare sul serio l’Ue nel Mediterraneo. La verità è che l’interesse nazionale si difende soprattutto all’estero. È lì che si vince o si perde la sfida. Uno che l’ha capito è Putin. Pochi hanno notato che mentre era costretto alla mobilitazione generale, con quel che ha comportato, non ha mica smobilitato i contractor della Wagner dalla Libia, dal Mali o dal Centrafrica. Si vede che gli sono più utili là dove stanno”. E l’Egitto? “Può essere un partner cruciale. Ha un importante ruolo in Libia. Ha i giacimenti di gas. Fronteggia il terrorismo islamista. Il dialogo, specie dopo l’invasione dell’Ucraina, non è negativo in sé. Ma quella ferita nazionale che è la barbara tortura e assassinio di Giulio Regeni va sanata. Ricordo che una relazione finale della commissione parlamentare d’inchiesta è stata votata all’unanimità. E che c’è una ricostruzione accusatoria portata a processo. L’Egitto deve sapere che per noi celebrare il dibattimento è una questione di dignità nazionale. L’esigenza di verità e giustizia non la dimenticheremo mai”.