Il nuovo ergastolo ostativo ai sensi del Testo unificato delle proposte di legge della Camera di Fabrizio Ventimiglia e Giorgia Conconi Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2022 Le proposte di legge in materia si sono rese necessarie a seguito delle recenti pronunce della Corte Costituzionale aventi ad oggetto, in particolare, il testo dell’art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario, ritenuto in contrasto con taluni principi fondamentali dell’ordinamento in quanto ostativo all’accesso ai benefici penitenziari per i condannati, anche alla pena dell’ergastolo, per reati particolarmente gravi contemplati al primo comma del medesimo articolo. Le commissioni parlamentari permanenti I, VI e XI hanno recentemente espresso parere favorevole con riguardo al Testo Unificato delle proposte di legge della Camera dei Deputati in ordine alle modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, al decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 e alla legge 13 settembre 1982, n. 646 in materia di revisione delle norme sul divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia. Le proposte di legge in materia si sono rese necessarie a seguito delle recenti pronunce della Corte Costituzionale aventi ad oggetto, in particolare, il testo dell’art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario, ritenuto in contrasto con taluni principi fondamentali dell’ordinamento in quanto ostativo all’accesso ai benefici penitenziari per i condannati, anche alla pena dell’ergastolo, per reati particolarmente gravi contemplati al primo comma del medesimo articolo. Nel 2019 la Consulta sanciva, dapprima, l’illegittimità costituzionale della citata previsione normativa in relazione agli artt. 3 e 27 co. 3 della Costituzione, nella parte in cui condizionava l’accesso ai benefici penitenziari alla collaborazione ai sensi dell’art. 58-ter dell’Ordinamento penitenziario da parte dei detenuti. Secondo la Corte, infatti, “mentre è corretto ‘premiare’ la collaborazione con la giustizia prestata anche dopo la condanna - riconoscendo vantaggi nel trattamento penitenziario - non è invece costituzionalmente ammissibile ‘punire’ la mancata collaborazione, impedendo al detenuto non collaborante l’accesso ai benefici penitenziari normalmente previsti per gli altri detenuti” (Corte Cost., 04/12/2019, n. 253). Sulla scorta di tale precedente e della pronuncia dello stesso anno della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che dichiarava l’istituto del diritto italiano dell’ergastolo ostativo contrario all’art. 3 della Cedu in quanto pena inumana e degradante, nel 2021 la Corte Costituzionale statuiva che la pericolosità sociale del condannato per taluno dei reati sanciti dal primo comma dell’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975 n. 354, che si rifiuta di collaborare, deve essere presunta fino ad una eventuale prova contraria che può ben consistere in diversi e ulteriori elementi dai quali emergano i progressi ottenuti dal detenuto nel corso dell’esecuzione della pena. La Corte in tale occasione riteneva, dunque, che “il carattere assoluto della presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata impedisce, infatti, alla magistratura di sorveglianza di valutare - dopo un lungo tempo di carcerazione, che può aver determinato rilevanti trasformazioni della personalità del detenuto - l’intero percorso carcerario del condannato all’ergastolo, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero anche di un tale condannato alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, comma 3, Cost.” (Corte Cost., 11/05/2021, n. 97). Con tale pronuncia la Consulta ha definitivamente posto un ultimatum al legislatore italiano sospendendo il giudizio in tema di ergastolo ostativo fino alla prossima udienza del 10 maggio 2022 e concedendo al Parlamento un anno di tempo per adeguare la disciplina di tale istituto ai principi costituzionali di uguaglianza e di umanità nonché alla funzione rieducativa della pena. A distanza di quasi un anno dal suddetto provvedimento, l’odierno Testo Unificato della Commissione estende la concessione dei benefici di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario ai detenuti o internati per reati particolarmente gravi che, pur non avendo collaborato con la giustizia, abbiano fornito sufficienti elementi a dimostrazione di una avvenuta rieducazione a seguito del percorso carcerario. Orbene, ai sensi del nuovo testo in esame il condannato per i delitti di cui al primo comma dell’art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario potrà accedere a permessi premio, lavoro all’esterno, semilibertà e liberazione anticipata allorché dimostri di non essere più legato all’associazione criminale cui apparteneva. Nello specifico, il nuovo comma 1-bis del predetto articolo prevede che tale prova potrà essere fornita dal detenuto tramite l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna nonché mediante la documentazione di specifici elementi che testimonino la propria estraneità alla criminalità organizzata, terroristica o eversiva che non siano, tuttavia, limitati alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione al percorso di rieducazione o alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale. Ebbene, ai sensi delle modifiche introdotte dal Testo Unificato la concessione di tali benefici rimane, in ogni caso, condizionata alla soddisfazione di particolari requisiti nonché alle risultanze dei successivi accertamenti espletati dall’Autorità giudiziaria. Il testo in esame prevede, infatti, che la decisione del Giudice competente, ovvero il Tribunale di sorveglianza, in merito all’accoglimento o al rigetto di un’istanza di accesso ai benefici penitenziari debba essere subordinata al previo parere del Pubblico Ministero presso il Giudice che ha emesso il provvedimento di primo grado - o del Pubblico Ministero presso il Tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di primo grado - nonché del Procuratore Nazionale antimafia e antiterrorismo. Il citato Giudice è, inoltre, tenuto ad acquisire informazioni da parte dell’istituto di detenzione dell’istante e ad eseguire accertamenti sulla situazione patrimoniale dello stesso, nonché su eventuali iniziative di riparazione o risarcimento del danno nei confronti delle vittime. Tuttavia, qualora, trascorso il termine di 30 giorni, non siano pervenuti i suddetti pareri o le informazioni relative agli accertamenti richiesti, il Giudice potrà decidere, ancorché motivando adeguatamente il provvedimento di accoglimento o di rigetto, anche in assenza di questi. Infine, occorre rilevare, con particolare riguardo alla liberazione condizionale, che la nuova disciplina prevede che il detenuto che non collabori con la giustizia debba aver scontato almeno due terzi della pena temporanea o un minimo di 30 anni per la pena dell’ergastolo ai fini dell’istanza di accesso a detto beneficio. Ergastolo: se il Parlamento volta le spalle alla Costituzione di Gianpaolo Catanzariti* Il Riformista, 5 marzo 2022 Paletti incomprensibili, innalzamento della pena espiata per accedere alla liberazione condizionale. L’intento è chiaro: peggiorare la disciplina per strappare le unghie alla Consulta e normalizzare quei magistrati di sorveglianza che si ostinano a seguire la Costituzione. Il testo approvato in commissione unifica le proposte di 5S, Lega e Fdi. Cade nel vuoto quella illuminata di Bruno Bossio, eretica dem, depositata prima delle pronunce della Cedu e della Consulta. Sembra le che forze parlamentari abbiano sbagliato a orientare la bussola, dirigendola verso quei Paesi sanzionati dalla Corte di giustizia per violazione dello stato di diritto. In Commissione Giustizia della Camera dei deputati i gruppi parlamentari, tra le varie proposte di legge di modifica dell’art. 4 bis O.P. depositate dopo l’ordinanza 97/2021 della Corte costituzionale, hanno, dunque, trovato l’accordo su un testo da portare in Aula. Un testo che unifica, non a caso, le sole proposte depositate dai 5Stelle, da FdI e dalla Lega, tutte tese a disciplinare un “nuovo ergastolo ostativo”, lasciando cadere nel vuoto l’unica proposta di legge, a firma Enza Bruno Bossio - eretica in un Pd sempre più ambiguo e manettaro - che, invece, era stata depositata ben prima delle decisioni del 2019 della Cedu e della Corte costituzionale sui permessi premio e sulla liberazione condizionale e che perciò era molto più meditata, illuminata e sicuramente meno istintiva rispetto alle altre depositate in reazione alla Consulta. I toni trionfalistici di ben determinati settori parlamentari - i soliti - che hanno accompagnato l’approvazione tradiscono il significato del testo e le ragioni, di pancia, che lo hanno determinato. Dicono di averlo fatto con lo sguardo rivolto alla Corte costituzionale. La sensazione, però, è che, nell’orientare la loro bussola, abbiano sbagliato, posizionandola verso quei Paesi che la Corte di Giustizia ha già messo in una lista nera per le loro scelte in spregio allo Stato di diritto. Se avessero usato le coordinate giuste, infatti, non avrebbero cancellato, con un tratto di penna indelebile, la collaborazione impossibile, irrilevante e/o inesigibile ribadita di recente proprio dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 20 del 2022. Nel testo approvato in Commissione, accanto alla collaborazione come condizione privilegiata per l’accesso ai benefici di legge, si registra la parificazione della situazione in cui si trova chi non intende collaborare a quella di chi, invece, non può collaborare, in barba, appunto, alle indicazioni della Consulta sin dal1996 e ribadite perentoriamente qualche settimana fa. Pur prescindendo dalle innumerevoli ragioni che inducono un condannato a non collaborare e che, come ribadito dalla Cedu (Viola c. Italia) e dalla Corte costituzionale, possono non essere dettate dalla intenzione di mantenere i rapporti con la criminalità organizzata bensì, ad esempio, da quella di preservare la sicurezza dei propri affetti dalle vendette criminali, esistono - e non son certo pochi - i casi di coloro che, magari, pur volendolo, non possono rendere alcuna collaborazione utile perché ogni aspetto della vicenda delittuosa è stato sviscerato e conosciuto dai giudici nel relativo processo così come eventuali concorrenti nel reato puniti oppure perché la loro condotta è stata talmente marginale da essere impossibilitati, per i livelli di conoscenza, a fornire utile collaborazione. Se poi consideriamo i casi di coloro che, pur condannati, si professano innocenti e che, pur volendo, non potrebbero collaborare a meno di non accusare falsamente qualcun altro, capiamo bene quanto le variegate ipotesi di collaborazione previste nell’art. 4 bis attualmente in vigore abbiano un senso di civiltà e quanto le scelte adottate in Commissione siano, per contro, reazionarie. Se ancora consideriamo che la Corte costituzionale, il 25 gennaio 2022, con la sentenza n. 20 ha rivendicato, ritenendola pienamente legittima, la diversificazione delle collaborazioni secondo la disciplina oggi vigente, nonostante già da mesi circolasse la formulazione unificata in Commissione, il sospetto che il testo approvato si trovi in contrasto con le coordinate costituzionali rischia di divenire realtà. Tralasciamo approfondimenti tecnici sulla montagna di requisiti e presupposti - alcuni del tutto superflui, altri ridondanti, altri ancora tautologici se non incomprensibili come i collegamenti “anche indiretti o tramite terzi” - che il condannato dovrà dimostrare di possedere per poter accedere ai benefici penitenziari, riversata sul campo come scoria radioattiva pur di rendere l’aria irrespirabile e così non praticabile. O ancora, sull’innalzamento a 30 anni della pena espiata per poter accedere alla liberazione condizionale per gli ergastolani ostativi, nonostante la Cedu, nella decisione Vinter c. Regno Unito, abbia riconosciuto come in Europa vi sia un tendenziale “primo riesame entro un termine massimo di venticinque anni da quando la pena perpetua è stata inflitta” evitando così di violare l’articolo 3 della Convenzione. Stendiamo un velo pietoso sull’introduzione, furtiva, di un articolo nuovo di zecca (art. 3) in materia di accertamento patrimoniale (legge 646/1982) per le misure di prevenzione nei confronti di chi è sottoposto al 41 bis, norma del tutto estranea alla necessità di riformare i percorsi che portano un condannato non collaborante verso i benefici penitenziari dai quali sono esclusi, per certo, proprio i detenuti “pericolosi” costretti al 41 bis. È chiaro l’intento dei commissari che hanno deciso di presentare il testo unificato: da un lato, offrire una disciplina “terribile” complessivamente peggiorativa per strappare, così, le unghie alla Corte costituzionale rea di avere fatto “un favore alle mafie”; dall’altro, proseguire nell’opera di normalizzazione di quei magistrati di sorveglianza (pochi, in realtà) che si ostinano, ancora, ad applicare con rigore le attuali regole penitenziarie secondo Costituzione e Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Non lasciamoci suggestionare dalle suadenti frasi “maggiori garanzie di serenità di giudizio a quei magistrati che sono chiamati a pronunciarsi sulla concessione di permessi a detenuti che provengono da contesti altamente pericolosi”, “evitare la sovraesposizione del singolo magistrato e garantire decisioni più condivise”. Dietro la nuova competenza collegiale, per la concessione di permessi per i casi di 4 bis OP o per l’ammissione al lavoro, si nasconde la malcelata sfiducia e lo strisciante, quanto insopportabile, sospetto sui (pochi) magistrati di sorveglianza che si sforzano di individuare percorsi in linea con la funzione rieducativa della pena. E poi, diciamolo senza ipocrisie. La collaborazione come strumento di lotta alla mafia e arma di ricatto per una corretta esecuzione della pena, così come scolpita nel testo unificato, non appartiene al sostrato valoriale di uno Stato di diritto e di una sana democrazia. Men che meno rende omaggio ai tanti, troppi, magistrati, ai servitori dello Stato assassinati dalle mafie! Sarebbe stato meglio che i membri della Commissione Giustizia avessero dedicato dieci minuti del loro tempo per leggere e riflettere sui passaggi di una splendida intervista fatta, nei giorni scorsi, dal prof. Costantino Visconti a Fiammetta Borsellino secondo cui “anche rispetto alle persone che mi hanno fatto più male come i Graviano, io non mi sento più appagata se loro restano segregati in una cella, ma se si accende una miccia di cambiamento. Attenzione: non necessariamente questa deve condurre a una collaborazione. A me interessa che si produca un mutamento profondo nelle persone”. Purtroppo, il testo sinora approvato quella miccia di cambiamento, quel diritto alla speranza, l’hanno soffocata nel rancore di una vendetta collettiva che anima il dibattito, gettando, però, nel buio più fitto degli abissi i nostri valori, i nostri ideali, i nostri principi costituzionali e forse un po’ della nostra coscienza. *Avvocato - Responsabile Nazionale Osservatorio Carcere Ucpi Fine pena quasi mai di Giovanni De Mauro L’Essenziale, 5 marzo 2022 Si va verso la riforma dell’ergastolo ostativo ma non mancano le polemiche Il cosiddetto ergastolo ostativo è un particolare regime carcerario, previsto dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che nega a chi sconta la pena la possibilità di ottenere benefici come il lavoro esterno, i permessi premio o la liberazione anticipata. È definito ostativo proprio perché osta, cioè impedisce, miglioramenti della posizione carceraria e viene previsto per chi è stato condannato per delitti particolarmente gravi, in particolare di mafia e terrorismo. La sua riforma, approvata in commissione giustizia alla camera il 24 febbraio scorso anche con i voti del partito d’opposizione Fratelli d’Italia, sembrava avere la strada spianata. Le polemiche di questi giorni tra governo e partiti sulla nomina del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) rischiano però di rendere tutto più difficile. Oggi in Italia ci sono 1.259 detenuti che stanno scontando un ergastolo ostativo. Per questi detenuti esiste una presunzione assoluta di pericolosità sociale - e dunque non è possibile per loro dimostrare il contrario - e l’unico modo che hanno di accedere a misure alternative al carcere è la collaborazione con la giustizia, diventando quindi pentiti. Il divieto automatico è stato introdotto nel 1992, durante gli anni delle stragi di mafia. Fu un’idea di Giovanni Falcone per contrastare la criminalità organizzata quando era a capo della sezione affari penali del ministero della giustizia. Il senso della norma è subordinare la speranza di poter ottenere un miglioramento delle condizioni carcerarie alla scelta di collaborare con lo stato. I critici di questo regime, però, hanno osservato che chi ha fatto parte di strutture di tipo mafioso spesso rifiuta di collaborare con le autorità per la paura che i suoi familiari possano diventare il bersaglio delle ritorsioni dell’organizzazione criminale. La corte costituzionale, con una ordinanza dell’aprile 2021, ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo, perché “facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della costituzione e con l’articolo 3 della convenzione europea dei diritti dell’uomo”. Secondo i giudici, dunque, la norma contrasta con il principio di uguaglianza e con quello della funzione riabilitativa della pena. La corte ha quindi chiesto al parlamento di scrivere una legge che riformi l’istituto, eliminando l’automatismo tra collaborazione e beneficio carcerario per alcune categorie di detenuti. La pronuncia è stata molto contestata, in particolare dal Movimento 5 stelle, da Fratelli d’Italia e dalla Lega. La commissione giustizia della camera ha elaborato una proposta di legge che modifica l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, eliminando il divieto automatico ai benefici carcerari per chi non collabora con la giustizia, e stabilendo che a decidere sia il collegio del tribunale di sorveglianza. I giudici dovranno valutare caso per caso la condotta del detenuto, il suo percorso in carcere, l’assoluto allontanamento dalla realtà criminale di cui faceva parte, il risarcimento alle vittime e il parere della direzione nazionale antimafia. In sostanza il detenuto dovrà dimostrare che, anche senza aver collaborato con la giustizia, ha imboccato un percorso riabilitativo e in che modo questo si sta concretamente svolgendo. Si tratta di regole molto stringenti, che secondo le voci più critiche, renderebbero quasi impossibile ottenere benefici. Il testo del progetto di legge, che nasce da tre distinte proposte, ha ottenuto il via libera in commissione e la nomina del relatore - il presidente della commissione giustizia alla camera, Mario Perantoni - con il voto favorevole anche di Fratelli d’Italia. Il testo arriverà in aula alla camera l’8 marzo e dovrebbe avere un iter di approvazione rapido, vista la convergenza politica. A guastare l’equilibrio, però, è intervenuto un contrasto tra i partiti e il ministero della giustizia. La ministra Marta Cartabia, infatti, ha indicato come nuovo capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria il consigliere di cassazione Carlo Renoldi. La scelta del magistrato, ex giudice di sorveglianza di Cagliari e vicino al gruppo associativo progressista Magistratura democratica, è stata attaccata pesantemente da Lega, Movimento 5 stelle, Fratelli d’Italia e dai sindacati di polizia penitenziaria. Una delle ragioni della contestazione è che Renoldi, durante un convegno del 2020 aveva parlato di “carcere dei diritti” e si era detto favorevole a un ripensamento dell’ergastolo ostativo. Nella stessa occasione, aveva anche parlato di “antimafia militante arroccata nel culto dei martiri”. Dopo le polemiche, Renoldi ha indirizzato una lettera a Cartabia in cui ha spiegato le sue parole, dicendo di non “sottovalutare la gravità del dramma della mafia” né di aver “mai messo in dubbio la necessità dell’istituto del 41 bis”, ovvero lo speciale regime di detenzione previsto per i mafiosi. Però, ha aggiunto, la piaga della mafia non può far dimenticare che negli istituti di pena “la stragrande maggioranza è composta da altri detenuti. A cui vanno garantite carceri dignitose, come ci ha ricordato il capo dello stato”. Le precisazioni non sono bastate a calmare la polemica e a far rientrare la richiesta dei partiti di ripensare la nomina. Dal ministero della giustizia, però, non c’è stato nessun passo indietro: la nomina a capo del Dap, infatti, è fiduciaria del ministro anche se va ratificata dal consiglio dei ministri. Lo scontro potrebbe avere contraccolpi politici proprio sulla riforma dell’ergastolo ostativo che pure è arrivata in aula con una sostanziale unanimità. Stefano Musolino: “Carcere duro, il mito utile a oscurare le radici della mafia” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 marzo 2022 La polemica sulla designazione da parte della ministra Cartabia di Carlo Renoldi come nuovo vertice del Dap non si placa. Cosa ne pensa di tutto questo un gruppo associativo sensibile al tema del carcere come Magistratura democratica? Lo chiediamo al segretario della corrente progressista, Stefano Musolino, sostituto procuratore a Reggio Calabria, con alle spalle dieci anni, appena “compiuti”, alla Dda reggina, che gli consentono di discutere sul tema anche in base a quella esperienza. Renoldi è finito sotto attacco per essere stato individuato dalla ministra Cartabia quale possibile nuovo capo del Dap. Qual è la vostra posizione in merito? Non abbiamo una posizione specifica, su una scelta che è di esclusiva pertinenza della ministra. Le polemiche a cui lei fa riferimento sono, essenzialmente, ispirate da una logica mafio- centrica che trascura le più complesse qualità e sensibilità richieste a chi è chiamato a dirigere il Dap. Le condizioni di degrado strutturale in cui versano oggi le carceri, le drammatiche insufficienze di uomini e mezzi, il tema della marginalità sociale ristretta negli istituti penitenziari che ne determina il sovraffollamento, la necessità di far uscire il carcere dalla periferia sociale per porlo al centro delle dinamiche culturali e delle politiche degli enti locali. Dovrebbero essere questi i temi su cui valutare l’adeguatezza di Carlo Renoldi. E invece le stilettate contro di lui sono arrivate soprattutto per le sue posizioni sul 41 bis... A me pare che le posizioni espresse da Renoldi diano conto della complessità del tema, insofferente a un approccio ideologico da guerra di religione, fondata su inestirpabili pregiudizi. Io credo che un approccio laico ai temi del regime speciale regolato dall’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario dovrebbe suggerire maggiore attenzione per la capacità dell’istituto di reggere alle valutazioni della giurisprudenza costituzionale e di quella della Corte europea dei Diritti dell’uomo. Un sistema normativo figlio di una logica di emergenza che il tempo sta usurando. Quindi il 41 bis non è destinato a durare per sempre? L’istituto è necessario per contenere la capacità dei dirigenti mafiosi di continuare a gestire dal carcere le dinamiche criminali, ma la restrizione dei diritti individuali in funzione delle esigenze di sicurezza generale deve trovare un punto di compensazione più elevato di quello attuale. Invece, secondo alcuni, la capacità dello Stato di contrastare adeguatamente il fenomeno mafioso si misura tutta sul mantenimento integrale del regime del 41 bis. Ma così facendo, se ne fa un mito intoccabile, tacendone le inefficienze e, soprattutto, trascurando i temi dell’antimafia sociale, quella che ambisce ad incidere sui fattori genetici del fenomeno che risiedono nella oggettiva povertà economica e culturale di alcune zone del Paese. Sostenere il totem del 41 bis fa comodo a tanti perché così non si affrontano le vere criticità sottese al fenomeno mafioso. A cosa allude quando si riferisce alle inefficienze del 41 bis? Alcune delle previsioni che regolano l’articolo 41 bis hanno natura puramente afflittiva e sono, perciò, esorbitanti rispetto alla logica che ispira la necessità di un trattamento differenziato dei dirigenti mafiosi. Lo ribadisco: l’istituto è necessario, perché l’esperienza, anche quella dei detenuti mafiosi in regime di alta sicurezza, dimostra come costoro abbiano un atteggiamento refrattario alle proposte rieducative e tendano a ripetere anche all’interno delle strutture detentive quelle che sono le modalità relazionali e i metodi che caratterizzano l’organizzazione. Ma se questo è vero, dobbiamo anche consentire valutazioni individualizzate dei singoli percorsi detentivi che non siano viziate da pregiudizi irresistibili, ma siano capaci di garantire anche al detenuto mafioso la possibilità di emendarsi e usare il tempo trascorso in carcere quale momento di rieducazione ed emancipazione dall’organizzazione e dai suoi metodi. Quindi come si esce dall’equivoco per cui chi desidera un carcere più umano e rispettoso dei diritti sarebbe in realtà intenzionato a depotenziare la lotta alla mafia? Io credo che la necessità di una detenzione ispirata al massimo rispetto delle dignità umana sia ineludibile e sia imposta dalla Costituzione e dalla normativa internazionale. Sulla base di questa ispirazione di fondo, credo sia giunto il tempo di rivalutare con attenzione un istituto indispensabile nel contrasto alle mafie, riformandone i profili puramente afflittivi ed accentuando la rilevanza di una valutazione individualizzata di ciascun detenuto. Come le ho detto anche in altre occasioni, continuare a ragionare in termini emergenziali di lotta alla mafia è ormai antistorico: è un fenomeno ormai cronicizzato che deve essere affrontato con una legislazione in grado di tenere insieme le ragioni della sicurezza sociale con quelle dei diritti dei soggetti coinvolti nei processi. È rispuntata la questione della “trattativa” Stato- mafia: Salvatore Borsellino, sempre sul caso Renoldi, ha parlato di “ultima cambiale della trattativa”. Scrive il collega Aliprandi che questo tema riappare sempre per “intossicare il dibattito ogni qual volta si parla di riforma del 41 bis o di ergastolo ostativo”. Lei che pensa? Trattandosi di un tema complesso, è necessario osservarlo da plurime prospettive, ognuna delle quali ha aspetti di ragionevolezza. Se non se ne fa un tema da guerra di religione, ogni contributo è utile a migliorare la comprensione delle poliedriche sfaccettature che ne disegnano l’insieme, migliorando la qualità del compromesso finale tra diritti individuali e ragioni di sicurezza sociale. Mentre rifiutare il confronto e descrivere come un traditore dell’antimafia chi muove da altre valutazioni credo sia profondamente sbagliato. Costruire su questa materia totem pregiudiziali non aiuta l’antimafia, aiuta piuttosto quelli che sull’antimafia fanno carriera e gran parte della politica. A cosa si riferisce quando chiama in causa la politica? La politica sembra non volersi assumere le responsabilità che deriverebbero da una antimafia sociale, sicché preferisce delegare tutto al mito della repressione e a quello della mafia, che si coltivano vicendevolmente. Se pensiamo che da trent’anni il modo di approcciare alla mafia è solo quello della repressione, chi pensa che questo sia ancora il solo metodo per fronteggiarla dovrebbe chiedersi perché questa ricetta non ha funzionato. Questo non vuol dire sottovalutare la natura del fenomeno mafioso, ma sottolineare che una normativa repressiva di corto respiro non rappresenta più, a mio parere, una strategia adeguata. A tal proposito mi permetta però di aggiungere due parole su quanto letto ieri sul vostro giornale (il riferimento è all’articolo di Damiano Aliprandi intitolato “Il caso Renoldi e quel silenzio assordante di Md sul teorema Trattativa”, ndr). Prego... Descrivere Md e il dibattito al suo interno come qualcosa di ideologizzato o indifferente ai temi di cui stiamo parlando non fa un servizio alla verità. Le faccio solo un esempio: quando venne resa nota l’indagine a carico dell’ex ministro Conso nell’ambito del processo cosiddetto sulla trattativa, Nello Rossi (allora procuratore aggiunto a Roma ed esponente di spicco della corrente di sinistra della magistratura, ora direttore della rivista di Md “Questione Giustizia”, ndr) difese Conso pubblicamente, attirandosi le critiche anche di altri magistrati. Md è sempre stata e ambisce ad essere un luogo aperto al confronto e ispirato dalla curiosità del dialogo, soprattutto su questi temi in cui la tentazione di sfuggire alla complessità con soluzioni semplicistiche o elevare bandiere ideologiche possono costituire freni alla tutela più piena dei diritti coinvolti: quelli indivi-duali e quelli collettivi. Cosa sanno i cultori del carcere duro di amministrazione penitenziaria? di Gian Domenico Caiazza Il Dubbio, 5 marzo 2022 Nulla, e la ministra dimostra di saperlo. Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria è chiamato ad occuparsi della gestione amministrativa delle carceri. Dunque, deve occuparsi di personale, di Polizia Penitenziaria, di condizioni detentive degli internati, di edilizia carceraria. Deve amministrare un bilancio di imponenti dimensioni. Si tratta insomma di un incarico di alta amministrazione, in uno dei comparti pubblici più delicati e peculiari. La prima domanda che dovremmo tutti farci seriamente, che invece pochi si fanno e alla quale pervicacemente nessuno risponde, è perché mai si ritenga immancabilmente di affidare questo delicato e complesso incarico a un magistrato. Il quale ultimo è entrato nei ranghi della Pubblica Amministrazione vincendo un concorso che valuta qualità, conoscenze ed idoneità del tutto estranee a quelle - chiaramente manageriali, e anche non poco sofisticate- richieste per amministrare il Dap. Perfino se fosse un magistrato con lunga esperienza al Tribunale di Sorveglianza - il che, paradossalmente, non accade praticamente mai- questi sarebbe comunque privo delle più rudimentali cognizioni di management pubblico che la funzione necessariamente presuppone. Ma questo è il Paese che ha maturato una idea talmente ancillare verso il potere giudiziario, da essersi convinto a considerare di esclusiva competenza magistratuale qualunque funzione (non giurisdizionale ma) amministrativa in tema di Giustizia. A questa assurdità (assimilazione della competenza amministrativa a quella giurisdizionale) se ne è aggiunta una seconda, particolarmente rozza e primitiva e perciò cara alla diffusa cultura manettara di questo Paese, secondo la quale quella carica deve essere affidata, come dire, ad un “mastino”, che dia garanzie di una solida cultura poliziesca e, soprattutto, “antimafiosa”, qualunque cosa ciò possa concretamente significare. Dunque, non solo magistrati, ma preferibilmente Pubblici Ministeri con solido curriculum in processi contro le mafie, e con solida cultura carcerocentrica. Ora, dovete sapere che i detenuti per titoli di reati connessi a fatti di mafia sono, a tutto concedere, circa 700, su una popolazione carceraria di oltre 60mila persone. Le ragioni per le quali costoro sono detenuti, debbano rimanerlo e con quale regime detentivo, sono di esclusiva spettanza dei magistrati che li indagano, li giudicano, ne curano il regime esecutivo della pena. Il regime detentivo speciale del cosiddetto 41 bis è fissato da norme di legge primarie e secondarie. Dunque, la seconda domanda che tutti dovremmo farci, che invece pochi si fanno e alla quale pervicacemente nessuno risponde è: cosa c’entra l’antimafia con il Dap? Ma qui è inutile tentare un ragionamento, siamo di fronte a quel crogiuolo esplosivo di isteria collettiva e retorica un tanto al chilo che annichilisce le sinapsi e preclude ogni sensata discussione. Con una popolazione di 60mila persone detenute da governare, di altre centinaia di migliaia tra personale amministrativo e di polizia penitenziaria da amministrare, di strutture carcerarie fatiscenti da adeguare, di enormi flussi di denaro da spendere in modo ottimizzato, le prèfiche nazionali dello schiavettone strepitano indignate, perché il nome avanzato dalla Ministra Cartabia non garantirebbe quegli sconclusionati parametri di idoneità all’incarico che ci siamo inventati non si sa quando, non si sa come, non si sa perché. Il dottor Renoldi non è un Pubblico Ministero dunque non può vantare maxi inchieste e maxi arresti di mafia; è “solo” (sic!) un Giudice della Corte di Cassazione, dunque - parrebbe di capire che questo sia il pensiero degli energumeni indignati- una mammoletta senza spina dorsale; e soprattutto avrebbe espresso qui è là, in quel tal convegno o in quel tal altro scritto, idee sull’ergastolo ostativo semmai consonanti con le salottiere ed irritanti pruderie della Corte Costituzionale, ma certamente insostenibili a petto della rude e maschia cultura antimafia, chessò, di un Gratteri o di un Di Matteo. Quindi, cari amici, a questo stiamo. Avremmo voluto chiedere alla Ministra Cartabia: perché ancora un magistrato? (e non un direttore di carcere di lungo corso, o un qualificato studioso di diritto penitenziario, o meglio ancora un manager pubblico)?; e invece dobbiamo cogliere nella decisione della Ministra, per di più con sincero compiacimento, almeno il segno comunque coraggioso e limpido della fedeltà alla sua idea di carcere e di pena che ha da subito reso esplicita, e che, naturalmente, le fa onore. Invece che un pm scegli un giudice, per di più non grondante idolatria della ostatività, e tanto basta a scatenare il linciaggio. Ahi poveri noi, poveri noi. Dallo scontro sul Dap l’occasione per superare un’idea di antimafia ferma agli anni Novanta di Alberto Cisterna* Il Dubbio, 5 marzo 2022 La svolta (laica) che serve alle carceri. La battaglia in corso sulla nomina del prossimo capo del Dap è, per la prima volta dopo tanti anni, al centro di un dibattito pubblico vero. Dai toni aspri, ma vero. Non è chiaro se la notizia dell’intenzione della ministra Cartabia di nominare Carlo Renoldi, consigliere della Cassazione, sia stata fatta trapelare da ambienti ministeriali ostili, ma certo ben informati, oppure se la guardasigilli abbia democraticamente avviato un giro di consultazioni tra le forze di maggioranza per coglierne le indicazioni e qualcuno abbia lanciato il sasso nello stagno mediatico. Certo è che la designazione ha dato luogo a durissime prese di posizione contro il magistrato cui si contesta una posizione, come dire, “morbida” in materia di carceri e, soprattutto, di gestione del regime speciale, il cosiddetto 41 bis. Inoltre, il consigliere Renoldi sembra pagare qualche parola di troppo nei confronti del circuito dell’antimafia e dei suoi rituali. Le due cose, ovviamente, si tengono tra loro. In un paese in cui mafia e terrorismo hanno mietuto centinaia di vittime innocenti, è inevitabile che ci sia un gruppo di irriducibili che ritengono le politiche penitenziarie mai dure abbastanza nel far scontare ai colpevoli il prezzo delle loro scelleratezze. È comprensibile e si tratta di posizioni che meritano il massimo rispetto. Ma che non possono condizionare per decenni il dibattito sul sistema carcerario, sull’ergastolo ostativo, sul regime speciale di detenzione. La scelta del governo Berlusconi, nel 2002, di stabilizzare e conferire un assetto definitivo alla reclusione di 41 bis - dopo venti anni - merita di essere presa nuovamente in considerazione e non per indugiare a un ingiusto perdonismo, ma per fare un bilancio realistico, obiettivo, verificabile della necessità di mantenere in regime di isolamento centinaia di detenuti, anche dopo decenni di carcere. È un punto decisivo che viene costantemente tenuto lontano dal dibattito pubblico, sommerso da un profluvio di commemorazioni, anniversari, convegni e quant’altro che rendono difficile uno sguardo distaccato e sereno. In una nazione seria si dovrebbe pur stabilire se le mafie siano state o meno strategicamente sconfitte dallo Stato e siano state costrette a ripiegare su “semplici” arricchimenti e violenze minute senza alcuna possibilità di occupare più un ruolo egemone sulla società. Ovvero se, come qualcuno ipotizza, si siano acquattate da qualche parte e attendano tempi migliori. Sia chiaro: che le organizzazioni mafiose esistano e siano pericolose non lo nega nessuno, il punto è se lo Stato abbia conseguito successi tali da sbaragliare la bramosia di potere dei clan confinandoli (come in molte altre parti del mondo) al ruolo di gruppi criminali e di bande di malviventi. Ecco che la discussione sul prossimo capo del Dap deve essere ben accetta e costituisce un’occasione di confronto preziosa. Soprattutto dopo il terribile pasticcio combinato dal precedente ministro della Giustizia nel caso Di Matteo, direttore in pectore misteriosamente messo da parte ai piani alti di via Arenula. Il punto centrale è se il carcere, in ossequio alla Costituzione, debba o meno avere al proprio centro la funzione rieducativa della pena e la riabilitazione del condannato o se debba restare pienamente assorbito dalla belligeranza dichiarata alle cosche oltre i suoi cancelli. Perché ciò accada la dimensione detentiva deve acquisire una neutralità persa decenni or sono, quando le celle erano divenute covi di malaffare (la potente narrazione dello champagne all’Ucciardone); celle che lo Stato ha poi trasformato in un’ulteriore proiezione del campo di battaglia alle mafie estendendo entro le mura intercettazioni, sequestri, captazioni, regimi speciali. Recuperare la terzietà e la neutralità dell’espiazione della pena è la prima grande sfida, e ha bisogno di un capo del Dap adeguato che la politica deve scegliere senza timore di polemiche e senza porsi alla continua ricerca del placet del Politburo dell’antimafia. *Magistrato Da fine marzo si potrà gradualmente ritornare alla “normalità” in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 marzo 2022 Circolare del Dap ai provveditorati regionali. Mantenendo le dovute accortezze, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ordina la ripresa delle attività in carcere. Com’è noto, gli effetti dovuti alla diffusione del Covid- 19 hanno provocato un’emergenza sanitaria cui è stata data risposta immediata con una serie di misure urgenti. Ora, con la fine dello stato di emergenza a fine marzo, i detenuti potranno gradualmente ritornare alla “normalità”. Ricordiamo che, con l’imperversare della pandemia, il Dap è intervenuto con diverse note e circolari, per riuscire ad arginare il virus o, quantomeno, per semplificare la gestione del rischio di contagio da Covid- 19 negli istituti penitenziari. Sono quindi stati adottati provvedimenti concernenti misure di contenimento della diffusione del virus che hanno limitato i trasferimenti della popolazione detenuta, garantendo solo quelli inderogabili, per motivi di salute, per gravi motivi di ordine e sicurezza e per motivi di giustizia. Con il Decreto- legge 24 dicembre 2021, n. 221 recante ‘proroga dello stato di emergenza nazionale e ulteriori misure per il contenimento della diffusione dell’epidemia da Covid-19 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 24 dicembre 2021, n. 305, ha precisato che l’emergenza sanitaria ha subito una proroga fino a tutto il mese di marzo 2022. Con la previsione, quindi, della fine dello stato di emergenza per il 31 marzo 2022 e tenuto conto delle vigenti disposizioni per la disciplina delle attività nella società libera, per una graduale ripresa della vita penitenziaria per il venir meno delle ragioni che hanno comportato le temporanee restrizioni adottate nel periodo pandemico, il Dap invita i provveditorati regionali a predisporre entro il 20 marzo quanto ritenuto necessario per rendere più fluide le procedure di trasferimento da un istituto all’altro, evitando di addurre come motivi ostativi le necessità correlate ai provvedimenti di isolamento precauzionale dei ristretti, al fine di prevenire la diffusione del contagio da Covid- 19. “Vorranno - conclude la circolare del Dap - inoltre, le SS. LL. sensibilizzare le Direzioni degli istituti penitenziari del proprio ambito di competenza affinché vengano celermente eseguiti i provvedimenti di trasferimento che sono stati limitati e/ o sospesi”. La notizia è importante. Con la pandemia, il carcere è ritornato ai tempi del regolamento penitenziario fascista. Prima della riforma del 75, il carcere era stato concepito come luogo impermeabile e isolato dalla società libera. L’isolamento trovava espressione nella disciplina dei rapporti con la società esterna - limitati a colloqui, corrispondenza e visite dei prossimi congiunti, peraltro assai restrittiva e aleatoria, in quanto legata al sistema delle ricompense e delle punizioni. Lo stesso valeva per le visite degli istituti penitenziari ad opera di persone estranee all’amministrazione, riservata solo ad un elenco tassativo di personalità. L’impermeabilità del luogo e l’isolamento dalla società trovavano conferma anche nelle strutture architettoniche dei penitenziari, per lo più ispirate al modello del Panopticon di Bentham. Non a caso, uno degli elementi innovativi della legge 354/75 è il trattamento all’individualizzazione: si prescrive, infatti, l’osservazione scientifica della personalità di ciascun detenuto, così da costituire un programma individuale. Al riguardo è esemplificativo l’art. 13, il quale, tra le altre cose, stabilisce: “Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto. (…) Per ciascun condannato e internato, in base ai risultati dell’osservazione, sono formulate indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare ed è compilato il relativo programma, che è integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell’esecuzione”. Quei suicidi in carcere passati sotto silenzio. C’è una crisi strutturale di Francesco d’Errico* La Nazione, 5 marzo 2022 Il fenomeno dei suicidi in carcere non è mai stato al centro delle attenzioni dell’opinione pubblica e della politica. D’altronde, nessuno dei mali che affligge il nostro sistema penitenziario pare interessare particolarmente a media e partiti. Ecco perché, a maggior ragione, considerando la concomitanza di eventi (giustamente) catalizzanti come l’elezione del Presidente della Repubblica, le attese decisioni della Consulta sui referendum e poi l’invasione dell’Ucraina da parte del regime putiniano, il fatto che dall’inizio del 2022 ben dodici persone si siano tolte la vita nelle carceri ha destato (purtroppo) poco interesse. L’allarme era stato lanciato dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, il 24 gennaio, quasi un mese e mezzo fa, quando già otto persone recluse avevano scelto di farla finita. Nella nota diramata per segnalare l’inquietante crescita dei suicidi, Palma aveva ricordato giustamente che “solo un dialogo largo può indicare la via da percorrere per ridurre le tensioni, ridefinire un modello detentivo e inviare un segnale di svolta”. Proprio questo monito del Garante contiene un aspetto fondamentale: se ogni individuo ha un vissuto unico e un personalissimo fardello da sopportare, e se dunque ogni suicidio, purtroppo, ha una sua storia e una propria specificità, è impossibile non prendere atto che nelle nostre carceri dal 2000 ad oggi si sono tolte la vita 1234 persone (nove volte il numero di quelle che si sono suicidate in Italia tra i liberi, fuori dal carcere). Un dato che, per la propria consistenza, evidenzia la presenza di una patologia di tipo strutturale, che va oltre le singole vicende di ogni detenuto, suggerendo in modo inequivocabile una correlazione tra le disumane condizioni di detenzione e la scelta di centinaia e centinaia di detenuti di darsi la morte. Per rendersene conto è sufficiente sfogliare l’ultimo report di Antigone, nel quale si sottolinea giustamente che negli anni successivi alla sentenza Torreggiani della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, cioè in un frangente nel quale si adottarono misure deflattive che consentirono un temporaneo miglioramento delle condizioni di detenzione, il tasso dei suicidi negli istituti penitenziari subì un calo non trascurabile. Per contrastare il fenomeno dei suicidi, dunque, sarebbe sufficiente adottare misure utili a contenere il sovraffollamento carcerario? Naturalmente no, anche se la limitazione dell’esorbitante affollamento che affligge gli istituti, magari avvalendosi di misure come la liberazione anticipata speciale, sarebbe comunque un importante passo avanti. Oltre a questo aspetto, poi, l’assenza di un adeguato numero di psicologi, di funzionari giuridico-pedagogici e di mediatori culturali non aiuta di certo a contenere il tasso suicidario. Una seria riforma penitenziaria, infatti, oltre a dover valorizzare al massimo il principio dell’extrema ratio, limitando al minor numero possibile di casi l’accesso e la permanenza in carcere (riducendo l’utilizzo, oggi eccessivo, della detenzione cautelare ed estendendo l’utilizzabilità delle misure alternative), non può che passare anche attraverso un rafforzamento dell’organico delle professionalità che operano nell’ambito delle attività di risocializzazione e di salute mentale dei condannati. Il Ministro Cartabia, sia nella veste di studiosa dei diritti fondamentali che nel suo ruolo di giudice e presidente della Corte costituzionale, ha sempre mostrato una spiccata sensibilità per i diritti dei detenuti e per il rispetto della loro dignità, la stessa dignità più volte richiamata, anche in relazione al carcere, nel discorso del Presidente Sergio Mattarella. Portata a casa una riforma del processo penale che, tra luci e ombre, dovendo fare i conti con una maggioranza così eterogenea, ha in ogni caso consentito di lasciarsi alle spalle l’illiberale controriforma pentastellata della prescrizione, Cartabia dovrebbe ora tentare in tutti i modi di tradurre in risultati concreti le alte aspettative sulla materia penitenziaria nutrite nei suoi confronti, evitando che le promesse restino disattese come nel caso della deludente riforma del CSM promossa dall’esecutivo. Al netto di una gestione migliore dell’emergenza pandemica nelle carceri rispetto a quella del predecessore Bonafede e di alcuni rilevanti eventi simbolici, come la visita a Santa Maria Capua Vetere, iniziativa di considerevole valore istituzionale ma ovviamente non risolutiva, le nostre carceri versano ancora in uno stato inaccettabile per qualunque democrazia occidentale. Se da un lato è assai difficile pensare ad una riforma organica e ampia dell’attuale composizione parlamentare, dall’altro è più che mai necessario superare l’attuale ed inatteso immobilismo in materia. Dopo l’istituzione della “Commissione Ruotolo” (Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario), la recente proposta da parte del Ministro di una figura come quella di Carlo Renoldi a capo del Dap, in tal senso, è, per due ragioni, un segnale importante, di grande rilevanza politica, che, nonostante tutto, può far sperare in un cambio di passo. Innanzitutto, con la sua candidatura Cartabia ha interrotto la ormai consolidata tradizione di proporre come capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria soltanto membri della magistratura inquirente (spesso peraltro provenienti dall’antimafia). Renoldi, infatti, è un magistrato, ma non è un pubblico ministero: è attualmente giudice della I sezione penale della Cassazione ed è stato in passato magistrato di sorveglianza. Inoltre, ed ecco la seconda ragione, il Guardasigilli con il profilo di Renoldi ha indicato un giurista noto per le sue posizioni garantiste e costituzionalmente orientate dell’esecuzione della pena, una impostazione che coltiva nel solco della lezione del suo maestro Alessandro Margara, padre della riforma dell’ordinamento penitenziario del ‘75. In attesa che la nomina di Renoldi venga deliberata dal Consiglio dei Ministri, l’auspicio è che questa prima rilevante scelta non resti una monade isolata e segni, al contrario, l’avvio di una serie di interventi. Il Ministro Cartabia ne è consapevole: bisogna riportare la Costituzione nelle carceri, mettere fine al sovraffollamento e intervenire sull’emergenza suicidi. Non c’è più tempo. *Presidente associazione Extrema Ratio Servono ancora le carceri minorili? di Luca Cereda Vita, 5 marzo 2022 Secondo il VI Rapporto sulla giustizia minorile in Italia di Antigone, sono sempre meno i minori nelle carceri italiane. In 5 anni calo del 24% per i reati commessi da minori. Ma nel 2020 triplicate segnalazioni per pedopornografia online. “Che senso ha punire un minore per il delitto di oltraggio? Un minore va educato fuori dalle galere. Il rispetto degli altri non si insegna chiudendo un ragazzo dietro le sbarre. Così lo si incattivisce. La sottrazione del minore alla giustizia penale risponde pertanto alla necessità di educare, anziché punire”. Questo è quanto sostiene Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti in Italia, ragionando sulle prospettive future della giustizia minorile in Italia e offrendo una serie di proposte raccolte nel VI Rapporto sulla giustizia minorile in Italia, intitolato quest’anno ‘Keep it trill’. A oggi sono 316, il minimo dal 2007, i giovani detenuti in carcere, di cui 140 stranieri e 8 ragazze, a fronte di 13.611 ragazzi complessivamente in carico ai servizi della Giustizia minorile. Una cifra che si avvicina al 2,3 per cento degli oltre 54.300 detenuti nelle carceri per adulti. Il dato è aggiornato al 15 gennaio scorso. Secondo i dati di Antigone, “se si guarda al numero totale dei minorenni arrestati o fermati dalle forze di polizia, si è passati dalle 34.366 segnalazioni del 2016 alle 26.271 del 2020, con un calo del 24 per cento”. Al 15 gennaio 2020, subito prima dell’arrivo in Italia della pandemia da coronavirus, i ragazzi negli Istituti penali minorili (Ipm) erano 375, il 19 per cento in più di ora. I 316 minori e giovani adulti detenuti sono distribuiti in 17 istituti, da Caltanissetta a Treviso, in strutture con caratteristiche e dimensioni molto diverse. Quello con più presenze è l’Ipm di Torino, con 38 detenuti, mentre a Pontremoli, ovvero unico istituto esclusivamente femminile in Italia, ospitava solo 3 ragazze al 15 gennaio. Gli altri dati sulla giustizia minorile: aumentano le segnalazioni per pedopornografia online - Nello stesso periodo considerato dall’analisi di Antigone, gli omicidi volontari compiuti da minorenni si sono ridotti del 66 per cento: erano stati 33 nel 2016 e sono scesi a 11 nel 2020, di cui due commessi da ragazze. E non è tutto “merito” della pandemia. Il calo, infatti, era già riscontrabile nel 2019 che faceva segnare un calo rispetto al 2016 del 15 per cento. In controtendenza invece le segnalazioni per pedo pornografia online, triplicate nel 2020, anno in cui siamo rimasti tutti chiusi in casa. “Nel 54 per cento dei casi i ragazzi sono entrati in Istituto per avere commesso delitti contro il patrimonio. Questa percentuale sale al 60 per cento per gli stranieri e al 73 per cento per le ragazze. I reati contro il patrimonio sono seguiti da quelli contro la persona, che sono in media all’origine del 20% degli ingressi, percentuale che in questo caso scende al 18% per gli stranieri e all’8% per le donne”, aggiunge il rapporto dell’associazione Antigone. Antigone: “Perché un codice penale per i minori”? “Il sistema dei reati e delle pene per gli adulti, a maggior ragione vigente il codice Rocco, non soddisfa minimamente il principio, sancito nella Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia del 1989, del superiore interesse del minore - spiega il report diAntigone -. L’articolo 27 della Costituzione assegna alla pena una funzione rieducativa e pone limiti all’esercizio del potere di punire allo scopo di evitare trattamenti contrari al senso di umanità. Alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale costituzionale, significa che le pene devono essere dirette a favorire la reintegrazione sociale della persona condannata, la cui dignità umana non deve essere mai messa in discussione. Questi principi, per essere adattati a ragazzi e ragazze, richiedono una diversa elencazione di reati e un ben più vario pluralismo sanzionatorio”. Carceri minorili, servono davvero ancora? Per questo secondo Antigone “sarebbe il caso di pensare ad un definitivo superamento del ricorso al carcere per i minori di 16 anni, o per i minorenni in generale. È evidente che il ricorso agli Istituti di pena per i minori in Italia sta diventando sempre più marginale, il che è confortante, ma questo significa anche che i più giovani sono sempre meno, e la costruzione di percorsi e spazi riservati a loro in Istituti di pena per minori, diventa sempre più difficile. Forse è tempo di fare un ulteriore passo avanti verso la residualizzazione del carcere escludendo del tutto i minori di una certa età, seppure imputabili, indipendentemente dal reato”. In Italia 245 detenuti ucraini. Il Garante: “favorire le comunicazioni con le famiglie in patria” redattoresociale.it, 5 marzo 2022 L’invito del Garante nazionale alle amministrazioni penitenziarie: “Una misura che può alleviare l’angoscia e la preoccupazione di chi ha familiari e affetti in condizione di grave pericolo”. Al 28 febbraio sono 245 i detenuti ucraini nelle carceri italiane. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà persona, alla luce della guerra in corso in Ucraina e delle gravi conseguenze per la popolazione civile, “invita le amministrazioni penitenziarie ad agevolare quanto più possibile le comunicazioni dei cittadini ucraini verso le famiglie in patria, come per tutti i cittadini stranieri provenienti da scenari di guerra. Una misura che può alleviare l’angoscia e la preoccupazione di chi ha familiari e affetti in condizione di grave pericolo”. Il Pd insiste: la legge Severino va cambiata in Parlamento non col referendum di Giacomo Puletti Il Dubbio, 5 marzo 2022 Le aperture dell’ex Guardasigilli Paola Severino su possibili modifiche alla legge che porta il suo nome riaccende il dibattito nel Pd sul posizionamento del partito in vista dei prossimi referendum sulla giustizia. Tra i quali proprio quello che prevede la cancellazione della legge Severino, mentre prosegue il cammino parlamentare dei provvedimenti messi in piedi proprio dai dem per modificare alcune parti della legge. “La Severino ha parlato di un quadro in cui i giudizi di secondo grado sugli amministratori spesso non hanno confermato quelli di primo grado, ma questo non cambia la nostra posizione sul referendum - spiega al Dubbio Walter Verini, tesoriere del Pd e membro della commissione Giustizia di Montecitorio - L’approvazione del quesito referendario provocherebbe non l’intervento chirurgico che servirebbe su alcune parti della legge ma avrebbe un effetto demolitore, permettendo la candidatura di mafiosi e delinquenti”. L’esponente dem mette in guardia anche dal pericolo opposto, cioè il non raggiungimento del quorum o la vittoria dei “No” alla cancellazione della legge. “Se per caso quel referendum non raggiungesse il quorum o vincessero i No, il messaggio sarebbe “non toccate la Severino” e quindi sarebbe poi più difficile modificarla in Parlamento ragiona Verini - per questo è importante portare avanti con convinzione il percorso in Aula dei nostri provvedimenti che mirano a modificare in maniera puntuale alcuni parti della legge oggettivamente rivedibili”. Ma il Pd viene accusato di ipocrisia da chi, negli anni, si è speso con maggiore decisione nel superare la tagliola che la legge dell’ex ministra della Giustizia del governo Monti impone agli amministratori locali condannati in primo grado. Come Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione. “Assisto con un po’ di sconcerto al fatto che tutti i partiti, a turno, abbiano vissuto il loro periodo forcaiolo per andare dietro al Movimento 5 Stelle - commenta amaro - È accaduto sia nel governo gialloverde che in quello giallorosso”. Secondo l’esponente del partito di Carlo Calenda “è possibile che il Pd ora si desti, sulla spinta di alcuni suoi sindaci colpiti dalla Severino e quindi sospesi”, ma “tanto i dem quanto la Lega su questo tema sono stati innamorati del M5S, gli sono andati dietro e questo è il risultato”. A questa lettura tuttavia Verini non ci sta e risponde per le rime. “Se mi è consentito, combattere la penetrazione della criminalità organizzata dentro lo Stato e dentro le istituzioni precede di qualche anno l’impegno della sinistra e anche del Pd rispetto al Movimento 5 Stelle - sottolinea il tesoriere dem - La legge Severino venne approvata durante il governo Monti, che noi sostenemmo, quando Grillo faceva ancora gli spettacoli a teatro: è vero, il Pd è subalterno a qualcosa, ma quel qualcosa è solo ed esclusivamente la Costituzione”. A dar manforte alla spinta parlamentare per modificare la legge è Matteo Ricci, primo cittadino di Pesaro e responsabile dei sindaci dem. “La modifica della Severino è una sfida che si deve giocare in Parlamento - rilancia Ricci - È questo l’appello che noi sindaci del Pd rivolgiamo a tutti coloro che vogliono cambiare la legge, per garantire la continuità del mandato fino ai tre gradi di giudizio almeno per i reati minori”. Secondo il sindaco di Pesaro “dopo la bocciatura da parte della Consulta dei quesiti su cannabis e fine vita sarà quasi impossibile raggiungere il quorum al referendum” e per questo motivo “i sindaci chiedono a tutto il Parlamento di prendere atto della questione e valutare l’oggettività di una norma che va contro lo stato di diritto”. Per poi citare le cifre della discordia. “A parlare sono i numeri - chiosa Ricci - l’80 per cento dei sindaci condannati per reati minori in primo grado sono stati poi assolti in appello o Cassazione”. 41 bis, anche dopo la Consulta vietato il regalo di compleanno al boss di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 5 marzo 2022 La decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il divieto assoluto di scambiarsi oggetti tra detenuti nello stesso gruppo di socialità, lascia all’amministrazione penitenziaria il potere di stabilire dei limiti. Niente “vestito gessato marrone”, in regalo al boss per il suo compleanno, da parte di un altro detenuto al 41-bis. L’omaggio al capo clan resta vietato anche dopo che la Corte costituzionale, con la sentenza 97/2020, ha bollato come illegittima la norma che impediva, senza eccezioni, lo scambio di oggetti tra detenuti nello stesso gruppo di socialità. I giudici delle leggi hanno, infatti, lasciato all’amministrazione penitenziaria, la possibilità di introdurre delle limitazioni, che siano motivate e giustificate da precise esigenze, sindacabili dal magistrato di sorveglianza. Nel caso specifico nel mirino dei giudici erano finiti dei capi di vestiario di un certo valore, regalati per il compleanno, di nascosto, ad un capo della criminalità organizzata. La Corte di cassazione (sentenza 7939) respinge dunque la tesi del ricorrente - anche lui un capo, presunto reggente del clan napoletano della Vanella Grassi - secondo il quale lo scambio dopo la Consulta doveva considerarsi un fatto lecito non più sottoposto a restrizioni. Il colpo di spugna della Consulta sulla norma dell’Ordinamento penitenziario che prevedeva il divieto assoluto ha aperto alla possibilità di uno scambio di oggetti di modico valore tra gruppi, formati al massimo da quattro detenuti. Gruppi di socialità che hanno lo scopo di conciliare due esigenze potenzialmente contrapposte: da una parte, evitare che i detenuti più pericolosi possano mantenere vivi i propri collegamenti con i membri delle organizzazioni criminali di riferimento, sia in carcere sia liberi e, dall’altra, garantire anche a questi detenuti occasioni minimali di socialità. Nel bocciare il no assoluto agli scambi, i giudici delle leggi avevano valorizzato la possibilità che gli appartenenti allo stesso gruppo hanno di comunicare tra loro, nelle ore che trascorrono insieme. Circostanze che forniscono l’occasione per scambiare messaggi, non necessariamente ascoltati o conosciuti dalle autorità penitenziarie. La norma dell’ordinamento è stata dunque censurata come irragionevole perché non serve ad accrescere le esigenze di sicurezza pubblica e impedisce una, sia pur minima, modalità di socializzazione. Ma la stessa Corte costituzionale si era preoccupata di forme unidirezionali di scambio di oggetti, sempre in favore di singoli detenuti “idonee a segnalare simbolicamente la loro posizione di supremazia all’interno del gruppo”. Ipotesi che possono essere affrontate e risolte con le dovute limitazioni dall’amministrazione penitenziaria, come avvenuto nel caso esaminato. Campania. Carceri, stanziati 14 milioni per nuovi progetti di ristrutturazione Il Mattino, 5 marzo 2022 Ciambriello: “L’habitat è un elemento fondamentale per il reinserimento sociale dei detenuti”. Nella giornata di ieri presso il provveditorato campano delle opere pubbliche si è tenuto un incontro tra il Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello e il Provveditore alle opere pubbliche della Campania, Molise, Puglia e Basilicata, Placido Migliorino. L’Incontro, chiesto dal garante, avuto come argomenti: la ristrutturazione di quattro padiglioni del carcere di Poggioreale, la costruzione di un nuovo carcere di Nola, la costruzione di un nuovo reparto presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere e la ristrutturazione del carcere minorile di Airola in provincia di Benevento. Il provveditore, con il suo staff, è entrato nel merito dei singoli argomenti del garante Ciambriello. Al termine dell’incontro il garante regionale Ciambriello ha dichiarato: “Entro due mesi partiranno i lavori per la ristrutturazione in toto del reparto Padiglione Salerno nel carcere di Poggioreale; gli altri Padiglioni, oggetto di intervento sono il completamento del padiglione Genova, il Padiglione Italia e il Padiglione Napoli. Tutti e 4 padiglioni saranno completati entro 3 anni dall’inizio dei lavori. L’importo è di 14 milioni di euro. È stata già individuata la ditta aggiudicarti della gara. Sono soddisfatto di questa prima notizia, perché nel Padiglione ex novo del Salerno saranno previsti spazi e servizi dedicati all’istruzione, alla formazione, ci sarà un’aula multifunzionale, una stanza per gli educatori, una cucina, quindi, ristrutturazione e adeguamento dell’intero padiglione, con celle, stanze di pernottamento ristrette per pochi detenuti e con tutti i servizi igienici. Su Santa Maria Capua Vetere, il nuovo reparto porterà ad una capienza di 250 detenuti e rientra nel pnr nazionale, così come i 12,6 milioni per la ristrutturazione del carcere minorile di Airola, dove a breve inizieranno anche i lavori per la ristrutturazione della facciata dell’edificio”. Il garante, poi, sulla costruzione del nuovo carcere di Nola, ha avuto la notizia che il provveditorato alle opere pubbliche ha chiesto al Ministero competente di portare dai 100 milioni, per la costruzione di un carcere di 1200 posti, a 300 milioni l’importo complessivo del progetto. Ciambriello così conclude: “L’habitat è un elemento fondamentale per il reinserimento sociale delle persone private della libertà personale. I campi di calcio inutilizzati negli Istituti penitenziari della Campania, i passeggi ricavati tra edifici impersonali, le dotazioni igieniche insufficienti nelle celle, il sovraffollamento delle stesse, la mancanza di spazi per la socialità nei reparti, il non utilizzo nelle aree verdi per i colloqui con i propri cari, rappresentano un carcere che non è in grado di tutelare la dignità dei detenuti e delle loro famiglie. Insomma ristrutturare un ambiente, renderlo dignitoso e umano, evita che questo divenga un cimitero dei vivi” Santa Maria Capua Vetere. Per il Riesame la morte di Lamine “non fu omicidio colposo” di Cinzia Semeraro Corriere del Mezzogiorno, 5 marzo 2022 Il detenuto algerino si è suicidato dopo la repressione della rivolta carceraria di Santa Maria Capua Vetere, per i giudici non c’è colpa del regime penitenziario. Non vi fu omicidio colposo in relazione alla morte del detenuto Hakimi Lamine, che si suicidò nel maggio 2020 nella cella di isolamento del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) dove vera stato rinchiuso dopo i pestaggi ai detenuti avvenuti un mese prima, il 6 aprile. È quanto stabilito dal Tribunale del Riesame di Napoli che ha in parte respinto nel merito e in parte dichiarato inammissibile il ricorso che la Procura di Santa Maria Capua Vetere ha presentato contro le decisioni prese nel giugno scorso dal Gip Sergio Enea. La Procura chiedeva nuovamente il carcere e i domiciliari per ventuno imputati - molti dei quali già hanno trascorso periodi di carcerazione o arresti preventivi - e per sette di loro la misura era stata chiesta per cooperazione in omicidio colposo in relazione alla morte del detenuto algerino che il Gip aveva classificato come un suicidio non collegato alle condotte degli indagati. Il Riesame ha ritenuto che Hakimi si sia suicidato, come ammesso dal Gip, mentre per la Procura la morte dell’algerino sarebbe stata la conseguenza delle negligenze e delle colpe di agenti e medici, come la quantità tossica di farmaci- oppiacei, neurolettici e benzodiazepine - assunta “in rapida successione e senza controllo sanitario”, per cui l’evento sarebbe dipeso sia dal pestaggio subito un mese prima durante le violenze e dalle condizioni in cui sarebbe stato tenuto durante l’isolamento. Troppo - per i giudici napoletani - il tempo trascorso tra le violenze subite e la morte per stabilire un nesso causale. Peraltro il tribunale del Riesame di Napoli ha ritenuto che “l’ipotesi del suicidio merita ulteriori approfondimenti, non potendo dirsi dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio”. Il Riesame ha anche respinto il ricorso per i due medici dell’Asl in servizio al carcere di Santa Maria Capua Vetere, ritenendolo privo di interesse visto che la Procura ha proposto per i due sanitari un patteggiamento a due anni di carcere con sospensione condizionale della pena. I magistrati hanno poi dichiarato il ricorso inammissibile per cinque imputati, tra cui l’ex provveditore regionale alle carceri Antonio Fullone (tuttora sospeso dal servizio) e l’ex direttrice facente funzioni del carcere Maria Parenti. La Procura aveva fatto ricorso contro le decisioni prese dal Gip il 28 giugno 2021, quando il magistrato aveva emesso 52 misure cautelari (otto ordinanze in carcere, 18 ai domiciliari, tre obblighi di dimora e 23 sospensioni dal servizio) a carico di agenti penitenziari e funzionari del Dap; inizialmente la Procura aveva chiesto l’emissione di una nuova e più afflittiva misura cautelare per 45 indagati per i quali il Gip aveva escluso alcuni capi di imputazione e aggravanti rigettando la relativa richiesta di misura cautelare o concedendo una misura diversa e meno afflittiva da quella proposta, poi ha rinunciato a 24 posizioni. Alla fine però il Riesame ha condiviso l’impostazione dei difensori degli imputati (Mariano Omarto, Giuseppe Stellato, Ernesto De Angelis, Angelo Raucci, Carlo De Stavola). Ora il procedimento proseguirà con l’udienza preliminare prevista per il 29 marzo. Modena. Rivolta al Sant’Anna, due anni dopo la vicenda è ancora aperta di Emanuela Zanasi modenaindiretta.it, 5 marzo 2022 Nel marzo 2020 nei disordini in carcere morirono 8 detenuti: il Comitato Verità e Giustizia e altre associazioni chiedono che venga fatta chiarezza nonostante l’archiviazione del tribunale di Modena. È una vicenda non ancora chiusa quella della rivolta al Sant’Anna del marzo 2020 dove trovarono la morte 8 detenuti Com’è noto è stato depositato il ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo contro l’archiviazione dell’inchiesta decisa dal tribunale su richiesta della procura di Modena. L’iniziativa è della famiglia di Hafedh Chouchane, uno dei detenuti morti. La sua salma attende ancora di tornare al suo paese di origine. Anche di questo si sta occupando il comitato verità e giustizia che ha in programma per venerdì 11 e sabato 12 marzo, a due anni da quei fatti una serie di iniziative La rivolta al Sant’Anna scoppiò contemporaneamente ad altre carceri italiane. 13 le vittime complessive. Era l’inizio della pandemia da Covid, e la tensione salì anche a causa dell’impossibilità dei detenuti di avere i colloqui con i familiari, di svolgere lavoro esterno o altre attività formative Il Sant’Anna fu messo a ferro e fuoco e l’epilogo fi drammatico. Il fascicolo ipotizzava l’omicidio colposo e morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, ma venne tutto archiviato dopo che le autopsie individuarono in overdose da metadone e psicofarmaci le cause delle morti. Nel frattempo a Modena sono state aperte altre inchieste, dopo esposti di detenuti, anche per il reato di tortura Udine. Per il Garante dei detenuti è allarme sovraffollamento udinesetv.it, 5 marzo 2022 Sovraffollamento “cronico”, con 146 detenuti e 86 posti disponibili, ed endemica carenza di educatori, con un solo professionista a disposizione due volte la settimana. Sono i problemi più urgenti “post Covid” del carcere di Udine, illustrati oggi nella casa circondariale dal garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Udine, Franco Corleone, nella sua relazione semestrale (maggio-settembre 2021), durante un incontro al quale ha preso parte anche il presidente del Consiglio regionale del Fvg, Piero Mauro Zanin. “Per evitare il sovraffollamento è necessario aumentare il ricorso alle misure alternative alla detenzione specie in prossimità del fine pena - ha detto Corleone - e sarebbe inoltre auspicabile costruire l’atteso carcere di Pordenone, che con un centinaio di posti, potrebbe dare sollievo alle altre strutture della regione”. A Trieste, i detenuti sono 155 e i posti 138, a Tolmezzo 199 a fronte di 149 posti, a Pordenone 35 per 38 posti e a Gorizia 60 per 52 posti. “Abbiamo un piano di ristrutturazioni imponenti che partiranno nei prossimi mesi come ci hanno assicurato i vertici del Dipartimento amministrazione penitenziaria - ha annunciato - un’occasione da non perdere. Immaginiamo il carcere dopo il covid facendo interventi essenziali per garantire diritti essenziali, come quelli a lavoro, istruzione o salute. In genere - ha spiegato Corleone parlando di ‘detenzione sociale’ - le persone detenute sono povere, molti sono stranieri, numerosi tossicodipendenti, in carcere per violazione della legge sulle droghe (30%)”. Il garante ha sollecitato l’amministrazione penitenziaria ad affrontare “la questione della mancanza di personale, con un direttore in missione da Belluno e la carenza di educatori”, e la politica regionale di “sopperire alle deficienze con una modalità adottate da altre Regioni, come la Lombardia, in passato, per garantire la presenza di personale educativo e anche di aprire la possibilità di lavoro e di reinserimento sociale”. Sul tema del diritto alla salute, anche quella mentale, Corleone, riferendo che nel carcere di Udine solo nel 2021 si sono registrati 84 atti di autolesionismo commessi da detenuti, ha richiamato i servizi sanitari “a farsene carico, con personale adeguato”, sollecitando l’azienda sanitaria anche a “verificare le condizioni igienico-sanitarie che sono peggiorate durante la pandemia, con il passaggio del carcere Udine da 111 a 146 detenuti”. L’appello è stato raccolto dal presidente del Consiglio regionale Fvg, Piero Mauro Zanin. “Il consiglio verificherà - ha detto - quali sono le possibilità che la legislazione ci consente per risolvere la piaga del sovraffollamento e favorire, con l’ausilio di educatori, il reinserimento di coloro che sono a fine pena”. Bologna. Lettera aperta della redazione di “Ne vale la pena” al cardinale Matteo Zuppi bandieragialla.it, 5 marzo 2022 Cardinale Zuppi, le rivolgiamo una preghiera perché con il suo carisma Lei possa collaborare a un processo di sensibilizzazione della politica rispetto al tema spesso ignorato delle carceri, sollecitando nell’immediato la definizione di un nuovo Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario, a ben 22 anni dall’entrata in vigore del precedente. Si tratta di uno strumento fondamentale per la vita nelle carceri, dal momento che è l’attuazione concreta dei principi e dei valori che fondano il sistema delle pene nel nostro Paese. La commissione Ruotolo, nominata a livello ministeriale per “l’innovazione del sistema penitenziario” ha licenziato, nel dicembre scorso, una proposta di revisione molto articolata, a cui però adesso, occorre dare attuazione per evitare che anche questo lavoro rimanga solo nella sfera delle buone intenzioni, come purtroppo negli ultimi anni accade quasi sempre quando si parla di detenzione. E’ altresì importante che l’impegno politico verso il mondo carcerario si occupi anche della questione che ci ha accompagnato negli ultimi due anni, e cioè della pandemia, che ha cambiato la vita di tutti, ma ancor di più quella di chi si trovava già in condizioni svantaggiate. Nel piano dei ristori non può a nostro parere mancare il risarcimento delle condizioni di detenzione subite in questi due lunghi anni, certamente più gravi di quelle ordinarie vissute nella società libera, con effetti pesantissimi sull’equilibrio psico-fisico e sulle relazioni familiari di tante detenute e detenuti. Ci riferiamo in particolare alla liberazione anticipata straordinaria. Va inoltre superato definitivamente il meccanismo delle preclusioni assolute nell’accesso ai benefici penitenziari anche per gli autori dei reati più gravi, così come indicato dalla Corte europea dei diritti umani e dalla Corte costituzionale; più in generale va perseguito l’obiettivo della progressione dell’azione penale per la generalità della popolazione detenuta. Il sistema della pena intesa come retribuzione del male con il male, che toglie o limita a chi la subisce diritti fondamentali connaturati alla dignità della persona, non risponde in alcun modo alle finalità che si vorrebbero perseguire. Non svolge funzioni di prevenzione generale dal momento che reati, anche gravi, vengono comunque commessi anche se vengono minacciate pene elevate; non svolge funzioni di prevenzione speciale e non serve a riabilitare le persone, visto l’alto tasso di recidiva, costa tantissimo alle persone che la subiscono e all’intera collettività; non ha alcun effetto riparativo nei confronti della vittima. Occorre abbandonare l’idea che infliggere sofferenza possa riorientare la mente e la volontà di chi delinque e possa quindi costituire un’azione salvifica, operando una rivoluzione copernicana degli interessati; certo le attuali pene sono ben lontane dal poter incidere sul riferimento ultimo delle relazioni umane sostituendo gratuità all’onerosità, solidarietà all’individualismo, inclusione all’esclusione. Le chiediamo di implementare e sviluppare le tante azioni già messe in campo grazie alla Sua iniziativa; ci riferiamo in particolare alle iniziative di accoglienza per i detenuti che possono usufruire di benefici premiali sulla scia di quanto già realizzato nella comunità di padre Marcello; questo non per sostituirsi all’Amministrazione comunale, ma per affiancarla e sensibilizzarla sul problema. Occorre inoltre dare linfa alle azioni di volontariato operando perché il ruolo di chi si spende, in vario modo e a vario titolo, per la popolazione detenuta e per le famiglie, possa essere valorizzato e rispettato come soggetto importante e irrinunciabile nell’attuale sistema detentivo. Questo non sempre avviene, e ci auguriamo che anche grazie ad una fattiva collaborazione con la nuova Direttrice si possano sviluppare percorsi e sinergie virtuose ed efficaci, anche sul fronte del lavoro, ricercando ulteriori opportunità di impiego delle persone detenute sia all’interno che all’esterno. Non lasciare, quindi, nulla di intentato nella logica dell’”economia del dono”. Lei conosce bene l’ambiente del carcere e la multi etnicità che lo caratterizza; è necessario proseguire nel dialogo interreligioso, intensificando le occasioni di incontro e di scambio che possano favorire un miglior rapporto fra i detenuti nella logica chiaramente espressa da Papa Francesco nell’enciclica “Fratelli tutti”; segnaliamo a questo proposito che i compagni di detenzione di fede islamica non hanno ancora la possibilità di essere seguiti da una guida spirituale esterna che li aiuti a pregare, a comprendere la Scrittura e ad approfondire la dimensione di fede. Oltre a sperare in una fattiva collaborazione con la Direzione dell’istituto, Le rivolgiamo un accorato appello perché Lei possa intercedere sul Direttore generale dell’AUSL affinché affronti con immediatezza e risolutezza il problema dell’assistenza sanitaria dei detenuti del carcere di Bologna. Durante le rivolte sono andati distrutti alcuni laboratori specialistici, e a questo problema si aggiunge ora il fatto della carenza strutturale di personale medico e di attrezzature diagnostiche, con un serio rischio per la salute della popolazione detenuta. Le chiediamo di pregare per le nostre famiglie e i nostri figli, che spesso sono segnati, pur non avendo colpe, dagli errori commessi dai genitori. Si dice che le colpe dei padri non dovrebbero ricadere sui figli, ma sappiamo bene che così non è, e che spesso la società li giudica per le sentenze che hanno condannato i loro genitori, per la definizione che è stata loro cucita addosso con la superficialità che porta ad identificare l’uomo con ciò che ha commesso. Siamo considerati i “cattivi” e in un certo senso è vero se consideriamo l’etimologia della parola: siamo infatti prigionieri, viviamo in cattività, ma non accettiamo che questo si traduca in un’etichetta morale definitiva. In molti di noi c’è un profondo desiderio di diventare “alberi buoni che danno frutti buoni”, come abbiamo letto nel Vangelo di domenica scorsa: chiediamo solo che il tempo vissuto da reclusi possa diventare un tempo di costruzione della vita futura, anche grazie alla riflessione su quello che siamo stati. Vogliamo che la pena diventi davvero uno strumento per aprire le celle del nostro cuore. In questi giorni sentiamo in particolare la drammaticità della guerra sul fronte ucraino; desideriamo che la nostra preghiera insieme alla Sua contribuisca a dare forza alla popolazione sofferente e ad ispirare una vera politica di pace. In questo tempo io ero altrove di Concita De Gregorio La Repubblica, 5 marzo 2022 I detenuti del carcere di Frosinone hanno scritto il libro “Letteratura d’evasione”. C’è bisogno di evadere un po’. Alcuni più di altri, certo. È sempre una questione di punti di vista, di condizioni date. Trovare sollievo da cosa. Arrivano immagini di fuga, si capisce bene scappare da dove e perché. Quanto alle colpe, a prima vista evidenti, subito sale la nebbia. Al quinto giorno, già, dipende: il dibattito è aperto. Arrivano immagini dalle carceri russe. Torture inguardabili, figuriamoci subirle, filmate per volontà dei secondini. Poi senti al tg che vengono incarcerati madri e figli che portano fiori. Incarcerati dove? In quelle carceri? C’è bisogno di evasione, apro un libro che s’intitola così: “Letteratura d’evasione”. Che coincidenza felice che arrivi nella posta stamani, no? Poi, sorpresa: è una raccolta di scritti di un gruppo di detenuti. Titolo geniale. Merita il tempo. Alessandro Bergonzoni e Luigi Manconi in prefazione. Bergonzoni annuncia “una perquisizione”, sì, ma “nelle stanze interiori”. Manconi illumina, come al solito. Il “lessico infantilizzante del carcere”. Domandina, scopino, spesino. “La riduzione in stato di minorità (minore età) del recluso definita dal linguaggio, diminutivo e vezzeggiativo, dell’infanzia”. Il “corpo come carta”, sul corpo - residua proprietà - il tatuaggio, la pelle strumento di autobiografia. Federica Graziani e Ivan Talarico hanno organizzato “una evasione di massa legale dal carcere di Frosinone”: dieci incontri con sedici reclusi. Le autobiografie reali e quelle immaginarie, che viaggio. Le ragioni per cui. Scrivo per “prendere in mano la vita” (Alfredo Colao), “l’unica cosa che non si può imprigionare è la mente” (Emanuel Mingarelli). Scrivo perché “in questo poco tempo io ero altrove” (Antonio Vampo). Evadere, essere altrove. Riaprire l’agenzia per il Terzo settore di Stefano Zamagni Vita, 5 marzo 2022 L’economista analizza la situazione del Non profit italiano dopo l’Action Plan europeo per l’Economia sociale. Un quadro che impone due innovazioni: passare dalla sussidiarietà verticale a quella circolare, come co-pragrammazione e co-progettazione impongono, e dar vita a una nuova rappresentanza di forum deliberativi su base territoriale. Rifondando l’organismo che, nel 2012, il Governo volle sopprimere. Che il Terzo settore si trovi oggi a un punto di svolta è qualcosa da tutti riconosciuto e accettato. La recente approvazione da parte della Commissione di Bruxelles dell’Action Plan europeo per l’Economia Sociale ne è chiara dimostrazione. Cosa implica questa presa d’atto? Giuliano Amato su Vita ha in più occasioni sollecitato il Terzo settore a “farsi carico” della politica. Una sollecitazione importante, che coglie nel segno. L’idea che la politica inizi e si esaurisca tutta dentro le istituzioni democratiche è un’idea hobbesiana che nasce a metà del 1600, quando sorgono gli Stati nazionali dopo la pace di Westfalia. Un secolo dopo, Hegel teorizzerà che solo lo Stato è il custode della “verità” e che quindi tutti gli altri soggetti devono adeguarsi ad esso. È lo Stato che dà forma alla rappresentanza. Questo modo di pensare la politica non prevede la partecipazione in senso proprio, anzi di fatto non ammette uno spazio autonomo per il Terzo settore. Non si pensi che si tratti di uno schema del passato, perché dentro a questo quadro si è operato fino a tempi recentissimi. L’aumento dell’Iva alle associazioni e al non profit prevista nell’ultima legge di Bilancio e la decisione di Governo e Parlamento di non cancellare questa norma, ma semplicemente di rinviarla di alcuni anni è dello scorso Natale, dicembre 2021. Di fatto il messaggio del Palazzo è stato: voi del Terzo settore fate, parlate, protestate, sbraitate, ma alla fine decidiamo noi. Punto e basta. Hobbes avrebbe acconsentito: la intrinseca politicità della società civile organizzata va annullata o quanto meno ricondotta entro l’alveo delle istituzioni. Qual è dunque il nuovo orizzonte che va costruito? Esso si realizza con il superamento della prospettiva hobbesiana. La logica di una politica tutta condensata nelle istituzioni non tiene più. Non perché le istituzioni rappresentative abbiano perso la loro funzione politica, ma perché ormai la politica si genera anche entro altre configurazioni e in altri luoghi, quelli del Terzo settore in primis. Se non prendiamo atto che la sistematizzazione hobbesiana non ha più senso ed è superata dai fatti, non riusciremo mai a dare al Terzo settore le ali di cui ha necessità per librarsi in aria, a vantaggio dell’interesse generale. La contemporaneità ci chiama ad elaborare una logica per così dire neorinascimentale. Nel Rinascimento lo Stato non esisteva, ancora, ma questo non significava che le decisioni non venissero prese in modo partecipato. Le dinamiche erano diverse. Muovere passi verso una prospettiva neorinascimentale significa determinarsi ad introdurre radicali innovazioni sociali. Due innovazioni necessarie - La prima: passare, con la necessaria gradualità, da pratiche di sussidiarietà orizzontale a pratiche di sussidiarietà circolare. Il presupposto filosofico-politico della sussidiarietà orizzontale è ancora hobbesiano: lo Stato decide il da farsi e ne affida poi l’esecuzione ad altri soggetti, gli enti di Terzo settore, sulla base di schemi quali accreditamento, convenzione, bandi di gara. Questo modello oggi è fuori tempo. La co-programmazione e la co-progettazione di cui al Codice del Terzo settore postulano la sussidiarietà circolare. Qualcuno, pochi a dire il vero, ne sta traendo anche conseguenze pratiche: il comune di Bologna, per esempio, ha creato un consigliere delegato alla sussidiarietà circolare, proprio con tale denominazione. Siamo agli inizi, ma il dado è tratto. Quel che va ribadito è che senza sussidiarietà circolare mai si potrà passare da un welfare delle condizioni di vita (quello attuale) ad un welfare delle capacità di vita. Seconda innovazione: affrontare una volta per tutte il nodo della rappresentanza del Terzo settore. Se voglio che il Terzo settore svolga un’azione politica (ma non partitica, beninteso) esso deve avere una sua rappresentanza. Si tratta di decidere il tipo di rappresentanza. Il modello di riferimento non può essere quello della rappresentanza degli interessi, come il sindacato o le organizzazioni di impresa. Occorre mirare ad una rappresentanza di identità. È questa la parola chiave: una rappresentanza capace di dare voce a una pluralità di soggetti, ciascuno portatore di una sua specifica identità. Come realizzarla? Dando vita a forum deliberativi su base territoriale. Come si sa, i forum deliberativi sono lo strumento principale della democrazia deliberativa, un modello di democrazia di cui in Italia è quasi vietato parlare. Una terza innovazione è quella che concerne l’arte della co-progettazione e della co-programmazione. Ho detto arte a ragion veduta. Non si tratta, infatti, di imparare una tecnica o un mestiere, ma di enucleare una visione dalla quale far discendere progetti specifici. Un progetto non è la stessa cosa di una proposta. Ora, se la pubblica amministrazione ha poco interesse a giocarsi questa partita, per il Terzo settore è un’urgenza assoluta. Altrimenti si troverà impreparato nel momento in cui si apriranno i tavoli del confronto istituzionale. Il che sarebbe un clamoroso autogol. Occorre scongiurare il rischio che co-programmazione e co-progettazione vengano a configurarsi come una mera innovazione amministrativa e non invece come una grande innovazione sociale. Riaprire l’Agenzia - Da ultimo, non posso non suggerire la ricostituzione di una Agenzia nazionale per il Terzo settore, ente che fu malauguratamente soppresso nel 2012. Fu una scelta sbagliata di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. C’è la Consob per le società for profit e la Borsa, c’è l’Antitrust, ci sono Agcom e l’Agcm, l’Agia e la Covip, e tanti altri. L’istituto delle agenzie indipendenti è molto diffuso nel nostro corpo sociale e istituzionale. Non si capisce perché il Terzo settore e l’economia sociale che l’Europa spinge e promuove non possano contare su un soggetto terzo rispetto al governo e agli stessi Ets che si occupi di vigilanza e di rafforzamento di un settore così cruciale per il processo di civilizzazione del nostro Paese. Il Terzo settore è ancora un “Prometeo incatenato”, per usare una famosa espressione di David Landes. La riforma, la sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale, la decisione recente della Commissione Europea rappresentano una grande opportunità per liberarlo dalle catene. Ma le opportunità vanno colte e tradotte in azioni concrete. Non si può continuare a tergiversare. Bisogna decidersi da che parte si intende stare: se continuare con provvedimenti di mera cosmesi e con interventi che valgono solo a dare forma ad un doppio isomorfismo, verso il Mercato e verso lo Stato, oppure adoperarsi per slegare il nostro Prometeo. Se il fine che si dichiara di perseguire è quello di vincere la paralizzante apatia dell’esistente, non penso che ci siano dubbi al riguardo. Fine vita, così la sentenza della Consulta fissa i paletti di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 5 marzo 2022 Dopo i primi commenti seguiti alla notizia dell’inammissibilità del referendum sull’art. 579 del codice penale, che sanziona l’omicidio del consenziente, è ora possibile esaminare la sentenza della Corte costituzionale con la sua motivazione. E si può confermare l’impressione iniziale, che la decisione della Corte sia conseguenza inevitabile della impostazione che essa aveva assunto nella sentenza del 2019, che dichiarava parzialmente incostituzionale l’art. 580 che punisce l’aiuto al suicidio. Le due ipotesi, infatti, sono dalla Corte riconosciute come strettamente finitime, condizionate come sono da problemi legati agli stessi valori e diritti. La Corte aveva ricostruito un nuovo sistema definendo l’area delle condizioni di salute in cui doveva venire a trovarsi chi aveva deciso di morire, ma, non potendo provvedere da sé, chiedeva e otteneva l’aiuto altrui. Secondo la Corte deve trattarsi di persona capace di prendere decisioni libere e consapevoli, che sia affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale. Solo in quelle condizioni l’aiuto al suicidio non sarebbe punibile. Fuori di esse nulla conterebbe la volontà della persona. Diversi argomenti critici sono stati sviluppati, a cominciare da quello fondamentale che deriva dal mancato riconoscimento del diritto alla autodeterminazione, anche sul come e quando por fine alla propria vita: diritto riconosciuto in Europa sia dalla Corte europea dei diritti umani, che dalle Corti costituzionali tedesca e austriaca. Inoltre l’importanza assegnata dalla Corte italiana alla delimitazione dell’area entro la quale la volontà della persona può essere riconosciuta, aveva distratto l’attenzione dalla questione fondamentale che riguarda la “qualità” della volontà. La Corte ne aveva trattato rinviando alla disciplina legislativa del consenso informato ad ogni trattamento sanitario, che può esser negato da parte di chi sia “capace di agire”, anche quando ne segua la morte. La Corte, con la sentenza sul referendum conferma la sua posizione, che nega una generale disponibilità della propria vita. Tuttavia questa volta la Corte affronta la questione della volontà di morire, che è il cuore di una discussione che si fondi sul diritto alla autodeterminazione. La Corte constata che con l’eventuale esito positivo del referendum sarebbe rimasto in vigore il solo limite del fatto commesso “contro una persona minore degli anni diciotto; contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”. In tal modo non sarebbero riconosciuti le condizioni e i limiti che la Corte aveva sviluppato nella sentenza sull’aiuto al suicidio. Ma la Corte va oltre e, riempiendo una carenza della sentenza sull’aiuto al suicidio, scrive ora che “la liberalizzazione del fatto prescinderebbe dalle motivazioni che possono indurre a chiedere la propria morte, le quali non dovrebbero risultare necessariamente legate a un corpo prigioniero di uno stato di malattia con particolari caratteristiche, potendo connettersi anche a situazioni di disagio di natura del tutto diversa (affettiva, familiare, sociale, economica e via dicendo), sino al mero taedium vitae, ovvero pure a scelte che implichino, comunque sia, l’accettazione della propria morte per mano altrui. Egualmente irrilevanti risulterebbero la qualità del soggetto attivo (il quale potrebbe bene non identificarsi in un esercente la professione sanitaria), le ragioni da cui questo è mosso, le forme di manifestazione del consenso e i mezzi usati per provocare la morte (potendo l’agente servirsi non solo di farmaci che garantiscano una morte indolore, ma anche di armi o mezzi violenti di altro genere)”. In tal modo la Corte segnala esigenze che il semplice rinvio alle disposizioni di legge sul consenso informato non sono in grado di soddisfare. E si tratta di temi che già aveva affrontato chi, a differenza della Corte costituzionale, aveva impostato l’esame della questione in termini di rispetto della autodeterminazione. Si era in proposito osservato che il profilo medico psicologico dovrebbe essere valutato collegialmente da specialisti indipendenti (esigenza questa ignorata dalla legge sul consenso informato). Sono tutt’altro che semplici sia la nozione di autodeterminazione, sia l’accertamento della sua realtà concreta in ciascuna delle infinitamente diverse vicende. L’accertamento della libertà della decisione di morire e di chiedere l’aiuto di altri deve essere quanto più possibile approfondito. È richiesta l’opera di specialisti, di diversa formazione: non solo psichiatrica o psicologica, ma anche sociale. Occorrono procedure rigorose di accertamento della volontà dell’interessato, non solo per escluderne aspetti patologici, ma anche per dialogare, prospettando concretamente vie di uscita (dalle cure palliative e terapie antidolore nel caso di sofferenze fisiche, a cure e soluzioni sociali quando si tratti di sofferenze di altra natura). Non si otterrà sempre un ripensamento, poiché le alternative possono essere rifiutate, ma almeno si potrà effettivamente parlare di libertà e di autodeterminazione. In questi giorni, su una legge di disciplina dell’aiuto al suicidio lavora il Parlamento. Il progetto in discussione riprende il contenuto della sentenza del 2019 della Corte, restringendo ancor più l’area del rispetto della volontà di chi vuole morire. Il progetto non considera l’ipotesi finitima dell’omicidio del consenziente. Ma dopo la sentenza relativa al referendum anche quella ipotesi deve ora essere considerata, insieme alla cura dell’accertamento della volontà di morire considerata nel suo più ampio e impegnativo contenuto. Contro la guerra, tacciano le armi di Giovanni Ricchiuti* Il Manifesto, 5 marzo 2022 Oggi in piazza la pace. Abbiamo accolto l’invito di Papa Francesco per la giornata di preghiera e digiuno per la pace, tre giorni fa, Mercoledì delle Ceneri. Un invito anche alla conversione. Mi unisco al dolore per le vittime di questa guerra in Ucraina, e di tutte le guerre. Abbiamo accolto l’invito di Papa Francesco per la giornata di preghiera e digiuno per la pace, tre giorni fa, Mercoledì delle Ceneri. Un invito anche alla conversione. Mi unisco al dolore per le vittime di questa guerra in Ucraina, e di tutte le guerre. Dalle tante coscienze, da numerose piazze d’Italia sale sempre più forte il grido di pace e di no alla guerra. Si chiede il non coinvolgimento del nostro Paese nel conflitto né con armi e né con preparazione di uomini. Certo, la condanna all’aggressione operata da Putin è totale. La guerra è sempre una tragedia. Ma non possiamo con questo dimenticare, o peggio ancora assolvere, la Nato (di cui l’Italia fa parte) dalle sue gravi responsabilità. Sono sconcertato dalla decisione del Governo e del nostro Parlamento di inviare armi all’Ucraina. E, ancora di più, resto senza parole leggendo le dichiarazioni del nostro ministro della difesa, Lorenzo Guerini, su La Stampa di oggi, che oltre a ritenere uno scenario possibile una guerra che può durare 10-20 anni, alla domanda del giornalista sulla decisione della Germania di aumentare le spese militari fino al 2% del Pil, risponde: “Noi abbiamo un trend in crescita da quando sono ministro: da settembre del 2019 a oggi, il bilancio della Difesa è cresciuto di oltre 3 miliardi e mezzo, siamo all’1,4% del Pil. Si tratta di fare più investimenti per presidiare un pezzo della nostra sovranità nazionale e tecnologica”. No, Signor Ministro, “mostrare i muscoli” non può essere, e non potrà esere la strada che porta alla pace! Io non ci sto! E con me credo tantissime donne e uomini di buona volontà, di Pax Christi e non solo. Che credono e vogliono la pace. “Se vuoi la pace, prepara la Pace, non la guerra!”. Mi sembra che qui si vedano ben chiari i grandi interessi delle lobby delle armi. Non per niente da tempo sono in aumento le spese militari. Non ci sono i soldi per tante necessità ma per le armi si trovano sempre. E si decide addirittura di destinarle a zone di guerra, rendendoci, secondo alcuni esperti analisti, un Paese ‘belligerante’. Proprio un anno fa, papa Francesco nel suo viaggio in Iraq affermava, a Ur dei Caldei,: “Un’antica profezia dice: “Verranno giorni in cui spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci. E un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo” (Is 2,4). Questa profezia non si è realizzata, anzi spade e lance sono diventate missili e bombe!”. Come cittadino che fa riferimento alla Costituzione Italiana (Art. 11) che ripudia la guerra, e da credente e vescovo che fa riferimento al Vangelo, credo sia mio e nostro dovere offrire solidarietà umana e accoglienza a chi fugge dalla guerra, ma è altrettanto doveroso un impegno deciso e radicale contro l’irrazionalità e l’immoralità di ogni guerra e la sua preparazione. Non possiamo versare benzina sul fuoco. È questa è la conversione che vogliamo chiedere anche in questo tempo quaresimale. Pax Christi sarà a Roma il prossimo 5 marzo con tante donne e uomini per chiedere pace. Mi auguro che allo jus in bello si sostituisca il Diritto Internazionale alla Pace. *Presidente Nazionale di Pax Christi, Vescovo di Altamura-Gravina - Acquaviva delle Fonti Profughi ucraini, tremila arrivi al giorno. Sì al Piano per l’accoglienza di Michele Bocci e Alessandra Ziniti La Repubblica, 5 marzo 2022 La Protezione civile in campo. Le Asl per i controlli sanitari: “Tamponi entro 48 ore e profilassi anche contro morbillo, poliomielite e rosolia”. Il flusso dei profughi in arrivo in Italia è triplicato in 24 ore, da mille a tremila al giorno. E sono già diecimila, quasi tutti donne e bambini. “Numeri al momento gestibili, ma ci stiamo attrezzando se dovessero aumentare”, dice il capo della Protezione civile Fabrizio Curcio che ha firmato la prima ordinanza di governance dell’accoglienza. E ha nominato commissari i presidenti di Regione, che hanno chiesto al governo di coinvolgere l’esercito per i controlli alle frontiere. Non certo per fermare chi scappa dalle bombe, ma per aiutare nei controlli sanitari. Il governo conta sulla rete di accoglienza familiare e sugli ottomila posti letto già disponibili nelle strutture per i migranti, ha previsto l’inserimento a scuola per i bambini e i ragazzi e anche la possibilità di lavorare per tutti i profughi (il ministro Massimo Garavaglia auspica una modifica ad hoc del decreto flussi). Ma bisogna anche fare i conti con la pandemia per non rischiare una nuova emergenza sanitaria. In Ucraina, l’adesione alla vaccinazione anti Covid è bassissima: solo il 35% degli abitanti ha completato il ciclo e sono molto poco diffuse anche le vaccinazioni pediatriche. Per questo si teme che sarà un problema convincere i profughi a immunizzarsi. Quando serve il tampone - Il ministero della Salute ha diffuso una circolare con la quale si invitano le Regioni a mobilitare le Asl. Se chi arriva non ha il Plf, cioè il Passenger locator form (cosa ovviamente scontata per chi scappa da una guerra) e nemmeno la certificazione verde deve fare un test diagnostico entro 48 ore dall’ingresso in Italia, se non gli è stato fatto al momento dell’entrata nei confini nazionali. I positivi e i loro contatti andranno in quarantena e saranno “gestiti secondo la normativa vigente, adottando le misure di profilassi e tracciamento più idonee”. Ma, per prendere i mezzi necessari ad arrivare nei luoghi di accoglienza (unica eccezione decisa dalla Protezione civile) a chi non è vaccinato basta il tampone. Il vaccino anti Covid e l’obbligo - Le Asl devono anche offrire la vaccinazione a tutti coloro che arrivano e non hanno ricevuto somministrazioni o comunque non hanno completato il ciclo. Ma in Italia vige l’obbligo per gli over 50, che deve essere rispettato (ha ribadito il ministero in una nota esplicativa alla sua circolare), anche dai cittadini stranieri. Anche se ovviamente, se qualcuno non lo farà, è difficile che scattino sanzioni per persone che scappano da una guerra. Le altre malattie - Ma in Ucraina sono basse anche le protezioni contro altre malattie. Non è un caso che di recente ci siano stati ampi focolai di morbillo (nel 2019) e soprattutto di poliomielite (l’anno scorso), una malattia da noi ormai scomparsa. Per questo, il ministero della Salute invita le Regioni a chiarire se chi arriva (maggiorenne o minorenne) è coperto contro morbillo, parotite, rosolia, polio, difterite, tetano, pertosse e così via, e a proporre le vaccinazioni mancanti. L’accoglienza diffusa - Al momento, la maggior parte dei profughi già arrivati in Italia ha trovato ospitalità nella rete familiare della comunità ucraina, che in Italia, su 248.000 residenti, conta ben 190.000 donne. Ma “siamo già pronti - ha detto la prefetta Francesca Ferrandino, capo del Dipartimento delle libertà civili e immigrazione del Viminale - con i posti nei centri di accoglienza straordinaria e con quelli del sistema di accoglienza e integrazione. E se ne serviranno altri, siamo pronti a reperirli”. Naturalmente, anche per i profughi che trovano alloggio dai familiari, lo Stato si farà carico delle spese e dei servizi previsti dallo status di rifugiato. Scuola e lavoro per tutti - Per i bambini e i ragazzi (sono già 4.000 quelli arrivati) è previsto l’inserimento a scuola. E gli adulti, cosa normalmente non prevista per i richiedenti asilo, potranno lavorare da subito come stagionali, autonomi o con contratti subordinati. Una deroga ad hoc al decreto flussi è stata sollecitata dal ministro del Turismo Massimo Garavaglia. Il politicamente corretto diventa grottesca “russofobia” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 5 marzo 2022 Quando il politicamente corretto sfocia nel grottesco, la censura bellica si trasforma in esplicita russofobia. Non c’è persona, prodotto o animale che non finisca nel mirino di quanti pensano di dare un contributo alla causa antiputiniana colpendo a casaccio. L’ultima trovata riguarda la vodka, finita all’indice di Bernabei, storico marchio romano del beverage, che ha deciso di bloccare la vendita del distillato russo attraverso i propri canali commerciali. Online “è completamente oscurata, non si può né vedere né comprare, e la vogliamo eliminare totalmente dal nostro catalogo”, rivendica il patron dell’azienda. Ma la vodka, dicevamo, è solo una delle iniziative nate un po’ a casaccio in tutto il mondo. Solo due giorni fa, la guerra allo “zar” si è combattuta sul versante felino. Sì, perché pure i gatti russi vengono esclusi dalle competizioni internazionali per dare un segnale “forte” di fronte ai gatti del resto del mondo. Un trattamento che nemmeno i “colleghi” persiani hanno mai dovuto subire pur provenendo da un Paese in cima alla lista degli “Stati canaglia” stilata dal governo Usa. E dopo aver escluso Mosca dai mondiali di calcio e i club russi dalle competizioni Uefa, è toccato agli atleti paralimpici russi e bielorussi - che ieri avrebbero dovuto inaugurare i Giochi invernali di Pechino (in programma dal 4 al 13 marzo) - scoprire di essere stati estromessi da ogni gara. Un segnale forte che però ottiene un risultato insperato: fornire argomenti alla propaganda putiniana. “Questa situazione è decisamente mostruosa”, ha avuto gioco facile nel commentare il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. Grazie a una certa disparità di trattamento, il tennista numero uno al mondo Daniil Medvedev è riuscito invece a scamparla: dopo una scia lunghissima di polemiche e isterismi potrà continuare a gareggiare World Tour (Grand Slam compresi) purché senza bandiera russa. I censori più creativi, però, restano gli italiani. A cominciare dal sindaco di Milano, nonché presidente della Fondazione teatro alla Scala, Beppe Sala, che ha tolto la bacchetta dalle mani del maestro Valery Gergiev. Il motivo? La mancata abiura al putinismo. E senza prendere nemmeno in considerare eventuali ripercussioni in patria per Gergiev e la sua famiglia, il sindaco di Milano ha stabilito che oggi il maestro non dirigerà La dama di picche di Cajkovskij. Ed è sempre a Milano che va in scena la commedia più ridicola di questa saga. L’università Bicocca chiede allo scrittore Paolo Nori di rinviare un seminario di quattro lezioni gratuite e aperte a tutti su Dostoevskij per “evitare ogni forma di polemica soprattutto interna in quanto è un momento di forte tensione”. Un’offesa alla cultura mondiale e anche alla resistenza ucraina, certamente non interessata a bruciare i libri. Sempre che qualcuno non rimproveri ai combattenti pure di difendersi con dei russissimi kalashnikov e delle moscovite molotov. Russia. Chi pubblica notizie non ufficiali rischia fino a 15 anni di prigione di Roberto Zanini Il Manifesto, 5 marzo 2022 L’ecatombe dei media russi, oscurato da ieri anche Facebook. “Novaya Gazeta” resiste, nel mirino anche chi condivide “fake news” sui social. La Russia si è svegliata senza un bel po’ di notizie internazionali, e con un cappio infilato al collo di quelle nazionali. Nella notte, il temibile regolatore pubblico Roskomnadzor ha bloccato l’accesso in Russia ai siti della Bbc britannica, dell’agenzia tedesca Deutsche Welle, di Radio Free Europe (la radio del governo americano), di Twitter, degli app store di Apple e Google - da cui provengono software e hardware di quasi ogni smartphone russo. L’autorithy russa in serata spegne anche i 70 milioni di utenti di Facebook, reo di aver limitato gli accessi ai media ufficiali di Mosca - e invita a condividere l’annuncio… su Facebook! Nella guerra dei media il Cremlino ieri ha colpito duro ma può fare peggio. La Bbc ha ripristinato in Russia il servizio a onde corte, reliquia della seconda guerra mondiale e feticcio di ogni corrispondente da zone dissestate fino a metà degli anni 90, quando arrivò internet. Ma ha spostato lo staff fuori dalla Russia dopo che la Duma ieri mattina ha approvato all’unanimità la nuova legge contro le cosiddette fake news, che introduce multe fino a 5 milioni di rubli e carcere fino a 15 anni per chi diffonde notizie diverse dalle fonti ufficiali - anche inoltrando sui social materiale vietato. In confronto, l’incredibile eurocensura dei media ufficiali del Cremlino, la tv Rt e l’agenzia-sito-radio Sputnik ufficialmente banditi dall’altro giorno nella Ue e in Gran Bretagna (ma ancora visibili) sembra uno scherzo sinistro. I media internazionali non sono comunque i più colpiti, la legge dei 15 anni di galera e i divieti di chiamare guerra la guerra - giammai di farla vedere - hanno tagliato teste e testate in tutte le Russie. Dopo l’ecatombe dei giorni scorsi, ieri chiusa l’agenzia Tv2 a Tomsk, in Siberia, uno degli ultimi media regionali indipendenti. Uno struggente ultimo messaggio ritrae la redazione con il direttore Viktor Muchnik: “Se in realtà si tratta di una guerra, non possiamo chiamarla diversamente su richiesta delle autorità russe”. Si chiude da solo “a causa delle restrizioni” il giornale online Znak.com, fondato a Yekaterinburg dalla famosa reporter anticorruzione Aksana Pavlova. Il seguitissimo sito Meduza.io ha ricevuto ieri conferma che Roskomnadzor ha ordinato di chiudere l’accesso ai suoi server - che sono in Lettonia, quindi per ora al sicuro. Mentre il suo creatore e primo finanziatore, l’ex oligarca di Yukos Michail Chodorkovski (dieci anni nelle carceri putiniane) da Londra dove vive ha chiesto all’Occidente “sanzioni ancora più dure” e “ogni arma legale e finanziaria contro Putin” in un editoriale sul Guardian: “So che russi innocenti pagheranno un prezzo”, scrive, ma per lui è l’unico modo. Resiste la coraggiosa Novaya Gazeta del direttore-Nobel Dimitri Muratov, che elimina ogni pezzo non ufficiale sulla guerra guerreggiata (“non c’è dubbio - spiega ai lettori - che la minaccia di incriminazioni sarà realizzata”) ma va avanti grazie al famoso e molto russo “linguaggio esopico” allusivo, da cui si espungono i termini proibiti ma si capisce tutto lo stesso. Titoli di ieri: “Putin avanza sull’Ucraina. Giorno nove”, “Stivale infallibile. Vuole mettere fuorilegge la protesta”, “15 anni è un falso. Spiegare gli articoli del codice penale appena passati”. E poi “Ultimo giorno all’Ikea”, portentoso servizio fotografico da due outlet sul raccordo anulare di Mosca, assaltati dai clienti come una spiaggia a ferragosto. La Svezia si è arruolata con Ue e Nato, di cui pure non fa parte, e la sua iconica azienda ha annunciato la ritirata di Russia - ha chiuso ieri sera. Ad arrestare i (sempre pochi) manifestanti/contestatori della guerra, la Russia sta mandando non solo la normale polizia ma anche gli Omon, le temibili truppe del ministero degli Interni (motto ufficiale: “Non conosciamo pietà e non ne chiediamo”), visti in qualche filmato. Sono i nuovi “gruppi operativi” anti-manifestazione annunciati dalla Commissione investigativa di stato? Ieri sera il conta-arrestati del sito Ovd-Info segnava 8240. Perquisita per otto ore la sede di Memorial, celebre ong indipendente contro le persecuzioni politiche. Dai banchi delle farmacie russe stanno sparendo i contraccettivi orali (tutti), medicinali come gli ormoni tiroidei Euthirox (della tedesca Merck), le lenti a contatto Acuvue (dell’americana Johnson & Johnson): “letteralmente sotto i nostri occhi” dice Elena, cliente di una farmacia, che lamenta rincari del 30% da un giorno all’altro. Chiuso il popolare servizio di iHerb per l’acquisto di vitamine (vengono dagli Usa), attività sospese Nike (americana) e Asos (moda e cosmetici, britannica). Vuol dire altri negozi chiusi. Non è solo il rublo che crolla, è la vita che sparisce. Da un giorno all’altro. Kharim Khan e i crimini di Putin di Paolo Lepri Corriere della Sera, 5 marzo 2022 Il procuratore della Corte penale internazionale, giurista e avvocato britannico ha avviato un’indagine sui crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Ucraina. Le speranze di vedere un giorno Vladimir Putin sul banco degli imputati sono affidate anche alla determinazione del procuratore della Corte penale internazionale, il giurista e avvocato britannico Kharim Khan, che ha avviato un’indagine sui crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Ucraina. Non è uno scenario irrealizzabile, nonostante tutte le difficoltà - politiche e giuridiche - che ostacolano l’azione del tribunale nato con lo Statuto di Roma del 1998. Ne fanno parte 123 Paesi: grandi assenti Stati Uniti, Cina, Russia, India e Israele. Trentanove membri, tra cui l’Italia, hanno sottoscritto nei giorni scorsi la “procedura di attivazione” sulla base di quanto sta avvenendo dopo l’avvio dell’”operazione militare speciale” del Cremlino. Un passo significativo, ma la strada è ancora molto lunga. “Il mondo sta guardando: dobbiamo risuscitare la verità”, ha detto alla Cnn Khan, 51 anni, nipote adottivo del primo ministro degli esteri del Pakistan, Muhammad Zafarullah Khan. Si è insediato nel giugno scorso, dopo essere stato eletto a scrutinio segreto con una maggioranza esigua e non senza qualche polemica (causata soprattutto dall’aver difeso, proprio all’Aja, il vicepresidente del Kenya William Ruto e Saif al-Islam Gheddafi, figlio del leader libico). Ma ora conviene guardare avanti. L’esperienza che ha maturato sia sul campo della giustizia internazionale sia alle Nazioni Unite sarà preziosa per affrontare un compito tanto impegnativo. Il lavoro dei giusti sta iniziando, insomma, nel “grande complesso di vetro annidato tra le dune ai margini della città” che Katie Kitamura descrive così nel suo splendido thriller esistenziale, Tra le nostre parole, in cui la protagonista è un interprete della Corte Penale Internazionale. Poi, esaurite le parole, dovrà venire il momento delle accuse e delle condanne. Attenzione, però, niente è scontato. Lo fa capire l’appello che Khan ha rivolto ai Paesi membri per un sostegno finanziario volontario aggiuntivo. “L’importanza e l’urgenza della nostra missione - ha spiegato - è troppo seria per essere tenuta in ostaggio dalla mancanza di mezzi”. Speriamo che venga ascoltato. Libia. Il governo “golpista” di Tobruk si prepara a entrare a Tripoli di Chiara Cruciati Il Manifesto, 5 marzo 2022 Ieri a est prima riunione del governo rivale guidato dall’ex ministro degli Interni Bashagha, con la benedizione di Khalifa Haftar. Il paese sul baratro di una guerra civile: il Gnu di Dabaiba, di stanza nella capitale, ordina attacchi ai convogli non autorizzati. È trascorso poco meno di un mese dal “golpe” morbido di Tobruk: il 10 febbraio scorso i 147 rappresentanti della Camera dei rappresentanti libica, con sede nell’est del paese, avevano nominato premier Fathi Bashagha, l’ex ministro degli interni del Governo di unità nazionale di Tripoli (Gnu) e uomo forte della “città-stato” di Misurata. Peccato che un primo ministro la Libia lo abbia già: Abdulhamid Dabaiba, di stanza nella capitale. Ieri il nuovo esecutivo nominato da Bashagha (e rinominato Governo di stabilità nazionale) si è riunito per la prima volta a Dar al Saalam, a Tobruk, con la benedizione del generale Khalifa Haftar, capo del sedicente Esercito nazionale libico e protagonista di tentativi (tutti falliti) di prendersi Tripoli e il controllo del paese nordafricano. La prima riunione giunge il giorno dopo la “scomparsa” temporanea di tre neo ministri (agli esteri Hafed Gaddur, alla cultura Salha Al Druqi e all’educazione tecnica Faraj Khaleil), bloccati milizie filo-tripoline per impedirgli di giurare e rilasciati in serata. Obiettivo dell’incontro è la fissazione della data di insediamento del governo “golpista” nella capitale libica, che “avverrà in modo pacifico senza alcuna violenza”, ha tenuto a precisare all’emittente tv Libya Al Hadath il ministro della difesa di Bashagha, Amid Houma. Il dichiarato pacifismo si scontra con la realtà: con le elezioni rinviate a data da destinarsi (avrebbero dovuto tenersi il 24 dicembre), all’orizzonte più che una pacificazione appare una potenziale guerra civile. Perché, se Bashagha gode del sostegno di Tobruk e di Haftar (e di conseguenza delle milizie anti-turche presenti in Tripolitania), Dabaiba non è solo. Ad appoggiarlo ci sono milizie, soldati di Ankara e pure l’uomo che, agli occhi occidentali, è il garante della stabilità libica, il governatore della Banca centrale Sadiq al Kabir. A riscaldare gli animi c’è anche il decreto emesso nella notte tra giovedì e venerdì da Bashagha con cui ordina alle unità anti-terrorismo e alle forze di sicurezza di non prendere più ordini dal Gnu e chiede ai servizi di intelligence di revocare lo stato d’allerta nella capitale. Dabaiba risponde e all’esercito ordina di attaccare qualsiasi convoglio in marcia che non abbia il permesso del Gnu. Ovvia la preoccupazione delle Nazioni unite, principale sponsor nonché “fondatrici” del Gnu. Ieri Stephanie Williams, consigliera speciale del segretario generale dell’Onu per la Libia ha invitato le parti a fare un passo indietro, nell’idea che “amministrazioni rivali” non siano la soluzione politica alla crisi che ormai attanaglia il paese dal 2011. Stati Uniti. Ripristinata la pena di morte per il killer della maratona di Boston rainews.it, 5 marzo 2022 Il 15 aprile del 2013, Dzhokhar Tsarnaev, assieme al fratello Tamerlan, di origine cecene, fece un attentato che provocò la morte di 3 persone e il ferimento grave di 260. La Corte suprema americana ha ripristinato la pena di morte per Dzhokhar Tsarnaev, l’attentatore della maratona di Boston che nel 2013, assieme al fratello, provocò la morte di tre persone e il ferimento grave di altre 260, 17 persone persero gli arti a seguito delle schegge dell’esplosione. Tamerlan Tsarnaev, il fratello maggiore di Dzhokhar, morì durante una sparatoria con la polizia a pochi giorni dall’attentato. Una corte federale aveva rovesciato nel luglio del 2020 la sentenza contro il giovane - di origini cecene - accogliendo il ricorso che avevano presentato i suoi legali. Un mese dopo l’allora presidente Donald Trump, aveva chiesto di ripristinare la pena capitale. I giudici, con un voto di 6 a 3, hanno concordato con le argomentazioni dell’amministrazione Biden, secondo le quali la corte d’appello federale aveva sbagliato a respingere la condanna a morte. L’annullamento del 2020 della corte d’appello - La corte d’appello aveva stabilito l’annullamento di condanna alla pena capitale, anche perchè - secondo il dispositivo - il giudice del processo aveva escluso prove riguardanti il fratello, Tamerlan Tsarnaev. “Non c’è stata controversia sulla colpevolezza del signor Tsarnaev - aveva scritto nel 2020 il giudice d’appello, O. Rogeriee Thompson - ma una premessa fondamentale del nostro sistema di giustizia penale, è che anche il peggiore tra noi merita di essere processato in modo equo, e punito legalmente”. La prova esclusa dalla giuria riguardava il fatto che il fratello maggior deceduto, Tamerlan, fosse stato coinvolto in un triplice omicidio nel 2011, fatto posto dai legali di Dzhokhar come prova che il maggiore aveva già in precedenza “dominato ed intimidito il suo fratello minore”. Il tragico attentato - Era il 15 aprile del 2013, quando durante la maratona di Boston, scoppiarono due ordigni rudimentali, portati dai due fratelli all’interno di zainetti a spalla. Con lo scoppio ci furono tre morti tra cui un bimbo di soli 8 anni. Tra i feriti in 17 subirono amputazioni degli arti. La prima bomba esplose a poche centinaia di metri dal traguardo, travolgendo i runner che stavano per raggiungere l’arrivo. Il tempo di realizzare di essere nel mezzo di un’emergenza, ed una seconda bomba era deflagrata più giù, lungo il percorso. All’inizio delle indagini restava in piedi sia l’ipotesi islamica che quella del terrorismo interno. Attraverso un team speciale delle forze dell’ordine americano, messo in piedi in tempo record, furono analizzate tutte le immagini delle telecamere stradali ed intervistati decine di testimoni, fino ad identificare i due fratelli, di origine cecena, responsabili dell’attentato.