Cartabia e il carcere dei diritti di Gianvito Caldararo nuovogiornalenazionale.com, 7 marzo 2022 Il ministro alla giustizia, Marta Cartabia, sceglie il nuovo capo del Dap in linea con la Costituzione, cioè con l’art. 27 - 3° comma - che stabilisce: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il nuovo responsabile del Dap è il magistrato Carlo Renoldi, per anni giudice di sorveglianza, quindi profondo conoscitore del mondo carcerario italiano, e noto per essere il teorico del carcere compatibile con la Costituzione. Tra i suoi maestri figura il magistrato Alessandro Margara, che fu capo del Dap ed è passato alla storia perché trattava i detenuti come uomini con diritti e dignità umana. Il suo era il “carcere dei diritti”, sia per i detenuti che per gli agenti. Aver scelto un magistrato disposto ad applicare la Costituzione per il sistema carcerario e mai apparso sulla ribalta mediatica, ma lavorando in silenzio, ha suscitato le polemiche in quei settori politici, che ignorando la Costituzione Italiana, adottano lo slogan di “lasciamoli marcire in carcere”: dietro questo slogan, che tanto piace all’opinione pubblica e a certi politici in cerca di facili consensi, c’è la negazione e l’ignoranza del nostro Stato di diritto. La pena deve rieducare, perché chi è in prigione è sempre parte della comunità e i detenuti, prima o poi, comunque escono. Se il 70 per cento dei casi i detenuti tornano a delinquere, ci devono essere delle ragioni. E la ragione fondamentale è che il carcere, come oggi sostiene anche l’ANM - Associazione Nazionale Magistrati - non assolve alla sua missione rieducativa e risocializzante. Un carcere più umano, in grado di portare avanti il difficile compito rieducativo è un carcere più sicuro e allo stesso tempo un carcere che rispetta la dignità di tutti. Quando una persona mette una camicia sporca in lavatrice, si aspetta che esca più pulita. Se la camicia dopo il lavaggio esce sporca, o ancora più sporca, non è colpa della camicia, ma della lavatrice. Voltaire affermava: “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, perché da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione. Non a caso, il presidente statunitense Barack Obama, appena eletto provvide a chiudere il famoso carcere di Guantánamo, noto per le violenze, gli abusi e la disumanità. E la situazione carceraria dell’Italia non appare in linea con le cosiddette “Regole Penitenziarie Europee” e con i principi della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. È molto diffusa la convinzione che il carcere, per alcuni magistrati e giornalisti come Travaglio, è considerato nient’altro che strumento di lavoro e, a volte, anche di tortura psicologica. Infatti, l’ingegnere Gabriele Cagliari, suicidatosi in carcere, scrisse: “Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza teste né anima”. Denunciava: “qui dentro ciascuno è abbandonato a se stesso, nell’ignoranza coltivata e imposta dei propri diritti, custodito nell’inattività, nell’ignavia, la gente impigrisce, si degrada e si dispera diventando in maniera inevitabile un ulteriore moltiplicatore di malavita”. Infatti, chi finisce in carcere verifica che è molto brutto e che al suo grido di aiuto, anziché l’intervento di un educatore o il sostegno dello psicologo, subisce anche ingiustizie e abusi. Situazioni che contribuiscono, in assenza anche di una concreta riabilitazione dopo la punizione, ad uscire, nella maggior parte delle volte, più cattivi di come si è entrati. Chi entra in carcere, ha bisogno di aiuto e non di essere emarginato. E la nomina di un magistrato con un profilo come quello di Carlo Renoldi, deciso da un ministro con una forte caratura di costituzionalista, come la Cartabia, va nella giusta direzione per dare concreta attuazione alla missione riservata al carcere dalla nostra Costituzione. La Cartabia non è come qualche suo predecessore. “La direttiva sulla presunzione di innocenza può essere un boomerang” di Simona Musco Il Dubbio, 7 marzo 2022 Il Pg di Perugia Sergio Sottani ha fornito alle procure del proprio distretto un vademecum sulla direttiva sulla presunzione di innocenza. Le “specifiche ragioni di interesse pubblico” delle informazioni fornite dalle procure ai mezzi d’informazione “andranno valutate con riferimento al territorio ove si cala la notizia, con riguardo al tasso di criminalità ed all’attenzione mediatica per particolari aspetti sociali, oltre che nella doverosa considerazione dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, individuati” dai capi degli Uffici. A scriverlo è il procuratore generale di Perugia Sergio Sottani, che ha fornito alle procure del proprio distretto un vademecum sulla direttiva sulla presunzione di innocenza. Dottor Sottani, la nuova direttiva ha diviso i suoi colleghi tra chi la considera una vera e propria censura e chi, invece, rimarca la doverosità di applicare un principio già esistente ma che spesso è rimasto solo sulla carta. Lei come la giudica? Sono dell’opinione che la normativa raccolga la condivisibile esigenza di tracciare i contatti tra magistrati ed informazione al fine di rendere trasparenti le informazioni che vengono rese sui procedimenti penali nella fase delle indagini. Tuttavia, l’eccessiva formalizzazione delle modalità di comunicazione, rappresentate da comunicati ufficiali e conferenze stampa, rischia di ottenere l’effetto opposto e favorire nella prassi forme di elusione, difficilmente individuabili e, come tali non sanzionabili. La sua circolare richiama il discorso da lei pronunciato in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, evidenziando sia l’importanza dell’informazione sia il dovere dei magistrati di rispettare i diritti di tutte le parti, compresi indagati e imputati, e quindi evitare la spettacolarizzazione. Qual è secondo lei attualmente il rapporto tra giustizia penale e informazione? Ritengo che la cronaca giudiziaria occupi un posto di rilievo nell’informazione, soprattutto quella locale. Questo non credo sia un’aspirazione dei magistrati ma piuttosto un’esigenza degli organi di informazione che agiscono sul territorio. È necessario, in questi casi, evitare che l’informazione da parte dell’autorità giudiziaria venga resa in maniera distorta e fuorviante, ma appaia, oltre che essere, la più obiettiva ed imparziale. La possibilità di monitorare queste comunicazioni da parte dell’autorità giudiziaria, soprattutto quella inquirente, può in ipotesi consentire di verificare il rispetto dei requisiti di una corretta informazione. Di certo va evitata, da parte dei magistrati, ogni forma di personalizzazione, di spettacolarizzazione e di anticipazione dell’esito dei processi. Nella sua circolare lei parla della possibilità che la comunicazione sia anche orale - sempre se trasparente - e rimarca il concetto di notizia di interesse pubblico, per il quale lei fa riferimento anche alla realtà territoriale e all’attenzione mediatica. In questo modo non si rischia, in qualche misura, di eludere la direttiva? Servono, forse, indicazioni più chiare? La nozione di “interesse pubblico” che giustifica il rilascio di comunicati ufficiali non può essere individuata esclusivamente sulle sensibilità del singolo procuratore della Repubblica, ma deve tener conto anche del contesto sociale in cui un ufficio giudiziario opera. Naturalmente delle indicazioni nazionali sarebbero assolutamente auspicabili, e probabilmente verranno redatte, quanto meno dal Csm o dal procuratore generale della cassazione, ma resta il fatto che la formula impone un margine di discrezionalità non eliminabile. I suoi riferimenti alle precedenti circolari del Csm fanno capire che il problema della correttezza dei rapporti tra magistratura e stampa non è nuovo, tuttavia in questi anni c’è stata una gestione ‘ selvaggia’, in alcuni casi, della comunicazione tra le due parti, spesso a scapito della presunzione d’innocenza e dei piccoli giornali. Questa direttiva può scardinare queste storture? La direttiva cerca di risolvere un problema che indubbiamente si è constatato in questi anni di informazione giudiziaria, rappresentato da una rappresentazione spettacolare e fortemente irrispettosa della presunzione di innocenza. Mi ricordo che alcuni anni fa mi è capitato di discutere pubblicamente di un libro bianco della Camera Penale forense sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale, in cui venivano segnalate delle gravi cadute di professionalità nella comunicazione di informazioni sui processi penali. La nuova normativa sicuramente invita ad un particolare rigore nelle forme di comunicazione ma, ripeto, nel suo tentativo di creare un rigido regime nelle forme rischia, di fatto, di mantenere inalterate le precedenti storture. “Non separiamo le funzioni: il pm rischierebbe di perdere la sua vocazione garantista” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 marzo 2022 Eugenio Albamonte: “L’unicità della giurisdizione e la possibilità di passare da una funzione all’altra hanno rappresentato un condizionamento benefico per i pm e non hanno pesato negativamente sui giudici”. Secondo il dottor Eugenio Albamonte, Segretario di AreaDg, se passasse il quesito sulla separazione delle funzioni tra la magistratura giudicante e quella requirente “sarebbe un danno per i cittadini” in quanto “nel tempo assisteremmo ad una perdita di sensibilità da parte del pm in relazione al rispetto delle garanzie e dei diritti delle persone sottoposte a procedimento penale”. Perché “no” al quesito sulla separazione delle funzioni? Innanzitutto il no al quesito si estende al no sullo strumento del referendum utilizzato per affrontare un tema così particolare, soprattutto quando si tenta di trasformare il pronunciamento dei cittadini in un pro o contro la magistratura. Per quanto concerne il merito del quesito, noi abbiamo sempre ritenuto che l’unicità delle carriere fosse collegata indissolubilmente alla possibilità, seppur in un numero contingentato di volte, di consentire il passaggio dall’una all’altra funzione. L’osmosi tra le due, anche se modesta, consente di condividere poi anche all’interno di circuiti di riflessione e di formazione, che sempre più sono aperti all’avvocatura, una cultura comune e unitaria soprattutto sui temi riguardanti i diritti delle persone sottoposte a procedimento penale. Separare le due funzioni determinerebbe nel tempo una perdita di sensibilità da parte del pm in relazione al rispetto delle garanzie. E questo sarebbe un danno per i cittadini. A proposito di osmosi, il professore Giovanni Guzzetta sul Dubbio ha scritto: ‘ma perché l’osmosi tra pm e giudici dovrebbe operare solo (beneficamente) a favore di una cultura garantista dei pm e non potrebbe, al contrario, funzionare per inquinare di germi “polizieschi” gli organi giudicanti?’. Dobbiamo analizzare quello che succede nel nostro Paese dove l’unicità della giurisdizione e la possibilità di passare da una funzione all’altra ha sempre rappresentato un condizionamento benefico sull’ufficio di Procura e non malefico su quello del giudice. Le faccio una obiezione: se un giudice condivide con il pm la cultura della giurisdizione, che però non condivide con la difesa, allora vuol dire che quel giudice non è terzo... Sono il pm e l’avvocato che dovrebbero avere la cultura del giudice. Poi, come dicevo all’inizio, io non penso che ci siano dei compartimenti stagni: tutti noi ne diamo testimonianza ogni giorno non solo nelle aule di tribunale ma anche nelle occasioni di confronto e formazione comuni tra avvocati e magistrati, al di là delle posizioni da comunicato stampa. L’obiettivo è proprio quello di avvicinare in una unica cultura le tre posizioni del processo, ispirandosi al modello del giudice. Qualche avvocato potrebbe dirle che però l’articolo 358 cpp (Il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell’articolo 326 e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini) non viene mai applicato... Quando capita di trovarsi dinanzi ad un reato eclatante, quale ad esempio un omicidio, fare le investigazioni anche a favore dell’indagato significa innanzitutto non tralasciare le piste alternative, anche se una sembra più solida delle altre. Inoltre vuol dire non sottrarsi dal verificare gli elementi che anche la difesa porta. Mi permetta un’altra considerazione. Prego... Il pubblico ministero non è soltanto il soggetto che esercita l’azione penale. È anche colui che chiede l’archiviazione: e lo fa nella maggior parte dei casi non perché si sia preso un abbaglio, indagando un innocente, ma perché all’esito delle indagini si rende conto che gli elementi che ha raccolto non sarebbero sufficienti a motivare una sentenza di condanna. E questo può avvenire soltanto perché il pm condivide la cultura del giudice. La capacità del pm di applicare questo filtro è fondamentale: se non lo facesse, probabilmente si arriverebbe comunque ad una assoluzione, ma intanto l’imputato subirebbe l’onere economico, morale e sociale di un processo. In conclusione, torno all’inizio di questa intervista. Contestando lei il metodo referendario su questo tema delicato, farà campagna per l’astensione o per il no? Non credo sia corretto, anche agli occhi dei cittadini, fare una campagna per l’astensione. Chi, nella storia di questo Paese ha pensato di percorrere la via dell’astensionismo - ricordo il famoso ‘andate al mare’ della Prima Repubblica non ha avuto mai grande successo. Quello che secondo me è importante è dare un contributo - e la magistratura lo deve fare - in tutti i luoghi e i momenti richiesti per spiegare la sua posizione in modo che i cittadini siano in grado, se decideranno di andare a votare, di esprimersi con consapevolezza. Ciò deve essere fatto per rispetto dello strumento referendario. “Io dico sì: è indispensabile per la terzietà del giudice rispetto alle parti del processo” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 marzo 2022 Giuseppe Rossodivita: “Con tutto il potere politico e mediatico che hanno acquisito le procure, tendo a riscontrare sul campo che siano i pm a inquinare con germi polizieschi gli organi giudicanti”. Per l’avvocato Giuseppe Rossodivita, segretario del Comitato Radicale per la Giustizia Piero Calamandrei, il quesito sulla separazione delle funzioni, promosso da Lega e Partito radicale, è fondamentale per aprire la strada alla vera separazione delle carriere. E replica alla critica dei magistrati per cui giudice e pm condividono la stessa cultura della giurisdizione: “È una ipocrisia, basta guardare quante volte viene applicato l’articolo 358 cpp: mai”. Perché “sì” al quesito sulla separazione delle funzioni? Se passasse il quesito non ci sarebbe più la possibilità di passare dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa. Quindi ne conseguirebbe una scelta iniziale della funzione che si vuole ricoprire senza poter più cambiare nell’intero corso della carriera. Così si realizzerebbe uno dei capisaldi di una giustizia penale ispirata ai principi liberali, ossia la terzietà del giudice rispetto alle parti. Tale principio è finalizzato a garantire che le tesi dell’accusa e le tesi della difesa siano valutate da un giudice equidistante da entrambe le parti. Senza un giudice terzo si dà vita ad una giustizia di tipo paternalistico. L’argomento che usano all’interno della magistratura per opporsi alla separazione delle funzioni e poi delle carriere è che giudici e pm condividono la cultura della giurisdizione... Esattamente per questo motivo noi vogliamo la separazione delle funzioni. Se un giudice afferma che con una parte processuale - il pm in questo caso - condivide la cultura della giurisdizione, che però non condivide con l’altra parte processuale - la difesa - allora già vuol dire che quel giudice non è terzo e che il rapporto di forze in aula è squilibrato a svantaggio dell’imputato. Inoltre il tema della cultura della giurisdizione è una classica ipocrisia, la stessa dell’obbligatorietà dell’azione penale. Perché? Pensiamo all’articolo 358 del codice di procedura penale (Il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell’articolo 326 e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini). Questo non viene mai applicato e lo dico avvicinandomi ai 25 anni di professione e dopo essermi confrontato con tanti colleghi. E poi chi garantisce che la cultura del giudice si trasferisce a quella del pm e non viceversa? Con tutto il potere politico e mediatico che hanno acquisito le Procure tendo a riscontrare sul campo, come ha scritto anche Giovanni Guzzetta sul vostro giornale, che siano i pm ad inquinare con germi “polizieschi” gli organi giudicanti. Quindi non è d’accordo con quanto detto dal Consigliere Csm Nino di Matteo a Piazza Pulita per cui i migliori giudici sono quelli che hanno fatto i pm e viceversa? Non è così alla prova dei fatti, in base a quello che succede quotidianamente nelle aule giudiziarie. Proprio lei sul Dubbio ha acceso un faro, con una iniziativa meritoria, sulle gravi criticità che quotidianamente si verificano nelle aule nel momento della gestione della cross examination da parte di moltissimi giudicanti che tendono a dare ai PM tutto lo spazio che vogliono, mentre intervengono a limitare l’esercizio del diritto di difesa, spesso, purtroppo, anche con arroganza. Questo scenario contraddice quanto detto dal dottor Di Matteo in tv. Avvocato le faccio una obiezione, prendendo sempre spunto da Di Matteo che nella stessa trasmissione ha evidenziato come i passaggi tra pm e giudici si aggirano intorno all’1 per cento, dopo la riforma del 2006. Quindi il problema posto dal quesito referendario sarebbe sopravvalutato... E allora se il problema non esiste, non capisco perché si preoccupino tanto del referendum. Anzi, venissero tutti a votare sì. Forse temono il quesito perché aprirebbe la strada alla separazione delle carriere. A proposito di questo, lei prima citava Guzzetta. Sempre lui dal Dubbio critica i cosiddetti “benaltristi”, coloro che osteggiano il quesito perché “ci vorrebbe altro per risolvere il problema”... È vero che questo quesito non riguarda la separazione delle carriere vera e propria. Siamo consapevoli del limite dello strumento, siamo consapevoli che occorre una riforma costituzionale per centrare l’obiettivo della separazione delle carriere. Nonostante questo, non si può negare che se passasse questo referendum rappresenterebbe un passo molto importante verso l’obiettivo principale che potrebbe essere raggiunto di conseguenza tra qualche anno. Verrebbe quotidianamente vissuta la necessità di andare a separare propriamente le due carriere. Quindi mi auguro che i benaltristi vengano a votare per il sì perché questo quesito è fondamentale per tracciare il percorso che ci condurrà a quello che da decenni chiediamo. Il quesito, molto più stringente rispetto alla proposta di riforma Cartabia, vivrebbe anche qualora l’emendamento governativo fosse approvato? Dovrebbe essere così. Speriamo che sia così e che la Corte di Cassazione non ci riservi sorprese, qualora dovesse passare la riforma in Parlamento così come immaginata dalla ministra. Ufficio per il processo chiave di volta per rendere più rapida la giustizia civile di Laura Salvaneschi Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2022 La riforma del processo civile è pensata per muoversi su tre linee direttive. Quella organizzativa, quella di incentivazione dei mezzi alternativi di risoluzione delle controversie e quella delle modifiche normative. Chiunque rifletta sullo stato di crisi della giustizia civile, con la consapevolezza delle troppe riforme già ideate nel passato con esito negativo, sa però che il tema non sono le norme, ma la struttura organizzativa del sistema L’esperienza di plurime riforme normative del tutto fallite lo dice in modo chiaro. La legge 206 del 26 novembre 2021, che disciplina la delega al Governo per l’efficienza del processo civile, si segnala però, rispetto a tutte le riforme che l’hanno preceduta, perché non si limita a una proposta di carattere normativo, ma intende operare anche e proprio sul piano organizzativo. Campeggia su questo versante la delega a modificare e generalizzare l’ufficio per il processo, già operante con buoni risultati in alcuni tribunali e corti d’appello all’avanguardia. L’idea è semplice. Si tratta di affiancare il giudice con addetti assunti con bandi ad hoc: un primo gruppo di circa 8mila risorse ha preso servizio nei giorni scorsi nei tribunali e nelle corti d’appello. Valendosi di un ufficio da lui diretto e coordinato, il giudice non dovrà più fare tutto da solo, ma potrà fruire di una struttura di supporto nello studio dei fascicoli, negli approfondimenti giurisprudenziali e dottrinali, nella predisposizione delle bozze dei provvedimenti e anche nella valutazione dei presupposti per la mediazione della lite. Insomma, si passerà in via generalizzata da una partita in solitario a un gioco di squadra. Così facendo, il giudice dovrebbe poter ridurre i tempi della decisione. L’idea innovativa è quella di non promuovere solo un supporto di natura giuridica, ma anche l’utilizzo ottimale degli strumenti informatici, il cui potenziamento è chiave di volta per il successo della riforma. Il processo dovrà diventare infatti tutto telematico e anche affidato a soluzioni tecnologiche nuove. La legge delega non si limita a interventi normativi ma intende affrontare il piano organizzativo processo avrà poi anche compiti di catalogazione, archiviazione e messa a disposizione dei precedenti giurisprudenziali, in modo tale da favorire l’uniformità della giurisprudenza, perché il singolo giudice potrà confrontarsi in tempi rapidi con i precedenti da altri catalogati e sistematizzati. Ancora, al nuovo team che assisterà il giudice sarà affidato il compito di coordinamento con le cancellerie, idealmente non più soffocate di carte ma informatizzate, e anche l’analisi e la preparazione dei dati sui flussi di lavoro, vero campo su cui occorre lavorare. L’ufficio per il processo è quindi una base di partenza perché il lavoro congiunto di giuristi, informatici e ingegneri gestionali possa portare a risultati positivi. E che l’intenzione sia quella di operare con competenze promiscue lo dicono i progetti già affidati alle Università, che stanno studiando il funzionamento dell’ufficio per il processo mettendo insieme tutti questi operatori, alla conquista per il processo civile di quel “tempo ragionevole” che è oggi lettera morta della nostra Costituzione. Un risultato questo che si può ottenere non certo cambiando un’altra volta il già massacrato codice di rito, ma solo lavorando sull’organizzazione. Ma non tutto il quadro è rosa. Gli scettici segnalano che queste squadre sono pensate come composte da persone a tempo determinato, il cui tempo di formazione rischia di infrangersi sul tempo solo triennale della loro durata. E dagli uffici giudiziari si elevano segnali di preoccupazione sull’organizzazione di queste squadre. Il giudice è oberato, il rapporto tra il numero dei giudici e il numero di cause che ogni anno vengono introdotte segnala con chiarezza dov’è il problema Se i giudici sono troppo pochi per il lavoro che devono svolgere, come faranno a organizzare queste squadre? E perché dovrebbero dedicare impegno a personale che nasce a scadenza? L’ufficio per il processo è quindi solo un primo passo, ancora denso di interrogativi. Ma la strada è quella giusta e va con tenacia pensata e organizzata Il tema è l’organizzazione della giustizia e si può risolvere solo sul piano gestionale e non su quello normativo. Maltrattamenti in famiglia, non perde credibilità la donna se denuncia solo dopo la separazione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 7 marzo 2022 Al centro del ricorso il giudizio sull’autosufficienza e sulla decisività della prova dichiarativa della parte offesa. La condanna del marito per i maltrattamenti alla moglie può ben fondarsi sulle sole dichiarazioni della donna, di cui i giudici abbiano però riscontrato l’attendibilità. Pur stante l’impossibilità di verificare ogni singolo dettaglio oggetto delle sue dichiarazioni accusatorie. E a smentire la veridicità del racconto offerto dalla parte offesa non sono affatto sufficienti le testimonianze di persone che - a seguito di una sporadica frequentazione della coppia - affermino di non aver mai assistito a litigi o a comportamenti prevaricatori dell’uomo sulla donna. Il giudice deve solo dimostrare di averle considerate per svalutarle in termini di rilevanza. Dice, infatti, la Cassazione con la sentenza n. 7885/2022, che affermazioni di tal fatta non sono idonee a smentire la sussistenza di un reato che per sua natura è normalmente commesso al riparo da occhi esterni, cioè all’interno delle mura domestiche. I maltrattamenti sono spesso agiti per vessare, frustrare e isolare la vittima dal resto del contesto sociale. L’essere non visto spesso costituisce la molla che consente al marito padrone di esercitare il suo violento desiderio di potere assoluto originato dall’impulso delirante della gelosia. Come nel caso trattato, l’uomo geloso esprime l’inclinazione al controllo della donna, considerandola come un bene di sua proprietà. Nella vicenda affrontata in sede di legittimità, il ricorso del marito violento mette in evidenza la non credibilità della donna in relazione ai reiterati maltrattamenti che asseriva di aver subito anche durante la convivenza coniugale. Non credibile, secondo l’ex marito, perché li aveva denunciati solo dopo anni. Quando - ormai intervenuta la separazione - aveva sporto querela per le lesioni subite da lei stessa al momento di un diverbio tra l’ex marito e il nuovo compagno, anch’esso vittima di lesioni sanzionate con la medesima condanna. La Cassazione conferma il giudizio di merito dove afferma come plausibile che la donna in quell’occasione - sicuramente confortata dalla presenza di un nuovo compagno - avesse trovato una forza di reazione che non aveva quando conviveva con chi la teneva in stato di prostrazione. Infine, la Corte conferma anche la condanna del ricorrente per le ripetute violenze sessuali perpetrate quando, già separato, si introduceva nell’ex casa coniugale e costringeva la donna a subire rapporti intimi contando sulla sua impossibilità di reagire senza coinvolgere i figli presenti nell’abitazione. Anche su questo punto si tratta di delitti commessi in totale assenza di testimoni. Il fulcro del convincimento del giudice sta nell’aver riscontrato su passaggi fondamentali del narrato della vittima il crisma della verità e quindi la sua piena attendibilità in base alla quale condannare l’imputato. La Cassazione non ha riscontrato alcuna carenza motivazionale. Napoli. Restyling di Poggioreale, l’attesa sta per finire: dopo quattro anni tutto pronto di Viviana Lanza Il Riformista, 7 marzo 2022 L’attesa (forse) sta per finire. Conviene rimanere cauti perché anche un anno e mezzo fa si annunciò l’imminente avvio dei lavori per la ristrutturazione dei padiglioni più fatiscenti di Poggioreale e poi tra il dire e fare ci sono stati di mezzo burocrazia, lungaggini, rinvii. Ieri il garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, e il provveditore alle Opere pubbliche della Campania, Placido Migliorino, hanno avuto un incontro per discutere proprio di come saranno impiegati i fondi stanziati dal Ministero e bloccati per anni al Provveditorato. E anche fare il punto sui tempi che saranno necessari per far partire i lavori. Un dato c’è: saranno ditte campane ad eseguire i lavori. Sono state già individuate. Ora si tratta di passare ai fatti. Si parte dalla ristrutturazione di quattro padiglioni del carcere di Poggioreale, e a seguire la costruzione di un nuovo reparto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, la ristrutturazione del carcere minorile di Airola e la realizzazione di un nuovo carcere a Nola. “Entro due mesi partiranno i lavori per la ristrutturazione dell’intero padiglione Salerno di Poggioreale, poi si procederà agli interventi nei padiglioni Genova, Italia e Napoli. Tutti saranno completati entro tre anni dall’inizio dei lavori. Gli interventi costeranno 14 milioni di euro. È stata già individuata la ditta - fa sapere Ciambriello. Sono soddisfatto di questa prima notizia, perché il padiglione Salerno sarà rinnovato in modo da prevedere spazi e servizi dedicati all’istruzione e alla formazione, oltre a un’aula multifunzionale, una stanza per gli educatori, una cucina, e soprattutto la ristrutturazione e l’adeguamento dell’intero padiglione, con celle per poche persone e dotate di servizi igienici. L’ambiente è importante per evitare che il carcere diventi un cimitero dei vivi”. Addio degrado, quindi? Chissà se davvero si potrà parlare di spazi della pena dignitosi e in linea con il dettato costituzionale. Aria di novità anche a Santa Maria Capua Vetere, dove è in programma la realizzazione di un nuovo reparto con posti per 250 detenuti. L’obiettivo è quello di sistemare in maniera dignitosa i detenuti che già sono in cella, non di creare posti per far crescere il sovraffollamento. “Per il carcere minorile di Airola sono stati stanziati 12 milioni e mezzo di euro - spiega il garante - intanto a breve inizieranno i lavori per la ristrutturazione della facciata dell’edificio”. Resta il nodo Nola: il discusso nuovo carcere che dovrebbe sorgere nell’hinterland è un progetto fermo da anni e che divide le opinioni fra chi lo reputa necessario e chi no. “Il Provveditorato alle Opere pubbliche ha chiesto al Ministero competente di portare dai 100 milioni, per la costruzione di un carcere di 1200 posti, a 300 milioni l’importo complessivo del progetto”. Si vedrà. Udine. Il carcere di è sovraffollato: chieste misure alternative per chi è vicino a fine pena diariofvg.it, 7 marzo 2022 In via Spalato ci sono 146 detenuti a fronte di 86 posti. “È assolutamente necessario che queste persone non siano considerate come gli ultimi e che, facendo seguito ai solidi principi contenuti nella Costituzione, esista realmente la garanzia della tutela dei diritti umani fondamentali. Come Consiglio regionale, perciò, verificheremo quali sono le possibilità che la legislazione ci offre per favorire la soluzione della piaga del sovraffollamento che conduce a condizioni di pericoloso stress, provocando anche atti di autolesionismo e condizionando fortemente le menti dei carcerati”. Lo ha sottolineato nella Casa circondariale di via Spalato a Udine il presidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia, Piero Mauro Zanin, intervenuto alla conferenza stampa indetta dal Garante dei Diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Udine, Franco Corleone, per presentare la relazione semestrale e una serie di iniziative collaterali. Un programma articolato in tre sezioni (“Il carcere dopo il Covid”, “Il bilancio dell’attività del 2021” e “L’Agenda del 2022”) che, a fine incontro, ha condotto le autorità a visitare la nuova palestra, allestita grazie al contributo di alcuni donatori, al terzo piano della struttura nell’ex cella 17. “Sono stati mesi molto duri - ha spiegato Corleone - con 23 ospiti e 7-8 agenti contagiati. È stata necessaria una quarantena per contenere il focolaio. Ora c’è la volontà di mettersi tutto alle spalle e di riprendere il cammino per costruire il dopo Covid. Tuttavia, rischiamo l’esplosione con 146 presenze e una capienza di 86 posti, scesa a 80 per l’inagibilità di tre celle. Perciò, ho chiesto di evitare arresti in carcere per reati non gravissimi, adottando invece altre soluzioni”. “Rimane ancora molto da fare. Iniziando dalle condizioni delle strutture e dalle opportunità che hanno i reclusi per potersi reinserire. Attenzioni - ha aggiunto il presidente Zanin, replicando alle preoccupazioni espresse dal Garante - che un Paese deve tenere a cuore nei confronti di chi è più sfortunato. Se è infatti vero che la pena deve risultare riabilitativa, è necessario un impegno determinato fino alla soluzione del problema, perché altrimenti sarebbe come nascondere la polvere sotto il tappeto. Visto che molti reclusi sono quasi a fine pena, diventa quindi fondamentale immaginare un reinserimento attraverso progetti che consentano loro di tornare a pieno titolo nella società”. “L’analisi di ambito locale fatta dal Garante - ha proseguito Zanin - può essere replicata anche per le altre carceri della regione. Uno dei problemi è il sovraffollamento, insieme alla necessità di percorsi di reinserimento e di formazione, basati su formatori ed educatori. Una risorsa umana che, tuttavia, manca: mi farò parte attiva con il Garante regionale dei Diritti della persona, Paolo Pittaro, per studiare un meccanismo che possa supportare queste necessità con le risorse a disposizione dell’Assemblea legislativa, perché questo incide sulla salute mentale e il carcere deve avere una funzione di riabilitazione, non solo di pena”. “Dopo la palestra, l’infermeria e la cappella, la ex sezione femminile - ha dettagliato il Garante Corleone - diventerà presto un polo culturale. Rimangono, però, alcune situazioni di grave difficoltà: il sovraffollamento, la salute mentale e la disponibilità di un solo educatore per evitare il rischio della ricaduta, costruendo invece un’uscita dal carcere protetta”. “Bisogna intervenire sulla capacità di svolgere delle attività - ha concluso il presidente dell’Assemblea legislativa, dopo aver visitato l’ex cella 17 - e, in questo caso, dopo la cappella e la biblioteca, la possibilità di allestire una piccola palestra consente ai detenuti di riavvicinarsi alla vita normale. Insieme all’interesse da parte del Consiglio regionale nei confronti dei detenuti, inoltre, esiste una forte attenzione da parte della Regione Fvg anche nei confronti delle strutture e della polizia penitenziaria che vi opera con una scarsezza di risorse sulla quale lo Stato deve intervenire”. Firenze. Ordinarie scene di vita quotidiana nel carcere fiorentino di Sollicciano di Daniela Domenici pensalibero.it, 7 marzo 2022 Il “panneggio” per comunicare a distanza, il ritrovo per pregare dei detenuti islamici e la sezione trans. Ma la via verso una detenzione secondo quanto previsto dalla Costituzione è ancora lunga. Il comma 3 dell’art. 27 della nostra Costituzione sancisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del/la condannato/a. Queste parole sono scolpite nella mia mente e nel mio cuore e sono state il mio modus operandi sia quando ho fatto la volontaria nel carcere di Augusta dal 2008 al 2010 (su cui ho scritto il mio saggio “Voci dal carcere”) e ancora di più quando sono stata prof. d’inglese nel carcere di Sollicciano a Firenze nell’anno scolastico 2016/2017. Sollicciano si trova al confine tra il comune di Firenze e quello di Scandicci e la prima impressione che dà, appena lo vedi, non è quella dell’articolo 3 della Costituzione. Piuttosto di un brutto, triste ed enorme Colosseo dei nostri giorni: non so se fosse questa l’intenzione di chi l’ha progettato. Da una parte del semicerchio c’è la sezione maschile, dalla parte opposta c’è quella femminile e quella trans; al centro dell’enorme cerchio spazi aperti per fare sport. Sì, perché Sollicciano è una delle poche carceri italiane che ha anche la sezione delle persone trans MtF. Sei anni fa quando insegnavo là alle superiori c’erano una decina di detenute trans, quasi tutte di origine brasiliana, alcune delle quali incontravo e con cui chiacchieravo nel corridoio della scuola durante l’intervallo, il quarto d’ora d’aria. In classe avevo, come alunno, in quinta, un giovane trans FtM con il quale, dopo che gli ho donato il mio saggio sul mondo trans, è nato un dialogo fatto di fiducia e rispetto reciproco e che mi ha dato l’occasione per parlare, un giorno, con alcuni agenti di polizia penitenziaria su chi siano i e le trans e su come interagire con loro: credo sia stato uno scambio molto proficuo per entrambi. Ho avuto l’occasione anche di vedere il “panneggio” che esiste solo a Sollicciano e che è un modo per “dialogare” a distanza grazie a un alfabeto gestuale fatto con panni bianchi, panneggio appunto. Durante una lezione nella sezione protetta, quella delle persone isolate dal resto della popolazione carceraria, ho notato un inizio di panneggio, mi sono avvicinata alla finestra per cercare di capire cosa si stessero “dicendo” da più di cinquecento metri di distanza e due miei alunni si sono subito resi disponibili a “tradurre” una parte di quel dialogo che, mi hanno detto, di notte si trasforma: non più panni bianchi ma lampadine. Una cosa che non si può immaginare finché non si entra dentro un carcere è come le persone islamiche possano praticare la loro fede anche dentro quelle alte mura; in classe avevo un giovane che ogni giorno alle due (noi delle superiori insegnavamo dalle 13 alle 17) usciva dalla classe per rientrare dopo un po’. Un giorno gli ho chiesto dove andasse e mi ha risposto che tutti e tutte si ritrovavano in un punto dei corridoi per la preghiera, chi portava un cuscino, chi una coperta per appoggiare le ginocchia. Ho avuto anche il piacere di assistere a due spettacoli teatrali all’interno di Sollicciano grazie a una formidabile regista che è riuscita a far collaborare detenuti e detenute mettendo in luce le potenzialità di ognuno/a di loro perché il comma 3 dell’art. 27 della Costituzione non rimanga lettera morta ma persegua il fine di rieducarli/e affinché escano uomini, donne e trans migliori. Santa Maria Capua Vetere. Da detenuti ad aspiranti chef: un corso di cucina fuori dal carcere casertanews.it, 7 marzo 2022 L’iniziativa fortemente voluta dalla garante Belcuore. Da detenuti ad aspiranti chef. È questo il progetto messo in campo dalla garante provinciale per i detenuti della provincia di Caserta Emanuela Belcuore che mira alla risocializzazione dei reclusi in vista della loro prossima libertà. L’iniziativa si rivolge ai detenuti che sono in regime di semilibertà. “Siccome il carcere di Santa Maria Capua Vetere non ha fondi per questo tipo di attività ho chiesto aiuto al garante regionale Ciambriello - spiega - Inseriremo alcuni detenuti nei corsi di cucina organizzati dall’istituto Don Bosco di Frattamaggiore”. Una bella opportunità per i detenuti che avranno l’occasione di imparare i segreti della cucina dallo chef Ivano Nocca ed intraprendere un percorso formativo - con enormi possibilità di sbocco anche lavorativo - all’esterno del penitenziario. Avellino. La moda come sguardo verso il futuro dopo il carcere di Francesca Ferrara news48.it, 7 marzo 2022 Un progetto di stile quello di Patrizia Visone, fondatrice del brand Vitrizia, destinato alle donne del carcere femminile di Bellizzi Irpino, in provincia di Avellino. Un progetto di conquista di un nuovo saper fare, e saper rifare, ispirandosi a modelli del passato quanto agli stili contemporanei per un’attività di artigianato handmade che permette di creare, inventare e personalizzare i propri manufatti, per poi anche venderli e ricavarne un’attività lavorativa. Creatività e Moda per l’inclusione nel mondo del lavoro. Non è banale che un progetto di creatività, disegno, stile e moda possa essere strumento di apprendimento di un mestiere artigianale quale quello della magliaia, su misura e, al contempo, un punto di partenza per un rilancio ad un nuovo stile di vita per l’inclusione sociale, finito il tempo della detenzione. L’apprendimento di quello che in dialetto napoletano e campano viene identificato come “‘a fatica”, cioè il mestiere (chiavi in mano), dentro una casa circondariale femminile, è occasione anche della scoperta di un talento, di un’indole e di una competenza che permette di creare, nel tempo libero, ma anche di poter monetizzare avviando un’attività lavorativa più in stile imprenditoriale, in un secondo momento, terminato il tempo della pena. I progetti di corsi applicativi e laboratori pratici sono strumento di un rilancio verso una vita all’insegna della legalità e dell’inclusione sociale e della valorizzazione delle proprie capacità personali. L’imprenditoria femminile dentro le carceri - Molti sono i progetti per la riabilitazione dei detenuti nelle carceri. Molti sono orientati agli uomini e meno offerta vi è per le detenute. Al carcere di Bellizzi Irpino, l’imprenditrice Patrizia Visone, fondatrice e styledesigner del brand Vitrizia, ha presentato un progetto di creatività che si è concluso con l’allestimento di una mostra delle creazioni realizzate dalle ospiti della casa circondariale. Il progetto moda di Patrizia Visone è stato promosso dal Garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello. Il corso è stato strutturato in 6o ore suddivise in 20 incontri da maggio a dicembre 2021 per imparare l’arte della maglia ai ferri ed uncinetto, con lana e cotone. Quanto realizzato rientra nei progetti utili per la riqualificazione delle persone in difficoltà, nel mondo del lavoro e di occasione di conoscenza di un antico mestiere, oramai tramandato di generazione all’interno dei nuclei famigliari, che è invece uno strumento di possibilità lavorativa e di creazione di una nicchia di mercato redditizia. Questo genere di percorsi aiutano le ospiti detenute a volersi bene, a prendersi cura di se stesse e ad aumentare l’autostima e a prendere coscienza delle proprie capacità e consapevolezza di un talento che non sapevano di avere. Un percorso di formazione di una competenza e alla scoperta del come poter impiegare il proprio tempo e le proprie risorse in una piacevole attività che possa anche essere anche leva per lo sviluppo di un futuro all’insegna della legalità. Si tratta di laboratori che creano percorsi lavorativi, guardando al futuro, concluso il tempo della reclusione, e indirizzano al momento di una riallocazione ed integrazione in un contesto sociale ed economico locale. Il lavoro, la dignità del lavoro è una conquista in campo sociale in qualsiasi contesto. E si tratta di una conquista ancor più delicata quando si tratta di inserimento delle donne nel mondo del lavoro. Il progetto di Vitrizia - “Lo scopo del laboratorio era sviluppare, in loro, un senso estetico e creativo con un pensiero ed un gusto personale che possa trovare mercato, tutto questo partendo dal laboratorio di lavoro a maglia. Abbiamo provato a creare articoli senza schede, articoli di proprio ingegno e gusto. L’ intento era di dare forza al loro talento e dare consapevolezza e fiducia che si può lavorare su sé stesse creando cose uniche” - spiega Patrizia Visone e continua: “Tra i punti fondamentali del progetto la consapevolezza e la responsabilità verso sé stesse e verso le altre”. Il corso, sponsorizzato dal Consiglio della Regione Campania grazie al Prof. Ciambriello, si è concluso il 18/19 dicembre, con un’esposizione-mercato al circolo della stampa di Avellino. “In quel caso, anche se sotto il mio occhio, della psicologa Barone e quello della Caritas - racconta Visone - le donne che hanno avuto il permesso di uscire e partecipare all’evento, hanno gestito autonomamente, ed in personale responsabilità verso le altre recluse non presenti, l’esposizione e la gestione delle donazioni personali rispetto ai manufatti. L’interesse dei visitatori alla mostra-mercato è stata la misura dell’andata a buon fine dell’operazione di formazione del percorso. L’augurio è che possano continuare ad usare quanto appreso durante il laboratorio per crearsi un nuovo percorso di vita e perché no, anche di lavoro. Presto conto di andarle a trovare”. Forlì. Lavoro in carcere, un’opportunità di reinserimento sociale e un vantaggio per l’impresa forlitoday.it, 7 marzo 2022 Il Comune di Castrocaro Terme e Terra del Sole dal 23 settembre è diventato “partner di rete” del Protocollo Altremani. Palazzo Pretorio ha ospitato sabato mattina il seminario promosso dal Comune di Castrocaro Terme e Terra del Sole dal titolo “Carcere e lavoro: dai vantaggi per l’impresa alle opportunità di reinserimento sociale” alla presenza di Palma Mercurio, direttore della Casa circondariale di Forlì; Lia Benvenuti, direttore generale Techne, agenzia formativa pubblica che coordina i laboratori con funzioni di regia; ed i rappresentanti di alcune imprese che commissionano lavori ai laboratori ovvero Davide Saputo (Cepi), Pietro Bravaccini (Vossloh Scwabe Italia) e Cristian Ciani (Crd Ldamiere). “Questo seminario - esordisce Marianna Tonellato, sindaco di Castrocaro e Terra del Sole, che ha coordinato l’incontro - è stata un’occasione per presentare ai cittadini, ed in particolare agli imprenditori del territorio, le motivazioni di tale adesione perché sono fortemente convinta che il lavoro in carcere possa essere sicuramente un’opportunità di reinserimento sociale per il detenuto, ma anche un reale vantaggio per l’impresa”. Il Comune infatti dal 23 settembre è diventato “partner di rete” del Protocollo Altremani, che ha dato vita ai laboratori nei quali lavorano, ogni giorno, detenuti della Casa Circondariale di Forlì, ovvero il Laboratorio Altremani di assemblaggio e di saldatura. “Altremani comprende 2 laboratori - spiega Benvenuti - uno di assemblaggio ed uno di saldatura entrambi interni al carcere. Nato nel 2006 - continua la Benvenuti - il Laboratorio di assemblaggio rappresenta un’esperienza di grande successo, per nulla scontato all’interno di un carcere, sia in termini occupazionali che economici; Altremani, infatti, rappresenta un’eccellenza a livello nazionale non solo per gli oltre 90 detenuti che in questi anni ha coinvolto, ma anche grazie all’autosufficienza economica raggiunta dal Laboratorio, superando le difficoltà strutturali, logistiche, normative e relazionali caratterizzanti le attività in carcere che spesso ne compromettono non solo l’autosufficienza economica ma la stessa sostenibilità”. Anche il più recente laboratorio produttivo di saldatura, nato nel 2020 in piena pandemia, si sta dimostrando un’iniziativa di grande successo sia in termini occupazionali che produttivi. Con l’intento di insegnare un mestiere ai detenuti e offrire loro una professionalità che possa essere spendibile al termine della pena, il laboratorio nasce come spin off del laboratorio di assemblaggio Altremani, che funge da coordinamento dei laboratori produttivi interni al carcere. “Questi laboratori hanno raggiunto risultati per nulla scontati - sottolinea Mercurio - ottenuti grazie al lavoro e alla collaborazione di una rete territoriale fatta di enti pubblici e privati nonché di preziosi collaboratori interni ed esterni al carcere. Oggi nel carcere di Forlì ci sono 149 detenuti - continua la Mercurio - e dare lavoro in carcere significa dare una speranza a questi detenuti che attraverso un mestiere vengono rieducati alla legalità e possono diventare, una volta usciti, protagonisti attivi della società civile”. “Ci sono limiti oggettivi operando in carcere - evidenzia Bravaccini - dovuti ad aspetti organizzativi e logistici complessi ma il vantaggio economico per l’impresa è indiscutibile, la qualità delle lavorazioni è molto buona ed i tempi di consegna vengono rispettati; tutti aspetti da non sottovalutare - continua Bravaccini - che permettono ai laboratori di essere concretamente competitivi sul mercato, rappresentando una reale opportunità per l’imprenditore”. “I detenuti che lavorano nel laboratorio di saldatura interno al carcere seguono una formazione specifica - spiega Saputo - che li porta a diventare manodopera specializzata capace di garantire alti standard di qualità. Nella nostra azienda - continua Saputo - lavorano 2 ragazzi provenienti dal carcere che si sono dimostrati lavoratori preparati e capaci, con una forte motivazione e un grande desiderio di riscatto”. “Fornire commesse ai laboratori - spiega Ciani - significa per un’impresa credere nel valore sociale e riabilitativo del lavoro ma significa anche poter contare su costi molti convenienti che ripagano dei diversi disagi che sono insiti nell’operare in un carcere”. In Italia il tasso di recidiva tra i detenuti è ancora molto alto ma di fronte ad esperienze di lavoro in carcere, quali il Laboratorio Altremani, si riescono a raggiungere obiettivi di reale rieducazione, riabilitazione e reinserimento del detenuto nella società. Spesso il cittadino chiede allo Stato un carcere “custodiale” e repressivo non avendo invece coscienza del fatto che la chiave per scongiurare i pericoli di recidiva è il lavoro, unico mezzo di vera rieducazione e riabilitazione. Verona. “Crisi della giustizia: le riforme possibili”, l’incontro a Garda di Gerardo Musuraca L’Arena, 7 marzo 2022 “Che la giustizia sia in crisi, non è affatto un mistero e lo ha ricordato a più riprese anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Basta guardare il recente caso Palamara e anche, soprattutto, la guerra intestina che si è scatenata all’interno delle così dette “correnti della magistratura” per capire che una riforma è assolutamente imprescindibile. Partendo da questi presupposti, abbiamo organizzato l’incontro che si intitola “Crisi della giustizia: le riforme possibili”, convocando come relatore un giudice del tribunale di Verona, il dottor Andrea Mirenda”. A spiegarlo sono i membri della Università del Tempo Libero di Garda che, assieme al Circolo Culturale Pal del Vo’ di Garda, hanno organizzato un incontro fissato per giovedì 10 marzo alle 17 al Palazzo Pincini-Carlotti. Mirenda è attualmente giudice del tribunale di sorveglianza di Verona ma è stato per molti anni nel tribunale civile di Verona, a capo della sezione fallimentare. Il suo è un nome “scomodo” nella magistratura italiana dato che ha denunciato, a più riprese, il “malcostume” e il “mercimonio messo in atto dalle correnti interne al Csm per decidere gli incarichi direttivi”, come lo stesso magistrato ha più volte ribadito pubblicamente e con articoli di stampa. “A maggiore ragione”, hanno chiuso da Garda, “in questo particolare momento che è in pratica la vigilia della votazione di cinque referendum sulla giustizia e in una fase storica in cui è in atto in Parlamento una discussione sulla riforma della giustizia proposta dal ministro Marta Cartabia, sarà ancora più interessante conoscere i dettagli di questa riforma. E, con questi, anche gli eventuali trabocchetti che la stessa riforma può riservare ma che i non addetti ai lavori magari non sono in grado di vedere”, hanno chiuso da Garda. A moderare l’incontro ci sarà il sindaco di Garda, Davide Bendinelli, deputato di Italia Viva. La cosa, dunque, sarà ancora più interessante visto lo scontro che Matteo Renzi, leader di Italia Viva, ha in atto con la magistratura di Firenze per il caso della Fondazione Open che, secondo la Procura di Firenze, avrebbe finanziato proprio il partito di Renzi. Se la giustizia finisce sotto processo di Michele Ainis La Repubblica, 7 marzo 2022 “Senza vendette”, il libro intervista di Stefano Folli e Luciano Violante. Dalla separazione delle carriere alla responsabilità civile, allo scontro con la politica: perché i cittadini hanno perso fiducia. Il libro-intervista è un genere letterario ormai molto affollato: Amazon ne offre in vendita più di duemila esemplari. Una fortuna recente, dato che questo neologismo - ci informa la Treccani - risale al 1984. E il canovaccio si ripete senza mai troppe varianti, con l’intervistatore (solitamente un giornalista) che pone domande compiacenti e l’intervistato (un personaggio della politica, della cultura, del costume) che a sua volta detta risposte compiaciute. Però ogni regola ha le proprie eccezioni. Ne è prova un volumetto appena atterrato in libreria, dove si sviluppa un dialogo pressoché alla pari fra due voci entrambe molto note. Luciano Violante e Stefano Folli firmano infatti una ricostruzione a tutto tondo del travagliato rapporto fra politica e giustizia, visitando l’intera storia repubblicana, dalla Costituente ai nostri giorni. Il titolo ha un sapore programmatico: Senza vendette. Ricostruire la fiducia tra magistrati, politici e cittadini. Ma sul programma i due autori esprimono vedute non di rado contrapposte, e il sale del libro sta forse proprio in questo, in uno stimolo per noi lettori a prendere partito, o magari a immaginare un punto di vista terzo rispetto a quanto ci viene prospettato. Qualche esempio. In primo luogo la responsabilità civile dei magistrati, su cui nei mesi scorsi era stato chiesto un referendum che la Consulta ha adesso invalidato. Accadde pure durante gli anni Ottanta, con la differenza che a quel tempo il referendum venne ammesso, ottenendo l’80 per cento dei consensi. Violante rivendica la bontà della legge Vassalli che ne circoscrisse poi gli effetti, stabilendo che lo Stato risponde direttamente al cittadino; dopo di che, se vuole, si rivarrà sul magistrato. E Folli: tuttavia lo Stato italiano non ha mai chiesto a un magistrato di rifondere il danno, ed è esattamente questo che giustifica la vox populi, ossia l’impressione che non sia cambiato granché nella sostanza. Ma le divergenze toccano vari altri aspetti dell’organizzazione giudiziaria. La separazione delle carriere, dove invece il referendum è stato ammesso, sicché in primavera voteremo. Nel frattempo Folli si dichiara a favore (la possibilità che un pubblico ministero diventi giudice, o viceversa, è “un controsenso”), Violante no (“accentuando la separazione, si accentua lo strapotere delle procure”). O ancora, ulteriore punto di dissenso: la massiccia presenza di magistrati negli uffici del ministero della Giustizia e del Csm. Criticata da Violante, giustificata da Folli (perché succede anche in altri ministeri, all’Interno dove lavorano i prefetti, alla Difesa con i generali, agli Esteri con gli ambasciatori). In altri casi, viceversa, le due voci si fondono, tratteggiano un’unica denuncia, supportandola con una messe di dati. Sulla campagna elettorale permanente, che rende conflittuali e instabili le nostre istituzioni: negli ultimi vent’anni abbiamo partecipato a 34 elezioni nazionali o locali, a sei referendum abrogativi e a 3 referendum costituzionali. Sull’accanimento giudiziario: ne fu vittima Lorenzo Necci, Ad delle Ferrovie, processato per 42 volte e sempre assolto; politici di destra e di sinistra, come Mannino, Pittella, Bassolino, talvolta arrestati o processati per vent’anni, prima d’ottenere un’assoluzione piena; senza dire dei tanti sconosciuti. O infine sulle porte girevoli fra politica e magistratura (siamo il Paese in cui due pubblici ministeri, Di Pietro e Ingroia, hanno fondato due distinti partiti politici). Ma dopotutto è un altro il punto decisivo. Concerne le ragioni del conflitto, della prevaricazione reciproca tra questi due poteri. Concerne inoltre il moto ondoso di riforme e controriforme che perennemente ridisegnano la linea di confine tra la cittadella politica e quella giudiziaria. In senso giustizialista dopo Tangentopoli, di cui ricorre adesso il trentennale; e infatti all’alba degli anni Novanta venne perfino emendata la Costituzione, rendendo più impervia l’amnistia e restringendo l’area delle immunità parlamentari. In senso garantista durante i governi Berlusconi, sicché alla fine del decennio la Carta fu corretta in senso opposto, introducendovi i principi del “giusto processo”. Fino all’approdo ipocrita cui stiamo assistendo in questi anni, giacché ciascun partito si mostra garantista con gli amici, giustizialista con i propri nemici. Ecco, da dove scaturisce l’anomalia italiana? Scrive Stefano Folli: questa condizione patologica deriva da una disarmonia, dallo squilibrio fra una politica sempre più debole e una magistratura sempre più potente, se non anche prepotente. Sarà così, benché al momento si registri una doppia debolezza, una doppia crisi di sfiducia popolare che colpisce ambedue i poteri. Aggiunge Luciano Violante: è colpa del tarlo deposto dai costituenti, che generarono un sistema debole, esaltando il primato del diritto (quindi della magistratura) sulla politica. Sarà vero anche questo, benché ciò costituisca il fondamento stesso dello Stato di diritto (“non è il Re che fa la legge, ma la legge che fa il Re”). E tuttavia, al di là delle sue cause, è impossibile negare gli effetti del disordine, per come vengono illustrati da Violante e Folli: un diluvio di leggi incomprensibili, che costringe i giudici a creare la norma, anziché applicarla; e che rende più insicura la vita collettiva. Dopotutto, in questa lunga guerra fra politica e giustizia, siamo noi le vittime civili. Le disuguaglianze che economia sommersa e criminalità portano con sé di Enzo Valentini* Il Domani, 7 marzo 2022 Dato che il concetto è plurale, il dibattito sulla disuguaglianza avviato da Domani si sta sviluppando evidenziandone le diverse dimensioni (ad esempio, quella relativa all’istruzione). È utile anche riflettere su come le disuguaglianze possano intrecciarsi con altre dimensioni relative alla qualità dello sviluppo. In questa sede, si propone qualche spunto derivante dalla letteratura economica che si occupa di come le disuguaglianze interagiscono con economia sommersa (o lavoro nero) e criminalità (in particolare, quella “organizzata”). Il tema è centrale nel contesto italiano e suggerisce alcune riflessioni, evidenziate in chiusura del contributo, in merito all’impostazione del Pnrr. L’economia nascosta - In primo luogo, l’economia sommersa può incidere sulla misurazione della disuguaglianza. L’esistenza di “sommerso” (e relativa evasione fiscale) implica che una parte dei redditi non sia registrata dalle statistiche prodotte con dati amministrativi (per esempio, dichiarazioni dei redditi). È anche difficile immaginare che nelle indagini campionarie, condotte con interviste, i cittadini dichiarino redditi che percepiscono in nero. Come noto, l’Italia ha un alto livello di economia “non osservata” (17,5 per cento del Pil contro 2,3 per cento dell’Olanda o 6,7 per cento della Francia, secondo l’Ocse). Non ci sono motivi per pensare che l’evasione sia uniforme lungo la distribuzione del reddito ed è quindi probabile che una percentuale elevata di sommerso intacchi le statistiche sulla disuguaglianza, sottostimandola se i ricchi evadono più dei poveri, e sovrastimandola in caso contrario. La letteratura empirica suggerisce che in Italia sia più plausibile la prima ipotesi. Il reddito delle fasce più ricche è composto prevalentemente da reddito da capitale (rendite finanziarie e/o immobiliari) e da lavoro autonomo, fonti per cui esistono maggiori possibilità “tecniche” di evadere il fisco rispetto ai lavoratori dipendenti, che occupano invece le fasce più basse della distribuzione. Secondo la Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva (2021), la propensione all’evasione del reddito Irpef da lavoro dipendente è del 2,8 per cento (da lavoro irregolare), mentre è pari al 66,9 per cento per il reddito da lavoro autonomo e impresa. Pertanto, il livello reale delle disuguaglianze nel nostro paese potrebbe essere maggiore di quello evidenziato dalle statistiche. Meno risorse alle fasce povere - A parte le questioni di “misura”, la letteratura si è occupata anche della possibile relazione tra estensione dell’economia sommersa e ampiezza delle disuguaglianze. Per le regioni italiane, questa correlazione è evidenziata in figura (se la presenza di sommerso fa sottostimare le disuguaglianze, la relazione reale è più forte). La correlazione non dice nulla di una eventuale relazione causale e della sua direzione. Un possibile approccio è il seguente: la polarizzazione del reddito alimenta un sentimento di sfiducia nella società e nelle istituzioni che può favorire il non rispetto delle norme e alimentare un disincentivo a finanziare programmi pubblici (cioè, un incentivo a evadere le tasse). Ci sono anche ragioni che possono suggerire una direzione inversa (dall’economia sommersa alla disuguaglianza). Ad esempio, un elevato livello di sommerso riduce le entrate fiscali e quindi mina la capacità di fornire beni e servizi pubblici; tra questi l’istruzione, con effetti negativi sulla mobilità sociale. Maggiore evasione fiscale significa minori risorse da destinare alle fasce povere, cioè minore capacità di redistribuire. Inoltre, evadere le tasse riduce la pressione competitiva sulle aziende, disincentivando l’innovazione e favorendo attività di rent-seeking, ad esempio volte a salvaguardare poteri monopolistici che favoriscono i profitti a discapito dei consumatori, aumentando la disuguaglianza. La criminalità - Lo stesso tema si pone per la relazione tra criminalità organizzata e disuguaglianza: la correlazione è evidente (figura), ma resta ambigua la direzione di un’eventuale relazione causale. Nella teoria economica della criminalità gli individui allocano il tempo tra mercato e attività criminali confrontando il rendimento atteso delle due opzioni, tenendo conto della punizione attesa (data dal prodotto tra probabilità di essere punito ed entità della multa). In questi modelli, la presenza di una forte disuguaglianza aumenta gli incentivi a delinquere perché individui a basso reddito vivono a contatto di individui ad alto reddito che possiedono beni (o accedono a servizi) che loro non possono raggiungere con il reddito legale. Di qui, l’incentivo a raggiungere quell’obiettivo attraverso strade illegali. Ma ci sono anche ragioni per ipotizzare una relazione inversa (la criminalità organizzata aumenta le disuguaglianze). La presenza di criminalità in alcune zone spinge i ‘ricchi’ a scegliere di vivere in altre zone, creando una segregazione fisica che può perpetuare o esacerbare le differenze di status economico e sociale. Gli studenti poveri vivranno in zone a rischio criminalità, con scuole peggiori, una peggiore istruzione e quindi peggiori prospettive di lavoro. Studi condotti all’estero mostrano come la presenza di criminalità possa diminuire il tasso di partecipazione al sistema educativo e i risultati scolastici, e i dati italiani confermano questa tendenza. Infine, proprio nelle regioni italiane la criminalità minorile risulta correlata con la disoccupazione giovanile. La difficoltà di individuare relazioni causali univoche deriva dal fatto che i fenomeni sono legati tra loro. Uno studio basato sulla teoria dei giochi evidenzia come la collusione tra potere pubblico e organizzazioni criminali possa essere più probabile in società polarizzate; se questi due attori colludono, i cittadini (soprattutto i più deboli) sono ulteriormente spogliati delle loro ricchezze e la disuguaglianza si perpetua. L’impressione è che esistano complesse e non univoche relazioni tra disuguaglianza, marginalità sociale, debolezza istituzionale e criminalità attraverso le quali i diversi fattori si rafforzano reciprocamente in un circolo vizioso. Questa tendenza può sfociare in società disuguali, caratterizzate da istituzioni deboli e corrotte, e con poche opportunità di uscire da questa trappola in cui la disuguaglianza convive con il crimine e l’economia sommersa. Sottovalutare queste relazioni preclude la possibilità di cogliere nella loro complessità i divari nei sentieri di sviluppo regionali che caratterizzano in particolare il sud Italia. La pandemia impatta negativamente in più nodi del circolo vizioso: se da un lato evidenzia ed amplia le disuguaglianze, dall’altro è un’occasione di business per la criminalità organizzata, che ha “soccorso”, o si è accaparrata, le attività in difficoltà. Il Pnrr è un’occasione per frenare il circolo vizioso e tamponare il peggioramento causato dalla pandemia. Le risorse, sia negli investimenti puramente infrastrutturali che negli interventi per i servizi pubblici (scuole, asili), dovrebbero essere indirizzate in modo consistente verso il meridione, con finalità perequative tra nord e sud, ma anche allo scopo di ridurre i fenomeni di marginalità territoriale e sociale interni al mezzogiorno. Come segnalato da Viesti in audizione alla Camera, al momento non esistono garanzie che almeno il 40 per cento delle risorse sia effettivamente investito nelle regioni del Sud (come in teoria deciso dallo stesso governo) e l’impatto territoriale dipenderà dall’esito combinato di più processi (tempi di cantierabilità dei progetti, capacità di progettazione e spesa delle amministrazioni locali, etc.) che influiranno sia quantitativamente che qualitativamente sull’efficacia e sull’effettiva ripartizione territoriale degli interventi. Inoltre, sarebbe cruciale evitare che il Pnrr veicoli denaro e lavoro verso aziende legate alla criminalità organizzata, ma lo snellimento delle procedure di appalto e subappalto non promette nulla di buono in tal senso. *L’autore è professore associato presso l’Università di Macerata in economia pubblica Ius scholae, le vite sospese di Flavia Amabile La Stampa, 7 marzo 2022 La proposta del M5S ha riacceso il dibattito sulla cittadinanza ai figli di genitori stranieri: un limbo in cui vivono più di 800 mila minori. Non ci sono stati toni trionfalistici né dichiarazioni entusiaste. È con una cauta speranza che gli italiani senza cittadinanza hanno accolto la proposta del presidente della commissione Affari costituzionali alla Camera, Giuseppe Brescia dei Cinque Stelle di introdurre lo ius scholae per legare il riconoscimento della cittadinanza ai minori stranieri al percorso scolastico. I requisiti necessari prevedono l’arrivo entro il 12esimo anno d’età e aver frequentato almeno cinque anni di scuola, oppure uno o più cicli scolastici. È l’ultimo di numerosi tentativi per eliminare gli ostacoli presenti nelle vite di oltre 800 mila minori figli di genitori stranieri e di un numero ancora più elevato di stranieri che hanno più di 18 anni ma non hanno ancora ottenuto la cittadinanza nonostante abbiano frequentato le scuole in Italia. La legge attuale prevede due requisiti: dieci anni di residenza continuativa e comprovata e un reddito di oltre 8 mila euro per chi presenta la domanda. Sono criteri che possono diventare una gabbia per molte persone. Innanzitutto perché l’iter dura un numero imprecisato di anni anche se per legge era prima indicata la scadenza dei 4 anni, un’attesa che Matteo Salvini quando era ministro dell’Interno ha dimezzato. Sulla carta. Nella realtà chi è in attesa di cittadinanza vive sospeso in uno spazio diverso da quello riservato ai suoi compagni di scuola e di università, costretto a ricalcolare di continuo sogni, prospettive e priorità come in un navigatore impazzito. Ada Ugo Abara è originaria della Nigeria ma ha frequentato le scuole in Italia dalle medie in poi. Ha presentato domanda, da quattro anni attende una risposta che non sa quando arriverà. “Nel frattempo la mia vita è in pausa e i miei sogni limitati al passaporto che possiedo. Aspetto di capire se l’Italia mi sbatterà l’ennesima porta in faccia”. Ada Ugo Abara fa parte del direttivo del Conngi - Coordinamento Nazionale Nuove Generazioni Italiane, e ha partecipato alle interlocuzioni con la commissione Affari Costituzionali che ha portato al testo dello ius scholae. “Siamo soddisfatti, è una base di lavoro che rappresenta una buona sintesi rispetto alle proposte presentate in precedenza. Si può ancora migliorare cercando per esempio di capire quali saranno le norme transitorie che regoleranno i destini di chi è arrivato prima dell’entrata in vigore della legge e le norme che si applicheranno a chi cresce in Italia anche senza aver frequentato cinque anni di scuola nel Paese”. Problemi che si porranno più in là. Lo ius scholae per il momento è solo una proposta e questo è il suo più grande difetto secondo gli italiani delle seconde generazioni. Simohamed Kaabour, presidente del Conngi si tratta di un “primo passo che speriamo vada in fondo per dareun futuro a un’intera generazione. Mi lascia perplesso che la questione venga affrontata sempre a fine legislatura o in campagna elettorale”. Uno scetticismo che Giuseppe Brescia prova a respingere. “Se c’è volontà politica - assicura - l’approvazione definitiva si può ottenere senza cincischiare sul testo. Ritengo infatti lo ius scholae l’unico punto di caduta possibile per arrivare al traguardo anche in modo rapido”. Nonostante il Senato dove i numeri della maggioranza sono molto più limitati e dove quindi negli ultimi anni si arenano tutte le battaglie civili. “Credo che su questo tema si debba lavorare per una soluzione che vada a premiare la volontà di integrazione e quindi si debba convincere anche una parte del centrodestra, la più moderata. Se si riesce a far convergere su questo testo Coraggio Italia e Forza Italia i numeri per un’approvazione ci possono essere”. Si dice fiduciosa anche la sottosegretaria all’Istruzione Barbara Floridia: “Confermo il mio sostegno alla proposta sullo ius scholae. È vero che in questa legislatura si sono registrate difficoltà per portare avanti le leggi di iniziativa parlamentare però sono fiduciosa perché quando una proposta parte con una volontà energica potrebbe sorprenderci”. Per evitare sorprese - ma negative - Giuseppe Brescia ha preferito precisare nella sua relazione che “nel testo proposto non c’è lo ius soli”. È un messaggio che dovrebbe tranquillizzare le forze politiche più conservatrici. Tra le diverse anime della maggioranza, si va dal rifiuto del centrodestra a una spinta, invece, per la cittadinanza agli stranieri nati in Italia da parte del Pd di Enrico Letta. Ma da parte di Forza Italia e Lega sono arrivati già i primi sbarramenti. Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia: “Leggi demagogiche sulla cittadinanza non saranno mai approvate”, ha avvertito. Quanto è lontana la terza guerra mondiale dalla guerra in Ucraina? di Franco Venturini Corriere della Sera, 7 marzo 2022 Una terza guerra mondiale, verosimilmente non nucleare ma combattuta come sempre in Europa, è ogni giorno meno distante dalla guerra in Ucraina. Quanto è lontana la terza guerra mondiale dalla guerra in Ucraina? Il presidente americano Joe Biden dice che proprio per evitarla ha rinunciato a difendere militarmente Kiev e si è affidato alle sanzioni per punire il presidente Vladimir Putin, ma siamo sicuri che si tratti di una strategia efficace? Non sono, queste, domande volte a terrorizzare, demagogiche o provocatrici. Perché in realtà la terza guerra mondiale, verosimilmente non nucleare ma combattuta come sempre in Europa, è ogni giorno meno distante dalla guerra in Ucraina. Da quella guerra che invade le nostre coscienze, che ci assale con le immagini dei morti e dei profughi, soprattutto dei bambini. Sappiamo al di là ogni dubbio e di ogni propaganda che in questa come in quasi tutte le guerre c’è un aggressore e un aggredito, che il colpevole si chiama Vladimir Putin e che Vladimir Putin rischia di perdere la sua guerra se l’orgogliosa difesa degli ucraini continuerà a essere sostenuta dal rigetto corale che in ogni parte del mondo (o quasi) condanna il Cremlino e l’invasione. Sappiamo tutto questo, ma tendiamo a non guardare in faccia il pericolo maggiore, il male assoluto e devastante di una guerra totale e molto più estesa che a pieno e tragico titolo potrebbe essere definita la terza guerra mondiale. I segnali e i pericoli stanno raggiungendo il livello di guardia, anche da parte di chi, come il presidente ucraino Zelensky, ha meritato ampiamente il nostro sostegno e la nostra fiducia. Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, che di sicuro non ha simpatie verso Putin e le sue imprese, ha dovuto respingere con molta fermezza (e lo stesso ha poi fatto Biden) la richiesta di Zelensky di creare sopra l’Ucraina una no-fly zone pattugliata dagli aerei occidentali. E se incontravano gli aerei russi? Semplice, li buttano giù, ha detto protestando Zelensky. Ma allora l’eroe di Kiev, al punto in cui siamo, concepisce anche uno scontro Nato-Russia che diventerebbe irreversibile e infiammerebbe tutta l’Europa? È un campanello d’allarme. E poi, con l’intensificarsi della guerra crescono anche le probabilità di “incidenti” magari non voluti ma dalle fatali conseguenze. Da anni i caccia russi e quelli Nato giocano al gatto e al topo, si sfiorano, si inseguono, ma non hanno sotto una guerra in corso, nessuno spara. Nel contesto odierno, con una strage in corso, varranno le stesse regole, per esempio nei cieli sopra le Repubbliche baltiche? Non basta. I russi in Ucraina fanno grande uso di razzi e di missili, oltre alle cannonate. La guerra non si è ancora avvicinata a Lviv, ma se un ordigno di qualsiasi tipo sbagliasse bersaglio (lo fanno persino i missili “intelligenti”) e finisse in territorio polacco, cioè in territorio Nato, l’Alleanza a norma del celebre Articolo 5 dovrebbe intervenire contro i russi oppure distruggere la credibilità del suo principale deterrente. Potremmo continuare, ma è già chiara l’urgenza di un gesto di coraggio da parte dell’Occidente. Che non sarebbe di fare la guerra alla Russia, bensì di prevenirla. Serve infatti molto coraggio per immaginare un negoziato con Vladimir Putin, con l’aggressore dell’Ucraina che fa sparare sui civili e su una centrale nucleare. Si deve correre il rischio di essere paragonati a Chamberlain e a Daladier, alle ingenue viltà di Monaco ‘38, ma quella sciagurata conferenza aprì le porte alla Seconda guerra mondiale, mentre ora si tratta di impedire la Terza che incombe su di noi. Parlare con Putin è diventato urgente. Certo servirebbe un previo cessate il fuoco, ma come minimo l’Occidente dovrebbe fargli sapere subito che se ci sarà vera tregua esiste la disponibilità a un negoziato non privo di linee rosse (come la sovranità statuale dell’Ucraina) ma pronto a tenere presenti anche le preoccupazioni di sicurezza della Russia. Un negoziato che faccia tacere le armi e discuta il futuro assetto geopolitico dell’Ucraina (con gli ucraini presenti). Partendo dall’idea che la priorità assoluta, oggi, è evitare la guerra totale e senza più confini anche nel caso che Usa e Russia escludessero, per sopravvivere, il ricorso ad armi nucleari. Chi può mediare, chi può parlare con il Nemico numero uno? La neo-pensionata Merkel che molti evocano, la Turchia amica della Russia che vende droni all’Ucraina, l’israeliano Naftali Bennett che ha appena visto Putin, Zelensky e Scholz, l’Onu, Macron benché debba pensare a essere rieletto, la Cina che non vuole pagare il prezzo delle sanzioni, l’Unione europea come avevamo ipotizzato su queste colonne (l’Ucraina nella Ue senza la Nato) malgrado le resistenze proprio di alcuni Paesi europei? Il “chi” conta relativamente poco. Conta, è ovvio, che Putin accetti, che non voglia finire il suo sporco lavoro prima di discutere, conta che la ricerca della pace prevalga su quella psicologia che si colloca già in un clima di guerra quando giudica inopportuno un corso universitario su Dostoevskij. La Russia che rischia di perdere in Ucraina non va umiliata, va battuta con una pace degna. Sapendo che dovremo comunque affrontare il ritorno della guerra fredda in Europa, e che il costo sarà molto alto anche per noi, non soltanto in termini di spese per la difesa o di più difficili rifornimenti energetici. Ma anche la vecchia guerra fredda aveva le sue regole, e per questo non diventò mai calda. Al fianco della libertà di Marco Bentivogli La Repubblica, 7 marzo 2022 Mentre le persone muoiono, il “neutralismo attivo” è un ossimoro grottesco. Non si può lasciare la speranza di un futuro che metta al bando la guerra nelle mani dei nostalgici di un passato che neanche ricordano. Vladimir Putin ha attaccato e invaso l’Ucraina. Ieri i raid russi hanno colpito persino i corridoi umanitari concordati sparando sui civili in fuga. Lo abbiamo lasciato fare a Grozny e ad Aleppo, non servono prove d’appello. Ovunque nel mondo (perfino a Mosca!) si susseguono imponenti manifestazioni per la pace, maree umane con i colori dell’Ucraina, per chiarire che la pace è un bene supremo, ma soprattutto che non c’è spazio per la confusione tra invasore e vittima. Non scomodiamo Gramsci peraltro decontestualizzato. Mentre le persone muoiono, il “neutralismo attivo” è un ossimoro grottesco. Non si può lasciare la speranza di un futuro che metta al bando la guerra nelle mani dei nostalgici di un passato che neanche ricordano. Li abbiamo già visti in azione, su alternanza scuola-lavoro, vaccini, ambiente, lavoro, pluralismo dell’informazione, antifascismo, ovunque è chiara solo la loro forza dogmatica e distruttiva di un associazionismo storico che si parla addosso, prigioniero di vecchi ideologismi senza più valori. Non è mai accaduto, come in questi ultimi tempi, di vedere i gruppuscoli, di coloro che non hanno ancora smaltito i fondi di bottiglia dell’estremismo ideologico, egemonizzare i movimenti e le espressioni della società civile e della rappresentanza. E gli altri? I nostri liberali si accontentano di darsi ragione a vicenda e considerano troppo impegnativo mobilitarsi per qualcosa. E così mancano spazi di rappresentanza veramente popolare, della stragrande maggioranza delle persone. Quelle che vediamo ovunque nel mondo e che anche qui si vorrebbero mobilitare senza sentirsi a disagio. Ovvero quello che il sindacato confederale ha sempre garantito: che le piattaforme delle iniziative non venissero egemonizzate dagli estremisti. È possibile che se ne ricordino solo la Cisl e il segretario del Pd Enrico Letta? Landini chiede l’intervento dell’Onu, il cui intervento è appunto impedito dal veto della Russia in sede di Consiglio di Sicurezza: in questo frangente bisognerebbe mettere da parte la demagogia. La neutralità è peraltro dubbia, si inizia col dire che Putin e la Nato pari sono, per poi approdare al vero nemico: la Nato e gli americani. Eh sì, la guerra non è tale se non sono gli americani ad attaccare. Perché non possiamo dimenticare “le responsabilità dell’occidente”. E in fondo “perché non la smettono questi Ucraini”, “la loro resistenza ci disturba”, “rischiano di coinvolgerci”, “dategli la Crimea, mio cugino ha detto che era russa”. E in fondo “anche le sanzioni sono ingiuste”. E così, i terzisti sono spettatori infastiditi da un’invasione che non possono neanche definire tale. Con queste premesse andremo a festeggiare il 25 aprile negando il diritto degli ucraini di resistere? Perché in fondo la guerra non c’entra, è solo un’altra buona occasione per attaccare “il governo dei banchieri” con la stessa arroganza di Salvini, la stessa goffaggine con cui si è di lotta e di governo senza prendere posizione apertamente. Non si può essere prigionieri della retorica soprattutto se quest’ultima ci chiude gli occhi e ci relega sugli spalti. Generalmente è vero: la guerra non si combatte con la guerra ma la teoria secondo cui la guerra è sempre responsabilità di tutti gli attori in conflitto, è semplicemente falsa. Relativizzare le responsabilità è utile a costruire gli alibi ma non al cessate il fuoco né a fermare la guerra. Serve a noi per liberarci la coscienza. Abbiamo un anno importante davanti, in cui fare chiarezza e schierarci: nel marzo 2018 gli italiani hanno scelto una maggioranza politica vicina a Trump, a Putin e alla Cina. Certo, vogliamo che il “mondo libero” sia veramente libero ma anche questo dipende da noi. Il prossimo anno rieleggeremo il Parlamento. Abbiamo visto in faccia cosa significa lasciare il mondo in mano ai deliri degli autocrati, toccherà a noi, dovremo decidere anche da che parte sta il nostro Paese e per questo unirci e mobilitarci. E anche per questo serve una politica nazionale ed europea che ci liberi progressivamente dalle dipendenze commerciali, energetiche e industriali dalle dittature (o democrature): dal gas, all’energia elettrica, all’acciaio, ai semiconduttori, alle tecnologie, alle materie prime, alle terre rare. Dipendenze che abbiamo esternalizzato perché incapaci di tenere insieme sviluppo e sostenibilità, disunite all’eterno rinvio di scelte coraggiose. È il momento di difendere la libertà, la democrazia e la pace e non l’occasione di riscossa per chi non ci ha mai creduto davvero. Ma la giustizia internazionale può fermare i crimini di guerra? di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 7 marzo 2022 L’Ucraina non ha ratificato lo Statuto di Roma, istitutivo della Corte Penale Internazionale, e per questo motivo non può rimettere i casi alla CPI. Karim Khan, Procuratore della Corte Penale Internazionale, dopo aver annunciato che verrà avviata “il più rapidamente possibile” un’indagine sull’invasione russa ai danni dell’Ucraina, ha comunicato che il suo ufficio ha ricevuto le segnalazioni di 39 Stati (Italia compresa) per il deferimento della Russia. La Corte penale internazionale è un organo giurisdizionale indipendente e permanente. È chiamata a processare le persone accusate dei più gravi reati che generano allarme e preoccupazione a livello internazionale, si pensi al genocidio, ai crimini contro l’umanità e ai crimini di guerra. I deferimenti alla CPI consentiranno all’ufficio del Prosecutor Khan di continuare ad indagare, tenendo conto già di quanto accaduto dall’inizio delle ostilità dal 2013 in poi, e di valutare i fatti verificatisi come crimini di guerra, crimini contro l’umanità o genocidio commessi in qualsiasi parte del territorio ucraino e da qualsiasi persona. Karim Khan ha assicurato massimo impegno affinché “le indagini siano condotte in modo obiettivo e indipendente, nel pieno rispetto del principio di complementarità”. Inoltre, ha rivolto un appello a tutti coloro che sono coinvolti nelle ostilità in Ucraina, chiedendo un rigoroso rispetto “delle norme applicabili del diritto internazionale umanitario”. L’Ucraina non ha ratificato lo Statuto di Roma, istitutivo della Corte Penale Internazionale, e per questo motivo non può rimettere i casi alla CPI. “Ma per due volte - ha rilevato qualche giorno il Procuratore - ha esercitato le sue prerogative per accettare la giurisdizione della Corte per presunti reati previsti dallo Statuto di Roma che si sono verificati sul suo territorio. La prima dichiarazione presentata dal governo ucraino che ha accettato la giurisdizione della CPI si riferisce a presunti crimini commessi sul suo territorio dal 21 novembre 2013 al 22 febbraio 2014”. La giustizia penale internazionale è, dunque, al lavoro anche per l’aggressione militare iniziata lo scorso 24 febbraio, data entrata oramai nei libri di storia. Nei confronti della Russia sono in corso varie procedure davanti a Tribunali e ad organi internazionali per presunte violazioni commesse da questo Paese in conseguenza degli eventi prodottisi in Ucraina a partire dal 2014. “In particolare - spiega Marco Pedrazzi, ordinario di Diritto internazionale nell’Università degli Studi di Milano “La Statale” - vanno ricordati il caso Ucraina contro Russia pendente davanti alla Corte internazionale di giustizia, cui si aggiunge il nuovo ricorso introdotto dall’Ucraina il 26 febbraio, e i numerosi ricorsi di cui è stata investita la Corte europea dei diritti umani. Che questi e altri strumenti siano idonei a fermare l’azione russa è dubbio. Sicuramente possono contribuire a determinare un relativo isolamento della Russia a livello internazionale e a mettere in difficoltà il governo russo. L’isolamento è relativo, perché, come già si è visto, la comunità internazionale non si schiera compatta a fianco dei Paesi occidentali. Non possiamo non prendere atto del fatto, comunque, che il diritto internazionale attuale non dispone di mezzi realmente efficaci per fermare azioni gravemente illecite poste in essere da una grande potenza nucleare”. Un altro organo giurisdizionale che di sicuro sarà impegnato è la Corte internazionale di giustizia, con sede all’Aia (Olanda), istituita dalla carta delle Nazioni Unite. Il suo ruolo è quello di definire in base al diritto internazionale le controversie giuridiche ad essa sottoposte dagli Stati e di fornire pareri su questioni giuridiche sottoposte dagli organi delle Nazioni Unite e da agenzie specializzate. L’articolo 33 della Carta delle Nazioni Unite indica vari istituti per la composizione pacifica delle controversie tra Stati (si pensi alla negoziazione, alla mediazione e all’ arbitrato). Davanti alla Corte internazionale di giustizia l’accademico italiano Fausto Pocar ricopre il ruolo di “Giudice ad hoc” in una causa promossa dall’Ucraina contro la Federazione Russa su questioni concernenti sia la Crimea che il Donbass. La figura del “Giudice ad hoc” è contemplata dall’articolo 31, paragrafi 2 e 3, dello Statuto della Corte, ed è prevista quando uno Stato parte in una causa dinanzi alla CIG non ha un giudice della sua nazionalità. In attesa delle decisioni della CPI o della CIG siamo di fronte ad una involuzione che manda in frantumi le garanzie del diritto internazionale costruite con tanti sacrifici dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi. “Non vi è dubbio - commenta il professor Pedrazzi - che il conflitto in Ucraina costituisca un evento particolarmente drammatico, il quale tuttavia si colloca nel quadro di un complesso assestamento delle relazioni internazionali, ancora in corso tre decenni dopo la fine della guerra fredda. Tale assestamento è certamente all’origine di una serie di fattori di crisi che incidono sulla funzionalità e sull’efficacia di molteplici istituzioni internazionali. È chiaro che lo stesso diritto internazionale sia investito da questa crisi, nel momento in cui attori fondamentali paiono disconoscere apertamente regole portanti del sistema”. Silvana Arbia: “La guerra in Ucraina sta cambiando il diritto” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 7 marzo 2022 Parla la prosecutor del Tribunale Penale Internazionale che ottenne le condanne per il genocidio del 1994 in Ruanda. Magistrato di lungo corso, Silvana Arbia è stata Prosecutor del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda ed ottenne le condanne di alcuni dei principali responsabili del genocidio consumatosi nel 1994 (un milione di persone uccise in 100 giorni di violenze inaudite). Arbia ha scritto qualche anno fa il libro intitolato “Mentre il mondo stava a guardare” (Mondadori) nel quale racconta la sua esperienza al servizio della giustizia internazionale. Per il suo impegno e per i risultati ottenuti in campo giuridico ha ricevuto nel 2016 la Legione d’Onore. “La guerra in Ucraina - dice al Dubbio Arbia - rappresenta una nuova epoca per il diritto internazionale che richiede maggiore partecipazione degli individui e maggior controllo degli stessi sui governi”. Eccellenza, l’attacco russo ai danni dell’Ucraina è una violazione grave del Diritto internazionale. Quali strumenti potranno essere attivati? Fondamentalmente due: azione avanti la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) e intervento della Corte penale internazionale (CPI). La natura dell’attacco, la durata, l’estensione e i danni già causati consentono di qualificare l’azione russa quale aggressione armata, di gravità particolare, un caso di “uso della forza” nelle relazioni fra Stati, il cui divieto è un obbligo imperativo di diritto internazionale (jus cogens). Obbligo che incombe sulla Russia, membro dell’ONU e membro permanente del Consiglio di Sicurezza. All’articolo 2(4) della Carta ONU si legge: “I membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”. Il divieto in questione trova altra fonte nel diritto internazionale consuetudinario, come affermato dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) il che ne rafforza la gravità. Si è discusso e si discute sul significato di “uso della forza”, e ai fini del divieto in questione l’uso della forza dovrebbe includere anche le misure di coercizione economica e politica. Le prerogative e le inerenti responsabilità di mantenere la pace e la sicurezza internazionale sono demandate al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, in base all’articolo 39 della Carta. Tuttavia, il processo di decision making, stante il potere di veto attribuito ai cinque membri permanenti del CdS (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Usa), ha comportato un adattamento alla pratica di autorizzazione in luogo di decisioni, di interventi armati, contro l’uso illegale della forza. Ricordiamo per esempio il caso dell’Afghanistan. L’uso della forza, dunque, è contemplato? Sul piano del diritto internazionale è consentito eccezionalmente in caso di legittima difesa e di intervento armato delle Nazioni Unite sulla base del capitolo VII della Carta a fini di mantenimento o il ristabilimento della pace. A queste eccezioni espressamente previste dalla Carta, si sono aggiunte, nella prassi, altre situazioni in cui il divieto dell’uso della forza si affievolisce. Pensiamo ai casi di consenso dello Stato all’esercizio della forza nel suo territorio ad opera di altro Stato, di intervento armato su invito, di operazioni militari nel territorio di un altro Stato per tutelare i propri cittadini. Pensiamo pure all’intervento armato umanitario, che dovrebbe essere giustificato dalla finalità di porre fine a gravi violazioni dei diritti umani commessi da un altro Stato a danno della propria popolazione. Un discusso caso di uso della forza si è registrato nel 1999, contro la Repubblica Federale di Iugoslavia da parte di 10 Stati membri della NATO. Senza una decisione autorizzativa del CdS, l’intervento venne giustificato dal fine di far cessare il disastro umanitario causato dalla violenta repressione delle forze di polizia serba ai danni della popolazione albanese del Kosovo. La CIG ha espresso grave preoccupazione per tale interpretazione del diritto internazionale. Dalle informazioni disponibili, nel caso della tragedia in atto in Ucraina, non emerge alcuna delle eccezioni e o deroghe legittime all’aggressione della Russia. L’Ucraina può adire la CIG per far accertare la responsabilità dello Stato aggressore per violazione del divieto dell’uso della forza e, in caso affermativo, ottenere riparazione per tutti i danni da esso causati, da determinare anche in via equitativa se non sarà possibile fornire prove sull’entità dei danni medesimi. Il Prosecutor Karim Khan ha annunciato l’intervento della Corte Penale Internazionale. Vedremo Putin tra gli imputati? La CPI giudica individui e non Stati. Sono perseguibili coloro che commettono per azioni e o omissioni crimini internazionali quali il genocidio, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e l’aggressione. Essendo la sua base giuridica un Trattato internazionale, lo Statuto di Roma del 17 luglio 1998, il suo funzionamento incontra i limiti di applicabilità propri dei trattati. Il rischio, considerato lo scenario di guerra, che vengano commessi crimini da entrambe le parti è molto alto. Ci sarà tanto lavoro per la CPI? Sì, nelle operazioni militari il rischio è alto. La CPI si sta preparando ad esercitare la sua giurisdizione con indipendenza ed imparzialità. Ha bisogno della cooperazione degli Stati ed è nell’interesse di tutti non lasciare impuniti crimini gravissimi che offendono l’intera comunità internazionale con indipendenza ed imparzialità. Per fornire la migliore cooperazione occorre che le persone designate a cooperare con la Corte siano adeguatamente preparate e informate sul suo funzionamento. In Italia, per quanto mi risulta, manca questa preparazione. Se la CPI viene sostenuta e riesce a svolgere il suo mandato di lotta all’impunità e di riparazione alle vittime potremmo affrontare con fiducia le sfide dei prossimi anni con un Diritto internazionale vivo e attivo, rimediando anche all’erosione dei poteri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in materia di pace e sicurezza internazionale. Una nuova epoca del diritto internazionale con maggiore partecipazione degli individui e maggior controllo degli stessi sui governi. Dai gerarchi nazisti ai boia dei Balcani: i grandi processi della storia moderna di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 7 marzo 2022 In principio ci fu il tribunale di Norimberga con le sue dodici condanne a morte e il drammatico suicidio di Herman Goering. L’idea balenava nella testa di Louis Gabriel Gustave Moynier già alla fine dell’Ottocento: creare un tribunale internazionale che giudicasse i crimini di guerra e le violazioni della Convenzione di Ginevra. Ma quella del giurista svizzero fondatore della Croce rossa era una battaglia isolata, che raccoglieva il consenso di ristrette élite e l’ostilità delle nazioni costantemente impegnate nei conflitti. Così non se ne fece nulla. Bisognerà aspettare la fine della Seconda guerra mondiale: l’accordo di Londra istituisce infatti il tribunale militare internazionale di Norimberga, chiamato a giudicare le atrocità del Terzo reich, accusati di complotto, crimini contro la pace e crimini contro l’umanità, reato che compare per la prima volta nella storia. Alla sbarra 21 ex dignitari nazisti e stretti collaboratori di Adolf Hitler. Tra i più noti il numero due del regime Herman Goering, il ministro della Difesa Joachim von Ribbentrop, l’ex vicecancelliere Rudolf Hess e l’architetto del Fuhrer Albert Speer. Oltre 300mila le testimonianze, 6600 le prove e i reperti presentati in aula, tremila tonnellate di materiale archiviate in 42 volumi. Durante gli interrogatori vengono mostrate decine di filmati realizzati dai cine operatoti americani sull’orrore dei campi di sterminio, ma anche dagli stessi nazionalsocialisti: i forni crematori di Buchenwald, le saponette e i raccapriccianti abat jour di pelle umana ricavati dai cadaveri degli ebrei, gli ossari spettrali, i crudeli esperimenti medici sui prigionieri del campo di Belsen. L’impatto di quelle immagini fu devastante. Gli imputati si difendono come possono, si dichiarano non colpevoli, spiegano che loro hanno solamente obbedito a ordini superiori, ma non seguono una linea comune, non solidarizzano tra di loro, ognuno ha il suo avvocato e ognuno ha un solo obiettivo: salvare la pelle. Il più combattivo di tutti è Goering, il cappotto militare, le mostrine e gli anelli alle dita delle mani, si difende con veemenza ribattendo colpo su colpo a ogni atto d’accusa ma non rinnegando mai il suo vincolo profondo con Hitler. Il primo ottobre del 1946 arriva il verdetto: 12 condanne a morte (di cui una in contumacia per il segretario di Hitler) Martin Borman, tre ergastoli, due pene a 20 anni di reclusione, una a 15 e due a dieci anni e tre assoluzioni. Il 16 ottobre dieci di loro vengono giustiziati tramite impiccagione. Si sottrae Goering che la notte prima dell’esecuzione sceglie di togliersi la vita con una pasticca di cianuro, venire appesi a un patibolo non è la fine degna di un capo militare. Muore suicida come Himler, Goebbels e naturalmente Hitler, che avevano deciso di farla finita prima che i russi conquistassero Berlino. Dopo Norimberga l’assemblea generale dell’Onu dà mandato alla Commissione giuridica di elaborare un codice penale che identifichi i crimini contro la pace e l’umanità. Ma siamo in piena Guerra Fredda e le nazioni dei rispettivi blocchi, per evidenti ragioni politiche, non riescono a trovare un accordo. Se gli orrori della Seconda guerra mondiale avevano fatto prendere coscienza alla comunità internazionale che si era ripromessa di non lasciare più impuniti i crimini contro l’umanità, gli anni che seguono, seppur in scala minore, sono costellati di genocidi e repressione di Stato, dalla Cambogia di Pol Pot al Cile di Pinochet, all’Uganda di Amin Dada. La svolta arriva all’inizio degli anni 90, con il crollo del socialismo reale e la fine della divisione in blocchi. Ci vorranno però ancora sette anni per l’istituzione della Corte penale internazionale, il cui statuto è ratificato a Roma il 17 luglio 1988 da 120 nazioni, anche se la Cpi diviene effettivamente operativa soltanto nel 2002. Anche in questo caso, oltre alla fine della Guerra Fredda con il rimodellamento degli equilibri geopolitici mondiali, sono stati i genocidi in Ruanda e in ex Yugoslavia a dare l’impulso decisivo. In particolare i massacri dei Balcani finiti qualche anno prima sotto la lente d’ingrandimento del tribunale speciale per i crimini in ex Yugoslavia. L’organismo che nel 2002 portò a giudizio l’ex presidente serbo Slobodan Milosevic accusato di aver pianificato e realizzato la pulizia etnica dei musulmani di Bosnia. Milosevic muore in una cella dell’Aja nel 2006 prima che venga emessa la sentenza, per un infarto miocardio dicono le cronache, anche se i complottisti di mezzo mondo adombrano, senza mai riuscire a provarlo, l’ipotesi dell’avvelenamento. Tra le altre condanne illustri della Cpi figurano quella di Rodovan Karadzic, ex presidente della repubblica serba di Bosnia Herzegovina (40 anni di reclusione per crimini di guerra) e del suo comandante militare Ratko Mladic, ergastolo per il massacro di Srebenica in cui le sue milizie fecero a pezzi in un solo giorno oltre 8mila musulmani bosniaci. Le quattro lezioni dell’Ucraina: i doppi standard occidentali di Ilan Pappé* Il Manifesto, 7 marzo 2022 La visione di media e classi dirigenti in Occidente è segnata da etnocentrismo e razzismo: dai rifugiati “simili a noi” alle “legittime” invasioni Usa in Medio Oriente fino alla tollerabilità dei gruppi neonazisti. E infine alle politiche di oppressione di Israele nei confronti dei palestinesi. Secondo Usa Today, la foto diventata virale di un grattacielo ucraino colpito dai bombardamenti russi ritraeva, in realtà, un grattacielo nella Striscia di Gaza, demolito dall’aviazione israeliana nel maggio del 2021. Qualche giorno prima, il ministro degli Esteri ucraino si era lamentato con l’ambasciatore israeliano a Kiev: “Ci state trattando come Gaza”, aveva detto, furioso, sostenendo che Israele non aveva condannato l’invasione russa ed era interessato solo a far uscire dal Paese i cittadini israeliani (Haaretz, 17 febbraio 2022). Faceva riferimento all’evacuazione forzata dalla Striscia di Gaza delle donne ucraine sposate con uomini palestinesi, nel maggio 2021, ma intendeva anche ricordare a Israele il pieno sostegno dimostrato dal presidente ucraino in occasione dell’aggressione israeliana ai danni della Striscia, sostegno su cui tornerò in seguito. In effetti, le aggressioni contro Gaza dovrebbero essere tenute in debita considerazione nel valutare l’attuale crisi in Ucraina. Il fatto che le immagini vengano confuse non è una pura casualità: in Ucraina non sono stati colpiti molti grattacieli, mentre a Gaza è accaduto di frequente. Tuttavia, quando si analizza la crisi ucraina in un contesto più ampio, a emergere non è solo l’ipocrisia occidentale sulla Palestina; l’intero sistema di double standards in uso in Occidente andrebbe messo sotto accusa, senza restare indifferenti, neanche per un istante, alle notizie e alle immagini che ci arrivano dalle zone del conflitto in Ucraina: bambini traumatizzati, lunghe file di profughi, edifici danneggiati dai bombardamenti, e la minaccia concreta che questo sia solo l’inizio di una catastrofe umanitaria nel cuore dell’Europa. Al contempo, però, chi come noi vive, analizza e denuncia le tragedie che si verificano in Palestina non può fare a meno di notare l’ipocrisia dell’Occidente, né smettere di denunciarla, pur mantenendo salde la solidarietà umana e l’empatia con le vittime di ogni guerra. C’è bisogno di farlo, o la disonestà morale insita nelle scelte della classe dirigente e dei media occidentali consentirà loro, ancora una volta, di mascherare il proprio razzismo e di godere di totale impunità, mentre continua ad assicurare immunità a Israele e alle sue politiche di oppressione nei confronti dei palestinesi. Ho individuato quattro falsi postulati che sono alla base del coinvolgimento dell’establishment occidentale nella crisi ucraina e ho pensato di dedurne quattro lezioni. Lezione numero uno: i profughi bianchi sono i benvenuti, gli altri meno. La decisione collettiva e senza precedenti da parte dell’Unione europea di aprire le porte ai profughi ucraini, seguita da una più cauta politica da parte della Gran Bretagna, non passa inosservata, se si considera la chiusura dei confini attuata dalla maggior parte dei Paesi europei nei confronti dei rifugiati provenienti dal mondo arabo o dall’Africa, a partire dal 2015. La chiara selezione su base razziale, che distingue i profughi in base al colore della pelle, alla religione e all’etnia è abominevole, ma destinata a durare nel tempo. Alcuni leader europei non si vergognano neanche di esternare pubblicamente il loro razzismo, come nel caso del primo ministro bulgaro, Kiril Petkov: “Questi (i profughi ucraini) non sono i profughi a cui siamo abituati, sono europei. Queste persone sono intelligenti e istruite. Non sono i profughi a cui siamo abituati, persone di cui non conosciamo l’identità, con un passato poco chiaro, che potrebbero anche essere terroristi”. Petkov non è il solo a pensarla così. I media occidentali parlano continuamente di “rifugiati simili a noi” e questo razzismo è del tutto evidente ai confini tra l’Ucraina e i Paesi europei limitrofi. Questo atteggiamento razzista, con forti connotazioni islamofobe, non è un fenomeno momentaneo, visto il rifiuto da parte dell’establishment europeo di accettare il tessuto multiculturale e multietnico presente nelle loro società. Una realtà variegata, prodotta da anni di colonialismo e imperialismo europeo, che gli attuali governi d’Europa si ostinano a negare e ignorare mentre perseguono politiche migratorie fondate sugli stessi principi razziali che hanno permeato il loro colonialismo e imperialismo in passato. Lezione numero due: si può invadere l’Iraq, ma non l’Ucraina. È alquanto sconcertante la assoluta indisponibilità, da parte dei media occidentali, a contestualizzare la decisione russa di invadere l’Ucraina all’interno di un’analisi più ampia - e ovvia - su come siano cambiate le regole del gioco politico internazionale a partire dal 2003. È difficile trovare un’analisi che sottolinei il fatto che Stati uniti e Gran Bretagna hanno violato il diritto internazionale e la sovranità di uno Stato quando, con una coalizione di Paesi occidentali, hanno invaso l’Afghanistan e l’Iraq. L’occupazione di un Paese al fine di raggiungere le proprie finalità politiche, non è un concetto inventato da Vladimir Putin in questo secolo: è stato introdotto e giustificato come strumento politico dall’Occidente. Lezione numero tre: in alcuni casi i neonazisti possono essere tollerati. Le analisi tralasciano anche alcune considerazioni valide di Putin sull’Ucraina, che di certo non giustificano l’invasione ma che devono essere tenute in conto anche durante l’invasione. Prima che scoppiasse questa crisi, i media occidentali progressisti, come The Nation, Guardian, Washington Post, ci mettevano in guardia contro il crescente potere dei gruppi neonazisti in Ucraina e su come avrebbero potuto influenzare il futuro dell’Europa e del mondo. Gli stessi giornali, oggi, sminuiscono la portata del Neo-nazismo in Ucraina. Il 22 febbraio 2019 The Nation scriveva: “Notizie sempre più frequenti di episodi di violenza da parte dell’estrema destra e di erosione delle libertà fondamentali smentiscono l’iniziale euforia dell’Occidente. Si verificano pogrom contro i Rom, aggressioni sempre più frequenti contro femministe e gruppi Lgbt, censure di libri e glorificazione di collaborazionisti nazisti promossa dallo Stato”. Due anni prima, il 15 giugno 2017, il Washington Post sosteneva, con grande perspicacia, che un eventuale scontro tra Ucraina e Russia non avrebbe dovuto farci dimenticare il potere dei gruppi neonazisti in Ucraina: “Mentre continua lo scontro in Ucraina con i gruppi separatisti sostenuti dai russi, Kiev deve fronteggiare un’altra minaccia alla sua sovranità: i potenti gruppi ultranazionalisti di estrema destra. Questi gruppi non si fanno scrupoli a usare la violenza per raggiungere i propri obiettivi, e questo si scontra con quell’immagine di democrazia tollerante e vicina all’Occidente che Kiev cerca di diventare”. Ma oggi il Wp adotta un atteggiamento del tutto diverso e definisce l’etichetta di neonazismo una “falsa accusa”: “In Ucraina operano diversi gruppi paramilitari nazionalisti, come il battaglione Azov e il Pravyi Sector (Settore destro), che sposano l’ideologia neonazista. Nonostante la continua esposizione, non sembrano avere un forte appoggio popolare. Solo un partito di estrema destra, Svoboda, è rappresentato nel parlamento ucraino, con un solo seggio”. I precedenti avvertimenti da parte di The Hill (9 novembre 2017), il maggiore sito di notizie indipendente degli Stati uniti, sembrano ormai dimenticati: “Ci sono, innegabilmente, dei gruppi neonazisti in Ucraina e questo è stato confermato da quasi tutti i principali media occidentali. Il fatto che gli analisti possano sminuirlo come propaganda diffusa da Mosca è molto inquietante. Soprattutto vista la crescita esponenziale di gruppi neonazisti e suprematisti a livello mondiale”. Lezione numero quattro: abbattere un grattacielo è un crimine di guerra solo se accade in Europa. Oltre ad avere connivenze con queste formazioni neonaziste e i con i loro gruppi paramilitari, il governo ucraino è anche incredibilmente filo-israeliano. Uno dei primi atti del presidente Volodymyr Zelensky è stato il ritiro dell’Ucraina dal Comitato sull’Esercizio dei diritti inalienabili del popolo palestinese delle Nazioni unite - l’unico tribunale internazionale che fa in modo che la Nakba non venga negata o dimenticata. Questa decisione è stata adottata dal presidente ucraino, che non ha mostrato alcuna empatia nei confronti della tragedia dei profughi palestinesi, che lui non considera vittime di alcun crimine. Nelle interviste rilasciate durante i selvaggi bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza nel maggio 2021, ha affermato che l’unica tragedia a Gaza era quella vissuta dagli israeliani. Sarebbe come dire che i russi sono gli unici a soffrire in Ucraina. Ma Zelensky non è il solo a pensarla così. Nel caso della Palestina, l’ipocrisia raggiunge livelli inimmaginabili. Un grattacielo vuoto colpito in Ucraina è finito in prima pagina ovunque, scatenando dibattiti e profonde analisi sulla brutalità umana, Putin e la disumanità. I bombardamenti vanno condannati, chiaramente, ma i leader che oggi si dicono sdegnati sono rimasti in silenzio mentre Israele radeva al suolo la città di Jenin nel 2000, il quartiere di Al-Dahaya a Beirut nel 2006 e Gaza City in una operazione dopo l’altra, nel corso degli ultimi quindici anni. Nessuna sanzione nei confronti di Israele è stata mai nemmeno discussa, figuriamoci applicata, per tutti i crimini di guerra commessi dal 1948 a oggi. Anzi, in molti Paesi occidentali che oggi sono tra i promotori delle sanzioni contro la Russia anche solo nominare la possibilità di sanzionare Israele viene ritenuto illegale e tacciato di antisemitismo. Anche quando si assiste a espressioni di solidarietà con l’Ucraina in Occidente, non si può fare a meno di notare il contesto razzista ed etnocentrico. L’imponente solidarietà collettiva è riservata a chi sceglie di unirsi a quel blocco e sottostare a quella sfera di influenza. Non scatta la stessa empatia quando una violenza simile, o persino peggiore, è attuata verso popolazioni non europee in generale, e quella palestinese in particolare. In quanto soggetti con una propria coscienza, noi abbiamo il diritto di interrogarci sulle risposte alle calamità e abbiamo la responsabilità di evidenziare l’ipocrisia che, per certi versi, ha spianato la strada a simili catastrofi. Legittimare a livello internazionale l’invasione di Paesi sovrani e tacere sui processi di colonizzazione e oppressione ai danni di altri, come la Palestina e il suo popolo, porterà a ulteriori tragedie in futuro, in Ucraina come in ogni altra parte del mondo. *Ilan Pappé è docente presso l’Università di Exeter ed è stato senior lecturer di scienze politiche presso l’Università di Haifa. È l’autore de “La Pulizia etnica della Palestina” e “Dieci Miti su Israele”. Pappé è definito come uno dei “nuovi storici” che, dopo la pubblicazione di documenti britannici e israeliani a partire dai primi anni 80, hanno riscritto la storia della fondazione di Israele nel 1948. (Tradotto da Romana Rubeo)