Riflessioni “in grate” sulla nomina del nuovo capo del Dap di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 6 marzo 2022 Premesso che con l’insediamento a capo del Dap del magistrato Carlo Renoldi, propiziato dalla ministra Marta Cartabia, non cambieranno significativamente le carceri, ma che, al massimo, si assisterà ad un mero galleggiamento di un relitto, accompagnato dal liturgico rituale del richiamo alle norme e ai principi costituzionali e sovranazionali che dovrebbero ispirare l’azione amministrativa dell’intera amministrazione penitenziaria. Non posso, però, non provare un profondo disagio per quella che sembra essere la reazione di taluni ambienti politici e perfino di quota parte del sindacalismo della polizia penitenziaria, contrari verso tale innocuo passaggio di testimone. Davvero mi chiedo come possa considerarsi “inaccettabile” tale designazione a motivo della di lui diversa sensibilità verso le politiche securitarie e di giustizia che imperano malamente e da troppo tempo, nel nostro sistema “agito” penitenziario. Si ripropone, ancora una volta, il tradizionale blocco tra giustizialisti, in servizio permanente effettivo, e sindacalisti, che si rifanno a modelli securitari, degni di un Ancien Régime tutto sempre da attestare con le ragioni della forza, con quanti, più ragionevoli e dubbiosi, non mostrano però la forza di sostenere posizioni diverse, temendo riflessi di diversa natura, compresi quelli che poi li additerebbero quali traditori di uno Stato forte e muscolare, perché colpevoli di essere più vicini ai diritti delle persone detenute, piuttosto che alla spada di Minerva. Il paradosso, poi, è che i più arrabbiati e contrari verso un possibile modello umanistico e umanitario del carcere (che non significa affatto “liberi tutti”), sono spesso quei rappresentanti dei lavoratori che ben si guardano di lavorare all’interno delle carceri, eppure capaci di pontificare. In verità, sarebbero tante altre le cose che pure andrebbero non solo dette, ma perfettamente verificate e pubblicizzate, perché costituirebbero ulteriore motivo di riflessione non solo per l’opinione pubblica, ma anche per una classe politica che si muove a colpi di contorcimento di viscere e inseguendo un populismo della vendetta di Stato. Ma parlando genericamente di sindacati della polizia penitenziaria, ci si è mai chiesti perché tra il personale vi siano tantissimi che abbiano più di una tessera sindacale? Due, tre se non di più? Libertà di associazione oppure, talvolta, si è costretti psicologicamente a tale tassazione indiretta? Se il medesimo dipendente si iscrive a più sigle per essere tutelato, corrispondendo mensilmente e implacabilmente le relative quote di adesione, che non poche volte andranno ad organizzazioni politicamente contrapposte, è evidente che ci troviamo di fronte ad un problema rilevante e sommerso, e le cose sommerse, già solo per questo, possono essere “pericolose” e destabilizzanti, soprattutto in un contesto così delicato come sono le carceri. Ma tornando alla questione del cambio del vertice del Dap, la vera svolta poteva esserci se a capo di una tale complessa e articolata organizzazione amministrativa avessero collocato un vero manager della cosa pubblica (pure proveniente dal mondo delle imprese “private”), che fosse tenuto ad agire e governare nell’alveo delle leggi e con una espressa attenzione verso i risultati concreti, visibili, misurabili, semmai annualmente avvalorati da un soggetto verificatore terzo, al punto di attestarli come marchio di qualità perfino sulla carta intestata della stessa amministrazione. Un manager che capisse di grandi appalti di beni e servizi; che sapesse e fosse pratico di contrattazione sindacale nei diversi comparti amministrativi che riguardano il Dap, governati da una cluster di contratti collettivi nazionali di lavoro differenziati; che conoscesse tutta la complessità di tematiche assunzionali e del rapporto di lavoro libero-professionale che pure allignano nell’amministrazione delle carceri, riferiti in particolare al personale esperto non di ruolo (psicologi), pratico in questioni di cambio di aziende erogatrici di servizi, ove si pone sempre la problematica della continuità del rapporto di lavoro delle maestranze, al fine di evitare che vi siano dei licenziamenti o dei vuoti temporali nell’erogazione delle retribuzioni, solo per citare alcune delle tematiche ricorrenti di maggior rilievo. Per non parlare di tutte le questioni ed i contenziosi contrattuali che pure occorre anzitutto prevenire e poi, quando non se ne può, governare e che spesso hanno durata ben maggiore della stessa permanenza dei capi del Dap, in specie se riferiti a grandi appalti riguardanti la realizzazione di nuove strutture penitenziarie che, allorquando finalmente, vedranno la luce, dopo gli innumerevoli contenziosi, fallimenti, transazioni, risulteranno già di fatto obsolete; per non parlare della materia riferita all’acquisto di armi, mezzi, tecnologie. Insomma, l’organizzazione penitenziaria e i suoi servizi, che costituiscono l’hard del sistema, mentre le norme ne costituiscono il software, sono amministrazione della cosa pubblica allo stato puro, non sono né sentenze né requisitorie, ma agere e non ius dicere. Purtroppo, però rimane, almeno in Italia, il fatto che il sistema penitenziario continui ad essere inteso come un continuum della funzione giurisdizionale, per molti un terzo tempo del processo ancora da giocare, dopo che si sono esauriti quelli delle indagini di polizia e dei procedimenti penali. Insomma, si insiste nel non volere comprendere che il carcere deve essere qualcosa di assolutamente diverso rispetto alla funzione giudiziaria, perché i fini non sono quelli di giustizia in senso teleologico (che si esaurendosi con la sentenza di condanna, contemplerebbe tutto, sia in termini di pena detentiva applicata che in tema di risarcimenti e pene accessorie), ma quelli imposti dall’articolo 27 comma 3° della Costituzione, che, attraverso la condanna, esige la rieducazione del condannato. Quello che ad un capo del Dap deve soprattutto interessare non è nemmeno, a ben guardare, se l’obiettivo della rieducazione sia stato effettivamente conseguito, posto che già v’è una folla di organi pubblici e giudiziari che devono, per obblighi del loro ufficio, verificarlo (direttore del carcere, i funzionari giuridico pedagogici, gli psicologi, i criminologi, il magistrato di sorveglianza, il tribunale di sorveglianza e, talvolta, le altre autorità giudiziarie nell’ambito dei procedimenti che governano), ma che, volendo alleggerire il tema, la location carceraria e il capitale umano che in essa operi, sia per davvero all’altezza del prezzo altissimo che i cittadini e, in particolare, il detenuto pagano, poggiando quest’ultimo sul piatto della bilancia il corrispettivo della sua libertà personale: prezzo, tra l’altro, che non l’ha visto negoziare (al di là di quello che può essere lo sbiadito richiamo al patteggiamento della pena). A tal proposito fa sorridere che alcuni, sempre grazie all’imbroglio delle parole, arrivino ad appellare il detenuto come “utente”, quasi come se per davvero questo poi avesse la possibilità di cambiare, come nel mercato della telefonia, il provider del servizio ove non fosse corrispondente al singolare contratto stipulato con l’emissione della condanna. Gli obiettivi del capo del Dap, in verità, dovrebbero essere altri: che le carceri siano anzitutto dei luoghi sani, salubri, ben organizzati, efficienti, con amministrazioni trasparenti, con personale motivato e professionalmente preparato, oggetto di una costante formazione professionale, ben attrezzato, gratificato economicamente e convinto delle finalità che l’amministrazione dovrebbe perseguire, un personale, insomma, capace di spiegare perfettamente le ragioni di ogni propria condotta che deve essere assolutamente improntata, vistone lo status di pubblici dipendenti, ad imparzialità e perseguendo il fine della buona ed economica amministrazione della cosa pubblica (Costituzione, articoli 3 e 97). Compito del capo del Dap è che ponga ogni controllo di merito affinché il personale che dipenda da lui non favorisca, per incapacità o per corruzione, l’evasione dei detenuti o attività illecite degli stessi, che non consenta la violenza gratuita e ingiustificata sulle persone detenute, che controlli la filiera delle azioni amministrative all’interno delle carceri, affinché non vi siano o di riducano i suicidi, sia quelli che riguardino le persone detenute che quelli degli agenti o di altro personale; che non vi sia lo sfruttamento del lavoro dei detenuti e del personale, che nessuno, insomma, lucri sulla detenzione. Poco importa, al capo del Dap, in verità, se “l’utente” sia un mafioso o un quisque de populo, italiano o extracomunitario; in ogni caso, per essi, la qualità del servizio sanitario (il quale già da diversi anni è competenza esclusiva, ripeto esclusiva, del ministero della salute e delle regioni, fino ad arrivare alle locali aziende sanitarie e ospedaliere) deve essere adeguata, quantomeno perché, a differenza dei cittadini liberi, “i ristretti” non possono andare a cercare fuori, pure ove lo volessero, i medici, di fiducia, pur non essendo negato ad essi di servirsene, ove ne abbiano i mezzi e, ovviamente, a loro spese. Il capo del Dap dovrebbe, attraverso la sua organizzazione, vigilare che tutti i grandi contratti siano perfettamente onorati e corrispondano ai bisogni dell’amministrazione e dei destinatari dei relativi servizi; ciò significa che i pasti erogati nelle centinaia di mense aziendali devono essere di buona qualità, idem per quelli somministrati ai detenuti, e non perché siamo buoni e generosi (seppure la bontà non è un peccato) ma perché, parola magica, li “paghiamo”; essi dovrebbero corrispondere alla stessa qualità che vorremmo per i pasti destinati ai malati negli ospedali, ai soldati nelle caserme, ai bambini nelle scuole pubbliche. Il capo del Dap, attraverso le sue strutture, dovrebbe verificare che gli ambienti dove soggiornano le persone detenute siano a norma, che le celle siano areate e dotate di adeguata luce naturale e artificiale, che dispongano di cesso, bidet, doccia e lavabo, come si vorrebbe anche nella più modesta locanda, idem le stanze assegnate agli agenti nei loro alloggi. Preoccuparsi che i detenuti abbiano una branda e un materasso decenti, che consenta agli stessi di riposare per quel che possono e in relazione anche alle loro patologie o invalidità (altrimenti ci costeranno di più in termini di cure e contenziosi), che possano perfino avere un tavolo, una sedia (e non uno sgabello senza schienale) e degli armadi, che possano sfogliare libri e giornali, vedere la televisione, pur senza dare fastidio ad altri ospiti della struttura e al personale sorvegliante, poter telefonare quando lo desiderino e a loro spese, senza che le loro conversazioni siano ascoltate da altre persone, se non quando sappiano che devono esserlo e siano perfino registrate; che possano sgranchire le gambe all’interno di cortili, senza rischiare di urtare altri detenuti o ricevere pallonate sul viso, che possano frequentare corsi di formazione professionale, studiare ove lo vogliano, incontrare i propri familiari nelle giornate previste, senza che quest’ultimi debbano fare migliaia di chilometri per raggiungerli, così come anche d’inginocchiarsi per una preghiera in luoghi deputati, pure al fine di chiedere perdono; agli stessi deve essere consentito di curare il tempo libero in modo utile piuttosto che ordire la commissione di altri reati con i loro compagni irriducibili e, infine e “fatto rivoluzionario”, curare anche la propria intimità, piuttosto che vederla violata psicologicamente e, nei casi più terribili, fisicamente da altri, e qui mi fermo… Poco importa, perciò, che siano mafiosi, poco mafiosi o per nulla mafiosi, che siano terroristi, agnostici o fondamentalisti, oppure dissidenti, disobbedienti o inconcludenti; poco interessa che siano truffatori, violentatori, rapinatori, ladri o violatori seriali del codice della strada, amministratori pubblici disonesti o spacciatori, perché quelle pur presenti differenze riferite ai reati commessi sono state, in uno stato di diritto, già considerate nella misura e tipologia di condanna irrogata. Si aggiunga poi che ben le carceri dovrebbero avere già caratteristiche securitarie differenziate, perché altrimenti sarebbe da scemi ingolfarle tutte, allo stesso modo e indifferenziatamente, di ladri di polli, venditori di hashish al minuto e detenuti sottoposti al 41 bis. Non a caso, spesso, la polizia penitenziaria lamenta l’assenza o il malfunzionamento di sofisticati mezzi di controllo (taser, sistemi antiscavalcamento, antitrusione, antiagressione, campane metal detector, scanner e allarmi, garitte armate, vetri super corazzati, macchine blindate, telecamere a circuito chiuso, sorveglianza tecnologica semmai con droni, capaci di rilevare il calore umano e che impieghino l’infrarosso, oppure dotati di sistemi di controllo biometrici, se non anche “armati”); però si converrà che sarebbe uno spreco, un grandissimo spreco, impiegare tutto ciò per categorie modeste di detenuti, in quanto così facendo si toglierebbero risorse proprio verso il controllo dei più pericolosi, anche perché se alla fine si afferma di voler controllare tutti, in verità avrei il sospetto che non si controlli proprio nessuno. E il controllo non è solo quello di guardiania, ma in particolare della personalità e del profilo psicologico e criminale del reo; però, per questo, occorrerebbero tanti operatori specialisti che, guarda un po’, continuano a mancare, talché, evocando un vecchio adagio popolare, si potrebbe dire “tanta dinamite e poca miccia…”. E poi, concludendo, cosa importa ai sindacati della polizia penitenziaria, tanto per fare un esempio che non mancherà, avendo conosciuto bene l’ambiente, di suscitare strumentali polemiche, che il nuovo capo del Dap abbia le sue idee, che forse anch’io e tanti altri (che pure forse potrebbero avere una qualche piccola competenza) hanno sul fatto che si sia sviluppato, negli anni, un network di professionisti dell’antimafia e che con tale “brand”, sollevando toghe o tuniche (pari erano nell’antica e sacra inquisizione) hanno costruito storie professionali e delle vere imprese economiche, semmai pure sbilanciando le regole del “libero” mercato. Quello che, invece, dovrebbe interessare a tanti e, soprattutto ai sindacati è che la funzione sociale della pena sia perfettamente coerente con i principi costituzionali e che quanti non siano capaci di operare, con dedizione e onestà, vengano immediatamente allontanati e posti in condizione di non nuocere, perché, e dovrebbe essere chiaro a tutti, basta una mela marcia per guastare l’intero contenuto del cesto o comunque metterlo in grandissimo pericolo. Cogitationis poenam nemo patitur: Se vogliamo fare i processi, ci bastano già le cose concrete delittuose che si fanno o le omissioni che si compiono. Ciò detto, spero che la ministra Cartabia riesca a portare avanti questa piccola, ma davvero piccola, trasformazione, consentendo ad un magistrato che non abbia l’imprinting, ormai ultradecennale, delle procure, di dirigere il Dap; sicuramente un cambio di sensibilità potrà consentire al sistema penitenziario di riguardarsi allo specchio, ma da qui a pensare che sia per davvero migliorato ce ne passa! *Penitenziarista, Former dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria, Presidente onorario del Cesp (Centro europeo di studi penitenziari) di Roma, Componente dell’Osservatorio regionale antimafia del Friuli Venezia Giulia In carcere focolai di Covid e disservizi: le carenze dello Stato allontanano il mondo esterno di Giovanni Iacomini Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2022 Nuova impennata di contagi nel complesso penitenziario romano di Rebibbia. Hanno tardato a fare tamponi nelle settimane passate e dai pochi casi sporadici si sono creati dei focolai. Si spera, come d’altronde facciamo noi tutti più in generale, che si tratti della coda dell’emergenza sanitaria, che pare debba passare per la tanto decantata e talvolta dileggiata immunità di gregge. Nel frattempo, tornano ulteriori restrizioni e chiusure in un mondo, quello carcerario, che già di per sé, per sua intrinseca natura, vive di privazione delle libertà. Sono sospese, per quanto ci riguarda direttamente come scuola, tutte le attività didattiche in presenza in gran parte dei settori: Casa di reclusione, femminile e Terza Casa circondariale. Va da sé che restino in attesa anche le varie iniziative che andrebbero ad “arricchire l’offerta formativa”, con cui le diverse realtà scolastiche vanno a interagire con le Aree educative nella loro fondamentale funzione di “trattamento intramurario”. Si temono ripercussioni nei colloqui, momento di cruciale importanza nella vita dei detenuti che cercano di mantenere rapporti con i propri familiari. E un rallentamento, se non un vero e proprio blocco da parte della Magistratura di Sorveglianza, nella concessione di benefici di legge e misure alternative alla detenzione, che avviano al graduale reinserimento sociale del condannato. In tempi di pandemia, come si era già visto fin dall’inizio, si crea un distacco ancora più netto con il mondo esterno, il che rende più dura del solito la vita in carcere. Tutti noi abbiamo vissuto, soprattutto in certe fasi particolarmente difficili, in condizioni talmente critiche da mettere a repentaglio la nostra tenuta psicofisica. Basta un minimo di sensibilità per immaginare come quelle sensazioni possano rimbalzare all’interno delle celle di detenzione, dove anche in condizioni ordinarie tutti i problemi vengono amplificati, alterati e accentuati da forme di comunicazione del tutto peculiari. Non dev’essere un caso se si assiste, in questi primi mesi dell’anno, a un preoccupante aumento di episodi di autolesionismo e, in casi estremi, di suicidio. Sono già 14 da inizio anno, decisamente troppi. Sono facilmente reperibili in rete le rilevazioni e elaborazioni fornite dalle due organizzazioni più attive nel mondo carcerario: l’associazione Antigone e Ristretti Orizzonti, gruppo di cultura e informazione della Casa di Reclusione di Padova. I dati ufficiali vengono dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria): secondo la stima più recente i detenuti nei 189 istituti di pena italiani sono oltre 54mila, su una capienza regolamentare di circa 50mila. Vuol dire che sono in troppi nella stessa cella, ove più ove meno, nella gran maggioranza dei casi. Ogni anno sono circa sessanta coloro che si tolgono la vita all’interno delle prigioni; 36-40 anni è la classe d’età più colpita. Mettendo in relazione i valori in termini assoluti e il numero di detenuti mediamente presenti si calcola il tasso di suicidi, che mostra una crescita sempre più marcata a partire dal 2017. Al di là dei casi personali, è innegabile che si tratti di uno dei principali indicatori di malessere del sistema penitenziario. È vero che c’era stato un certo calo negli anni successivi al 2013, probabilmente da ricondurre alla sentenza Torreggiani e alla conseguente riduzione del tasso di sovraffollamento, che ha garantito più dignitose condizioni di detenzione. Si parla dei detenuti, ovviamente colpiti in primis, ma non vanno dimenticate le condizioni di chi opera all’interno delle carceri, dalla polizia penitenziaria agli educatori, al personale socio-sanitario, gli insegnanti e tutti i civili. In seguito alla condanna inflitta al nostro Paese dalla Corte europea dei diritti umani per “trattamento inumano e degradante”, si erano succedute diverse misure normative che, con vari livelli di efficacia, avevano assicurato un certo decongestionamento. Quando nel 2017 gli effetti delle riforme hanno cominciato a perdere efficacia, il tasso di suicidi è tornato a salire. L’impennata degli ultimi due anni è invece da collegare alla diffusione del Covid e al conseguente blocco di tutte le attività trattamentali, dei laboratori, delle scuole, dell’ingresso dei volontari. Guardando ai tassi di suicidi nella popolazione libera rispetto a quelli che avvengono tra i carcerati, si evince che questi ultimi sono oltre dieci volte in più rispetto alla società esterna. Dal confronto con i sistemi penitenziari degli altri paesi emerge che il nostro tasso di suicidi ben superiore rispetto alla media europea. L’Italia è uno dei paesi con meno suicidi, ma nello stesso tempo è tra i primi per episodi del genere all’interno delle prigioni. Anche dalle statistiche relative agli atti di autolesionismo si nota una maggiore incidenza negli istituti dove più grave è il sovraffollamento. L’ovvia conclusione, suffragata dai dati, è che le condizioni di detenzione devono avere un qualche ruolo nell’esacerbare situazioni già di per sé problematiche. Un rimedio a tutti questi stati di disagio dovrebbe venire dagli psichiatri e psicologi presenti all’interno degli istituti. I vecchi manicomi criminali furono sostituiti, in seguito alla riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, dagli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG). Questi, a loro volta, dal 2015 sono stati rimpiazzati dalle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), di competenza sanitaria, presso le ASL. Qui sarebbe da aprire un discorso a parte, molto lungo e complesso: ci riferiamo alle politiche di risparmio che negli ultimi anni hanno colpito tutti i settori della Pubblica Amministrazione. Nella sanità come nell’istruzione e ricerca, nelle forze dell’ordine e nella giustizia, ci sono stati tagli dei costi talmente drastici da pregiudicare gravemente la qualità dei servizi offerti. Possiamo testimoniare direttamente il disastroso calo di personale (tra pensionamenti non rimpiazzati e mancate nuove assunzioni) nelle due istituzioni in cui ci imbattiamo ogni giorno: scuola e carcere. Qui in particolare, dove i nervi sono scoperti e si combatte in prima linea, gli effetti emergono immediatamente e prepotentemente. Ma data l’analoga situazione che si vive in altri settori strategici sorge il dubbio che, rinunciando a certe funzioni essenziali, lo Stato non venga meno alla sua stessa ragione d’essere. *Professore di Diritto ed Economia nel carcere di Rebibbia “Norma punitiva: rischio per la democrazia” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2022 Presunzione di innocenza. Sergio sottani, Procuratore generale di Perugia: “legge senza senso”. Il procuratore generale di Perugia Sergio Sottani ha emesso una circolare per applicare la norma sulla presunzione di innocenza, in vigore da dicembre, che ha imbrigliato magistrati e giornalisti dato che prevede esclusivamente comunicati stampa da parte dei procuratori e in alcuni casi conferenze stampa, ma solo se per esigenze investigative o per “specifiche ragioni di interesse pubblico”. Procuratore Sottani c’era bisogno di questa norma? Secondo me no. È troppo rigida e potrebbe ottenere l’effetto opposto di quello che vuole, ovvero tracciare i contatti tra giornalisti e magistrati. Prevedere solo comunicati e conferenze stampa dei procuratori rischia di dar luogo a contatti ‘sotto banco’ e non necessariamente con i magistrati, ma con tutti coloro che hanno l’informazione. Magari c’era l’interesse di silenziare le inchieste che coinvolgono politici, esponenti istituzionali, dell’economia… Lo scopo era quello di intervenire sulle indagini con maggiore risonanza, con soggetti noti, ma in realtà si è andati a colpire tutta quell’attività di informazione giudiziaria che fa comprendere una collettività. Dal tipo di reati che ci sono in un territorio si possono capire molte cose. È per questo che nella sua circolare lei ha scritto che le “specifiche ragioni di interesse pubblico” delle comunicazioni da parte delle Procure “andranno valutate con riferimento al territorio ove si cala la notizia”? Certamente. Una grande parte della cronaca locale dei giornali è costituita dalla giudiziaria locale. Quindi non deve essere valutato solo l’interesse dei procuratori ad emettere comunicati ma anche le esigenze dei cittadini a conoscere quanto succede nella realtà in cui vivono. La ministra Cartabia ha tenuto a precisare che l’Italia era obbligata a varare questa norma da una direttiva europea del 2016… Che ci siano stati alcuni casi di spettacolarizzazione delle indagini è vero, ma sono stati casi isolati e c’è già stato, per evitare che si ripeta, un intervento del Csm con una circolare del 2018. La mia impressione è che si sia approfittato della direttiva europea per varare una norma punitiva nei confronti di alcune situazioni senza tenere conto che la realtà è molto più articolata e complessa. Non è un problema dei magistrati o dei giornalisti ma è un problema della democrazia e del dovere dei magistrati di informare in modo naturalmente corretto. Per non parlare di tutte le notizie incontrollate che circolano sui social... Appunto. Bisogna anche tutelare la correttezza delle notizie e sui social, dove circolano comunque, c’è un alto rischio di inaffidabilità. Quindi questa blindatura non ha senso. In attesa di eventuali direttive del Pg della Cassazione e del Csm lei ha scritto che un procuratore potrebbe non parlare solo attraverso i comunicati. In che senso? Si potrebbe pensare a una comunicazione anche verbale con i giornalisti purché ufficiale. Ad esempio attraverso un’intervista o dichiarazioni virgolettate. Il mondo senza diritti dei magistrati onorari: precari e pagati a cottimo che reggono la Giustizia di Simone Alliva L’Espresso, 6 marzo 2022 Hanno la toga come i colleghi ordinari ma non hanno tutele contro l’abuso di contratti a tempo determinato consecutivi, non possono fare causa, non hanno accesso a malattie, maternità e infortuni. “E l’ultimo decreto della ministra Cartabia peggiora la situazione”. Sonia è stata stroncata da un tumore al cervello. Il giorno prima si trovava in Aula, non è riuscita a portare a termine l’udienza. Antonio è tetraplegico e da quindici anni il suo accompagnatore lo aiuta a salire sul banco destinato al giudice di pace, in braccio come si fa con i bambini: “Dottore, se vuole installare qualche rampa o eliminare qualche scalino può farlo. A sue spese”, gli ha risposto il presidente del tribunale. Laura ha avuto due figli: ha lavorato fino a due giorni prima di partorire, poi è rimasta a casa 6 mesi senza poter guadagnare un euro. Durante la seconda gravidanza ha avuto la nomina a giudice onorario presso un tribunale, a pochi giorni dal parto: ha dovuto rinunciare. “Non avevo scelta”. Enza è stata trasportata in ospedale dopo aver perso i sensi durante l’udienza, era al quindicesimo giorno di sciopero della fame ma, per non incorrere nelle sanzioni minacciate dalla Commissione di garanzia, ha continuato a fare il suo lavoro fino al collasso. È il mondo della magistratura onoraria in Italia. Zero rimborsi per le spese legali, zero tutele contro l’abuso di contratti a tempo determinato consecutivi, senza neanche la possibilità di fare causa. Malattie, maternità, infortuni: zero. Nel mondo dei “precari della giustizia” ci sono solo processi e sentenze da scrivere. Solo doveri se si vuole arrivare a fine mese. Un magistrato onorario viene pagato 98 euro lordi fino a cinque ore di udienza e altre 98 lordi se supera le cinque ore. Calcolate al minuto. “Se faccio una pausa, vado in bagno o a pranzo, non valgono”, spiega Elena Pucci, giudice onorario presso il tribunale di Varese. Il lordo dovrebbe coprire anche i contributi previdenziali (obbligatori) e le spese di trasferta: “I soldi che guadagno alla fine coprono le spese che mi portano da Milano a Varese”. Il tempo per studiare i fascicoli e scrivere i provvedimenti non è retribuito: “Direi che è una questione di dignità. Il lavoro è assorbente, abbiamo ruoli autonomi in processi anche importanti”, sottolinea la giudice Pucci che ha scritto sentenze anche per risarcimenti milionari: “Nelle aule di Tribunale ci confondiamo insieme agli altri magistrati ma da un punto di vista di diritti viviamo su un altro pianeta”. Un mondo parallelo, dove pochi vedono le differenze tra due tipi di magistrati celati sotto la stessa toga: i cosiddetti togati o di ruolo - assunti a seguito di un concorso - e i magistrati cosiddetti onorari, a cottimo per titoli (anzianità, pubblicazioni etc.). Creati per occuparsi occasionalmente di reati bagatellari, dal 1998 sono l’ossatura del sistema giudiziario: i viceprocuratori onorari (1.700) e i giudici onorari (2.013) - a cui vanno aggiunti quelli di pace (1.154) - sollevano la mole di lavoro dei circa 9.500 magistrati togati anche su cause importanti. La Commissione europea ha aperto a luglio una procedura di infrazione contro l’Italia per il modo in cui gestisce quest’ultima categoria: “Non sono tutelati”. E con una lettera di messa in mora Bruxelles impone al governo italiano di regolarizzarli. A dicembre per evitare la procedura di infrazione, il ministero della Giustizia guidato da Marta Cartabia ha fatto passare un emendamento alla legge di Bilancio: “Finge di attenuare la situazione ma in realtà la peggiora”, spiega il presidente della Federazione magistrati onorari di tribunale, Raimondo Orrù: “Ci costringe a fare una prova d’esame per l’idoneità, anche a magistrati che lavorano da 20 anni e ci tiene nel costante precariato. I magistrati onorari italiani vengono sottoposti a un’irragionevole procedura concorsuale per rimanere, nondimeno, lavoratori onorari, ossia sprovvisti di qualsivoglia riconoscimento anche solo formale. Per loro resta vietato parlare di giornata lavorativa, orario di servizio, retribuzione, gestione ex-Inpdap, ferie, aspettativa retribuita, ecc.; ma neppure ricevono un trattamento economico adeguato al decoro di un libero professionista operatore del diritto”, sottolinea Orrù. Per accedere al concorso però si presenta quella che il presidente di Fedemot bolla senza mezzi termini come “truffa”. “Qui si chiede la rinuncia alla richiesta dei danni patiti per oltre un ventennio. Un’estorsione: insomma per rimanere come siamo messi oggi, cioè malissimo, mi obblighi a fare un concorso ed io con la semplice presentazione di una domanda automaticamente rinuncio a ogni richiesta risarcimento. La situazione oltre che rilievi di incostituzionalità presenta anche quelli di immoralità: conosco magistrati che vanno alle udienze sotto chemioterapia. Perché non possono fare altrimenti”. Un po’ come è successo a Sonia Rita Caglio del Foro di Monza, giudice onorario presso il tribunale di Bologna. Una vita per la giustizia, la sua storia ricostruita nelle parole di Andrea Giberti, giudice onorario di Modena: “Sonia, il lunedì prendeva il treno da Arcore, cambiava a Milano e, puntuale alle nove iniziava la sua affollatissima udienza nella Sala delle Colonne. Penso che non ci sia situazione processuale peggiore delle convalide di sfratto. Il giudice si trova di fronte a un’umanità dolente. Sonia era esposta a queste scene ogni settimana, ma era un giudice pietoso e sempre aveva a cuore il sollievo di chi aveva davanti a sé. È morta per un tumore cerebrale fulminante. Quel giorno era venuta a Bologna a fare il suo dovere. Non è riuscita a portare a termine l’udienza perché stava male. Ha ripreso il treno per la Lombardia mancando la sua fermata e finì alla stazione centrale di Milano. Suo marito corse a prenderla. Pochi giorni dopo è morta”. Curarsi o guadagnare è una questione declinata da tempo in ogni forma, ma nella magistratura onoraria è una declinazione che dura da vent’anni: “C’è uno scoramento inumano”, si sfoga Giberti: “Nessuno si aspetta una mano, una carezza o un grazie ma non si può umiliare così la gente. La storia di Sonia dimostra come siamo trattati. Come asinelli”. Un pericolo anche l’indipendenza della magistratura: “Così alla gente togli la speranza, si lascia andare e nella migliore delle ipotesi se ne frega, nella minore ti viene un blocco mentale. Un affaticamento”. La magistratura onoraria ciclicamente denuncia con scioperi, lunghi anche sette giorni, un Paese che da più di venti anni ignora un principio logico: è necessario tutelare prima la salute dei garanti della giustizia, in modo tale che sia possibile svolgere, vivi e sani, il lavoro con efficienza e profitto. Eppure, spesso, per chi rende visibile questa richiesta emerge il ricatto. “Chi si lamenta rischia il posto”, racconta Antonio P., giudice onorario con disabilità: “Avrei diritto a una settimana al mese di 104 per le cure. Il condizionale è d’obbligo perché da magistrato onorario non ho un rapporto di lavoro regolamentato e non posso usufruire dei permessi. Certo, potrei fare causa. Ma non affronti le cause in queste condizioni: il rischio è economico ma anche personale. Noi siamo macchine. Nessuno è indispensabile. Ci hanno massacrato in tutti i modi”. Quindi meglio continuare a testa bassa. Prendere o lasciare. Se non accetti tu lo farà qualcun altro. Ogni giorno Antonio arriva in tribunale percorrendo una strada diversa da quella dei suoi colleghi. Impossibile entrare in Aula dalla Camera di consiglio, dalla quale si accede solo da una scala. Con la carrozzina entra dall’ingresso adibito al pubblico, poi per raggiungere la sua postazione, cioè la scrivania del giudice che siede ad un livello superiore rispetto alle parti e al pubblico, in una pedana rialzata, si fa issare dall’accompagnatore e una volta arrivato dietro al grande banco di legno, non riesce a raggiungerlo. La carrozzina fa da barriera tra lui e il banco: “Così per tutto il tempo mi devo tenere i fascicoli in braccio. Ho chiesto delle modifiche. Basterebbe una pedana. Ma non sono un togato. Mi hanno risposto: faccia pure le modifiche che vuole ma non chieda soldi”. Fuori dalle sigle, la questione dei magistrati onorari è ben visibile dai giuristi che denunciano “un abuso” di una figura che per anni ha fatto muovere la macchina della giustizia: “Ferma restando la complessità di stabilizzare certe figure, bisogna considerare che sulle spalle delle varie tipologie di giudici onorari si gioca il funzionamento di molti uffici giudiziari italiani da almeno vent’anni”, spiega Silvia Izzo, professoressa associata di Diritto processuale civile all’università di Cagliari: “A poco a poco la figura del magistrato onorario è stata inserita a tutti i livelli, anche in corte di Appello. Figure che non sono incardinate e che lavorano per lo più a cottimo, cioè per numero di sentenze pronunciate. Il risparmio in termini di costi che ricava la giustizia su queste figure è palese. Sono state istituite per far fronte a esigenze contingenti e poi possiamo dire che né è stato fatto un abuso”. Resta, in filigrana, la questione del Pnrr nazionale. L’Italia ha infatti proposto un progetto che interviene in alcune materie strategiche per il rilancio dell’economia italiana, tra queste la giustizia fortemente minata dai precari della magistratura. Sarà compito del governo sbrogliare la matassa. “Ma quelli hanno il trapano in mano e le cuffie alle orecchie”, sospira Antonio: “Qui non ci sente mai nessuno”. Roma. Melany, Lory, Perla. Le transgender vittime dell’apartheid in carcere di Silvia Perdichizzi L’Espresso, 6 marzo 2022 Escluse dalle attività ricreative, recluse in un reparto, non possono ricevere visite nelle aree verdi. Come se scontassero una doppia condanna. Al reparto G8 di Rebibbia è un martedì come tanti. Melany si avvicina al cancello. Infila il braccio tra le sbarre e fa segno alla guardia di aprire. Il cancello si muove lentamente e Melany può oltrepassare quel confine che le è in genere precluso. Quel confine oltre al quale per gli altri detenuti c’è un minimo di libertà. Ma non per lei, né per le sue compagne. La loro colpa? Essere transessuali. “Noi trans viviamo in uno spazio confinato, non possiamo fare le attività che fanno gli altri, per noi è tutto più difficile”, dice. Una gabbia nella gabbia, una doppia condanna. Melany, all’anagrafe Calixto, è brasiliana e ha 35 anni ma vive in Italia da quando ne aveva 20. Una vita passata sul marciapiede per poi finire dietro le sbarre. È una transgender e, se questo rappresenta un problema fuori dal carcere, dentro la sua vita è più complicata di quella degli altri detenuti, donne e uomini. Prende gli psicofarmaci perché ha spesso attacchi di panico legati alla convivenza forzata in spazi riservati molto ristretti. Siamo a “Roma Rebibbia”. dentro la sezione carceraria più grande dedicata in Italia alle transessuali: L’Espresso ha potuto visitarla, incontrare le detenute, osservare una realtà chiusa a doppia mandata. All’interno del reparto maschile G8 vivono più di 250 detenuti che si dividono tra coloro che possono svolgere lavori esterni e i detenuti che si dedicano a lavori di pubblica utilità. E poi ci sono loro: 17 transessuali relegate dietro un enorme cancello blu addobbato con lucine colorate che sembra ancora Natale. Vivono lì, tra cinque stanze per dormire, una per la scuola, una polivalente e una che dovrebbe essere la stanza della socialità ma che viene usata per stendere i panni. “Oltre questo spazio, spiega Melany, non possiamo andare. Non possiamo nemmeno ricevere visite nell’aria verde a differenza dei detenuti maschi”. Melany soffre molto la solitudine, la sua famiglia non è in Italia e, solo dopo una battaglia durata tre anni, è riuscita ad ottenere la possibilità di ricevere la visita di un amico. “Per fortuna da qualche tempo posso andare a lavorare al G14, in ambulatorio, altrimenti mi ammazzerei”. Lory, all’anagrafe Loris, romana, ha 38 anni. È agli arresti domiciliari da circa un anno ma è stata a Rebibbia dal 2010 al 2015. La prossima estate avrà finito di scontare la sua pena. Si nasconde dietro un’apparente spavalderia ma ammette che il suo sogno è andare all’estero dove “de ‘sta storia che sei trans non gliene frega niente a nessuno”. Del carcere ha anche ricordi belli, legati soprattutto alle persone. Per questo ha sofferto molto quella che chiama una “ghettizzazione”. “Soprattutto all’inizio non sapevano se usare il maschile o il femminile e hanno finito per chiamarci per cognome. Non potevamo usare il trucco e neppure gli accessori. Ricordo una poveretta che è stata chiusa in cella per non farsi vedere pelata fino a quando non ha avuto la sua parrucca”. Quisquilie per molti, questioni di identità per loro. In Italia la realtà delle trans in carcere è una questione molto delicata, quasi clandestina, di cui lo Stato non si preoccupa, scaricando il peso sugli Istituti penitenziari che già si trovano ad affrontare problemi di sovraffollamento e mancanza di personale. Nel nostro Paese i transessuali sono 400mila e il dato, fornito dall’Istituto Superiore di Sanità, è approssimato per difetto. Un dato, anche quantitativamente, importante e invece le istituzioni, come spesso accade in Italia, arrancano nel riconoscimento di diritti civili elementari e in quello all’autodeterminazione. Arrivano dopo: non solo rispetto ad associazioni che svolgono un ruolo di “rompighiaccio”, ma anche rispetto ad un’opinione pubblica sempre più lontana da mentalità anacronistiche, sessuofobe, sessiste. Quello di Rebibbia non è un caso isolato. Esistono reparti trans anche a Reggio Emilia, Belluno, Milano San Vittore, Firenze Sollicciano, Napoli Poggioreale e Ivrea. Nelle altre carceri le persone transessuali vengono inserite nei reparti “precauzionali” insieme ai sex offenders (pedofili, detenuti per violenza sessuale...), ai collaboratori di giustizia e agli ex appartenenti alle forze dell’ordine. La motivazione? Tutelarle da violenze, discriminazioni, attacchi omofobi. Antigone, associazione che da anni si batte per la tutela dei diritti dei detenuti, parla di “sezioni ghetto” e nel suo XIII Rapporto denuncia “l’esclusione delle transgender dalle attività culturali, sportive e ricreative, oltre la difficoltà a relazionarsi con il mondo esterno. Nella quotidianità le transessuali trascorrono la maggior parte del loro tempo separate e limitate nell’uso degli spazi pubblici per rispettare il principio di non promiscuità su ordine del ministero”. Altro aspetto delicato è quello della difficoltà “a garantire continuità nelle cure ormonali. Non tutte le Asl, infatti, le riconoscono e la spesa spesso deve essere sostenuta dalla persona interessata”. Isolamento e ghettizzazione generano, poi, un grande disagio psicologico che può sfociare in episodi di autolesionismo, automutilazione, suicidio come ultimo tentativo disperato di denunciare la mancanza di riconoscimento della propria identità sessuale. Eppure, come sostiene la Garante per i detenuti di Roma e Provincia, Gabriella Stramaccioni, “quella delle sezioni dedicate è l’unica strada possibile: la promiscuità è un rischio troppo alto e quella dei sex offenders mi sembra la soluzione meno adatta, quasi offensiva. Ma questa forma di protezione va ripensata e istituzionalizzata, partendo dalla formazione, affinché i diritti non vengano sacrificati in nome della sicurezza”. In che modo? Serve un passo indietro. L’ultima riforma dell’Ordinamento penitenziario risale al 1975. Soltanto nel 2016, su spinta delle tante associazioni attive sul territorio e del Movimento identità trans (Mit), è stato istituito un tavolo di lavoro con il ministero della Giustizia e il Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap). Da qui l’introduzione del concetto di “sezioni dedicate” all’interno dell’ordinamento e l’impegno ad adottare delle Linee guida affinché le sezioni non si tramutassero in una forma di apartheid. Suggerimenti, appunto. Scaduti tra l’altro con la conclusione del progetto. Per il resto nulla. “In buona sostanza è tutto nelle mani dei direttori dei vari Istituiti. La soluzione potrebbe essere semplice: seguire le Linee guida europee, investire nella formazione continua, l’ultima risale al 2014, e nella sensibilizzazione, appoggiandosi alle associazioni che da anni lavorano su questi temi, e garantire l’accesso ai servizi socio-sanitari nazionali”, dice Porpora Marcasciano, storica attivista Lgbt e presidente onoraria del Mit. Ma in un sistema carcerario stretto tra sovraffollamento, sicurezza, problemi sanitari e suicidi, le trans sono l’ultimo pensiero. In realtà qualcosa è stato fatto. A Rebibbia, per esempio, il Garante nel 2015 ha proposto un progetto culturale per colmare il vuoto di conoscenza dei diritti della comunità Lgbt tramite un laboratorio di serigrafia e di giornalismo. E ha fatto in modo che le persone trans fossero inserite nei percorsi di istruzione di primo e secondo livello. Un grande passo è stato fatto con l’estensione, voluta dall’ispettrice del G8, Cinzia Silvano, e dalla direttrice, Rosella Santoro, dell’accesso al lavoro anche alle detenute transgender, parificando così i loro diritti a quelli degli altri detenuti. Ed è stata concessa la possibilità, riservata alle donne, di comprare accessori come trucchi e parrucche. Molto è stato fatto anche a Ivrea, grazie alla collaborazione del carcere con il Centro interdipartimentale disforia di genere Molinette (Cidigem) della Città della Salute e della Scienza di Torino. Un centro specializzato di riferimento che ha permesso la formazione del personale a tutti i livelli. “Serve un lavoro continuo per superare il pregiudizio che il mondo transgender sia legato alla prostituzione e alla sessualità deviante e un costante supporto psicologico alle detenute”, spiega Chiara Crespi, psicologa e psicoterapeuta. La collaborazione con il Cidigem ha consentito che alle detenute fosse garantita sempre la terapia ormonale e il supporto sanitario necessario, evitando il disperdersi tra le varie Asl. Isole in mezzo ad un mare ostile. Perla (Azevedo sui documenti), brasiliana, è arrivata in Italia a soli 18 anni. Adesso ne ha 28. Un passato di violenze, abusi e tentati suicidi dentro e fuori dal carcere. Sogna un futuro in cui liberarsi dalle catene mentali per cui il destino di una trans sia uno e uno solo. Ma fin quando le istituzioni non fanno il loro dovere e si affidano al mondo dell’associazionismo e al buon cuore dei direttori penitenziari, quel marchio le viene ricordato ogni giorno. “Ogni volta che sento al microfono la voce che chiama i detenuti uomini per il corso di teatro, spagnolo, per il pallone mi ricordo che sono solo una trans”, sussurra. Anche qui dentro, dietro il cancello blu, sezione trans, reparto G8, Rebibbia nuovo complesso. Ferrara. Tribunale dà l’okay per spostare il detenuto malato, ma nessuna struttura lo accoglie di Benedetta Centin Corriere di Bologna, 6 marzo 2022 L’uomo, con diverse patologie e in carrozzella, dovrebbe scontare la pena in un istituto dove lo assistano, ma non si trova. Il tribunale di sorveglianza di Bologna ha dato il benestare affinché il detenuto, che soffre di alcune patologie e ed è costretto a muoversi in carrozzina, possa finire di scontare la sua pena fuori dal carcere di Ferrara, in una struttura più idonea per le sue condizioni di salute. Una struttura che possa quindi anche assisterlo visto che non ha piena autonomia nella mobilità e necessita di cure. Ma questa benedetta struttura non si trova. Anche se qualche disponibilità era stata data poi è sopravvenuta la disdetta e ad oggi il detenuto, che ricorre anche a brevi ricoveri in ospedale ed è in condizioni che stanno progressivamente peggiorando, si trova ancora dietro le sbarre. Senza una destinazione - Un luogo inadatto considerato il suo quadro clinico, le sue patologie che gli impediscono di camminare da solo, così come riconosciuto dal tribunale di sorveglianza che ha consentito appunto la detenzione alternativa, fuori dalla casa circondariale, in una struttura che possa prendersi cura di lui. Una ricerca che però, per ora, è stata infruttuosa, come racconta il difensore del 48enne, l’avvocato Gabriele Bordoni. Anche se individuate delle soluzioni non si è arrivati mai al “sì” per l’accoglienza del detenuto, che deve finire di pagare il suo conto con la giustizia per una serie di reati commessi in passato, inserito nella malavita organizzata, condannato, tra gli altri, per spaccio di droga, estorsione e rapina. Non si chiede quindi alcuna “limatura” della pena: i giorni previsti, a cui è stato condannato, il 48enne intende scontarli tutti fino all’ultimo. Solo vorrebbe poter essere recluso in un luogo più adatto al suo stato fisico, in cui possa contare anche sull’assistenza di personale preposto. Reggio Calabria. Il Garante: “Al carcere di Arghillà un solo medico e pochi agenti” di Anna Foti lacnews24.it, 6 marzo 2022 L’allarme lanciato dall’Ufficio comunale, in occasione della presentazione della relazione annuale. “C’è tanto da lavorare e tanto per cui spendersi ma è necessario implementare il personale di polizia penitenziaria, e operatori come gli educatori. I percorsi trattamentali devono al più presto tornare ad avvalersi della preziosa risorsa del volontariato. È mia intenzione, inoltre, istituire un tavolo tecnico che concretamente affronti l’emergenza medico-sanitaria nel carcere di Arghillà, che non può più aspettare”. Ecco le criticità illustrate dalla garante comunale per le persone detenute e private della libertà personale, Giovanna Russo, in occasione della partecipata presentazione della relazione annuale del lavoro svolto dal suo Ufficio (composto dalle avvocate Maria Antonia Belgio, Teresa Ciccone e Elena Siclari e dall’avvocato Carmelo Lazzaro), nella cornice della sala consiliare Pietro Battaglia di palazzo San Giorgio, sede dell’amministrazione comunale di Reggio Calabria. Criticità che inevitabilmente incidono sul diritto di rango costituzionale ad una pena con funzione rieducativa delle persone detenute all’interno del plesso Giuseppe Panzera di Reggio e del plesso di Arghillà, rispettivamente con una popolazione di 174 persone detenute a fronte di una capienza di 182 e di 289 persone detenute a fronte di una capienza di 302, dati al 31 dicembre scorso. Allarme medico-sanitario nel carcere di Arghillà - Una criticità che diventa allarme relativamente al servizio medico-sanitario nel carcere di Arghillà. “Al momento solo un medico è in servizio e dei dodici infermieri attualmente operativi, solo sei resteranno, a fronte di quasi trecento persone detenute, dopo la scadenza del loro contratto fissata al prossimo 31 marzo. Una situazione davvero insostenibile che intendo seguire con determinazione, perché la salute è un diritto che va garantito sempre e perché la vita di una persona detenuta non vale certamente meno di quella di un cittadino libero”, ha ribadito la garante Giovanna Russo. Carenza di personale - Servono interventi in termini quantitativi sugli organici di polizia penitenziaria e non solo. “Nel plesso di Arghillà, a fronte di una presenza di persone detenute pari a 289, risultano effettivi in istituto 109 unità, il rapporto è di 1 a 3 considerando la pianta organica, diventa di 1 a 30 circa nella ripartizione degli orari di lavoro, turnazioni, ferie, malattie (tutti diritti spettanti al lavoratore). Una situazione che desta preoccupazione e che l’Ufficio sta attenzionando. Superate le ataviche carenze di personale sono certa che un ambiente penitenziario più armonioso garantirebbe complessivamente una migliore qualità della vita all’interno dell’istituzione carceraria. Presto avrò un incontro con le sigle sindacali perché questo Ufficio reputa necessario un clima di serenità anche e soprattutto in un contesto di lavoro così particolare, dove la dimensione emotiva merita un’attenzione specifica. Riteniamo che sollecitare il perseguimento del benessere della polizia penitenziaria equivalga a garantire sicurezza e, dunque, anche i diritti delle persone detenute, ambito di diretta competenza di questo Ufficio. Occorre segnalare, inoltre, che una sola Direzione si divide tra i due istituti di Reggio e Arghillà, che si avvale di un ulteriore direttore in missione da Locri che non può essere presente in istituto quotidianamente. La direzione non con poco sforzo gestisce, così, la complessa macchina burocratica, amministrativa e umana di una città difficilissima, quella delle persone recluse. Le strutture penitenziarie rappresentano, infatti, una piccola città all’interno della quale le esigenze umane dei reclusi e quelle amministrative della governance penitenziaria riproducono la rappresentazione di una città “normale”, ha sottolineato ancora la garante comunale, Giovanna Russo. “Non siamo mai venuti meno al nostro ruolo nell’esercizio della giurisdizione rieducativa nei confronti delle carceri del nostro Distretto, anche quando, durante la pandemia, abbiamo registrato in termini di personale una sofferenza, dovuta ad uno scarto corposo tra quello in servizio, ridottosi anche per malattie, e quello in pianta organica. Uno scarto che ad oggi è quasi totalmente rientrato. Speriamo che il quadro possa essere completato per consentire una maggiore efficienza, anche dal punto di vista amministrativo”, ha sottolineato Daniela Tortorella, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria. La sicurezza nelle carceri - Un contesto, quello delle carceri reggini, in cui la cronaca recente scandita da aggressioni, violenze e presunti pestaggi di detenuti, denuncia in modo evidente una fragilità dell’intero sistema penitenziario. “L’istituto penitenziario di Arghillà è stato negli ultimi anni popolato da detenuti provenienti da altre regioni (Campania, Puglia, Sicilia, in barba al principio di territorializzazione della pena), il carcere sovrabbonda di detenuti extracomunitari e di detenuti tossicodipendenti. Trattasi di una diversificazione di popolazione detentiva assai problematica da gestire, tanto sul versante della sicurezza quanto su quello trattamentale che, considerate le carenze indicate, finisce per produrre inevitabili e drammatiche disfunzioni. Non entro nel merito delle indagini in corso e delle vicende strettamente giudiziarie. Posso, però, dire che tocco con mano un assottigliamento della forza emotiva all’interno di un sistema che sottopone quotidianamente le persone a grandi tensioni. Servono percorsi di formazione per agenti e le altre figure che operano. Tra le proposte dell’Ufficio, vi è anche quella di un protocollo per offrire un supporto psicologico per tutti gli operatori che gravitano all’interno dell’istituzione penitenziario”, ha spiegato la garante dei Detenuti e delle Persone private delle libertà personale di Reggio Calabria, Giovanna Russo. Le proposte dell’ufficio del Garante - “Sono in cantiere i seguenti Protocolli che dovranno essere perfezionati e siglati nei prossimi mesi: protocollo Procura di Reggio Calabria, riguardante la gestione di profili di eventuale criticità nelle condizioni detentive presso gli Istituti penitenziari reggini, protocollo cliniche legali università degli studi Mediterranea di Reggio Calabria Di.Gi.ES. e Direzione istituto penitenziario di Reggio Calabria, protocollo interistituzionale contro il fenomeno della ‘ndrangheta, della corruzione e dell’illegalità diffusa e la diffusione della cultura della legalità partendo dal carcere, protocollo Sanità e formazione, Giustizia ripartiva - Mediazione Penale, protocollo interistituzionale Impresa/Responsabile che vedrà alcune istituzioni impegnate a puntare realmente sul reinserimento delle persone detenute, senza pregiudizio per il reato commesso. Il neo Capo del Dap ha dichiarato che “il Terzo settore è responsabile dell’ottanta per cento delle attività trattamenti e rieducative secondo Costituzione”, io concordo. Vi sono poi da rinnovare i protocolli d’intesa con il ministero Giustizia Mandela’s office, quelli per lo svolgimento di attività di lavoro volontario e gratuito in favore della collettività e del lavoro di pubblica utilità e la convenzione per il reinserimento sociale dei minori in alternativa alla detenzione”, ha specificato la garante comunale, Giovanna Russo. La giustizia che ripara e rispetta il patto - “Troppo spesso si rischia di punire un crimine commettendone un altro. Questo non vuol dire che i delitti debbano restare impuniti, ma che le pene devono essere giuste, commisurate e soprattutto devono avere una componente restaurativa, perché la giustizia che restaura favorisce tutta la società. Ma mentre la giustizia guarda al passato, il patto istituzionale, alla base del quale la persona detenuta viene reclusa affinché la pena sia rieducativa, è proiettato nel futuro; è il passo dal quale si riparte. Il patto è la promessa di restituire un soggetto riparato”, ha concluso la garante dei Detenuti e delle Persone private delle libertà personale, Giovanna Russo, che al termine della presentazione ha inteso dedicare un riconoscimento per il loro prezioso operato alla presidente Tribunale di Sorveglianza, Daniela Tortorella, alla direttrice del carcere di Locri, Patrizia Delfino, alla comandante della polizia penitenziaria del plesso di Arghillá, Maria Luisa Alessi, e alle vice comandanti, Gabriella Mercurio e Giuseppina Crea. Latina. Provincia, Tribunale e detenuti insieme per la pubblica utilità latinacorriere.it, 6 marzo 2022 Gerardo Stefanelli, Presidente della Provincia, ha rinnovato le due convenzioni per lo svolgimento presso l’ente di via Costa di lavori di pubblica utilità. Si tratta della Convenzione sottoscritta con il Tribunale di Latina nel 2017 della durata massima di cinque anni e di quella del 2019 della durata massima di 3 anni. Tali atti riguardano i casi in cui il giudice decida di subordinare la sospensione condizionale della pena alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività oppure l’imputato chieda e ottenga di scontare la pena con il lavoro di pubblica utilità: le norme prevedono la possibilità di svolgere quindi attività non retribuita presso lo Stato o gli enti locali. Per quanto riguarda la Provincia di Latina l’accordo prevede che i condannati scontino la loro pena svolgendo attività manutentive su strade provinciali; attività manutentive in generale e attività di supporto presso gli uffici dell’ente a seconda di quanto disposto dal giudice nella sentenza. La seconda convenzione riguarda invece le persone alle quali il magistrato ha concesso la messa in prova sulla base di un programma subordinato all’espletamento di un lavoro di pubblica utilità. L’ente consente che presso la propria struttura svolgano tali mansioni non più di dieci persone contemporaneamente. Il Presidente del Tribunale Caterina Chiaravalloti ha risposto positivamente alla richiesta della Provincia autorizzando nei giorni scorsi il rinnovo di entrambe le convenzioni. “Abbiamo voluto proseguire con queste convenzioni - sottolinea il Presidente Gerardo Stefanelli - perché riteniamo che sia importante offrire a coloro che hanno commesso reati minori la possibilità di riabilitarsi attraverso questo tipo di impegno invece di scontare la pena in maniera più afflittiva”. Baby gang e malamovida, Milano maglia nera d’Italia di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 6 marzo 2022 Dai primi casi negli anni 70 agli assalti postati sul web. Scippi, rapine, violenza giovanile, le rilevazioni del Viminale su arresti e denunce di minori: 1.442 indagati tra gennaio e agosto 2021, più che a Roma. In Lombardia uno su due è straniero. Un “Patto per Milano” tra istituzioni. Navigli, corso Como, Garibaldi, piazza Leonardo da Vinci, Porta Venezia. Sono queste le zone a rischio della notte dei fine settimana. Di giorno, invece, i punti più caldi sono piazza Gae Aulenti, Citylife, i giardini di largo Marinai d’Italia, piazza Mercanti, il parco Solari. Ma le aggressioni avvengono anche sui mezzi pubblici. Magari a notte fonda quando i gruppi rientrano verso casa e l’alcol alza i giri. L’abuso di alcol e di droghe è spesso una costante. Non solo per gli autori di aggressioni e rapine, ma anche per le vittime che infatti in diverse occasioni non hanno ricordi precisi di ciò che è accaduto, non sono in grado di dare descrizioni utili e neppure di chiedere aiuto. Milano prima in Italia per arresti e denunce - L’allarme per le baby gang e la malamovida a Milano è arrivato, con le sue polemiche, perfino al Parlamento. È oggetto costante di campagna elettorale, terreno di scontro della politica. I numeri non parlano di un vertiginoso aumento dei reati commessi da minori, ma la crescita c’è. Il picco, secondo la procura dei Minori, s’è registrato nel 2019. Le ultime rilevazioni del Viminale parlano di un certo aumento degli indicatori di arresti e denunce di minori con Milano che segna 1.442 giovanissimi indagati tra gennaio e agosto 2021 al primo posto della classifica. Roma è seconda con 1.214. Ma il dato, influenzato dalla popolazione residente è poco significativo in rapporto alle altre città. Diverso è quello sulla provenienza di indagati e arrestati: in Lombardia uno su due è straniero. I numeri anche se in crescita del 3% dopo il lockdown non sono quelli di un’emergenza. O quantomeno l’incremento non è così alto da andare fuori controllo. Le “imprese” sui social - Come spesso succede il termometro dell’insicurezza percepita però sembra molto più sballato della realtà. E allora di chi è la colpa? C’è forse una sovraesposizione mediatica dietro risse e aggressioni nelle notti del divertimento? O grazie a smartphone e testimonianze che rimbalzano via social, certi episodi più piccoli che prima restavano relegati agli occhi dei testimoni oggi raggiungono tutti trasmettendo la sensazione di una città che somiglia davvero a Gotham City? L’allarme baby gang già nel 2000 - Per capire il fenomeno è forse bene partire da lontano. Ben prima che la scusa dei due anni di domiciliari causa lockdown e pandemia possa assorbire come una spugna le ragioni dell’esplosione di violenza giovanile. Nei primi anni Duemila la scusa del coronavirus non esisteva, eppure il Corriere titolava in prima pagina nazionale: “Milano, presi i piccoli rapinatori. Avevano derubato e picchiato due coetanei. Appartengono a famiglie agiate e hanno tra i 12 e i 16 anni. Nel gruppo anche tre ragazzine” (5 gennaio 2000). Anche in quel caso c’era stata una escalation di episodi negli ultimi mesi, tanto da spingere l’allora ministro dell’Interno Enzo Bianco a lanciare un appello a tutta pagina: “Ragazzi, denunciate le baby gang” (6 gennaio 2000). Due anni dopo, rispondendo ad una mamma che aveva denunciato l’aggressione al figlio 16enne, l’allora prefetto Bruno Ferrante aveva ammesso che anche suo figlio, negli anni Ottanta, era stato accerchiato e aggredito per rapina da altri ragazzi in piazza San Babila (14 febbraio 2002). La mala degli anni Settanta - Niente di nuovo sotto al sole. Curioso poi che il fenomeno sia esploso in quel periodo (si ricordino le polemiche per i 9 omicidi in 9 giorni del ‘99), da quando Milano ha visto un progressivo e inesorabile calo dei reati e degli omicidi. Quando, insomma, la criminalità è diventata più subdola e meno visibile. E per i nostalgici del tempo passato vale la pena ricordare le prime baby gang (definizione di un articolo del 10 gennaio 1970) che vedono in azione nomi che da lì a qualche anno sarebbero diventati celebri tra i banditi della mala milanese e della criminalità organizzata. E no, non si stava meglio quando si stava peggio, a giudicare dalle storie di inizio secolo con l’allarme lanciato il 10 gennaio 1896 dall’eloquente titolo: “Delinquenti minorenni”. In quell’occasione si riportavano i dati dell’anno giudiziario: su 14.353 imputati 2.910 erano minorenni; su 4.157 condannati 1.151 quelli sotto i 18 anni. E già si lanciava l’allarme per i gruppi di “fanciulli” che commettevano rapine e furti. La movida in strada - Non una novità, anche se il cambiamento dei tempi e delle modalità nella vita dei giovani ha aggiornato luoghi e orari degli assalti. Oggi non esiste praticamente più l’attrattiva delle maxi discoteche che negli anni Novanta erano spesso il teatro di risse e aggressioni. La movida si vive più fuori che dentro ai locali, con un bicchiere in mano, in strada, con giovani (anche 100-200) ammassati in poche decine di metri. E tra i giovanissimi da tempo l’alcol non si compra nei pub ma nei mini market o nei supermercati. Al prezzo di un solo cocktail si acquista un’intera bottiglia. La scintilla per le aggressioni - Le aggressioni avvengono per lo più tra l’una e le tre di notte. Spesso anche oltre. Ad agire non sono bande che arrivano improvvise come in assalti alla diligenza, ma gli stessi ragazzi con cui si è bevuto, anonimamente, gomito a gomito. Gli atti giudiziari dei numerosi arresti eseguiti in questi ultimi due anni da polizia e carabinieri (dall’Arco della Pace a Garibaldi, fino alla Darsena) descrivono copioni quasi identici. Non si tratta di gruppi che escono con il preciso scopo di commettere rapine o aggressioni. Sono spesso ragazzi che si divertono nel corso della serata ma che poi, con la scusa di uno sguardo, una parola, una spinta, scaricano la loro violenza sulle vittime. Sempre in gruppo. C’è chi tira anche solo un calcio e si allontana, chi ne approfitta per strappare collanine e cellulari. La tecnica della “nuvola” - “I bottini sono sempre miseri e non è certo la prospettiva di arricchirsi a unire i membri delle gang”, spiega un investigatore. In molti casi, anche a distanza di mesi, polizia e carabinieri hanno recuperato catenine o telefoni a casa degli autori. Le aggressioni durano pochi secondi, anche solo tra i dieci e i venti, poi i gruppi evaporano mentre le vittime restano a terra. Si muovono come “nuvole” nella folla, riutilizzando le parole del questore Giuseppe Petronzi sugli assalti sessuali della notte di Capodanno, per poi sparire immediatamente. Chi è testimone, specie se giovanissimo, a volte preferisce riprendere le scene con i telefonini e fare la fortuna di alcune pagine social che cavalcano l’allarme sicurezza anziché chiamare polizia e carabinieri. Secondo gli inquirenti nelle ultime settimane è aumentata la “resistenza” posta dai giovani davanti ai controlli di polizia: un misto di insofferenza e di pericolosa sfida alle istituzioni. Come avvenuto due settimane fa in corso Como dove alcuni ragazzi hanno aggredito gli agenti della Mobile che avevano fermato un loro amico. Neppure la presenza delle divise pone un freno. Anche ragazze nelle gang - Molte volte sono stati utilizzati coltelli, altre cocci di bottiglia, o contenitori di vetro e bicchieri scagliati addosso alle vittime. Ecco, le vittime. Spessissimo sono ragazzi che rimangono “isolati” dai gruppi di coetanei, prede facili. Ma questo non è un assioma, perché in diverse occasioni sono invece i cosiddetti “capobranco”, i ragazzi più spavaldi del gruppo, a essere presi di mira. Una reazione, un insulto, uno sguardo di troppo fanno subito scavalcare il confine tra l’insulto e la rissa. E non c’è differenza di genere tra chi è vittima e chi aggredisce: spesso nelle baby gang ci sono anche ragazze. Durante i controlli di due settimane fa moltissimi ragazzi sono stati trovati in metropolitana senza biglietto: “Un segnale di mancato rispetto delle regole minime di convivenza”. A volte il tutto è accompagnato da raid vandalici (motorini, monopattini e bici rovesciati o buttati nel Naviglio) tanto gratuiti quanto violenti per chi si trova davanti questi gruppi. Per assurdo la minor incidenza della criminalità vera e il venuto meno controllo del territorio di quella organizzata (trent’anni fa a Milano si combattevano anche guerre di mafia) ha lasciato da un lato campo libero per la piccola delinquenza, e dall’altro funge da specchietto per le allodole per concentrare su altri, e decisamente minori problemi, l’attenzione di cittadini e forze dell’ordine. I giovani stranieri - Il capitolo più delicato riguarda le origini dei giovani arrestati. In molti casi raccontati negli ultimi mesi si tratta di ragazzi di seconda generazione o arrivati da poco. La provenienza è soprattutto dall’area del Maghreb ma non manca l’Est Europa. È un dato che non deve ingannare e riguarda, sia ben chiaro, una piccola minoranza. Lo stesso avveniva negli anni Sessanta e Settanta con i giovani emigrati dal meridione, accusati allora di essere un problema per la sicurezza. Non tutti vivono in città, ma i collegamenti pubblici molto migliorati hanno accorciato le distanze con altre province: Lecco, Varese, Como, Bergamo, Brescia, Pavia. Molti sono studenti, ma c’è una forte componente di ragazzi che vivono in condizioni di gravi fragilità economiche e sociali. I minori non accompagnati - E questo ricalca il crescente numero di “minori non accompagnati” o giovani che arrivano a Milano dopo gli sbarchi dal Nordafrica. Ragazzi che non hanno contatti stabili a Milano con i famigliari, che vivono grazie al welfare (a volte illegale, altre davvero generoso e solidale) delle comunità: offrono un lavoretto, un letto dove dormire, un cellulare, reti anche via social per connettersi con altri connazionali. Un “mutuo soccorso” sotterraneo che esiste parallelamente, ma senza mai toccarsi, agli insufficienti progetti messi in campo dalle istituzioni per l’inserimento dei migranti. Progetti che per giovani e giovanissimi sono il vero tallone d’Achille di questa storia. Sassari. “Oltre i muri”, incontri nelle scuole sulla realtà carceraria La Nuova Sardegna, 6 marzo 2022 L’associazione “Oltre i muri - volontari a Bancali”, a partire da mercoledì 9, organizza degli incontri sulla realtà carceraria in Sardegna rivolti agli studenti degli Istituti Superiori di Sassari. Gli incontri sono finalizzati ad analizzare e discutere il vissuto delle persone che hanno commesso dei reati e che vorrebbero trovare un’altra dimensione di vita, a comprendere come si articola il percorso dei “ristretti” nel carcere, dove spesso si amplificano i problemi che essi si portano dentro, e a focalizzare il legame tra esclusione e ritorno nel contesto sociale. Durante l’incontro verrà proiettato il film-documentario dal titolo “Per grazia non ricevuta” (regia di Davide Melis), un viaggio attraverso le carceri sarde, realizzato e interpretato dagli artisti G.M. Boscani e Joe Perrino. Saranno presenti i due interpreti e alcuni esponenti dell’associazione (uno dei quali è stato in carcere e ha intrapreso da anni un percorso riabilitativo). Dopo il film si aprirà la discussione sulla realtà carceraria alla quale parteciperanno gli studenti e i docenti intervenuti. Sassari. Tavola rotonda dell’Università sul tema della giustizia riparativa La Nuova Sardegna, 6 marzo 2022 È prevista per mercoledì 9 marzo, online sulla piattaforma zoom, dalle 10 alle 13, la tavola rotonda “Edupris - Le possibilità del futuro e i futuri possibili: dall’imparare all’apprendere”, organizzata dall’Università di Sassari attraverso il team delle Pratiche di Giustizia Riparativa, partner italiano del Progetto europeo Edupris. Obiettivo dell’incontro è l’avvio di un confronto sullo stato dell’istruzione e sui percorsi di apprendimento per minori e giovani adulti all’interno degli istituti penitenziari. Lo scopo di Edupris è proprio quello di ottenere i migliori risultati possibili di apprendimento dell’istruzione in contesti giovanili attraverso la promozione diretta e attiva di ambienti di apprendimento inclusivi, sviluppando una migliore gestione dei professionisti dell’insegnamento e dell’apprendimento nel sistema di giustizia minorile nei paesi partner e a livello europeo; sostenere insegnanti, educatori e dirigenti delle istituzioni educative nell’affrontare; rafforzare la diversità socioeconomica nell’ambiente di apprendimento della giustizia penale per i bambini e gioventù. Fra gli interventi allo studio, ci sono un metodo pratico per lavorare con bambini e ragazzi, sotto forma di manuale per insegnanti, un meccanismo di supporto per insegnanti e professionisti della giustizia e dell’istruzione che interagiscono con i bambini e le strutture correzionali giovanili (competenze e strumenti, pratiche, materiali per l’autosviluppo dei giovani). La partecipazione alla tavola rotonda, a numero chiuso, è gratuita. Il termine ultimo per le iscrizioni al seguente link https://forms.gle/4nyLQ3k57hJ8hH5H6 è lunedì 7 marzo alle ore 13. Per ulteriori informazioni si può inviare una mail a lucrezia.perrella@outlook.it Firenze. Sollicciano, un documentario sulla pandemia dei detenuti stamptoscana.it, 6 marzo 2022 Un film-documentario che racconta come una compagnia teatrale, formata da attori detenuti nel carcere di Sollicciano di Firenze e attrici professioniste, ha vissuto l’isolamento durante la pandemia da Covid del 2020. È “Faccia di capra - Storia di una metamorfosi di Elisa Taddei e Corrado Ravazzini”, in programma lunedì 7 marzo alle 19.00 alla presenza della direttrice del carcere di Sollicciano, Antonella Tuoni, di alcuni detenuti della compagnia teatrale interna al carcere, delle attrici della compagnia Krill Teatro, e della regista Elisa Taddei. Nei mesi della pandemia il gruppo di detenuti e della compagnia teatrale iniziarono una corrispondenza epistolare, nel corso della quale il testo che avrebbe dovuto essere il loro prossimo spettacolo, tratto da una fiaba della raccolta Lo cunto de li cunti di Basile, diventò l’eco fantastica di una lenta e difficile trasformazione che riguardò tutti. Il film parla dunque di metamorfosi e ha cercato di farlo mettendo in costante dialogo il mondo della fiaba con quello della realtà. Le immagini che mostrano la solitudine degli attori rinchiusi nei rispettivi mondi - il carcere e le abitazioni private - si alternano per contrasto a quelle dove il gruppo appare riunito insieme per portare avanti il racconto. Tecnicamente le riprese tra i detenuti e le attrici sono avvenute sempre separatamente: attraverso il linguaggio video, con la tecnica del green screen, i due gruppi si incontrano nel racconto della fiaba e la separazione, come una magia, non esiste più. C’è una giustizia che non trionfa nello Sciascia che piace ai giuristi di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 6 marzo 2022 Il volume scritto dagli avvocati e docenti di procedura penale Ennio Amodio ed Elena Maria Catalano. Poco più che ventenne, Leonardo Sciascia assistette, in quanto impiegato in un ufficio pubblico, a due processi penali per violazioni delle leggi annonarie che imponevano ai produttori di conferire il grano per la distribuzione razionata alle famiglie. Un contadino, arrestato per aver conservato a casa un paio di quintali di troppo, fu condannato a due anni di reclusione dallo stesso tribunale che aveva assolto un arciprete accusato di aver sottratto all’ammasso 15 quintali. Non aveva tenuto il grano per sé, ma per una successiva distribuzione ai poveri, era stata la tesi difensiva accolta dal tribunale benché non suffragata da alcun elemento oggettivo. Molti anni dopo, ne La Sicilia come metafora (Mondadori), Sciascia commenterà: “Due sentenze così discordanti sullo stesso reato, date nello stesso giorno e dagli stessi giudici, mi convinsero che i fori privilegiati non erano ancora finiti, nonostante la proclamata uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge”. Imperscrutabile come il suo viso avvolto nel fumo delle sigarette appena acquistate nella tabaccheria Fantauzzo di Racalmuto, il rapporto di Sciascia con la giustizia (e con il processo, con il diritto, con la mistica della toga, del codice, della forza legale) appassiona chi si ingaggia con i suoi libri. Incasellabili secondo i canoni del purismo letterario, ma sempre percorsi dalla giustizia come logos e pathos e dalla “sconfitta della ragione” come esito inesorabile per i protagonisti della sua narrativa. “Gialli a fondo perduto”, li definiscono Ennio Amodio ed Elena Maria Catalano, avvocati e docenti di procedura penale, nel libro La sconfitta della ragione. Leonardo Sciascia e la giustizia penale (Sellerio). Sciascia non è Camilleri, l’ispettore Rogas de Il Contesto non è il commissario Montalbano: l’accumulazione indiziaria e lo straniamento cognitivo attorno a un delitto non si sciolgono nel “lieto fine” del colpevole portato via in ceppi grazie all’intuizione risolutiva dell’investigatore. La logica non rimette a posto il puzzle. La giustizia non trionfa. La ragione soccombe all’arbitrio e “i protagonisti delle investigazioni sono tutti degli sconfitti, che talvolta pagano personalmente per aver condotto il loro lavoro con uno zelo inviso al potere”. Forse è dunque questa - potere, e non giustizia - la parola chiave, il filo ermeneutico delle pagine di Sciascia. La giustizia come istituzione, come amministrazione persino burocratica è criticata ma non denigrata - quanta siderale distanza da certe scomposte e callide invettive contemporanee. Quel che più conta, viene filtrata e umanizzata attraverso la letteratura. “Sciascia non è l’algido osservatore del lavoro di poliziotti e giudici che si impegnano a decifrare gli indizi necessari a individuare il colpevole”, scrivono gli autori, dipingendolo piuttosto come un “cultore del vero giudiziario” che contamina il mondo iniziatico delle pandette con la “scienza del cuore umano”. “Tutto è legato al problema della giustizia - spiegò Sciascia a Claude Ambroise - in cui s’involve quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo”. Diversi esegeti (Cavallaro, Collura, Mittone, Onofri) hanno letto il rapporto tra Sciascia e la giustizia in termini di ossessione. Vulgata “frettolosa che lascia perplessi”, protestano gli odierni autori, perché fondata su acrobazie antropologiche (se non psicanalitiche) anziché su solide basi culturali. Piuttosto, di Sciascia si potrebbe dire quello che egli scrive a proposito di un suo personaggio ne “Una storia semplice” (Adelphi): “La laurea in legge era la suprema ambizione della sua vita, il suo sogno”. Che fosse un suo cruccio, lo confessò anche in un’intervista. “Il confine tra letteratura e diritto è meno definito di quanto si creda”, scrive Pietro Curzio, primo presidente della Corte di Cassazione, nell’introduzione a Diritto verità giustizia. Omaggio a Sciascia (Cacucci), in cui un gruppo di giuristi di estrazione accademica, forense e giudiziaria (da Irti a Lipari, da Lupo a Serio) si cimenta con i suoi capolavori. A fatica, gli illustri contributori si arrovellano barcollando su quella linea d’ombra. Ecco che cos’è la giustizia, in fondo: rovello laico, non ossessione. Ostinato rifiuto dell’inevitabile. Tutto il contrario di quanto, come in un esorcismo, Sciascia fa dire al presidente della Corte suprema Riches nel monologo formidabile e tragico de Il contesto: “La giustizia non può non disvelarsi, non transustanzializzarsi, non compiersi. Prima il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a sé stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore; ma nel momento in cui celebra, non più. E tanto meno dopo. Lo vede lei un prete che dopo aver celebrato messa si dica: chissà se anche questa volta la transustanziazione si è compiuta? Nessun dubbio: si è compiuta. Sicuramente. E direi anche: inevitabilmente”. “Solo è il coraggio”, il mio romanzo per Giovanni Falcone di Roberto Saviano Corriere della Sera, 6 marzo 2022 A trent’anni da Capaci, il racconto della vita del magistrato in un libro in uscita per Bompiani il 27 aprile. Qui anticipiamo un capitolo dedicato al giudice Cesare Terranova Palermo, 1979. È una strana mattina di settembre, a Palermo. Fa caldo, ma non troppo. Il cielo è grigio, ma non troppo. Potrebbe piovere da un momento all’altro, o le nuvole che velano l’azzurro di una patina umida potrebbero spalancarsi facendo posto al sole. Nulla è ancora detto. Giovanna apre gli occhi. Vede che Cesare è già sveglio, ha aperto gli scuri e ora sta con la schiena poggiata alla testiera del letto. Gli poggia la testa sul petto. Con l’orecchio ascolta i battiti calmi e regolari del suo cuore. Si meraviglia di come possa sentirsi così tranquillo. “Sei preoccupato?” sussurra fra la veglia e il sonno. “No,” risponde lui, e Giovanna apre gli occhi definitivamente. È infastidita. Perché lei ha paura e lui no? La mafia ha parlato chiaro. Il pentito Giuseppe Di Cristina ha fatto mettere a verbale che il boss Luciano Leggio, detto Liggio, ha emesso una condanna a morte contro il giudice Terranova, e lui, Cesare Terranova, per tutta risposta ha continuato a fare pressioni per ottenere un posto da consigliere istruttore a Palermo. Vuole mettere insieme gli uomini e le prove necessarie per sbattere in carcere quella feccia. E non è finzione, la sua: è sincero quando dice che non ha paura. Il battito del suo cuore lo conferma. Qualche giorno fa ha detto a Giovanna di stare tranquilla: “La mafia non uccide i magistrati. I giudici fanno il loro lavoro e i mafiosi fanno il loro, così è da sempre”. Solo che oggi - sarà che il sole non si decide a uscire, o la pioggia ad arrivare - Giovanna non è più certa di nulla. Il fatto che suo marito lo sia, piuttosto che tranquillizzarla la stizzisce un po’. “Ho fatto un sogno”, le dice a un tratto Cesare. Fissa il vuoto davanti a sé. Ha gli occhi di un bambino. Li ha conservati uguali, da quand’è nato cinquantotto anni fa a Petralia Sottana, un paesino arrampicato sulle Madonie, dove d’inverno nevica fino alle caviglie e d’estate, quando il sole picchia, ci si mette con la testa sotto le fontane. “Paolo Borsellino era un ragazzo. Me lo trovavo davanti, in udienza, per una rissa che avevano fatto lui e gli altri studenti di destra, una rissa con i comunisti”. “Ma questo è successo davvero”. “Sì, certo”. Hanno riso più volte, lui e Borsellino, di quel vecchio episodio. Cesare prende dal comodino i suoi grossi occhiali e se li mette. Ora non sembra più un bambino. “Solo che stavolta Paolo mi allungava un biglietto”. Si fa una risatina. La testa di Giovanna sobbalza sopra il suo petto. “Cioè, provava a mettere questo foglio sul mio tavolo ma i poliziotti lo bloccavano. Però lui insisteva, diceva: “Il biglietto! Il biglietto!”, e quelli se lo portavano via”. “E che biglietto era?”. “Ah, boh”. Sono pochissime le volte in cui Cesare ha mentito a sua moglie. Questa è una di quelle. La seconda, nell’arco di pochi giorni. Si alza con qualche fatica dal letto, infila le ciabatte e si avvia a piccoli passi verso il bagno. Si sente stanco. A cinquantotto anni, ne avrebbe pure diritto. Ha combattuto la guerra mondiale e si è fatto la prigione in Africa; poi, appena messo via il fucile, ne ha cominciata un’altra, di guerra, stavolta disarmato: già nel ‘46 era in magistratura, pretore a Messina, poi aggiunto giudiziario a Patti e giudice istruttore a Palermo, infine procuratore a Marsala. Ne ha viste e sentite di tutti i colori. Ha istruito da solo e con certosina pazienza processi di enorme importanza nel contrasto alla mafia palermitana, e scritto fiumi di pagine contro l’Anonima assassini, sessantaquattro sciagurati che hanno colorato di rosso le strade di Corleone con in testa il loro capo Lucianeddu. È proprio Luciano Liggio che ha firmato un anno fa la sua condanna a morte. E Cesare è così spaventato che, dopo averlo saputo, ha dichiarato a un giornalista: “Dimentico spesso la rivoltella a casa, ma non ho paura. Ho visto mafiosi inginocchiarsi e piangere, anche Liggio. Io sono un giocatore di bridge. Amo le carte e gioco per vincere. Luciano Liggio… perderà anche lui. La nostra partita non è finita ma non ho paura”. È così spaventato che ha appeso nel suo studio un disegno, regalo dell’amico pittore Bruno Caruso. In primo piano c’è lui, il giudice, in cravatta e occhiali da sole. Dietro, come un’ombra, il boss. Ogni giorno che Dio manda in terra Giovanna gli chiede se non sarebbe il caso di toglierlo. Ma a Cesare non sembra di cattivo gusto. Anzi, quel ritratto del boss di Corleone con gli occhi stretti come quelli di un pesce e l’aria da tonto gli è diventato simpatico. E sempre perché è spaventato, ha messo in una cornicetta d’argento la fotografia di Liggio che i colleghi gli hanno regalato con tanto di dedica: Con amore, il tuo amico Lucianeddu. Quando se lo vede davanti, immancabilmente gli scappa una risata. Ma sono risate che gli lasciano addosso un velo di stanchezza, un velo scuro che gli si poggia sulle spalle, così che giorno dopo giorno, velo dopo velo, inizia ad avvertirne il peso. Non parlerebbe di paura, ma di qualcosa di diverso: da quando è cominciato questo suo flirt con la morte ha l’impressione che l’inverno arrivi prima e che l’estate, invece, se ne vada in fretta, che passi giusto per un saluto sull’uscio di casa e poi via, di nuovo freddo, di nuovo buio. C’è da capirlo quindi, se adesso camminando trascina le ciabatte sul pavimento come farebbe un uomo più anziano. Quando esce dal bagno, Giovanna sta versando il caffè nelle tazze. La cucina è rischiarata da una luce ingannevole che pare sospesa fra l’alba e il crepuscolo. “Oggi torni alla carica?” gli domanda. C’è del sarcasmo nella sua voce. Cesare spalanca le braccia. Lo sa, dovrebbe accontentarsi: l’hanno nominato consigliere presso la corte d’appello, un modo per ricominciare a fare il magistrato visto che per parecchi anni è stato lontano dalla toga. All’inizio, sinceramente, non gli è mancata molto. Merito delle batoste prese con il processo all’Anonima assassini: su 64 imputati, fra cui Liggio e Riina, sono arrivate 64 assoluzioni. Totò Riina è stato condannato solo per il furto di una patente. I giudici hanno scritto che “l’equazione mafia uguale associazione per delinquere, su cui hanno così a lungo insistito gli inquirenti e sulla quale si è esercitata la capacità dialettica del magistrato istruttore, è priva di apprezzabili conseguenze sul piano processuale”. Mancava solo che gli facessero le pernacchie. Lui, però, si ostina a ripetere che non è stata una sconfitta. “Li ho fotografati”, ha detto a Giovanna appena tornato a casa, con la testa bassa e le spalle flosce. “Non vanno in galera ma li ho fotografati. Prima non avevano una faccia, ora c’è una foto di gruppo. Qualcun altro potrà usarla”. Poi ha tolto il disturbo e si è messo a fare il deputato del Pci. È stato membro della commissione antimafia e si è tolto la soddisfazione di scrivere insieme a Pio La Torre una relazione in cui diversi democristiani, fra cui l’onorevole Giovanni Gioia, l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino e il deputato Salvo Lima vengono accusati di avere rapporti stabili con la mafia. La toga, però, ora gli manca. La sua ostinazione si aggrappa a qualcosa che nessuno comprende. Forse neanche lui. Vuole tornare a istruire i processi, in prima linea. Finisce di bere il caffè. Mentre si allaccia le scarpe, gli torna in mente l’immagine del giovane Borsellino con il biglietto nella mano tesa. S’infila la giacca e tende l’orecchio verso la cucina. Giovanna ha aperto il rubinetto per lavare le tazzine. Cesare si toglie le scarpe e cammina silenziosamente fino allo stipetto del salotto. Prende la chiave e lo apre. Sbircia fra le cartelle dei suoi documenti. Eccolo lì, il biglietto. L’oggetto della sua menzogna. Richiude. In camera da letto ora c’è Giovanna, tornata per l’ultimo quarto d’ora di riposo. “Che c’è, non trovi le scarpe?” “Sì, no, ma… Eccole”. Sorride, le dà un bacio sulla fronte ed esce dalla stanza. Apre la grande porta e percorre le scale che dal terzo piano lo portano in strada. Il maresciallo della polizia Lenin Mancuso lo aspetta sotto casa fumando. Si chiama proprio così: Lenin. Questo poliziotto dai tratti marcati, che ricorda certi attori western, figlio di un padre che non doveva avere molti dubbi al momento di recarsi alle urne, è la sua guardia del corpo. Dovrebbe fargli anche da autista, se non fosse che il giudice Terranova preferisce guidare lui. Cesare lo saluta con due colpetti sulla spalla. Fanno un po’ di strada fino alla Fiat 131 Supermirafiori azzurra del giudice, salgono, Cesare ingrana la retromarcia. “Allora?”. Mancuso si strofina le mani. “Quanto manca ancora, signor giudice?”. Si conoscono da più di vent’anni ma Mancuso continua a chiamarlo “signor giudice” e a dargli del lei. “Gli diamo una raddrizzata a questo Ufficio istruzione o no?”. “Eh… A Dio piacendo”. “Io sono pronto”. “Lo so”. Lenin Mancuso non è soltanto il suo guardaspalle. Il maresciallo è anche un ottimo investigatore, il suo fiuto è stato decisivo nell’autunno del ‘71, quando lui e Terranova davano la caccia a un uomo che aveva rapito e assassinato tre bambine. Quando Cesare ha presentato Lenin a Giovanna le ha detto che è il suo angelo custode. Ed è così che adesso li immagina lei, stesa sul letto con il sapore del primo caffè sulle labbra e gli occhi socchiusi negli ultimi scampoli di sonno: un giudice e il suo angelo custode in una 131. “Ma che stanno aspettando? La nomina non c’era già?”. “Sì, certo che c’è”, dice Terranova, che nel frattempo è quasi arrivato in retromarcia all’angolo con via De Amicis. “E allora?”. “Eh, e allora…”. Cesare inchioda il piede sul freno, il maresciallo stringe con la mano il sedile. Due auto, sbucate all’improvviso, sbarrano la strada alla Fiat 131. Scendono tre uomini con delle pistole, uno di loro ha una carabina. Non c’è molto su cui ragionare, non c’è tempo neanche per alzare un dito. Mancuso riesce a sfilare la Beretta di ordinanza dalla cintola e si lancia sopra il giudice per coprirlo. Prova a fargli scudo col suo corpo. Ma le pallottole arrivano dappertutto. Cesare sente sul volto il fiato caldo del suo angelo custode, mentre i proiettili lo scuotono come un tappeto. Sente, ancora, che il maresciallo apre lo sportello e spara qualche colpo, ma è tutto inutile. Non puoi difenderti con una pistola contro un fucile automatico, soprattutto se ti hanno teso un agguato. E allora eccola, la morte. Cesare la vede arrivare. Aveva ragione a prenderla in giro: non è spaventosa. È solo dannatamente stupida. Ha lo sguardo vacuo dello scemo del villaggio. Come nel quadro del suo amico pittore. Se qualcuno non le avesse messo un fucile in mano, la vedresti seduta giorno e notte davanti al bar del paese, la morte, a lamentarsi del caldo e degli acciacchi dell’età. Eppure qualcuno le ha consegnato questo fucile che adesso spara, e continua a sparare, senza neanche sapere bene perché, finché le pallottole non sono finite. Cesare pensa alla prima delle bugie che ha raccontato a Giovanna, che la mafia non uccide i giudici e ognuno pensa a fare il suo mestiere: perché da qualche anno, invece, il mestiere del mafioso è diventato anche questo, ammazzare i giudici e i poliziotti. La seconda riguarda il biglietto che ha sognato stanotte. Lui sa benissimo di cosa si tratta. È chiuso a chiave nello stipetto della libreria. Sopra c’è scritto: Non possiedo beni immobili. Quanto ai beni mobili, desidero che restino tutti in assoluta proprietà di Giovanna. Raccomando a Giovanna di prendersi cura della nostra piccola biblioteca e di far sì che non vengano mai disperse le numerose opere letterarie e storiche, di un certo pregio, che insieme abbiamo raccolto. Vorrei pure che Giovanna dedicasse qualcosa, come meglio lei crede, alle organizzazioni per la protezione e la difesa degli animali e per la conservazione della natura. Infine desidero che Giovanna, prima di tutto e di tutti, provveda a dare a mia madre - alla quale auguro lunga e lunga vita - un mio ricordo, a mia madre alla quale va costante il mio pensiero pieno di affetto e di nostalgia degli anni sereni della giovinezza. Sta pensando a questo, Cesare, alla sua bella madre che gli sopravvivrà, agli anni sereni della giovinezza e a quel paesino arrampicato sulle Madonie dove d’inverno nevica fino alle caviglie e d’estate, quando il sole picchia, ci si mette con la testa sotto le fontane. I suoi occhi, ora che il volto gli è cascato in avanti e gli occhiali sono scivolati sulla punta del naso, sono di nuovo quelli di un bambino. Un bambino addormentato nell’abbraccio del suo angelo custode. La morte, stupida e meticolosa, gli fa ciao dal finestrino dell’auto per sparargli l’ultimo colpo, mentre il sole scompare una volta per tutte dietro le nuvole. Basta questo perché la pioggia cominci a scrosciare. Carcere, letteratura d’evasione di Giorgia Cacciolatti La Repubblica, 6 marzo 2022 Un’opera corale che riflette sulle possibilità di infrangere le pareti dei reclusori e rieducare alla vita i detenuti. Il volume (edito da Il Saggiatore) nasce all’interno di laboratorio di scrittura creativa condotto nell’istituto di pena di Frosinone. Una testimonianza della potenza liberatoria e rigenerante della fantasia. “Letteratura d’evasione - Scritti dei detenuti del carcere di Frosinone” è un piccolo, ma grande, miracolo. Nasce nel 2020 dal laboratorio di scrittura ideato da Ivan Talarico, cantautore, poeta e teatrante, inserito all’interno del progetto Fiorire nel pensiero curato e ideato da Federica Graziani, dell’Associazione A Buon Diritto. Un progetto ardito. Il volume raccoglie le operette settimanali di sedici detenuti. L’idea originale era quella di realizzare delle copie da distribuire all’interno del carcere, ma resisi conto della qualità degli elaborati hanno deciso di trovare una destinazione editoriale. All’interno degli istituti penitenziari - dove, spiega Federica Graziani, esistono profonde differenze tra le realtà cittadine, come Rebibbia, e quelle di provincia, come appunto Frosinone - ci sono naturalmente dei laboratori di scrittura creativa, ma nulla o quasi filtra fuori dalle mura del carcere. Il corso di scrittura creativa. Il laboratorio è stato impostato sull’attenzione di gruppo, sulla lettura e alcuni temi da sviluppare in forma scritta (l’autobiografia e la biografia, il racconto breve, la poesia, i giochi letterari, i metodi creativi, i generi letterari, e altri ancora) da sviluppare per iscritto, privilegiando il racconto dell’esperienza personale, indirizzandolo verso una sorta di autoanalisi ansiolitica. I testi sono stati presentati con pochissime correzioni rispetto alle copie autografe, nell’ottica di non soffocare la spontaneità della scrittura, alcuni errori sono stati conservati nella loro bellezza originaria, e libera. Riflessioni sulla reclusione e la propria liberazione. Libertà e possibilità della scrittura da un lato, il sistema soffocante e restrittivo di una vita in detenzione che annulla lo spirito e il corpo, dall’altro. Da questa insita dicotomia nasce Letteratura di evasione e di essa si nutre. Come spiegato dagli autori nell’introduzione, quello della scrittura è “un atto di liberazione che non infrange la legge”, perché l’emancipazione dall’ambiente coercitivo della cella non si traduce nella sottrazione alla pena ma nel renderla meno dannosa per l’individuo detenuto che, per legge, perde alcuni diritti, ma non certo tutti. Il distacco dalla condizione attuale. Il punto di partenza è il racconto autobiografico per arrivare, uscendo dal proprio “io” alla costruzione di un intreccio fantastico. Dall’introspezione iniziale fino a giungere, grazie alla parola scritta e alla forza dell’immaginazione, ad una rivoluzione personale e sociale che sfocia nell’evasione da quella che in carcere rappresenta l’unica, claustrofobica, dimensione esistenziale del detenuto, quella del delitto. “Letteratura d’evasione è sia quella che consente al detenuto-lettore di emanciparsi dalla claustrofobia mentale e fisica delle sbarre, delle porte blindate, degli spazi coatti - scrive Luigi Monconi che, assieme ad Alessandro Bergonzoni si è occupato delle prefazioni del volume - sia quella prodotta dal detenuto-scrittore. Ovvero da chi, nella prigione psicologica e materiale, ha trovato uno spiraglio per prendere aria, per sgranchire gambe e braccia, per conquistare una porzione di autonomia e di libertà”. “Dentro una storia”, dai barrios argentini alle carceri dell’Ecuado di Youssef Siher Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2022 Il mondo degli esclusi raccontato con la fotografia di Valerio Bispuri. La raccolta di scatti del fotoreporter esce per Mimesis edizioni e sarà presentata a Bookpride a Milano sabato 5 marzo (ore 17.30, sala Campo). Esclusi e dimenticati sono al centro del suo racconto, sempre con uno sguardo che vuole “rendere umani e cercare di liberare chi non ha la forza per farlo”. “Quello che cerco nella fotografia è una dimensione che racconti gli invisibili, i miserabili della Terra, l’umanità nascosta, quella che dà fastidio per la sua sola esistenza: gli esclusi”. Così Valerio Bispuri, fotografo e fotoreporter romano, ha voluto presentare il suo nuovo libro, “Dentro una storia”, in uscita il 3 marzo 2022 per Mimesis. e che sarà presentato al Bookpride di Milano sabato 5 (ore 17,30). Il giornalista e direttore de L’Espresso, Marco Damilano, introduce l’opera, in parte riprendendo le parole del fotografo stesso, sintetizzando “il senso del suo lavoro: far vedere quello che non si vede, gli invisibili, i dannati della terra, gli scarti dell’umanità. Le loro ferite”. Lo stesso Damilano poi presenta Bispuri: “Dalla facoltà di Lettere all’università di Roma e dagli studi di Antropologia culturale, il periodo in cui si rinchiudeva per intere giornate nella camera oscura, tra ‘l’odore degli acidi e la luce rossa’, ‘aspettando che le immagini apparissero sulla carta, a volte dimenticavo anche di mangiare’, a ‘vedere come su un foglio apparissero lentamente le forme, le linee di ciò che avevo scattato’, fino ai barrios argentini al carcere García Moreno in Ecuador, fino a una tenda di paglia in Mali. Il passaggio interiore dal coraggio alla pazienza: ‘Sono due cose che porto con me. Il coraggio mi è sempre appartenuto, la pazienza l’ho costruita con molta fatica’”. In quest’opera Bispuri raccoglie infatti le sue memorie, in un flusso che parte dal primo scatto fino all’ ultimo progetto, e che curiosamente termina dove tutto era iniziato: un campo rom della Capitale. Fin dai primi capitoli del libro, Bispuri spiega che l’aspetto fondamentale del suo lavoro è il racconto, da non confondere però con la pura cronaca: “Non mi interessava raccontare gli avvenimenti, la cronaca del mondo, ma entrare dentro l’essere umano: volevo andare a fondo, prendermi il tempo per analizzare, scoprire, conoscere”. E da questo suo approccio deriva il filo conduttore di tutta la sua opera: l’alienazione. Che ha cercato di affrontare in ogni suo percorso. Il paco - Uno dei progetti più importanti portati avanti da Bispuri è quello che tratta il tema della droga e della tossicodipendenza nell’America del Sud, con un focus sull’Argentina: “Ero a Buenos Aires per lavorare a un progetto sulla diffusione di una droga terribile, chiamata ‘paco’, nelle periferie devastate al limite della città”, spiega. “Era il 2008 quando ho conosciuto Juan, un bambino di 8 anni dai grandi occhi neri”. La madre era una spacciatrice di paco e preparava le dosi in bustine nere e le lasciava sul tavolo da pranzo come se fossero state delle caramelle. Questo è stato fatale. Un pomeriggio d’estate Juan ha pensato che quelle bustine fossero davvero caramelle e ne ha ingerite tre dosi. Il suo corpo si è sbriciolato, il sistema nervoso non ha retto e lui è rimasto paralizzato. Quindi Bispuri racconta anche il viaggio nelle “cucine” in cui si produce questa sostanza, impresa per la quale ci sono voluti mesi di preparazione e che ha infatti rappresentato l’ultimo atto del suo lavoro sul paco in Argentina. Il mondo delle prigioni - “Poter raccontare con la fotografia vuol dire prima di tutto scendere in profondità, capire il significato di uno sguardo, di un gesto, di un movimento”. Queste le parole del fotoreporter per descrivere il mondo dei sordi: “Ricordo una notte in cui ero a tavola con trenta sordi: a un certo punto, uno di loro, Sergio, ha alzato le mani alle orecchie, come se volesse metterle in evidenza, e ha cominciato a ridere. Quel gesto è diventato il simbolo del mio lavoro sul mondo dei sordi”. Bispuri spiega inoltre che “qualcosa di simile mi è successo anche osservando gli occhi di un detenuto consapevole del fatto che sarebbe rimasto rinchiuso per pochi anni o per tutta la vita: avevano un buio dentro che dava le vertigini”. Bispuri ha portato avanti uno dei suoi progetti più importanti proprio sulle carceri del Sud America, 74 in totale. Un progetto nato per caso, quando si trovava nella capitale dell’Ecuador, Quito. Il fotoreporter definisce la sua prima esperienza come “disastrosa, ma utile per capire alcune cose importanti su quello che poi è diventato un modo di fotografare, un pensiero, una maniera di “affrontare la vita”. Ma l’esperienza più forte l’ha vissuta a Mendoza, in Argentina, nel carcere di San Felipe, uno dei più pericolosi e malfamati del Paese. Passò due ore in uno dei padiglioni peggiori, il numero 5, ascoltando “storie di violenza e miseria”. Tre anni dopo, nel 2009, le foto saranno esposte nel centro culturale di Recoleta, ma non solo: grazie agli scatti di Bispuri e dopo l’intervento di Amnesty International e del governo, il padiglione numero 5 viene chiuso. Gli esclusi - “I ricordi di quel viaggio si mischiano con una strana sensazione di libertà e di passaggio interiore, attraverso tanti luoghi fisici e dell’anima, di persone incontrate, avventure e pericoli”. È la descrizione che l’autore dà del suo primo viaggio nell’America meridionale, che lui definisce “cheguevariano”, e durante il quale prende coscienza di ciò che vuole fare: “Volevo raccontare con la fotografia, fare il fotoreporter e desideravo andare a vivere per un po’ in Sudamerica per provare a raccontare quel che avevo intravisto nei quattro mesi di viaggio”. Questo viaggio lo ha aiutato anche a maturare l’idea di raccontare appunto i miserabili e gli invisibili, cioè gli esclusi. Ma in realtà la sua prima esperienza con gli esclusi, Bispuri l’ha avuta proprio a Roma, prima ancora di partire per il mondo. Il fotoreporter ricorda infatti che, quando era più giovane, “per andare all’università, ogni mattina passavo con il mio vespino bianco davanti a un campo rom”. “Un pomeriggio di ottobre mi decisi, lasciai la mia vespa a qualche decina di metri dall’accampamento ed entrai”. Così scopre un nuovo mondo: “I rom hanno dei gesti, delle movenze, delle espressioni che nascono dalla loro cultura, dai loro codici”. Ed è sempre qui che torna dopo un ventennio per concludere il suo lungo viaggio: “L’idea era quella di ricominciare là dove avevo iniziato a fotografare, per vedere se era cambiato qualcosa”. “La prima impressione è stata che le cose fossero peggiorate: l’incuria e l’abbandono avevano creato ancora più degrado e isolamento per quei rom che erano italiani a tutti gli effetti ma che erano comunque ghettizzati e lasciati al di fuori del nostro contesto sociale”. La fotografia è un mezzo che Valerio Bispuri usa per “rendere umani e cercare di liberare chi non ha la forza per farlo”. “Mi piace credere che questo sia possibile e che un semplice scatto possa scavare dentro alle persone tanto da far riemergere un’umanità sommersa e dimenticata”. Ed è questo mondo nascosto e dimenticato che il fotoreporter romano cerca di raccontare e riportare alla luce, documentando appunto i suoi viaggi e i suoi progetti fotografici, in Dentro una storia, il nuovo libro che, insieme a Marco Damilano e Francesca Adamo presenterà al Bookpride di Milano sabato 5 marzo, alle ore 17.30, sala Cristina Campo. Non arrendiamoci a un’Europa di macerie di Donatella Di Cesare La Stampa, 6 marzo 2022 Se oggi fosse vivo Immanuel Kant farebbe fatica a riconoscere la sua Europa. E stenterebbe a credere che ci sia chi, persino tra leader politici e capi di governo, indica nella pace un’illusione passata di moda e vede nella guerra l’unico mezzo per fermare la guerra. Altre armi per fermare le armi. Esattamente l’opposto di quello che lui scrive nel suo grande saggio del 1795 Sulla pace perpetua, quasi un atto di nascita dell’Unione europea. Non si può continuare a ritenere la guerra un rimedio ineluttabile, un farmaco più o meno amaro; perché in questa logica il rischio è che si vada delineando la “pace dei morti”, il grande cimitero europeo. Ecco l’incubo di Kant che noi tutti viviamo, in questi giorni cupi e angosciosi. Interrompere la spirale per cui si cerca la pace preparando la guerra - questa è la sua indicazione. E vale per la politica, per l’etica, per la convivenza civile. Qualcuno mi ha incolpato, con una certa sarcastica veemenza, di aver sostenuto che la pace è condizione della libertà. Come se si trattasse di un’idea oscena, non articolabile nella scena pubblica, tanto più di fronte agli ucraini che combattono. Sennonché quello è un pensiero di Kant, che io mi limito a rilanciare, convinta che non si aiutino i bambini, le donne, gli anziani, mandando altre armi più o meno letali e aumentando l’escalation di guerra. Dov’è finita la politica, che avalla la guerra per procura? E perché tace? Dov’è l’Unione europea, che avrebbe dovuto essere protagonista dei negoziati? La scelta della pace oggi è più difficile di sempre. Non solo perché si rischia di essere additati al pubblico ludibrio, ma anche perché risuonano, più aggressive che mai, le accuse di colpevole ignavia, cialtronesca equidistanza. Nel peggiore dei casi sei un Putinversteher, un putinista, nel migliore sei un detestabile buonista, un inservibile intellettualista che non accetta la guerra come destino. D’altronde, si sa, la guerra è la realtà nella sua durezza, è la dura realtà che prevale sulla parola, la manda in pezzi, la frantuma. Anche lontano dal fronte immediato diventa difficile parlare in un dibattito ormai militarizzato. Non vedi forse quelle immagini? Ma come fai a non essere dalla parte degli ucraini? Perché non prendi la loro bandiera? Perché sono allergica ai drappi nazionali, dietro cui fanno capolino gli oscuri nazionalismi europei. E soprattutto perché penso che siano i popoli le vittime delle guerre che, come quelle del Novecento, se viste in retrospettiva fanno inorridire. L’etimologia della parola “guerra” significa confusione. Il termine è indicato per situazioni di scompiglio, subbuglio, frastuono, divenuti esperienze quotidiana. Per non farsi coinvolgere in questa belligeranza occorre fare un passo indietro, che non è quello dell’ignavia, bensì del pensiero e della riflessione. Dal pozzo vertiginoso del Novecento, che sembrava per sempre sigillato, è riemersa la barbarie, sia quella di chi produce la guerra, sia quella di chi la ammette come mezzo ineluttabile riavviando la spirale di violenza. Per quanto mi riguarda non smetterò di credere, anche in queste ore terribili, che sia possibile un varco, che sia anzi necessario guardare oltre la guerra costruendo immediatamente uno scenario di pace. Negoziati, intermediari, diplomazia - non possiamo accettare la sconfitta della parola. Perché vorrebbe dire accreditare la fine della politica. Ormai i sondaggi cominciano a dire con chiarezza che in Italia una larga maggioranza di persone è contraria all’invio di armi. Forse anche per questo si acuiscono i toni sprezzanti di una certa propaganda bellica che, a quanto pare, non ha poi così presa. Questa volta non ci arrenderemo all’idea di un’Europa in macerie. Cinque consigli contro l’odore della guerra di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 6 marzo 2022 La guerra vicina ha un odore anche più intenso, che somiglia a quello della paura collettiva. Un sentimento più vicino all’ansia che al panico, ma non meno insidioso. La guerra ha un odore. La guerra vicina, un odore più intenso. Somiglia a quello della paura collettiva, che abbiamo imparato a riconoscere durante la pandemia. Un sentimento più vicino all’ansia che al panico, ma non meno insidioso. Quando si teme qualcosa tutti insieme, invece di aiutarsi a vicenda, ci si spaventa di più. Ci sono mestieri che aiutano. Come medici e infermieri durante il Covid, noi giornalisti dobbiamo raccontare, mostrare, spiegare, provare a prevedere. I colleghi in Ucraina e in Russia più di tutti, ma anche gli altri. Come vigili del fuoco durante un incendio, abbiamo qualcosa da fare: meglio che stare fermi ad aspettare. Possiamo anche suggerire come gestire l’incertezza che respiriamo? Possiamo provarci. Il primo consiglio è semplice. Aiutate, se potete. Fa bene e fa star bene. Gli ucraini - in patria e in fuga - hanno bisogno di noi. Anche molti russi, vittime di un despota. Il secondo consiglio può sembrare ovvio, non lo è: informatevi, ma scegliete fonti affidabili. Un buon giornale e un buon programma televisivo sono una garanzia; un cattivo giornale e una trasmissione piena di incompetenti esagitati diventano generatori d’ansia. Terzo consiglio: dosate le informazioni in entrata. Aggiornarsi sulla guerra è doveroso; farlo per quattordici ore al giorno è deleterio. Peggio: controproducente. Il cervello inghiotte e perde la capacità di digerire. Quarto consiglio: parlate della guerra con moderazione, sui social, in famiglia e con gli amici. Tacere e pensare non è ignavia: è una forma di saggezza. Gli allarmisti non se ne rendono conto, ma vogliono essere rassicurati. Il post isterico o il tweet catastrofista sono, in fondo, richieste di aiuto. Anche i bastian contrari cronici - colpa della Nato! colpa dell’Europa! - sono quasi sempre persone spaventate, che nelle loro teorie bislacche cercano conforto e attenzione. Si sono allenati per anni denigrando l’Unione Europea, applaudendo Trump, negando il Covid; e continuano. Il consiglio finale ha un padre nobile, che non cito: ignorate i consigli precedenti, se ne avete di migliori. E condivideteli con noi. Il profumo della comprensione tiene lontano l’odore della guerra. In corteo l’angoscia delle ucraine: “Più armi significa più guerra” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 6 marzo 2022 Nella grande manifestazione, la voce delle donne che hanno i familiari nelle città dove si combatte. “Gli chiediamo ogni giorno di scappare e di venire qui, ma non c’è niente da fare. Moriranno cento volte prima di arrendersi”. Poche bandiere blu e gialle ieri nel grande corteo per la pace e quasi tutte portate da italiani in solidarietà. La comunità ucraina si è data appuntamento per oggi, sempre a Roma, un secondo corteo lungo lo stesso percorso. Allora bisogna cercare nella folla. Viktoria ha dei fiori tra i capelli biondi, è arrivata da Leopoli sei anni fa. Non ha più familiari in Ucraina ma molti amici che sente ogni giorno. Le chiediamo se le sembra giusto che l’Italia mandi le armi. “Ho paura che la guerra si possa allargare”, risponde, “mandare più armi e munizioni può significare anche farla durare di più. Io non mi considero una nazionalista, a volte ho anche pensato che la soluzione migliore per il mio popolo potesse essere arrendersi. Ma li conosco e ti posso garantire che moriranno cento volte prima di arrendersi”. Camminano sotto braccio al centro del corteo due signore di mezza età, Oksana e Ludmilla, la seconda è la veterana essendo arrivata in Italia 21 anni fa, la prima appena 12. Hanno una spilla con i colori nazionali, piccola, sui piumini. Oksana è di Uzhhordo, nei Carpazi, un pezzo di terra stretto tra Ungheria, Slovacchia e Polonia. Lì la guerra, racconta, non è ancora arrivata. Ma lei è comunque in pena per suo figlio Valerio. Ci mostra sul telefono le foto di quello che lui e la sua famiglia stanno facendo per i profughi. Da quella città ne passano tanti, ogni giorno, verso i confini. Vediamo casse d’acqua, coperte e carta igienica. In un’altra foto c’è una donna che prepara dei letti in quella che sembra una palestra. Oksana si augura che la guerra finisca prima di arrivare a casa del figlio. Anche per questo quando le chiediamo delle armi italiane dice che non è d’accordo: “Sarebbe meglio aiutare tutti a fuggire”. “Ma non possono fuggire”, dice Ludmilla, e racconta del figlio Ruslan. Adesso è a Vinnitsa, una città a tre chilometri da Kiev, ed è un poliziotto. Ci mostra anche lei il telefono, l’ultimo whatsapp è di un’ora fa. Ma lo ha scritto lei e non ha ancora avuto risposta. Ogni volta l’attesa è uno strazio. Si commuove. Siamo quasi in piazza San Giovanni, c’è un bel sole alto che le fa brillare gli occhi e un vento freddo da nord che glieli asciuga. “Ormai gli uomini non possono più partire anche se mio figlio in ogni caso non partirebbe, io glielo dico ogni giorno. Potrebbe stare da me, c’è posto per la sua famiglia. Neanche la moglie vuole muoversi, sta dando una mano all’orfanotrofio. Normalmente lavora in un asilo, adesso è chiuso e si sta occupando dei bambini, li tengono in un bunker”. Il problema di Ludmilla è persino opposto: sta cercando di trattenere il secondo figlio che vive con lei a Roma e vorrebbe partire per combattere. L’immagine con la quale dà forma alla sua angoscia sembra un poster di epoca staliniana: “L’Ucraina è un’unghia delle dita della Russia, Putin non si fermerà fino a che non l’avrà presa tutta. Voi mandate le armi, ma dovreste mandare gli eserciti per fermarlo”. In piazza dell’Esquilino fermiamo due ragazzi e una ragazza. Vera è russa, ha 30 anni ed è a Roma per studiare economia. Viene da San Pietroburgo “La città di Putin? No, la mia città e casomai di Caterina II”. Gli amici a casa non manifestano contro la guerra, hanno paura della polizia, per questo Vera dice di essere in piazza soprattutto in loro nome. Sul suo cartello ha scritto semplicemente Stop the war e ha lasciato colare la vernice rossa come fosse sangue. Ivan, 17 anni, è arrivato da Tartu, la seconda città dell’Estonia, per un semestre di studio al liceo scientifico Pasteur di Monte Mario. Racconta di aver conosciuto i primi coetanei ucraini qui a Roma, frequentando la basilica di Santa Sofia a Boccea dove si raccolgono gli aiuti: amicizie nate per - anzi contro - la guerra. Sul suo cartello ha disegnato una colomba e ha scritto in ucraino Miry Mir, Pace per il mondo. Yerassyl 21 anni è venuto a studiare economia alla Sapienza da Nur-Sultan, Kazakistan. Sul cartello ha copiato, in cirillico, l’urlo dei soldati ucraini che difendevano l’isola dei Serpenti nel Mar Nero: “Nave da guerra russa, andate affanculo”. Reggono le bandiere blu e gialle Inna e sua figlia Yaroslava, 12 anni, scappate a Roma dalla guerra quando è cominciata davvero, nel 2016. Abitavano a Donetsk, dove Inna ha lasciato un fratello, adesso stanno a pineta Sacchetti. Un altro fratello è a Mykolayev, porto sul Mar Nero dove le cronache raccontano da giorni battaglie feroci. “Lui non sta combattendo, o forse non me lo vuole dire. Non lo so, non lo sento da molto tempo”, dice Inna. Molto tempo significa da 24 ore. Il padre di Yaroslava invece è a Kiev con la sua seconda famiglia, lei lo ha sentito poco fa. Messaggio vocale. Le ha raccontato che i russi nel suo quartiere non si sono ancora visti e che i vicini hanno preparato le bombe molotov. “Forse l’Italia e la Germania e gli altri paesi quando hanno pensato di mandare le armi hanno creduto che la guerra potesse durare poco. Gli ucraini non si arrenderanno mai, dovrete mandare ancora tantissime armi e anche i soldati se volete aiutarli così”, dice Inna. Incontriamo anche Irina, ha una giacca a vento con i colori dell’Ucraina e una treccia bionda che vola nel vento e a un certo punto lei deve infilare nella mascherina per tenerla ferma. È a Roma da sei anni “per amore”, ha lasciato la madre, il padre e un fratello nel centro di Kiev “in un palazzo costruito all’epoca di Stalin con il bunker nel sotterraneo, stanno a casa e quando sentono la sirena scappano sotto. Gli chiedo di venire ogni giorno, più volte al giorno. Ma non è facile. Adesso potrebbero entrare in Italia come profughi, ma l’Ucraina non lascia partire gli uomini e mia madre e la moglie di mio fratello non vogliono lasciarli. Le armi? All’inizio ho pensato che fosse sbagliato. Poi ho capito che i nostri vogliono difendersi fino alla fine,lo dice anche mio padre che non è più giovane. Allora con mio marito stiamo organizzando anche noi delle spedizioni di materiale militare. Non armi, ma medicine speciali da guerra che un trasportatore ucraino riesce a far passare attraverso la Polonia. Devono resistere. Dobbiamo resistere”. Sono contrario alla guerra ma le armi vanno inviate di Vito Mancuso La Stampa, 6 marzo 2022 Ci sono domande alle quali non si vorrebbe rispondere perché si conosce la complessità della situazione, non riducibile a un sì o a un no. Eppure a volte rispondere è necessario, assumendosi i rischi della coscienza morale in azione. Ci sono domande alle quali non si vorrebbe rispondere perché si conosce la complessità della situazione, non riducibile a un sì o a un no. Eppure a volte rispondere è necessario, assumendosi i rischi della coscienza morale in azione. Mi chiedono: “Sei a favore dell’invio di armi in Ucraina?”. Rispondo: “Sì, sono a favore”. Credo occorra ascoltare il loro appello e non lasciarli soli, condivido la posizione dell’Ue e del governo. Ribattono: “Ma allora tu sei a favore della guerra! Appoggiando l’invio di armi, dici sì alla guerra, versi benzina sul fuoco, alimenti la carneficina!”. L’obiezione proviene soprattutto da chi dichiara di volere la pace più di ogni altra cosa e può avere una duplice argomentazione: o di tipo ideologico in quanto sempre e comunque contrari all’uso delle armi, o di tipo pragmatico in quanto consapevoli che contro la Russia non ci può essere Ucraina che tenga, e che anzi, armandola di più, se ne incrementa la strage. Anch’io però amo la pace, ho speso buona parte della vita a servirla e fondarla eticamente, e non per questo le mie conclusioni sono di lasciare inascoltato l’appello degli ucraini e di non aiutarli militarmente nella loro difesa dall’aggressione russa. Ma ho appena scritto aggressione “russa” e mi si stringe il cuore: è dai tempi del liceo che la mia anima si nutre di Dostoevskij, Tolstoj, ?echov, Pasternak; alla memoria di Vasilij Grossman, ebreo nato in Ucraina e di lingua madre russa, ho dedicato un libro. Quando ho incontrato il pensiero teologico russo con Solov’ëv, Florenskij, Sergej Bulgakov, Berdjaev, i grandi pensatori della sofiologia, è stata per me una folgorazione. E poi, come dimenticare i venti milioni di morti dell’Armata Rossa grazie a cui il nazifascismo è stato sconfitto? Mi ritrovo quindi colmo di perplessità e per sciogliere il nodo cerco di esercitare l’intelligenza spronandola al suo principale lavoro da cui tutto il resto dipende: capire. Ma cosa c’è da capire? Guerra e pace: ecco cosa c’è da capire. Prendo spunto dal titolo del capolavoro di Tolstoj (che peraltro nella seconda metà della vita fu un pacifista radicale con posizioni politiche prossime all’anarchia) per sostenere che la Storia a volte non consente di optare per la guerra o la pace, come oggi vuole chi, dichiarandosi a favore della pace, è contro l’invio di armi agli ucraini. Talora non si dà guerra “o” pace, bensì guerra “e” pace, con la congiunzione “e” a connettere intimamente i due fenomeni. Come tradurre in latino il titolo di Tolstoj? Me lo chiedo perché il latino ha una capacità molto più ampia dell’italiano di esprimere la congiunzione “e”, che può essere resa con “et”, “ac”, “atque” e con il “que” aggiunto alla fine del secondo termine, per esempio “senatus populusque”, a indicare che i due termini sono così uniti da essere quasi una cosa sola: due atomi che formano una molecola. Quale congiunzione avrebbero scelto Cicerone, Seneca o Tacito per unire oggi “bellum” e “pax”? La pace non è mera assenza di guerra, è piuttosto un atteggiamento interiore, io penso sia una diversa volontà di potenza e la definisco “coraggio” nel senso etimologico di “azione del cuore”. Ma l’insegnamento pressoché unanime delle tradizioni spirituali e filosofiche è che la pace, non solo non è mera assenza di guerra, ma, per essere veramente servizio della vita e non imposizione (come la “pax romana”) o ideologia mascherata (come l’odio antioccidentale di alcuni), può essere anche presenza di guerra. In che senso? Nel senso che deve contenere in sé anche la possibilità della guerra come legittima difesa. In questo caso si ha la guerra “giusta”, contemplata unanimemente dalle maggiori tradizioni filosofiche e spirituali. Sintetizzando sapienza greca e dottrina cristiana, Tommaso d’Aquino si chiedeva se è sempre un peccato fare la guerra (utrum bellare semper sit peccatum, cfr. Summa theologiae, II-II, q. 40) e rispondeva di no a tre condizioni: legittimità dell’autorità che la conduce, giusta causa, giusta finalità. La guerra di Putin non è giusta perché: 1) l’autorità che la conduce è democraticamente illegittima in quanto regime liberticida che nega la libertà, censura l’informazione, incarcera gli oppositori (Navalny), talora li uccide (Politkovskaja, Nemcov, Litvinenko); non è insomma una democrazia ma una “democratura”, come l’ha definita Massimo Giannini; 2) la sua causa è palesemente l’attacco, non la difesa, come afferma una dichiarazione sottoscritta da migliaia di scienziati russi e presentata su questo giornale da Elena Cattaneo; 3) ha come finalità il controllo di un Paese sovrano per ridurlo a proprio vassallo. Al contrario, la guerra condotta dall’Ucraina è giusta perché: 1) viene condotta da un governo eletto democraticamente; 2) è motivata dalla naturale volontà di difendere il proprio Paese e la vita dei cittadini; 3) ha come fine la libertà. Ne viene che questa guerra è ingiusta e giusta al contempo, a seconda della posizione, e non è del tutto vero quanto pensava Gino Strada secondo cui “la guerra giusta non c’è: nove vittime su dieci sono civili”: è vero per la guerra di Putin, è vero per la guerra degli Usa che intendevano esportare la democrazia costruendo menzogne, è vero per ogni altra guerra di aggressione. Non è vero però per la guerra degli ucraini e per ogni altra guerra di difesa. Il fenomeno Storia è complesso, richiede un’intelligenza delicata e priva di certezze a priori: si pensi alla Seconda guerra mondiale che fu al contempo aggressione nazifascista e lotta contro il nazifascismo e resistenza, e prima ancora si pensi a tutte le guerre di indipendenza che hanno consentito ai popoli oppressi di raggiungere la libertà. Il che attesta che a volte nella Storia non si dà la possibilità di scegliere o guerra o pace, ma le si deve tenere insieme entrambe: e guerra e pace. Volere la pace significa: a) preparare in tutti i modi la pace; b) essere altresì pronto a una guerra di difesa dall’ingiusto aggressore. La pace e la guerra sono quindi sullo stesso piano? No, la pace è infinitamente superiore, ma proprio per questo essa contiene la possibilità (estrema ma reale) della guerra. Essa non è il contrario della guerra, ne è il superamento, “Aufhebung” avrebbe detto Hegel indicando il processo che sa custodire anche le ragioni dell’antitesi. L’insegnamento da trarre è che le opzioni di guerra non devono essere escluse a priori e che talora purtroppo è necessario ricorrervi. Ha scritto al riguardo Gandhi, il più celebre padre della non-violenza: “Supponiamo che un uomo venga preso da una follia omicida e cominci a girare con una spada in mano uccidendo chiunque gli si pari dinnanzi, e che nessuno abbia il coraggio di catturarlo vivo. Chiunque uccida il pazzo otterrà la gratitudine della comunità e sarà considerato un uomo caritatevole” (Teoria e pratica della non-violenza, p. 69). Questa è la risposta all’obiezione di chi è sempre e comunque contrario alla guerra e all’uso delle armi, rimane la seconda di tipo pragmatico secondo cui l’invio di armi agli ucraini contro i russi non serve a nulla a causa della sproporzione delle forze. Si tratta però di un argomento che suppone competenze militari non in mio possesso, io mi posso limitare a dire che se un bambino viene malmenato da un energumeno impazzito non è che io non intervengo perché se no costui si arrabbia ancora di più. Dobbiamo costruire la pace. È un dovere politico e morale. Forse, a partire dal 24 febbraio, questa è diventata la missione della nostra vita. Al riguardo c’è un livello militare: gli ucraini combattono per la loro libertà e occorre aiutarli militarmente. C’è un livello umanitario: gli ucraini hanno bisogno di assistenza e occorre inviare loro cibo, vestiario, medicine, e accogliere amorevolmente tutti coloro che si mettono in salvo. C’è un livello diplomatico e occorre perseguire e incoraggiare tutte le trattative. Occorre inoltre tenere presente che la guerra riguarderà sempre più anche il popolo russo, consegnato dal suo dittatore a un nero futuro: se si vuole la pace, anche i russi sono da aiutare ascoltando le loro ragioni, onorando la loro maestosa cultura, non emarginandoli come reietti. Soprattutto dovremmo sorvegliare attentamente la nostra coscienza per far sì che non vi entri il veleno dell’odio, neppure di fronte alle immagini più strazianti della guerra iniquamente condotta da Putin. I russi infatti, per quanto ora costretti a obbedirgli, non sono Putin, così come i tedeschi non erano riducibili a Hitler, gli italiani a Mussolini, i serbi a Miloševi?, l’umanità a Caino. Nella Amsterdam occupata dai nazisti, una giovane donna ebrea, Etty Hillesum, poi uccisa ad Auschwitz, scrisse in una lettera datata dicembre 1942: “So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo sempre scegliere la strada più corta e a buon mercato? Ho potuto toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo rende ancora più inospitale”. Oltre 100 profughi “dimenticati” recuperati in mare dalle navi Geo Barents e Open Arms di Fabio Albanese La Stampa, 6 marzo 2022 Dei migranti che partono da Libia e Tunisia ci si era quasi dimenticati: la guerra in Ucraina e il mare grosso hanno messo in secondo piano quest’emergenza nel Mediterraneo. Ottanta sulla nave di Medici senza frontiere, altri 28 su quella di Open Arms. Dei migranti che partono da Libia e Tunisia ci si era quasi dimenticati: la guerra in Ucraina ma anche un mare grosso che per giorni ha impedito ogni partenza e la traversata del Mediterraneo centrale, avevano messo in secondo piano il fenomeno. Ci hanno pensato oggi due navi Ong, la Geo Barents di Msf e la vecchia Open Arms dell’omonima Ong catalana, a ricordare a tutti che altre gravi emergenze non cancellano ciò che accade sulle coste della sponda Sud del Mediterraneo. La Geo Barents è intervenuta in nottata per recuperare 80 persone, e tra loro donne e bambini alcuni molto piccoli, che erano su un gommone alla deriva al largo della Libia occidentale. “Adesso sono tutti in salvo sulla nostra nave”, ha twittato Msf. Poco dopo, anche Open Arms ha informato di un soccorso in mare, avvenuto nelle stesse ore e nella stessa zona di acque internazionali al largo della Libia occidentale; in questo caso si tratta di 28 persone che erano su una barca in legno “sovraccarica che imbarcava acqua e che rischiava di affondare”, come ha fatto sapere la Ong. Tra i 28 ci sono anche due bambini. In Italia non si registrano arrivi di migranti dallo scorso 26 febbraio. Il numero di migranti giunti da inizio anno, 5474 alla data di ieri secondo i dati del Viminale, è di fatto lo stesso di un anno fa quando nello stesso periodo i migranti arrivati furono 5305. Quelle di oggi sono le prime due operazioni di salvataggio avvenute nel Mediterraneo centrale dopo oltre due settimane, anche se i tentativi di migranti di arrivare in Europa non si sono fermati. Nei giorni scorsi si sono registrati diversi tentativi di attraversamento della frontiera terrestre tra il Marocco e l’enclave spagnola di Melilla: in circa duemila ci hanno provato il 2 marzo, meno di 500 sono riusciti a scavalcare le alte barriere della frontiera, molti sono stati respinti dalle forze di sicurezza spagnole e “riconsegnati” a quelle marocchine. Il giorno dopo altri 1200 migranti hanno tentato l’ingresso a Melilla, ci sono riusciti in circa 380 ma con scontri nei quali sono rimasti feriti sia alcuni di loro sia gli agenti della Guardia civil e della Polizia nazionale. Ieri, il terzo tentativo, altre mille persone hanno tentato di scavalcare le recinzioni ma sono stati respinti. Secondo il ministero dell’Interno spagnolo, circa mille migranti sono riusciti ad entrare nell’enclave da inizio anno. Quasi lo stesso numero di chi ci era riuscito in tutto l’anno scorso. La Cassazione concede asilo a ucraino del Donbass fuggito per non arruolarsi di Sarah Martinenghi La Repubblica, 6 marzo 2022 “Rischiava di compiere crimini di guerra”. Bocciato il tribunale di Torino che gli aveva detto no: “Gravi violazioni da entrambe le parti in conflitto, legittima l’obiezione di coscienza”. Era scappato, all’età di 20 anni, dall’Ucraina e in particolare dalla regione del Donbass. E non appena arrivato in Italia, nel 2017, si era presentato in Questura invocando la protezione in quanto obiettore di coscienza: temeva, già all’epoca, di essere costretto a combattere nel suo paese. Nel 2020 il tribunale di Torino gli aveva negato la protezione, ma ora la Cassazione ha ribaltato quella decisione sostenendo che invece il suo caso debba essere riconsiderato: “Ha diritto allo status di rifugiato politico”. Per il tribunale, che aveva emesso la sua decisione nel 2020, il giovane invece non correva il rischio di essere arruolato, nonostante le informazioni secondo cui oltre 26mila cittadini ucraini erano già stati sottoposti ad azioni giudiziarie per aver evitato il servizio militare. Il giudice, in particolare, non aveva creduto al suo racconto, e aveva sottovalutato il rischio “di essere costretto a servire nell’esercito ucraino, anche in considerazione dell’età, e il pericolo di essere coinvolto in azioni di guerra e di commettere crimini di guerra o contro l’umanità”. La Cassazione ha accolto il ricorso presentato dal suo avvocato, Daniele Metafune: “Deve essere riconosciuto lo status di rifugiato politico all’obiettore di coscienza che rifiuti di prestare servizio militare nello stato di origine, se l’arruolamento comporta il rischio di un coinvolgimento, anche solo indiretto, in un conflitto caratterizzato dalla commissione, o dalla sua alta probabilità, di crimini di guerra o contro l’umanità” si legge nella sentenza. “Tutte le fonti internazionali concordano sull’esistenza in Ucraina di un conflitto armato, in cui le parti non hanno rispettato gli accordi del 2015-2016 sul cessate il fuoco e hanno continuato a combattere nonostante la tregua, ed evidenziano la presenza di gravi violazioni e crimini di guerra commessi da entrambe le parti in conflitto”, spiega la Cassazione, secondo cui, inoltre, “l’obiezione di coscienza in Ucraina è prevista, nella loro legislazione, solo per motivi religiosi, che tuttavia vengono solitamente ignorati, con avvio all’arruolamento, in forma indiscriminata, di tutti i soggetti richiamati alle armi, a prescindere dal loro credo religioso”. Per i giudici della Suprema Corte “appare plausibile la commissione di crimini di guerra in caso di prestazione da parte del ricorrente del servizio richiesto. Ricorrono quindi tutti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato diversamente da quanto erronamente ritenuto dal giudice. Infatti è chiaramente fondato il suo timore di essere arruolato e inviato al fronte della guerra in corso in Ucraina, nonostante la sua opposizione all’uso di armi, rischiando pene gravi e sproporzionate in caso di rifiuto, motivi per il quale lui è fuggito dall’Ucraina”. Ed è infine “irrilevante” che il giovane non abbia esibito come prova la cartolina di precetto: “non vi è certezza che nel diritto ucraino le modalità di chiamata alle armi corrispondano a quelle in vigore in Italia prima dell’abolizione della leva obbligatoria. Il pregiudizio che possa essere chiamato non è legato alla ricezione dell’avviso di arruolamento, ma al fatto che lui sia inserito negli elenchi di chiamata per ragioni anagrafiche”. Non rileva poi la circostanza che “in Ucraina siano impegnati militari professionali, perché questo non esclude la contemporanea utilizzazione di militari di leva”. Parole che, alla luce della situazione odierna, appaiono più che mai giustificate. Afghanistan Giudici e procuratori: “I talebani ci hanno impedito con la violenza di protestare” di Marjana Sadat La Repubblica, 6 marzo 2022 I manifestanti denunciano di essere stati licenziati senza alcun motivo e che da diversi mesi non ricevono i loro stipendi. Mercoledì scorso, ex giudici e procuratori hanno protestato davanti alla Corte suprema dell’Afghanistan chiedendo di poter tornare al loro lavoro. I talebani, hanno detto, gli hanno impedito perfino di presentare le loro richieste. I giudici denunciano che da quando i talebani sono al potere sono stati licenziati senza alcun motivo e da diversi mesi non ricevono i loro stipendi. Uno di loro, Qazi Nasir, dice: “Ci siamo riuniti davanti alla Corte suprema per far valere i nostri diritti. Eravamo centinaia di giudici e protestavamo prima di tutto perché, da quando i talebani hanno preso il potere, siamo stati licenziati senza alcun motivo, e in secondo luogo, perché non riceviamo i nostri stipendi da sette mesi. Abbiamo cercato in più occasioni un incontro con la Corte suprema, ma i talebani non ce l’hanno permesso”. Nonostante le proteste, i talebani continuano a ripetere che i dipendenti pubblici e gli ex funzionari del governo possono tornare al loro lavoro. Qazi Nasir, da parte sua, denuncia il fatto che nelle milizie ci sono numerosi ex detenuti liberati all’arrivo dei talebani e non ha difficoltà a dire che oggi, ovviamente, procuratori e giudici si sentono minacciati. “Non ci ascoltano nemmeno. Il portavoce della Corte suprema si è presentato accompagnato da miliziani talebani e ha fatto disperdere con la violenza la nostra protesta, attaccando alcuni giudici in particolare”, dice. Secondo Mashal Afghan, portavoce della Corte suprema, invece, il 70 per cento del personale dei tribunali sarebbe tornato al proprio lavoro e non c’è nessun problema. Solo il 30 per cento dei giudici è accusato di essere coinvolto in casi di corruzione e i loro casi sono attualmente oggetto di indagini. Afghan promette che gli stipendi dei procuratori saranno pagati, dice che ci stanno lavorando. Ma aggiunge che le proteste di mercoledì erano illegali. I giudici, tuttavia, respingono le affermazioni dei talebani. Khalid Muqadam spiega che i giudici sono stati licenziati collettivamente e sostituiti da altri, che hanno preso il loro posto. “Non è giusto. Se affermano che alcuni giudici erano corrotti, dovrebbero formare una commissione e condannare i colpevoli. Neanche noi sosteniamo la corruzione”, dice. Muqadam vuole che si sappia che senza nemmeno dare ascolto alle loro richieste, i talebani li hanno dispersi e hanno picchiato due procuratori. Non è la prima volta che reprimono violentemente le proteste pacifiche. Anche la protesta delle donne ha subito le stesse reazioni.