“Un giurista non milita pro o contro l’antimafia, ma riflette su diritti e doveri” di Liana Milella La Repubblica, 8 marzo 2022 La scelta di Renoldi come capo del Dap? “È un giurista, un ottimo magistrato”. I veti sul 41bis? “Si tratta di uno strumento fondamentale”. Il nuovo testo sull’ergastolo ostativo? “Un compromesso ragionevole. È una buona base di partenza che punta a trovare un punto di equilibrio di ampia convergenza”. Dice così Marco Patarnello, magistrato del Tribunale di sorveglianza di Roma, proprio l’ufficio che è il crocevia del regime del 41bis perché proprio lì viene dato il via libera alle singole richieste. A Patarnello, già vice segretario del Csm ed ex gip, toga di Magistratura democratica, Repubblica ha chiesto, proprio per il lavoro che svolge da anni, di dare un giudizio non solo sull’ergastolo ostativo, ma anche sulla polemica sul nuovo capo del Dap. Per una coincidenza, nella stessa settimana, cadono infatti due decisioni di estrema importanza per il futuro delle carceri italiane, il nuovo capo delle carceri e il voto della Camera sull’ergastolo ostativo. Il Csm, su richiesta della Guardasigilli Marta Cartabia, darà nei prossimi giorni una scontata autorizzazione alla messa fuori ruolo di Carlo Renoldi, il giudice della Cassazione che la ministra ha scelto come nuovo capo delle carceri. Una nomina che però deve passare anche dal consiglio dei ministri e che sta suscitando più di una polemica sia nella maggioranza (sono contro M5S, Lega e FdI), sia nelle file dell’antimafia per via di alcune battute di Renoldi del 2020 interpretate come troppo morbide sull’applicazione del 41bis, il carcere duro per i mafiosi, e sull’antimafia militante. Giovedì invece andrà in aula alla Camera, con i tempi contingentati, il nuovo testo dell’ergastolo ostativo, che il Parlamento deve approvare entro il 10 maggio, altrimenti sarà la Consulta a intervenire, dopo aver dato un anno di tempo per riscrivere un testo che, a suo giudizio, presenta profili di incostituzionalità nella parte in cui nega la liberazione condizionale a chi ha l’ergastolo ostativo se non è un collaboratore di giustizia. Caso Renoldi, qual è il suo giudizio? Chi ha ragione tra chi lo boccia e chi lo promuove? Lei lo conosce? Che giudizio ne dà come collega? “Non mi è congeniale affrontare questi temi personalizzandoli. Sul caso Renoldi mi limito a osservare che un giurista non fa militanza pro o contro l’antimafia, ma riflette su diritti e doveri. Renoldi è un giurista, oltre che un ottimo magistrato esperto di carcere. I condannati al 41bis sono circa l’1% della popolazione detenuta. Inoltre, non è il Dap a stabilire se e quanti detenuti devono stare al 41bis, ma direttamente il ministro, sotto il controllo giurisdizionale del Tribunale di Sorveglianza di Roma. Questa polemica non mi appassiona”. Al centro della polemica però c’è proprio il 41bis. A Renoldi rimproverano di volerlo “ammorbidire”. Ma questo, secondo quanto lei dice, non è nei poteri di un capo Dap? “Sulla maggiore o minore “durezza” del 41bis il capo del Dap, glielo ripeto, ha voce in capitolo, entro limiti piuttosto precisi: buona parte del regime è disciplinata dalla legge, altra parte dal decreto del ministro; ma alcune regole della vita quotidiana sono stabilite in via generale dal vertice amministrativo, quindi dal Dap. Su tutte queste specifiche regole, però, è intervenuta spesso la giurisprudenza della Corte costituzionale, della Cassazione e della magistratura di sorveglianza, stabilendo principi oramai piuttosto chiari. Non ritengo ci sia da intervenire ulteriormente”. Ha letto cosa dice Maria Falcone? Sul 41bis non si torna indietro. Perché è una legge che ha voluto il fratello Giovanni. E ancora le dichiarazioni di Salvatore Borsellino che parla di una scelta, quella di Cartabia, che sarebbe l’ultimo atto della trattativa Stato-mafia di Riina? “Sul fatto che dal 41bis non sia il momento di tornare in dietro non c’è alcun dubbio. Il 41bis è una misura indispensabile. Non dimentico, anzi, nessuno deve dimenticare l’enorme pressione che la mafia ha esercitato sulla politica per eliminare o allentare questo regime. Ma a mio giudizio, la scelta della ministra non nasce in quella logica, sebbene non sia stata preceduta da adeguata preparazione e spiegazione. Questo può aver contribuito a generare confusione”. Lei è un giudice di sorveglianza. Cosa pensa del 41bis oggi? “Penso che la mafia non sia sconfitta, sebbene a molti piaccia tanto crederlo. Il resto viene di seguito. Questo istituto giuridico crea comprensibilmente una tensione, in un ordinamento democratico molto attento ai diritti della persona, come il nostro. Ma non ci sono solo i diritti. Ci sono anche i doveri. Che altro non sono che il risvolto pubblico dei diritti di altri soggetti. Finché ci sono vaste zone del Paese sottratte al controllo dello Stato, in cui i cittadini rispondono a un altro ordinamento e ad altre regole, quelle del più forte, vi è il dovere dello Stato di rispondere con strumenti adeguati. Tutti abbiamo il diritto di vivere in un Paese civile, chi è detenuto e chi non lo è. Il 41bis serve a questo, ad evitare che i boss mafiosi continuino a tirare le file dei traffici illeciti e dettino, da detenuti, le regole del proprio territorio. Che acquisiscano posizioni di preminenza dentro il carcere. Queste non sono ipotesi o fantasie, soprattutto in un carcere depauperato di risorse e di personale. Ma torno a dire: non esiste solo il 41bis”. Il 41bis e l’ergastolo ostativo sono due facce della stessa medaglia, sono i puntelli di chi ritiene che ai mafiosi non vada fatto alcuno sconto, a meno che non passino dalla parte dello Stato, con una collaborazione. Lei da che parte sta? “Per chi è “appartenuto” ad un’organizzazione criminale che ha asservito un intero territorio, accreditarsi come un uomo diverso senza sentire il bisogno di contribuire a ricucire la tragica lacerazione del patto sociale che si è contribuito a determinare, collaborando con la giustizia, può essere consentito solo a condizione che ve ne siano ragioni serie e ragionevolmente verificabili. La collaborazione è la strada maestra per dimostrare che questo legame è stato tagliato irrimediabilmente. A questa regola possono esservi delle eccezioni, purché verificabili e rigorose”. L’ergastolo ostativo. Ha fatto bene la Consulta a bocciarlo un anno fa? “Facciamo un passo indietro con una breve cronistoria per capire il problema. La Corte costituzionale, dimostrando piena consapevolezza della delicatezza della materia, ad aprile 2021 aveva chiesto al legislatore di intervenire sull’ergastolo ostativo per i reati di mafia e di terrorismo. La Corte aveva affermato in modo esplicito che l’attuale disciplina, che esclude l’accesso alla liberazione condizionale per mafiosi e terroristi che scelgono di non collaborare con la giustizia, nella sua assolutezza è incostituzionale”. Sì, però non ha bocciato la legge tout court… “Certo, perché ha ritenuto che un intervento demolitorio avrebbe inevitabilmente comportato l’ingerenza in margini di valutazione propri del legislatore, creando problemi nell’applicazione, rischiando di allentare il contrasto a questo tipo di criminalità pervasiva e feroce. Perciò aveva dato il termine di un anno al legislatore per trovare il punto di equilibrio più giusto fra i diversi diritti e interessi in gioco, senza svalutare l’importanza della collaborazione con la giustizia”. Scusi, ma perché un anno prima la stessa Corte ha bocciato la norma dell’ordinamento penitenziario sui permessi premio? “Sì, è vero, in quel caso la Corte si era regolata diversamente. Con la sentenza 253 del 2019 sui permessi premio ai mafiosi e ai terroristi che non collaborano, la Corte aveva scelto di dichiarare direttamente incostituzionale quella regola, facendo peraltro un tortuoso sforzo di oltre trenta pagine nel tentativo di dettare una nuova disciplina ed evitare un vulnus nel contrasto alla mafia e al terrorismo. Ma siccome la Corte non riscrive le leggi, ma ne abroga - in tutto o in parte - il contenuto, il risultato era stato molto problematico e scivoloso, oltre che additivo e non privo di contraddizioni”. Quindi lei sta dicendo che la Corte l’anno scorso ha fatto bene a seguire un’altra strada, quella di lasciar fare al Parlamento? “Io la giudico una scelta saggia. Ora il Parlamento si appresta ad approvare le nuove norme muovendo da un testo, quello proposto dalla Commissione giustizia della Camera, che costituisce una buona base di partenza e del quale si apprezza innanzitutto l’aspirazione a trovare un punto di equilibrio di ampia convergenza. Su questa materia è importante una legislazione condivisa e capace di dare forza al patto sociale. Credo che il testo individuato sia capace di rispondere sufficientemente alle sollecitazioni della Corte costituzionale, contemperando diritti individuali ed esigenze di tutela sociale”. Fare concessioni anche senza collaborazione non è dunque un tabù? “Si può fare, ma a patto ci siano condizioni rigorose e precise. Personalmente, rispetto al testo in discussione alla Camera, valorizzerei ancor meglio il significato della collaborazione, magari segnalando la necessità di esternare preliminarmente le ragioni che impediscono al detenuto di collaborare, così da poterne soppesare l’effettività, ma già la soluzione proposta ha buoni paletti e può consentire un’idonea applicazione da parte della magistratura di sorveglianza”. Insomma lei dice che le Camere non possono perdere quest’occasione e devono comunque approvare il nuovo testo? “Sì, io ne sono assolutamente convinto. È fortemente auspicabile che il Parlamento riesca a trovare la soluzione, evitando un’altra sentenza abrogativa in una materia così delicata. Queste regole incidono sul patto sociale e sono delicate e complesse, è bene che vengano cambiate attraverso i meccanismi legislativi. Non è un caso che la Corte abbia ritenuto di indicare questa strada”. Un magistrato di grande esperienza come Elvio Fassone, autore del libro “Fine pena: mai” in cui ha raccontato il suo carteggio ormai trentennale con un ergastolano che lui stesso aveva condannato, ha detto a Repubblica che le condizioni poste dalla nuova legge sono “troppo stringenti”. Insomma, con questa legge nessuno potrà avere la liberazione condizionale se non collabora... “A mio giudizio la collaborazione resta la strada maestra e le indicazioni della Corte costituzionale mi sembrano compatibili con questa considerazione. Rispetto al testo della commissione Giustizia si potrebbe valorizzarne meglio il significato. In tal caso, forse si potrebbero togliere dal testo in discussione taluni ulteriori requisiti, particolarmente rigorosi. Ma, insisto, il testo varato al momento è già un compromesso ragionevole e spostarne i tasselli potrebbe farne saltare l’equilibrio. Ma c’è un’altra questione su cui, secondo me, è necessario intervenire...”. Riguarda ancora l’articolo 4bis sui benefici? Immagino che lei ci abbia a che fare tutti i giorni… “È un fatto che restano irrisolti quelli che a me sembrano gli aspetti più irrazionali e incongrui della disciplina dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario. Mi riferisco all’eterogeneità del catalogo dei reati inseriti nell’articolo e quindi all’irragionevolezza delle condizioni necessarie per l’accesso ai benefici per i reati non associativi, diversi da mafia e terrorismo. Mi rendo conto che la Corte, sul punto, non aveva dato disposizioni e che il tempo, alla fine, è diventato poco e tiranno. Sembra che questo aspetto interessi poco, ma chi, come me, segue tutti i giorni la vita e le condizioni dei detenuti, vede molte storture del nostro ordinamento penitenziario. Mi piacerebbe immaginare che prima o poi il legislatore risolva anche quelle”. Un’ultima questione: il testo della Commissione Giustizia della Camera propone di passare da 26 a 30 anni di pena per ottenere la liberazione condizionale, ma questa ipotesi non crea problemi visto che non potrà applicarsi a tutti i condannati attuali, ma solo a quelli futuri? “Non mi sembra l’aspetto più qualificante dell’intervento proposto dalla commissione Giustizia, ma non vedo neppure problemi irrisolvibili. Il fatto che si dovrebbe applicare ai condannati futuri ne ridimensiona il rilievo, ma anche l’utilità. Dipendesse da me - e al di fuori di questa contingenza - rivedrei più complessivamente la disciplina dell’ergastolo, rendendola più adeguata ai tempi e al significato di questa pena nella dimensione sociale, senza eliminarlo. Ma qui apriremmo un altro capitolo…”. “No a guerre di religione sulla normativa antimafia. La sola repressione non basta” di Paola Militano Corriere della Calabria, 8 marzo 2022 Il pm della Dda di Reggio (e segretario di Md) Musolino: “Il 41 bis istituto necessario ma non è un totem intoccabile”. Le posizioni sul 41 bis di Carlo Redoldi, nominato dalla ministra Cartabia al vertice del Dap, hanno generato un acceso dibattito. Stefano Musolino, pm antimafia in servizio da 10 anni alla Dda di Reggio Calabria e segretario di Magistratura democratica. Per Musolino “le posizioni espresse da Renoldi” danno conto “della complessità del tema, insofferente a un approccio ideologico da guerra di religione, fondata su inestirpabili pregiudizi. Io credo che un approccio laico ai temi del regime speciale regolato dall’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario dovrebbe suggerire maggiore attenzione per la capacità dell’istituto di reggere alle valutazioni della giurisprudenza costituzionale e di quella della Corte europea dei Diritti dell’uomo. Un sistema normativo figlio di una logica di emergenza che il tempo sta usurando”. Il magistrato spiega che il 41 bis “è necessario per contenere la capacità dei dirigenti mafiosi di continuare a gestire dal carcere le dinamiche criminali, ma la restrizione dei diritti individuali in funzione delle esigenze di sicurezza generale deve trovare un punto di compensazione più elevato di quello attuale”. Per chi critica Redoldi, secondo Musolino, “la capacità dello Stato di contrastare adeguatamente il fenomeno mafioso si misura tutta sul mantenimento integrale del regime del 41 bis. Ma così facendo, se ne fa un mito intoccabile, tacendone le inefficienze e, soprattutto, trascurando i temi dell’antimafia sociale, quella che ambisce ad incidere sui fattori genetici del fenomeno che risiedono nella oggettiva povertà economica e culturale di alcune zone del Paese. Sostenere il totem del 41 bis fa comodo a tanti perché così non si affrontano le vere criticità sottese al fenomeno mafioso”. “Il 41 bis è necessario. Ma anche al detenuto mafioso va data la possibilità di rieducarsi” - Il tema è sensibile, e il pm argomenta: “Lo ribadisco: l’istituto è necessario, perché l’esperienza, anche quella dei detenuti mafiosi in regime di alta sicurezza, dimostra come costoro abbiano un atteggiamento refrattario alle proposte rieducative e tendano a ripetere anche all’interno delle strutture detentive quelle che sono le modalità relazionali e i metodi che caratterizzano l’organizzazione”. C’è bisogno, però, di “consentire valutazioni individualizzate dei singoli percorsi detentivi che non siano viziate da pregiudizi irresistibili, ma siano capaci di garantire anche al detenuto mafioso la possibilità di emendarsi e usare il tempo trascorso in carcere quale momento di rieducazione ed emancipazione dall’organizzazione e dai suoi metodi”. “Continuare a ragionare in termini emergenziali di lotta alla mafia è ormai antistorico” - “Io credo - spiega ancora Musolino - che la necessità di una detenzione ispirata al massimo rispetto delle dignità umana sia ineludibile e sia imposta dalla Costituzione e dalla normativa internazionale. Sulla base di questa ispirazione di fondo, credo sia giunto il tempo di rivalutare con attenzione un istituto indispensabile nel contrasto alle mafie, riformandone i profili puramente afflittivi ed accentuando la rilevanza di una valutazione individualizzata di ciascun detenuto. Continuare a ragionare in termini emergenziali di lotta alla mafia è ormai antistorico: è un fenomeno ormai cronicizzato che deve essere affrontato con una legislazione in grado di tenere insieme le ragioni della sicurezza sociale con quelle dei diritti dei soggetti coinvolti nei processi”. “La politica delega tutto al mito della repressione” - In generale, il magistrato ritiene pericoloso trasformare temi in “guerre di religione”: “rifiutare il confronto e descrivere come un traditore dell’antimafia chi muove da altre valutazioni credo sia profondamente sbagliato. Costruire su questa materia totem pregiudiziali non aiuta l’antimafia, aiuta piuttosto quelli che sull’antimafia fanno carriera e gran parte della politica”. Che “sembra non volersi assumere le responsabilità che deriverebbero da una antimafia sociale, sicché preferisce delegare tutto al mito della repressione e a quello della mafia, che si coltivano vicendevolmente. Se pensiamo che da trent’anni il modo di approcciare alla mafia è solo quello della repressione, chi pensa che questo sia ancora il solo metodo per fronteggiarla dovrebbe chiedersi perché questa ricetta non ha funzionato. Questo non vuol dire sottovalutare la natura del fenomeno mafioso, ma sottolineare che una normativa repressiva di corto respiro non rappresenta più, a mio parere, una strategia adeguata”. La sentenza della Consulta sulle Rems: il dibattito è aperto garantedetenutilazio.it, 8 marzo 2022 C’è chi saluta con favore la sentenza 22/2022 della Corte costituzionale e chi ci vede il profilarsi di un quadro repressivo. L’Osservatorio stopopg, il Coordinamento nazionale Rems-Dsm, il Coordinamento nazionale per la salute mentale e numerose altre associazioni si sono date appuntamento martedì 1 marzo, per un incontro pubblico via Zoom dal titolo “Superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e tutela della salute mentale dopo la sentenza 22/2022 della Corte costituzionale”. Oltre ottanta partecipanti collegati hanno discusso sulla decisione di inammissibilità da parte della Consulta del ricorso presentato dal Tribunale di Tivoli contro la legge che ha avviato il processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), la 81/2014, indicando nel contempo chiaramente la necessità di perfezionare la legislazione in materia. Nella sentenza 22/2022, la Consulta ricorda che le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) sono state concepite dal legislatore, nel 2012, come strutture residenziali con una logica radicalmente diversa dai vecchi ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), caratterizzati da una funzione prevalentemente custodiale. Le Rems, pensate invece in funzione di un percorso terapeutico di progressiva riabilitazione sociale, sono strutture di piccole dimensioni che devono favorire il mantenimento o la ricostruzione dei rapporti con il mondo esterno, alle quali il malato mentale autore di reato può essere assegnato soltanto quando non sia possibile controllarne la presunta pericolosità con l’affidamento ai servizi territoriali per la salute mentale. L’assegnazione alle Rems resta quindi nell’ordinamento italiano una misura di sicurezza, disposta dal giudice penale non solo a scopo terapeutico, ma anche per contenere la pericolosità sociale di una persona che ha commesso un reato. Ciò comporta - ha osservato la Corte - la necessità di rispettare i principi costituzionali sulle misure di sicurezza e sui trattamenti sanitari obbligatori, tra cui la riserva di legge: ossia l’esigenza che sia una legge dello Stato a disciplinare la misura, con riguardo non solo ai “casi” in cui può essere applicata ma anche ai “modi” con cui deve essere eseguita. Al contrario, oggi la regolamentazione delle Rems è solo in minima parte affidata alla legge; in gran parte è rimessa ad atti normativi secondari e ad accordi tra Stato e autonomie territoriali, che rendono fortemente disomogenee queste realtà da regione a regione. L’inammissibilità del ricorso contro la riforma che ha avviato il processo di superamento degli Opg, è considerata una buona notizia per chi è impegnato nel superamento della logica manicomiale e per affermare la “tutela della salute come fondamentale diritto”, ma non sono mancate letture di segno diverso. C’è infatti chi vede il profilarsi un quadro repressivo nel monito della Corte al legislatore, affinché proceda, senza indugio, a una complessiva riforma di sistema, che assicuri anche forme di idoneo coinvolgimento del ministero della Giustizia, nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle Rems esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale degli autori di reato. Come ha dichiarato in un videomessaggio il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, la sentenza 22 si presta a una quantità di interpretazioni, ma non interrompe intrapreso con la decisione di superare il modello coattivo degli ospedali psichiatrici giudiziari. Stefano Cecconi, a nome degli organizzatori dell’incontro, ha portato al centro del dibattito quello che è considerato il tema dei temi, il superamento del cosiddetto “doppio binario” tra pena e misura di sicurezza, secondo cui alle persone malate di mente autrici di reato, considerate non imputabili, non sono irrogabili pene bensì sono applicate misure di sicurezza. La proposta di legge di Riccardo Magi, elaborata nell’ambito della Società della Ragione, sostiene la necessità di eliminare le misure di sicurezza e di considerare imputabili anche le persone incapaci di intendere e di volere al momento del reato, ma tenendo conto in giudizio delle loro condizioni psichiche e garantendo loro successivamente percorsi terapeutici alternativi al carcere. Anche se venisse abolito il doppio binario, ha sottolineato Cecconi nella conclusione dei lavori, il problema sarà sempre e comunque quello di garantire il diritto alla salute delle persone che hanno commesso un reato. Cecconi ha concluso i lavori, auspicando una riflessione ulteriore sui temi affrontati e ha proposto di chiedere un incontro al governo, in vista di possibili modifiche alla legislazione in materia. Dispensare giudizi di merito non fa parte del ruolo della Consulta di Francesca Re e Marco Perduca* Il Dubbio, 8 marzo 2022 Invitiamo la Corte costituzionale a pubblicare le videoregistrazioni dell’udienza e della Camera di consiglio per arricchire il dibattito pubblico e la ricerca della verità. Caro Direttore, la conoscibilità del processo decisionale delle istituzioni è uno dei pilastri della democrazia liberale ma, specie quando si affrontano temi oggetto di decisioni nel rispetto della Costituzione e relativi alla partecipazione diretta della cittadinanza alla vita istituzionale del paese, occorre selezionare parole ed esempi come se si scrivesse una sentenza. La divulgazione di decisioni cruciali per la vita di milioni di persone impone la completezza informativa. Per questo vorremmo rispondere a quanto scritto il 4 marzo da Donatella Stasio in merito alle affermazioni del Presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato. Relativamente al quesito sull’articolo 579 del codice penale, Stasio introduce un tema pseudo- giuridico: il discrimine fra deficienza psichica per abuso di sostanze alcoliche e “l’avere un po’ bevuto”. Nella conferenza stampa Amato aveva fatto l’esempio del “ragazzo maggiorenne che per una ragione qualunque arriva a decidere che la vuole fare finita e che trova un altro ragazzo, come lui, che in una sera in cui hanno un po’ bevuto glielo fa [commette l’omicidio]”. Questo esempio fa intendere che la causa della condotta è data, oltre che da imprecisati motivi della vittima, proprio dalla condizione concorrente dell’aver entrambi “un po’ bevuto”. Secondo Amato, evento non punibile a seguito dell’eventuale abrogazione referendaria. Ma in piena vigenza dell’articolo 579 c.p. ogni condotta corrispondente al “ragazzo che ha un po’ bevuto” determina l’applicazione dell’omicidio doloso ai sensi del terzo comma dello stesso articolo per consenso viziato, parte non toccata dal quesito. La giurisprudenza di legittimità ha sempre applicato l’elemento del consenso in modo ferreo ed estensivo fino a stabilire recentemente che a renderlo invalido non serve neanche l’aver un po’ bevuto ma “è sufficiente anche una non totale diminuzione della capacità psichica che renda, sia pure momentaneamente, il soggetto non pienamente consapevole delle conseguenze del suo atto”. Il Presidente Amato, dopo aver ricordato i rinvii interni della struttura della legge sugli stupefacenti, ha affermato che sarebbero scomparse “tra le attività punite, la coltivazione delle sostanze stupefacenti di cui alle tabelle 1 e 3. E le sostanze stupefacenti delle tabelle 1 e 3 non includono neppure la cannabis”. La sentenza conferma (sic) che si coltivano piante e non sostanze e, dopo aver dedicato cinque delle 19 pagine alla ricostruzione della normativa sulle droghe, concede che la cannabis sarebbe stata “indirettamente” interessata dal ritaglio. Amato poi afferma che tale cancellazione sarebbe stata “sufficiente a farci violare obblighi internazionali plurimi che sono un limite indiscutibile dei referendum”. La Costituzione chiarisce che non sono referendabili leggi di attuazione alla ratifica di trattati internazionali, e non leggi adottate per regolamentare quanto sotto controllo internazionale. Ma se anche così fosse stato, negli ultimi anni Uruguay, Canada, Malta e 19 Stati Usa hanno modificato le proprie leggi sulla cannabis senza uscire dalle Convenzioni né essere sanzionate per le loro riforme. Infine per Amato i ritagli non sarebbero stati in linea con “lo scopo perseguito perché il quesito non tocca altre disposizioni che rimangono in piedi e che a prevedono la rilevanza penale di queste stesse condotte”. Amato non menziona condotte non toccate e raffinazione, estrazione, ecc. di sostanze - le famigerate “droghe pesanti” - che, rimanendo, non avrebbero intaccato gli obblighi internazionali. Alle parole di Amato si aggiungono le considerazioni di Stasio per cui “non v’è dubbio che tutto questo è ben chiaro a chi ha seguito la conferenza stampa e letto le sentenze”. La “falsificazione” - che dal punto di vista fattuale comunque persiste - sta nell’aver sfruttato la visibilità della “innovazione” della conferenza stampa per dispensare giudizi di merito che non appartengono al ruolo della Corte costituzionale in quel passaggio istituzionale. Stasio ritiene che “la comunicazione della Corte è un servizio ai cittadini proprio perché possano esercitare a 360 gradi la loro critica, ma su fatti veri e un contributo importante alla qualità del dibattito pubblico, da cui dipende, peraltro, la qualità della democrazia”: benissimo! Invitiamo da subito la Consulta a pubblicare le memorie dei comitati promotori e le videoregistrazioni dell’udienza oltre che della Camera di consiglio per adempiere al nobile intento di arricchire il dibattito pubblico e la ricerca della verità, ancorché senza la “v” maiuscola. *Associazione Luca Coscioni Irreperibilità definitiva dell’imputato: valida la notifica al difensore quotidianogiuridico.it, 8 marzo 2022 Cassazione penale, Sez. III, sentenza 1° marzo 2022, n. 7149. Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso l’ordinanza con cui il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale, in funzione di giudice dell’esecuzione, aveva rigettato la richiesta tendente a ottenere la declaratoria di temporanea inefficacia del provvedimento di esecuzione di pene concorrenti nei confronti del condannato, già detenuto, e del contestuale ordine di esecuzione emesso dal PM. La Corte di Cassazione penale, Sez. III, con la sentenza 1° marzo 2022, n. 7149 - nel disattendere la tesi difensiva, secondo cui essendo la causa di irreperibilità non definitiva, le notificazioni successive a quella effettuata mediante consegna dell’atto al difensore avrebbero dovuto necessariamente essere precedute dalla reiterazione del tentativo di notificazione nel domicilio dichiarato e non direttamente nelle forme di cui all’art. 161, comma 4, del codice di rito - ha inteso dare continuità al principio, già più volte affermato, secondo cui l’esito negativo di una notifica all’imputato nel domicilio dichiarato o eletto, per una ragione definitiva che renda impossibile l’esecuzione della notifica in tale luogo, quale il trasferimento dell’imputato o l’inesistenza ivi del suo nominativo, rende valide le successive notifiche, in ogni fase e grado del procedimento, effettuate direttamente al difensore, ai sensi dell’art. 161 c.p.p., comma 4, senza previa reiterazione del tentativo di notifica presso detto domicilio, e ciò per evidenti ragioni riconducibili alla unitarietà del procedimento penale, nonché a esigenze di economia e di speditezza processuale. Resistenza a pubblico ufficiale, concorso formale omogeneo di reati se gli agenti sono più di uno di Francesco Giuseppe Vivone Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2022 Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul delitto di cui all’art. 337 c.p., confermando l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, quando le condotte violente o minacciose sono dirette ad opporsi ad un atto di due o più pubblici ufficiali, è integrato un concorso formale di reati e non un singolo reato di resistenza a pubblico ufficiale. Questa, in sintesi, la vicenda processuale. Il Tribunale di Brescia condannava l’imputato al minimo della pena edittale prevista dall’art. 337 c.p., ritenendo che la condotta violenta posta in essere nei confronti di due agenti di polizia locale dovesse qualificarsi come un unico episodio criminoso. Avverso la sentenza proponeva ricorso per saltum il Procuratore Generale presso la Procura locale, deducendo che, nel caso di specie, doveva configurarsi una pluralità di reati, in considerazione delle pluralità delle persone offese. A parere della pubblica accusa, dunque, il Tribunale aveva errato nella qualificazione giuridica dei fatti e, per tale ragione, si chiedeva l’annullamento della sentenza. Di parere contrario il Procuratore Generale presso la Suprema Corte, secondo cui l’impugnazione proposta sarebbe inammissibile per due ordini di ragioni. Innanzitutto la lettura della norma effettuata dal ricorrente non sarebbe univoca nella giurisprudenza di legittimità; in secondo luogo, il concorso formale non era stato contestato nella formulazione del capo di imputazione e, dunque, non potrebbe riconoscersi nell’ambito di un giudizio per Cassazione. La questione giuridica posta all’esame della Suprema Corte è connotata da particolare interesse; per una corretta interpretazione della norma, infatti, è necessaria la trattazione di distinti ma connessi temi di indagine. Il primo concerne le disposizioni di cui all’art. 81, c. 1, c.p. ed in particolare la corretta individuazione dell’ambito del concorso formale omogeneo di reati. Secondariamente ed in stretta correlazione, si impone un’attenta analisi degli elementi strutturali del delitto di resistenza a pubblico ufficiale focalizzandosi, nello specifico, su quale sia il bene giuridico tutelato dalla norma in parola. Con riferimento al primo tema di analisi, è opportuno ricordare che il concorso formale omogeneo di reati può dirsi realizzato quando, con un’unica azione, sia violata più volte la medesima disposizione di legge. L’azione è da intendersi unica tanto quando sia stato posto in essere un unico atto quanto nell’ipotesi in cui gli atti siano molteplici ma legati tra loro da un punto di vista temporale, spaziale e di finalità criminose. Da un punto di vista pratico e applicativo, è necessario scindere idealmente la vicenda in tante parti quanti sarebbero gli eventi giuridici, da intendersi questi ultimi come la realizzazione della offesa al bene giuridico tutelato attraverso la condotta tipica descritta dalla norma. Orbene, si avrà concorso formale omogeneo di reati quando ognuno degli eventi giuridici di cui è composta complessivamente la condotta sia sussumibile alla fattispecie astratta di reato. In ossequio al principio di colpevolezza, non si può far derivare la pluralità o l’unicità dell’azione esclusivamente dal mero calcolo dei beni giuridici offesi; non può prescindersi, infatti, da un’attenta analisi dell’elemento piscologico del reato. Alla luce di tali premesse, perché vi sia concorso formale sarà necessario verificare che nel caso concreto il dolo investa ciascuno dei singoli frammenti del fatto, ciascuna delle offese al bene giuridico tutelato e leso dalla realizzazione del fatto tipico di reato. Tutto ciò premesso, si rende necessaria l’individuazione del bene giuridico tutelato e protetto dal delitto di resistenza a pubblico ufficiale, compiendo un approfondito esame del delitto di cui all’art. 337 c.p, con particolare riferimento alla struttura della fattispecie legale. In seno alla Corte di cassazione si sono per lungo tempo alternati due orientamenti contrapposti. Secondo il primo indirizzo, la violenza o la minaccia adoperate nel medesimo contesto verso molteplici pubblici ufficiali, pur ledendo unitariamente l’interesse del regolare funzionamento della Pubblica Amministrazione, sono offensive in maniera distinta del libero espletamento delle attività di ogni singolo pubblico ufficiale coinvolto. Secondo un secondo orientamento, la lesione dell’interesse protetto è da individuarsi esclusivamente nell’ostacolo all’esecuzione dell’atto che deve essere eseguito. L’integrità dei pubblici ufficiali coinvolti sarebbe, invece, tutelata dalle norme poste a tutela dei suddetti beni giuridici e potrebbero trovare spazio applicativo nella imputazione ogniqualvolta sia oltrepassata la soglia delle percosse o minacce lievi poste in essere per opporsi all’atto richiesto. Per comporre il suddetto contrasto giurisprudenziale, nel 2018 è intervenuta la cassazione nel massimo consesso. Le Sezioni Unite, preliminarmente, mettono un punto fermo sull’individuazione del bene giuridico tutelato dalla norma: la collocazione codicistica e la stessa intitolazione della disposizione in esame non lasciano spazi a dubbi interpretativi sul fatto che esso sia rinvenibile nel “regolare funzionamento della Pubblica Amministrazione”. Esso, a parere della Corte, non è da intendersi esclusivamente come “mancanza di manomissione dei beni pubblici o la loro distrazione dagli scopi istituzionali” bensì, in una visione più ampia, come “mancanza di interferenze nel processo volitivo od esecutivo di colui che personifica l’amministrazione esprimendone la volontà”. In ossequio al principio di immedesimazione organica, infatti, il pubblico ufficiale o l’incaricato del pubblico servizio è esso stesso la pubblica amministrazione, costituendo la sua estrinsecazione nel mondo giuridico. Pertanto, l’interesse al normale funzionamento della PA è da intendersi in senso ampio, ricomprendendo anche la sicurezza e la libertà di determinazione e di azione del singolo pubblico ufficiale. Nella sentenza in commento, la sesta sezione della Corte aderisce alla ricostruzione operata dalle Sezioni Unite sottolineando, peraltro, che l’orientamento evocato dal Pubblico ministero in sede è “precedente e superato” e, dunque, privo di fondatezza. A parere dei giudici, inoltre, è da ritenersi priva di fondamento anche l’osservazione sulla mancata contestazione del concorso nel capo di imputazione. La continuazione e il concorso di reati, infatti, sono istituti che incidono esclusivamente sulla misura della pena e, dunque, rimangono estranei alle relative condotte tipiche. In conclusione, la Suprema Corte accoglie il ricorso proposto dal procuratore generale e rinvia al Giudice di appello per la rideterminazione della pena, alla luce della pluralità di reati commessi in concorso formale tra loro. Trapani: Muore in carcere detenuto 45enne, stroncato da un infarto Giornale di Sicilia, 8 marzo 2022 Francesco Paolo Cammareri, alias “Ciccio u Pummaroro”, 45 anni, è morto in carcere, stroncato da un infarto. Cammareri stava scontando una condanna a 14 anni per la rapina ai danni dei coniugi Salone, messa a segno nel gennaio del 2019. Cammareri, che a San Guliano si faceva chiamare “il padrino” e millantava rapporti con la mafia, era uno dei componenti della banda che picchiò e narcotizzo, all’interno della loro villa in viale Europa ad Erice Casa Santa, i due medici, genitori dell’ex consigliere comunale Francesco Salone. Ad incastrare Cammareri fu una sigaretta messa in bocca ma non fumata trovata nella villa. La Squadra Mobile di Trapani era partita da questo primo indizio per arrivare a uno degli autori della rapina perpetrata nella notte tra il 21 e il 22 gennaio 2019 ai danni di Renato Salone e Paola Maltese. Un vero e proprio assalto che destò parecchio clamore mediatico per le modalità con cui venne consumato. I due coniugi furono svegliati nel cuore della notte dai rumori dei malviventi che prima immobilizzarono la dottoressa Paola Maltese, ginecologa all’ospedale Sant’Antonio Abate, legandola con delle fascette e narcotizzandola. Poi rivolsero la loro attenzione sul marito Renato Salone, ex chirurgo in pensione, costringendolo sotto la minaccia di una pistola ad aprire la cassaforte. Il medico disse loro che la chiave era custodita in una cassetta di sicurezza, allora i rapinatori fuggirono con la cassaforte dopo averla scardinata. All’interno c’erano gioielli, soldi e una pistola. Milano. Pestano un detenuto a San Vittore: condannati otto agenti di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 8 marzo 2022 Le pene vanno da un anno e mezzo a 4 anni di reclusione. Altri quattro agenti imputati sono stati assolti. L’uomo, ora 56enne, sarebbe stato picchiato perché non testimoniasse in tribunale contro gli agenti. Sono stati condannati a pene comprese tra un anno e mezzo e quattro anni di reclusione sette agenti del carcere milanese di San Vittore imputati per le violenze a Ismail Ltaief, un detenuto tunisino all’epoca 51enne, tra il 2016 e il 2017. Lo ha deciso lunedì pomeriggio la settima sezione penale del tribunale di Milano. Altri quattro agenti imputati sono stati assolti. Il pm titolare dell’inchiesta, Leonardo Lesti, aveva chiesto condanne fino a 4 anni di carcere. Stando all’indagine, Ltaief, che si trovava in cella per un tentato omicidio avvenuto nel cosiddetto “boschetto” di Rogoredo (qui il suo racconto ad Andrea Galli sugli orrori del bosco), sarebbe stato “punito” perché nel 2011, quando era in carcere a Velletri (Roma), aveva denunciato degli agenti della polizia penitenziaria - di recente assolti dalla Corte d’Appello di Roma - per presunti furti in mensa e percosse. I pestaggi sarebbero avvenuti pure per impedirgli di testimoniare nel processo “bis” davanti al Tribunale della cittadina laziale sulla vicenda delle presunte ruberie. La maggior parte degli imputati, con le loro famiglie, erano presenti in tribunale durante la lettura della sentenza. Le motivazioni verranno depositate entro 60 giorni. Il legale di parte civile, Matilde Sansalone, dopo la lettura del dispositivo ha commentato: “Al di là della tristezza della situazione che non è edificante, esprimo soddisfazione non per le condanne ma perché è un bene che vengano alla luce comportamenti non consoni a servitori dello Stato e che sono stati così a lungo sottaciuti”. Milano. Beccaria, 9 nuovi “baby detenuti” in un mese di Marianna Vazzana Il Giorno, 8 marzo 2022 Allarme violenza giovanile, in carcere non c’è più posto. Fabrizio Rinaldi, neo direttore: “Incentiviamo il ponte tra dentro e fuori”. Rapine in strada, anche in pieno giorno. Vittime picchiate oppure costrette sotto minaccia a prelevare al bancomat. Età media che si abbassa: basti dire che della “Z4”, la baby gang di Calvairate e Corvetto smantellata dai carabinieri la settimana scorsa facevano parte due dodicenni (non imputabili), tra cui una ragazzina che ha compiuto gli anni meno di tre mesi fa. Un tema caldo, quello della violenza giovanile. E l’Istituto penale per i minorenni Cesare Beccaria è al completo, con 38 ragazzi detenuti, di cui il più giovane ha 15 anni. Come intervenire? Come arginare questa esplosione di rabbia? Ne parliamo con Fabrizio Rinaldi, che da un mese dirige la struttura minorile. Cinquantaquattro anni, di origine partenopea, ha raccolto la sfida continuando a guidare anche la Casa circondariale di Como. Una missione iniziata 25 anni fa con la vicedirezione del carcere di San Vittore. È la prima volta che dirige un istituto penale per minori? Quale aspetto l’ha colpita di più, al suo arrivo? “Sì, è la prima volta. Io ho pensato che fosse un’esperienza da fare, per arricchire me e soprattutto aiutare i ragazzi. Ho trovato un’ottima organizzazione e apprezzo in particolare la collaborazione tra operatori penitenziari, enti locali e realtà del privato sociale, tutti impegnati per il recupero dei ragazzi. L’impegno che ci vuole, per aiutare un giovane, è maggiore rispetto a quello che richiede un adulto. Noi ci occupiamo di creare percorsi personalizzati, e penso che la priorità ora sia incentivare il “ponte”, che già esiste, tra dentro e fuori dal carcere”. Che cosa la preoccupa di più? “L’incremento dei nuovi ingressi. A febbraio sono entrati 9 nuovi ragazzi (6 nello stesso periodo dello scorso anno) e sarebbero stati di più, se ci fosse stato il posto. Adesso abbiamo 38 giovani (30 nel 2021), in una struttura che ha capienza massima di 36. Una capienza ridotta perché c’è un’ala in fase di ristrutturazione da oltre 10 anni (i lavori dovrebbero concludersi entro l’anno) ma anche per le regole anti Covid che hanno ulteriormente limitato gli spazi. Le aree prima utilizzate per ospitare gli arrestati in flagranza ora servono per l’isolamento prima dell’ingresso nel gruppo e nel caso di positività, quindi i ragazzi che non possiamo accogliere vengono mandati in altre strutture. I contagi hanno reso più difficile l’organizzazione: abbiamo avuto 8 casi positivi in contemporanea, che sono stati isolati. Ora l’allarme è rientrato. Con il Dipartimento e il Centro per la Giustizia minorile ci si sta impegnando fortemente per assicurare la migliore accoglienza possibile, anche ricavando nuovi spazi”. Nelle baby gang ci sono partecipanti sempre più giovani. In certi casi, si è notato sui social, bambini tengono pistole in pugno. Come inquadra il fenomeno? “Attualmente bambini e ragazzi tendono a bruciare le tappe in tutto. Non mi meraviglio che anche nel delinquere si anticipino i tempi. Non bisogna dimenticare l’impatto dei lockdown: per tutti, ma soprattutto per i giovanissimi, è stato molto pesante e traumatico dover stare a casa per tanto tempo”. E com’è il primo impatto con il carcere, per i nuovi arrivati? “Molto traumatico. Noi cerchiamo di attenuarlo, con educatori e psicologi. Perdere d’un tratto la libertà, le proprie abitudini, non poter più utilizzare internet, per un adolescente è un grosso problema. In più va incontro a una “doppia reclusione” perché all’ingresso è obbligatorio un periodo di isolamento anti Covid. Anche in carcere si creano dinamiche di gruppo ma c’è più controllo e ognuno impara a essere “responsabile per sé”. Quali sono i principali reati per cui i ragazzi vengono accompagnati in carcere? “Oggi come l’anno scorso, quelli contro il patrimonio (come le rapine) e a seguire contro la persona (come le lesioni)”. In cosa consiste il recupero? “L’obiettivo è la responsabilizzazione. Far scattare una presa di coscienza. Non c’è una ricetta. Tendenzialmente, di giorno si segue l’attività scolastica e, poi, laboratori: panificazione, falegnameria, attività culturali e di svago come calcio, palestra (spazio donato dalla Fondazione Francesca Rava), teatro, grazie alla compagnia Puntozero. Cerchiamo di educare alla bellezza facendo scoprire nuove possibilità di espressione”. Ha in mente altri progetti? “Certamente, nei nuovi spazi restaurati, ci sarà modo di incrementare le aree di socialità e di pensare ad altre attività. Fondamentale è mantenere il rapporto con l’esterno, sviluppare possibilità di crescita e di lavoro, in modo che una volta fuori si possa davvero sperimentare il cambiamento”. Reggio Emilia. Nel carcere un progetto contro la violenza sulle donne promosso da Uisp nextstopreggio.it, 8 marzo 2022 Anche le azioni peggiori possono dar vita ad azioni migliori ed è bello poterne raccontare una, proprio in occasione dell’8 Marzo. In occasione della Giornata contro la violenza sulle donne i detenuti sono stati coinvolti da Uisp in un laboratorio artistico per la produzione di braccialetti e spille che sono diventati protagonisti di una raccolta fondi destinata alla riabilitazione di persone che hanno usato violenza contro le donne. La camminata cittadina organizzata da Uisp lo scorso 27 Novembre insieme a Giuliana Reggio è diventata l’occasione per un’attività solidale che ha coinvolto diversi reparti dell’istituto penitenziario, con l’ausilio di personale specializzato (psicologi, formatori, tecnici di educazione motoria) al fine di sensibilizzare e responsabilizzare i detenuti e la città sul tema della violenza alle donne. Il progetto è realizzato in collaborazione con l’associazione Papa Giovanni XXIII e l’associazione Cipm (Centro Italiano per la Promozione alla Mediazione), entrambe di Reggio Emilia. Il laboratorio artistico ha prodotto dei manufatti (braccialetti, spille) creati a mano dalle detenute con materiale di riciclo ed è stato coordinato da Uisp, che opera da anni all’interno del carcere con un progetto del Comune di Reggio Emilia per l’attività motoria e la salute psico-fisica. Le creazioni dei detenuti sono state poi distribuite nelle palestre associate Uisp raccogliendo 300 euro, che in questi giorni sono stati devoluti alle associazioni che all’interno dell’istituto si impegnano nel progetto SINAPSI destinato agli uomini che hanno usato violenza sulle donne. L’obiettivo del progetto è quello di riabilitare queste persone attraverso l’approfondimento del rapporto tra Corpo e Identità lavorando sulla consapevolezza corporea, il controllo e la conoscenza di sé. Insieme al ricavato della vendita dei manufatti, Uisp consegnerà alle associazioni anche un pallone con il logo “Differenze in gioco”, il progetto promosso da Uisp Emilia-Romagna con il contributo della Regione da cui è nata la camminata del 27 Novembre 2021 e che simboleggia l’impegno del mondo sportivo nella lotta alle discriminazioni e alla violenza di genere. Saranno consegnate anche confezioni di semi di “Fiori Ribelli” per contribuire a seminare contro la violenza sulle donne a favore delle api e della biodiversità. Cagliari. Una lavanderia in carcere ridà valore alla libertà di Claudia Cannatà conmagazine.it, 8 marzo 2022 Ogni mattina, nella casa circondariale Scalas di Uta, a pochi chilometri da Cagliari, entrano in funzione tre grandi lavatrici Sono il cuore pulsante del progetto Lav(or)ando, sostenuto dalla Fondazione Con il Sud e ideato dalla cooperativa sociale Elan, che nel 2019 ha scommesso sulla lavanderia industriale interna al carcere, potenziandola e dando una nuova occasione di formazione e reinserimento professionale a ventiquattro persone sottoposte a provvedimenti penali detentivi. L’obiettivo generale del progetto è consolidare l’esperienza delle lavanderie nelle carceri di Uta e Quartucciu come “infrastrutture permanenti economico educative”, per affiancare il difficile percorso del sistema della giustizia nell’attuazione dell’art. 27 della Costituzione secondo il quale “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Sono nove, finora, i beneficiari del progetto che hanno imparato a gestire non solo la fase di lavaggio, ma l’intera catena di confezionamento dei capi destinati alla stessa struttura penitenziaria e agli enti che hanno affidato loro la cura e il tracciamento delle loro divise. Alcuni detenuti sono andati anche oltre, intraprendendo un percorso (in art. 21) che prevede la possibilità di lavorare all’esterno del carcere, in aziende del territorio che credono in una nuova imprenditorialità fondata su inclusione e accoglienza. Per tutti loro, rappresenta un’esperienza formativa e umana a tutto tondo. L’apprendimento di un nuovo mestiere è stato il punto di partenza per socializzare con i compagni, imparare a lavorare in squadra, riscoprire il valore del lavoro, la dignità personale e l’autostima, di riassaporare la quotidianità e la bellezza della vita. Il prossimo obiettivo è radicare l’esperienza della casa circondariale di Uta anche nel resto del territorio regionale, attraverso il coinvolgimento di realtà imprenditoriali, enti e associazioni operanti in Sardegna. Da un lato, si punta ad attivare delle partnership che possano contribuire alla sostenibilità economica del progetto. Dall’altro, in una visione più ampia e a lungo termine, si vogliono offrire nuove, concrete possibilità di inclusione alle persone sottoposte a una pena detentiva, creando al contempo una rete di imprese solidale e accogliente, fondata sui princìpi dell’economia civile e della responsabilità sociale. Firenze. “Scrittura d’Evasione”, in carcere si impara a diventare autori gonews.it, 8 marzo 2022 Torna a Sollicciano “Scrittura d’evasione”, il progetto di animazione sociale e culturale rivolto alla popolazione carceraria promosso e organizzato da Arci Firenze. Per il settimo anno consecutivo, all’interno del laboratorio di scrittura creativa realizzato dall’autrice Monica Sarsini presso il carcere di Sollicciano, torna il ciclo di appuntamenti dedicato agli ospiti esterni, che incontreranno gli studenti del corso iniziato ad ottobre 2021 e che, negli anni, ha portato nelle aule del carcere fiorentino scrittori, giornalisti e artisti di grande valore: da Wu Ming II a Paolo Hendel, da Saverio Tommasi a Simona Baldanzi. Come successo la passata stagione, a causa del perdurare della pandemia, anche quest’anno gli incontri saranno riservati ai detenuti e non al pubblico esterno. Il primo appuntamento della rassegna è fissato per domani, martedì 8 Marzo, quando i partecipanti del corso di scrittura creativa curato da Monica Sarsini incontreranno lo scrittore e cantautore Marco Rovelli, ex leader dei Les Anarchistes, band vincitrice, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d’esordio. Gli incontri con gli ospiti esterni saranno otto in totale e vedranno la partecipazione in presenza presso il carcere fiorentino di personalità di rilievo come il giornalista e scrittore Ubaldo Fadini; il regista televisivo e documentarista Lorenzo Hendel; la filosofa e saggista Katia Rossi; Padre Bernardo, abate della Comunità Monastica di San Miniato al Monte di Firenze; l’antropologa ed etnologa Maria Gloria Roselli; l’autrice Roberta Mazzanti e lo storico dell’arte oltre che Rettore dell’Università per Stranieri di Siena Tomaso Montanari, che concluderà il ciclo d’incontri martedì 24 maggio. Per questa settima edizione i partecipanti al corso saranno invitati a riflettere attorno alla tematica dei luoghi, qualsiasi essi siano, materiali e non, e sulla capacità degli spazi fisici di influenzare scelte umane e caratteristiche identitarie di ognuno di noi. “Convinta che la scrittura possa consolidare mondi andati in frantumi che non si è saputo in altro modo aggiustare - racconta la scrittrice Monica Sarsini, curatrice del progetto - pensai a Scrittura d’evasione ormai sette anni fa. Con i partecipanti al corso ci siamo ascoltati, conosciuti e sono sempre state le parole a farci attraversare questi paesaggi, fino a giungere a quel luogo in cui si dà voce al proprio vissuto, riportando la propria storia sulla pagina, imparando a leggere e scrivere in modo critico, attento e profondo, a lavorare su un testo e a comprendere le diverse forme della scrittura”. Un corso, “Scrittura d’evasione” su cui il Comitato fiorentino di ARCI punta da anni, in primis per la sua capacità di coniugare inclusione, umanità, solidarietà, cultura e partecipazione. “Scrittura d’evasione - sottolinea Marzia Frediani, Presidente di ARCI Firenze - è un progetto di cui siamo particolarmente orgogliosi, perché mettere la cultura a disposizione della popolazione carceraria, favorendo il confronto e la crescita delle persone è uno degli obiettivi fondanti della nostra associazione. Una società più equa e giusta passa anche dall’accesso culturale per tutte e tutti, soprattutto se si crea l’opportunità di non essere solo fruitori, ma anche protagonisti, come in questo caso”. Anche quest’anno “Scrittura d’evasione” è sostenuto dal contributo del Comune di Firenze nell’ambito del progetto “Realizzazione attività di animazione culturale e socializzazione a favore della popolazione carceraria del Nuovo Complesso Penitenziario di Sollicciano e della Casa Circondariale maschile Mario Gozzini” realizzato in RTI con CAT (Capofila) e Arci Firenze (partner). Il progetto è realizzato grazie alla collaborazione e al sostegno della Direzione di Solicciano NCP e dell’Istituto CPIA 1 Firenze. Chi è l’autrice Monica Sarsini è nata a Firenze e vive nelle campagne vicino alla città. Scrittrice e artista visiva, ha esposto in numerose personali e collettive, in Italia e all’estero, e ha realizzato installazioni, performance e scenografie per spettacoli teatrali d’avanguardia. Tra le sue numerose pubblicazioni: “Crepacuore” (1985); “Crepapelle” (1988); “Crepapancia” (1996) per l’edizione Scheiwiller. Tiene corsi di scrittura nella sezione maschile e in quella femminile del carcere di Sollicciano. Da questi ultimi sono nate tre raccolte: “Alice nel paese delle domandine” (2011), “Alice, la guardia e l’asino bianco” (2013) e “Racconti dalla Casa di Nessuno” (2019) pubblicate dalla casa editrice Le Lettere. Genova. Un libro per scoprire “l’altro” nel laboratorio di scrittura del carcere di Marassi di Filippo Campo Antico Città Nuova, 8 marzo 2022 E il mondo si chiuse fuori è il risultato dello sforzo creativo di un gruppo di detenuti del carcere di Marassi a Genova. Una storia in cui ogni autore si è dovuto inventare un personaggio e farlo interagire con quello degli altri. Il racconto dell’insegnate che ha coordinato il progetto, Grazia Paletta. Laboratorio di scrittura del carcere di Marassi - E il mondo si chiuse fuori (Il Canneto Editore), uscito lo scorso 24 febbraio, non è un semplice libro. È il risultato di un gioco di squadra: dello sforzo creativo di un gruppo di detenuti dell’Istituto circondariale di Marassi (Genova). Il laboratorio di scrittura del carcere di Marassi, tenuto dall’insegnate di italiano Grazia Paletta, si è concluso nella stesura di questo libro. Chi ha preso parte al progetto, si è voluto mettere in gioco e ha voluto superare le mura del carcere con la forza dell’immaginazione. Buongiorno dott.ssa Paletta, come è nata l’idea di questo libro? Durante un corso di scrittura creativa che ho portato avanti dal 2016. Si facevano esercizi di scrittura molto divertenti, un po’ proposti da me e un po’ da chi seguiva il corso. Una volta ho detto: “Perché ognuno di noi non si sceglie un personaggio e proviamo a farlo interagire con quello degli altri?”. La risposta è stata affermativa. Ognuno si è messo all’opera. L’ambientazione era un treno che si era fermato in Patagonia. Anche io avevo il mio personaggio. Ognuno doveva scrivere un pezzetto del racconto e la volta dopo ci saremmo confrontati. È stato divertente. Da lì è nata l’idea di scrivere un libro e la consapevolezza di poterlo realizzare insieme. Che clima si respirava durante gli incontri? Un clima bello e costruttivo. All’inizio è stata dura, ma con il passare del tempo i ragazzi hanno cominciato a essere propositivi. I livelli di preparazione erano diversi. Ma ognuno cercava di fare del proprio meglio e andava in “soccorso” di chi aveva maggiori difficoltà. Parlando venivano fuori vissuti, anche piuttosto pesanti, perché il carcere è un luogo di sofferenza. Ci sono stati momenti di riflessione profonda e di commozione generale. Ma c’era spazio anche per le risate. Quando si arriva a ridere vuol dire che si è a buon punto. Ci sono stati dei momenti di sconforto? Sì. Credo fosse inevitabile. In carcere è normale avere dei momenti di depressione, in cui si vede tutto nero. Un dolore e un disagio profondi che - quando emergevano - si percepivano. Quando abbiamo terminato il libro, però, c’era grande entusiasmo. Scrivere un libro per loro è una cosa importante. Vuol dire lasciare il segno per sempre. Che valenza ha la scrittura creativa nelle carceri? Affronta la detenzione in un’ottica riabilitativa. Si impara a giocare di squadra. A lavorare insieme agli altri e a condividere esperienze. L’attenzione verso il prossimo deve emergere perché le azioni di un personaggio devono tenere in considerazione anche quelle del personaggio altrui, altrimenti la storia non fila. Poi è un’attività che responsabilizza. Quando alcune persone sono uscite dal progetto, per motivi di varia natura, i compagni hanno mantenuto il personaggio e lo hanno portato fino in fondo alla storia. Cosa le ha dato personalmente questa esperienza? Mi ha dato tanto. Vedere i ragazzi che si rispettavano e lavoravano insieme è stata una grande soddisfazione. Sono nati anche dei rapporti umani molto intensi. Scrivendo, si fanno riemergere ricordi e si toccano delle corde dell’animo umano che solitamente con gli amici - nella vita di tutti i giorni - non si toccano. Frosinone. “Letteratura d’evasione”, quando la vita è altrove di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 marzo 2022 Nel libro curato da Ivan Talarico e Federica Graziani, i detenuti del carcere di Frosinone sono riusciti a creare una forte empatia con il lettore in un’antologia di scritti di notevole valore letterario, umano e culturale. Se nel mondo libero può capitare di vivere in condizioni di incertezza, paura, perdita di autostima e crisi interiore, per chi vive recluso in carcere tutto questo è elevato al quadrato. Se oggi - con l’aggravante della pandemia e segnali di guerra - c’è bisogno più che mai di ascolto e di parole che curino l’anima, per i detenuti che hanno una propria storia e vicissitudine, il laboratorio di scrittura può rappresentare l’ancora di salvezza. Ed è il caso di “Letteratura d’evasione”, il libro edito da “Il saggiatore” curato da di Ivan Talarico e Federica Graziani dove i detenuti sono riusciti a sorprendere, creare forte empatia con il lettore e avere tutte le carte in regola per realizzare un’antologia di scritti autobiografici (e non) di notevole valore letterario, umano e culturale. L’antologia realizzata durante il laboratorio di scrittura a Frosinone - Parliamo di una importante esperienza attraverso la quale i detenuti trovano nuova forza, nuovi interessi e un recupero della propria interiorità insieme a gioia e coraggio di vivere, cose che le loro condizioni esistenziali avevano loro sottratto. Come spiega l’abstract del libro questa antologia a firma dei detenuti del carcere di Frosinone è stata composta durante il laboratorio di scrittura ideato e condotto dal poeta e teatrante Ivan Talarico, inserito all’interno del progetto “Fiorire nel pensiero” curato e ideato da Federica Graziani dell’Associazione “A Buon Diritto”. Leggendo tutto il libro, suddiviso per capitoli dove si richiede ai detenuti vari esercizi di scrittura, ci si ritrova a condividere le loro esperienze, vicissitudini, speranze, amori persi e quelli ritrovati. “Raccontare non questo mondo reale, ma quello parallelo” - Al primo esercizio dove i detenuti devono spiegare il motivo per il quale partecipano nel laboratorio di scrittura, Antonio Vampo scrive: “Vorrei partecipare per raccontare ciò che contiene non questo mondo reale, ma quello parallelo che tutti vivono ma non è da tutti raccontare. In ogni caso grazie perché in questo tempo io ero altrove”. Chissà se lo ha fatto intenzionalmente, ma sembra che evochi “La vita è altrove”, frase attribuita al poeta Rimbaud. Ripresa poi da Milan Kundera per il titolo del suo libro, dove il protagonista era un poeta costretto a vivere il periodo della dittatura in Cecoslovacchia. Viveva in una prigione a cielo aperto, per questo il poeta aveva la tendenza ad evadere dalla realtà, a trasportarsi verso un mondo immaginario straordinariamente poetico, un altrove che diventa un luogo non definito e ricorrente, avulso dalla realtà. Per evadere da quella società soffocante, il personaggio di Kundera ha cominciato a immaginare di vivere una vita parallela poetica e romantica, che fa da contraltare a una realtà che lo lasciava profondamente insoddisfatto. Proprio ritornando al libro “Letteratura d’evasione”, non può non sfuggire il capitolo dove i detenuti si esercitano a scrivere una breve autobiografia immaginaria, raccontando la vita che avrebbero voluto vivere. Qui si prova una empatia devastante. C’è chi descrive semplicemente una vita ordinaria. Una famiglia che dà amore e protezione, la possibilità di lavorare serenamente, innamorarsi di una donna per poi sposarsi e fare una bellissima figlia alla quale non le fanno mancare nulla. Chi semplicemente trova l’amore vero e ciò basta per rendere il mondo perfetto. Tutto ciò evoca un passaggio del film “Mommy” di Xavier Dolan. La storia è quella di un figlio molto problematico che per via della sua insostenibile emotività, non potrà mai fare una vita “ordinaria”. In una scena del film, però, con sottofondo la melodia “Experience” di Ludovico Einaudi, sembra che in realtà tutto sia finito per il meglio. Il ragazzo ha continuato gli studi, si è laureato e ha conosciuto una ragazza tanto da presentarla alla madre. Poi arriva il matrimonio e tutto si è risolto per il meglio superando definitivamente i suoi problemi emotivi. Niente da fare, in realtà era solo tutta una immaginazione. La vita, quella vera, ritorna a essere altrove. Ma immaginarla stando in carcere, diventa una evasione vera e propria se tutto ciò viene sublimato attraverso la scrittura. Il tempo diventa una dimensione importante dietro le sbarre. Colpisce ciò che ad esempio scrive Bousmara, partendo dal fatto che è nato in un paese del terzo mondo in cui non c’è futuro sicuro. Arriva in Europa, pensando che fosse più facile. Invece ha “perso tanti anni senza frutti” e adesso si trova in un mondo isolato, in galera. Ha fatto cinque anni, persi dalla sua vita. In più si sta avvicinando la vecchiaia. “Ho capito che per la libertà non c’è prezzo”, conclude. La notte diventa un momento per evadere grazie ai sogni - Ma leggendo tutti gli scritti dei detenuti, si evince anche che c’è speranza e non tutto è perduto. Così come, crea forte impatto emotivo vedere come mettono nero su bianco lo scandire del tempo in carcere. La notte diventa un importante rifugio per dormire ed evadere attraverso il sogno. Ma svegliarsi - come scrive il detenuto Alfredo Colao - di soprassalto e vedere di fronte a sé le sbarre del blindato, la vita sognata svanisce. A quel punto si riaddormenta “con la consapevolezza che un giorno quel sogno sarà realtà”. Ci sono scritti dei detenuti dove emerge l’importanza dei rumori, oppure il vivere in una cella piccola, angusta e senza mobili, ma che attraverso la creatività e ingegnosità dei detenuti stessi, la rendono “abitabile” e quindi dignitosa. A proposito dei suoni, ecco che Emanuel Mingarelli racconta di quando era notte fonda e il silenzio del carcere viene interrotto dal ragliare di un asino proveniente dall’aldilà delle mura circondariali. E quel ragliare lo riporta indietro nel tempo. Anche in questo caso, non si può fare a meno di ricordare “L’idiota” di Dostoevskij, dove proprio il raglio dell’asino svegliò di soprassalto il protagonista. Fu proprio grazie all’udire questo animale, considerata figura mite, paziente e tollerante, che si tolse di dosso il suo peso interiore per poter amare di più il posto in cui si trovava. È impossibile non riconoscersi nelle vite narrate dai detenuti - Nella prefazione c’è Luigi Manconi che sottolinea come il libro dimostri la forza irriducibile della vocazione dell’uomo a narrare e narrarsi, e con ciò “a emanciparsi da vincoli e costrizioni di qualunque specie”. C’è anche la prefazione dello scrittore Alessandro Bergonzoni, il quale così si rivolge ai detenuti: “Nel letto dei vostri scritti mi adagio e sogno, ma non dormo. Mi svegliate alle vite, le vostre e le mie, che adesso riconosco”. E infatti è impossibile non riconoscersi. Soprattutto per questo motivo va assolutamente letto il libro “Letteratura d’evasione”. Una lettura utile anche per ridurre la distanza tra noi e loro. Leggendo alcune loro esperienze autobiografiche che l’hanno portati a compiere reati, aiuta a capire che è semplicemente un mero calcolo probabilistico che non siamo finiti noi dietro le sbarre. Non perché siamo diversi, ma perché abbiamo evitato, chi con lucidità e chi per puro caso fortuito, quelle deviazioni dove in alcune situazioni ambientali è più facile perdersi. Leggendoli, ci si domanda ancora una volta se il carcere sia la soluzione. Ma grazie al lavoro formidabile di Ivan Talarico e Federica Graziani, per quei detenuti la reclusione ha vissuto un momento meno pesante e decisamente proiettato verso la libertà. Luca Zingaretti: “Nel mio carcere la legge” TV Sorrisi e Canzoni, 8 marzo 2022 “Questa fiction vuole dimostrare che nessuno di noi è completamente buono o cattivo. Che progetti ho dopo Montalbano? Teatro, regia e...”. Luca Zingaretti debutta su Sky nei panni di un re, ma senza corona né mantello. “Il re”, dal 18 marzo su Sky Atlantic e in streaming su Now, non è un fantasy o un dramma storico, bensì il primo “prison drama” prodotto in Italia. Questo re di Zingaretti è Bruno Testori, controverso direttore del San Michele, un carcere di frontiera. Sovrano assoluto di una struttura in cui le leggi dello Stato non valgono, perché il bene e il male dipendono unicamente dal suo giudizio. Zingaretti, stavolta il suo personaggio non è proprio “perbene”... “Sì, anche se io non sono così netto nel giudizio. Mi sono sempre dato la regola di non giudicare i personaggi che interpreto. Io devo cercare di coglierne le sfumature, l’umanità, i conflitti. E in questo Testori è un personaggio straordinario. Una sfida per un attore. La bellezza di questa serie, secondo me, sta proprio nel tentativo di scansare i cliché: in fondo nessuno di noi è completamente buono o cattivo”. Qui il protagonista fa anche cose spregevoli... “Certo. Ma Bruno è uno che, a modo suo, è convinto di stare nel giusto. È chiamato a fare il lavoro sporco che la società gli chiede e che nessuno vuole fare. Lui interpreta il suo ruolo con le regole che lui stesso ha stabilito. La domanda che dobbiamo porci è: “Come ci comporteremmo al suo posto?”“. Un personaggio scivoloso... credendo di stare nel giusto si possono compiere nefandezze... “Lo è eccome. Per questo è un ruolo così difficile e impegnativo. Ma se una fiction riesce a porre interrogativi e a generare discussioni su argomenti come questo, ha già fatto centro. Però è anche il tentativo di fare una serie in una maniera diversa. Per costruire il personaggio ho avuto la fortuna di lavorare con attori ex carcerati: oltre ad aiutarci nell’essere verosimili, mi hanno raccontato come funziona la vita lì dentro. Alla fine l’idea che tutti abbiamo del carcere è molto diversa dalla realtà, influenzata dal cinema e dai libri. La verità sul carcere la comprendi solo quando varchi quei cancelli”. Il realismo non è un frequentatore abituale delle nostre fiction. Non teme la reazione del mondo penitenziario? “Francamente spero, e credo, che non ci sarà, perché tutti abbiamo lavorato con molto rigore nel tentativo di raccontare un mondo complesso, che ha molte sfaccettature e purtroppo non tutte gradevoli da vedere. Se qualcuno poi si offenderà pazienza, ma sono certo che in quello che abbiamo girato rivedrà la realtà che lo circonda”. È una serie che si conclude o può continuare? “Diciamo che ha tutte le caratteristiche per continuare. E da quello che si sente dire in giro, pare che sia piaciuta molto. Stiamo a vedere...”. Montalbano ha avuto grande visibilità nel mondo. Non ha mai pensato di fare il grande salto? “Vede, gli attori di Almodóvar sono tutti andati a Hollywood perché in quel mercato c’era bisogno di attori latini. Per noi italiani è sempre stato diverso. In fondo, prima di “Gomorra” s’era visto solo Montalbano. Le occasioni ci sono state, e la tentazione pure”. La pace deve combattere la guerra prima che scoppi di Luciana Castellina Il Manifesto, 8 marzo 2022 No war. Non più armi dentro un conflitto già armato ma cervello, mediazione e capacità di imporre la trattativa. E il pacifismo non può essere più un movimento intermittente. Oltre che per la guerra, comincio ad essere sempre più preoccupata per quanto sta già generando nel nostro paese, a cominciare dal comportamento della Tv. Domenica sera, in uno dei sui tremendi show, si è arrivati ad attaccare a testa bassa Maurizio Landini per il suo discorso alla manifestazione per la pace, accusandolo di essere quasi connivente con le Brigate rosse, e cioè “equidistante” come del resto la Cgil sarebbe stata fra stato e terrorismo. Invano Nicola Fratoianni, presente nello pseudo dibattito, ha cercato di rispondere ricordando il ruolo svolto dal sindacato nel combattere le Brigate rosse: non lo hanno nemmeno lasciato parlare, coprendo la sua voce con i più incredibili attacchi. C’è davvero da avere paura. Sono invece stata assai felice di rivedere in piazza, dopo tanti anni, il nostro movimento della pace - nostro di noi vecchi degli anni ‘80, quando c’era ancora la guerra fredda. E poi in piazza di nuovo nel momento della prima e della seconda guerra all’Iraq, quando Neesweek scrisse in copertina “È nata la terza potenza mondiale”. Operante, intelligentemente, anche nella tremenda vicenda jugoslava. Da allora sono passati quasi 20 anni. E purtroppo l’occasione di questo nostro reincontro avviene perché ci siamo sentiti richiamati dalla criminale oltrechè insensata occupazione armata dell’Ucraina. Un atto che può avere conseguenze inimmaginabili. Se i nostri governanti e i loro menestrelli, invece di mettersi l’elmetto e intonare inni patriottici per decantare i “valori occidentali”; se invece dell’irresponsabile decisione di mandare armi ai ragazzi ukraini, sapendo bene che non potranno vincere i carri armati russi ma solo offrirsi come vittime di un terrificante bagno di sangue; se invece ragionassero su come si può esser più efficaci nel perseguire un compromesso decente, sarebbe ancora possibile impedire che tutto degeneri in una guerra mondiale, combattuta nel territorio più affollato di centrali nucleari. Che l’Europa si assuma la responsabilità di una mediazione - la neutralità sarebbe un obiettivo possibile. Questo è quanto oggi dobbiamo riuscire a imporre. Ma sabato alla manifestazione di piazza san Giovanni ho chiesto ai militanti pacifisti di unirsi tutti in una collettiva autocritica: siamo stati attivi e pronti a rispondere nei momenti esplosivi, ma ci siamo distratti nelle lunghe fasi in cui i disastri venivano preparati. In particolare per quanto riguarda la politica portata avanti dall’Unione europea. Non abbiamo infatti denunciato a sufficienza e per tempo quanto sia stato grave perdere l’occasione della caduta del Muro per dare concretezza al nostro vecchio slogan “Un’ Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali”. E cioè per non imporre, quanto pure sembrava concordato con Gorbaciov: che una volta ritirate le truppe del patto di Varsavia, si facesse altrettanto con quelle Nato; per non aver impedito che l’allargamento dell’Unione fosse condotta in modo da costruire un altro muro militare che ha isolato la Russia anziché coinvolgerla nella costruzione di una rete di cooperazione - quella Casa comune europea che voleva Gorbaciov. E più recentemente per non aver prestato sufficiente attenzione alla guerra civile che devasta la regione al confine meridionale Russa-Ukraina dal 2014. Abbiamo ignorato la crescente frustrazione del popolo russo per esser stato marginalizzato e respinto, e dunque anche noi siamo responsabili per aver contribuito alla crescita del pericoloso potere di Putin, alimentato dalla mortificazione del popolo russo. Chiedo che tutti noi dobbiamo impegnarci a riflettere su questa nostra disattenzione. Se non si vuole più considerare la guerra come strumento della politica estera - come dobbiamo - bisogna impedire che il pacifismo sia soltanto intermittente protesta. Le guerre possono esser fermate solo combattendo quello che le prepara, quello è il tempo in cui serve intervenire. Ora che il guaio è fatto possiamo tuttavia fare ancora molte cose utili e perciò rimbocchiamoci le maniche. L’Arci ha proposto a tutti di organizzare una carovana di autobus, non per portare noi in Ukraina che faremmo solo confusione, “vuoti, a bordo solo l’indispensabile, uno che guida, uno per organizzare”. Perché di questo hanno bisogno ora gli ucraini: di trovare mezzi di traporto per mettersi al riparo. Può darsi che molti ucraini - i maschi coraggiosi rimasti nel paese per combattere - non saranno contenti. Ma tocca a noi spiegare quanto ha realisticamente detto ancora una volta papa Francesco: persino le guerre giuste oggi non si possono più fare. Non è un invito alla resa. È solo un invito a capire che oggi - in presenza di armi di distruzione di massa - si deve combattere con il cervello e non con i fucili, che non è più il tempo della spedizione di Sapri, quando in “300, giovani e forti, sono morti”. Oggi ne morirebbero miliardi. Ero in questi giorni delegata al congresso dell’Anpi di Roma. È stato commovente vedere le/i - non poche/i - partigiane/i sopravvissuti come e quanto abbiano capito questa differenza. Ma straordinaria è stata anche un’altra cosa: la presenza di una quantità di giovani donne che ormai sono leader dell’associazione. È un altro segno che almeno qualcosa di positivo c’è e in questo difficile 8 marzo e vogliamo celebrarla: la rivoluzione femminile. Che è vittoriosa, anche se, ahimè, c’è ancora tanto femminicidio. Le mani tese per l’Ucraina dell’Italia solidale: il Terzo settore in prima linea di Giulio Sensi Corriere della Sera, 8 marzo 2022 Le donazioni di migliaia di cittadini, le iniziative degli e delle istituzioni. Le mobilitazioni nei Comuni, nelle parrocchie, nelle aziende e le raccolte fondi. Tanti camion di aiuti partiti, via all’accoglienza dei primi profughi arrivati. Le prime ad attivarsi subito dopo l’invasione russa sono state le ong italiane storicamente presenti in Ucraina come Aibi - Amici dei Bambini, Soleterre, Avsi. Aibi ha lanciato fin dalle prime ore del conflitto la campagna “Emergenza Ucraina #Bambinixlapace” che richiede il sostegno a interventi di supporto psicologico e la fornitura di aiuti come alimenti, vestiti, materiale scolastico e tutto ciò di cui i bambini hanno bisogno. L’orfanotrofio che l’organizzazione italiana sostiene e gestisce a Volodarka, un paio di ore d’auto da Kiev, in partnership con la fondazione ucraina Drusie Ditiei (Amici dei Bambini Ucraina) ha allestito un campo di accoglienza per gli sfollati. Soleterre, assieme all’Associazione ucraina Zaporuka, ha messo a disposizione la sua casa per i bambini malati di cancro e assicurare loro la continuità delle cure mediche, chemio comprese. Avsi, che già si era organizzata con l’associazione ucraina Emmaus a sostegno degli sfollati nel 2014, si è riattivata per aiutare le persone in fuga verso Polonia e Romania e ha lanciato un appello per raccogliere fondi da destinare all’acquisto di medicine e generi di prima necessità e al supporto psicologico nelle zone di Siret e Leopoli, raccogliendo in meno di una settimana 300mila euro. Anche WeWorld, grazie all’alleanza con il partner ChildFund Germania che lavora in Ucraina dal 2004, ha subito avviato una campagna a sostegno di bambini e famiglie, mentre Cesvi è intervenuta al fianco di People in Need ai confini con la Slovacchia. Una delegazione di Progetto Arca con Uneba è partita da Milano con un convoglio carico di beni di prima necessità: tende e sacchi a pelo, abiti, prodotti per l’igiene, in particolare dei bambini, e alimenti vari. La prima delegazione è già rientrata portando in salvo alcune mamme con i loro bimbi. Sempre Aibi in Moldavia ha avviato un’azione di emergenza per rifornire due punti di prima assistenza alla dogana e un campo profughi nella capitale Chisinau. Ancora in Moldavia, ma anche in Polonia, è presente Intersos che fornisce assistenza medica e protezione ai rifugiati e anche la Protezione civile è subito scesa in campo. Quella delle ong più strutturate non è tuttavia l’unica reazione solidale. Migliaia di cittadini in ogni città italiana stanno infatti donando cibo, medicine, coperte, vestiti a punti di raccolta più o meno improvvisati da cui, con l’aiuto delle Caritas, delle associazioni di volontariato e di alcune organizzazioni ucraine presenti in Italia, si cerca di far partire container verso i primi campi profughi. E quanto a donazioni è robustissima la mobilitazione di aziende e imprese che in pochi giorni hanno messo insieme da Nord a Sud milioni in beni e denaro. Le Misericordie della Toscana in collaborazione con il Consolato ucraino di Firenze hanno raccolto 24 quintali tra farmaci e alimenti non deperibili, trasportati con una propria colonna mobile fino ai confini di Polonia e Romania. A Verona l’Associazione delle donne ucraine ha aperto un centro operativo di aiuti in raccordo con l’Ambasciata e altre associazioni di tutta Italia. E lo stesso Consolato, in accordo con il Comune di Milano, ha aperto milanoconsolato1@gmail.com per chi vuole segnalare la propria disponibilità ad accogliere profughi in arrivo. La medesima cosa si può fare anche registrandosi sul sito refugees-welcome.it per l’iniziativa “Accogli una persona rifugiata”. È estesa la presenza delle Caritas in Ucraina e Caritas Italiana e sostiene i centri attivati da subito in tutto il Paese per accogliere le famiglie, organizzare gli spostamenti, portare i bambini in zone meno pericolose. Caritas Italiana ha aperto anche una raccolta fondi, mettendo subito a disposizione 100mila euro per i bisogni immediati. E la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei) ha lanciato una sottoscrizione straordinaria. Ma le campagne attivate a livello nazionale sono molte: quella di Croce Rossa Italiana Unhcr e Unicef quella che il Corriere ha lanciato con La7 (“Un aiuto subito”, bonifico sul conto corrente di Intesa Sanpaolo IT08 L030 6909 6061 0000 0185 871) ma anche le numerose altre coordinate dalle grandi realtà italiane e internazionali come, fra le altre, Save The Children, Terre des Hommes, Medici Senza Frontiere, Anpas, Arci, Cittadinanzattiva, Emergenza Sorrisi, Fidas, Avis, Banco Alimentare, Modavi, Ibo Italia, Plan, Progetto Sud, Salesiani per il sociale, Anffas, Sos Bambini, Federazione Italiana malattie rare, Vis, Cisom. In prima linea c’è la Comunità di Sant’Egidio, che già sosteneva a distanza 250 bambini ucraini e ha intensificato gli sforzi per raccogliere fondi anche per i profughi diretti in Polonia. Dopo la disponibilità annunciata dai Governi, sono pronte anche le tantissime associazioni che in tutta Italia sostengono i bimbi di quelle terre fin dai tempi dell’incidente nucleare di Chernobyl. Da allora hanno accolto migliaia di bambini, oggi adulti, nei soggiorni estivi, supportando progetti di solidarietà fra Ucraina e Bielorussia, ma non solo. I sindaci di molte città - oltre a Milano già citata, tra le altre Napoli, Novara, Palermo, Bologna - si sono attrezzando per accogliere i rifugiati e favorire i ricongiungimenti familiari; tutti i governatori delle Regioni hanno assicurato la loro collaborazione, parroci e imprenditori offrono spazi per l’accoglienza un po’ ovunque. E ormai dalla fine della scorsa settimana arrivano con frequenza crescente i primi bus di profughi che dall’Ucraina sono riusciti a uscire per approdare in Italia, non solo chi qui ha parenti o relazioni individuali su cui poter contare ma anche i gruppi coordinati da parrocchie, onlus o associazioni: per esempio i ragazzi disabili della casa Don Orione di Leopoli, che dopo un lungo viaggio attraverso la Romania hanno finalmente raggiunto la salvezza a Tortona, in provincia di Alessandria, dove sono ora ospiti del centro Mater Dei della stessa Opera Don Orione. Intanto Arci - con il supporto di Unhcr - ha promosso un’iniziativa “Emergenza Ucraina: informazioni utili”, per fornire le indicazioni necessaria ai profughi. Per entrare in Italia infatti, per un periodo di non oltre 90 giorni, e per raggiungere amici e familiari, le cittadine e i cittadini ucraini sono esenti dal Visto. Il sito della Farnesina può essere consultato per conoscere i dettali Gli aiuti sul teatro di guerra. Fin dall’inizio del conflitto la rete di assistenza in Ucraina è partita per far fronte all’emergenza. Ecco alcuni modi per aiutare i cittadini ucraini. - Se vuoi donare forniture mediche Razom per l’Ucraina: Razom, che significa “insieme” in ucraino, è un’organizzazione di beneficenza di volontari fondata originariamente nel 2014 per sostenere gli ucraini dopo che la Russia ha annesso la Crimea. -United Help Ukraine: un’organizzazione di volontariato senza scopo di lucro che riceve e distribuisce donazioni, forniture mediche e cibo ai rifugiati ucraini, alle persone sul campo in Ucraina e sostiene le famiglie ucraine che hanno perso soldati a causa della guerra. Puoi accedere alla loro raccolta fondi qui e le tue donazioni andranno a fornire assistenza medica di emergenza e aiuti umanitari a coloro che sono in prima linea. - Raccolta fondi per Sunflower of Peace: la raccolta fondi di Sunflower of Peace mira anche a fornire kit di pronto soccorso ai paramedici e ai medici in prima linea. Ogni zaino contiene abbastanza materiale di pronto soccorso tattico per cinque-dieci persone. -Revived Soldiers Ukraine: questa organizzazione no-profit fornisce assistenza medica ai soldati ucraini e fornisce supporto alle loro famiglie. Per aiutare i bambini colpiti dalla guerra -Voices of Children: questa organizzazione aiuta a fornire supporto psicologico e psicosociale ai bambini ucraini colpiti da conflitti armati. -Per supportare i giornalisti in Ucraina The Kyiv Independent: puoi supportare il media ucraino in lingua inglese tramite GoFundMe o tramite Patreon. - Dona all’iniziativa Heart2Heart di Nova Ukraine, che raccoglie fondi assistenza per le persone in difficoltà in Ucraina. -Dona al Comitato Internazionale della Croce Rossa, che fornirà aiuti umanitari agli ucraini colpiti dal conflitto. - Dona all’esercito SOS, che fornisce cibo e altro supporto direttamente alle truppe ucraine. A livello italiano si possono sostenere le ong e sigle che già operano sul campo in Ucraina. Tra queste Medici Senza Frontiere, presente nel Donetsk e nella regione di Lugansk dove supporta i più vulnerabili e i pazienti Hiv. Tra le italiane anche Soleterre, che assiste i bambini ucraini malati di cancro La Caritas ambrosiana ha lanciato una raccolta fondi per aiutare la popolazione ucraina. La raccolta servirà a fornire beni di prima necessità alle chiese ucraine e anche a supportare le organizzazioni caritatevoli dei paesi vicini: presumibilmente la guerra comporterà numerosi profughi. Nelle prossime ore, come abbiamo raccontato qui, aumenterà il flusso di persone in uscita dall’Ucraina verso Ovest. Ai confini dell’Europa, dove si aspetta un milione di persone la crisi umanitaria renderà necessario uno sforzo ulteriore di accoglienza. Su questo fronte si stanno già mobilitando tutte le organizzazioni che lavorano per assistere i rifugiati. Tra le prime associazioni a mobilitarsi, in verità già nei giorni scorsi, è stata la Comunità di Sant’Egidio. Anche la Croce Rossa Italiana ha lanciato un’urgente raccolta fondi finalizzata al sostegno delle enormi necessità, cui stanno dando risposta senza sosta i volontari della Croce Rossa Ucraina. Un’emergenza sanitaria e sociale per la mancanza di acqua, cibo, elettricità e assistenza di cui sono vittime centinaia di migliaia di persone. Il tutto, aggravato dalla pandemia di Covid-19 ancora in atto. Le altre associazioni italiane sono: - Avsi che grazie alla collaborazione con il partner locale Emmaus, ha mantenuto negli anni un rapporto di vicinanza con l’Ucraina: nel 2016, con la Campagna Tende, si era mossa a sostegno delle famiglie sfollate a causa del conflitto cominciato nel 2014, trasferite a Kiev e Charkov. Ora si attiva per prestare aiuto immediato agli ucraini che in questo momento stanno scappando verso la Polonia e la Romania, con il sostegno dei partner locali AVSI Polska e Asocia?ia FDP-Protagonisti in educatie. Qui per donare. - Save the children opera in Ucraina dal 2014, fornendo aiuti umanitari essenziali ai bambini e alle loro famiglie. Ciò include sostenere il loro accesso all’istruzione, fornire supporto psicosociale, distribuire kit invernali e kit igienici e fornire sovvenzioni in denaro alle famiglie in modo che possano soddisfare i bisogni di base come cibo, affitto e medicinali, o in modo che possano investire nell’avvio di nuove attività. Qui per donare. - We world, organizzazione che da 50 anni difende i diritti di donne e bambini in Italia e nel Mondo, si è attivata immediatamente - grazie all’alleanza con il partner ChildFund Germania che lavora in Ucraina da molti anni - per fornire aiuti di emergenza ai bambini e alle loro famiglie durante l’attuale crisi. Qui per donare - Ai.Bi. opera dal 1999 attraverso la Fondazione di beneficenza ucraina Drusie Ditiei Ukraina (Amici dei Bambini Ucraina), la cui sede è a Kiev. All’indomani della notizia dell’ingresso delle truppe russe nel territorio ucraino e dei bombardamenti, Ai.Bi. si è attivata per portare il proprio sostegno ai ragazzi dell’orfanotrofio Volodarka e a tutti i bambini in difficoltà. Qui per donare. -La Federazione Internazionale Terre des Hommes lavora in Ucraina, in particolare nell’area orientale del Paese, dal 2015 a supporto dei bambini più vulnerabili e faremo tutto ciò che è nelle nostre possibilità per rispondere ai bisogni della popolazione, in particolare dei bambini e delle bambine e per continuare a garantire il supporto psicosociale necessario per affrontare il trauma. Qui per donare. - Gli operatori di Intersos sono in questo momento in Polonia e in Moldavia per avviare un intervento a sostegno dei rifugiati provenienti dall’Ucraina. L’obiettivo è fornire cure mediche, protezione e sostegno psicosociale alle persone più vulnerabili, come donne e bambini. Qui per donare - Medici del Mondo, organizzazione umanitaria internazionale presente anche in Italia per garantire l’accesso alle cure a tutti, specialmente alle persone più vulnerabili. È attiva in Ucraina dal 2015, dove fornisce assistenza umanitaria e servizi sanitari specialmente nelle autoproclamate repubbliche indipendenti di Donetsk e Luhansk. Attualmente ha già fornito attrezzature mediche a tre ospedali per curare i feriti ed eseguire interventi chirurgici e sta offrendo consulti medici a distanza con ostetriche e psicologi. Il suo staff internazionale è inoltre pronto ad aiutare i rifugiati in Polonia, Romania e Moldavia. Qui per donare. Contro ogni violenza sui corpi delle donne l’8 marzo è no war di Chiara Cruciati Il Manifesto, 8 marzo 2022 Oggi cortei in tutta Italia per dire no all’invasione dell’Ucraina e alle mille forme del patriarcato, dalla precarietà ai femminicidi. Uno sciopero generale transfemminista a difesa di chi per prime le guerre le subisce, anticipato dall’azione dei collettivi romani alla sede di ProVita e Famiglia. L’appello delle femministe russe e le manifestazioni nel mondo. Le guerre sono combattute sul corpo delle donne, a ogni latitudine. Invasioni armate, occupazioni militari, sanzioni economiche che strangolano i popoli (non i regimi), guerre ideologiche ai flussi migratori o alla pluralità delle identità, che siano etniche, religiose o di genere. Gli ultimi anni hanno visto un’avanzata brutale del dominio maschile e dei suoi strumenti, che si tratti di frontiere chiuse, femminicidi, licenziamenti e precarietà, imposizione di ruoli, discriminazione delle persone Lgbtqipa+. Per questo lo sciopero generale transfemminista di oggi, 8 marzo, chiamato da Non Una di Meno (aderiscono Usb, Cub, Cobas, Slai-Cobas, Adl Cobas, Sgb, Si Cobas e Usi) sarà uno sciopero contro la guerra in ogni sua forma. A partire dall’invasione russa dell’Ucraina fino alle battaglie che quotidianamente si combattono nelle nostre case e nei nostri quartieri. Corpi nelle piazze di tutta Italia per difendere i corpi su cui quelle guerre si abbattono. Lo sciopero è stato in qualche modo anticipato domenica dall’azione dei collettivi femministi delle scuole di Roma che hanno “sanzionato” la sede di ProVita e Famiglia con scritte sui muri e lo striscione “Il corpo è mio e decido io”, dopo l’apparizione nella capitale di manifesti antiabortisti (“Potere alle donne? Facciamole nascere”) che anche lo stesso Comune di Roma aveva fatto rimuovere. Uno sciopero senza una manifestazione nazionale ma con una mobilitazione diffusa sul territorio: da Roma (alle 17 in piazza della Repubblica) a Milano (alle 18 da Piazza Duca d’Aosta), e poi Bari, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Napoli, Palermo e decine di altre città (l’elenco su Fb: @nonunadimeno). L’analisi è completa, ragionata: la violenza bellica ha già prodotto i suoi effetti distruttivi, quelli materiali su città e comunità, quelli sociali di una migrazione forzata verso un’Europa che distingue tra profughi “meritevoli” o meno di accoglienza e che ha come sola prospettiva sanzioni economiche che si abbattono sul popolo russo, molto prima e con molta più ferocia di quanto possa mai subire l’élite politica ed economica di Mosca. E che annulla quanto promesso a fronte della pandemia: “La guerra russo-ucraina - si legge nel comunicato di Non una di meno - ha già azzerato il progetto di rilancio economico europeo, avviato con NextGeneration Eu e con il Pnrr. E l’emergenza climatica scala di nuovo nell’ordine delle priorità: l’approvvigionamento energetico impone il ritorno al carbone, alle fonti fossili e al nucleare per garantire continuità allo sviluppo capitalistico”. “Siamo i corpi, le vite, la carne di cannone di cui si alimenta questo modello di sviluppo”, quelle che subiscono per prime il costo delle tante guerre che sui loro corpi si combatte. Che ci sia la “pace” o ci sia la guerra. Dopotutto, lo sciopero giunge dopo un altro anno di conflitti apparentemente invisibili: in Italia nel 2021 si sono registrati 118 femminicidi, uno ogni tre giorni (di cui 102 commessi in ambito familiare, 70 per mano del partner o dell’ex, secondo la Direzione centrale della polizia criminale). Nel 2020 erano stati 117, nel 2022 già sei. È stato l’anno dell’affossamento - via voto segreto in Senato - del Ddl Zan contro l’omotransfobia, impedendone il riesame per almeno sei mesi tra le grida di giubilo della destra in aula. E l’anno del prosieguo della Dad nelle scuole e nei percorsi formativi che ha aumentato il carico familiare delle donne, mentre quello lavorativo si assottigliava: secondo il “Bilancio di genere” del 2021 presentato a gennaio dal ministero dell’economia, l’occupazione femminile è calata sotto il 50% (-10,1% rispetto alla media europea e -18,2% rispetto a quella maschile) e 1,9 milioni di donne sono state costrette al part-time involontario per non perdere il posto. E tra chi, uomini e donne, in tempo di pandemia lo ha perso comunque, le seconde sono state colpite il doppio dei colleghi maschi. La lotta non ha confini, oggi scioperi e manifestazioni sono previsti in tutto il pianeta, ognuno con le sue priorità: si manifesterà per l’aborto libero, sicuro e gratuito (con le latinoamericane in prima fila, a rivendicare le tante vittorie ottenute nei rispettivi paesi); per la fine della violenza di genere (il caso turco è esemplare, con le donne in mobilitazione da mesi dopo l’uscita di Ankara dalla Convenzione di Istanbul); per un anticolonialismo femminista (“Donne libere in Palestina libera”, lo slogan delle palestinesi) e per la difesa del proprio modello di società (le donne curde del Rojava, scudo al progetto femminista del confederalismo democratico). E poi le femministe russe, affatto timide nel condannare l’invasione dell’Ucraina: “Il femminismo come forza politica non può essere dalla parte di una guerra di aggressione. (…) La guerra intensifica la diseguaglianza di genere. (…) Le femministe russe e coloro che condividono i valori femministi devono prendere una posizione forte contro questa guerra scatenata dalla leadership del nostro paese”, il messaggio della Resistenza femminista contro la Guerra. E in rete circola l’appello a un’azione diffusa in tutta la Russia: “8 marzo: posa dei fiori”. Tra le 12 e le 16 si invita a deporre fiori in un monumento dedicato alla Seconda guerra mondiale, un messaggio di solidarietà al popolo dell’Ucraina perché “l’8 marzo sia il nuovo 9 maggio”, lotta globale al fascismo. In chiusura, un’avvertenza: “Prepararsi alla detenzione”. Abolizione della pena di morte: un’eccezione europea da promuovere di Sara Ficocelli La Repubblica, 8 marzo 2022 Coerentemente col suo impegno per difendere i diritti umani, l’Unione europea è molto attiva nella lotta contro la pena capitale nel mondo. “Visto il periodo di forte tensione internazionale, l’Unione europea dovrebbe stimolare altri Paesi - in primis la Bielorussia - a progredire verso la democrazia, il rispetto dello Stato di diritto e i diritti umani. Un cambiamento che di per sè porterebbe all’abolizione della pena di morte. L’Europa, in questo senso, ha i mezzi per dar prova di leadership e deve intensificare la sua azione esterna per l’abolizione globale della pena capitale”. A parlare, sulla piattaforma dedicata alle proposte dei cittadini della Conferenza sul Futuro dell’Europa, è Matthieu Meunier, che su questo importante argomento viene subito incalzato da un altro cittadino, Teemu Tuominen: “A mio avviso, la pena di morte non dovrebbe essere abolita, anzi rappresenta un buon modo per far valere la giustizia”. Secondo i dati del 2019, sono ben 142 i Paesi nel mondo che hanno abolito la pena di morte per legge o nella pratica, lasciando a 56 il numero di quelli che ancora praticano esecuzioni capitali; 657 le esecuzioni registrate in 20 Paesi (escludendo la Cina, dove si crede che siano migliaia le sentenze eseguite) e oltre 25mila le persone che attualmente si trovano nel braccio della morte. Il numero di esecuzioni nel 2019 è stato il più basso dell’ultimo decennio. Nel 2018 le esecuzioni erano state 690, mentre nel 2017 ne erano state eseguite 993. Circa l’86% di tutte le esecuzioni registrate nel 2019 ha avuto luogo in quattro paesi - Iran, Arabia Saudita, Iraq e Egitto. Si ignorano purtroppo i dati relativi alla Cina, che protegge queste informazioni con il segreto di Stato. (Fonte: Amnesty International) Coerentemente col suo impegno per difendere i diritti umani, l’Unione europea è molto attiva nella lotta contro la pena di morte nel mondo e tutti i paesi Ue l’hanno abolita, in linea con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Bielorussia è l’unico paese del continente europeo che continua a praticare le esecuzioni capitali. In Russia c’è invece una moratoria. Corte di Giustizia internazionale, la Russia non si presenta all’udienza di Natasha Caragnano La Repubblica, 8 marzo 2022 Al via all’Aja l’esame del ricorso di Kiev contro le ragioni addotte da Mosca per giustificare l’invasione dell’Ucraina con la volontà di evitare il genocidio dei russofoni. Alla Corte internazionale di giustizia con sede all’Aja, nei Paesi Bassi, è iniziata la prima udienza sul ricorso presentato dall’Ucraina al più alto organo giuridico delle Nazioni Unite, circa le ragioni addotte da Mosca per giustificare l’invasione russa dell’Ucraina. Kiev sostiene che si basi su false affermazioni di genocidio. Ma la fila di seggi riservati agli avvocati russi è vuota. La presidente della corte, la giudice americana Joan Donoghue, ha spiegato che l’ambasciatore russo nei Paesi Bassi ha informato i giudici che “il suo governo non intendeva partecipare all’udienza”. La Corte internazionale di giustizia giudica le controversie legali tra Stati. “Le sue sentenze sono legalmente vincolanti, anche se i paesi non sempre le rispettano e la Corte non ha poteri esecutivi delle sentenze - spiega il Washington Post - La Corte penale internazionale, anch’essa con sede all’Aja, è invece in carica nell’individuare le responsabilità individuali dei crimini di guerra, come quelli denunciati dall’Ucraina contro la Russia e sue squadre sono già state inviate nelle zone del conflitto al fine di ottenere prove per un potenziale caso”. “La corte si rammarica della mancata apparizione della Federazione Russa in questo procedimento orale”, ha detto Donoghue. Mentre le forze russe assediano le città ucraine, nonostante l’annuncio di un cessate il fuoco per permettere ai civili di fuggire da alcune aree, la Corte internazionale di giustizia ha aperto i due giorni di udienze presso la sua sede, il Palazzo della Pace. L’Ucraina presenterà le sue argomentazioni oggi, mentre la Russia avrà l’opportunità di rispondere martedì. L’Ucraina accusa la Russia di aver manipolato il concetto di genocidio per giustificare l’invasione e ha chiesto che vengano fermate “immediatamente le operazioni militari” lanciate il 24 febbraio, “con l’obiettivo dichiarato di prevenire e punire un presunto genocidio” nelle regioni separatiste orientali di Lugansk e Donetsk. Il presidente russo Vladimir Putin afferma infatti che “l’azione militare speciale” della Russia è necessaria “per proteggere le persone che sono state sottoposte al genocidio” - riferendosi a coloro la cui prima o unica lingua è il russo - nell’Ucraina orientale. Una rivendicazione falsa e per cui l’esercito russo va fermato, “e la Corte internazionale di giustizia deve svolgere il suo ruolo per fare in modo che questo accada”, ha detto un rappresentante di Kiev durante l’udienza. Il documento legale di nove pagine che ha presentato l’Ucraina nega che si sia verificato un tale genocidio nelle regioni separatiste e sostiene che “la Russia ha capovolto la Convenzione sul genocidio”. Al contrario di quello che affermano i russi “sembra che sia la Russia a pianificare atti di genocidio in Ucraina”, si legge nella sua richiesta alla Corte. Russia. Il dissenso interno che pesa sul Cremlino di Gianni Riotta La Repubblica, 8 marzo 2022 Le migliaia di russi che, sfidando arresti e sevizie, sfilano in queste ore in decine di città, da Mosca a San Pietroburgo, al grido di “No alla Guerra”, “Vergogna Putin”, destano ammirazione perché, come i combattenti ucraini in trincea, sfidano il totalitarismo e mostrano quanto nobile sia battersi per la democrazia, i diritti, la verità, invise a troppi occidentali. Sono gli eredi del dissidente sovietico Natan Sharansky, che dopo nove anni in carcere insegnava “in dittatura il coraggio serve per combattere il male, in democrazia per riconoscerlo” o del matematico ucraino Leonid Plyushch, torturato nell’Urss, che lamentava “è mancato il tribunale di Norimberga per le vittime del gulag”. Il loro esempio morale dovrebbe far riflettere chi, nei bistrot europei, discetta di guerra a Kiev, ma basterà a diventare movimento politico e pesare sulle scelte militari di Vladimir Vladimirovich Putin, magari rovesciandolo in futuro? Qui il realismo si impone sull’etica: secondo i sondaggi indipendenti del Centro Levada, il presidente russo gode del consenso della maggioranza dei connazionali e, sostiene una rilevazione del Council on Foreign Relations, da quando ha mosso guerra al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, Putin risale nei favori popolari. Gli sono contro i giovani, i ceti medi colti delle città che popolano le celle della polizia a migliaia, censiti dagli attivisti di OVD-Info, lo applaudono anziani, pensionati, abitanti nelle zone rurali, che l’anemica economia russa, Pil pari a quello del Nord Italia, premia con pensioni e sussidi. Nessuno in Russia si illude che Putin possa essere travolto da un moto popolare spontaneo, o che i suoi terrorizzati gerarchi possano deporlo, come Breznev, Shelepin e il capo delle spie Kgb Semichastny fecero con il leader Urss Nikita Kruscev il 12 ottobre 1964, in un golpe incruento. La censura che il regime ha imposto ai media internazionali, il blocco delle piattaforme social, fanno sì che la disinformazione del Cremlino sia, per milioni di russi, verità. Dice a Repubblica uno dei collaboratori del dissidente Alexej Navalny, prima avvelenato ora detenuto: “Sulle proteste c’è censura, tanti vorrebbero partecipare ma, ignari, restano a casa”. Eppure, sostengono sulla rivista Foreign Affairs le studiose Andrea Kendall-Taylor e Erica Frantz, il colosso Putin è insieme potente e fragile, il suo declino potrebbe non essere lento ma schiantarsi, come capita ai despoti, in fragorosa débâcle. Soprattutto se, come possibile, la Russia si vedesse ingaggiata in una sanguinosa guerra di posizione o se l’occupazione dell’Ucraina si prolungasse tra guerriglia e terrorismo, come l’Afghanistan del 1979 che precipitò la fine dell’Urss. Il Paese è sotto choc, nessuno si aspettava l’invasione, se perfino l’alto ufficiale russo Igor Girkin, veterano del Donbass 2014, alla vigilia dell’attacco si diceva certo fosse solo manovra diversiva, “perché ora l’Ucraina è in grado di difendersi”. “Se Putin cattura l’Ucraina, la perderà, l’ha già persa. Intanto ha isolato se stesso e la Russia. Perderà poi anche la Russia o solo il potere?”, si chiede Andrei Kolesnikov del Carnegie Endowment for Peace. La risposta al dilemma ci serve per giudicare la forza, e la prospettiva politica, dell’opposizione interna a Putin. Coraggio e ideali non bastano, ma se Putin si insabbiasse sulle frontiere dei cosacchi i rapporti di forze muteranno. Le élite russe, private di carte di credito, Iphone e Mac, viaggi in aereo, borse di studio, contratti internazionali, perfino di Mondiali di calcio e sport in tv, con i loro passaporti guardati con sospetto a ogni check in, quanto a lungo chiuderanno gli occhi? Il tennista Andrej Rublev posta online “No War”, un diplomatico del Cremlino a un meeting Onu sul clima chiede perdono per l’invasione ai colleghi, perfino la figlia di un portavoce di Putin posta lo slogan “No Guerra” da Instagram, salvo poi cancellare e un paio di parlamentari danno timidi cenni di dissenso. Gesti isolati, che il tempo potrebbe moltiplicare e per questo il Cremlino alza la censura. Dalla sua cella nella Colonia Penale II, nome mutuato da Kafka, Navalny invia un messaggio al settimanale Time: “Non aspetteremo che Putin muoia, il pendolo della storia girerà”, perché, come in tutte le guerre, anche fra Russia e Ucraina, il fronte interno peserà sulla vittoria finale.