Perché è bene che al Dap ci sia un giudice che sa del carcere di Glauco Giostra Avvenire, 4 marzo 2022 La saggia scelta della ministra Cartabia e le polemiche anti-garantiste. Non molti giorni fa, su queste pagine, manifestavo il timore che gli applausi con cui il Parlamento aveva accolto il passaggio che il rieletto presidente Mattarella aveva dedicato alla questione carceraria - “Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale del detenuto. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza” - volessero soltanto coprire l’inaccettabile distanza tra doveri civili e costituzionali e cattiva coscienza politica. Al primo atto politico che si incammina verso quella direzione, purtroppo alcuni degli applaudenti di allora già si affrettano a esprimere dissenso. La ministra Cartabia ha individuato nella persona di Carlo Renoldi il nuovo capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap). Scelta che dovrebbe essere salutata con soddisfazione. È positivo, infatti, che si sia pensato - discostandosi dalla prevalente tendenza a nominare un magistrato del pubblico ministero - a un giudice che abbia avuto, come in questo caso, una importante esperienza nella giurisdizione di sorveglianza. Il pm ha, come ruolo istituzionale, il delicato e difficile compito di dare un nome al delitto, facendo in modo che un criminale non si sottragga alla giusta pena; il magistrato di sorveglianza, il non meno delicato e difficile compito di fare in modo che quella pena possa servire a restituire alla società una persona migliore. Appartiene di più all’esperienza e alla sensibilità del secondo capire quali condizioni si debbano realizzare affinché i condannati meritevoli possano avere effettive opportunità di graduale reinserimento sociale. Reinserimento, che rappresenta “la migliore garanzia di sicurezza”, come ci ha ricordato il presidente Mattarella, poiché di regola tutti i condannati debbono fare ritorno nel libero consorzio civile e l’indice di recidiva è notevolmente più alto tra coloro che sono stati tenuti sino all’ultimo giorno a “marcire” in galera. Ebbene, proprio questa sensibilità per il finalismo rieducativo che la Costituzione assegna alla pena sembra essere all’origine dell’ostilità con cui la candidatura di Renoldi è stata accolta da alcuni settori politici. Per quanto possa sembrare incredibile, ciò che gli si rimprovera con insistenza è di essere un “garantista”, cioè un magistrato che si è sforzato di inverare l’intenzione riabilitativa nei confronti di tutti i condannati, con i limiti e con i criteri avallati dalla stessa Corte costituzionale. Strana sorte questa del termine “garantista”, che un giorno si vuole bandiera per le proprie iniziative politiche; un altro, epitaffio per una nomina non gradita. Forse aveva ragione ancora una volta Sciascia quando scrisse “io non voglio, addirittura mi indigno se mi chiamano garantista, io sono per il diritto e per la giustizia, sono gli altri che devono dire che sono per la vendetta e per la repressione”. Preoccupazioni sono state espresse anche da alcuni esponenti sindacali della polizia penitenziaria. Non è difficile leggervi in controluce l’idea secondo cui a un maggior riconoscimento dei diritti dei detenuti debba corrispondere una riduzione delle prerogative e dei poteri di chi con essi deve operare. È vero il contrario, come hanno dimostrato gli Stati generali dell’esecuzione penale, il più ampio progetto culturale vòlto a valorizzare la finalità rieducativa della pena. Le linee di riforma che ne uscivano tratteggiate implicavano un’altissima considerazione delle funzioni della Polizia penitenziaria, pur all’ombra di fatiscenti strutture e mai rischiarata dai riflettori e dalle gratificazioni dei media. Le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria devono - non meno degli appartenenti alle altre forze di sicurezza - saper fronteggiare pericoli, spesso persino più insidiosi; devono affrontare sacrifici quotidiani resi più gravosi dal contesto doloroso e mortificante; devono essere garanti della sicurezza degli operatori e dei detenuti, usando nei confronti di questi metodi rispettosi, ma non imbelli; devono - primi osservatori di prossimità- saper capire le personalità e le potenzialità dei soggetti a loro affidati; devono saper collaborare con gli operatori del trattamento per cercare di riconsegnarli migliori alla società; devono saper essere, insomma, agenti di custodia e di recupero. Non a caso si era allora molto insistito sulla necessità di una qualificata formazione multidisciplinare per assolvere una così delicata e insostituibile funzione. È semmai una idea ciecamente repressiva della sanzione penale, quindi, che la Polizia penitenziaria avrebbe interesse ad avversare. Se l’esecuzione della pena detentiva, infatti, si riduce a mera segregazione del condannato il ruolo degli appartenenti alla polizia penitenziaria scade irrimediabilmente a quello di “secondini” e di “girachiavi”. Più in generale, è l’intero Paese, con il sovraffollamento carcerario e con una pena detentiva che non sappia promuovere il reinserimento sociale del condannato, a perdere in dignità. E in sicurezza. Flick: “Giusta la svolta al Dap, sbaglia chi usa le vittime della mafia” di Errico Novi Il Dubbio, 4 marzo 2022 “Allarmi incomprensibili sul magistrato scelto da Cartabia”. Intervista all’ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick sul caso di Carlo Renoldi. “Sul carcere pesano problemi drammatici. È ora che lo si comprenda. E mi sembra fuori luogo trascendere in strumentalizzazioni. Non si può strumentalizzare per esempio il sacrificio di chi ha pagato con la vita la ricerca di verità sulla mafia. Eppure è avvenuto anche a proposito della scelta compiuta dalla ministra Marta Cartabia per la guida del Dap: mi sembrano polemiche incomprensibili. Così si finisce per parlare di carcere in chiave solo propagandistica, senza affrontare i problemi. Che sono invece concreti e che richiedono un approccio consapevole dei valori da tempo compromessi nell’esecuzione penale. Mi pare che la ministra voglia intervenire sulla materia penitenziaria con la consapevolezza che i problemi da risolvere riguardano appunto il quotidiano della vita in carcere”. Giovanni Maria Flick, prima di assumere le funzioni di giudice e poi di presidente della Corte costituzionale, è stato ministro della Giustizia. “E a via Arenula”, dice al Dubbio, dopo averne parlato nei giorni scorsi anche a Radio Radicale, “tra le cose che mi fa piacere ricordare, considero certamente la nomina di Alessandro Margara alla guida del Dap. Persona estremamente valida, che ha interpretato l’esecuzione penale come sistema in cui i detenuti sono al centro di tutto. “Ci fa sentire uomini”, dicevano di lui i reclusi. Il magistrato scelto dalla ministra, Carlo Renoldi, è considerato allievo di Margara. Deve per forza averne mutuato una corretta visione del sistema penitenziario. Non lo conosco personalmente, né voglio iscrivermi a qualche tifoseria. Ma intanto mi pare positivo anche che si tratti di un giudice e non di un magistrato dell’accusa”. Presidente, com’è possibile che invece la nomina di Renoldi scateni tante reazioni indignate? Si tratta di polemiche poco comprensibili. È incomprensibile l’allarme per la possibile nomina, sulla quale dovrà decidere il governo, di un magistrato che, innanzitutto, vanta un’esperienza nei Tribunali di sorveglianza. Ha anche esposto idee critiche assai significative sul carcere, in particolare sul 41 bis, istituto che non a caso è stato oggetto di molteplici interventi da parte della Corte costituzionale. Quindi criticare il cosiddetto carcere duro non è un’eresia? Il problema non è soltanto la discussione sul carcere duro. I problemi sono nel sovraffollamento tornato ai livelli consueti, nei 13 suicidi che già si contano tra i detenuti dall’inizio del nuovo anno, oltre a quelli tra la polizia penitenziaria. Una situazione insostenibile. Ora, è evidente come in molti vi sia una tale paura di vedere attenuata l’allerta sul fronte della sicurezza, che si reagisce a qualsiasi nuova prospettiva sul carcere in modo parossistico. Ma sentire evocare il sacrificio di chi ha pagato con la vita la ricerca della verità sulla mafia, ecco, è del tutto fuori luogo. È una strumentalizzazione che ignora, elude, distoglie dai veri problemi del carcere. Mi sembra invece che la ministra Cartabia abbia ben individuato quei problemi. E quindi la nomina di Renoldi può essere giudicata positivamente? Ripeto: io non mi iscrivo ad alcuna tifoseria. Credo però sia giusto scegliere chi punta sulla fiducia, sul recupero, sul superamento degli automatismi. E poi vorrei porgere alcune domande. Prego... Perché mai dovremmo avere sempre e comunque magistrati dell’accusa, alla guida del Dap? Perché dobbiamo affidare l’amministrazione penitenziaria a chi manda le persone in carcere anziché a chi giudica i diritti dei detenuti? Perché il capo del Dap non dovrebbe essere un magistrato giudicante, finalmente, e che abbia appunto esperienza nei Tribunali di sorveglianza? Ho già detto che trovo incoraggiante individuare un giudice che abbia avuto modo di lavorare con Margara. Detto tutto questo, finirò per sorprenderla con quella che considero la vera via maestra per l’amministrazione penitenziaria. Cosa intende dire? Mi chiedo se comunque, al vertice di quel dipartimento, sia davvero utile che si nomini solo un magistrato. O se non sarebbe necessario individuare, nell’alta dirigenza ministeriale, anche chi sia capace di occuparsi innanzitutto di logistica, di organizzazione, di gestione quotidiana di un sistema complesso. Dopodiché, ripeto: non si comprende perché negli ultimi anni la scelta sia caduta sistematicamente su magistrati dell’accusa. Renoldi invece si occupa tuttora, anche da consigliere di Cassazione, delle istanze di chi è recluso. Non servono i massimi sistemi, né le strumentalizzazioni... Serve conoscenza di un dramma, piuttosto. Oggi la nostra idea di esecuzione penale ruota intorno all’annullamento dell’identità. Vengono sottratte, alla persona detenuta, le dimensioni dello spazio, del tempo, eccessivamente lunga o vanamente abbreviata che sia la pena, e soprattutto della relazione con gli altri. Spazio, tempo e relazioni, innanzitutto affettive, compongono l’identità. Che nel caso dei detenuti viene soffocata in modo terribilmente afflittivo. Basiamo l’esecuzione penale su questo. E così mi pare calpestiamo il nucleo dei princìpi che dovrebbero governare la pena. Non solo l’articolo 27 ma anche gli articoli 2 e 3 della Costituzione. Umanità, fine rieducativo, reinserimento, dignità, equilibrio razionale fra tutela dei diritti e sicurezza: il presidente della Repubblica li ha evocati ancora una volta nel discorso pronunciato in Parlamento dopo il nuovo incarico. Mi pare che, nel dibattito politico, quei valori continuino a essere trascurati. Buona parte della politica ha tutt’altre idee, sul carcere... Sì, ma conforta l’orientamento della guardasigilli. Vede, gli Stati generali dell’esecuzione penale hanno guardato ad obiettivi molto ambiziosi, a una innovazione del sistema penitenziario, e della pena, che richiedeva modifiche normative. Ma quelle riforme non arrivano mai. E allora, per tornare al discorso di partenza, al Dap serve una guida che si impegni per affermare la dignità nelle carceri attraverso innovazioni possibili con semplici modifiche del regolamento. Nelle pieghe della normazione secondaria, lo spazio per agire esiste, e lo ha molto ben individuato la commissione Ruotolo, nominata dalla ministra, i cui risultati sono assai preziosi. Si deve uscire da un’idea di carcere in cui vince solo l’ansia retributiva, senza spazio per l’identità, per la persona. Si dovrebbe uscire, in realtà, da un’idea di esecuzione penale incentrata sul carcere, dove a mio giudizio dovrebbero essere destinati solo i soggetti pericolosi, violenti. Agli altri dovrebbe essere prospettata una pena diversa. Dovrebbe essere ampliato lo spazio delle pene alternative e della giustizia riparativa. Un orizzonte per ora lontano, è evidente. Ma se, come sembra, il magistrato che la ministra ha individuato coltiva una visione del carcere basata sulla dignità, si potrebbe assistere a un primo passo avanti. Il caso Renoldi e quel silenzio assordante di Md sul teorema Trattativa Stato-mafia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 marzo 2022 Le ricostruzioni sulla trattativa Stato-Mafia sono una spada di Damocle anche sulla corrente, come dimostra il caso del magistrato indicato dalla guardasigilli al capo del Dap. Non entriamo nel merito dell’intervista del fratello di Paolo Borsellino pubblicata sul Fatto Quotidiano. Pieno di luoghi comuni, inesattezze, argomentazioni prive di base logica dettate sicuramente dalla mancanza di conoscenza. Potremmo contrapporre la lucidità e sensibilità, dettata anche dalle visite in carcere, di Fiammetta Borsellino che è esattamente agli antipodi. Ma non lo facciamo. Sarebbe sbagliato strumentalizzare le vittime di mafia che hanno tutto il diritto di pensare come vogliono. Invece è doveroso sollevare un problema. Il silenzio di Magistratura democratica, corrente di cui fa parte Carlo Renoldi indicato dalla ministra Cartabia come capo del Dap, davanti alle imbarazzanti ricostruzioni del teorema trattativa Stato-mafia, utilizzate per intossicare il dibattito ogni qual volta si parla di riforma del 41 bis o ergastolo ostativo. Attenzione, non pretendiamo che i magistrati di Md interferiscano su una inchiesta o un processo. Quello sarebbe sbagliato. Ma vista la sensibilità della corrente contro l’idea reazionaria del sistema penitenziario, sarebbe stato giusto un intervento ogni qual volta un loro collega, o addirittura un loro iscritto, vada ad esempio innanzi alla Commissione giustizia e usi una intercettazione, inconsapevolmente stravolgendone il contenuto, per dire ad esempio che nel 2000 Bernardo Provenzano parlava dell’ergastolo ostativo, dando la percezione che ci fu una trattativa in corso per abolirlo. A pensare che l’ergastolo ostativo è un termine coniato dalla dottrina soltanto pochi anni fa. Così come ad esempio, sarebbe stato bello che Magistratura democratica fosse intervenuta quando si parlava della famosa mancata proroga del 41 bis a circa 300 soggetti da parte dell’allora ministro Giovanni Conso. Una delle pseudo prove dell’avvenuta trattativa Stato mafia. Perché non sono intervenuti, rendendo così onore al magistrato Alessandro Margara, iscritto a Md, uomo di grande spessore e cultore del diritto penitenziario, che fu proprio uno dei magistrati di sorveglianza che sollevò la questione alla Corte costituzionale? Sì, perché le revoche dei 41 bis ai 300 soggetti (tra l’altro solo una piccolissima parte erano mafiosi, di basso rango) disposte dal ministro Conso nel ‘93, furono conseguenza della sentenza della Corte costituzionale (numero 349 e depositata in cancelleria il 28 luglio del 1993) che impose valutazioni individuali per ciascun provvedimento di carcere duro a differenza di quanto era avvenuto in precedenza e in passato per i terroristi. Il merito di quella sentenza, ricordiamo, è stato anche di Alessandro Margara che sollevò la questione quando era magistrato di sorveglianza a Firenze. Non di una trattativa, non della mafia, ma dello Stato di Diritto. Lo stesso Franco Corleone, attualmente garante dei detenuti del carcere di Udine, ricorda i colloqui avuti con Margara stesso e il suo sbalordimento per le accuse a Giovanni Conso, accusato di avere appunto tolto dal regime del 41 bis presunti mafiosi per favorire la “trattativa Stato mafia”. Sono argomenti privi di contatto con la realtà, che inevitabilmente intossicano il dibattito. Non permette di far progredire il nostro Stato di Diritto. Anzi, lo arretra. Molti parlamentari, a partire di chi ricopre ruoli istituzionali come l’attuale presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra, sono imbevuti di questa propaganda. Ne hanno assorbito talmente tanta, che a sua volta la veicolano anche loro. I danni sono enormi, a partire da quelli culturali. Il rischio è che anche le istituzioni scolastiche ne rimangano travolte. I giovani studenti, saranno (o sono) le prime vittime. In realtà Magistratura democratica, in particolare Area, non solo è stata in silenzio, ma nel passato ha organizzato anche convegni sulle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove i partecipanti al dibattito, ancora una volta, hanno usato queste argomentazioni totalmente fallaci. Eppure, all’interno di Magistratura democratica, ci sono tuttora persone di valore e che conoscono molto bene il meccanismo. Sanno benissimo che il teorema trattativa è diventata una spada di Damocle, non solo sopra la testa di un eventuale governo illuminato, ma anche sulla loro. Le critiche feroci, e completamente sballate nei confronti di un loro iscritto, il magistrato Carlo Renoldi, ne sono la dimostrazione. Speriamo solamente che la ministra della Giustizia Marta Cartabia mantenga il punto. Altrimenti vince la paranoia e la teoria del complotto sulla Politica. E ciò diventa pericoloso, perché tutto ciò è funzionale allo Stato di Polizia, anziché di Diritto. Chi c’è in carcere: aggressori e pusher, pochissimi i mafiosi di Viviana Lanza Il Riformista, 4 marzo 2022 Ha un’età compresa tra i 40 e i 60 anni, ha figli. Nella maggior parte dei casi ha anche una moglie o una convivente, e ha un titolo di studio medio alto. E si trova in carcere per reati contro la persona o contro la pubblica amministrazione. Eccolo il ritratto del detenuto medio, il profilo di chi compone la maggioranza della popolazione detenute nelle carceri della Campania, e più in generale di tutto il Paese. È di queste persone che dovrà occuparsi il nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Altro che mafiosi, a stare in carcere sono soprattutto uomini violenti o truffatori, ladri e spacciatori. Eccolo l’identikit di chi vive dietro le sbarre. Certo ci sono anche quelli condannati per reati di criminalità organizzata, ma sono una minoranza rispetto alla popolazione che vive nelle celle. Lo dicono le statistiche ministeriali con cui periodicamente il Ministero della Giustizia traccia un bilancio sullo stato del sistema penitenziario. Ebbene, se è vero che i numeri sono utili per descrivere certe realtà, è dai numeri indicati nelle statistiche ministeriali che viene fuori un ritratto del detenuto medio che non è solo e sempre il ritratto dello spietato e potente boss della criminalità organizzata rispetto al quale diventa difficile, come sostengono i meno garantisti, intavolare discorsi su misure alternative e provvedimenti svuota-carceri. Su una popolazione detenuta di oltre 54mila persone, sono 7.274 quelli reclusi per reati di associazione a delinquere di stampo mafioso. La maggior parte dei detenuti è dietro le sbarre per reati contro il patrimonio, cioè furti e rapine. E per reati contro la persona, quindi aggressioni e lesioni. Nella prima sfera di reati rientrano 31.009 detenuti, nella seconda 23.611 detenuti. E allora come mai, quando si parla di carcere, ci si concentra sempre ed esclusivamente sui boss della camorra? Ragionare su misure alternative al carcere e sulla possibilità di ricorrere al carcere solo come extrema ratio può essere possibile per più della metà della popolazione detenuta. Cosa significherebbe? Innanzitutto la fine di carceri-inferno, e poi di celle strapiene, di diritti mortificati, di spazi inadeguati, di attività di rieducazione non a singhiozzo e non per pochi, di tutela della salute, di tutela dei diritti anche di chi lavora in carcere perché le risorse non saranno inadeguate a gestire il numero di detenuti che sarebbe realmente presente nelle celle. In due parole, sicurezza e diritti. Di tutti. Di chi vive all’interno delle strutture penitenziarie e di chi vive nel mondo fuori. I numeri, dicevamo. Sono stati, nel 2021, più di 8mila i detenuti per reati contro la pubblica amministrazione e oltre 9mila quelli dentro per possesso di armi. I numeri descrivono anche un altro aspetto della questione carcere tanto dibattuto quanto nei fatti ignorato: i detenuti problematici, quelli per esempio tossicodipendenti. Sono molto numerosi. Nel 2021 si sono contati 18.942 detenuti per reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti. Rispetto al passato sono in numero più contenuto (erano più di 23mila nel 2005 e più di 21mila nel 2019), ma sono pur sempre ancora moltissimi, se si considera che più della metà oltre a trafficare in droga ne sono anche assuntori. Sono dunque troppi per le strutture di cui il sistema penitenziario dispone, inadeguate a gestire detenuti con dipendenze e patologie. Giustizia, su carriere e porte girevoli partita riaperta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2022 Si riapre la partita della riforma di Csm e ordinamento giudiziario. La prossima sarà una settimana di fuoco in commissione Giustizia alla Camera, dove entro giovedì io marzo andranno formalizzate da parte di tutte le forze politiche le proposte di correzione agli emendamenti Cartabia. Il testo è poi calendarizzato per l’Aula dal 28 marzo, con la variabile tempo niente affatto neutrale, visto che le elezioni per il rinnovo del Consiglio superiore sono fissate per luglio, salvo slittamenti per ora esclusi. Il tutto si intreccia poi con i referendum sulla giustizia, con la Corte costituzionale che ne ha ammessi cinque e tre di questi incidono su materie toccate dalla riforma in cantiere. La decisione presa in consiglio dei ministri di escludere il voto di fiducia, a differenza di quanto fatto sulle altre due riforme “di struttura”, quella del processo penale e quella del processo civile, se ha garantito l’unanimità tra i ministri, ha però rimesso in gioco la dialettica parlamentare. Certo l’intervento, più volte sollecitato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, tocca una materia delicata, sulla quale più volte il legislatore si è esercitato anche di recente (basti pensare all’ultima legge elettorale per il Csm voluta dal Governo Berlusconi che introdusse il collegio unico nazionale, con il medesimo obiettivo di limitare l’influenza dei gruppi organizzati nella selezione delle candidature), ma che è stata resa incandescente dal deflagrare dello scandalo delle nomine pilotate ai vertici degli uffici giudiziari. I partiti nel frattempo hanno iniziato a posizionarsi sui temi a ciascuno più cari. A partire da quello direttamente interessato dal quesito referendario, la separazione delle funzioni che, attraverso un complesso quesito, i promotori (Lega e Radicali) intendono rendere effettivo, impedendo qualsiasi passaggio da giudice a pubblico ministero e viceversa. La riforma in discussione, nella versione Bonafede, non toccata sul punto da Cartabia, ne prevede due soltanto, Forza Italia aveva annunciato l’intenzione di ridurli a uno, ma la spinta referendaria potrebbe condurre a un divieto assoluto. Altro tema complesso, che ha tenuto peraltro impegnato il consiglio dei ministri sino all’ultimo è quello della disciplina tra magistratura e politica, dove la soluzione finale è stata di estremo rigore. Oltre a evitare il riproporsi di casi di contestuale esercizio della carica elettiva e della funzione giurisdizionale (come per il consigliere comunale- magistrato, sia pure in un distretto diverso dal Comune), gli emendamenti Cartabia vietano il reingresso in magistratura non soltanto per chi ha ricoperto un incarico elettivo, ma anche per tutte quelle toghe in qualche modo anche solo lambite dalla politica, quelle cioè inserite in ruoli e funzioni più tecniche all’interno dei ministeri e degli enti locali. Il Pd ha già espresso forti perplessità su questo punto, nel timore che la conseguenza possa essere la perdita di competenze al momento centrali in molte organizzazioni pubbliche. Da sciogliere anche il nodo del sistema elettorale. La riforma del Governo ha messo in campo un sistema misto, con collegi maggioritari binominali e correttivo proporzionale, ma da Lega e Forza Italia è assai probabile la presentazione di subemendamenti per introdurre un sorteggio che Cartabia prevede soltanto in via residuale, quando cioè non è stato raggiunto un numero minimo di candidati nei collegi oppure non è assicurata la rappresentanza di genere. Riforma del Csm, la fronda per il sorteggio di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 4 marzo 2022 Nelle audizioni in commissione sugli emendamenti Cartabia, il centrodestra fa blocco con la corrente che lo ha proposto nell’Anm. E prepara le sue proposte che rischiano di spiazzare la maggioranza. La riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario avrebbe bisogno di correre, tanto più che Draghi ha promesso che non metterà la fiducia (almeno in prima lettura) e le elezioni per il nuovo Consiglio non sono così lontane (luglio). Ma entro giovedì prossimo i partiti presenteranno i sub emendamenti al “maxi” con il quale la ministra Cartabia ha riscritto il vecchio testo Bonafede ed è già chiaro che la maggioranza si dividerà. L’andamento delle audizioni in commissione giustizia alla camera lo dimostra ed è facile prevedere che torneranno a farsi sentire i sostenitori del sorteggio per eleggere la componente togata del Csm: “Ricetta facile, lineare e risolutiva”. La definizione è di Giuliano Castiglia, gip a Palermo e leader della corrente Articolo 101, ascoltato ieri in commissione. A chiamarlo è stato il partito di Giorgia Meloni che ha individuato in questo magistrato, all’opposizione nel comitato direttivo dell’Associazione nazionale magistrati ma che ha guidato la sua corrente (loro si considerano una “non corrente”) a vincere le recenti elezioni per la sezione di Palermo, un interlocutore privilegiato. Castiglia ha strapazzato il testo sul quale era chiamato ad esprimersi, definendo il vecchio disegno di legge Bonafede “totalmente deludente nel contrasto al correntismo” e gli emendamenti Cartabia peggio: “Pseudo riforma che consolida il correntismo e riconosce la natura politico partitica del Csm”. Anche se il rappresentante di Articolo 101 è apparso più attento alle rivendicazioni più corporative della magistratura - ha visto un “attacco all’indipendenza” nell’abrogazione dei carichi esigibili e una “palese incostituzionalità” nella possibilità di trasferire i magistrati che il Csm dovesse ritenere non in grado di svolgere la funzione in maniera indipendente - il suo intervento è stato assai apprezzato dai consiglieri del centrodestra. Tanto da lasciar prevedere che se Forza Italia manterrà la promessa di presentare un subemendamento per il sorteggio “temperato” (utilizzato cioè per comporre la platea dei magistrati eleggibili) potrebbe raggiungere, con l’appoggio dei centristi, numeri sufficienti a mettere in imbarazzo la ministra Cartabia. Contro il sorteggio sono intervenuti sia l’ex procuratore di Torino Armando Spataro - “idea offensiva per gli elettori, gli eletti e per la dignità dell’organo costituzionale” - chiamato in audizione dal Pd, sia Piergiorgio Morosini, sostituto pg di Cassazione chiamato dai 5 Stelle: “Il costituente, prevenendo l’elettività, riconosce la valenza istituzionale di colui che viene eletto”. Invece la rappresentante dei magistrati del Consiglio di stato è intervenuta contro la norma che vieterà ai magistrati eletti di tornare nelle funzioni giurisdizionali e imporrà ai magistrati chiamati nei gabinetti ministeriali una pausa di decantazione di tre anni. “Si rischiano, ha detto, Rosanna De Nictolis, presidente dell’Anm della magistratura amministrativa, “persino problemi organizzativi”. Non è un dettaglio che la categoria più spesso impegnata nelle funzioni “tecniche” nei ministeri sia proprio quella dei magistrati amministrativi. Referendum. Le critiche alle sentenze sono legittime, ma non le manipolazioni di Donatella Stasio* Il Dubbio, 4 marzo 2022 Gentile Direttore, le scrivo con riferimento all’intervista pubblicata oggi sul suo giornale “Giudizi di illegittimità anticipati dalla Corte pur di impedire il voto”. Non entro nel merito delle critiche alle decisioni della Corte sull’inammissibilità dei referendum su omicidio del consenziente e droghe, oggetto dell’intervista. Mi riferisco invece a quei passaggi in cui - per sostenere queste critiche - si afferma che il Presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato, durante la conferenza stampa del 16 febbraio, avrebbe “dato informazioni false” poi “smentite” dalle sentenze depositata ieri. Sono affermazioni gravissime, perché assolutamente false. Il video della conferenza stampa è sul sito della Corte e invito i suoi lettori a recuperarlo per ascoltare la spiegazione del Presidente Amato, le domande dei giornalisti e le risposte. Anche le sentenze della Corte (con relativi comunicati stampa) sono sul sito e tutti possono leggerle. Insomma, chiunque può ricostruire i fatti e farsi un’opinione autonoma. Tuttavia, è doveroso rimettere ordine ai fatti anche qui. Le sentenze depositate ieri confermano pienamente le spiegazioni anticipate nella conferenza stampa: cambia il registro comunicativo, ma la sostanza è identica. Ricordo anzitutto che la conferenza stampa è stata decisa dalla Corte, che tutti i giudici erano presenti (alcuni da remoto) e che il presidente non esprimeva opinioni personali ma spiegava - sia pure in estrema sintesi e con parole semplici - le motivazioni che, pochi minuti prima, avevano portato alla decisione di inammissibilità. Ebbene, nel dare notizia dell’esito del referendum sulle droghe, il presidente ha detto testualmente: “Il quesito è articolato in tre sotto- quesisti e il primo, quello relativo all’articolo 73, comma 1, legge sulla droga, prevede che scompare, tra le attività punite, la coltivazione delle sostanze stupefacenti di cui alle tabelle 1 e 3. E le sostanze stupefacenti delle tabelle 1 e 3 non includono neppure la cannabis, che è nella tabella 2, ma includono papavero, foglie di coca… includono le cosiddette droghe pesanti. Già questo è sufficiente a farci violare obblighi internazionali plurimi che abbiamo e che sono un limite indiscutibile dei referendum; inoltre ci portano a constatare l’inidoneità rispetto allo scopo perseguito, quale che esso sia, perché il quesito non tocca altre disposizioni che rimangono in piedi e che continuano a prevedere la rilevanza penale di queste stesse condotte”. Successivamente, due colleghi giornalisti, nelle loro domande, hanno sintetizzato l’accaduto con la parola “errore”, parola che il presidente ha ripreso soltanto nella seconda risposta, peraltro in termini ipotetici. La sentenza non parla di “errore” ma, su quel punto, la motivazione può essere legittimamente sintetizzata, in chiave comunicativa, con quel termine o con altri analoghi. E vengo all’altro fatto manipolato, quando si dice che la sentenza sull’inammissibilità dell’omicidio del consenziente avrebbe smentito l’esempio fatto dal presidente per spiegare che nell’area dell’impunità dell’omicidio del consenziente sarebbero rientrati anche casi diversi dall’eutanasia, come quello del “ragazzo maggiorenne che, per una ragione qualunque, arriva a decidere che la vuole far finita e trova un altro ragazzo come lui che, in una sera in cui hanno un po’ bevuto, glielo fa”. “Hanno un po’ bevuto” sicuramente non equivale allo stato di ebbrezza per cui si è puniti quando si guida e ancor meno alla “deficienza psichica per abuso di sostanze alcoliche” che rende invalido il consenso all’omicidio. Tutto questo è ben chiaro ai tanti che hanno seguito la conferenza stampa e hanno letto le sentenze. La critica, anche aspra, a una decisione della Corte costituzionale non ha bisogno di falsificare i fatti o di delegittimare l’Istituzione. Le conferenze stampa e, in generale, la comunicazione della Corte è un servizio ai cittadini proprio perché possano esercitare a 360 gradi la loro critica, ma su fatti veri. È un contributo importante alla qualità del dibattito pubblico, da cui dipende, peraltro, la qualità della democrazia. Grazie dell’attenzione. *Responsabile comunicazione Corte Costituzionale Giustizia, Severino: “È legittimo migliorare la legge sui politici condannati” di Conchita Sannino La Repubblica, 4 marzo 2022 Intervista all’ex Guardasigilli nel governo Monti. Su riforma e referendum dice: “Bene lo stop alle porte girevoli. E sì anche alle valutazioni dei legali sui magistrati”. “Le riforme della giustizia? Ma non ci sono ancora testi definitivi da commentare: si possono solo esaminare alcuni dei principi che emergono. Lasciando che il Parlamento lavori. Sotto gli occhi abbiamo adesso questa atroce guerra. È confermata la notizia del missile che ha colpito la centrale termoelettrica a Kiev?”. Paola Severino, ex ministra della Giustizia del governo Monti, docente e decana degli avvocati, da sei mesi al vertice della Scuola nazionale dell’Amministrazione su nomina del premier Draghi, non nasconde il turbamento “per questo sanguinoso conflitto esploso in Europa. Chi avrebbe mai detto che, proprio nel ventennale della Corte Penale Internazionale che ci apprestavamo a celebrare, e al cui statuto lavorammo qui a Roma, firmato da 123 paesi, questo strumento sarebbe tornato di drammatica attualità”. Lei, da accademica, è stata rettore ed è ora vicepresidente dell’Università Luiss. L’ha stupita la vicenda dell’Ateneo della Bicocca sulla tentazione di cancellare Dostoevskij? “Confesso che non ne ho compreso le motivazioni. Sarebbe stata una decisione singolare, per fortuna rientrata. Mi pare che il valore culturale e letterario di un autore come Dostoevskij non possa essere messo in discussione. Specie perché è in momenti come questi che abbiamo bisogno della profondità di una riflessione sulla condizione umana, che l’arte è in grado di promuovere, anche nei contesti più dolorosi perché alimenta speranze e abbatte barriere”. E’ una guerra che non abbiamo voluto vedere? “Forse è così. Ero tra quelli che non se l’aspettavano. Fino al giorno prima, l’assoluta maggioranza dei Paesi riteneva che si trattasse solo di una minaccia. Anzi, a più di qualche osservatore qualificato sembrava che si stesse allentando la tensione intorno all’Ucraina. Poi, proprio quel giorno, le foto dai satelliti americani ci hanno mostrato alcune attività, come la costruzione di un ponte sul fiume nottetempo, che potevano preludere alla guerra. La verità è che non volevamo crederci: perché l’idea dell’aggressione a un Paese sovrano, e il fatto che questo avvenisse nella nostra Europa, era così lontana dalla nostra cultura, che lo abbiamo ritenuto inaccettabile”. La minaccia atomica è reale? “Ci sono tante paure, di diverso livello, con cui facciamo i conti. E soprattutto: viviamo tutto in diretta, ci sono fuochi vivi che ardono a poche centinaia di chilometri da casa nostra, immagini che ci interrogano. La minaccia atomica è retrostante a tutta questa guerra: ma forse è proprio quella che fermerà il conflitto. E poi penso ai sentimenti che suscitano le immagini: donne e bambini sotterrati nei rifugi, al freddo che rischia di non dare tregua. Sembra di essere ripiombati in un Medioevo. Lì c’erano guerre e carestie. Qui una pandemia non ancora sconfitta e un conflitto bruciante”. E come si combatte il Medioevo, professoressa? “Con la solidità delle istituzioni democratiche, con la continuità dell’impegno di noi tutti. E ora anche la pubblica amministrazione deve fare la sua parte: con l’assegnazione e il migliore impiego dei fondi del Pnrr. È un momento di grandi prove per il Paese. Un accento positivo lo suscita un’Europa in cui finalmente cadono alcune barriere, come ad esempio quelle di Dublino. Ci prepariamo ad accogliere tanti profughi. La nostra Unione si scopre più coesa, più pronta alle reazioni. Mi hanno colpito quei due segnali in particolare: Svizzera e Inghilterra”. Lei però, da avvocata e accademica, è stata la prima donna Guardasigilli italiana. Un fronte politico acceso è quello della giustizia. La campagna referendaria creerà tensioni sul cammino delle riforme per il Csm e la giustizia? “La premessa è che le leggi non sono immodificabili. Chiaro che oggi abbiamo rimesso la valutazione delle leggi da una parte al Parlamento e dall’altro ai cittadini. Sono due strade certamente diverse, vedremo”. Legge Severino, la normativa che porta il suo nome non a caso: nacque sull’onda di una questione morale, contro gli impresentabili nel Parlamento e alla guida degli enti. Lei si era finora sempre sottratta a commenti: ma cosa pensa del quesito referendario, accettato dalla Consulta, che impedisce la sospensione degli amministratori dopo una condanna in primo grado? “Ho sempre detto che le norme vanno monitorate. Il quesito approvato dalla Corte Costituzionale si riferisce appunto allo specifico della sospensione dei sindaci dopo il primo giudizio. Se l’applicazione di quella legge, specie in riferimento all’abuso di ufficio, ha portato a constatare che molte di quelle sentenze venivano modificate in appello, è legittimo che si suggerisca una modifica. Poi ci sono anche altri progetti in corso”. Si riferisce alla proposta di legge incardinata al Senato. Arriverà prima il Parlamento o il referendum? “Se non arrivasse la volontà del Parlamento, allora bisognerà rispettare la volontà dei cittadini, a patto che si esprima con il quorum previsto dalla Costituzione “. Siamo allo stop per le cosiddette porte girevoli, tra magistrati e politica. Ha fatto bene il governo a chiudere quel passaggio? “Parliamone in termini generali, per favore, perché la normativa è ancora fluida. A me sembra un sano principio culturale, prima ancora che giuridico, prevedere che un magistrato non possa candidarsi o assumere ruoli politici negli stessi luoghi in cui ha svolto le sue funzioni. L’ho vissuto, ad esempio, nella mia famiglia: come una scelta normale. Io ho avuto padre e zii magistrati. Mio padre era giudice a Napoli: e quando decise di lasciare la magistratura e di fare l’avvocato, non ricominciò come se nulla fosse in quella stessa città. Prese moglie e tre figli e si trasferì a 200 chilometri, a Roma. Io non dico che debba essere impedito per legge, ma penso che prima della norma dovrebbe sorgere questo sentire, una scelta di merito e non solo di stile”. Tuttavia, dopo venti anni di discussione, la magistratura non risolveva questo vulnus. L’ultimo caso Maresca lo ha riproposto... “Difatti io penso che bisognerebbe intervenire su questo terreno con la formazione. Da molto vado dicendo che le Università dovrebbero preparare i giovani: immaginare, penso a Giurisprudenza, un biennio finale che prepari anche culturalmente allo svolgimento delle professioni di avvocato o di magistrato sarebbe molto importante. Sono due funzioni entrambe fondamentali, e reputo il ruolo dell’avvocato tanto indispensabile quanto quello del giudice e del pubblico ministero. Tutte e tre queste figure contribuiscono all’attuazione della giustizia”. E sulla separazione delle carriere: pensa sempre che è una delle opzioni in campo o ha cambiato idea? “Io posso anche pensare che sia bene non separare le carriere. Purché ognuno degli attori svolga il proprio ruolo correttamente. Per esempio: il pm non dovrebbe dimenticare che la legge gli prescrive di cercare anche prove a favore dell’indagato; e il giudice deve curare la parità di posizioni tra accusa e difesa”. Lei è anche una decana dell’avvocatura. Ora l’Anm storce il naso rispetto alla possibilità, prevista anche dai quesiti referendari e dalla riforma Csm, che gli avvocati diano le “pagelle” per la valutazione dei magistrati. Che ne pensa? “Non ne farei una questione di pagelle. Direi che come i magistrati conoscono gli avvocati, anche gli avvocati conoscono i magistrati. Frequentiamo le stesse aule, ci conosciamo abbastanza per valutarci reciprocamente”. C’è speranza che la giustizia diventi un servizio efficiente? “La mia esperienza è di molti decenni. So bene che la giustizia è lenta e poco efficace. Ma con la medesima franchezza posso dire che abbiamo meccanismi di bilanciamento che accrescono la loro potenzialità, la fase più sbilanciata è quella delle indagini, ma poi nel contraddittorio la giustizia vince sempre. E mi lasci dire che conosco tanti magistrati, che lavorano operosamente, senza cercare le luci della ribalta. E questo deve sempre ispirare la nostra fiducia”. La (giusta) stretta sull’informazione giudiziaria di Bruno Ferraro* Libero, 4 marzo 2022 Nel nostro Paese da molti anni è invalsa la consuetudine di dare per scontate troppo presto l’esistenza di reati e la colpevolezza dei soggetti indagati, senza alcun doveroso rispetto per la dignità di questi ultimi e per la verità processuale, molto spesso diversa e contraria alla verità reale. “Sbattere il mostro in prima pagina” è diventato un vezzo di certa stampa, forte di informazioni “riservate” trasmesse dalle stesse Procure con le cosiddette veline: e quando, a distanza di anni, non pochi imputati sono stati assolti e molte custodie cautelari si sono rivelate illegittime o quanto meno affrettate, il pregiudizio sofferto dalle vittime della mala giustizia non è stato adeguatamente riparato. Il sito www.errorigiudiziari.com indica dati decisamente allarmanti: il 36,6% di proscioglimenti; 29659 casi di errori giudiziari ed ingiuste detenzioni nel periodo dal 1991 al 2020; circa 29 milioni di euro l’anno versati dallo Stato per il risarcimento delle vittime; nessuna sostanziale rivalsa dello Stato nei confronti dei magistrati responsabili del danno a causa di una legislazione a dir poco inadeguata sulla responsabilità civile. Si tratta di una realtà dolorosa, nota da anni, sulla quale il parlamento ed il governo non erano mai intervenuti: realtà però destinata a cambiare radicalmente a seguito del Decreto Legislativo 8 novembre 2021 n° 188, emanato per dare attuazione alle direttive n° 343/2016 del Parlamento europeo e 9 marzo 2016 del Consiglio europeo. Il Decreto disciplina l’informazione e le conferenze stampa nelle procure, il rafforzamento della presunzione di innocenza delle persone indagate e il diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. Di fronte al lassismo e alla superficialità del costume previgente, le innovazioni sono forti e incisive: divieto di indicare pubblicamente come colpevole il soggetto indagato fino al provvedimento di condanna irrevocabile, a pena di sanzioni penali e disciplinari, con l’obbligo di risarcimento del danno e il diritto di chiedere da subito la rettifica; rapporti con la stampa curati personalmente dal Procuratore della Repubblica o da un magistrato delegato, esclusivamente con comunicati ufficiali e, nel solo caso di particolare rilevanza pubblica, per il tramite di conferenze stampa; citazione delle attività svolte dalle Procure senza menzione del nominativo dei magistrati titolari del provvedimento; informazioni solo se necessarie per la prosecuzione delle indagini (quindi praticamente mai); ufficiali di polizia giudiziaria in conferenze stampa solo se autorizzati; diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente; stringente riservatezza per gli atti di indagine compiuti da pm e polizia giudiziaria; diritto dell’imputato di partecipare al processo e di consultarsi riservatamente con il difensore. Il nostro processo penale è destinato a uniformarsi a quelli vigenti in molti altri Paesi, ancorati più di noi al rispetto di principi elementari di civiltà giuridica. Certo, i contraccolpi per l’informazione saranno rilevanti, in particolare per i cronisti giudiziari a caccia di scoop e indiscrezioni. Un prezzo dovuto al malcostume delle conferenze stampa e delle dichiarazioni avventate di colpevolezza che hanno caratterizzato il nostro Paese. Il rischio è quello di passare da un estremo all’altro, mettendo il bavaglio all’informazione e alla libertà di stampa. A recitare il mea culpa è chiamato anzitutto il Consiglio Superiore della Magistratura per le morbide “linee guida” sulla comunicazione approvate dal plenum del 11 luglio 2018. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Querele temerarie, la riforma è urgente e il Parlamento tace di Saverio Regasto Il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2022 Le esternazioni del presidente della Corte, Giuliano Amato, non disgiunte dagli appelli alla libertà di stampa lanciati da alcune testate giornalistiche calabresi, pongono, con una certa urgenza e nonostante i mezzi di comunicazione si stiano occupando esclusivamente delle vicende belliche dell’Est Europa, la questione del necessario e opportuno bilanciamento fra libertà di stampa (e, ancora prima, libertà di informazione), tutela della privacy (anche nella ipotesi “degradata” che riguarda i personaggi pubblici) e tutela dell’onorabilità e dell’immagine nel caso di diffusione di notizie false o tendenziose. La questione assume oggi particolare rilevanza anche a causa della incontrollabile portata deleteria dei social network (soprattutto a causa della sempre maggiore presenza di “leoni da tastiera” che lanciano fango e veleno su chicchessia), ma pure a causa del comportamento che taluni personaggi pubblici, ritenendosi intoccabili, pretendono dalla stampa: silenzio, complicità, omertà, lanciando neanche troppo velate minacce all’indirizzo di chi osa semplicemente informare i lettori con notizie vere e continenti che assumono particolare rilevanza. Talvolta le notizie riguardano i vertici di grandi società di capitali, talaltra magistrati o, ancora, politici, nazionali e locali, che mal sopportano il giornalismo d’inchiesta e che pretenderebbero, al contrario, una sorta di autocensura o, peggio, una sorta di impunità rispetto a notizie che, pur non di rilevanza penale, meritano di essere conosciute dal pubblico affinché quest’ultimo si faccia una opinione consapevole sulle qualità morali o sui comportamenti di tali personaggi. D’altra parte, in una società come la nostra, in cui conta molto di più cosa si sembra rispetto a quel che si pensa, non è infrequente che il pubblico conosca la taglia dei calzoni di un attore (o, peggio, le misure dell’intimo di un’attrice o di uno scrittore) rispetto a quel che si pensa su temi di fondamentale importanza politica come l’eutanasia o la liberalizzazione delle droghe leggere, solo per fare due esempi. Ciò che tuttavia appare preoccupante è la minacciosa tendenza che molti personaggi pubblici assumono nel momento in cui, di fronte a notizie non molto comode che li riguardano, preannunciano querele o azioni civili risarcitorie che, spesso del tutto infondate, hanno la sola finalità di intimorire il giornalista. Quando questi è un giovane precario, il risultato è il suo allontanamento, le eventuali scuse o, peggio, le rettifiche con la sola finalità di evitare di essere trascinati, per anni e neppure gratuitamente, per aule di giustizia. Sarebbe opportuno allora, nel tentativo come già si diceva di bilanciare i diversi valori giuridici in contrasto, di apportare importanti modifiche alla legislazione vigente, eliminando, ad esempio, la responsabilità penale oggettiva del direttore della testata e, soprattutto, prevedendo la eventualità che di fronte a una querela (o a una azione risarcitoria civile) del tutto priva di fondamento, il giudice possa pronunciarsi sulla temerarietà dell’azione e condannare il querelante a un risarcimento pari ad almeno la metà di quanto richiesto, unitamente alla doverosa segnalazione dell’avvocato al competente Consiglio di disciplina perché ne valuti la correttezza dei comportamenti professionali. Ciò è quanto prevede la proposta di legge il cui primo firmatario è il senatore Di Nicola, non a caso giornalista di lungo corso, che mi parrebbe auspicabile possa giungere, prima della fine della legislatura, ad approvazione. Temo, tuttavia, che essa rimarrà silente proprio perché utilizzabile contro molti dei potenti che siedono fra gli scranni del Parlamento. Mafia, la contraddizione di un’emergenza lunga trent’anni di Alessandro Morelli* Il Riformista, 4 marzo 2022 Lo “stato di emergenza” iniziato con la “dichiarazione di guerra” dell’Italia alla mafia, dopo le stragi di Capaci e via D’Ameno, quest’anno compie trent’anni, ricorda Sergio D’Elia nella sua intensa prefazione al volume curato da Pietro Cavallotti, Lorenzo Ceva Valla e Miriam Romeo, dal titolo “Quando prevenire è peggio che punire. Torti e tormenti dell’inquisizione antimafia”, edito da Reality Book e il Riformista (2022). Un’emergenza che dura da trent’anni è una contraddizione in termini. In una sentenza del 1982, riguardante la carcerazione preventiva, i cui tempi erano stati dilatati in ragione di un’altra situazione straordinaria (quella determinata dal brigatismo), la Corte costituzionale dichiarò che “l’emergenza, nella sua accezione più propria, è una condizione certamente anomala e grave, ma anche essenzialmente temporanea. Ne consegue che essa legittima, sì, misure insolite, ma che queste perdono legittimità, se ingiustificatamente protratte nel tempo”. Il giudizio a conclusione del quale fu emessa tale pronuncia (che fece salva la disciplina allora vigente) era stato originato, tra gli altri, dal caso di Giuliano Nada, sottoposto a carcerazione preventiva per più di nove anni e poi assolto con formula piena. La temporaneità è, peraltro, una condizione necessaria ma non sufficiente a rendere compatibile uno stato di emergenza con i principi della nostra Costituzione e del diritto internazionale. L’emergenza, infatti, non è la dimensione dell’irrazionalità e dell’arbitrio: essa altera il contesto entro il quale sono condotti i bilanciamenti tra i valori in campo ma non legittima l’adozione di misure palesemente sproporzionate e irragionevoli. Che sia così lo si evince, per esempio, dalla disposizione riguardante la più drammatica condizione di emergenza espressamente prevista dai Costituenti: la guerra. L’articolo 78 della Costituzione stabilisce che quando le Camere deliberano lo stato di guerra, esse conferiscono al Governo i “poteri necessari”, non i “pieni poteri”. E la necessarietà esprime un criterio di proporzionalità che deve essere tenuto presente anche quando è in discussione la stessa sopravvivenza dello Stato. Il diritto emergenziale antimafia, che trova alcune delle sue articolazioni più importanti nelle norme sulle misure di prevenzione, sulle informazioni interdittive e sullo scioglimento dei comuni per infiltrazioni, finisce con l’identificare nella prevenzione l’azione più efficace (e, quindi, sufficiente) della lotta alla criminalità organizzata. La prevenzione, tuttavia, non consente un accertamento adeguato dei fatti, si accontenta di un’osservazione sommaria, alimentando così una sempre più diffusa cultura del sospetto, espressione di un dilagante populismo penale e giudiziario. Si tratta di un diritto emergenziale che, come si evince dalle riflessioni sviluppate e dalle tante storie di tragici errori raccontate nel libro, appare ispirato da un principio di presunzione di colpevolezza che non si pone soltanto in contrasto con l’opposta indicazione contenuta nell’articolo 27 della Carta costituzionale e con i dettami del “giusto processo”. In discussione è innanzitutto il principio di solidarietà, che nel disegno dei Costituenti funzionalizza l’adempimento dei doveri inderogabili di cui parla l’articolo 2 e pone le basi etiche e giuridiche della coesione sociale e politica: quale spazio residua a tale istanza in una società dominata dalla cultura del sospetto? E in crisi sono anche il principio democratico e gli altri che con esso fanno sistema (come quelli di autonomia e di sussidiarietà): “dove la mafia notoriamente esiste - scrive D’Elia - e, perciò, per una sorta di incompatibilità ambientale, vengono annullati per decreto il confronto politico, le procedure democratiche, la partecipazione popolare, le elezioni. Il messaggio è devastante: le istituzioni più vicine ai cittadini - consigli comunali, giunte e Sindaci - sono forme anacronistiche della vita politica. La democrazia stessa è considerata un sistema superato”. Non si discute la necessità di una legislazione e di azioni repressive adeguate a fronteggiare efficacemente il fenomeno mafioso. Si ritiene però che la lotta alla Mafia possa e debba svolgersi entro il perimetro della legalità costituzionale e nel rispetto dei diritti fondamentali. Che sono innanzitutto quelli dei più deboli. Se la guerra contro la Mafia è innanzitutto difesa dei deboli contro poteri criminali forti, sua premessa indefettibile è il riconoscimento dei soggetti deboli. Come ha scritto Luigi Ferrajoli, nella dimensione del diritto penale il debole, nel momento del reato, è la vittima; nel processo è l’imputato; nella fase dell’esecuzione penale è il condannato. Marcare con decisione la differenza tra i fini perseguiti e i mezzi impiegati dallo Stato e quelli della Mafia è il primo passo per vincere la guerra. *Ordinario di Diritto pubblico, Università di Messina In carcere chi deturpa l’arte e il paesaggio di Giovanni Galli Italia Oggi, 4 marzo 2022 Carcere fino a 5 anni e multa fino a 15 mila euro per chi imbratta o deturpa beni culturali e paesaggistici. Mentre la confisca si estende anche a chi ricicla o autoricicla beni artistici. Prevista la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche. Carcere fino a 5 anni e multa fino a 15 mila euro per chi imbratta o deturpa beni culturali e paesaggistici. Mentre la confisca si estende anche a chi ricicla o autoricicla beni artistici. La contraffazione di opere d’arte viene punita con la reclusione da 1 a 5 anni e la multa da 3.000 a 10.000 euro. Mano pesante anche sulle società: prevista la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche quando i delitti contro il patrimonio culturale siano commessi nel loro interesse o a loro vantaggio. L’aula della Camera ha dato il via libera definitivo alla legge relativa ai reati contro il patrimonio culturale che inasprisce le pene per chi danneggia i monumenti, le opere d’arte o le bellezze naturali nel nostro Paese. Il testo, di cui primi firmatari sono i ministri Andrea Orlando e Dario Franceschini, è stato approvato a Montecitorio con 381 voti a favore, nessun contrario e tre astenuti. La legge inserisce nel codice penale un nuovo titolo, dedicato ai delitti contro il patrimonio culturale, composto da 17 nuovi articoli, con i quali punisce, con pene più severe rispetto a quelle previste per i corrispondenti delitti semplici, il furto, l’appropriazione indebita, la ricettazione, il riciclaggio e l’autoriciclaggio e il danneggiamento che abbiano ad oggetto beni culturali. Vengono inoltre punite le condotte di illecito impiego, importazione ed esportazione di beni culturali e la contraffazione. Oltre alla previsione di specifiche fattispecie di reato, si prevede un’aggravante da applicare a qualsiasi reato che, avendo ad oggetto beni culturali o paesaggistici, provochi un danno di rilevante gravità. Viene inoltre consentita la possibilità per gli ufficiali di polizia giudiziaria degli organismi specializzati nel settore dei beni culturali di svolgere attività sotto copertura per contrastare il traffico illecito delle opere d’arte. “Una giornata storica - commenta il ministro per i beni culturali Dario Franceschini - un grande passo avanti nella tutela e nella protezione del patrimonio culturale e nella lotta al traffico illecito di opere d’arte. Siamo una super potenza culturale e con questa legge stiamo indicando la strada, anche dando attuazione alla Convenzione di Nicosia”. I contenuti. L’articolo 1 apporta una serie di modifiche al codice penale. Il provvedimento interviene, in primo luogo (lett. a), sull’articolo 240-bis c.p. ampliando - attraverso l’inserimento dei reati di ricettazione di beni culturali, di impiego di beni culturali provenienti da delitto, di riciclaggio e di autoriciclaggio di beni culturali - il catalogo dei delitti in relazione ai quali è consentita la c.d. confisca allargata. L’art. 518-bis c.p., modificato dal Senato e confermato dalla Camera, punisce il furto di beni culturali con la reclusione da 2 a 6 anni e con la multa da 927 a 1.500 euro. L’art. 518-ter c.p. punisce l’appropriazione indebita di beni culturali con la reclusione da 1 a 4 anni e con la multa da 516 a 1.500 euro, mentre l’art. 518-quater c.p. punisce la ricettazione di beni culturali con la reclusione da 4 a 10 anni e con la multa da euro 1.032 a euro 15.000. Reclusione da 5 a 14 anni e con la multa da 6.000 a 30.000 euro per il riciclaggio di beni culturali; l’autoriciclaggio di beni culturali viene invece sanzionato con la reclusione da 3 a 10 anni e con la multa da 6.000 a 30.000 euro. Previsti ancora la reclusione da 1 a 4 anni la falsificazione in scrittura privata relativa a beni culturali; la reclusione da 2 a 6 anni e con la multa da 258 a 5.165 euro l’importazione illecita di beni culturali; la reclusione da 2 a 8 anni e la multa fino a 80.000 euro a carico di chiunque trasferisca all’estero beni culturali, cose di interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico o altre cose oggetto di specifiche disposizioni di tutela; per la distruzione, la dispersione, il deterioramento, il deturpamento, l’imbrattamento e l’uso illecito di beni culturali o paesaggistici la reclusione da 2 a 5 anni e con la multa da 2.500 a 15.000 euro. Società. Il nuovo art. 25-duodevicies, rubricato Riciclaggio di beni culturali e devastazione e saccheggio di beni culturali e paesaggistici, prevede in relazione a questi due delitti (artt. 518-sexies e 518-terdecies c.p.) l’applicazione per gli enti della sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 1.000 quote. Si arriva invece fino a 900 quote per la falsificazione in scrittura privata relativa a beni culturali, la ricettazione di beni culturali e il furto di beni culturali. Domiciliari, legittimo impedimento a partecipare al pari della carcerazione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2022 Le Sezioni unite della Cassazione (sentenza 7635) prendono le distanze dalla giurisprudenza, nettamente prevalente, che nel tempo ha fatto una netta distinzione - in caso di persone ristrette per altra causa - tra gli imputati che sono in carcere e quelli che stanno ai domiciliari. La detenzione ai domiciliari - per altra causa - comunicata al giudice che procede o comunque documentata, è un legittimo impedimento a comparire al pari della carcerazione. Il giudice ha dunque l’obbligo di rinviare ad una nuova udienza e disporre la traduzione dell’imputato. Se non lo fa l’udienza si tiene illegittimamente, a meno che non ci sia un’espressa rinuncia a partecipare da parte dell’imputato. Le Sezioni unite della Cassazione (sentenza 7635) prendono le distanze dalla giurisprudenza, nettamente prevalente, che nel tempo ha fatto una netta distinzione - in caso di persone ristrette per altra causa - tra gli imputati che sono in carcere e quelli che stanno ai domiciliari. Un distinguo basato sulla possibilità, per questi ultimi, di chiedere all’autorità competente il permesso per recarsi, in autonomia, nei distretti giudiziari. Non ci sarebbe dunque, secondo questa tesi, un impedimento assoluto a comparire, come nell’ipotesi della detenzione intramuraria. Perle Sezioni unite, il principio disatteso addossa all’imputato un onere non previsto dalla legge. Ed entra in rotta di collisione, oltre che con la Carta, con i principi convenzionali sul giusto processo. Secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo, l’autodifesa si esercita anche con il diritto a farsi interrogare, prerogativa che non può prescindere dalla partecipazione al processo. Il Supremo collegio ricorda che i giudici di Strasburgo, hanno più volte censurato l’Italia per i processi celebrati in contumacia, senza che ci fossero gli estremi per farlo. La Cassazione traccia dunque delle linee di condotta per evitare che accada ancora, in casi come quello esaminato, nel quale la traduzione non era stata disposta, malgrado il difensore dell’imputato avesse avvertito il giudice, nel corso dell’udienza che il suo cliente, citato quando era in stato di libertà, era finito ai domiciliari per un’imputazione relativa ad un reato diverso rispetto a quello per il quale si stava procedendo. Ipotesi in cui l’imputato aveva, invece, il pieno diritto “di vedere assicurata la propria presenza al processo mediante la disposizione della traduzione senza ulteriori oneri a suo carico”. L’unica condizione è che il giudice che procede venga informato della detenzione - in qualunque modo e in qualunque tempo - mentre nessuna norma impone all’imputato, di dare manifestazioni di interesse e di attivarsi presso il giudice della cautela o il magistrato di sorveglianza competente sulla restrizione in atto. La legittimità del giudizio in assenza è sottoposta, oltre che ai rigorosi accertamenti iniziali, a verifiche costanti sull’effettiva volontà dell’interessato di non partecipare, sia in primo grado sia in appello. In sede di appello, nel caso in cui sia provata l’instaurazione irrituale del giudizio in assenza, gli atti vanno restituiti al giudice di primo grado. La piena consapevolezza dell’imputato va garantita - conclude il collegio - senza un limite di tempo. Anche quando la sentenza è passata in giudicato è prevista un’ulteriore verifica della correttezza del giudizio di merito, con la possibilità di attivare, in caso contrario, il rimedio straordinario della rescissione. Solo con un diritto illimitato alla partecipazione ci si muove, infatti, nel rispetto della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Emilia Romagna. “Concedere telefonate straordinarie a detenuti ucraini verso i congiunti” parmatoday.it, 4 marzo 2022 La richiesta del Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, è stata accolta dal Provveditore regionale. Iniziativa del Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri, nei confronti del ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Provveditorato Regionale per l’Emilia Romagna e Marche, a favore dei detenuti di nazionalità ucraina reclusi negli istituti presenti in Emilia-Romagna. La richiesta del Garante, finalizzata alla concessione di telefonate straordinarie a questi detenuti verso i congiunti in Ucraina e a sostenerne le spese qualora i detenuti siano indigenti, è stata accolta dal Provveditore regionale, Gloria Manzelli, prontamente attivatasi per sensibilizzare le Direzioni degli Istituti in regione. “Il recente conflitto armato intrapreso dalla Russia nei confronti dello stato Ucraino- scrive il Garante nella lettera al Provveditore- ha ormai assunto preoccupanti dimensioni e, secondo quanto riportano gli osservatori internazionali, la caduta della capitale Kiev potrebbe essere imminente. L’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite ha definito crescente il numero delle persone che stanno lasciando il paese e, a ieri, sarebbero ormai oltre 500mila i rifugiati fuggiti nei paesi confinanti. Parte di questi sono già arrivati in Italia e anche nella nostra regione. A breve si potrebbe assistere al completo isolamento dalle telecomunicazioni con l’Ucraina rappresentando queste un obiettivo militare. Al fine di ridurre la sofferenza e la preoccupazione dei detenuti di nazionalità ucraina reclusi negli istituti presenti in Emilia-Romagna si chiede di voler valutare un suo intervento presso le direzioni dei penitenziari finalizzata alla concessione di telefonate straordinarie a questi detenuti verso i congiunti in Ucraina e a sostenerne le spese qualora i detenuti siano indigenti”. In chiusura di missiva, Roberto Cavalieri comunica al Provveditorato “la disponibilità del Servizio regionale di Garanzia per eventuali interventi presso gli organismi competenti per la ricerca dei congiunti usciti dal paese qualora i reclusi ucraini non riescano a mettersi in contatto con i propri famigliari”. Pronta la risposta del Provveditore regionale: “Le Direzioni degli Istituti sono state sensibilizzate al fine di agevolare la continuità dei rapporti tra i detenuti provenienti dai paesi coinvolti nella crisi in atto in Ucraina e i loro familiari nonché a favorire ogni azione di sostegno utile a prevenire o gestire possibili disagi emotivi e/o psicologici legati al conflitto in corso”. Il Provveditore Manzelli, infine, informa il Garante di aver segnalato alle Direzioni degli istituti penitenziari anche la disponibilità del Servizio di Garanzia a intercedere con gli Uffici dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati “in caso di segnalazione di detenuti di nazionalità ucraina ristretti negli Istituti penitenziari del distretto che abbiano necessità di acquisire informazioni sui familiari usciti dal proprio Paese, qualora non siano riusciti a mettersi in contatto con i congiunti. I nominativi dei detenuti/e e le richieste degli stessi/e potranno essere quindi inoltrati formalmente all’Ufficio del Garante che si farà tramite in merito con l’Agenzia Onu preposta”. Santa Maria C.V. Pestaggi, detenuto morto il Riesame conferma: “Non fu un omicidio” di Mary Liguori Il Mattino, 4 marzo 2022 Da un lato il “no” all’aggravamento cautelare per i dirigenti di Polizia penitenziaria sotto inchiesta per i pestaggi del 6 aprile del 2020, dall’altro la conferma, dal punto di vista del Riesame, che la morte di Hakine Lamine, deceduto un mese dopo le violenze, non fu cagionata dalle torture patite in cella di isolamento. E, quindi, non può essere imputata agli indagati. Il tribunale della Libertà di Napoli ha respinto il ricorso della Procura. Crotone. Nell’ospedale “inidonei gli spazi destinati alla degenza dei detenuti” corrieredellacalabria.it, 4 marzo 2022 Sopralluogo del Garante cittadino e del personale di polizia penitenziaria. “Preoccupati per le condizioni igienico-sanitarie dei locali visitati”. Lo scorso 2 marzo scorso si è tenuto il sopralluogo ispettivo del Garante dei detenuti di Crotone Federico Ferraro, congiuntamente al personale di polizia penitenziaria in servizio, presso le camere di sicurezza per il ricovero dei detenuti, situate presso l’Ospedale civile “San Giovanni di Dio”. “A seguito dell’effettuazione della visita di monitoraggio - si legge in una nota del Garante - è dovere del autorità comunale amministrativa indipendente segnalare una rilevante preoccupazione per le condizioni igienico-sanitarie dei locali visitati, risultanti carenti sia per quanto concerne la situazione impiantistica elettrica, con rilievo alla copertura delle canaline contenenti i cavi elettrici attivi, sia per quanto concerne lo stato di conservazione della pavimentazione, che appare parzialmente compromessa nell’area dei Wc. La struttura destinata nel seminterrato come area per degenza dei detenuti, per esigenze sanitarie, non risulta pienamente idonea alla destinazione ed occorre anzi al più presto rintracciare altri locali maggiormente idonei in osservanza della normativa vigente. Si è provveduto a notificare le opportune segnalazioni alle autorità territorialmente competenti in ambito sanitario ed istituzionale”. Nei giorni scorsi, inoltre, si sono concluse le visite istituzionali con il Questore di Crotone Marco Giambra, con il presidente della Provincia di Crotone Sergio Ferrari ed infine con il nuovo Comandante Provinciale della Guardia di Finanza di Crotone Luigi Smurra. Il garante comunale ha riscontrato, come di consueto, una grande attenzione e sensibilità nei confronti delle tematiche carcerarie da parte delle locali istituzioni, in particolare per quanto concerne la già nota tematica delle carenze di idonee camere di sicurezza che siano a norma presso i presidi di Polizia, al fine di consentire la permanenza dei soggetti temporaneamente sottoposti a provvedimenti di restrizione della libertà personale. Importante è stato l’incontro con il neo Presidente della Provincia con il quale si sono condivise le esigenze del mondo carcere, anche alla luce della necessità di avviare adeguate modalità di collegamento tra istituto di pena e l’hinterland cittadino, come servizio per familiari e dunque rivolto ad una porzione rilevante della popolazione locale. Melfi (Pz). Presidio medico nel carcere, incontro tra Osservatorio carceri, Asp e istituzioni Il Mattino di Basilicata, 4 marzo 2022 L’avvocato Sassano: “Garantire uniformità ed effettività di risposta sanitaria a tutti i detenuti”. “L’Osservatorio Carceri e il dialogo costruttivo con l’Asp di Potenza. Questa volta sul tavolo delle trattative le criticità della Casa circondariale di Melfi. In data 1 marzo, si è tenuto presso le Carceri di Melfi, l’incontro sollecitato dall’Osservatorio Carceri della Camera Penale Distrettuale di Basilicata, nella persona dell’avvocato Francesca Sassano, con l’Asp e in particolare con la Direzione Sanitaria Luigi D’Angola, con la direttrice delle carceri di Potenza dott.ssa Anna Maria Rosaria Petraccone, con la coordinatrice infermieristica del DBS Melfi dott.ssa Mariagrazia Venezia, con il comandante della polizia penitenziaria G. Telesca, con il dott. S. Paglia e l’Isp. D. Sabia. Nel ringraziare la disponibilità ad interloquire che l’Osservatorio Carceri ha sempre trovato sino ad oggi nell’azienda sanitaria ed in particolare nella persona di Luigi D’Angola, in questo incontro, sono state focalizzate problematiche urgenti particolari della struttura detentiva in Melfi. Le maggiori criticità?affrontate hanno riguardato l’urgenza di ripristinare il presidio medico - sanitario H24, nonché?completare, oggi in riduzione di numero e di orario, le unità?mediche da 6 a 4 di cui 2 non con turnazione completa di orario e tra esse una in scadenza contratto annuale e una prossima al pensionamento. Ugualmente sensibili sono le criticità?che riguardano l’insufficienza del personale infermieristico, altre criticità sono state ravvisate nella mancanza di una corsia privilegiata di contatto o posto di riserva, per le visite non di urgenza dei detenuti presso detta struttura. Tale situazione, con l’istituzione all’interno delle carceri di Melfi del reparto alta sicurezza, per il quale ? previsto legislativamente un trattamento dei detenuti “riservato” alla restante popolazione carceraria, le criticità sanitarie in quel reparto sono ancora più marcate ed urgenti e sopperire alle stesse non può?essere lasciato alla disponibilità?del personale tutto, sanitario e penitenziario della struttura. L’incontro, fattivamente partecipato da tutti i presenti, si è concluso con la possibilità di ripristinare il servizio sanitario H24 al più presto presso detta struttura nonché?istituire una linea informatizzata, cosiddetta Cup, tra la struttura carceraria e l’Asp, per favorire le prenotazioni non urgenti ma calendarizzate per gli interventi sanitari a tutela della salute dei detenuti. L’avvocato Sassano ancora una volta, ha insistito sulla necessità di garantire uniformità ed effettività?di risposta sanitaria a tutti i detenuti, sollecitando l’utilizzo dell’Intranet per l’acquisizione tra le carceri e l’Asp del fascicolo sanitario di ogni detenuto, cosiddetto nuovo giunto, presso la struttura nonché di iniziare ad applicare la normativa 38 del 2010 per la rilevazione della cosiddetta soglia del dolore sulla popolazione detenuta all’interno della struttura. Le possibilità di intesa appaiono concrete ma l’Osservatorio Carceri continuerà ad essere sentinella attiva sul territorio per la tutela dei detenuti e della loro salute. Lecce. “Made in carcere” compie 15 anni: modello d’imprenditoria riparativa e rigenerativa di Antonella Barone gnewsonline.it, 4 marzo 2022 Un brand iconico che offre una seconda possibilità alle donne detenute. Vestiti, accessori e biscotti realizzati da persone recluse nella casa circondariale di Lecce e in altre carceri pugliesi. Il marchio “Made in carcere” nasce nel 2007 ma la sua storia inizia qualche anno prima quando la sua creatrice, Luciana Delle Donne, decide di lasciare la carriera di manager bancaria per avventurarsi nel mondo dell’economia sociale. “La mia esperienza è iniziata con un totale fallimento nel 2006 quando ho avviato il laboratorio con le detenute del carcere di Lecce -ricorda Delle Donne - avevo formato per sei mesi le ragazze per realizzare un modello di collo per camicia molto particolare ed elaborato. Una mattina vado in laboratorio e lo trovo deserto: erano tutte uscite per l’indulto. Lavoro, formazione e soldi perduti. Da allora solo cuciture semplici e dritte, perché sono le più facili da imparare e si prestano a una delle tante metafore che ci piace utilizzare: raddrizziamo le cuciture storte della vita”. Nel 2007, grazie alla cooperativa sociale Officina Creativa, prende invece vita il marchio “Made in carcere”. Le prime creazioni, realizzate già al tempo con materiali e tessuti di scarto, sono le borse gioiello e le borse “palla al piede”. L’originalità del progetto si basa in gran parte sugli accostamenti audaci, non solo di colori e tessuti ma anche di concetti. Come la mission “etica ed estetica “o gli accessori “utili e futili”. Ma è soprattutto l’ironia di creazioni nate in un luogo penitenziale la cifra caratterizzante di quello che in breve diviene lo stile “Made in carcere”. “Sono felice che questo aspetto sia stato recepito - continua Luciana- in effetti grazie all’ironia siamo riusciti a sdoganare la parola “carcere” e inserirla in un contesto che ha a che fare con l’estetica. In breve prende forma quello che si definisce “un modello di economia circolare e rigenerativa” che inizia con la raccolta dei tessuti donati da aziende che invece di disfarsene, ingolfando il sistema di smaltimento ed inquinamento, preferiscono far sì che questi tornino a vivere”. Oggi la Maison realizzata nel Carcere di Lecce, è in 6 Istituti Penitenziari - Lecce, Bari, Trani, Taranto, Matera e, in collaborazione con un’altra cooperativa, a Nisida, dove, grazie anche al sostegno di Fondazione Poste Italiane e di Fondazione Megamark ha avviato un primo progetto nel mondo del Food con la produzione di “Scappatelle” biscotti con certificato biologico vegano. Sono oltre 200 le persone che sono state coinvolte in questa esperienza lavorativa e alcune assunte da oltre 13 anni. Attualmente grazie anche al progetto BIL (Benessere Interno Lordo) con Fondazione con il SUD ne sono coinvolti altri 65 (donne, uomini e minori) nelle varie carceri e Sartorie Sociali di periferia tra Lecce, Taranto e Bari. “Il mio obiettivo è replicare il nostro modello e fare in modo che vada avanti anche senza di me. Oltre alle nostre sartorie e alle pasticcerie negli istituti di pena, abbiamo sostenuto la realizzazione di Sartorie Sociali di Periferia, trasferendo know how. Un’esportazione di competenze realizzata nell’ambito del bando E vado a lavorare della Fondazione con il Sud. Dagli abiti New Style alle t-shirt kimono, da borse per contenere l’impensabile alle nuove creazioni patchwork, il catalogo Made in Carcere si arricchisce di continuo di nuove proposte sempre fedeli alla filosofia della maison: semplicità, utilità, ironia. In 15 anni Made in Carcere ha dato lavoro a molte persone raccogliendo premi e riconoscimenti prestigiosi tra cui l’inclusione nella rete Ashoka, il più grande network mondiale di imprenditori sociali innovativi. Santo Versace oltre a donare una grande quantità di tessuti, sostiene Made in Carcere per la raccolta del 5×1000, ha devoluto al brand il ricavato di charity dinners. Tanti i testimonial del mondo dello spettacolo che hanno indossato accessori della Maison e, perfino Papa Bergoglio ha messo al polso il braccialetto con la scritta “Non farti rubare la speranza”. “Ma avere visibilità non è sufficiente - conclude Luciana Delle Donne- a superare i tanti ostacoli che ancora incontriamo nell’affermare questo modello imprenditoriale. Durante la pandemia siamo riusciti a continuare a versare gli stipendi a tutti ma la ripresa, per noi che ci dobbiamo confrontare con i tempi e le regole del carcere, è più lenta. Da una parte, che si sensibilizzino gli imprenditori a portare lavoro in carcere, dall’altra, che si spronino le grandi aziende ad acquistare prodotti che possano sostenere progetti che aiutino le persone a riconquistare dignità e consapevolezza. Offrire lavoro è un investimento che frutta in termini di reinserimento dei detenuti. Il comandante del carcere di Lecce ha fatto una ricerca empirica sulle persone a cui abbiamo dato lavoro in questi anni: nessuna è rientrata in carcere”. Cagliari. Il progetto Lav(or)ando incontra le aziende esperienzeconilsud.it, 4 marzo 2022 Dal reinserimento professionale di persone sottoposte a provvedimenti penali detentivi, alla creazione di buone prassi sul territorio, come base per costruire una rete di imprese solidale e accogliente. A quasi due anni dal suo lancio, all’interno della lavanderia industriale della casa Circondariale di Uta in provincia di Cagliari, il progetto Lav(or)ando si presenta alle imprese del territorio regionale sardo. Martedì 8 marzo, dalle ore 9 alle 13, presso la ex distilleria di Cagliari (via Ampère), si svolgerà infatti il convegno “Lav(or)ando con le imprese”, aperto a tutte le realtà imprenditoriali, agli enti e associazioni operative in Sardegna. Si tratta del primo evento pubblico, per il progetto ideato da Elan Società Cooperativa Sociale - con il sostegno della Fondazione con il sud - per favorire il recupero sociale e il reinserimento professionale di ventiquattro persone sottoposte a provvedimenti penali detentivi, attraverso il loro impiego nella lavanderia industriale, presente nella struttura penale, e il successivo accompagnamento al lavoro nella fase di uscita dalla detenzione. È un progetto pilota che vuole consolidare l’esperienza delle lavanderie nei carceri di Uta e Quartucciu come “Infrastrutture Permanenti Economico Educative” per affiancare il difficile percorso del Sistema Giustizia nell’attuazione dell’art. 27 della costituzione: Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Lo sviluppo successivo del progetto prevede il coinvolgimento delle realtà imprenditoriali presenti sul territorio, per dare una solida sostenibilità economica al Progetto Lav(or)ando attraverso l’attivazione di nuove commesse ma anche, in una visione più ampia, per offrire nuove, concrete possibilità di inclusione alle persone sottoposte a una pena detentiva, creando al contempo una rete di imprese solidale e ‘accogliente’, fondata sui princìpi dell’economia civile e della responsabilità sociale. Queste, le tematiche che saranno oggetto del convegno, moderato dalla giornalista Maria Luisa Secchi e articolato in due panel. Nel primo panel, verranno illustrati il progetto, le sue finalità e gli obiettivi finora raggiunti. Saranno inoltre approfonditi il ruolo del lavoro nelle Infrastrutture Permanenti Economico Educative del terzo settore a supporto della finalità rieducativa della pena, l’attuale scenario delle attività lavorative all’interno delle carceri, l’impatto sociale, i vantaggi e le opportunità per il territorio. Il secondo panel partirà dalla presentazione dell’indagine di mercato di aziende disponibili all’accoglienza, fino a esporre i vantaggi per le imprese che assumono detenuti e le esperienze di aziende già coinvolte nell’accoglienza di persone sottoposte a provvedimenti penali. In chiusura dei lavori, saranno presentati il marchio etico solidale e la bozza di disciplinare e trasmessa una video intervista ai destinatari del progetto. Bergamo. Un laboratorio con i detenuti per dare forma alla propria identità patronatosanvincenzo.it, 4 marzo 2022 Nei primi mesi del 2020, come Cooperativa Sociale Patronato San Vincenzo, abbiamo avviato un progetto presso la Casa Circondariale di Bergamo con un finanziamento del Ministero della Giustizia. Il Covid l’ha interrotto, ve lo raccontiamo proprio nel momento in cui stiamo per riprenderlo e portarlo a compimento. Il tema centrale è quello del raccontare e del raccontarsi, siamo partiti dal presupposto che narrare è un esercizio fondamentale per dare un senso a ciò che accade, per collegare i diversi eventi della nostra esistenza, per dare una forma alla nostra identità. Se i ricordi vengono troppo frammentati o riattraversati in modo ossessivo in solitudine finiscono col diventare cupi e opprimenti. E questa doppia solitudine di chi vive un’esperienza di reclusione, sentirsi privati della propria libertà e il non riuscire a mettere in comune i propri ricordi, può anche produrre una sorta di confusione mentale dove il passato si mescola al presente, una vera e propria difficoltà a pensare. È necessario un luogo dove ciascuno si senta incoraggiato ad assumere la propria identità e a concepirla come la somma delle proprie diverse appartenenze senza confonderla con una sola che spesso di esaspera e diviene strumento di esclusione. Ognuno può riconoscersi come appartenente a una nazione, originario di una certa regione, uomo o donna, giovane o adulto, appartenente a un determinato ambiente, a una determinata religione, a un certo tipo di professione. Ognuno può convivere con molteplici identità, maneggiando, come un giocoliere, questa pluralità. È solo questione di esercizio. La prima azione che abbiamo messo in campo è il Laboratorio Innumerevoli che arriverà a coinvolgere circa un’ottantina di detenuti. Innumerevoli è un laboratorio creativo, narrativo e serigrafico. Le persone sono accompagnate nella realizzazione di un proprio autoritratto contenente elementi narrativi frutto delle molteplici esperienze di vita che ognuno si sente di raccontare. Innumerevoli, come le esperienze che ci caratterizzano, come le identità che ci rappresentano. Ogni autoritratto viene stampato con tecnica serigrafica direttamente dai partecipanti. Ogni partecipante conserva un proprio auto-ritratto, un’altra copia viene invece utilizzata per la produzione di una mostra che consenta una restituzione pubblica del lavoro svolto. La prima parte del laboratorio viene utilizzata per conoscersi, rompere il ghiaccio e costruire, anche attraverso esercizi ad hoc, un clima di apertura, fiducia e disponibilità a mettersi in gioco. Oltre all’approccio verbale, è centrale il lavoro sul segno: utilizzare il segno grafico come mezzo di espressione libero dai vincoli e dagli stigmi della parola; una forma di comunicazione istintuale, scarsamente mediata, che necessità solamente di essere esercitata. Dopodiché si parte da una fotografia in primo piano della persona; questa viene stampata in formato A3 e, con l’utilizzo di un lucido, la persona ricalca il contorno del proprio volto. Sempre lavorando sul lucido viene fatto il vero e proprio autoritratto, ognuno è chiamato a comporre il proprio volto utilizzando segni, simboli, oggetti che in qualche modo raccontano della propria vita, del proprio percorso o viaggio. Una volta realizzato l’autoritratto si passa alla stampa: verrà dimostrato ai partecipanti il processo di stampa serigrafica e successivamente ciascuno verrà guidato alla stampa del proprio autoritratto. Nell’estate del 2020 siamo riusciti a portare a compimento la seconda azione del progetto, ovvero un laboratorio di arte pubblica che ha coinvolto una decina di detenuti della Casa Circondariale. L’artista professionista Nemo’s è stato chiamato a partecipare ad una serie di incontri con i detenuti durante i quali hanno identificato il tema da trattare, ne hanno discusso e sono arrivati ad un’idea grafica condivisa. Si è ragionato intorno a ciò che significa stare in carcere, ciò che comporta e ciò che manca. Il disegno realizzato da Nemo’s e dai detenuti su uno dei muri interni alla Casa Circondariale nasce da un racconto riportato da uno dei partecipanti al laboratorio: un detenuto, recluso da diversi anni, dopo un incendio scoppiato in una cella, è stato trasferito in un’altra ala. Durante il trasferimento è passato, per la prima volta, davanti ad un pezzo di prato interno alle mura del carcere. Non ha resistito, si è tolto le scarpe ed è corso nel prato. Erano anni che non sentiva l’erba sotto i piedi nudi. Questo è ciò che si è deciso di rappresentare sul muro, simbolo di una mancanza profonda e semplice, di un desiderio di libertà fatto di piccole cose che è facile dare per scontate. Per concludere il progetto, si spera nel 2022, realizzeremo ancora delle sessioni di laboratori Innumerevoli. Una volta terminate, allestiremo una mostra con gli auto-ritratti prodotti dai detenuti. La mostra verrà presentata una prima volta all’interno della Casa Circondariale di Bergamo e verrà poi riallestita presso Officine Tantemani, lo spazio di Cooperativa Sociale Patronato San Vincenzo in via Suardi 6 a Bergamo. La mostra è una forma di restituzione del lavoro svolto alla popolazione carceraria in primis e, in un secondo momento, alla città. Roma. Pena e nuove tecnologie, tre giorni di studio sull’isola di Ventotene garantedetenutilazio.it, 4 marzo 2022 Dal 20 al 23 aprile la prima “Spring School del Centro “Diritto penitenziario e Costituzione - European penological center”. È stato pubblicato sul sito del Dipartimento di giurisprudenza dell’Università degli studi Roma Tre, il bando di ammissione alla prima Spring School del Centro “Diritto penitenziario e Costituzione - European penological center” in tema di pena e nuove tecnologie, che si terrà dal 20 al 23 aprile c.a. a Ventotene. A organizzare il corso è il Centro diritto penitenziario e Costituzione - European Penological Center che promuove la formazione su temi connessi all’esecuzione penale, contribuendo alla valorizzazione dei luoghi della memoria carceraria. Il tema scelto per la prima edizione della Spring School è “Pena e nuove tecnologie tra ‘trattamento’ e ‘sicurezza’”, aperta alla partecipazione di un numero massimo di 30 iscritti, in possesso del diploma di laurea di primo livello alla data di scadenza del termine utile per la presentazione delle domande che è il 21 marzo. Per la prima edizione, l’iscrizione alla Spring School è gratuita. Ciò include la partecipazione alle lezioni, il materiale didattico e la visita didattica a Santo Stefano. I partecipanti saranno ospitati presso una struttura alberghiera individuata dal Centro, con trattamento di mezza pensione, al prezzo di 150 euro per persona per l’intero periodo (20-23 aprile 2022). Restano a carico dei partecipanti le spese di viaggio, soggiorno e ogni altra spesa non inclusa nel comma precedente. Aprirà i lavori della prima giornata la Commissaria straordinaria del Governo per il recupero e la valorizzazione dell’ex carcere Borbonico dell’Isola di Santo Stefano - Ventotene, Silvia Costa. Nel corso dei tre giorni dei lavori, interverranno anche il professor Marco Ruotolo, Marco Ruotolo, professore ordinario di Diritto costituzionale - Università degli Studi “Roma Tre” e Direttore European penological center, il Garante dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasìa. Concluderà i lavori della tre giorni il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma. La via della pace si apre con altri strumenti di Massimo Villone Il Manifesto, 4 marzo 2022 Costituzione e guerra. Si pone una domanda sulla compatibilità con la Costituzione della linea emersa dalle dichiarazioni di Draghi e dalla risoluzione approvata in parlamento sul conflitto in Ucraina. Una domanda legittima, che non vede risolti tutti i dubbi in uno scenario di guerra che può incidere sugli equilibri geopolitici globali. Si pone una domanda sulla compatibilità con la Costituzione della linea emersa dalle dichiarazioni di Draghi e dalla risoluzione approvata in parlamento sul conflitto in Ucraina. Una domanda legittima, che non vede risolti tutti i dubbi in uno scenario di guerra che può incidere sugli equilibri geopolitici globali. Segnali significativi vengono dal riarmo tedesco e dal voto nell’Assemblea generale Onu del 2 marzo. Diciamo subito che la Costituzione non è per un pacifismo senza se e senza ma. Per l’articolo 11 “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Mentre l’articolo 52 definisce la difesa della patria un sacro dovere del cittadino. Dunque, la difesa armata è sempre consentita, ed anzi doverosa. La guerra di aggressione non è consentita mai. E certamente nessuna generazione potrebbe conoscere la differenza meglio di quella che scrisse la Costituzione. Sì alla difesa, no all’aggressione. Un principio lineare, esteso dall’art. 11 ai contesti internazionali attraverso il richiamo a “un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” e alle “organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Si può ritenere dunque costituzionalmente compatibile il sostegno militare volto a difendere i confini di paesi alleati e membri di organizzazioni di cui l’Italia faccia parte, come ad esempio la Nato. Altra cosa è la critica, sempre legittima, che si può volgere alle politiche messe di fatto in campo dalla Nato. Ma l’Ucraina non è nella Nato. Dunque la domanda da porre è sulla compatibilità costituzionale del coinvolgimento in una guerra tra paesi terzi. Anche qui possiamo trarre dalla Costituzione alcune chiare risposte. È certamente compatibile l’invio di soldati e armi in compiti strettamente di peace-keeping, ad esempio come forza di interposizione tra parti belligeranti. È chiaro il nesso con i fini di cui all’articolo 11. Ma un punto focale sarà nelle regole di ingaggio da osservare in campo, che non devono tradursi nel tentativo di esportare forzosamente la democrazia con le armi. Questo è un obiettivo che l’articolo 11 non assume. Né la compatibilità costituzionale sarebbe assicurata dalla partecipazione a iniziative sovranazionali o di alleanza. Non sfuggono i dubbi che ne possono venire su non poche delle nostre missioni militari all’estero. E se si inviano solo armi, come faremo con l’Ucraina? Qui, diversamente da qualsiasi aiuto a carattere umanitario, il dubbio è corposo. Con l’invio ci si coinvolge inevitabilmente nel conflitto, per una parte e contro l’altra. Nulla cambia, dal punto di vista costituzionale, se è una scelta condivisa sovranazionale o di alleanza. Inoltre, nella specie sembra certo che le armi di cui si può realisticamente ipotizzare l’invio non sono in grado di modificare in misura significativa il rapporto di forze in campo. L’Ucraina è soccombente. Non è banale, allora, l’opinione per cui l’invio alla fine può solo inutilmente aggravare sofferenza e morte. Certo, rimane la speranza di guadagnare tempo per il negoziato. Ma questo sostanzialmente conferma che sono altri gli strumenti principali per aprire la via alla pace: in primis, le sanzioni economiche e gli anticorpi interni che possono stimolare contro la politica di Putin. Il dubbio poi cresce per il metodo. In ultima analisi, ogni scelta sull’invio delle armi è affidata a tre ministeri: esteri, difesa, economia. Al parlamento si promette informazione, e nulla più. Troppo poco. Ancora una volta, se ne lamenta l’emarginazione. Ma ribadiamo che ciò accade se e quando i soggetti politici che in esso operano lo consentono. Far parte di una maggioranza non significa sostenere acriticamente un esecutivo in ogni circostanza. E una diplomazia istituzionale più o meno riservata può comunicare a un governo quel che non si accetta. Si vuole davvero dare al paese il messaggio che in una vicenda cruciale di pace e guerra il parlamento - come l’intendenza - seguirà? Dobbiamo avvertire che questioni come la riforma del catasto eccitano gli animi in misura ben maggiore? Bisognerà puntare a far meglio, comunque attivando una occhiuta e continua vigilanza parlamentare sull’esecutivo, ed affiancando a questo nel paese una severa vigilanza democratica. In ogni caso, dovremo ricordare che non esiste una lettura della Costituzione che dia ragione a Putin. Chi aggredisce con le armi ha sempre torto. Cittadinanza, alla Camera si riparte dallo ius scholae di Carlo Lania Il Manifesto, 4 marzo 2022 In commissione affari costituzionali. Presentato il testo unificato. Ma la Lega già attacca: “È uno ius soli mascherato”. Il presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera Giuseppe Brescia (M5S) mette subito le mani avanti nella speranza di evitare strumentalizzazioni: “Lo dico con chiarezza: nel testo proposto non c’è lo ius soli. La presente proposta punta a introdurre una nuova fattispecie orientata al principio dello ius scholae, con una scelta di fiducia non solo negli stranieri che vogliono integrare i loro figli, ma nel lavoro della comunità didattica, nella dedizione dei dirigenti scolastici e degli insegnanti”. Trent’anni dopo la prima legge del 1992 e dopo due anni di stop in Commissione, la discussione sulla riforma della cittadinanza è ripartita ufficialmente ieri con la presentazione da parte di Brescia di un testo unico che farà da base ai lavori parlamentari. Due soli articoli di legge che sintetizzano tre ddl in materia presentati in passato da LeU, Pd e Forza Italia e che, se approvati, riconoscerebbero a più di un milione di ragazzi nati in Italia da genitori immigrati un diritto che reclamano inutilmente da tempo, quello di essere finalmente considerati a tutti gli effetti cittadini italiani. Il principio della legge, che potrebbe essere approvata in commissione già la prossima settimana per poi passare all’esame degli emendamenti, si basa sul compimento di un percorso culturale che non potrebbe non avere la scuola al centro. Il testo prevede infatti che possa diventare cittadino italiano “il minore straniero nato in Italia o che vi abbai fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età”, che vi abbia risieduto legalmente e che abbia frequentato “senza interruzione per almeno cinque anni uno o più cicli scolastici presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione”. La cittadinanza si acquisisce a seguito di una dichiarazione di volontà espressa da entrambi i genitori legalmente residenti in Italia o da chi esercita la responsabilità genitoriale nel comune di residenza del minore. Se questo non avviene, l’interessato potrà fare richiesta di cittadinanza entro due anni dal compimento della maggiore età. La speranza è che adesso la discussione sulla riforma non si trasformi ancora una volta in uno scontro identitario tra schieramenti contrapposti, come avvenuto in passato: “Ogni tentativo di riforma - ha ricordato non a caso Brescia - è stato fin qui fortemente influenzato da strumentalizzazioni politiche e distorsioni mediatiche che hanno solo alzato il volume della propaganda senza portare alcun cambiamento. Per raggiungere l’obiettivo bisogna dunque rovesciare il paradigma, evitando inganni ideologici e puntando su un testo semplice, capace di non prestare il fianco a manipolazioni”. Rispetto a quanto avvenuto fino a oggi, qualche passo in avanti che fa ben sperare oggi è stato fatto. Dal M5S, che in passato non ha nascosto dubbi a proposito della riforma, ieri è arrivato un via libera alla legge che fa ben sperare: “Lo ius scholae è fondamentale per le politiche di integrazione del nostro paese e coinvolge circa un milione di giovani”, ha detto la capogruppo in Commissione Affari costituzionali Vittoria Baldino. Sì convinto anche dal Pd, con l’ex viceministro dell’Interno Mauro Mauri che apprezza il lavoro svolto da Brescia: “Questa è l’ultima occasione - ha detto Mauri - per approvare la legge entro questa legislatura”. Contraria la Lega, che parla del nuovo testo in discussione come di “uno ius soli mascherato”. Ius scholae: i figli degli immigrati diventano italiani dopo 5 anni di scuola di Giovanna Casadio La Repubblica, 4 marzo 2022 Inizia l’iter a Montecitorio. In commissione Affari costituzionali il presidente grillino Brescia ha illustrato la riforma: “È in classe che si costruisce la cittadinanza”. Due articoli che cambiano la legge sulla cittadinanza, ma che non hanno nulla a che vedere con lo ius soli, di cui si è parlato per decenni. Oggi in commissione Affari costituzionali della Camera, il presidente grillino Giuseppe Brescia ha illustrato la riforma che ha chiamato “ius scholae”. I circa 800 mila bambini figli di immigrati, nati e cresciuti in Italia, potranno diventare italiani a tutti gli effetti, a patto che abbiano fatto almeno un ciclo di 5 anni di scuola. Il diritto di cittadinanza ai nuovi italiani è passata attraverso le forche caudine: discussa, bocciata, rinviata. Non se n’è mai fatto nulla per l’opposizione delle destre. Ma Brescia è ottimista, a patto - dice - che si tenga fuori lo ius scholae dalle questioni di sicurezza e immigrazione. Qui si sta parlando di un’altra cosa: nelle scuole italiane ad esempio, ci sono 20 mila bimbi ucraini che potrebbero diventare cittadini italiani. Lo stesso Salvini, che ha sbandierato la necessità di accoglienza dei profughi ucraini, potrebbe davvero opporsi? Sempre Brescia nella sua relazione ha invitato a mettere al centro “il ruolo della scuola come potente fattore di integrazione”. Ha detto: “Ogni tentativo di riforma è stato fin qui fortemente influenzato da strumentalizzazioni politiche e distorsioni mediatiche che hanno solo alzato il volume della propaganda senza portare alcun cambiamento”. Da qui un testo semplice, “capace di non prestare il fianco a manipolazione”. E aggiunge: “Lo dico con chiarezza, nel testo proposto, non c’è lo ius soli, ma una nuova fattispecie orientata al principio dello ius scholae”. E quindi i ragazzi figli di immigrati, italiani di fatto ma non di diritto, potranno uscire dal limbo. Recita la legge: “Il minore straniero nato in Italia o che vi abbia fatto ingresso entro il dodicesimo anno di età e che abbia risieduto in Italia senza interruzione e che abbia frequentato per almeno cinque anni uno o più cicli scolastici...”, facendo richiesta lui avrà la cittadinanza italiana. Dopo decenni di scontri, e addirittura una approvazione nel 2015 alla Camera per poi finire nel nulla al Senato, il provvedimento è una mini rivoluzione dei diritti. Modifica la legge numero 91 del 1992 che si basa sullo ius sanguinis, il diritto cioè alla cittadinanza italiana solo se figlio di almeno un genitore italiano. Mentre i bimbi figli di stranieri possono chiedere la cittadinanza dopo i 18 anni, e se hanno risieduto ininterrottamente in Italia. Matteo Mauri, ex vice ministro all’Interno, al quale il segretario dem, Enrico Letta ha delegato il dossier cittadinanza, fa pressing: “Siamo molto soddisfatti che se ne ritorni concretamente a discutere. Il Pd è da sempre molto determinato e il segretario Letta ha spinto da subito in questa direzione. È una questione di civiltà che è in sintonia con la maggior parte dell’opinione pubblica. Sarebbe assurdo non farlo. Sappiamo che non sarà facile a causa dell’opposizione ideologica di alcuni partiti. Ma faremo di tutto per farla passare nella forma più avanzata possibile”. Ancora Brescia: “Credo che il modello dello ius scholae possa trovare un consenso largo, anche perché mette al centro il valore della scuola, il ruolo dei nostri insegnanti. È in classe che si costruisce la cittadinanza, l’appartenenza a una comunità. Ho lavorato su questo testo semplice che può essere approvato già in questa legislatura”. C’è anche un invito a rivedere i criteri per la cittadinanza degli italiani all’estero, lo ius sanguinis. Anche su questo le polemiche non mancheranno. Cannabis, nuovi patti globali. Non per l’Italia di Leonardo Fiorentini e Marco Perduca Il Manifesto, 4 marzo 2022 Nel bocciare il referendum che depenalizzava la coltivazione della marijuana, la Consulta chiama in causa le Convenzioni Onu. Sono mutate le interpretazioni. Il mondo lo sa, Roma no. Tra i motivi per cui il referendum cannabis è stato dichiarato inammissibile c’è la violazione degli obblighi internazionali della Repubblica italiana derivanti dalle Convenzioni Onu. Il primo documento sulle sostanze psicotrope fu adottato nel 1961, all’apice della Guerra Fredda. Sebbene volesse rendere disponibili piante e derivati psicoattivi per fini medico-scientifici, da allora è stato usato per giustificare la militarizzazione progressiva del controllo nazionale e internazionale degli stupefacenti, cancellando quasi totalmente la parte relativa all’accesso a medicine essenziali. Le altre Convenzioni, del 1971 e 1988, furono adottate in un contesto geopolitico in cui, a fronte di conflitti armati spesso finanziati da traffici illeciti, la “guerra alla droga” divenne una guerra alle persone che violava diritti umani in tutto il mondo. Da una decina d’anni, anche in reazione alle gestioni di Pino Arlacchi e Antonio Maria Costa dell’Ufficio Onu per la droga e il crimine, tanto le agenzie delle Nazioni unite quanto decine di Stati Membri hanno imboccato una strada diversa: quella della flessibilità e interpretazione. IL giudizio di inammissibilità pare scritto nelle ore più buie della “guerra alla droga”. Pur avendo riconosciuto (a malincuore) che il quesito si riferiva anche alla cannabis e aver confermato la differenza tra “piante” e “sostanze”, la sentenza della Consulta insiste con gli obblighi internazionali. A niente sono valse le molte pagine delle memorie che hanno contestualizzato l’attuale regime di “controllo internazionale delle droghe” ricordando che Uruguay, Canada, Malta e 19 Stati Usa hanno radicalmente modificato le proprie leggi sulla cannabis senza uscire dai documenti internazionali. Per i giudici della Consulta l’Italia doveva esser difesa dalla normativa risultante dal referendum perché ci avrebbe fatto diventare uno Stato paria. Archiviati i Governi Berlusconi, l’Italia è stata uno degli agenti di questo mutato scenario internazionale accompagnando un approccio di segno diametralmente opposto a quanto rilanciato con la prima sessione speciale dell’Onu sulle droghe (Ungass) del 1998. Dal 2013 i governi italiani si sono conformati alle posizioni comuni europee mediando con i contrari - convincendo la Cina a non ri-tabellare la ketamina! - contribuendo significativamente alla buona riuscita della seconda Ungass. Ed è proprio nel 2016 che al Palazzo di Vetro si è codificato politicamente questo nuovo approccio nella sessione speciale dell’Onu sulle droghe che ha riaffermato che le Convenzioni prevedono flessibilità interpretative per adeguarsi al contesto nazionale prevalente. Oltre al mondo è cambiata anche la nostra legge sulle droghe: referendum, decreti incostituzionali, sentenze della Consulta, decreti legge, sentenze della Cassazione e della Corte costituzionale stessa, oltre a decine di assoluzioni anche recentissime, hanno progressivamente cambiato l’applicazione di norme che, a seguito della sentenza d’inammissibilità, corrono il rischio di non esser più modificabili per come previsto dalla Costituzione che consente al popolo sovrano di abrogare leggi o parti di esse. I giudici dedicano un terzo della sentenza a ricostruire il testo attuale della legge ma non riservano una riga alle recenti dinamiche del “sistema internazionale di controllo delle droghe”. La legge 309/90 non autorizza la ratifica della Convenzione del 1988 né la incorpora. La Consulta estende la previsione inserita nella Costituzione, esclusivamente per motivi tecnico-giuridici, anche a quelle norme che applicano impegni derivanti da Trattati internazionali. Nel definire il quesito è stata data prioritaria attenzione alle Convenzioni. Gli obblighi internazionali di vietare le coltivazioni di quanto inserito nelle tabelle per fini diversi da quelli medici o scientifici sono assolti nel Testo Unico dall’art. 26, non toccato dal referendum, che vieta la coltivazione (a eccezione della canapa industriale) per fini diversi da quelli medico-scientifici (autorizzabili dal Ministero della Salute). L’art. 28 rinvia “alle sanzioni penali e amministrative stabilite per la fabbricazione illecita delle sostanze stesse” chiunque coltivi in assenza di autorizzazione - “fabbricazione” e non “coltivazione”. Il quesito non toccava questi articoli consentendo di colpire penalmente la produzione di stupefacenti per quantità e industriosità a uso non personale. Convenzioni quindi rispettate. L’eliminazione della parola “coltiva” dal comma 1 dell’art. 73, in una lettura sistematica e vincolata al principio di tipicità, si risolveva nella depenalizzazione della sola coltivazione a uso personale di un numero limitato di quanto nelle tabelle I e II (tra cui foglia di coca e papavero) lasciando penalizzate le condotte necessarie a produrre sostanze stupefacenti (eroina, cocaina ma anche hashish) anche se destinate a uso personale. Anche la mera detenzione di piante, foglie e fiori, se a fini di spaccio, sarebbe rimasta sanzionabile penalmente. La rimozione dal comma 4 dell’art. 73 delle pene detentive per le condotte relative alle “droghe leggere” (tabelle II e IV) restava nell’ambito degli obblighi internazionali perché in linea con l’orientamento prevalente dell’Onu a partire da quanto affermato l’anno scorso dalla Giunta internazionale per gli stupefacenti (che sovrintende l’applicazione delle Convenzioni) che ha chiarito che “per le convenzioni solo i reati “gravi” dovrebbero essere passibili della pena dell’incarcerazione”. Già nel ‘90 nonostante la cannabis fosse nella tabella IV (della convenzione del ‘61) relativa a “sostanze più pericolose e soggette a controllo più rigido”, l’Italia interpretò flessibilmente le Convenzioni colpendo le condotte correlate con sanzioni minori. Nel 2020, infine, la Commissione droghe dell’Onu, col voto favorevole dell’Italia, ha rimosso la cannabis dalla summenzionata tabella IV. Il referendum adeguava la legge del 1990 alle mutate condizioni internazionali senza violare obblighi o Convenzioni. Flick: “Un reato arruolarsi da volontari in Ucraina. Legittime le armi a Kiev” di Eugenio Occorsio La Repubblica, 4 marzo 2022 Intervista all’ex presidente della Consulta: “Per i foreign fighter le pene sarebbero severe, evitabili solo se avessero il consenso del governo”. Giovanni Maria Flick, prestigioso costituzionalista, già presidente della Consulta e ministro della Giustizia, vuole vederci chiaro nel dedalo normativo da rispettare “nell’ora più buia” e la sua scrivania è sepolta da un’infinità di codici, leggi, decreti, a partire dalla Carta fondamentale. Professore, siamo in guerra? “No, stiamo aiutando un Paese a esercitare la legittima difesa. Non è un’operazione strettamente bellica. Il confine fra i due concetti è esattamente definito”. L’articolo 11 della Costituzione è rispettato? “Sì, perché non c’è un atto ostile contro uno Stato estero. Ci si muove nell’ambito di un trattato Nato, siamo al di fuori dell’ambito della guerra che dobbiamo ripudiare”. Come possiamo definire il contributo italiano? “Un intervento effettuato nell’ambito del Trattato Nato del 1949. Non c’è nessuna dichiarazione di guerra, che deve essere pronunciata dal presidente della Repubblica su deliberazione del Parlamento, il quale a sua volta conferisce al governo i poteri necessari. In ogni caso, bene ha fatto Draghi a esplicitare la natura dell’intervento e le sue motivazioni di fronte a Camera e Senato. È stata una manifestazione di correttezza istituzionale. Per di più i relativi decreti, emessi in condizioni di straordinarie necessità e urgenza, saranno discussi ancora dal Parlamento”. Però ad essere sotto attacco non è uno Stato membro della Nato... “È sufficiente la minaccia esterna su un Paese confinante con l’organizzazione: Polonia e Romania, membri Nato, confinano con l’Ucraina. L’Italia sta interpretando correttamente la duplice portata dell’articolo 11 della Costituzione: limitare il male della guerra alle ipotesi di difesa legittima, e adempiere ai doveri di solidarietà e coesione che caratterizzano un trattato internazionale a favore della pace. Il patto atlantico è nato con questo fine. La risposta corale del Parlamento è la testimonianza più efficace ed è un passo significativo per lo sviluppo e il consolidamento dell’Unione europea. C’è un risveglio non solo economico con il NextGenEu, ma anche su sicurezza e solidarietà europea, come provano le iniziative a favore dei profughi”. Perché viene tenuta segreta la natura delle armi mandate? “È una prerogativa del governo trattandosi di materiale estremamente sensibile ai fini della sicurezza nazionale. Anche qui è da rimarcare un’accortezza: i decreti sono stati due, il 25 e il 28 febbraio. Nel primo si faceva un riferimento un po’ ambiguo ad “armi non letali”, dizione corretta con “armi” nel secondo: era inopportuno insistere sull’equivoco del carattere “non letale”“. Ma i “freedom fighter” che partono alla ventura per l’Ucraina commettono un reato? “In sostanza sì, a meno che non abbiano l’approvazione del governo. La materia è regolata da molte norme. Intanto l’articolo 18 della Costituzione prevede che i cittadini abbiano diritto di associarsi liberamente purché per fini non vietati dalla legge penale. Specifica che sono proibite le associazioni che perseguono scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare. E il Codice Penale prevede la punizione di chi fa arruolamenti o compie atti ostili verso uno Stato estero con pene da 6 a 18 anni, ma fino all’ergastolo se poi qualcuno attacca per ritorsione l’Italia. C’è anche la legge 210 del 1995, che attuava una convenzione dell’Onu e punisce tanto il mercenario quanto chi lo recluta con pene fino a 14 anni. L’arruolamento infine è punito dall’articolo 270 quater del Codice Penale, introdotto nel 1995 con riferimento alle finalità di terrorismo”. Così in Europa si scatenano i cavalieri dell’Apocalisse di Liliana Segre La Stampa, 4 marzo 2022 In giornate come queste ultime, le televisioni e i giornali ci riportano a qualcosa che non avremmo neanche immaginato lontanamente in Europa. Non avremmo immaginato di sentire così vicino a noi il rombo di cannoni, le case distrutte, le persone che piangono e muoiono. Io ho pensato ai quattro cavalieri dell’apocalisse perché, mi chiedo, cosa ci manca ancora? La pandemia l’abbiamo avuta, la guerra, l’odio, la morte, la fame. Purtroppo io sono fra i pochi ancora al mondo per cui i Giusti non sono solo delle figure storicamente importanti ma sono persone di cui ricordo le voci, i visi, il vestito modesto, l’atteggiamento tranquillo nella paura, perché si veniva uccisi e fucilati se si aiutava o nascondeva un ebreo. Anche una ragazzina come ero io all’epoca, una ragazzina abbastanza incredula in merito a quello che stava succedendo, impreparata alla tragedia. Quando ho cominciato a sentir parlare di Giusti erano passati troppi anni. Loro erano nelle menti e nei cuori di chi aveva avuto vicino pochi giusti e molti ingiusti. Ci sono stati però quei pochissimi che fecero la scelta, che non furono indifferenti, quelli che non si possono mai dimenticare, per i quali non basta una lapide, un ritratto della loro vita perché erano persone semplicissime. Non erano solo i grandi eroi che passano alla storia, erano anzi e soprattutto persone che, se non ci fossi io qui a ricordarle personalmente, quelle tre o quattro persone sarebbero sparite dalla storia come tanti altri, uguali a quelli che si voltarono dall’altra parte. Invece per quelli che non si voltarono dall’altra parte è giusto che ci sia un giardino fiorito nel mondo per non dimenticarli. Io ho personalmente avuto una grave colpa: non ho capito sul momento in cui venivo aiutata dai Giusti quanto questi rischiassero e quanto fossero Giusti. Ero abituata a vivere tra i Giusti, era quasi normale per me che amici e persone vicine si comportassero così. Quindi non ho fatto il mio dovere fino in fondo, non ho mostrato quella gratitudine che poi negli anni ho capito, ho compreso, ho valutato e santificato perché aiutare a quei tempi era un atto di eroismo. In quel momento non l’ho capito ma la mia lunga vita ha fatto sì che non li abbia mai dimenticati. Se l’Ue protegge la fuga dei profughi di Emma Bonino La Stampa, 4 marzo 2022 L’onda di rifugiati che accompagna ogni guerra sta arrivando anche dall’Ucraina. Alcuni dicono che si tratti di un milione di persone, altri ottocentomila, altri dicono che in Italia stanno arrivando mille persone al giorno che si aggiungono alla comunità ucraina in Italia che è la più grande, 240 mila persone di cui l’80% donne. Non è importante avere le cifre esatte, sappiamo che sono una marea. Da giorni noi di +Europa e la rete Erostraniero avevamo chiesto al governo di attivare una procedura europea, la direttiva 55 per la protezione temporanea che non è mai stata applicata né attuata prima d’ora, anche perché la Danimarca non l’aveva ratificata. E’ un dispositivo eccezionale che prevede la protezione temporanea in caso di un arrivo massiccio di stranieri che non possono rientrare nel loro Paese per guerre, violenza, violazione dei diritti umani in modo che ci sia un equilibrio dello sforzo dei Paesi membri. Verrà attuata in tutti gli stati dell’Ue quando il consiglio avrà deliberato l’arrivo massiccio di sfollati. Il governo italiano ha approvato martedì la risoluzione di maggioranza che chiede l’applicazione della direttiva 55. Mi resta il dubbio se la protezione temporanea si applica solo agli ucraini o anche a tutti quelli che erano sul territorio ucraino e stanno raggiungendo le varie frontiere. La ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, chiarirà questo dubbio. Alle persone ammesse alla protezione temporanea sono accordati i diritti previsti in caso di immigrazione legale, possono esercitare attività di lavoro subordinato o autonomo, partecipare ad attività di studio per adulti, alla formazione professionale e a esperienze pratiche sul posto di lavoro. Hanno il diritto ad avere abitazione adeguata, a ricevere assistenza sociale, contributi al sostentamento qualora non dispongano delle risorse necessarie, e di cure mediche. I minori con età inferiore ai 18 anni possono accedere al sistema educativo alla pari dei cittadini dello Stato ricevente, i componenti di una stessa famiglia separati ammessi alla protezione temporanea devono beneficiare del ricongiungimento familiare in un unico Stato membro. Questo è quanto prevede la direttiva approvata nel 2001 superando anche la resistenza di alcuni Stati membri. L’Italia l’ha ratificata nel 2003. È la prima volta che l’Ue intende applicare questa direttiva che, se applicata bene, dovrebbe dare una struttura più ordinata a questo mega esodo. È una novità molto importante fra le tante che stanno segnando l’attività dell’Ue dallo scoppio della pandemia in poi. Ed è uno dei tanti strumenti che la comunità internazionale sta applicando in queste ore, un segnale di una forte mobilitazione in tutto il mondo. Il procuratore della Corte penale internazionale, per esempio, ha deciso di aprire un’inchiesta sui crimini di guerra. È importante che tutto questo avvenga anche per non dimenticare le migliaia di rifugiati che Lukashenko ha portato dalla Bielorussia fino al confine con la Polonia, che sono stati accolti con gli idranti dalla polizia e lasciati al freddo. Che fine hanno fatto? Erano senza scarpe, senza coperte, senza medicine, senza acqua e senza cibo. Ci sono stati bambini morti di congelamento nell’Europa del 2021. Dove sono ora? Abbiamo l’abitudine di farci trasportare dall’emozione e di passare rapidamente da una tragedia all’altra. Nessuno ricorda chi è scappato dall’Afghanistan, dalla Siria, dalla Libia. Spero che stavolta non sia così, stiamo lavorando in tanti su questo. L’8 marzo ho invitato Sharazad Akbar, già ministro delle donne e dei diritti umani prima dell’arrivo dei talebani proprio per evitare che la tragedia afghana sia dimenticata. Spero che la direttiva 55 sia applicata e che funzioni. In questo modo potrà essere accolta con procedure meno difficili l’ondata di rifugiati che persino Salvini considera veri. Anche se non si sa chi gli dia il diritto di decidere chi è un rifugiato vero e chi è falso. Permessi di un anno anche ai non ucraini, vinta la resistenza dei Paesi di Visegrad di Claudio Tito La Repubblica, 4 marzo 2022 Al Consiglio europeo dei ministri degli Interni la Francia media con i sovranisti: accoglienza solo per gli “stabilmente residenti”. Non siglare un accordo sarebbe stato uno schiaffo. In considerazione delle ultime previsioni sul numero dei profughi ucraini: otto milioni. Una cifra-monstre. Alla fine, allora, l’intesa in Europa si trova, all’unanimità. Anche i Paesi sovranisti di Visegrad l’hanno accettata. Verrà attivata la direttiva sulla protezione temporanea. È la prima volta nella storia dell’Ue. Tutte le persone “stabilmente residenti” in Ucraina verranno considerate rifugiati per almeno un anno. E quindi potranno circolare in Europa e godere di assistenza. E in quello “stabilmente residenti” si concentra la mediazione che ha permesso di dare il via libera alla direttiva. Il consiglio europeo dei ministri degli Interni, infatti, ieri era partito in salita. Basti pensare che la stessa commissaria agli Affari interni, la svedese Ylva Johansson, aveva avvertito prima della riunione che sarebbero serviti alcuni giorni per arrivare a un consenso unanime. In particolare i Paesi confinanti con l’Ucraina, ossia Polonia, Ungheria, Slovacchia e Romania, avevano bloccato la direttiva. Perché? Perché dai territori sotto attacco dei russi stanno scappando non solo cittadini ucraini ma anche gli immigrati che lavorano in quella nazione. Anzi, soprattutto Varsavia lamentava il fatto che fosse in corso un esodo - incoraggiato dalle autorità russe - dai Paesi del Medio Oriente e anche dall’Afghanistan di “rifugiati dell’ultima ora”. Il governo polacco, nella sostanza, non voleva ritrovarsi nei suoi confini anche immigrati che hanno colto l’occasione per entrare in Europa. Non solo. Polonia e Ungheria cercano di non trasformare questa crisi in un precedente che i Paesi dell’Europa meridionale, a cominciare dall’Italia, possano usare nel prossimo futuro per affrontare l’immigrazione dall’Africa. I dubbi del blocco dell’Est, però, sono stati inondati dalle critiche di tutti gli altri. In primo luogo sul piano politico: una spaccatura sui profughi avrebbe rotto l’unità che l’Ue aveva dimostrato finora. In secondo luogo, era tecnicamente complicato distinguere, in presenza di una guerra, l’origine dei rifugiati. La presidenza francese ha quindi escogitato una doppia via d’uscita. La prima: ai profughi potrà essere applicata sia la direttiva sia una normativa nazionale purché non in contrasto con la normativa europea. Il che vuol dire che i singoli Paesi stabiliranno che tipo di assistenza fornire. E quindi ogni sfollato deciderà dove andare. Probabilmente preferendo Italia, Germania o Francia. La seconda e più importante: la protezione non si applica a chi si trovava “temporaneamente” in Ucraina. Quindi con un permesso di breve durata o per studio. Insomma, i rifugiati last minute sono esclusi. La stessa commissaria Johansson parla di decisione “storica”. Palazzo Chigi la definisce una risposta “pronta, rapida, solidale e unita”. “Un ottimo risultato” per la ministra dell’Interno Lamorgese. Il punto cruciale è che il visto per rifugiati consente di circolare liberamente nell’Unione. I governi di Varsavia e Budapest, oggettivamente sotto pressione in questa fase, avevano immaginato di lasciare la disciplina ordinaria che prevede novanta giorni di validità del permesso. Con l’obiettivo di veder partire subito, per evitare lo scadere del visto, gli ucraini dai loro confini verso gli altri Paesi (in particolare Germania e Italia) per ricongiungimento familiare. In Italia, ad esempio, risiedono più di 250mila ucraini. E in più avrebbero potuto mantenere, nei prossimi giorni, la loro posizione contraria al nuovo Patto su asilo e migranti. Questa soluzione, inoltre, accantona l’ipotesi studiata nei giorni scorsi di una redistribuzione effettiva dei profughi secondo le percentuali stabilite dal bilancio europeo. Una soluzione che avrebbe costituito un altro precedente pericoloso per i governi sovranisti dell’Est Europa. E nel frattempo sono stati avviati contatti con Londra affinché anche la Gran Bretagna assuma una posizione analoga a quella dell’Unione. Certo, nessuno può pensare che questa direttiva risolva tutti i problemi. Con 8 milioni di sfollati in transito le difficoltà saranno crescenti. Ne è consapevole la commissaria Johansson: “Non siamo certo ingenui, ma siamo preparati”. Libia, Egitto, Siria. La guerra ha già superato i confini dell’Ucraina di Guido Rampoldi Il Domani, 4 marzo 2022 La guerra dell’Ucraina è molto più larga dell’Ucraina. Un primo segnale di sommovimenti che si profilano fuori dall’Europa arriva da un paese nostro dirimpettaio, la Libia. Attraverso il suo ministro degli Esteri, il governo di Tripoli ha convocato il diplomatico che rappresenta il presidente Abdel Fattah al Sisi e gli ha chiesto conto di dichiarazioni rese da alcuni media vicini al regime egiziano. Dichiarazioni tutte convergenti su una semplice tesi: la Libia sta all’Egitto come l’Ucraina sta alla Russia, perché non dovremmo profittarne e invadere il nostro vicino per sottrargli qualcosa (presumibilmente l’est petrolifero)? Tripoli non si sarebbe così allarmata se il primo a suggerire di mandare l’esercito a fare shopping di territori oltreconfine non fosse stato Amr Adi, popolarissimo presentatore televisivo. Non esattamente un genio (ha suscitato un vespaio con una tirata in tv contro le mogli che non servono docilmente il marito: “a che scopo sposarsi, altrimenti?”). Ma forse anche per questo limite, o per questa qualità, è assai vicino ai servizi segreti egiziani. Il sospetto è che al Sisi lo usi per sondare la reazione dell’opinione pubblica all’idea di una guerricciola in Libia. I timori libici - Il momento sarebbe favorevole per l’Egitto. Torna a crescere la frizione tra un ovest caotico, con capitale Tripoli, e un est controllato dal generale Kalifa Haftar. Costui governa con l’assassinio e le camere di tortura. È assai impopolare ma ha dalla sua milizie salafite, ex militari di Gheddafi e soprattutto apporti stranieri: droni cinesi offerti dagli Emirati arabi, consiglieri e intelligence egiziani, le migliaia di irregolari russi inquadrati nel Gruppo Wagner. Formalmente un’agenzia privata, di fatto un’emanazione di Mosca, quelli della Wagner sono noti per l’abitudine di non fare prigionieri. Dopo averli utilizzati in Siria e in Libia Putin potrebbe spostarne buona parte in Ucraina. Ma neppure questo acquieterebbe le apprensioni libiche. Che hanno una doppia origine. Rivolta del pane - Da una parte, il forte aumento del prezzo del grano, il principale indicatore di instabilità nella regione: non a caso diverse “primavere arabe” sono nate come “rivolte del pane”. E anche per questo in Egitto il pane è un genere sovvenzionato largamente dal 1941 (oggi il costo di una pagnotta equivale grossomodo alla nona parte del costo di produzione). Un innalzamento dei prezzi è considerate un attentato al contratto sociale, e la piazza, come è già accaduto in passato, reagisce con rabbia. Ma ora accade che i futures sul frumento siano aumentati della metà dal 2 febbraio e la loro ascesa non si fermi, ieri viaggiavano intorno a un +7 per cento sul mercato americano; inoltre sui prezzi al minuto pesa anche l’aumento del petrolio, che si riflette sui costi di trasporto fino ai mercati locali, e in prospettiva l’aumento dei fertilizzanti, se derivati dagli idrocarburi. Tutto questo inciderà tragicamente sulle vite di 276 milioni di esseri umani già ora alla fame in 81 nazioni, prevedono analisti del World food program. Ma in Egitto, che da solo assomma a più di 100 milioni di abitanti, la crisi alimentare metterà a rischio la stessa sopravvivenza del regime. Il paese è il più grande importatore al mondo di grano, che per il 60/80 per cento riceve (o meglio, riceveva fino alla settimana scorsa) da Russia e Ucraina. Se non fosse in grado di calmierare il prezzo dei generi alimentari, come altro la casta militare potrebbe nascondere inefficienze, ruberie, violenze brutali, se non con una guerra vittoriosa? E quale preda più facile che la Libia, stato fallito, in pezzi, quasi inerme? I regimi arabi - Tipica di ogni dittatura, la tentazione di lanciarsi in avventure belliche per risolvere difficoltà interne crescerebbe se Mosca vincesse la guerra dell’Ucraina, In quel caso i primi a saltare sul carro del vincitore sarebbero regimi arabi che da tempo dubitano della capacità di leadership degli Stati Uniti. Tra questi ci sono i soci di Putin nella scommessa libica: l’Egitto e gli Emirati. Incalzati dagli occidentali, davanti alla guerra in Ucraina emiratini ed egiziani hanno mantenuto un atteggiamento ambiguo. Durante l’assemblea generale dell’Onu entrambi hanno votato la mozione che “deplora” l’invasione russa. Ma in precedenza gli emiratini avevano spalleggiato i russi in Consiglio di sicurezza, e gli egiziani mantengono contatti permanenti con Mosca. Temendo soprattutto il Fondo monetario, il Cairo evita di irritare gli americani. Ma spera che Mosca rimpiazzi gli F-35 che l’amministrazione Biden nega, e confida di ottenere dalla russa Rosatom la tecnologia necessaria alla costruzione il reattore nucleare di Dabaa, costo preventivato 26 miliardi. Una volta che avesse il nucleare civile, l’Egitto avrebbe la possibilità di dotarsi del nucleare militare in tempo relativamente breve. Ovviamente ignora che se mai ci puntasse contro i suoi missili saremmo in grado di dissuaderlo con un fitto sventolio di bandierine pacifiste e predicozzi sull’immoralità della guerra, di quelli che suscitano applausi scroscianti nel pubblico dei talk show e dunque sono evidentemente irresistibili. La Siria - In ogni caso è probabile che nel futuro prossimo la storia ci obbligherà a misurarci con rischi finora assenti dal nostro orizzonte. L’Ucraina è molto più vicina di quanto indichi la geografia. È grande due volte l’Italia, 600mila chilometri quadrati contro 300mila. La sua dimensione al momento suggerisce che mai Putin riuscirà a soggiogarla. Ma anche se questo fosse l’esito, per un tempo forse non breve, sanguinoso e pieno di insidie dovremo affrontare altre crisi. Sarebbe saggio prepararsi, e magari giocare d’anticipo, senza essere sempre costretti a rincorrere gli eventi. Per esempio, converrebbe immaginare una soluzione che liberi la Libia orientale dal generale Haftar e dei suoi lanzichenecchi prima che tutti torni a precipitare nel caos. Anche la Siria, e non da adesso, è un problema europeo, non fosse altro perché cinque milioni di siriani sparsi tra Turchia ed Europa non potranno rimpatriare finché Assad e i suoi alleati, gli irregolari iraniani e russi, saranno padroni di Damasco. Tutto questo richiede un nuovo pensiero strategico. E magari una serietà che non è nell’antropologia della nostra classe dirigente. Come dimostrano certi deliri. La russofobia che riduce il conflitto a scontro etnico tra popoli, o peggio, tra la nostra civiltà e i barbari di Mosca. L’ottusità di chi vuol far passare qualsiasi pensiero divergente per intelligenza col nemico (curioso che a criticare Marc Innaro, eccellente corrispondente Rai da Mosca, siano gli stessi che fino a ieri spacciavano per “filo-occidentali” i satrapi arabi oggi pronti ad allearsi con lo zar di Mosca). Yemen. La guerra brutale che non fa notizia di Patrizia Caiffa agensir.it, 4 marzo 2022 Stanno aumentando negli ultimi mesi le vittime civili del conflitto nello Yemen, che da 7 anni oppone le milizie Houthi filoiraniane alla Coalizione governativa guidata dall’Arabia Saudita. I contendenti di entrambe le parti non risparmiano bambini, scuole, ospedali, mercati, prigioni. Un Paese al collasso, dove è in corso la più grave crisi umanitaria al mondo, con 20 milioni di persone che hanno bisogno di aiuti e 4 milioni di sfollati. A marzo si rischia che 8 milioni di persone rimangano senza cibo perché non è stato deciso il rifinanziamento degli aiuti internazionali. È una delle guerre più brutali al mondo. È la crisi umanitaria più grave al mondo. Eppure non fa (quasi) mai notizia. Negli ultimi mesi sta peggiorando ancora di più. Il conflitto nello Yemen tra i ribelli Houthi (Ansar Allah) appoggiati dall’Iran e la coalizione governativa guidata dall’Arabia Saudita dura oramai da 7 anni e si fa sempre più aspro e complesso. Aumentano le vittime civili e i bombardamenti su ospedali, scuole, mercati e carceri. Metà delle strutture sanitarie del Paese non funzionano più, mancano le medicine e il personale non riceve salari. 2500 scuole danneggiate, il 60% dei bambini non è tornato a studiare. Negli ultimi cinque anni, informa Save the children, più di 460 scuole sono state attaccate. Più di 2.500 gli istituti danneggiati, utilizzati come rifugi per le famiglie sfollate o occupate da gruppi armati, causando l’abbandono scolastico di 400.000 bambini. Il 60% dei bambini non è tornato a studiare. Aiuti umanitari, 8 milioni di persone rischiano di non ricevere più cibo. E c’è l’alto rischio che a marzo diminuiscano i contributi della comunità internazionale per gli aiuti umanitari: 8 milioni di persone potrebbero non ricevere più cibo o solo razioni ridotte, su un totale di 20 milioni che hanno bisogno di assistenza umanitaria, tra cui 4 milioni di sfollati (1 milione nel solo governatorato di Marib). Secondo le Nazioni Unite il piano umanitario 2021 per lo Yemen ha ricevuto 2,27 miliardi di dollari rispetto al suo fabbisogno di 3,85 miliardi di dollari, il livello di finanziamento più basso dal 2015. E non è stato ancora pubblicato il piano 2022. Troppe vittime civili, almeno 18.500. In 7 anni di guerra sono morte 370 mila persone, di cui il 40% sono vittime dirette del conflitto e il 60% indirette (incidenti stradali, parti, malnutrizione, patologie non curate, mancanza di farmaci, arrivo troppo tardivo negli ospedali). Altre stime contano 18.500 vittime civili, tra morti e feriti. Secondo i rapporti dell’Unicef, il numero di bambini uccisi nel mese di gennaio (17) è raddoppiato rispetto a dicembre 2021. L’ultimo grave episodio che ha coinvolto i civili yemeniti è avvenuto pochi giorni nell’area di Al-Jar, nel distretto settentrionale di Abs. Una bambina di 12 anni e una donna di 50 anni non ce l’hanno fatta: sono morte appena arrivate nell’ospedale di Abs, dove opera uno dei team di Medici senza frontiere. Insieme a loro sono stati ricoverate altre 10 persone ferite durante i bombardamenti nel governatorato di Hajja. L’organizzazione medico-umanitaria, attiva nel Paese dal 1986 e dal 2007 presente in 12 ospedali e 16 strutture sanitarie, registra un significativo aumento dei feriti, segno che stanno aumentando gli attacchi indiscriminati sulla popolazione inerme. A fine gennaio sono state contate almeno 82 vittime e almeno 266 feriti in seguito all’attacco aereo della Coalizione guidata dall’Arabia Saudita sulla prigione di Sa’ada. Già cinque volte sono stati colpiti ospedali gestiti e supportati da Msf. Federica Ferraresi, capomissione di Medici senza frontiere nello Yemen ha raccontato di “condizioni umanitarie sempre più drammatiche”: “Mancano l’acqua, la luce, il gas, il cibo, il carburante, i medicinali, le case. Non ci sono rifugi sicuri per i civili costretti a spostarsi più volte per la volatilità della linea del fronte. Le infrastrutture sono state distrutte o pesantemente danneggiate. Il sistema sanitario nazionale è al collasso”, come pure l’economia, con prezzi del cibo alle stelle e inflazione a due cifre. Rapimenti di operatori umanitari. Gli operatori umanitari ora devono fare i conti anche con i rapimenti: alcune settimane fa cinque membri dello staff delle Nazioni Unite in Yemen sono stati rapiti dalle milizie Houthi nella provincia di Abyan nel sud del Paese e si sta ancora trattando per il rilascio. Gli Stati Uniti e l’Onu hanno recentemente condannato tutti gli attacchi e chiesto una de-escalation del conflitto e il rispetto del diritto umanitario internazionale. L’amministrazione Biden riceve pressioni perché classifichi di nuovo gli Houthi come “organizzazione terroristica straniera”, qualifica rimossa un anno fa per tentare di avviare negoziati di pace. Ma i ribelli cominciano ad attaccare con droni e missili anche gli Emirati arabi uniti. Nel mese di gennaio hanno provocato tre morti ad Abu Dhabi. “Una vergogna internazionale”. “Quello che continua a succedere in Yemen, nel silenzio dei grandi decisori internazionali, è una vergogna che intacca il senso stesso di umanità”, ha commentato Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia: “Cosa aspetta la comunità internazionale a negoziare un immediato cessate il fuoco? A imporre alle parti in conflitto il rispetto del diritto internazionale umanitario, che prevede che non vengano colpiti i civili e le infrastrutture essenziali come scuole, ospedali e centrali idriche? Il popolo yemenita non può più aspettare una pace, che mese dopo mese, si allontana sempre di più”. Dal 2015 Oxfam ha soccorso oltre 3 milioni di yemeniti con voucher per l’acquisto di cibo, offerte di lavoro per la riabilitazione di infrastrutture idriche e stradali, servizi per prevenire abusi e violenze sulle donne e la diffusione della pandemia da Covid-19. Negli Stati Uniti 56 procuratori contro la pena capitale di Valerio Fioravanti Il Riformista, 4 marzo 2022 In una lettera aperta chiedono ai politici di affrontare le gravi storture dell’omicidio di Stato. Negli Stati Uniti il presidente Biden ha nominato la “quasi-prima” donna nera alla Corte Suprema, quell’organo molto importante, composto da giuristi (non giudici), tutti di nomina politica, che per noi italiani sarebbe in parte Corte Costituzionale e in parte Corte di Cassazione. Ketanji Brown Jackson, nel Paese che ha inventato il “politicamente corretto”, è probabilmente molto preparata (laureata con lode ad Harvard) ed equilibrata, ma al momento di lei sappiamo soprattutto che è stata scelta in quanto donna, e in quanto di colore. Prima di lei, la prima donna a entrare nella prestigiosa Corte era stata, nel 1981, Sandra Day O’Connor, bianca, bionda, con i capelli cotonati e reaganiana. Quanto al colore, il primo nero fu nominato nel 1967, Thurgood Marshall. Sonia Maria Sotomayor, nominata nel 2009, fu la prima donna “di colore”. Oggi precisano che Sotomayor, di genitori latino-americani, era sì “di colore”, ma “light brown” (tradotto letteralmente sarebbe marrone chiaro), mentre la Brown Jackson è “brown” tout court. Insomma, Biden, che ha nominato una viceministra alla Salute transgender, due donne a dirigere i servizi segreti, e un dirigente “gender fluid” (che era già stato consigliere di Trump) al Dipartimento Energia Nucleare, cerca di recuperare credibilità e consenso cavalcando i temi del genere e della razza. Vedremo se poi, oltre alla forma, le cose cambieranno anche nella sostanza. Come è noto, infatti, Biden sulle “cose concrete” sembra debole. Nessuno tocchi Caino segue, ad esempio, i lentissimi (a essere ottimisti) progressi dell’Amministrazione Biden sul tema della pena di morte. È di questi giorni la notizia che 56 “procuratori” hanno firmato una lettera aperta chiedendo ai politici di affrontare le gravi storture legate alla pena capitale: il basso quoziente intellettivo di molti condannati, le malattie mentali di cui sono spesso portatori, la loro povertà, “ignoranza”, emarginazione razziale e sociale. Storture talmente evidenti e talmente gravi che i procuratori chiedono ai politici quella che a loro sembra l’unica soluzione possibile: abolire la pretesa dello Stato di punire alcuni crimini uccidendo dei cittadini. Abbiamo messo “procuratori” tra virgolette, perché è un termine con cui abbiamo qualche familiarità attraverso i film e telefilm americani, ma non hanno un corrispettivo nel sistema giudiziario italiano. La “divisione delle carriere” che in Italia è un tabù, negli Stati Uniti è una norma: la pubblica accusa è rappresentata da un avvocato che si candida nella stessa tornata elettorale in cui viene scelto il governatore dello Stato, i sindaci delle città e capi della polizia (spesso chiamati sceriffi). Come per tutte le cariche sopra elencate, anche il procuratore farà campagna elettorale e dichiarerà la sua appartenenza a un partito politico. Ogni procuratore eletto assume per chiamata diretta degli aiutanti, che vengono tutti chiamati “vice-procuratori”. I procuratori-capo e i vice-procuratori non sono “magistrati” nel senso italiano del termine, sono laureati in legge e devono anche loro passare l’esame nazionale di abilitazione alla carriera forense, ma laurea ed esame di stato non garantiscono lo stipendio per tutta la vita, ma solo per quattro anni. Dopo quattro anni infatti dovranno ricandidarsi, o venire nuovamente scelti. Per scorrettezze procedurali si registrano decine di casi fanno di procuratori che vengono sanzionati, licenziati, a volte anche arrestati (non è rarissimo). E comunque, spesso, se non hanno performato adeguatamente, dopo 4 anni non vengono rieletti, e tornano a fare gli avvocati “normali”. Allora, 56 “procuratori capo” hanno preso posizione contro la pena di morte. Potrebbero sembrare pochi, visto che gli Usa sono suddivisi amministrativamente in 50 stati e 3.142 “contee”, ognuna con un suo procuratore capo. Ma la pena di morte non viene utilizzata in tutte le contee: diversi studi registrano che viene applicata “attivamente” solo nel 2% dei distretti. Pochi procuratori “garantisti” contrapposti, con cifre quasi identiche, a pochi procuratori “forcaioli”. In mezzo la stragrande maggioranza dei procuratori che, pur senza firmare lettere aperte ai legislatori, la pena di morte non la utilizzano. Ma i 56 procuratori comunque ci interessano, perché ci interessa il loro rapporto trasparente con la politica, e anche rispettoso delle rispettive prerogative. E poi, diciamo la verità, ci incuriosisce la figura del pubblico accusatore garantista. Qui da noi quelli che ci sono (perché ci sono) devono stare ben attenti a non farsi notare, sennò li fulminano.