Lavorare salva: il carcere può anche essere riscatto di Fabiano Massimi Il Domani, 9 marzo 2022 Sono passati due anni dalle rivolte negli istituti penitenziari italiani, su tutte quella di Modena che si è conclusa con la morte di nove persone. Appunti su quello che si fa e si potrebbe fare per la riabilitazione dei detenuti. Sono passati due anni, ma ancora non si è fatta chiarezza su ciò che è accaduto nelle carceri italiane tra il 7 e il 9 marzo del 2020, mentre il “grande lockdown” rinchiudeva in casa loro anche i comuni cittadini. Nella grande confusione del momento, la serie di rivolte e sommosse violente che ha investito 70 dei 189 istituti penitenziari sparsi per la penisola (numero cui va aggiunta una trentina di proteste pacifiche) è stata dapprima sottovalutata. Solo quando gli edifici hanno iniziato a prendere fuoco la notizia ha raggiunto i telegiornali, aggiungendosi al trauma del Covid e al tracollo delle Borse. Lì per lì è sembrata la fine del mondo, e naturalmente non lo era. La Storia non finisce, a dispetto di quanto annunciava Francis Fukuyama trent’anni fa. Continua come sempre, anche se certo, più che rinnovarsi ultimamente sembra ripetersi. Anzi: recidivare. Il caso di Modena - A Modena, nella casa circondariale Sant’Anna, durante la rivolta del 2020 hanno perso la vita nove detenuti. Un numero altissimo, specie se si considera che negli altri cento istituti colpiti i morti sono stati in tutto quattro. Gli edifici teatro di quella strage sono stati semidistrutti, tanto che a due anni di distanza non hanno ripreso la piena capienza e funzionalità. Le indagini su dinamiche e responsabilità non sono ancora chiuse definitivamente. Le famiglie delle vittime non smettono di chiedere a gran voce la verità, come ha raccontato di recente anche Domani. A me, che quel carcere l’ho frequentato come bibliotecario, e a un certo punto ho anche deciso di raccontarlo in una serie di romanzi gialli, la cosa che più disturba è pensare che nove persone siano morte mentre erano sotto la nostra custodia. Sono certo che chi doveva vigilare abbia fatto del suo meglio, e una sommossa è una sommossa, difficile garantire la sicurezza di tutti, ma resta il fatto che se non li avessimo rinchiusi per il bene comune, quei nove uomini sarebbero ancora vivi. Per finire dietro le sbarre avevano probabilmente le loro colpe. Ma pagare con la vita, e in mio nome? Questo anche no. Le pene alternative - Esistono, si sa, altre forme di pena che non comportano la reclusione. In Italia non sono molto applicate, e nemmeno particolarmente numerose: affidamento in prova ai servizi sociali, detenzione domiciliare, semilibertà. All’estero il discorso è più articolato, e sta erodendo pian piano il primato delle prigioni, tanto che in Svezia, negli ultimi cinque anni, ben quattro sono state chiuse e riconvertite ad altri usi. Limitazioni delle libertà personali accessorie, arresti domiciliari frazionati (ad esempio nei fine settimana), percorsi rieducativi anziché detentivi, reclusione in luoghi naturali con libertà di movimento, lavori socialmente utili. Tutte misure che non ammassano decine e centinaia di persone in strutture anguste, malmesse e disumanizzanti (non solo per gli ospiti, come testimonia il tasso di suicidi tra gli agenti carcerari). Strutture dalle quali i detenuti escono in condizioni fisiche, mentali e sociali peggiori di quando ci sono entrati, sempre che ne escano. Ed è questo il dato che dobbiamo ricordare: in Italia ogni dieci detenuti scarcerati, 7-8 finiscono per tornare dietro le sbarre. I nostri istituti, si dice, hanno le porte girevoli, e quindi falliscono de facto nel compito di riformare i loro ospiti, l’obiettivo specifico per cui esistono. Checché se ne pensi, infatti, non si sbattono i colpevoli in gattabuia per punirli. Li si isola per controllarli, e per rieducarli. Questo vuole il nostro ordinamento, sulla carta uno dei più illuminati del mondo, indicando anche il modo in cui si può ottenere il risultato. Voglia di riscatto - La legge 354 del 1975 nomina il lavoro nelle carceri come uno dei fattori fondamentali per la riabilitazione dei detenuti. Lavoro durante la reclusione, per addolcire e mettere a frutto il periodo di detenzione. Lavoro dopo la reclusione, per consentire il reinserimento nella società del reo che ha pagato il suo debito. A un profano o a uno scettico possono sembrare belle parole vuote, ma anche qui i dati raccolti in decenni di osservazione sono eloquenti: lavorare riduce di molto la probabilità di tornare a commettere un reato, portandola dal 75 per cento (quei 7-8 detenuti su dieci) a meno del 10 per cento. In altre parole: date loro un impiego, una professione o un’arte, e nove detenuti su dieci, una volta fuori, righeranno dritto. Su questo assunto si basano i miei gialli dedicati alle gesta degli Ammutinati, Il club Montecristo e Vivi nascosto. Quando andavo in carcere per leggere e raccontare libri ai detenuti, mi trovavo spesso di fronte a due dati di realtà spiazzanti: primo, i detenuti erano contentissimi di passare due ore con saggi e romanzi (“Viva la narrativa d’evasione!”, scherzavano), e secondo, tutti loro, chi prima chi poi, venivamo a raccontarmi il motivo per cui erano finiti dentro, e la voglia bruciante che avevano di riscattarsi una volta fuori. Il desiderio assoluto di non tornare dentro mai più, perché “dentro” non è una vacanza pagata: è l’inferno. Eppure, mi spiegavano le educatrici, molti di quegli uomini erano ospiti seriali del Sant’Anna. Non che i loro proclami fossero falsi o velleitari: se c’era un compito da svolgere accorrevano, e quando altri venivano a insegnare loro matematica, italiano, inglese, musica, erano entusiasti di mettersi sotto. Il teatro in carcere, altro esempio virtuoso. O le esperienze con il maneggio a Opera. Gli esempi di occasioni riabilitative colte al volo dai detenuti erano molteplici, eppure la recidiva continuava a colpirli. Perché? Nel cuore della società - La risposta è semplice: perché nessuno offre lavoro a un ex truffatore. Nessuno affitta casa a un ex ladro. È la natura umana, ed è comprensibile. Lo stato non riesce a costruire un numero sufficiente di occasioni fuori dal carcere, e gli ex carcerati, anche quelli in buona fede, non trovando spiragli finiscono per tornare sulla vecchia via. Nella finzione dei miei gialli la soluzione viene da un uomo speciale, Primo, che, dopo essere uscito di prigione riesce in qualche modo a ottenere un lavoro e su quello costruisce con pazienza un piccolo impero fatto di ditte, società, negozi, appartamenti. Invece di usarli per arricchirsi, però, decide di metterli al servizio del club Montecristo, una sorta di società di mutuo soccorso (siamo in Emilia, dopotutto) che trova casa e lavoro agli ex galeotti e li aiuta a rifarsi una vita, a patto che non tornino a delinquere. Quando poi mi è capitato di parlare con detenuti che avevano letto questi romanzi, nei loro occhi ho visto balenare una luce di entusiasmo. “Magari succedesse”, mi hanno detto alcuni. “Sarebbe proprio da fare”. Fuori dalla finzione, in attesa di un Primo in carne e ossa, non è poco quello che viene già fatto da associazioni e privati. Un’iniziativa, su tutte, mi ha conquistato, perché mette insieme la forza riabilitativa del lavoro e un nuovo rapporto (un nuovo dialogo) con i cittadini. Si chiama FreedHome - Creativi dentro, ed è un progetto di economia carceraria che riunisce oltre venti istituti italiani, da Trento a Trani. Chi produce frutta secca (Sprigioniamo sapori, Ragusa), chi cancelleria (Altracittà, Padova), chi dolci (la Banda Biscotti, Verbania), chi borse e accessori (le Malefatte, Venezia), vendendo prodotti di alto artigianato (“il massimo della qualità, non il massimo del profitto, per dare valore a un futuro possibile”) tramite un sito web con spedizione in tutta Italia (https://www.myfreedhome.it) e un negozio fisico a Torino - non nascosto in qualche quartiere periferico, ma in pieno centro, a due passi da piazza Castello, nel cuore della società. Proprio dove il discorso sul carcere dovrebbe sempre stare. Non imputabile per “vizio di mente”? È tempo di riforma di Pietro Pellegrini* Il Manifesto, 9 marzo 2022 Il 4 ottobre 2019 nella Questura di Trieste avviene l’omicidio di due agenti di Polizia e il tentato omicidio di altri otto. La tragedia si consuma, a quanto pare, con le armi di servizio degli stessi agenti. L’imputato, un trentenne, ristretto in carcere, è stato sottoposto a due perizie psichiatriche, risultando imputabile con la prima e non imputabile per la seconda. Una situazione che porta a riflettere sul “doppio binario” del Codice Rocco (1930): un percorso per gli imputabili e un altro per i non imputabili, cioè incapaci di intendere o volere. Spetta al giudice decidere e di norma lo fa sulla base della perizia psichiatrica. Numerosi studi evidenziano i limiti della capacità predittiva della psichiatria e la non scientificità della perizia. Questa a posteriori, di mesi e a volte di anni, deve valutare lo stato mentale al momento del fatto-reato e se questo possa essere connesso in termini causali con un disturbo mentale. Un determinismo biologico distante dall’attuale concezione del disturbo mentale fondato su un modello complesso dove fattori biologici, psicologici, sociali, culturali sono in reciproca interazione, in un rapporto dinamico tra biologia e ambiente, tra genetica ed epigenetica. I comportamenti sono multi-determinati, molteplici sono i fattori di rischio, protettivi e precipitanti. La persona con disturbo mentale non è più da considerarsi irresponsabile, pericolosa, improduttiva, inaffidabile. Pur nella sofferenza psicopatologica, responsabilità, capacità di autodeterminarsi e percorsi di recovery possono realizzarsi nella libertà attraverso il consenso, nella partecipazione attiva alle cure. La psicopatologia concettualizza in termini nuovi il suicidio, gli atti eteroaggressivi e riconosce il ruolo dei determinanti sociali della salute, ivi compreso lo stigma. È quindi matura una riforma che riconosca una piena parità di diritti e doveri, cancelli il doppio binario e affermi l’imputabilità sulla base del principio di responsabilità: che ha valore per la giustizia, così come per la terapia. Per l’atto commesso le persone devono avere il diritto al processo, a confrontarsi con la legge. L’ascolto partecipe dà valore al punto di vista della persona, riconosciuta interlocutore degno di attenzione. L’incapacità a stare in processo deve essere superata: la persona con disturbi mentali ha bisogno della parola della legge che dialoga, giudica e stabilisce la durata e le modalità di esecuzione della pena. Non giova un proscioglimento che rimane incomprensibile per un fatto che rimane molto presente nel mondo interno della persona. La cura ha bisogno di chiarezza, fiducia, speranza, possibilità di elaborazione e riparazione, fondamentali anche per le vittime e i loro familiari. Affinché i vissuti siano compresi e l’evoluzione sia possibile vi è bisogno di ancoraggi alla verità giudiziaria. Ciò rende possibile l’elaborazione psicologica e relazionale, storica ed etica (l’umana pietas) di fatti umani molto inquietanti perché connessi alla vita e alla morte. Il proscioglimento crea una nebulosa che può far sprofondare tutto nel buco nero del non senso. E poiché, a prescindere dallo stato giuridico, va assicurato il diritto alla salute della persona, l’esecuzione della pena può avvenire in contesti più appropriati alla cura, alternativi alla detenzione in carcere. Il 14 marzo la Corte d’Assise dovrà decidere per il proscioglimento e il ricovero in Rems o il processo per l’autore degli omicidi di Trieste. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 22/2022 sulle Rems, la proposta di legge n. 2939 (elaborata dalla Società della Ragione e presentata dall’on. Riccardo Magi) sul superamento della non imputabilità per vizio di mente può rifondare su basi nuove il “patto sociale” di giustizia e di cura delle persone con disturbi mentali. *Psichiatra, Direttore DSM di Parma Quei “piccoli” passi della Consulta per riequilibrare il diritto inviolabile alla difesa di Ivano Iai Il Dubbio, 9 marzo 2022 Il valore della decisione della Corte costituzionale sulla corrispondenza col difensore. A piccoli passi, ma sui chiodi ben piantati nella scalata di una roccia insidiosa, la Corte costituzionale sta riequilibrando il sistema della difesa secondo l’originario valore che ispirò i Costituenti nella carta fondamentale. E così, dopo le pronunce che hanno dissolto un rigore inumano nel contesto dei reati ostativi, ora quel diritto inviolabile che troppo spesso è stato sacrificato in nome di un’apparente tutela sociale dai rischi connessi ai benefici penitenziari, riacquista alcune delle proprie forme espressive per poter finalmente spiegare, in favore delle persone in stato di detenzione, i tanti effetti positivi a lungo compressi. Con la recentissima sentenza 24 gennaio 2022, n. 18, la Corte ha, infatti, riconosciuto, e perciò stigmatizzato, la violazione del diritto di difesa intravedendo nel visto di censura sulla corrispondenza tra il detenuto sottoposto al regime dell’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario e il proprio difensore l’illegittimità della disposizione nella parte in cui non esclude dal controllo epistolare della struttura carceraria le comunicazioni scritte di natura difensiva. Era stata la Corte di cassazione a sollevare una questione di legittimità costituzionale dell’art. 41- bis, comma 2- quater, lett. c) della legge sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, avendone prospettato un contrasto con alcune disposizioni della Costituzione (gli artt. 3, 15, 24, 111 e 117, c. 1, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti umani), nella parte in cui prevede - per i detenuti sottoposti al regime del c. d. carcere duro - il visto di censura della corrispondenza, senza tuttavia escludere dall’inspicere sui contatti con l’esterno quella intercorrente con i difensori. Sebbene la decisione della Corte costituzionale abbia generato reazioni contrapposte, talune delle quali alimentate dal timore di un possibile travaso esterno di informazioni senza controllo a vantaggio delle organizzazioni criminali che conservano - e addirittura aumentano - la propria forza in ragione del contatto con i sodali reclusi nelle strutture penitenziarie, in particolare capi e organizzatori, la lettura dei motivi che conducono al dispositivo di illegittimità costituzionale dell’art. 41- bis, comma 2- quater, lett. c) induce a più ragionate riflessioni, come peraltro ricordato dall’Unione italiana delle Camere penali. Nella parte motiva della sentenza n. 18, la Corte ha, infatti, riconosciuto che oggetto di tutela, con riferimento alla segretezza della corrispondenza tra detenuto e difensore, non è lo status giuridico di quest’ultimo come persona fisica nell’esercizio della funzione difensiva, ma il diritto inviolabile di difesa quale prerogativa dello Stato alla legalità e al rispetto delle regole, prime fra tutte quelle costituzionali che sollecitano la legge alla piena attuazione dei valori fondamentali dell’ordinamento democratico. Considerati, inoltre, i caratteristici effetti ex tunc della pronuncia che espunge ab origine dall’ordinamento la norma incostituzionale, la sentenza della Corte ha un’innegabile e più ampia portata giacché, in generale, apre alla prospettiva di illegittimità delle disposizioni che integrino una violazione del diritto di difesa ogniqualvolta la compressione del diritto inviolabile contenuto nell’art. 24 della Costituzione comporti una lesione delle prerogative dello Stato alla salvaguardia e alla protezione del principio di legalità. E la nuova apertura della Corte, che oggi frantuma le disposizioni del regime carcerario contrarie alla Costituzione, non potrà che spiegare ulteriori effetti sul fronte delle variegate modalità interlocutive tra assistito e difensore, in particolare quelle dei colloqui - de visu, telefonici, telematici - sfortunatamente ancora assoggettate a un inspiegabile controllo dell’Autorità nel caso in cui siano state disposte intercettazioni nei confronti dell’indagato. La più recente riforma in materia non ha, infatti, del tutto scongiurato l’intromissione (indebita) dell’Autorità nelle conversazioni tra avvocato e assistito, limitando il divieto alle trascrizioni (illegali) e non all’ascolto (protetto da un limbo di sospetta curiosità), così da permettere un inaccettabile residuo di conoscibilità delle comunicazioni difensive la cui violata segretezza è vulnus irrimediabile nel rapporto difensivo. La giustizia minorile ha un compito: educare e rieducare continuamente di Sara Occhipinti* altalex.com, 9 marzo 2022 All’audizione parlamentare su detenute madri e condannati minorenni Marta Cartabia, dopo una lucida analisi di numeri e contesto attuale, individua gli obiettivi. Si è svolta l’audizione parlamentare della Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, alla Commissione infanzia, All’ordine del giorno: detenute madri e condannati minorenni. La Guardasigilli, dopo una lucida analisi dei numeri e del contesto attuale, concentra l’attenzione su due obiettivi: “mai più bambini in carcere” e poi “educare e rieducare continuamente”. Detenute madri - Sebbene il fenomeno delle detenute madri sembri in netta diminuzione (15 le madri attualmente detenute contro le 44 del 2019), la Ministra della Giustizia invita a non sottovalutare la drammaticità del fatto. Dietro le madri ci sono “bambini innocenti che - loro malgrado - sono costretti a sperimentare il carcere”. La condanna di una madre pone un “dilemma drammatico”, dice Cartabia, tra la separazione dal figlio e la reclusione del figlio insieme alla madre. In entrambi i casi, o per la privazione di affetto o per l’esperienza carceraria, i bambini avranno un futuro segnato da un’esperienza terribile. Dunque, la meta ideale per la Ministra è “mai più bambini in carcere”. Al momento 9 delle 15 madri detenute si trovano nell’Icam a Lauro, in spazi che, grazie al contributo dell’Università Federico II di Napoli, sono stati ristrutturati in modo da riprodurre il più possibile un ambiente familiare. Ciò non toglie che per Marta Cartabia “anche un solo bambino costretto a vivere ristretto è troppo”; proprio per questo, la Guardasigilli si è adoperata personalmente per cercare delle sistemazioni alle madri detenute, trovando un prezioso aiuto nel terzo settore. È avvenuto ad esempio con la Comunità Giovanni XXIII, che ha accolto una madre ed il suo bambino nelle proprie strutture. Non di rado però, ci sono anche casi di donne che preferiscono restare negli istituti di pena, ricorda la Ministra; si tratta di donne che non sono nelle condizioni di uscire, per mancanza di un domicilio adeguato, per la condizione della famiglia di provenienza, oppure a causa del contestato culturale d’origine. Queste donne vedono nel carcere addirittura un rifugio. In questo scenario, la Ministra indica come priorità “la creazione delle condizioni di applicabilità per le misure alternative e la detenzione domiciliare”, e anche “la ricerca di strutture esterne idonee all’accoglienza di madri e bambini”. Ricorda, a riguardo, il principio formulato nella sentenza n. 18 del 2020 della Corte costituzionale, di cui è stata relatrice, e secondo il quale “le esigenze di un innocente in situazione di vulnerabilità devono conformare, dare una forma diversa all’esecuzione della pena”. Ma rimuovere gli ostacoli di diritto non basta, senza occuparsi anche degli ostacoli di fatto che impediscono alle madri di accedere a questi benefici. Cartabia segnala anche la proposta di legge a firma di Paolo Siani (PD) attualmente in Commissione giustizia alla Camera, che prevede la custodia cautelare per le madri di figli piccoli solo come extrema ratio. Minori detenuti - Altro punto all’ordine del giorno dell’audizione della Guardasigilli è l’esecuzione della pena nei confronti dei condannati minorenni. La Ministra coglie l’occasione per verificare l’impatto della riforma dell’ordinamento penitenziario minorile del 2018 (D.lgs. n. 121/2018). Anche per i minori, la Corte Costituzionale ha ribadito il principio secondo il quale la privazione della libertà personale deve essere l’extrema ratio, privilegiando invece un trattamento penitenziario “a misura del minore”. Tra gli strumenti della riforma ci sono “i percorsi di giustizia ripartiva, di mediazione, di istruzione, rotazione professionale, di educazione alla cittadinanza attiva e responsabile e ad attività di utilità sociale e culturale”. Le misure alternative, ridenominate “misure penali di comunità”, richiedono l’accompagnamento della comunità territoriale nel processo di rieducazione del minore. Al momento attuale, ricorda la Ministra, sono 2748 i minorenni autori di retato in carico ai Servizi sociali minorili. Nel 2021 negli istituti penali sono stati registrati 815 ingressi, un dato in aumento rispetto al 2020. Nei centri di prima accoglienza gli ingressi invece sono stati 561. I collocamenti nelle comunità (ministeriali e private), che la Ministra definisce “un’autentica ancora a cui aggrapparsi per risalire la china, per ricostruirsi una nuova rete di rapporti e progettare una nuova vita” sono state 1480. Cita a riguardo le esperienze virtuose, che ha personalmente visitato, della comunità Kairos di Milano, o della comunità “La Collina” a Serdiana in Sardegna. I reati commessi dai minori sono prevalentemente furti e rapine (1007 casi), reati in materia di stupefacenti (208) o lesioni personali volontarie (177 casi). Sono troppi ancora i casi di minori costretti ad essere “manovalanza della criminalità organizzata a cominciare dalla camorra”, preoccupante anche il fenomeno delle “baby gang”. Fenomeni tutti, ricorda Marta Cartabia parafrasando De Andrè nei quali “siamo tutti coinvolti” e “niente affatto assolti”. “Un reato in adolescenza”, afferma la Ministra “per quanto consumato il più delle volte in gruppo, è frutto di una solitudine, della solitudine esistenziale, della insostenibilità di un rapporto significativo con la comunità di appartenenza e di uno spaesamento identitario che costringe l’adolescente a ripiegarsi dentro un mondo sprovvisto di senso e prospettiva”. Il recupero dei minori è quindi un interesse dell’intera società, e della società futura che vogliamo costruire, conclude la Ministra Cartabia. La giustizia minorile è in fondo un compito di educazione, e rieducazione continua. *Avvocato L’8 marzo celebrato in carcere nel segno della solidarietà di Antonella Barone gnewsonline.it, 9 marzo 2022 Dopo le limitazioni degli anni scorsi a causa della pandemia, negli istituti penitenziari si torna a celebrare l’8 marzo e le iniziative continueranno per tutto il mese. Nella casa circondariale di Reggio Emilia saranno consegnate alle associazioni, che all’interno dell’istituto s’impegnano nelle attività coordinate dal gruppo Sinapsi, i proventi delle vendite di braccialetti e spille creati dalle detenute del laboratorio artistico. Obiettivo del progetto, la riabilitazione di persone che hanno usato violenza sulle donne, tramite un approccio basato sull’approfondimento del rapporto tra Corpo e Identità. L’iniziativa, promossa da Uisp e dalle associazioni Papa Giovanni XXIII e Centro Italiano per la Promozione alla Mediazione, e presentata in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne lo scorso 27 novembre, ha coinvolto diversi reparti dell’istituto in attività di sensibilizzazione, realizzate con il contributo di personale specializzato. Insieme al ricavato della vendita dei manufatti, avvenuta in palestre del proprio circuito, Uisp donerà alle associazioni anche un pallone con il logo “Differenze in gioco”, che vuole rappresentare l’impegno del mondo sportivo nella lotta alle discriminazioni e alla violenza sulle donne. Saranno consegnate inoltre anche confezioni di semi di “Fiori Ribelli”, contro le disparità di genere e per tutelare la biodiversità. In programma oggi nella casa circondariale di Castrovillari un incontro del vescovo della diocesi di Cassano Jonio, Monsignor Francesco Savino, con le detenute. Di segno diverso, “leggero e ottimista ma ugualmente riflessivo” come precisano gli organizzatori, l’iniziativa della sezione femminile della casa circondariale di Bergamo dove in giornata si terrà un concerto della Piccola Orchestra Karasciò. Un concerto di musica popolare si è tenuto sabato scorso anche nel carcere di Salerno Fuorni, per offrire un momento di svago promuovendo al tempo stesso il laboratorio di sartoria e le creazioni delle detenute, come le shopper d’autore di prossima realizzazione. In occasione della Festa delle Donne, la direttrice Rita Russo ha scelto, infatti, di valorizzare iniziative a sostegno del lavoro delle detenute, opportunità concreta di essere autonome una volta tornate in libertà. Le intercettazioni non possono essere il primo e unico strumento di indagine di Riccardo Polidoro Il Riformista, 9 marzo 2022 La trasparenza dovrebbe essere un elemento essenziale della pubblica amministrazione. Negli ultimi anni si sono fatti passi in avanti in tal senso, ma non basta. Ci sono ancora molti aspetti oscuri e domande a cui non viene data una risposta chiara. Sono le inchieste giornalistiche - non sempre basate su dati certi - che, a volte, strappano il velo su circostanze ignote all’opinione pubblica. Va vista, pertanto, con grande soddisfazione la meritoria pubblicazione del bilancio sociale della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, reso noto nei giorni scorsi. Non è la prima volta e non è il solo Ufficio giudiziario che provvede a tale impegno. Il bilancio sociale è l’esito di un processo con cui l’amministrazione rende conto delle scelte, delle attività, dei risultati e dell’impiego di risorse in un dato periodo, in modo da consentire ai cittadini di conoscere come l’amministrazione interpreta e realizza la sua missione istituzionale e il suo mandato. Quello della Procura di Napoli - la più grande d’Italia, con oltre 100 pubblici ministeri - consta di 368 pagine ed è stato realizzato in collaborazione con l’Università degli Studi Federico II. È una relazione completa sull’attività svolta nel territorio di competenza. Il dato che maggiormente colpisce è quello relativo alle intercettazioni telefoniche, la cui spesa, di euro 12.785.000,00, supera di circa un milione quella dell’anno precedente e rappresenta il 60% della spesa complessiva dell’Ufficio, pari a euro 21.313.000,00. Tra intercettazioni telefoniche, ambientali e telematiche sono stati fatti 8.873 ascolti nel 2021. In un solo anno, sono migliaia i cittadini che vedono controllate le loro utenze, i loro luoghi privati, le loro relazioni. L’intercettazione viene ritenuta, dunque, dagli inquirenti l’incontrastata regina delle indagini ed il più importante strumento investigativo. Il suo uso massiccio comporta, inevitabilmente, il fenomeno così detto delle intercettazioni a strascico. Da un soggetto controllato si arriva ad indagarne altri che sono, a volte, occasionalmente in contatto con l’intercettato. Basta una frase criptica, anche non in relazione all’indagine in corso e si aprono altri fascicoli, si moltiplicano gli indagati sottoposti a controlli invasivi sulla loro vita privata. È chiaro che siamo di fronte ad un meccanismo perverso nel quale l’intercettazione diventa il primo atto d’indagine - ed a volte resta l’unico - a carico dell’indagato, mentre l’uso di tale attività investigativa dovrebbe presupporre gravi indizi di colpevolezza a carico del soggetto che s’intende controllare e non viceversa. Sarebbe interessante conoscere il dato relativo all’esito processuale di tali fascicoli, per poter effettivamente valutare costi e benefici. Altro dato rilevante - ce ne sarebbero molti, ma lo spazio a disposizione non consente ulteriori approfondimenti - è quello relativo ai criteri di priorità sui reati da perseguire. In merito, il bilancio dà atto che tale scelta è stata fatta coinvolgendo l’avvocatura e che il principio invalicabile dell’obbligatorietà dell’azione penale non consente di praticare altre strade. È questa una situazione paradossale, che vivono tutte le grandi Procure del Paese. L’esercizio dell’azione penale varia a seconda del territorio. Il cittadino denuncia, ma se quel reato non è tra gli obiettivi prioritari della Procura, la sua legittima azione non troverà risposte. È evidente che tale compito dovrebbe spettare esclusivamente alla politica, le cui scelte possano valere per tutti in ugual misura, senza connotazione di luoghi. Ed è altrettanto pacifico che occorre la depenalizzazione di alcuni reati privi di concreto allarme sociale, le cui fattispecie potranno trovare una più efficace sanzione amministrativa. Resta il grande merito della Procura di Napoli di aver messo sul tavolo i dati necessari ad un vero proficuo confronto sugli importanti temi dell’attività investigativa. Dalla Ue nuove regole contro la violenza sulle donne di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 9 marzo 2022 In concomitanza con la giornata internazionale della donna, la Commissione europea lancia nuove regole per contrastare la violenza sessuale e la violenza domestica. L’Esecutivo Ue ha proposto una direttiva che mira a criminalizzare il reato di stupro, in quanto rapporto sessuale senza consenso, le mutilazioni genitali femminili e la violenza online, inclusa la condivisione non consensuale di immagini intime, il cosiddetto revenge porn, lo stalking online e le molestie informatiche. La violenza contro le donne e la violenza domestica, sottolinea Bruxelles, colpiscono una donna su tre nell’Ue: una su due ha subito molestie sessuali, mentre una su 20 riferisce di essere stata violentata. Anche la violenza online è in aumento e prende di mira in particolare le donne che lavorano nella sfera pubblica. La Commissione stima che una giovane donna su due abbia subito violenza informatica di genere. Diffusa anche la violenza sul lavoro: circa un terzo delle donne nell’Ue vittime di molestie sessuali le hanno subite al lavoro. Le nuove regole rafforzano l’accesso delle vittime alla giustizia e incoraggiano gli Stati membri ad aprire degli sportelli unici dedicati. Nei procedimenti giudiziari le prove o le domande relative alla vita privata delle vittime, in particolare alla loro storia sessuale, potranno essere utilizzate solo quando strettamente necessario. Le vittime, inoltre, avranno il diritto di chiedere il pieno risarcimento dei danni, compresi i costi dell’assistenza sanitaria, del mancato guadagno, dei danni fisici e psicologici. La proposta prevede infine un sostegno mirato a gruppi con bisogni specifici o a rischio, ad esempio le donne in fuga dai conflitti armati. “Una proposta tempestiva, specialmente in un momento in cui assistiamo nuovamente all’utilizzo dello stupro come arma di guerra in Ucraina”, - ha commentato la commissaria europea all’Uguaglianza, Helena Dalli. La libertà dalla violenza sessuale è una precondizione per le donne per raggiungere l’uguaglianza in diversi aspetti della vita”. Mafiopoli fu la gemella diversa di Tangentopoli di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 9 marzo 2022 Qualche tempo dopo Tangentopoli partiva a Palermo Mafiopoli, cioè il riscatto del nostro Paese dopo lo tsunami delle stragi di mafia del 1992. Le due vicende si prestano, per alcuni profili, a un confronto. All’inizio, Tangentopoli e Mafiopoli erano persino, come dire, gemelle. Ricordo alcuni cartelli di giovani manifestanti sui quali stava appunto scritto “Borrelli-Caselli-Gemelli”. Perché a Milano, come a Palermo, la magistratura stava dando corpo e dignità a una frase (“La legge è uguale per tutti”) da sempre roba ghiotta per comici e cabarettisti. La giustizia era considerata come un inganno o un’illusione. Il diritto e chi lo amministrava non erano amati, soprattutto da coloro su cui pesavano secoli di misfatti e sfruttamenti. Questi pensieri erano radicati nel senso comune e nella cultura popolare, tanto che il proverbio siciliano Giustizia stava scritto su ‘u portone e ci credette ‘u minchione si ritrova, con poche varianti, in molti dialetti del Paese. Un messaggio ripreso poi da Calvino coi suoi racconti e dalle canzoni di De André. Tangentopoli e Mafiopoli invece avevano in comune la novità di accendere la speranza che la giustizia riuscisse a rendersi credibile, finalmente occupandosi non più soltanto dei poveri diavoli. La sovrapponibilità fra Milano e Palermo però non dura molto. Nel senso che il consenso e gli osanna per Tangentopoli continuano per un bel po’, mentre per Mafiopoli subentrano presto indifferenza e ostilità. La svolta è rappresentata dal processo Andreotti. Un processo “che non s’ha da fare”, perché contrasta il tentativo diffuso di far passare una lettura dei rapporti mafia-politica in chiave di “riduzionismo/negazionismo”: proponendo la cronaca surreale di una modesta e arretrata realtà periferica, di una “mala-politica” locale che non avrebbe mai contaminato quella nazionale. Mentre proprio gli atti del processo Andreotti scandiscono - al contrario - i tempi della storia nazionale. Per chiunque voglia informarsi appena un po’ i fatti sono noti. Andreotti è stato dichiarato responsabile per aver commesso fino al 1980 il reato di associazione a delinquere con Cosa Nostra; reato commesso (e provato) ma prescritto. E tuttavia il macigno della parola “commesso” è stato disinvoltamente sbriciolato parlando di assoluzione, quasi potesse esistere in natura una formula illogica e assurda come “assolto per aver commesso il fatto”. Eppure proprio questo è stato fatto credere al popolo italiano, ingannandolo. Ma quel che qui mi preme maggiormente sottolineare è che per rendere digeribile lo stravolgimento, fino alla negazione della verità su Andreotti, si è reso necessario bypassare la montagna di risultati positivi che a Palermo, dopo le stragi del ‘92, si erano ottenuti sul versante dell’ala militare di Cosa Nostra: arrestando latitanti come non mai, né prima né dopo; confiscando beni mafiosi per importi ingentissimi; ottenendo condanne per 650 ergastoli oltre a decine e decine di anni di reclusione. Tutto inghiottito dalla mistificazione organizzata per il processo Andreotti. Tant’è che ancora oggi - per lo più - le cronache e le storie di Palermo saltano a piè pari i sette anni del dopo-stragi, passando direttamente dalla stagione di Giovanni Falcone alla gestione di Grasso (secondo alcuni un “normalizzatore” della Procura), facendo apparire come irrilevante, vuoto di fatti che valga la pena ricordare, il periodo dei cattivi “caselliani” (copyright Marcello Dell’Utri). Per non correre il rischio che sia indebolita la favoletta di Andreotti perseguitato da magistrati creativi in vena di rincorrere fantasiosi teoremi. C’è ancora un punto che avvicina Tangentopoli e Mafiopoli ed è il decreto “salva-ladri” voluto da Berlusconi, servitogli dal suo guardasigilli Biondi. Decreto precipitosamente ritirato dopo un pronunciamento dei magistrati del pool di Milano, che ne avevano denunziato a reti televisive unificate (minacciando di dimettersi) l’intollerabile offesa al più elementare senso di giustizia. Questo impatto mediatico è stato certamente decisivo, ma un qualche contributo al ritiro del decreto è venuto anche da Palermo. A Maroni, allora ministro degli Interni, come procuratore capo rappresentai che nel “salvaladri” c’era una norma capace di vanificare un’infinità di inchieste di mafia, consentendo agli interessati di poterne avere notizia prima ancora, in pratica, che le indagini fossero cominciate. Maroni (lo ha confermato in più occasioni, anche in pubblica udienza) lo segnalò al governo, dando l’avvio a una specie di slavina che porterà poi alla crisi dei rapporti fra Lega e Berlusconi. Collaboratori di giustizia, la denuncia della deputata Aiello: “Ne ho sentiti 60, non sono protetti” di Liana Milella La Repubblica, 9 marzo 2022 La deputata, ex M5S, con le sue rivelazioni fece condannare la mafia di Partanna. Ha chiesto di essere ascoltata dalla Commissione per la protezione. Ma le hanno dato ascolto solo dopo che è andata in tv. E ora è pronta a portare in Parlamento il dossier sui “soprusi subiti da pentiti e testimoni”. “Ho sentito finora sessanta tra collaboratori e testimoni. E non ho raccolto una sola testimonianza positiva…”. E ancora: “Tra di loro né si conoscono, né tantomeno si frequentano, quindi certamente non possono essersi messi d’accordo…”. Piera Aiello, da collaboratrice di giustizia, ha fatto condannare la mafia di Partanna. Adesso, da deputata ex M5S, e ora nel gruppo misto, lavora per rivelare che cosa non va nel sistema dei pentiti. “Io sono a conoscenza di cose pesanti contro i testimoni e contro i collaboratori, chi li protegge dovrebbe applicare la legge e invece non lo fa, hanno scritto le circolari, ma poi non le mettono in pratica… ma io non mi fermo, andrò fino in Europa”. Per ora un fatto è certo. Il 9 marzo Piera Aiello si presenterà davanti alla Commissione centrale di protezione di collaboratori e testimoni e denuncerà tutto quello che le risulta dopo le sue 60 audizioni. Ma si riserva anche di rivolgersi a una procura della Repubblica, che potrebbe essere Roma, ma non solo. Per ora non vuole aggiungere di più. Dopo aver scelto Paolo Borsellino come suo magistrato di riferimento - “zio Paolo” lo chiamavano lei e la cognata Rita Atria che si suicidò buttandosi dal sesto piano dopo l’attentato di via D’Amelio - adesso Piera ha deciso di liberarsi di un altro fardello. Da presidente del sottocomitato della commissione parlamentare Antimafia che si occupa dei collaboratori e dei testimoni di giustizia ha lavorato moltissimo. Le sessanta audizioni - tutte riservate tranne qualcuna che era possibile ascoltare in “plenaria” - rivelerebbero una lunga serie di soprusi, dalla violazione del diritto allo studio a quella della salute, dai casi di identità segrete rivelate, a genitori minacciati di essere privati della patria potestà, a 400 minori che ne subiscono le conseguenze. Tutto, ovviamente, con tanto di nomi e cognomi. Del resto la “famiglia” è molto grande, parliamo di oltre 4.600 tra collaboratori e testimoni, di cui un migliaio i pentiti e poco più di 50 i testimoni. Il resto sono familiari, oltre 3.500 per i collaboratori e gli altri legati ai testimoni. Un costo attualmente sui 50-60 milioni di euro (erano 89 nel 2018, l’ultimo anno in cui è stata presentata la relazione al Parlamento), in cui incidono molte le cosiddette “capitalizzazioni”, cioè la buonuscita data a chi decide di uscire dal Servizio di protezione. “Io la situazione la conoscevo già”, dice adesso Piera Aiello. Proprio perché la vita da collaboratrice l’ha fatta. In protezione è entrata il 30 luglio del 1991, con “zio Paolo”, ne è uscita nel 1997 “con una piccola capitalizzazione, ma libera da vincoli assurdi, succube di un programma con 4 lire, proprio come adesso c’è gente con famiglia che vive con 500 euro con i figli a carico con disabilità”. Nel 2018 ha scelto di candidarsi con M5S - “Mi aveva contattata il deputato europeo Ignazio Corrao” - e ha preso 80mila voti in un collegio uninominale nel trapanese. Ha lasciato M5S, racconta adesso, “quando Bonafede ha firmato la circolare sulla scarcerazione dei boss” (siamo nell’aprile del 2020, Alfonso Bonafede era il ministro della Giustizia, ndr). Aiello aveva chiesto di essere sentita dalla Commissione centrale di protezione a ottobre scorso. Presieduta dal sottosegretario leghista all’Interno, Nicola Molteni, ne fanno parte due magistrati della Procura nazionale antimafia, l’ex pm di Roma Diana De Martino e l’ex procuratore di Bari Antonio Laudati, nonché l’avvocato generale dello Stato, Antonio Massarelli, figura inserita nel 2018 con l’obiettivo di prevenire il possibile contenzioso; e poi cinque rappresentanti delle polizie. Ma la commissione ha deciso di rispondere e convocare solo adesso Piera Aiello, dopo che il 27 febbraio ha partecipato alla trasmissione “Mi manda Rai Tre” sulla storia del testimone di giustizia Ignazio Cutrò. Lì, Aiello ha reso pubblica la sua decisione di raccontare tutto quello che ha raccolto grazie alle sue audizioni e che tra un paio di mesi confluirà nella sua relazione destinata al Parlamento. Ovviamente quella di Aiello è una campana. Ne esiste un’altra, quella del Servizio centrale di protezione, il braccio operativo della Commissione centrale di protezione. Il direttore, Nicola Zupo, il funzionario di polizia che ha preso il posto del generale dei carabinieri Paolo Aceto, è stato sentito il 20 gennaio scorso dalla commissione Antimafia. Giusto il tempo di sentirgli dire “sono il direttore dal primo aprile 2021, ho cominciato la mia carriera a Palermo e le stragi hanno segnato la mia vita. Appena arrivato, da giovane funzionario, il giorno della strage di Capaci fui mandato nell’ospedale dove c’erano Giovanni Falcone e Francesca Morvillo e fui io a dover annunciare la loro morte…”. Ma qui ecco la richiesta di un’audizione secretata. Della quale però, per bocca dei parlamentari presenti, si può grossomodo capire il contenuto. Zupo descrive come funziona il Servizio, una sede centrale a Roma e 19 Nuclei operativi di protezione, uno in ogni regione, proprio quei Nop che sono al centro di più di una denuncia da parte dei pentiti e dei testimoni. Ha detto Zupo: “Il Servizio è la casa di tutti i collaboratori, quindi se ci sono delle lagnanze o dei problemi da risolvere siamo pronti a fare chiarezza su tutto, perché questo è il nostro interesse principale. Se ci sono state eventuali violazioni siamo pronti ad accertarle con la massima severità e trasparenza”. Zupo non nega di fronte ai commissari di “aver ricevuto spesso, anche dai collaboratori, delle segnalazioni” e spiega di “aver scritto alle procure”. Ma, aggiunge, “molte notizie non sono vere”. E qui, sulle due versioni, Aiello da una parte, Zupo dall’altra, toccherà alla Commissione centrale e alle procure fare chiarezza. “Mafia, vivo sotto protezione ma spesso rivelano la mia identità” di Federica Angeli La Repubblica, 9 marzo 2022 Un collaboratore di giustizia accusa il Servizio pentiti. Ha contribuito a far condannare i boss romani. E con la famiglia dal 2016 ha cambiato 10 città. “I Nop non ci proteggono e subiamo angherie”. “La verità è che noi collaboratori di giustizia veniamo trattati coi guanti bianchi dallo Stato fino a quando serviamo. Quando poi i processi sono terminati e le nostre parole, tanto preziose quando era ora di incastrare boss e prive di significato quando si sono raggiunte le condanne, diventiamo un peso. E allora iniziano angherie gratuite che ci mettono in pericolo”. La denuncia è di un pentito che preferisce mantenere l’anonimato e che vive sotto copertura in località protetta con tutta la sua famiglia (moglie e tre bambini). Vive da fantasma in giro per l’Italia dal 2016 da quando la sua testimonianza ha portato in carcere una cinquantina di boss della mafia romana, oggi condannati con sentenza passata in giudicato per associazione a delinquere di stampo mafioso. Di lui i magistrati nelle ordinanze di arresto dei mafiosi scrivono “testimone attendibile e affidabile in quanto a conoscenza di tutti i fatti occorsi poiché un tempo interno al clan di cui rivela fatti precisi e circostanziati”. Le sue accuse di oggi, se dovessero rivelarsi vere e attendibile come la testimonianza che ha incastrato 46 boss, metterebbero nei guai il Nop, il Nucleo operativo pentiti, ovvero il servizio che in tutta Italia si occupa della gestione dei collaboratori di giustizia. Cosa intende quando dice che lo Stato vi abbandona quando non servite più? “Che le premure che ha all’inizio il Nop, ovvero spese mediche pagate, trattamento di riguardo nelle località in cui ci portano, attenzione massima a ogni avvisaglia di pericolo che comunicavamo, dopo un anno, quando i processi ormai sono incardinati e hanno preso una piega favorevole alle procure, svaniscono. E la nostra vita diventa un incubo”. Può spiegarmi meglio? “Le faccio un esempio: noi pentiti, da quando entriamo nel programma di protezione, perdiamo la nostra identità, ci danno un nuovo nome e cognome. Nessuno deve sapere chi siamo. Invece, operatori del Nop nella località in cui attualmente ci troviamo hanno rivelato alle segretarie della scuola dove vanno i miei figli la nostra vera identità. Questo significa che non possiamo più vivere in questa città, la nona che cambiamo e le ultime due sempre per questo medesimo motivo. Ora anche i compagni di scuola dei miei bambini sanno chi siamo. E rivelano ai nostri figli che le loro mamme gli hanno detto: ‘Non giocare con quella bambina perché il papà ha il Covid e sta male’. E i nostri figli sono isolati. Le persone hanno paura di chi ha avuto a che fare con la mafia. Le sembra giusto questo?” Siete quindi in procinto di cambiare città per la decima volta in sei anni? “In teoria dovremmo, ma nessuno dalla Procura ci ascolta. Il Nop, sapendo di aver sbagliato, ha rigirato la frittata e detto che siamo stati noi a rivelare la nostra identità. Ma noi non siamo stati ammoniti per questo mentre, in genere, se una procura crede alle segnalazioni del Nop, ci ammonisce e, dopo tot ammonizioni, sei fuori dal programma. Invece qui tutto tace, non succede nulla, non ci cambiano località e non ci puniscono. E ci mancherebbe, anche visto che non abbiamo fatto nulla”. Mi accennava anche ad altri problemi, vuole dirli? “Certo. Ogni volta che cambiamo un appartamento e ci trasferiamo in un’altra città, ci vengono accollate spese per danni, veri o presunti, che avremmo fatto noi nella casa che lasciamo. Per quelli veri, ci mancherebbe, è giusto. Ma ogni volta ci imputano spese inesistenti. Come una volta che ci hanno detratto 700 euro per un conguaglio del gas che, secondo loro, non avremmo mai pagato. Abbiamo chiamato la ditta del gas e chiesto se avessimo lasciato insoluti e ci hanno risposto che era assolutamente tutto a posto e pagato: la telefonata l’abbiamo registrata, ormai ci tuteliamo così. Oppure un’altra volta ci sono stati addebitati 2.000 euro per ridipingere una parete che i miei figli avevano sporcato con dei pennarelli. A parte il fatto che la cifra richiesta mi sembra eccessiva, ho pagato perché il danno effettivamente era stato fatto. Dopo mesi un nostro parente, sempre sotto protezione, è finito in quella casa e ci ha mandato un messaggio chiedendoci se fossimo stati in quella città e in quella casa perché aveva visto dei disegni sul muro. Quindi, noi abbiamo pagato 2.000 euro per ridipingere una parete che poi non è stata imbiancata? Questo è solo uno dei tanti esempi, neanche le spese mediche ci pagano. Ha provato a denunciare tutto questo? “Ovviamente sì, ma, malgrado le prove e le registrazioni, nessuno ci prende in considerazione. La cosa assurda è che ci dicono di sporgere denuncia presso il servizio Nop che ci segue come collaboratori di giustizia” Le sue accuse sono molto forti, rifarebbe la scelta di collaborare con la giustizia? “Quando ho scelto di passare dalla parte dello Stato l’ho fatto perché credevo nella giustizia e nella legalità e pensavo fossero più forti della mafia. Ci credo ancora e spero che le mele marce di questo nucleo siano allontanate e che un qualsiasi magistrato che legge le mie parole possa scegliere di ascoltarmi e capire che, ancora una volta le mie parole sono verità. Come lo sono state contro i mafiosi oggi in carcere, lo sono oggi”. Dall’avvocato Armando Veneto una lezione per noi “giurati” del processo mediatico di Aldo Varano Il Dubbio, 9 marzo 2022 Avevamo tutti la stessa opinione. “Quello è un avvocato di ‘ndrangheta”. Giornalisti che facevano i corrispondenti dalla Calabria per qualche giornale importante di Roma o Milano. Inviati dei grandi quotidiani e settimanali che arrivavano qui per raccontare, il più delle volte per farsi raccontare dai corrispondenti locali dei loro giornali e riscrivere, le storie di ‘ndrangheta che tiravano le vendite nel centro-nord. E tra tutti noi non c’era alcuna difformità di opinione. Nessuna lettura diversa dei fatti. Lavoravamo in gruppo. E Armando Veneto era un avvocato di ‘ndrangheta, il più bravo e famoso, con studio e abitazione a Palmi, una cittadina considerata il salotto buono di un territorio ad alta densità ‘ndranghetista. L’avvocato di ‘ndrangheta, anche su questo eravamo tutti d’accordo anche se non l’avremmo scritto mai e mai l’avremmo confessato, non era un intellettuale-professionista, una componente indispensabile per garantire una giustizia corretta e giusta durante il processo in Tribunale dove veniva giudicato chi era accusato e aveva il diritto a difendersi. Certo, ci confondeva anche il fatto che Veneto finiva sui giornali solo per i processi di ‘ndrangheta, per tutte le altre cause che li soverchiavano massicciamente, infatti nessuno scriveva un rigo. L’Avvocato di ‘ndrangheta, gli avvocati di ‘ndrangheta, erano una qualità speciale. Non soltanto difendevano i mafiosi che insanguinavano un giorno sì e l’altro pure la Calabria, ma in qualche modo, questa la certezza dominante, erano intricati e partecipi, in qualche modo complici, e talvolta subalterni e al servizio di quelli che difendevano. In ogni caso, nemici e avversari della verità e di quanti - noi giornalisti, corrispondenti e inviati compresi - lottavamo contro le cosche. L’avremmo negato anche sotto tortura ma in fondo l’avvocato di ‘ndrangheta lo consideravamo un ostacolo a far giustizia e vincere sulla ‘ndrangheta. Veneto poi non ne parliamo. Aveva avuto un “incidente” (questa è la diceria: forse vera forse no) che era diventato prova assoluta e irreversibile contro di lui, l’equivalente di una vera e propria confessione. Aveva presenziato al funerale di un capo ‘ndrangheta suo cliente e aveva perfino accettato di dire all’uscita della bara alcune parole per il “licenziamento”. Qualche minuto prima aveva (avrebbe) fatto di peggio svicolando per primo verso l’uscita della chiesa dov’era ancora ferma la bara. Se uno esce per primo, di solito, ha fretta, vuole sbrigarsi e svignarsela. Ma se esci per primo dalla chiesa in cui s’è svolto il funerale di un boss della ‘ndrangheta, assicurano gli esperti del settore che hanno studiato tutti i libri su “Osso, Mastrosso e Carcagnosso”, in Calabria vuol dire che le ‘ndrine, cioè le famiglie di ‘ndrangheta, si sono riunite appena saputo del boss morto e hanno deciso chi sarà l’erede che prende il posto del caro estinto. Insomma, uno sgaiattola perché vuol filarsela un po’ prima. Ma in Calabria, se lo fai quando il morto è in odor di ‘ndrangheta, il messaggio è che sei l’erede del boss defunto e il nuovo capo delle cosche che da lui dipendevano. Perché è così? chi l’ha stabilito? Questo nessuno lo sa ma è stato scritto sui libri e sui giornali. Quindi, è vero. Armando Veneto è stato difensore di uno dei due giovani accusati dell’omicidio dei coniugi Aversa, un poliziotto antimafia e sua moglie fulminati da due killer a Lametia Terme mentre alla vigilia dell’epifania del 1992 andavano a giocattolerie per organizzare la Befana al proprio nipotino. Un omicidio efferato consumato nell’ora della passeggiata tra la folla festosa carica di bambole, trenini e orsacchiotti. Una scossa terribile e dolorosa per l’intera Italia. Il presidente Cossiga agli sgoccioli del mandato, e non indisponibile a tentare il bis, raccolse il turbamento che attraversò l’Italia e si fiondò subito in Calabria per il funerale. Il processo contro i due giovani killer accusati dell’omicidio si svolse, a Catanzaro, nel luglio dello stesso anno. A inchiodarli, pochi giorni dopo che avevano massacrato gli Aversa, era stata la testimonianza di una ragazza ventenne, Rosetta Cerminara, che aveva avuto il coraggio, sia pure attraverso un percorso un po’ contorto, di indicarli alla polizia. Rosetta per quella drammatica scelta era stata costretta a cambiar vita. Dettaglio drammatico: aveva riconosciuto i due assassini con le pistole in mano, perché uno di loro era stato il suo ragazzo che, al processo, restò muto come una pietra dopo essersi dichiarato innocente ed estraneo a qualsiasi coinvolgimento. C’ero anch’io in quel processo. Inviato a Catanzaro dal mio giornale, L’Unità, che aveva seguito con attenzione la vicenda. E c’era, a difendere l’ex fidanzatino di Rosetta, uno dei due assassini, l’avvocato Armando Veneto. Intanto Rosetta, premiata dal presidente Scalfaro con una medaglia d’oro al valor civile, era scivolata, nonostante medaglia e gran clamore provocati dal suo coraggio eroico, in un vortice di difficoltà. La sua vita, e quella della sua famiglia, come iniziò a spiegare in tribunale, era stata spezzata. Licenziata dall’Aci dove lavorava, coi negozi dei suoi familiari dove non entrava più un cane per paura della vendetta dei boss, costretta a restar lontana coi suoi cari e dalla cittadina dov’era nata e cresciuta. Veneto fu durissimo con lei. Impietoso. Quando Rosetta, alzato un po’ lo sguardo verso il grande crocifisso alle spalle del Presidente del Tribunale, con voce commossa, alla domanda se avesse visto gli imputati sparare contro i signori Aversa, aveva trovato il coraggio e l’energia per dire: “Sì, lo confermo davanti a Gesù Cristo in Croce. Perché li ho visti”, Veneto non si tenne più. Nel controinterrogatorio, così sembrò a noi giornalisti che lo ripetemmo mille e una volta nei nostri articoli del giorno dopo quasi con le stesse parole, di sicuro con lo stesso sdegno, la seviziò. Cercava di farla cadere in contraddizioni, le rifaceva in un altro modo le stesse domande sperando si confondesse. Un trabocchetto via l’altro inseguendo un appiglio che non trovò. A un certo punto Rosetta ebbe un cedimento e scoppiò a piangere: “Spero sia l’ultima volta che parlo di questa vicenda. Quella che faccio non è più vita”. Ci fece tenerezza. Faticammo a non batterle le mani. Poco prima il Presidente del Tribunale era stato costretto a intervenire severamente: “La tattica non può essere quella di distruggere psicologicamente la teste” (citazioni tratte dall’Unità del 14 luglio 1992). E tutti capirono a chi si riferiva. Quando Veneto finì il suo controinterrogatorio, che a noi sembrò una tortura, e la sua arringa, entrambi duri e cattivi, che tutti giudicammo carichi d’arroganza, la Corte si ritirò. In attesa della sentenza ci spostammo un po’ tutti. Il luglio del 1992 fu torrido e afoso. Mi ritrovai, solo, in una grande stanza in buona parte occupata da un’ampia cella. Mi voltai e di spalle c’era l’avvocato Veneto che con un fazzoletto, che ormai sembrava una pezza bagnata, si asciugava e strofinava il sudore dalla nuca. Mi sembrò piccolo, inutile, maldestro. Addosso la toga cadente e sgualcita. Niente da spartire con la solennità di chi, come Rosetta, aveva retto la drammatica prova della verità solennemente testimoniata e ripetuta in Tribunale e gettata in faccia ai colpevoli. Avvertì una presenza e si voltò. Intuì la severità dei miei pensieri e disse con voce calma: “Lo so cosa sta pensando di me in questo momento”. E di seguito: “Ma io ho ragione e lei ha torto. Non ha neanche un’idea vaga di quanto ha torto. La vostra Rosetta è una bugiarda. È cattiva. Si sta vendicando del suo ex fidanzato perché è finita una storia e si sono lasciati”. Lo guardavo in silenzio. Imbarazzato per lo spettacolo che dava. E lui: “Lei dà un giudizio costruito da fuori. Io conosco le carte, so a memoria tutti i dettagli di questa storia. Ho parlato ore col ragazzo. Ho cercato di farlo cadere in contraddizione su tutti i dettagli. Ho letto e riletto i fatti. Lei non ha idea della fatica necessaria per ricostruire la verità”. Continuava a sudare mentre il mio imbarazzo cresceva e pensavo di non aver mai visto nessuno sudare tanto durante un lavoro. Eppure era un avvocato conosciuto e famoso. Cambiò tono della voce: “Il ragazzo verrà condannato ma è innocente. Verrà condannato perché ha già perduto sui giornali e se perdi lì è difficile vincere”. Una pausa impercettibile, come rimproverandosi: “Non dormirò un pezzo per lui che finirà in carcere”. Mi guardò e concluse: “È dura fare l’avvocato. E in certi casi anche doloroso”. Successivamente gli assassini dei coniugi Aversa vennero individuati, confessarono e vennero condannati. La Cerimana nel marzo del 2007 fu condannata dalla Cassazione a 2 anni e 2 mesi di reclusione per calunnia e truffa aggravata ai danni dello Stato. In precedenza le era stata ritirata la medaglia d’oro ricevuta dal presidente della Repubblica. Il suo ex ragazzo, da lei accusato per vendetta, venne ucciso da un tumore fulminante. Ho ripensato spesso a quell’incontro nel Tribunale di Catanzaro con l’avvocato Veneto. E, fermo restando che le sentenze si rispettano sempre e comunque, non riesco ad avere un solo dubbio sul fatto che la condanna all’avvocato Veneto dei giorni scorsi per collegamenti con la ‘ndrangheta, trent’anni dopo di allora, valga quanto la testimonianza di Rosetta. Terni. Depresso e in attesa di giudizio, un altro detenuto muore suicida di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 marzo 2022 Aveva presentato istanza di scarcerazione perché soffriva di una forte depressione. Tante le cause della mattanza in carcere. L’Italia è il quinto Paese della Ue con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare: il 31%. Ennesimo suicidio consumato nelle carceri italiane. Lunedì scorso, intorno alle ore 16.30, un 54enne originario di Enna, ristretto nel carcere di Terni, si è tolto la vita impiccandosi nella propria cella. L’uomo, che recentemente si era visto respingere la richiesta di scarcerazione dal tribunale di Enna, era stato arrestato nell’aprile del 2021 nell’ambito dell’operazione antimafia “Caput silente” condotta dalla Dda di Caltanissetta. Gli avevano respinto l’istanza di scarcerazione per acquisire copia del “diario clinico” - Il 54enne lavorava come meccanico ed era stato raggiunto dalla misura cautelare insieme ad altre trenta persone. Sembra che da tempo fosse fortemente depresso, tanto che il suo difensore, l’avvocato Baldi, aveva presentato l’istanza di scarcerazione per “incompatibilità delle condizioni di salute con il regime carcerario”. Venerdì il collegio penale del tribunale di Enna, richiamando il parere contrario espresso dal Pubblico ministero, aveva respinto l’istanza, ritenendo di dovere comunque acquisire, prima di revocare o modificare la misura di custodia in carcere, la copia del “diario clinico” e la relazione aggiornata della Direzione sanitaria del carcere di Terni. Il collegio aveva disposto la trasmissione dell’istanza di scarcerazione e delle certificazioni mediche allegate dal difensore alla Direzione sanitaria del carcere di Terni per le “iniziative di sua competenza”. Era da quasi un anno in carcerazione preventiva - Come sappiamo, le istanze per chiedere i domiciliari, quando si è ancora in custodia cautelare, non vengono automaticamente accolte. Non basta nemmeno una relazione sanitaria che individui il pericolo suicidario. E se nel caso venga richiesta, le direzioni sanitarie del carcere hanno i loro tempi burocratici. Non di rado accade che un giudice è costretto a fare un sollecito. Il tempo passa e nel frattempo ci può, appunto, scappare il morto: per suicidio o per malattia a causa dell’incompatibilità. A ciò si aggiunge il problema della lentezza - riguarda una parte dei magistrati di sorveglianza - nel rispondere alle istanze dei detenuti. Nel caso del 54enne, si aggiunge l’aggravante che era da quasi un anno in carcerazione preventiva. Circa mille persone all’anno vengono incarcerate e poi risulteranno innocenti - Al di là del caso specifico, in generale l’abuso della custodia cautelare è evidente. Come rivela il Partito Radicale per spiegare l’importanza del quesito referendario proprio su questo abuso, circa mille persone all’anno vengono incarcerate e poi risulteranno innocenti. Dal 1992 al 31 dicembre 2020 si sono registrati 29.452 casi. L’Italia è il quinto Paese dell’Unione Europea con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare: il 31%, un detenuto ogni tre. La carcerazione preventiva distrugge la vita delle persone colpite: non arreca solo un grave danno di immagine, sottoponendole a un’esperienza scioccante, ma ha gravi conseguenze sulla sfera professionale. Il carcere ha un impatto drammatico sulle famiglie e rappresenta anche un onere economico per il Paese: i 750 casi di ingiusta detenzione nel 2020 sono costati quasi 37 milioni di euro di indennizzi, dal 1992 a oggi lo Stato ha speso quasi 795 milioni di euro. A ciò, ci si aggiunge che si è potenzialmente a maggiore rischio suicidario. Continua così la macabra media di un suicidio ogni tre/quattro giorni - Resta il fatto che con l’ultimo evento tragico siamo arrivati a 14 suicidi (ufficialmente, per il Dap sono 12, perché due sono ancora “in forse” visto l’utilizzo della bomboletta) in poco più di due mesi dall’inizio dell’anno. Continua così la macabra media di un suicidio ogni tre/quattro giorni. Ancora sono valide le preoccupazioni espresse dal garante nazionale in merito a questo dato che non può essere sottovalutato. “Solo un dialogo largo, unito a provvedimenti che rispondano alla difficoltà dell’affollamento particolarmente accentuata in questa situazione pandemica, può indicare la via da percorrere per ridurre le tensioni, ridefinire un modello detentivo e inviare un segnale di svolta nel nostro sistema penitenziario”, aveva osservato il Garante a fine gennaio quando i suicidi avevano coinvolto otto reclusi. Ora siamo a 14, per un totale di oltre 30 decessi dall’inizio dell’anno, tra suicidi, morte naturale e cause ancora da accertare. Sono tante le cause dietro a un suicidio - Da ribadire il concetto che ogni suicidio ha una risposta diversa. Dietro questa scelta può esservi solitudine, disagio psichico, trattamento sommario con psicofarmaci, disperazione per il processo o per la condanna, abusi. Non è possibile ricondurre tutto a una sola motivazione. Ma abbiamo delle certezze: i suicidi non si prevengono attraverso pratiche penitenziarie come il lasciare nudo in una cella una persona ritenuta a rischio di suicidio per evitare che usi lenzuola per ammazzarsi o sottoponendo il detenuto a una sorveglianza asfissiante. Altra certezza è che non bisogna prendersela con l’agente penitenziario di turno. Il rischio è di deresponsabilizzare il sistema penitenziario e le mancate scelte governative. Così come è vero che non c’è un nesso diretto con il sovraffollamento crescente, è altrettanto vero che più cresce il numero dei detenuti, più alto è il rischio che il recluso non possa essere seguito da una equipe come è previsto sulla carta. L’unica prevenzione è rendere il carcere più vicino possibile al modello costituzionale. Al costo dell’impopolarità. Cagliari. Muore in carcere, giallo su un 39enne di Quartu: “Ditemi cos’è successo a mio figlio” di Paolo Rapeanu castedduonline.it, 9 marzo 2022 Sandro Deidda, 39 anni, viene trovato senza vita nella sua cella di Uta. La Procura apre un’inchiesta. Dopo 8 mesi la madre, Elena Angioni, non sa il perchè della morte: “Autopsia fatta, risultati mai arrivati: piango ogni giorno pensando al mio Sandro, ho il diritto di sapere perchè non c’è più”. Il suo corpo riposa al cimitero di Quartu da mesi. Quasi otto, per l’esattezza: Sandro Deidda, 39 anni, è stato trovato morto nella sua cella. Era il 2 luglio 2021, l’uomo stava scontando una condanna per maltrattamenti in famiglia. Ad avvisare la madre, Elena Angioni, è stato uno dei responsabili della struttura: “Una telefonata, nulla di più. Mi è stato detto che erano molto dispiaciuti ma che Sandro era stato trovato morto”. Un dramma? Una morte naturale? O c’è altro sotto? A otto mesi di distanza è impossibile saperlo. La donna si è rivolta ad un avvocato, ancora prima la procura della Repubblica di Cagliari ha aperto un procedimento penale contro ignoti e il pm ha disposto un’autopsia sul copro di Deidda, conferendo l’incarico a un medico legale e ad un anatomopatologo. L’impegno era quello di depositare una consulenza tecnica: “Entro novanta giorni”. Quei documenti, però, non sono mai arrivati. Mai prodotti, forse. Di sicuro, non sono stati mai visti dalla madre e dall’avvocato Andrea Piredda: “Nonostante i miei solleciti, la consulenza dei due medici nominati dalla procura non è ancora stata depositata. Di conseguenza, a distanza di ben 8 mesi dal decesso, ancora non conosciamo le cause della morte di Sandro Deidda. Credo che la morte di un figlio sia il dolore più grande per un genitore e trovo profondamente ingiusto e inumano che lo Stato non sia stato ancora in grado di fornire tale risposta alla mia assistita”. E lei, Elena Angioni, si consuma sempre di più ogni giorno che passa: “Voglio che mi dicano cos’è successo a mio figlio. Aveva trascorso un periodo in carcere nel Lazio, poi era tornato a casa, vivevamo insieme, prima di essere portato a Uta. I giorni passano e nessuno mi dice la verità”. Secondo dopo secondo, la voce della donna diventa sempre più flebile: il suo Sandro non c’è più, spesso va a trovarlo al cimitero per mettere un fiore sopra la sua bara. Ma, a otto mesi di distanza, non sa perché non potrà più riabbracciarlo Modena. Rivolta al carcere Sant’Anna, dubbi e certezze a due anni dai fatti di Giulia Parmiggiani Tagliati modenatoday.it, 9 marzo 2022 L’indelebile ricordo dell’8 marzo 2020, la vicenda processuale e i più recenti sviluppi. Due anni dopo, si indaga ancora per tortura. Sono passati due anni da quel giorno. Due anni in cui la drammaticità della quotidianità ha oscurato ciò che è accaduto nel Carcere di Modena, e che oggi - più di qualsiasi altro giorno - vale la pena ricordare. Un triste anniversario - Se lo ricordano bene, quel giorno, le Forze dell’Ordine. Se lo ricordano bene, quel giorno, i medici, gli infermieri, i volontari accorsi sul posto; i giornalisti e i fotografi; i cittadini; i detenuti. Era l’8 marzo di due anni fa, alla vigilia di un lockdown che ancora non avevamo imparato a conoscere. Intorno alle due di pomeriggio, una nube di fumo nero si era levata dalla Casa Circondariale Sant’Anna: ricordo che un’amica, residente nei paraggi, pensava ad un falò di protesta per la liberazione di qualche detenuto. Ma il fumo si addensava, quasi a nascondere gli elicotteri che lo sorvolavano, gazzelle e ambulanze arrivavano a sirene spiegate, per non parlare dei mezzi dei Vigili del Fuoco. Il carcere, si sarebbe venuto a sapere poco dopo, era stato reso inagibile dalle fiamme appiccate dai detenuti. Per quale motivo? Sembra si fosse diffuso un generalizzato panico causato dal primo contagio di Coronavirus all’interno della struttura, a seguito del quale erano state sospese precauzionalmente tutte le visite. I detenuti protestavano, chiedevano l’indulto, qualcuno tentava l’evasione. Oltre alla distruzione dei locali interni, alcuni rivoltosi avevano saccheggiato la farmacia, consumando -con letali conseguenze- tutto il metadone sottratto. Con l’intervento delle forze di polizia erano iniziati anche i trasferimenti dei detenuti, molti dei quali sarebbero stati portati al Carcere di Ascoli Piceno. Alcuni sarebbero morti durante, o dopo, il tragitto. La vicenda processuale I fascicoli aperti dal Tribunale di Modena in seguito ai fatti sono stati tre. Il primo filone di indagine, com’è facile da immaginare, riguardava i danni a cose e persone causati dai detenuti all’interno del Sant’Anna, ed è ancora aperto. Il secondo (e più discusso) fascicolo, riguardava invece otto delle nove morti avvenute durante le rivolte o i conseguenti trasferimenti. La questione era relativa alla causa dei decessi: ci si chiedeva se fossero imputabili a terzi o fossero stati causati da un’overdose di metadone. Avendo individuato la causa della morte in quest’ultima il fascicolo è stato archiviato dal Tribunale di Modena nel luglio scorso, e il successivo ricorso dell’Associazione Antigone è stato rigettato. Ciò nonostante, la vicenda processuale non può ancora dirsi conclusa: la famiglia di una delle vittime, il trentaseienne tunisino Chouchane Hafedh, sostenuta dall’avvocato Luca Sebastiani prima; e la stessa Associazione Antigone poi, hanno deciso di appellarsi alla giustizia europea rivolgendosi direttamente alla CEDU, che ancora non si è pronunciata in merito. Ancora aperte poi, sono le indagini relative al decesso del “nono detenuto”, Salvatore Piscitelli, affidate però alla procura di Ascoli Piceno dove è avvenuta la morte in seguito al trasferimento. Il terzo filone processuale, infine, dapprima a carico di ignoti, ha visto di recente importanti sviluppi. Sono stati infatti iscritti nel registro degli indagati dalla Procura di Modena, per reati di lesioni aggravate e tortura, almeno quattro agenti della polizia penitenziaria. La conferma dell’iscrizione è arrivata durante la cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario, svoltasi a Bologna, e si apprende che sarebbe stata conseguente al riconoscimento fotografico di alcuni agenti da parte delle presunte vittime di violenze. Qualora le accuse fossero confermate, lo sarebbero anche le dure parole dei detenuti che svariate volte, in questo lasso di tempo, hanno riempito pagine di esposti giunti ad organi giudiziari e di stampa. Il ricordo - Le associazioni da sempre in prima linea per la difesa dei diritti dei detenuti, ed in particolare il Comitato Verità e Giustizia per la Strage del Sant’Anna formatosi più di un anno fa, organizzano vari eventi per non dimenticare quella che chiamano “strage”. L’11 e 12 marzo, partecipando alla rassegna chiamata “Noi non archiviamo”, sarà quindi possibile ricordare ed aiutare le vittime di quel terribile 8 marzo. Firenze. Violenze a Sollicciano, il pm chiede condanna a otto anni per l’ispettrice che le istigò di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 9 marzo 2022 Avrebbero pestato due detenuti e poi cercato di offuscare la verità su quanto era avvenuto nel carcere di Sollicciano. È la ricostruzione della pm Christine von Borries che ha chiesto condanne severe al processo in abbreviato per dieci agenti della polizia penitenziaria accusati, a vario titolo, di tortura e falso: 8 anni per l’ispettrice E.V., ritenuta l’istigatrice di quelle violenze, 7 anni per l’assistente capo coordinatore L.S. e 6 anni e 8 mesi per l’agente P.P. Il pm ha sollecitato pene da 1 a 4 anni e 4 mesi per gli altri sette imputati e il rinvio a giudizio per due medici della Usl Toscana Centro in servizio della casa circondariale, accusati di aver raccontato tutt’altra versione su due reclusi aggrediti. Tra le parti civili costituite, oltre ai detenuti, c’è il Ministero della Giustizia, l’Associazione Altro diritto (assistito dall’avvocato Raffaella Tucci). Ma anche il Garante Nazionale dei detenuti con l’avvocato Michele Passione che ha sottolineato la necessità di riconoscere la tortura commessa dal pubblico ufficiale come reato autonomo. L’inchiesta esplose nel gennaio 2020, quando finirono ai domiciliari l’ispettrice V., e gli agenti S. e P.. Scattarono misure interdittive per altri sei. Le indagini erano iniziate un anno prima con una denuncia firmata dalla stessa ispettrice che segnalava di aver subito un’aggressione sessuale da un detenuto marocchino. L’uomo, aveva raccontato, convocato nel suo ufficio si abbassò i pantaloni e si avventò su di lei. Per questo fu bloccato dagli agenti. Ma le indagini hanno rivelato che era tutto falso. Il detenuto, secondo l’accusa, sarebbe stato minacciato, preso a calci e infine lasciato senza abiti prima di essere rinchiuso in cella di isolamento. Un uomo “inerme e impossibilitato a difendersi” che, secondo la Procura, fu punito per aver chiesto di telefonare ai parenti in Francia e poi aver reagito con un insulto alle intimidazioni degli agenti. Finì in ospedale per la frattura di due costole e raccontò la sua verità, puntando il dito sull’”ispettrice con i capelli biondi, i quattro agenti e il capoposto”. Ma, secondo la Procura, non sarebbe stato l’unico a subire un’aggressione: nel maggio 2018 anche un detenuto italiano che si era lamentato per non aver goduto completamente dell’ora d’aria. Bastò un cenno dell’ispettrice e un agente, secondo l’accusa, “strinse il braccio attorno al collo dell’uomo, tanto da impedirgli di muoversi, respirare e parlare”. Altri trattennero il detenuto e un altro lo colpì provocandogli la rottura del timpano. Finì a terra, stordito e poi portato in cella di isolamento. Anche in questo caso l’ispettrice scrisse nel verbale che il detenuto “in stato di agitazione” aveva aggredito un agente e ne aveva colpito un altro con la tastiera di un pc. I due tentavano di bloccarlo ma “lui aveva perso l’equilibrio cadendo a terra”. Genova. Carcere di Marassi, Tullia Ardito è la nuova direttrice genovatoday.it, 9 marzo 2022 Tullia Ardito, pugliese, dirigente penitenziario di lungo corso ed esperienza (dal 1997), con direzioni di carceri come Biella, Vercelli, Ivrea solo per elencare gli ultimi, è il neo direttore del carcere di Marassi. Si è insediata nel giorno della Festa delle Donne, regolarmente vincitrice di Interpello. È quanto riferisce Fabio Pagani, segretario regionale della Uil-pa Polizia penitenziaria, che spiega: “Ardito ha partecipato e vinto interpello per Marassi dopo un anno di reggenza della dottoressa De Gennaro trasferita a Prato. Purtroppo rileva un istituto sovraffollato (presenti 675 detenuti su una capienza di 450) e in piena crisi di identità dal punto di vista organizzativo e gestionale, motivi per i quali sarà ancora più arduo e intriso di insidie il suo compito, ma confidiamo che, potendo vantare una profonda esperienza sul campo, oltre che competenza e lungimiranza, si farà apprezzare pure in una funzione che sinora è stata esclusivo appannaggio della malagestione”. “Perché - prosegue Pagani - sta in questo la svolta, l’Ardito è il direttore titolare del carcere di Marassi, occorre che tutte le sedi penitenziarie del territorio nazionale abbiano il proprio direttore e alla ministra Cartabia e al neo Capo del Dap invocheremo proprio tali certezze. Al direttore Tullia Ardito rivolgo le congratulazioni e gli auguri della Uilpa, ai quali aggiungo i miei personali”, conclude Pagani Bergamo. Teresa Mazzotta, l’empatia femminile nel carcere provato da pandemia e inchiesta di Manuela Bergamonti bergamonews.it, 9 marzo 2022 Dal 2018 dirige l’istituto penitenziario di Bergamo: “A questo ruolo era attribuita un’idea di forza, tipicamente maschile, mentre le direzioni femminili puntano più sul dialogo, sull’ascolto e i risultati si vedono”. L’empatia. Una qualità tipicamente femminile che è stata scelta come filosofia per la gestione del carcere di via Gleno, un luogo fatto di persone recluse che hanno un estremo bisogno di vedersi tendere una mano. È Teresa Mazzotta, 53 anni, sposata, una lunga carriera alle spalle e tanta preparazione, fermezza mista a dolcezza, dialogo e comprensione alla base del suo agire in un ambiente che gli stereotipi vogliono tipicamente maschile. In realtà sono tante in Italia le donne a capo delle strutture carcerarie. “Un tempo l’accesso a posizioni dirigenziali nei penitenziari era vietato alle figure femminili ma, non appena si è aperta questa possibilità, sono state in tante a partecipare ai concorsi. Nel mio, che risale al 1997, il 70 per cento dei vincitori era costituito da donne. È stata una svolta”. Perché in una prima fase “alla direzione delle carceri era attribuita un’idea di forza, tipicamente maschile, mentre le donne puntano maggiormente sul dialogo, sulla dialettica, sull’empatia, che a mio parere è il valore aggiunto. Parlare, ascoltare, mettersi a disposizione e mostrare una volontà di andare incontro alle esigenze, permette di contenere le proteste e di riabilitare anche psicologicamente i detenuti e le detenute, che si vedono tenuti in considerazione”. Un esempio recente arriva dalla gestione della pandemia: “Durante la prima ondata i dati dei decessi a Bergamo erano tragici, il Covid ha colpito anche gli affetti dei detenuti, i colloqui sono stati sospesi, c’era malumore e paura nelle varie sezioni, anche tra il personale. Abbiamo scelto la modalità dialogica, abbiamo dato informazioni, spiegavamo che fuori dal carcere si moriva e abbiamo trovato soluzioni per rasserenare quanto più possibile le persone. Il Comune ci ha fornito dei computer e l’amministrazione penitenziaria ha messo a disposizione dei cellulari: in questo modo i detenuti potevano svolgere i colloqui da remoto, potevano accertarsi circa le condizioni di salute dei propri familiari e questo li tranquillizzava. Le proteste, in una città così colpita dal virus, potevano davvero essere pesanti ed invece sono state contenute”. Il coronavirus si è portato via una figura fondamentale della struttura di via Gleno, quella di don Fausto Resmini. La sua foto è appesa nella parete dell’ufficio di Teresa Mazzotta, accanto a quella del Presidente Mattarella. “Quando l’hanno ricoverato alle cliniche Gavazzeni ci scambiavamo dei messaggi, lui mi rispondeva sempre, era un punto di riferimento per tutti. Poi si è aggravato e lo hanno portato a Como, da lì non l’ho sentito più. Quando mi hanno comunicato il suo decesso è stato un trauma, per me, per tutti. In quel momento la morte è entrata nel carcere”. Perché don Fausto era un ponte tra l’interno e il mondo esterno: “Il nostro desiderio più grande è quello di far percepire il penitenziario come parte del territorio, un quartiere nel quartiere della Celandina, le mura devono diventare osmotiche. Avevamo lavorato tanto in questo senso e ora, quando l’emergenza sarà finita, vogliamo recuperare ciò che abbiamo sospeso e attivare nuovi percorsi”. I detenuti prima andavano nelle scuole della città a raccontare e raccontarsi. Gli alunni venivano in visita nella struttura, assistevano a rappresentazioni teatrali messe in scena proprio dai reclusi. “Io accoglievo gli studenti e li preparavo. Dicevo loro di non immaginare di vedere scene da film, le persone non indossavano tute arancioni o divise a strisce. ‘Incontrerete persone normali, come se fossero le vostre mamme o i vostri papà’, dicevo loro. Una volta, al termine della visita, un ragazzino mi è venuto vicino e mi ha detto: ‘Avevi ragione. Ho parlato con un detenuto e gli ho chiesto perché era dentro. Lui mi ha detto che ha sbagliato, che è entrato in brutti giri, ha avuto problemi di droga e che ha quasi perso i suoi affetti. Mi ha detto di stare attento e di non sbagliare mai, perché rischierei di rimanere solo’. Incontri del genere sono terapeutici per chi sta in carcere e permettono a chi sta fuori di conoscere una realtà spesso considerata a sé, imperscrutabile”. Quando Mazzotta è arrivata a Bergamo il carcere di via Gleno era stato travolto da un’inchiesta giudiziaria che aveva portato all’arresto dell’allora direttore Antonino Porcino, alla guida della struttura per 33 anni, con accuse pesantissime di una mala gestione costellata di truffe, appropriazioni indebite, fino alla violenza sessuale. “Eh sì, quando sono arrivata c’era un clima di forte turbamento. A livello emotivo l’impatto della vicenda sul personale è stato molto pesante. Bisognava rimotivare, costruire una nuova immagine ed ho trovato tanta collaborazione. Fondamentale per me è il lavoro di squadra, valorizzare le competenze di ognuno, far crescere le persone, tutti devono essere in grado di dare il loro contributo. La risposta è stata subito positiva e, ancora una volta, il terreno di prova è stata la pandemia. Il carcere ha retto grazie al personale, alla sua serietà. La polizia penitenziaria ha sempre garantito la presenza, tutti si sono spesi al massimo ed hanno anche sopperito alle attività trattamentali che erano state sospese. Gli agenti si sono ingegnati per consentire di attivare la didattica a distanza per coloro che frequentano i corsi di alfabetizzazione o la scuola. Il loro impegno è stato davvero lodevole”. Per festeggiare l’8 marzo è stato organizzato un evento per le detenute, che coinvolge anche la sezione maschile. Ci sarà un concerto della Piccola orchestra Karasciò e letture di testi sul tema del femminile: “Alcuni sono stati scritti dai detenuti, da coloro che compongono la redazione della rivista del carcere e altri sono stati scelti dal personale della biblioteca Tiraboschi, che collabora con noi. Abbiamo scelto di far partecipare anche gli uomini, perché spesso le sofferenze del femminile sono proprio causate da loro e questa è un’occasione di riflessione per tutti”. Parma. Università, “Noi, tutor degli studenti detenuti” di Riccardo Zinelli Gazzetta di Parma, 9 marzo 2022 Giovani, preparati, e con tanta voglia di conoscere una realtà per loro nuova e molto particolare come il carcere. Sono coloro che hanno aderito al bando di tutoraggio per studenti detenuti dell’Università di Parma. “Ho preparato due studenti per gli esami di Antropologia culturale - spiega la tutor Valentina Civale: uno ha superato il test con 30 e lode, l’altro con 30 e i complimenti della professoressa. Complessivamente è stata un’esperienza bellissima e unica, decisamente diversa dal solito. Non capita tutti i giorni di relazionarsi con persone più grandi e scoprire che hanno tantissima voglia di imparare”. “Ho seguito il mio studente fino all’esame di laurea per la triennale in Giornalismo - dice Annalisa Margarita - e ora ha deciso di proseguire iscrivendosi alla magistrale nella stessa facoltà. Avendo studiato Progettazione e coordinamento dei Servizi educativi, questo progetto è stato importante per me per conoscere una realtà che prima non avevo mai visto da vicino. Inoltre l’ho vissuto come un’esperienza di cittadinanza attiva”. “I miei due studenti erano iscritti alla laurea triennale in Scienze dell’educazione - racconta Clelia Genovese -. È stata un’esperienza molto interessante che mi ha arricchito, dato che dopo la laurea in Progettazione e coordinamento dei Servizi educativi vorrei prendere un master in Pedagogia penitenziaria. Per le persone che ho seguito, sono stata un ponte fondamentale fra il mondo esterno e il carcere”. “Ho preparato tre studenti. Attualmente ne seguo due, iscritti alla triennale in Scienze della comunicazione - dice Sofia Panza -. Attraverso lezioni frontali e dialoghi, si sono esercitati per sostenere gli esami. È stata un’esperienza stimolante, che mi ha consentito di approfondire la conoscenza di un mondo particolare, il carcere, che in parte già conoscevo avendo svolto volontariato in una casa circondariale quando ero alle superiori a Forlì”. “Io ho aiutato due studenti detenuti per la laurea triennale in Lettere - aggiunge Francesca Palagi. Li ho aiutati nello studio e a reperire il materiale: una delle difficoltà maggiori che incontrano gli studenti detenuti infatti è preparare gli esami soltanto sui libri, senza avere nessun altro ausilio. Per me è stata un’esperienza positiva, che mi ha permesso di mettere in pratica le conoscenze acquisite con lo studio”. “Ho seguito due studenti iscritti alla triennale in Scienze dell’educazione e dei processi formativi - spiega Ludovica Corotti. Uno, in particolare, era motivatissimo: mi hanno raccontato che si alzava alle quattro del mattino per iniziare a studiare. Essendo quasi laureata in Psicologia sociale, ho scelto di partecipare al bando perché andrò a lavorare nelle carceri o nei centri di accoglienza”. “Durante il tutoraggio ho accompagnato due studenti detenuti, già in possesso di laurea triennale, al conseguimento della magistrale in Giornalismo e Culturale editoriale - dice Raffaele Buccolo. Ho iniziato questa esperienza con la curiosità di comprendere modelli e dinamiche di una realtà che nessuno ci racconta o ci insegna a guardare davvero. Questi mesi di affiancamento nello studio sono stati interessanti, ricchi di scoperte e incontri. Vorrei sottolineare l’impegno con cui gli studenti detenuti hanno affrontato il percorso universitario, al netto delle tante difficoltà”. Livorno. Unistrasi e carcere di Porto Azzurro per la Certificazione di Italiano L2 canale3.tv, 9 marzo 2022 Per la prima volta nella veste di sede di esame istituita presso un Istituto Penitenziario, il Polo Universitario Penitenziario dell’Università per Stranieri di Siena (PUP) e la CILS hanno svolto le prove d’esame per l’ottenimento della certificazione A2 Integrazione e B1 cittadinanza destinate a dieci detenuti stranieri ospiti della Casa di Reclusione “Pasquale De Santis” di Porto Azzurro. La sessione d’esami è stata possibile a seguito di un percorso intrapreso lo scorso anno con l’avvio dei corsi di lingua italiana destinati a detenuti stranieri e organizzati dal PUP. I corsi strutturati su tre livelli di competenza linguistica hanno coinvolto circa 20 studenti con incontri settimanali con i tutor dell’Università. I corsi d’italiano, la certificazione linguistica e infine la possibilità per i detenuti di iscriversi ai corsi di laurea dell’Unistrasi rappresentano ulteriori percorsi di inclusione che il Polo Penitenziario dell’Università per Stranieri di Siena ha deciso di costruire insieme alle istituzioni penitenziarie della Toscana. Come Polo Universitario Penitenziario dell’Unistrasi siamo felicissimi di questa proficua collaborazione, che prosegue con l’iscrizione al corso di laurea in Mediazione Linguistica e Culturale di un detenuto e la realizzazione di ulteriori percorsi di formazione linguistica. Un ringraziamento particolare va ai detenuti che hanno partecipato ai corsi di lingua italiana, agli studenti tutor dell’Unistrasi che in questi mesi hanno accompagnato e preparato i candidati nella formazione delle competenze richieste, al Direttore della Casa di Reclusione di Porto Azzurro Dott. Francesco D’Anselmo, alla Comandante di Reparto Dott.ssa Giulia Perrini, alle Funzionarie della Professionalità Giuridico-Pedagogica Dott.ssa Giuseppina Canu e Dott.ssa Mariasara Aiosi, al personale di Polizia Penitenziaria, e alla volontaria dell’Associazione Dialogo Maria Antonietta Brucciani, che hanno accettato questa sfida e infine alle colleghe del Centro CILS che fin dall’inizio hanno dato la loro disponibilità e messo a disposizione le loro competenze. Reggio Emilia. Le detenute della Pulce e l’Uisp al lavoro per fermare la violenza sulle donne Gazzetta di Reggio, 9 marzo 2022 I bracciali realizzati nel laboratorio artistico in carcere sono stati venduti per sostenere i percorsi degli uomini maltrattanti. Anche le azioni peggiori possono dar vita ad azioni migliori ed è bello poterne raccontare una proprio in occasione dell’8 marzo, la festa delle donne. In occasione della Giornata contro la violenza sulle donne, che ogni anno viene celebrata il 25 novembre, i detenuti e le detenute del carcere di Reggio Emilia sono stati coinvolti da Uisp in un laboratorio artistico per la produzione di braccialetti e spille che sono diventati protagonisti di una raccolta fondi destinata alla riabilitazione di persone che hanno usato violenza contro le donne. La camminata cittadina organizzata da Uisp lo scorso 27 novembre insieme a Giuliana Reggio, mamma di Jessica Filianti, la 17enne brutalmente assassinata 25 anni fa dall’ex fidanzato, è diventata l’occasione per un’attività solidale che ha coinvolto diversi reparti dell’istituto penitenziario reggiano, con l’ausilio di personale specializzato (da psicologi a formatori ed educatori, fino a tecnici di educazione motoria) al fine di sensibilizzare e responsabilizzare i detenuti e la città sul tema della violenza alle donne. Il progetto è stato realizzato in collaborazione con la cooperativa Papa Giovanni XXIII e l’associazione Cipm (Centro italiano per la promozione alla mediazione), entrambe di Reggio Emilia. Durante il laboratorio artistico sono stati realizzati dei manufatti (per lo più braccialetti e spille) creati a mano dalle detenute con materiale di riciclo. A coordinare il tutto è stato l’Uisp, che opera da anni all’interno del carcere reggiano di via Settembrini con un progetto del Comune di Reggio Emilia per l’attività motoria e la salute psico-fisica. Le creazioni dei detenuti e delle detenute sono state poi distribuite nelle palestre associate Uisp raccogliendo 300 euro, che in questi giorni sono stati devoluti alle associazioni che all’interno dell’istituto si impegnano nel progetto “Sinapsi” destinato agli uomini che hanno usato violenza sulle donne. L’obiettivo del progetto è quello di riabilitare queste persone attraverso l’approfondimento del rapporto tra corpo e identità, lavorando sulla consapevolezza corporea, il controllo e la conoscenza di sé. Insieme al ricavato della vendita dei manufatti, Uisp consegnerà alle associazioni anche un pallone con il logo “Differenze in gioco”, il progetto promosso da Uisp Emilia-Romagna con il contributo della Regione Emilia-Romagna da cui è nata la camminata dello scorso 27 novembre e che simboleggia l’impegno del mondo sportivo nella lotta alle discriminazioni e alla violenza di genere. Saranno consegnate anche confezioni di semi di “Fiori Ribelli” per contribuire a seminare contro la violenza sulle donne a favore delle api e della biodiversità. Catanzaro. A Soveria Mannelli si discute di giustizia riparativa con Paola Ziccone lametino.it, 9 marzo 2022 Sarà Paola Ziccone, già direttrice degli istituti penali di Firenze e del “Pratello” di Bologna, oggi Direttore dell’Area Esecuzione dei provvedimenti del Giudice Minorile del Centro Giustizia Minorile della Regione Emilia-Romagna e Marche, a inaugurare con una conferenza dal titolo “Punire o redimere? Giustizia e Salvezza” il ciclo di tre grandi quaresimali che l’arcipretura di Soveria Mannelli propone per la Quaresima 2022. L’incontro, che si svolgerà in presenza e che sarà aperto al pubblico, si terrà presso il santuario di Nostra Signora di Fatima della cittadina del Reventino il prossimo 12 marzo alle 18. Paola Ziccone è autrice di un libro scritto a quattro mani con il cardinale di Bologna Matteo Maria Zuppi dal titolo “Verso Ninive. Conversazioni su pensa, speranza, giustizia riparativa” edito da Rubbettino. Quello proposto dall’arcipretura di Soveria Mannelli è un incontro sull’accoglienza dell’altro che è spesso vittima del male stesso che compie, sulla comprensione di questo male, sull’incontro in una zona liminale tra vittime e carnefici, tanto prezioso quanto mai attuale in un momento come quello che stiamo vivendo in cui vediamo continuamente scene di odio, di guerra e di violenza, in cui la parola “misericordia”, nel suo pieno senso etimologico, sembra così difficile da pronunciare, in un mondo, ancora, in cui due anni di pandemia hanno acuito le differenze sociali e hanno spinto sempre di più gli individui verso logiche solipsistiche che hanno fatto del “mors tua vita mea” la regola che disciplina i rapporti umani. “È difficile creare una società accogliente - scrive il card. Zuppi nel libro - Occorre prima far nascere la consapevolezza dell’amore al “prossimo”, ossia che non è possibile l’amore senza un “prossimo” da amare. Il “prossimo” non è un di più, ma è costitutivo della relazione. Il “prossimo” è l’altro, il singolo, ma anche la città intera, tutti quelli che incontriamo e che ci vivono accanto. Il “prossimo” non è una categoria: è chiunque cammina con noi per un tratto della vita. Purtroppo facciamo fatica a riconoscere il “prossimo”. Siamo tutti molto individualisti e, nell’individualismo e nel pensare solo a se stessi, è più facile far crescere la logica della condanna: la condanna, infatti, ci toglie la fatica di ragionare e di porci delle domande”. “Talvolta bisogna ricordare - osserva Paola Ziccone - che sottovalutiamo il desiderio di cambiare che hanno le persone e spesso chi si è reso conto di aver sbagliato, sottovaluta lui stesso la forza che ha in sé di cambiare. Occorre qualcuno che creda in noi, che riesca a vedere anche quella parte nascosta o dimenticata o sognata”. Un incontro dunque che si inserisce pienamente in quel cammino verso la misericordia, il perdono e il pentimento per il male commesso cui la Chiesa ci invita ogni anno con il periodo quaresimale. Reggio Calabria. Un fiore dentro le mura, la Garante dei detenuti rinnova la tradizione reggiotoday.it, 9 marzo 2022 L’esperienza, giunta alla seconda edizione, si è impreziosita di un confronto alla presenza dell’associazione Adgi. Si è tenuto ieri mattina un incontro presso la casa circondariale di Reggio Calabria G. Panzera. Il garante, come anticipato nella relazione annuale, ha rinnovato il gesto di rendere omaggio ai diritti delle donne detenute attraverso un simbolo. Importante questa seconda edizione di “Un fiore dentro le mura” perché oltre al gesto del dono, l’esperienza si è impreziosita di un confronto alla presenza dell’associazione Adgi che già da qualche mese aveva manifestato al garante cittadino Giovanna Russo la volontà di collaborare per le iniziative a tutela della difesa dei diritti delle persone detenute. Donne per le Donne sostiene il garante. Interessante il momento di ascolto e condivisione delle istanze da parte delle detenute che hanno chiesto al garante di farsi portavoce delle loro sollecitazioni in tema di formazione e reinserimento sociale. “È un tema delicatissimo che mi sta profondamente a cuore - afferma Giovanna Russo - un problema che va inquadrato da diverse angolazioni e che merita le dovute attenzioni. Ecco perché sono in programma degli incontri istituzionali specifici al fine di dare delle risposte anche alle donne detenute”. Questo è lo spirito attento, gentile e sempre vigile con cui l’Ufficio del garante mira alla tutela e difesa dei diritti delle persone detenute. Tre ore scandite da sensibilità e tanta solidarietà. “Omaggiare una donna con un fiore - prosegue Russo - lì dove un’attenzione così per ovvie ragioni non avviene”. “Si vogliono costruire ponti di umanità, solidarietà e attenzione a livello istituzionale. Sinergie con i professionisti del territorio per operare con rettitudine e coraggio ad una gentile rivoluzione sociale che poggi le sua fondamenta sulla giustizia sociale, sostiene il Garante Russo. Le donne sono la linfa del mondo e sono certa che una possibilità di riscatto vada offerta a tutti. I diritti umani sono anche questo”. Conclude l’avvocato Russo: “Ringrazio di cuore l’associazione Donne giuriste Italia sezione di Reggio Calabria che ha impreziosito con ulteriore eleganza e professionalità l’incontro e la direzione dell’istituto, il dott. Tessitore sempre attento alla promozione dei diritti dei detenuti”. Benevento. Presentato nell’Istituto di pena minorile di Airola il progetto di musicoterapia gazzettabenevento.it, 9 marzo 2022 È stato presentato, nell’Istituto di Pena Minorile di Airola, il progetto di musicoterapia, promosso dall’Associazione culturale e musicale “Ad alta voce” del maestro Carlo Morelli del teatro San Carlo di Napoli e di cui fanno parte diverse decine di musicisti e cantanti. All’incontro è stata presente la direttrice, Marianna Adanti, il garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, lo stesso maestro Carlo Morelli, il musicista Alessandro Carpentieri e la criminologa Erica Gigante, dello staff del garante. Il progetto, voluto da Ciambriello, si concluderà con uno spettacolo canoro. “La giornata - ha commentato Ciambriello - stata organizzata per incontrare i ragazzi dell’Istituto di Airola e spiegare loro il senso del progetto di musicoterapia, che può essere concepito solo all’interno di un contesto relazionale che abbia come fine ultimo l’uomo, le sue sensazioni, il suo disagio. L’arte crea e rigenera emozioni. La musica, in particolare, è un importante veicolo di socializzazione, fondamentale per ricucire lo strappo tra sé e sé, ma anche tra sé e il mondo. Questo progetto rappresenterà un momento di esplorazione delle proprie emozioni, di progettualità del futuro. È importante che la musica entri in carcere, perché aiuta a risvegliare la sensibilità emotiva di questi giovani”. Nell’Istituto penale minorile sono presenti 25 giovani ristretti, di cui 7 immigrati. La leggenda del santo ergastolano recensione di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 9 marzo 2022 “La leggenda del santo ergastolano” è un libro di Giuseppe Bommarito, edito da Affinità Elettive Edizioni a febbraio 2022. Un titolo beffardo, quasi irriverente, proprio come vogliono essere le parole del figlio del protagonista, Ninì, il quale durante l’adolescenza scopre con estremo dolore l’appartenenza del padre a Cosa Nostra e si impegna con tutte le energie nei comitati antimafia che sorgevano a Palermo negli anni 90. Eppure la beffa dura l’attimo in cui viene pronunciata, svelando, appena scompaiono le parole, una narrazione sul dovere, anzi sui doveri umani. Le 254 pagine dell’ultimo parto di Giuseppe Bommarito, edite dalle Affinità Elettive di Valentina Conti, casa editrice anconetana, si compongono di una prima storia sotto forma di romanzo di Rocco Russo e famiglia, e della seconda storia, narrata dal carcere in forma epistolare. Il dovere, per l’autore, è in primis quello del rispetto per se stessi, tradotto invece dal protagonista nell’inganno della rispettabilità, concessa agli “uomini d’onore” in Sicilia. Rocco, cavallo di razza, non esita ad unirsi ai mafiosi coi quali il padre era colluso, appena dopo l’uccisione dello stesso da parte di una cosca rivale. Inizia così una saga dei dannati, dei predestinati ad un futuro senza scelta, che tanto li identifica con i parigini descritti ne “L’ammazzatoio” da Emile Zolà. Gli “ultimi”, che si erano inurbati e vivevano alle periferie della, forse, più prestigiosa città europea del tempo, partivano alla mattina verso il centro città alla ricerca di un impiego spesso giornaliero; solo alcuni arrivavano alla loro meta. Zolà li descrive perdersi in osterie, in liti fra di loro, in diversivi perdenti. Il loro destino è segnato e la fine di molti protagonisti, miserrima, sarò lenta e inesorabile come quella di Rocco Russo. Nel romanzo di G.B., Rocco Russo si illude che il suo dovere sia di arricchirsi e, innamoratosi di Sara, giovane donna la quale si ostinerà per quieto vivere a non vedere le vere occupazioni del marito, farà di tutto per non farle mancare nulla, con un sincero affetto che metterà su un gradino ben più alto degli agi ottenuti col suo tremendo lavoro di killer. Tanto sarà l’impegno del protagonista nell’assolvere tale lavoro, che inizierà a disegnare la sua fine quando denuncerà al Capo Cosca il comportamento “poco professionale” e disumano di due suoi scagnozzi, uno dei quali si accanirà verso lui come collaboratore di giustizia. Si apre ora una delle pagine più profonde e sofferte del romanzo, la denuncia degli effetti terribili delle droghe e dell’alcool su chi le assume. La trasformazione di menti, spesso già predisposte, in un misto di superomismo e di risentimento verso l’umanità, che si illudono allo stesso tempo di potersi fermare e di poter punire chiunque, azzerando qualsiasi briciola di umiltà e di relazione col mondo esterno. Pagine queste che ritorneranno in maniera diametralmente opposta nella seconda parte del romanzo: a fronte delle figure della moglie Sara che, proprio in nome dell’amore, analizza la sua precedente connivenza, e della figlia Consuelo che si addentra nella mostruosità della istituzione dell’ergastolo ostativo, dall’altra parte Rocco si ergerà a uomo che non ha voluto tradire altri colleghi, dannati consapevoli come lui, appuntandosi una immaginaria medaglia sul petto di uomo d’onore. Molti i doveri a cui richiama Giuseppe Bommarito: leggere il libro fin in fondo, per comprendere quanto ingiusta sia l’istituzione della morte a lento rilascio, essere umili e non giustificare mai le proprie scelte con le circostanze, accettare di essere composti di tante spinte contrastanti e non considerarle una debolezza. Un romanzo di formazione degli anni 2000, nel quale lo stile non si piega alle circostanze, ma descrive facendo partecipe il lettore ai momenti di crudeltà come a quelli dell’amore più profondo. Istat: il 7,5% delle famiglie italiane in povertà assoluta, l’inflazione annulla la ripresa La Stampa, 9 marzo 2022 I dati: nel Mezzogiorno il fenomeno riguarda il 12,1% per gli individui, al Nord si registra invece un miglioramento a livello sia familiare (da 7,6% del 2020 a 6,7% del 2021) sia individuale (da 9,3% a 8,2%). Nel 2021 le famiglie in povertà assoluta in Italia, secondo le stime preliminari, sono il 7,5% (7,7% nel 2020) per un numero di individui pari a circa 5,6 milioni (9,4%, come lo scorso anno), confermando sostanzialmente i dati del 2020. L’Istat diffonde le stime preliminari della povertà assoluta per l’anno 2021 insieme alle stime preliminari delle spese per consumi delle famiglie che, costituiscono la base informativa per gli indicatori di povertà assoluta e sottolinea come l’inflazione annulla la lieve ripresa delle condizioni economiche delle famiglie. Senza la crescita dei prezzi al consumo registrata nel 2021 (+1,9%) l’incidenza di povertà assoluta sarebbe stata al 7% a livello familiare e all’8,8% a livello individuale, in lieve calo, quindi, rispetto al 2020. Pandemia e ripresa - Più nel dettaglio, illustra l’Istat, il 2021 è stato ancora caratterizzato dalla pandemia ma con una forte ripresa economica (+6,6% il Pil). Le spese per consumi, misurate dall’indagine presso le famiglie, sono tornate a crescere (+4,7% in termini correnti rispetto all’anno precedente) ma non hanno compensato la caduta del 2020, risultando ancora in calo del 4,7% nel confronto con il 2019. Per meglio comprendere il contesto, ricorda ancora l’Istat, è utile ricordare anche gli effetti differenziati della crescita dei prezzi al consumo: nel 2021 l’indice armonizzato Ipca è stato infatti pari +2,4% per le famiglie con minore capacità di spesa e a +1,6% per quelle più abbienti. L’intensità della povertà assoluta, cioè la distanza media della spesa per consumi delle famiglie povere dalla soglia di povertà, rimane anch’essa sostanzialmente stabile rispetto allo scorso anno (18,7%), con l’unica eccezione del Centro dove raggiunge il 17,3% dal 16,1% del 2020. Povertà peggiora al Sud e migliora al Nord - Nel 2021 si contano oltre 108mila famiglie in meno in condizioni di povertà assoluta al Nord (da 7,6% del 2020 a 6,7%), dinamica confermata anche a livello individuale (-301mila persone, da 9,3% a 8,2%). Andamento opposto si registra nel Mezzogiorno dove la povertà assoluta cresce e riguarda il 10,0% delle famiglie (da 9,4%) e il 12,1% degli individui (da 11,1%, +196mila). Nel Centro, infine, l’incidenza di povertà rimane stabile tra le famiglie (da 5,4% a 5,6%), ma aumenta tra gli individui (da 6,6% a 7,3%, +75 mila rispetto al 2020) Migranti. Rimpatrio forzato, patto Italia-Georgia: monitorato il rispetto dei diritti umani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 marzo 2022 siglato l’accordo tra il Garante nazionale Mauro Palma e il suo omologo georgiano. Primo accordo bilaterale tra due organismi indipendenti di garanzia. Il Garante nazionale delle persone private della libertà e il suo omologo della Georgia hanno siglato un patto che, grazie a una sorta di staffetta, monitoreranno il rispetto dei diritti umani nel corso di tutte le fasi di un rimpatrio forzato: dal Paese di espulsione fino al Paese di rimpatrio. L’accordo c’è stato lunedì scorso, tra il Garante nazionale Mauro Palma e il suo omologo georgiano rappresentato dalla capo delegazione Tamar Gvaramadze, alla presenza della Console di Georgia, Natalia Kordzaia. Fino a oggi, il Garante nazionale - che dal gennaio del 2021 al febbraio del 2022 ha monitorato 31 voli charter con destinazione Tunisia, Egitto, Georgia, Gambia e Albania - ha seguito le operazioni di rimpatrio forzato sin dalla fase iniziale (per esempio da un Centro per il rimpatrio), per proseguire all’imbarco in aeroporto e fino al volo, fermandosi però necessariamente all’aeroporto di arrivo. D’ora in poi, invece, il Garante nazionale e il Difensore pubblico potranno monitorare congiuntamente tutte le fasi del rimpatrio, inclusa quella della presa in carico dei rimpatriandi da parte delle autorità georgiane e quella, successiva, del ritorno a casa. Inoltre, i due organismi si scambieranno informazioni in relazione a imminenti operazioni di rimpatrio forzato dall’Italia alla Georgia nonché alla fase di post- ritorno in Georgia. Il Garante nazionale, Mauro Palma, ha dichiarato al margine della cerimonia di sottoscrizione: “Sono molto contento di questo accordo con il quale ci poniamo come apripista nel mondo su un tema importante come quello del monitoraggio della fase di ritorno nel Paese di rimpatrio. Molti cittadini non sanno che il Garante nazionale sale materialmente sui voli di rimpatrio forzato - scelti a campione - per vigilare il rispetto dei diritti umani. Finora assisteva fino alla presa in consegna da parte delle Autorità straniere, che avviene a bordo dell’aereo. Grazie alla cooperazione con i colleghi georgiani, lo sguardo del Garante si potrà estendere al Paese di arrivo per capire cosa avviene subito dopo il rimpatrio delle persone”. Come spiega il comunicato del Garante nazionale, la realizzazione dei sistemi di monitoraggio post- ritorno risponde alle sollecitazioni del Parlamento europeo, che nella Risoluzione del 17 dicembre 2020 esorta la Commissione a “garantire l’istituzione di un meccanismo di monitoraggio successivo al rimpatrio per conoscere la sorte delle persone rimpatriate, ove possibile sul piano giuridico e pratico, prestando particolare attenzione ai gruppi vulnerabili, tra cui i minori non accompagnati e le famiglie”. L’accordo rientra negli obiettivi del Progetto “Implementazione di un sistema di monitoraggio dei rimpatri forzati”, finanziato dal Fondo Asilo Migrazione e Integrazione in favore del Garante nazionale. Profughi, se la solidarietà resta sulla carta di Karima Moual La Stampa, 9 marzo 2022 Se c’è una cosa che in questi giorni stiamo imparando dalla guerra in Ucraina è che nel futuro ci attendono scelte difficili e di rottura su molte questioni, perché ancora una volta ci toccherà misurarci e ripensarci. Non avevamo fatto in tempo a farlo ingabbiati in una pandemia che dura da due anni e che ancora è in piedi anche se la guerra sembra essersela divorata. Quanto sta accadendo può essere certamente raccontato e interpretato nelle innumerevoli drammatiche istantanee che un teatro di guerra ci consegna, ma non c’è storia più struggente di quella marea umana di persone che si muovono lasciando non solo le loro case alle spalle ma la loro stessa esistenza e vita alla ricerca di una via di fuga altrove, lontani dalla morte, anche se di quell’altrove non si hanno dettagli ed è comunque da ricostruire da zero. Secondo l’Unhcr dal 24 febbraio al 6 marzo sono stati 1.735.068 i rifugiati ucraini che hanno attraversato i confini. La maggior parte sono andati in Polonia, Ungheria, Moldavia, Romania, Slovachia. Per quanto riguarda l’Italia, secondo il Viminale sono 17.286 i cittadini ucraini entrati nel nostro Paese dall’inizio del conflitto fino a oggi: 8.608 donne, 1.682 uomini e 6.996 minori. Le principali destinazioni sono Roma, Milano, Napoli e Bologna. La marea umana che le immagini ci stanno trasferendo un giorno dopo l’altro è la crisi di rifugiati che cresce più velocemente in Europa dalla seconda guerra mondiale. I rifugiati che siamo abituati a vedere in altre aree geografiche più lontane, peccando di poca empatia e cinismo, questa volta ce li troviamo nel cuore dell’Europa. Come si risponderà? Accogliere chi scappa da guerre o catastrofi, è inciso nelle radici dell’Europa, e la prima risposta è stata importante anche se stiamo registrando come questo sentimento di grande umanità non trovi sempre una politica pronta a metterlo in atto. Prima lo scandalo degli africani, o comunque delle persone di origine straniera non bianchi, che in Ucraina avevano una vita anche loro, come studenti lavoratori o professionisti devastata dalla guerra, ma che nel momento in cui si sono trovati alla frontiera per richiedere asilo, hanno scoperto di essere neri e basta, con quello che può significare in termini di discriminazione e limitazione dei diritti. Poi la prova di forza a Bruxelles al Consiglio affari europei, con il gruppo Visegrad e l’Austria che hanno espresso riserve sulle concessioni della protezione temporanea a profughi che non siano cittadini ucraini. Hanno perso, ma tocca segnarlo comunque nel taccuino questo macabro setaccio sui più deboli che si è trasferito anche da noi, con l’ultima memorabile dichiarazione dell’esponente della lega Susanna Ceccardi, intenta a disegnare fantomatiche tratte di africani che approfittando della guerra in Ucraina si farebbero il giro dell’Europa, passando sotto i carri armati di Putin in Ucraina al fine di arrivare alla frontiera della Polonia per la richiesta di asilo. Insomma, farebbe ridere se non fosse drammatico e raccapricciante che una testa pensante potesse produrre una tale narrativa e crederci anche. Infine abbiamo il Regno Unito, duro su sanzioni e sull’invio di armi in Ucraina, ma poi sui profughi se ne guarda bene dall’accoglierli. Finora la generosità degli inglesi si è tradotta nella concessione di 50 visti ai profughi dell’Ucraina mentre si esamina la possibilità di corridoi umanitari che comunque avranno dei limiti. Quali? Verranno accolti soltanto coloro che hanno connessioni familiari con un inglese oppure uno sponsor. Come al solito, chi è l’ultimo può solo aspettare. Buonanotte solidarietà. La risposta italiana ai profughi ucraini tra famiglie, centri e criticità di Marika Ikonomu e Sonia Ricci Il Domani, 9 marzo 2022 L’Italia ha una delle più grandi comunità ucraine d’Europa, 248mila persone che vivono e lavorano qui da decenni. Sono loro la prima stazione di accoglienza per le persone che stanno scappando dall’invasione russa e che cercano rifugio nel nostro paese. Il governo tiene conto di questo dato per strutturare il sistema di accoglienza che da qui alle prossime settimane dovrà dare ospitalità a migliaia di cittadini ucraini che in maniera massiccia arrivano dalle regioni colpite dall’esercito di Vladimir Putin. Ieri erano due milioni gli ucraini scappati dal paese. Il 28 febbraio è entrato in vigore il secondo decreto legge Ucraina. È stato deciso di semplificare le norme di permanenza nei Cas, i centri di accoglienza straordinari, in cui i rifugiati potranno accedervi indipendentemente dal fatto che abbiano presentato domanda di protezione internazionale. Al termine del Consiglio dei ministri che ha esaminato e approvato il decreto legge, la comunicazione di palazzo Chigi aveva fatto sapere alla stampa che il provvedimento prevedeva la creazione di 16mila nuovi posti tra Cas (13mila) e Sai (3mila), il sistema di accoglienza e integrazione. In realtà non è così, la legge ne prevede solo 8mila, la metà di quelli dichiarati. Lo stesso ministero dell’Interno, che ha competenza in materia, conferma che i posti aggiuntivi al momento sono 8mila, di cui 5mila posti nei Cas e 3mila nel Sai. Dato il numero esiguo di posti a disposizione, la strategia del governo conta di mettere insieme due direttrici: ospitalità da parte degli ucraini che vivono in Italia e centri di accoglienza straordinari e di integrazione. I dati di martedì 8 marzo parlano di 21mila rifugiati che hanno superato i nostri confini, solo mille sono stati indirizzati verso i centri di accoglienza, gli altri hanno trovato posto nelle famiglie. Le principali destinazioni sono Roma, Milano, Bologna e Napoli. Il loro numero è destinato a crescere a ritmo di 3-4mila al giorno, a fine mese potrebbero essere più di centomila. Arrivano qui soprattutto donne e bambini. L’Italia è un importante polo di arrivo, e se nelle prime settimane il sistema messo in piedi garantirà un’adeguata accoglienza, nel prossimo futuro le cose saranno più complicate. Il rapporto di ActionAid, Centri d’Italia. L’emergenza che non c’è, al 31 novembre 2021 si certificava la presenza di “79.666 persone complessivamente accolte nel sistema”, di cui “53.664 nei Cas, 25.221 nel Sai e 781 nella prima accoglienza”. A questi posti vanno aggiunti gli 8mila previsti dall’ultimo decreto. Il ministero dell’Interno non fornisce previsioni su quanti arrivi il nostro sistema è in grado di reggere ma fa sapere che a livello locale è in grado di aprire velocemente nuovi Cas, di cui si occupano principalmente i prefetti. La ministra Luciana Lamorgese ha detto che l’Agenzia nazionale che si occupa dei beni sequestrati alla criminalità organizzata ha avviato il censimento dei beni confiscati che possono essere destinati per accogliere i profughi. Se in un primo momento possiamo fare affidamento sulla solidarietà delle famiglie ucraine, a breve dovremmo fare i conti con alcune necessità. Il concetto di accoglienza non si limita ai bisogni primari della persona ma coinvolge un sistema di diritti sociali che porti a sviluppare dei percorsi di autonomia e indipendenza. Chi ora si reca nelle abitazioni di amici e parenti avrà bisogno di un sostegno economico, un futuro alloggio per non sovraccaricare chi li ospita, un aiuto nella ricerca di lavoro, l’assistenza sanitaria. I minorenni, ieri oltre 8.500, dovranno essere inseriti nelle scuole e serviranno i mediatori linguistici. Insomma, un sistema di welfare non può dunque basarsi su un sistema di accoglienza informale, perché rischia di aumentare la povertà. Problematiche che riguardano anche coloro che verranno inseriti nei Cas: in queste strutture si fornisce solo vitto e alloggio, mentre nei Sai si ha un sostegno più ampio. Palazzo Chigi lavora a un decreto sui permessi di soggiorno. Gli ucraini possono entrare in Italia con un documento valido e non sono obbligati a fare richiesta di protezione internazionale. Una direttiva europea ha disposto il riconoscimento del permesso di soggiorno immediato di un anno (prorogabile probabilmente fino a tre) in modo tale che i rifugiati possano lavorare e risiedere regolarmente nei paesi europei. Rimane sempre garantito il diritto di chiedere protezione internazionale. L’Italia si adeguerà e dovrebbe riconoscere il permesso anche alle persone di altre nazionalità che vivevano in Ucraina. Il Tavolo asilo e immigrazione nazionale, composto da 32 organizzazioni della società civile, con una nota alla presidenza del Consiglio e ai ministeri dell’Interno e del Lavoro e delle Politiche sociali, ha chiesto che la direttiva europea non venga interpretata restrittivamente. Le associazioni chiedono che venga riconosciuta la protezione temporanea anche ai cittadini di paesi terzi che soggiornavano in Ucraina titolari di “un permesso di soggiorno anche non permanente e che non possono ritornare in condizioni sicure e stabili nel proprio paese o regione di origine”. Si chiede dunque al governo di non creare una disparità tra le persone che fuggono, perché non si tratta solo di cittadini ucraini. Il sistema di accoglienza italiano - In Italia il Sai dovrebbe giocare un ruolo principale, un sistema di accoglienza diffuso e capillare, gestito dagli enti locali, che garantisce oltre all’accoglienza materiale, anche l’assistenza sanitaria, sociale, psicologica, la mediazione linguistico-culturale, l’insegnamento della lingua italiana, i servizi di orientamento legale e al territorio, l’orientamento al lavoro e la formazione professionale. I Cas dovrebbero quindi essere una misura straordinaria, da attivare solo in caso di emergenza. Ma il sistema italiano è tarato sull’emergenza, anche se, come ripetono spesso le associazioni attive nel settore, i numeri dimostrano la non eccezionalità della situazione: al 30 novembre 2021 il 68,34 per cento delle persone presenti nel sistema era accolto dai Cas e dai centri di prima accoglienza. La “logica dell’emergenza permette sempre di derogare alle regole stabilite”, si legge nel rapporto di ActionAid, e “garantisce maggiore flessibilità rispetto alle esigenze politiche” che possono emergere. I Cas hanno una modalità di attivazione rapida e un costo inferiore. Vengono aperti dai prefetti e possono essere dati in gestione anche con affidamento diretto. Per questo motivo, nella nota consegnata al governo, le ong chiedono che “i posti Cas attivati per l’accoglienza degli sfollati dall’Ucraina siano effettivamente considerati provvisori e siano progressivamente chiusi laddove, sul territorio considerato, si verifichi la successiva attivazione di posti Sai”. ActionAid, che lavora a un’importante strumento di monitoraggio del sistema, denuncia la mancanza di trasparenza del ministero che non mette a disposizione alcun dato, impedendo così di avere una panoramica aggiornata dei posti disponibili nei singoli centri. In questa prima fase quindi l’attivazione di Cas è necessaria ma occorrerebbe una riforma del sistema, lungimirante, che ponga fine all’impostazione emergenziale dell’accoglienza, prevedendo dunque che anche chi fugge dall’Ucraina presto possa accedere alle misure garantite dal Sai. L’uranio e la pace di Gregorio Piccin Il Manifesto, 9 marzo 2022 Gli ex militari italiani vittime dell’Uranio impoverito (Dpu) contro l’invasione russa dell’Ucraina e in piazza a Ghedi contro la guerra, ricevuti in udienza da papa Francesco. “Per la pace, per il rispetto dei principi costituzionali, a garanzia della salute del personale militare italiano e in nome di tutte le vittime dell’uranio impoverito. Che nessun soldato italiano venga utilizzato per questa guerra a rischio della propria vita”. Così si conclude il comunicato stampa diramato dagli ex militari vittime dell’uranio impoverito all’indomani dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin. Un comunicato in cui i veterani italiani delle guerre Nato e delle varie “coalizioni di volenterosi” hanno fatto preciso riferimento anche alle vittime civili. Non solo, Emanuele Lepore, in rappresentanza dell’Associazione vittime dell’uranio impoverito (Anvui), è intervenuto al presidio “No alla Guerra” a Ghedi la scorsa domenica con parole inequivocabili: “Come Associazione sosteniamo tutte le iniziative che intendono fare pressioni sul governo italiano e le altre istituzioni affinché l’Italia non si impegni in una ulteriore guerra, non impieghi i nostri militari, non impieghi armi e soldi che invece possono essere destinati a ben altri e più utili usi”. Una voce importante in questo clima da “armiamoci e partite” e che ha visto governo e parlamento “sparare” un Decreto legge Ucraina, accompagnato da uno “stato d’emergenza”, destinato a gettare benzina sul fuoco. Se n’è accorto anche papa Francesco di questa voce non conforme e, come già fatto in precedenza con i portuali di Genova in prima fila nella lotta alla belligeranza del nostro Paese, ha deciso di ricevere gli ex militari in audizione privata. Lo scorso 28 febbraio una delegazione dell’Anvui ha rappresentato al papa, a nome delle oltre 400 vittime e delle migliaia di ammalati militari e civili a causa dell’esposizione all’uranio impoverito, tutta la sofferenza e il dolore per i lutti e lo sconcerto per l’atteggiamento da parte dello Stato che continua a negare suquesto verità e giustizia. La delegazione é stata accompagnata in udienza dal consulente legale dell’Associazione, l’avvocato Angelo Tartaglia, che ha riassunto al pontefice i lunghi anni di battaglie per avere giustizia insieme alla volontà di perseguirla anche per le migliaia di vittime civili nei territori colpiti dai bombardamenti con munizioni contenenti uranio impoverito durante i conflitti che hanno insanguinato il mondo negli ultimi anni - e probabilmente presente anche nella guerra ucraina. Nella delegazione anche Jacopo Fo, socio onorario dell’associazione, che ha ricordato al pontefice di come il governo italiano fosse al corrente dell’uso di tali letali armamenti già durante la Prima guerra del Golfo e l’impegno profuso da Franca Rame nel denunciare il criminale impiego di queste armi. “Il Papa ha ben compreso il livello della nostra battaglia” ha dichiarato l’avvocato Tartaglia, che ha vinto oltre 270 cause contro il Ministero della difesa sulla questione uranio impoverito e che sta mettendo a disposizione questa giurisprudenza per l’avvio di procedimenti legali anche in Serbia. “Quando gli ho fatto presente che è mia intenzione andare anche in Kosovo per avviare un percorso di verità e giustizia - continua l’avvocato - si è complimentato per il coraggio di mettere a rischio la vita per i più deboli. Ha detto che ci sosterrà in questa battaglia”. Secondo Vincenzo Riccio, presidente dell’Associazione delle vittime dell’uranio impoverito “non era scontato in un momento come questo che il pontefice potesse accoglierci in udienza mentre lo Stato italiano continua ad ignorarci a prescindere. Gli siamo estremamente grati per questo. Di lui ci ha colpiti la volontà di saperne di più sulla vicenda e l’aver definito la nostra testimonianza come l’ennesima dimostrazione che la follia della guerra semina solo il male”. L’impegno che papa Francesco si è preso di fronte a questa delegazione ed ai racconti diretti delle vittime è una buona notizia in questo frangente storico di isteria belligerante. La “pandemia da uranio impoverito” sta unendo in un’unica battaglia per la pace le vittime militari e civili, mettendo il nostro Ministero della difesa alle strette rispetto ad una delle più colossali contraddizioni della narrazione ufficiale: ossia pretendere di difendere diritti umani e pace con invii di armi, bombardamenti indiscriminati ed interventi unilaterali. Se in tutta Europa si affermasse un movimento di reduci contro la guerra come quello che prende forma in Italia sarebbe un vero contributo alle istanze di distensione e disarmo che tentano di farsi strada nel bel mezzo della guerra mondiale, finora “a pezzi” secondo la denuncia di Francesco, che stiamo vivendo. La nostra assurda campagna di Russia di Donatella Di Cesare La Stampa, 9 marzo 2022 Dobbiamo aiutare il popolo ucraino aggredito oppure dobbiamo fare guerra a Putin? Questa grande ambiguità si è insinuata sin dall’inizio in molti discorsi, tacitamente avallata o più apertamente sbandierata. E ormai è un’ambiguità tale, da non permettere quasi più di distinguere i due obiettivi che, a ben guardare, son ben diversi. Perché un conto è salvare le vite degli ucraini, il che è possibile solo fermando immediatamente il conflitto con intermediari, trattative, soluzioni concordate, altro conto è adottare misure belliche contro la Russia di Putin, cioè rischiare una catastrofe senza precedenti. Chi mira al primo obiettivo, oltre che salvare le vite degli ucraini, ha a cuore il bene dei popoli europei. Chi invece sottintende, in modo più o meno subdolo, il secondo obiettivo vuole aprire gli scenari di una nuova, devastante e sconosciuta catastrofe. Siamo davvero arrivati al punto di considerare seriamente chi dice che “meglio di un mondo con Putin ai confini della Ue è una guerra nucleare”? Quelli che oggi parlano a favore di quest’ultima ipotesi dovrebbero assumersi le proprie responsabilità anche per il futuro. D’un tratto lo spazio pubblico italiano si è popolato di falchi. Mentre il coronavirus è ancora qui, siamo stati proiettati in un conflitto di cui pochi conoscono effettivamente le cause e di cui non si indicano le vie d’uscita. Dopo aver sopportato a lungo la propaganda sovranista contro i “clandestini”, gli stranieri, gli immigrati, e dopo le vicissitudini della pandemia, tra l’iniziale “virus cinese” e le sbandate no vax, adesso veniamo trascinati in una grottesca e velenosa campagna di Russia imbastita con slogan militaristici, parole d’ordine che infondono paura e fomentano l’odio. Resta più che mai il “nemico” - solo che questa volta è il “russo”, a cominciare da quello della porta accanto. Così, ad esempio, è stato picchiato a scuola, in provincia di Brescia, un adolescente italiano la cui madre è russa. Un ulteriore buon bersaglio sono i cosiddetti “pacifisti”, cinici e ignavi, nonché tutti coloro che non condividono questa campagna ideologica - ed è forse la maggioranza del paese. Questa campagna di Russia, sponsorizzata dietro gli schermi, si muove intorno ad alcuni capisaldi. Il primo è che tutto dipenderebbe da Putin, da quel che sta nel suo cervello, dai suoi deliri, dalla sua follia. Ci sono addirittura psichiatri e psicanalisti di calibro che si sono lanciati in tragicomiche diagnosi a distanza. Se lui, che è la causa di tutti i nostri mali, venisse eliminato, tutto sarebbe di nuovo come prima. Il che è buon modo per depoliticizzare completamente la questione ed evitare di considerarla nella sua complessità. Il secondo caposaldo è l’altrettanto ridicola battaglia contro gli oligarchi, perpetrata a colpi di sequestri di uno yacht e una villa - briciole evidentemente! - e compiuta a scopi interni, per preparare l’opinione pubblica a quel che dovrà venire, cioè agli effetti tremendi delle sanzioni qui. Ma contano davvero gli oligarchi nel sistema politico di potere di Putin? E queste misure sono la via giusta? C’è da dubitarne. Il terzo caposaldo sta nella vecchia frase proverbiale “armiamoci e partite”, quella che condensa purtroppo tanta italianità roboante e farsesca che tuttavia ha già portato a effetti devastanti. E, a proposito di storia, e di paragoni avventati, privi di ogni fondamento, è il caso di dire, con voce ben ferma, che non vogliamo ripetere gli errori del passato. Fa una certa impressione ascoltare i moniti lucidi e pacati dei generali dell’esercito, che evidentemente sanno di che cosa parlano, di fronte ai chiassosi e scomposti discorsi di politici, come il ministro degli Esteri, che dovrebbero avere un di più di responsabilità. Per difendere gli ucraini aggrediti occorre fermare immediatamente questa guerra, lì dove viene combattuta, attraverso negoziati condotti da autorità europee interposte a quelle belligeranti. Non si difendono invece gli ucraini facendo dilagare il conflitto, modificandone portata e obiettivo. È quello che tenta di fare chi fomenta la campagna di una nuova “guerra giusta”, contrabbandandola come crociata all’insegna della democrazia e della libertà contro l’autocrazia. Ne abbiamo abbastanza di “guerre giuste”, quest’ossimoro di cui conosciamo già gli esiti devastanti. Non sembra né prudente né avveduto andare a “liberare il popolo russo dal tiranno”. La Russia di Putin non è purtroppo solo quella dei dissidenti che manifestano a Pietroburgo; c’è un Paese enorme e variegato, con una sua storia difficile - e molto europea. Quando il popolo russo avrà autonomamente raggiunto il punto di svolta, si libererà da Putin. Nel frattempo, quello che noi avremmo dovuto fare, che dovremmo fare, sarebbe proprio moltiplicare i contatti, le occasioni di scambio in tutti gli ambiti. Chiuderli dietro una nuova cortina, ricacciarli dietro lo stigma del “nemico” non serve a loro e non serve a noi. La guerra smonta la retorica di Salvini di Stefano Folli La Repubblica, 9 marzo 2022 Era evidente che la guerra in Ucraina, cioè in Europa, avrebbe spazzato via anche in Italia un vecchio modo di far politica, impastato di astuzie, giochi verbali, ammiccamenti, retorica da “talk show”, enfasi stile “ultras” allo stadio. La guerra ribalta tutte le pseudo certezze e impone una nuova serietà. Qualcuno sembra averlo già capito - ad esempio il Pd di Enrico Letta -, qualcun altro invece paga un prezzo salato alla propria ostinazione. In fondo non era difficile supporre che il viaggio di Salvini al confine polacco-ucraino avesse discrete probabilità di risolversi in un disastro. Tuttavia la realtà è andata oltre ogni previsione. L’immagine del sindaco di Przemysl che accoglie - si fa per dire - il capo della Lega srotolando la maglietta con l’effige di Putin davanti alle telecamere, e gli ricorda il suo stretto legame con l’autocrate di Mosca, resterà nella storia a testimoniare una straordinaria insipienza politica. Se Salvini pensava davvero di far dimenticare i suoi errori con un viaggetto di un paio d’ore alla frontiera così da inalberare il cartello “Sos Ucraina” - senza mai citare Putin, s’intende - significa che ha perso ogni lucidità. Nel mondo globale tutti sono al corrente di tutto: basta un’occhiata a Twitter o alle vignette di Osho. Anche in una cittadina polacca di confine hanno avuto il tempo di procurarsi una maglietta identica a quella che un paio d’anni fa il leghista esibiva orgoglioso sulla Piazza Rossa. Veramente strano che l’uomo che è stato vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno non lo avesse messo in conto. Forse è mal consigliato o forse non riesce a distinguere ciò che è drammatico da ciò che è ludico. Nel 2019 aprì la crisi di governo da uno stabilimento balneare, ieri ha tentato goffamente di ricostruirsi un’immagine con un colpo di dadi dall’esito catastrofico. Aveva invece una carta semplice da mettere sul tavolo. Comprendere la portata del passaggio storico che l’Italia e l’Europa stanno vivendo e agire di conseguenza. Sostenere senza ambiguità e fino a tempi migliori il governo di cui peraltro la Lega fa parte, considerando che non ci sono alternative a Draghi e a una linea di politica estera condivisa, nel rispetto del sistema di alleanze in cui l’Italia è collocata. Accantonare i vari “sovranismi” ed euro-scetticismi che non sono di alcuna utilità al momento: non a caso l’incidente è avvenuto in Polonia, uno dei paesi nazionalisti a cui la destra italiana guardava con attenzione. Ma è la guerra, appunto. La guerra che restituisce spessore alle cose e una gerarchia ai valori. Il problema politico riguarda adesso la Lega e il centrodestra nel suo insieme. Salvini esce dall’episodio polacco con una reputazione a pezzi, anche se egli cerca di minimizzare accusando “la sinistra polacca e italiana”. Davvero poco convincente. L’uomo ambiva a essere il “leader”dell’intero schieramento, ma adesso non è credibile che tutto prosegua come prima. Per cui il dibattito a destra diventa interessante e potrebbe condurre a esiti imprevisti. Il che non significa una destra che rinuncia ai suoi principi. Il tema del catasto, ad esempio, è controverso, ma non può essere oggetto di ironie, nemmeno in un’epoca di tensioni internazionali. Contribuisce all’identità di una parte politica che teme l’aumento delle tasse, magari a torto, ed è pronta a farne oggetto della prossima campagna elettorale. Crimini di guerra, la Germania prepara una Norimberga contro i russi di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 9 marzo 2022 La procura federale ha aperto un’indagine per le azioni commesse dalle truppe di Putin in piena violazione del diritto internazionale. Avviata un’inchiesta anche in Spagna. La Germania sfida nuovamente i criminali di guerra; dopo i clamorosi processi contro gli aguzzini siriani di Assad e le condanne ai militanti dell’Isis colpevoli di genocidio degli yazidi, le corti tedesche preparano una nuova Norimberga, stavolta contro i russi. La procura federale ha aperto un’indagine per le mostruosità che le truppe di Vladimir Putin stanno commettendo in Ucraina in piena violazione del diritto internazionale. Il capo dei magistrati tedeschi, Peter Frank, sta raccogliendo testimonianze sulle bombe a grappolo lanciate sulle città ucraine e sugli attacchi a infrastrutture e abitazioni civili, a ospedali, gasdotti, a un sito di stoccaggio per materiale radioattivo e a una centrale termica. Ma Frank ha espresso il timore che la lista delle atrocità si allungherà, nelle prossime settimane. Nelle mani degli inquirenti tedeschi sarebbe finita anche una “lista nera” di alti funzionari ucraini, compreso il presidente Volodymyr Zelensky, che i soldati russi e le milizie cecene avrebbero avuto l’incarico di assassinare. Lo stesso Zelensky aveva rivelato la scorsa settimana di essere “l’obiettivo numero uno” dei sicari di Putin. E i magistrati tedeschi indagano sui mandanti e i potenziali esecutori. Nelle cosiddette “indagini strutturali” gli inquirenti raccolgono in una prima fase le prove dei crimini commessi. E saranno preziosissime le testimonianze dei profughi ucraini che stanno arrivando a decine di migliaia dalle zone di guerra: in Germania ne sono arrivati quasi 60mila. Solo in un secondo momento gli inquirenti formuleranno accuse mirate contro i sospetti criminali di guerra. Tante denunce che stanno arrivando alla procura generale riguardano Vladimir Putin, ma finché non ci sarà un cambio di regime, il dittatore russo non potrà essere arrestato perché gode dell’immunità presidenziale. Se durante le indagini della magistratura tedesca le accuse contro determinati criminali di guerra si riveleranno fondate, la procura spiccherà un mandato di arresto internazionale. In Germania non esiste il processo in contumacia: gli inquirenti dovranno aspettare di catturare i sospetti criminali per metterli alla sbarra. Ma se metteranno piede in qualsiasi Paese che ha accordi di cooperazione giudiziaria con la Germania, scatteranno le manette. Il precedente storico più famoso resta quello di Augusto Pinochet. Il dittatore cileno che si era macchiato di repressioni, persecuzioni, torture di massa e delle peggiori violazioni dei diritti umani durante i diciassette anni del suo regime sanguinario, fu arrestato nel 1998 a Londra grazie a un mandato di arresto spagnolo. Il magistrato Baltasar Garzón lo aveva condannato per “genocidio” e “terrorismo”, in particolare contro cittadini spagnoli perseguitati tra il 1973 e il 1983. Pinochet era a Londra per farsi curare in un ospedale inglese e pensava di essere al riparo dalla magistratura in virtù del suo passaporto diplomatico. Una pia illusione. Ma la magistratura spagnola è in prima linea anche oggi: la procuratrice generale Dolores Delgado ha annunciato l’apertura di un’inchiesta sui crimini commessi durante l’invasione russa dell’Ucraina. Il primo obiettivo è quello di raccogliere quante più prove possibile, per poi decidere se l’azione penale si dovrà sviluppare in Spagna o se tutta la documentazione dovrà essere trasferita alla giustizia internazionale. C’è un giudice a Berlino: il Paese guidato da Olaf Scholz diventando un luogo di speranza per molti perseguitati delle guerre e dei regimi più atroci del mondo. A Coblenza, ad aprile nel 2020 è cominciato il primo processo al mondo contro le torture del regime siriano di Bashar Assad, basato sulle testimonianze di numerose vittime fuggite in Germania durante la guerra civile. Anche alcuni aguzzini erano scappati in Germania e sono finiti dunque sotto processo. Le condanne, per ora, sono due. Si tratta di due ex funzionari dell’apparato di sicurezza siriano: Anwar Raslan è stato condannato all’ergastolo a gennaio del 2022; Eyad al Gharib, un pesce più piccolo dell’apparato del terrore di Assad, è stato punito a febbraio del 2021 con quattro anni di carcere. Ma altri processi simili sono in corso. In base al diritto internazionale, i tribunali tedeschi hanno anche processato alcuni ex terroristi dell’Isis che si erano macchiati di genocidio contro gli yazidi. Anche in questo caso i tedeschi hanno stabilito un primato. A novembre del 2021 il tribunale regionale di Francoforte ha condannato un militante islamico all’ergastolo per aver ridotto in schiavitù e fatto morire di sete in Iraq una bambina yazida di cinque anni, Rania B., dopo averla tenuta per ore in atroci condizioni. Per Amal Clooney, che difende le donne yazide perseguitate dai militanti dell’Isis il giorno del verdetto è stato “il momento che gli yazidi aspettavano. Finalmente un giudice, dopo sette anni, ha dichiarato che ciò che hanno sofferto è genocidio”. E ora, ha aggiunto, “nessuno lo può più negare - l’Isis è colpevole di genocidio”. Effetto Ucraina, tutta l’Asia corre a comprare armi di Lorenzo Lamperti Il Manifesto, 9 marzo 2022 Non solo Pechino. Taiwan aumenta il budget e Tokyo, per l’ottavo anno consecutivo, avrà la spesa militare più alta della sua storia. “Il vero scopo della strategia degli Stati Uniti nell’Indo-Pacifico è di creare una Nato asiatica”. È da questa prospettiva, esplicitata dal ministro degli Esteri Wang Yi durante la lianghui (le “due sessioni” in corso a Pechino), che deriva l’impossibilità della Cina di condannare esplicitamente l’invasione russa dell’Ucraina. Ed è dall’invasione russa dell’Ucraina che potrebbe derivare un’ulteriore spinta alla corsa alle armi già in atto in tutta l’Asia-Pacifico. Il partito comunista cinese ha bisogno della retorica anti Nato. La “benzina sul fuoco” gettata dall’espansione verso l’est Europa evocata a più riprese è funzionale alla narrativa secondo cui questa e possibili future guerre siano responsabilità americana. Come la Russia si sente accerchiata in Europa, la Cina percepisce tentativi di accerchiamento in Asia. Se il Quad era stato descritto da Wang come “schiuma marina”, in riferimento alle (ex) titubanze dell’Australia e al non allineamento dell’India, qualcosa è poi cambiato. Prima con Aukus, alternativa (più) armata al Quad. E ora con le possibili conseguenze di quanto accade a Kiev. Non solo la Nato sembra compattarsi sul fronte europeo, ma i partner militari degli Usa stanno diventando più vocali in Asia, preoccupati dalle possibili azioni cinesi. Timori basati anche (ma non solo) sulla disarmonica simmetria creatasi tra le figure di Xi Jinping e Putin. In tal senso, La facciata d’alleanza innestata su fondamenta da partnership in occasione dell’ultimo incontro tra i due leader, potrebbe rivelarsi un boomerang strategico. Magnificare il rapporto sinorusso in una fase di giochi posturali poteva essere utile, farlo proprio malgrado dopo lo scoppio di una guerra molto meno, perché rende più complicato ottenere il risultato tradizionalmente anelato dal Pcc: vincere senza combattere. I vicini regionali, già preoccupati in precedenza, ora lo sono ancora di più. Cercano le rassicurazioni Usa, approfondiscono i legami tra loro e aprono i portafogli. Taiwan ha da poco approvato un bilancio extra per la difesa da 8,55 miliardi di dollari finalizzato all’acquisto di navi e missili, la cui produzione annua passerà da 207 a 497 unità. Il Giappone avrà per l’ottavo anno consecutivo il budget militare più alto della sua storia: 47,2 miliardi, con l’obiettivo di un profondo ammodernamento tecnologico dell’esercito. E l’ex premier Shinzo Abe ha chiesto agli Usa di abbandonare l’ambiguità strategica sulla difesa di Taiwan. La Corea del Sud, governata in questi anni dai democratici di Moon Jae-in, ha aumentato le spese militari ma con una tendenza al rallentamento della crescita. Se alle elezioni presidenziali di oggi dovesse vincere il conservatore Yoon Seok-youl, però, le cose potrebbero cambiare vista la sua linea meno dialogante nei confronti di Pyongyang e il possibile ribilanciamento della posizione di Seul tra Pechino e Washington con un avvicinamento a quest’ultima. L’India ha aumentato le spese militari del 5%, ma il suo budget di 51,5 miliardi è meno di un quarto di quello cinese. Si arma con più convinzione l’Australia, che arriverà a spendere il 2,5% del pil. Attenzione anche al Sud-Est asiatico, la regione con la crescita di spese militari più rapida del decennio 2009-2018 (+33%). Il budget del Vietnam è aumentato di quasi il 700% in quel lasso di tempo. Tendenza che non si frena ma che anzi può accentuarsi dopo le recenti schermaglie con Pechino, che negli ultimi giorni ha condotto esercitazioni navali al largo delle coste di Hanoi. Le Filippine, dopo il flirt cinese di Rodrigo Duterte, sono tornate a volgere lo sguardo verso l’ex colonizzatore prorogando tutti gli accordi difensivi. E prevedendo il record storico di spese militari per il 2022, con un aumento del 7,87% rispetto al 2021. La Cina, che ripete sempre di auspicare l’abbandono della mentalità da “guerra fredda” ma allo stesso modo ha appena annunciato un aumento delle spese militari del 7,1% (per un totale di circa 230 miliardi), si muoverà in terre, acque e cieli sempre più militarizzati. E la schiuma marina rischia di diventare blindata.