Chi è Carlo Renoldi, nuovo capo del Dap, e cosa dovrà fare secondo il Terzo Settore di Luca Cereda Vita, 3 marzo 2022 Carlo Renoldi è un teorico del carcere “compatibile con la Costituzione”, come decenni invoca - e mette in pratica ogni giorno il Terzo settore “responsabile dell’ottanta per cento delle attività trattamenti e rieducative secondo Costituzione”, afferma Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti. Ha un nome il nuovo capo delle carceri - il Dap, ovvero il dipartimento amministrazione penitenziaria - scelto direttamente dalla ministra della Giustizia. Si chiama Carlo Renoldi, ha 53 anni, è originario di Cagliari, e in passato, è stato magistrato penale e poi di sorveglianza nella sua città. Magistrato che non ha mai cercato la ribalta mediatica, è poco noto fuori dalla cerchia interna alla categoria. Marta Cartabia per questo ha chiesto al Csm di mettere “fuori ruolo” Renoldi, oggi giudice della prima sezione penale della Cassazione. Tra i suoi riferimenti e maestri, Renoldi ha Alessandro Margara, che fu capo del Dap ed è passato alla storia perché trattava i detenuti come uomini con diritti, una rivoluzione allora anche se questo era scritto in calce nella Costituzione. Il suo era un “carcere dei diritti”. Sia dei detenuti, sia degli agenti. La sua nomina è in continuità sia con gli orientamenti della Corte Costituzionale in materia di carcere, a partire dalla recente ordinanza che ha dichiarato incostituzionale il carcere duro senza benefici per i condannati ostativi - 41 bis - che non hanno collaborato con la giustizia, ma anche con la linea della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, sulla funzione riabilitativa del carcere. “Sono per un carcere costituzionalmente compatibile. Un carcere dei diritti, in cui però siano garantite le condizioni di sicurezza”, ha scritto recentemente lo stesso Renoldi. “Non serve un “superuomo”, ma un gruppo che giochi di squadra” - “Un uomo solo al comando non basta, e non serve. Da parte di Renoldi, ma soprattutto della Ministra Cartabia, occorre un passo avanti verso il Terzo settore: qualcuno deve iniziare a prendere atto del fatto che l’80 per cento delle attività trattamentali e rieducative in carcere sono fatte dal mondo del volontariato e delle cooperative sociali. Questo è il mandato costituzionale primo, e quello più disatteso, ancora di più in tempo di pandemia”, ragiona Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti. Che aggiunge: “Speriamo venga fatto un gruppo operativo, non l’ennesima commissione. Si deve mediare con le diverse componenti del carcere, anche con la Polizia penitenziaria. Dobbiamo superare il clima autarchia carceraria di questi anni, che lo isola ancora di più: bisogna mettere in campo le forze che conoscono il carcere e sanno di cosa ha bisogno per cambiare, e che si mettono a disposizione. A partire dai volontari delle associazioni e dagli operatori delle cooperative sociali”, aggiunge Favero. Tra i “rischi” di questo incarico per Renoldi, c’è l’eventuale scadenza naturale di questa XVIII legislatura della Repubblica Italiana. Tra meno di un anno. “Come Terzo settore sappiamo le difficoltà a cui andrà incontro. Difficoltà in cui riversa il sistema carcere e non per via della pandemia, ma già da prima. I capi del Dap devono considerarsi dei “curatori fallimentari”, così Draghi e Cartabia hanno definito il carcere a Santa Maria Capua Vetere, un fallimento. Da curatore fallimentare deve vedere cosa c’è di positivo, preservarlo e valorizzare e poi lavorare sull’eliminazione di quello che c’è di negativo. La nostra esperienza di Terzo settore, presente da più di trent’anni si mette a disposizione”, spiega Nicola Boscoletto, fondatore della cooperativa sociale Giotto e presidente del consorzio sociale Giotto di Padova. Il Terzo settore deve poter contare nel percorso rigenerativo del carcere - “Quando una persona mette una camicia sporca in lavatrice, si aspetta che esca più pulita. se la camicia esce più sporca non è colpa della camicia, ma della lavatrice. Ecco, il carcere lavatrice non funziona. Questa è un’eredità lunga. Non deve Renoldi pensare di essere responsabili per tutto. Ma, anche alla luce della riforma del Terzo settore che dà piene cittadinanza alla società civile anche in carcere, possiamo essere uno strumento - per volontà nostra e per responsabilità civile - utile per non dire fondamentale per ripensare il sistema”, chiosa con una metafora calcante Boscoletto a cui si aggiunge l’immagine di Favero: “I cittadini hanno protestato per il prolungamento pomeridiano dell’orario delle Poste, e non senza fatica, lo hanno ottenuto. Le carceri sono deserte da dopo le 15 del pomeriggio. E i detenuti non hanno la voce che hanno avuto i milioni di italiani con le Poste”. Il capo del Dap è chiamato ad essere anche quella voce, partendo “dagli affetti, dalle videochiamate alle telefonate quotidiane fino agli incontri in presenza. Sostenere gli affetti delle persone detenute, a partire dall’uso allargato al massimo delle tecnologie. Se a inizio lockdown fossero state subito messe in atto le misure per ampliare il numero delle telefonate, forse la paura e la rabbia sarebbero state più contenute, ma quello che non si può più cambiare ci deve però insegnare per il futuro, e il primo insegnamento è che, quando finirà l’emergenza, non vengano tagliate le uniche cose buone che la pandemia ha portato, il rafforzamento di tutte le forme di contatto della persona detenuta con la famiglia”, rilancia Ornella Favero. “Ha più un profilo da garante dei detenuti che da capo del Dap” - Il suo profilo considerato progressista e riformatore in tema di gestione del carcere, però, non convince i sindacati di polizia penitenziaria, visto che Renoldi assumerà anche il ruolo di capo del corpo. “Renoldi non dimentichi che dovrà rappresentare coloro che pressoché quotidianamente hanno a che fare con detenuti che mettono a repentaglio l’ordine e la sicurezza della sezione detentiva”, si legge in un comunicato del Sappe, “Per quello che ha detto nel passato, dunque, credo che Carlo Renoldi sarebbe più indicato per fare il garante dei detenuti che non il Capo del Corpo di Polizia Penitenziaria”. Calca la mano lo stesso Donato Capece, segretario generale di Sappe: “Oltre ad un lauto stipendio avrà anche una mega indennità come Capo del Corpo di Polizia Penitenziaria, ossia di coloro che in carcere sono in prima linea, spesso soli su quattro piani detentivi, con 300 detenuti da controllare, tra i quali un buon dieci per cento psicopatici, un altro trenta per cento extracomunitari e un trenta per cento tossicodipendenti”. Le posizioni sull’antimafia - A rendere quantomeno divisivo il profilo di Renoldi, ci sono anche le sue prese di posizione, oltre che sul tema dell’ergastolo ostativo, sul tema dell’antimafia e della gestione del carcere. In un convegno nel capoluogo toscano nel 2020, ha parlato della sua idea di Dap, spiegando che “che in questi anni è rimasto profondamente ostile a quegli istituti che tentano di varare una nuova stagione di diritti “giustiziabili” per le persone detenute. Un atteggiamento miope di alcune sigle sindacali che declinano ancora la loro nobile funzione in una chiave microcorporativa”. Nella stessa sede è stato molto critico anche su alcune posizioni interne all’antimafia in materia di carcere: “Pensiamo all’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri, che certamente è giusto celebrare, ma che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile, dimenticando ancora una volta che la prima vera azione di contrasto nei confronti delle mafie, cioè l’affermazione della legalità, non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti”. Necessità future e bisogni contingenti del carcere - “Bisogna mappare le esperienze di giustizia riparativa realizzate negli istituti penitenziari, a cominciare dai percorsi di autentica rieducazione in cui famigliari di vittime di reati, come Agnese Moro, Fiammetta Borsellino, Silvia Giralucci accettano di entrare in carcere e di aprire un dialogo con le persone detenute, come già si è sperimentato a Padova. Perché questi conflitti, affrontati solo con rapporti disciplinari, perdita della liberazione anticipata, trasferimenti, alla fine allungano la carcerazione delle persone punite e non affrontano affatto il tema cruciale, che è quello della difficoltà a controllare l’aggressività e la violenza nei propri comportamenti”, spiega Favero che come presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti ha scritto recentemente alla ministra Cartabia un decalogo di iniziative su cui lavorare insieme in carcere perché “un uomo solo al comando” delle carceri non basta. Tuttavia, il rischio è che l’inattesa nomina del nuovo capo del Dap Renoldi crei nuovi ostacoli politici all’approvazione del ddl. Il testo e la nomina del relatore - il presidente del M5S della commissione Giustizia, Mario Perantoni - sono stati votati da tutti i partiti della maggioranza e anche da Fratelli d’Italia. Questa larga convergenza, però, potrebbe guastarsi proprio in seguito alla scelta di Renoldi. Anche il detenuto è una persona di Valter Vecellio lindro.it, 3 marzo 2022 Cartabia invia al Consiglio Superiore della Magistratura la richiesta per mettere fuori ruolo il giudice della Cassazione ed ex magistrato di sorveglianza a Cagliari Carlo Renoldi. Lo vuole mettere a capo del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, dopo le dimissioni, per ragioni di famiglia, di Bernardo Petralia. Renoldi ha come punto di riferimento ideale il compianto Alessandro Margara: personalità stimata dall’intera comunità penitenziaria per aver impresso una svolta nella concezione del carcere. Concezione da Cartabia condivisa fin da quando era giudice della Corte Costituzionale. Una scelta all’insegna di un più volte ribadito rispetto del garantismo e dei diritti costituzionalmente garantiti. Cartabia ha soppesato con attenzione il curriculum di Renoldi: la sua concezione del carcere, le sentenze emesse, le affermazioni pubbliche; e ha valutato il “dossier” come pienamente rispondente a quell’idea di un carcere dal volto umano che lei stessa ha raccontato innumerevoli interviste e interventi, sia da presidente della Consulta che da Guardasigilli. Renoldi: 53 anni, cagliaritano, esperienze come giudice penale e magistrato di sorveglianza. Componente dell’ufficio legislativo di via Arenula che nel 2013 contribuisce a risolvere il caso Torreggiani, quando la Corte dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per il trattamento disumano dei detenuti. Esperienze nell’ufficio studi del Csm, infine la Suprema corte. Si definisce di sinistra, appartiene alla corrente di “Magistratura democratica”, ma è iscritto anche ad “Area”. Sicuramente Cartabia ha spulciato con attenzione anche i suoi articoli e saggi: “La mafia è un problema sociale gravissimo, ma un giudice non può essere anti qualcosa, anche un mafioso ha diritto a un processo giusto”; oppure: “Sono per un carcere costituzionalmente compatibile. Un carcere dei diritti, in cui però siano garantite le condizioni di sicurezza”. Quanto alle sentenze emesse sono in linea con le indicazioni della Consulta con le sentenze sui permessi premio e sulla liberazione condizionale del 2019 e 2021 che fanno cadere il presupposto rigido della collaborazione. In un dibattito del luglio 2020concorda totalmente con “le indubbie aperture della Corte che hanno riscritto l’ordinamento penitenziario”; critica “le spinte reattive di segno assolutamente opposto, anche rivendicate orgogliosamente oppure nascoste e carsiche, anche abbastanza trasversali, che convergono sinistramente”; spinte che riguardano “alcuni ambienti dell’antimafia militante, settori dell’associazionismo giudiziario, nonché quella parte della magistratura di sorveglianza ostile ai diritti dei detenuti”. Si capisce che questa scelta sia andata di traverso a molti. E infatti… Bordate sono subito giunte da Lega e Movimento 5 Stelle. La “colpa” imputata a Renoldi, in estrema sintesi. È di essere “troppo garantista”. Ora si può essere “garantisti” o non esserlo; ma esserlo “troppo” è qualcosa che si fatica a comprendere. A giudizio dei critici, il “troppo garantismo” consiste nell’aver espresso posizioni “troppo solidali” con la condizione dei detenuti, e a volte critiche nei confronti dell’operato degli agenti. L’ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone (Lega), vede con sospetto e diffidenza l’appartenenza a Magistratura democratica. Singolare la presa di posizione assunta da Giulia Buongiorno, reazione della responsabile Giustizia della Lega: manifesta preoccupazione per la scelta, in particolare “desta…affidare un incarico così delicato, anche per il messaggio che ne deriva, a chi ha assunto posizioni, anche pubblicamente, che hanno sollevato un vespaio di polemiche nel fronte dell’Antimafia”. Il M5S è invece allarmato perché Renoldi è troppo favorevole alle garanzie. Sembra essere una colpa (“troppa”?) l’ispirarsi all’insegnamento di Margara, l’ispiratore della riforma penitenziaria e teorico del trattamento dei detenuti come persone. Salvatore Borsellino: “Renoldi al Dap? L’ultima cambiale della Trattativa” di Giuseppe Lo Bianco Il Fatto Quotidiano, 3 marzo 2022 “È dichiaratamente ostile alla conservazione del 41-bis come strumento necessario per la salvaguardia della società tutta dal perpetuarsi del potere decisionale dei capimafia detenuti”. La proposta del ministro Cartabia per il Dap? “A 30 anni dalle stragi sembra che si stiano pagando le ultime cambiali della trattativa Stato-mafia, siamo al redde rationem”, va giù duro Salvatore Borsellino, che aggiunge: “A Falcone e mio fratello hanno dedicato una moneta da 2 euro, dovevano dedicargli 30 denari”. Chiaro il riferimento al prezzo di Giuda, metafora del tradimento, “proprio nel trentennale, dell’eredità costituita dal patrimonio normativo che ci hanno lasciato Falcone e Borsellino”. Ingegnere Borsellino, al Dap il ministro Cartabia propone un magistrato che esorta il dibattito pubblico ad abbandonare il principio della “centralità della vittima”, giudicato “schiettamente conservatore”. Lei che ne pensa? Che siamo arrivati al “liberi tutti”. Che facciamo? Abbandoniamo la centralità della vittima per abbracciare la centralità dei criminali? Sono concetti che si commentano da soli. Renoldi sostiene inoltre che in questi anni l’antimafia militante si è “arroccata nel culto dei martiri”, considerando i boss mafiosi come irriducibili… È una frase vergognosa, prendiamo tristemente atto che, per Renoldi, lo studio nelle scuole del contributo di uomini come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone è portare avanti il “culto dei martiri”. A questo punto vorrei sapere se il ministro conosceva queste frasi che rasentano l’ignominia prima di proporre la nomina. Perché, secondo lei, la nomina è inopportuna? Perché Renoldi è colui che è dichiaratamente ostile alla conservazione del 41-bis come strumento necessario per la salvaguardia della società tutta dal perpetuarsi del potere decisionale dei capimafia detenuti, i quali, prima dell’avvento del 41-bis, continuavano a comandare e a ordinare omicidi dal carcere. Prendiamo altresì atto che, per Renoldi, la pluridecennale giurisprudenza in materia di reati mafiosi, secondo cui l’affiliato rimane irriducibilmente mafioso fino alla sua morte o alla sua collaborazione con la giustizia, è sbagliata; ma, soprattutto, prendiamo tristemente e rabbiosamente atto che, per Renoldi, il legislatore non deve mettere al centro del suo operato la difesa della vittima. Evidentemente non è sufficiente che (giustamente, sia chiaro) Nessuno tocchi Caino, si deve anche mandare a morte Abele. In una lettera al Guardasigilli il nuovo capo (in predicato) del Dap fa una parziale marcia indietro, riconfermando tra l’altro l’importanza del 41-bis… Per me resta evidente il significato irridente di quelle frasi, non saranno i suoi equilibrismi verbali a modificare il senso di quelle parole. Sono ritrattazioni tardive e inaccettabili. Lei è da sempre critico nei confronti della riforma della giustizia varata dalla Cartabia. Perché? Neanche Berlusconi era riuscito a fare queste cose che l’Europa neanche ci ha chiesto, era troppo concentrato sulle leggi ad personam. Che cosa chiederebbe oggi al Guardasigilli? Le chiederei qual è il messaggio che hanno deciso di mandare ai cittadini italiani. Vogliono forse comunicare che con la mafia si deve convivere? Hanno deciso di abiurare al loro giuramento di difendere i cittadini dal cancro mafioso? Se fosse così, pretendiamo che il governo e la ministra Cartabia si assumano la responsabilità di dichiararlo esplicitamente agli italiani e, soprattutto, alle vittime di mafia e ai loro familiari. Il ministro deve dire chiaramente che si sta tornando indietro di decenni. Ora che il Guardasigilli si appresta a varare la nomina del nuovo capo del Dap, osteggiata da M5S e Lega, mentre Camera e Senato dovranno rimodulare entro maggio l’ergastolo ostativo seguendo le indicazioni della Consulta, l’auspicio di Maria Falcone è che sulla nomina al Dap “non si arretri di un millimetro” e che “alle dichiarazioni seguano i fatti e che le istituzioni e la politica siano coerenti e dimostrino con azioni concrete il loro impegno contro le mafie”. Qual è il suo? Mi auguro che il Parlamento non distrugga il patrimonio normativo lasciato da Falcone e Borsellino decretando un definitivo “liberi tutti”. Sull’ergastolo ostativo vince il ricatto dell’antimafia di Errico Novi Il Dubbio, 3 marzo 2022 Più che una difesa d’ufficio, il discorso pronunciato da Walter Verini due giorni fa, a Montecitorio, sulla legge che riforma l’ergastolo ostativo è l’ammissione di una difficoltà estrema. Nessuno poteva realisticamente aspettarsi, sull’ergastolo ostativo, uno slancio garantista incondizionato. Nessuno poteva illudersi che l’attuale Parlamento concepisse una legge davvero illuminata. E infatti il testo condiviso dalla commissione Giustizia, sul quale di qui a qualche ora arriverà il via libera dell’aula di Montecitorio, è una trincea piena di ostacoli per il condannato “non collaborante”. Lo ha ricordato ieri, in un’intervista al Dubbio, la deputata del Pd Enza Bruno Bossio, tra i pochi che, nell’esame in commissione, abbiano avuto il coraggio di difendere davvero i princìpi dettati dalla Consulta. Perché, va ricordato, la legge sull’ostativo è la conseguenza di una pronuncia, la numero 97 dello scorso anno, con cui la Corte costituzionale ha spiegato che non è legittimo considerare la collaborazione con la giustizia come la sola via a disposizione di un ergastolano condannato per reati ostativi che voglia accedere al più importante dei benefici, la liberazione condizionale. Certo, il giudice delle leggi ha chiesto al Parlamento di eliminare il pregiudizio assoluto tuttora previsto, per chi non collabora, dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario senza però compromettere la sicurezza collettiva. Ma nel testo si legge la volontà di alzare vere e proprie barricate sul ritorno alla libertà del detenuto di mafia. È da lui, da chi è stato per trent’anni recluso quasi sempre in regime di 41 bis, che si pretendono prove in grado di escludere residui collegamenti con l’organizzazione o il rischio che vengano ripristinati. È vero d’altronde che, per la maggioranza attuale, un risultato diverso era di fatto impossibile. Si può legiferare se si è consapevoli che l’ossequio allo Stato di diritto verrebbe travisato un minuto dopo, dai pm antimafia e dal Fatto quotidiano, come un regalo alle cosche? Si può, ma è davvero molto difficile. E su quanto fosse difficile, ha offerto una testimonianza in fondo schietta Walter Verini, dirigente dem che ha esposto, due giorni fa in Aula, la posizione prevalente nel suo partito. Ha esordito così: “Diciamo subito che il testo è il frutto di un lavoro importante e impegnativo e per niente semplice”. Non può passare inosservato che ad Enza Bruno Bossio si sia data la possibilità di proporre una “relazione di minoranza”, in parallelo con l’intervento di Verini. Segno della prova non facile che il partito oggi di maggioranza relativa nel Paese si è trovato ad affrontare. “Il lavoro svolto raggiunge una sintesi, con un testo perfettibile certamente, ma in grado di tenere insieme i due princìpi segnalati dalla Corte costituzionale”, ha detto Verini. Che non ha taciuto delle sollecitazioni arrivate alla commissione affinché adottasse un impianto davvero garantista: “Le opinioni del professor Ruotolo, di Patrizio Gonnella di Antigone, del presidente Anm Santalucia, del professor Anastasia: alcune di queste personalità sono, secondo noi, punti di riferimento di grande spessore nel dibattito giuridico-costituzionale e in quello legato all’ordinamento penitenziario”, ha chiarito il deputato dem. Che ha aggiunto: “Sono critiche e questioni che meritano ascolto, anche se alcune, forse, viziate da una certa unilateralità. Ma probabilmente è giusto, perché analoga unilateralità può essere stata espressa da altre personalità con opinioni diverse e magari opposte”. Verini insomma ha reso l’idea della tenaglia in cui si sono trovati i deputati: da una parte la tesi di chi ha ben presenti gli insulti alla Costituzione consumati nel sistema e nell’ordinamento penitenziario, dall’altra gli irriducibili che vedono nello Stato di diritto un vile cedimento. Si poteva e doveva arrivare in Aula con una legge migliore di questa. Ma quanto avvenuto spiega benissimo come l’insinuazione dell’accusa di collaborazionismo in qualsiasi lampo garantista delle leggi antimafia sia ancora oggi uno dei più formidabili e violenti ricatti a cui si è costretti ad assistere nella politica giudiziaria. Una pena senza fine è una menomazione della dignità umana e della Costituzione di Maria Brucale Il Dubbio, 3 marzo 2022 Il 10 maggio la Corte costituzionale dovrà affrontare il tema spinoso dell’ammissibilità delle misure alternative al carcere per le persone condannate all’ergastolo “ostativo”. Nella perdurante incapacità del legislatore di esprimere un testo coerente ai dettami della Consulta, quest’ultima dovrà, come sempre più spesso accade, disegnare un nuovo tessuto normativo poiché sul preesistente grava già un giudizio di incostituzionalità. Un compito assai difficile soprattutto in ragione dei numerosi rilievi mossi dalla Corte costituzionale alla legge vigente, art. 4 bis ord. pen., incoerente con la Carta costituzionale e con la Convenzione EDU perché determina, per alcuni ristretti, in ragione del titolo di reato, una preclusione assoluta alla restituzione in società a meno che non cedano alla pressione inquirente collaborando fattivamente all’attività investigativa dello Stato; una scelta finalmente riconosciuta come non libera se è la sola strada per aspirare alla libertà. Il Legislatore è chiamato a ragionare su un sistema complesso che tenga conto degli strumenti di contrasto alla criminalità organizzata e li preservi in un contemperamento costituzionale e convenzionalmente orientato con l’obbiettivo, cui ogni pena deve tendere, di accompagnare ogni condannato, per qualunque delitto, al reinserimento nel tessuto sociale. Dovrà, pertanto, mantenere in vita gli incentivi alla collaborazione con la giustizia elidendo il tratto che, ad oggi, li caratterizza: una sorta di ricatto di Stato che si traduce nella evidenza che o collabori o muori in carcere. Ancora: obiettivo del Parlamento, nelle statuizioni della Consulta, è una legge che disegni per il detenuto l’opportunità di accedere ai benefici premiali ove abbia dimostrato un distacco dal sodalizio di originaria appartenenza attraverso il proprio comportamento inframurario osservato e valutato dagli operatori a ciò preposti che hanno gli strumenti per constatare un mutamento e un’evoluzione che maturano nel tempo, sia con riguardo al ristretto sia nel suo contesto esterno, nel suo ambiente familiare d’origine. L’onere di allegazione richiesto al detenuto circa l’assenza di contatti e l’impossibilità di ripristino non può spingersi, però, fino alla richiesta di una prova positiva che apparirebbe impossibile e diabolica restando assegnato al magistrato o al tribunale di sorveglianza il dovere di verificare con i propri poteri istruttori la fondatezza delle prospettazioni del richiedente. Nel conformarsi alle richieste del giudice delle leggi, il Parlamento dovrà, ancora, valutare la differenza che incorre tra le tante e variegate fattispecie racchiuse nell’art. 4 bis ord. pen. delle quali soltanto alcune appaiono conciliabili con la presunzione, ora relativa, di connessione con sodalizi criminali in difetto di collaborazione con la giustizia. Infine, dovrà disciplinare l’accesso ai diversi momenti dell’offerta trattamentale caratterizzati dalla progressione nel reinserimento in società rifuggendo una situazione schizofrenica per la quale il detenuto potrebbe accedere al permesso, primo momento di apertura verso l’esterno, alla liberazione condizionale, ultimo e più esteso tassello del percorso di restituzione in società, restando ancorato all’obbligo di collaborazione utile con la giustizia per i benefici intermedi quali semilibertà, affidamento in prova, detenzione domiciliare. Ad oggi nulla è stato fatto che appaia coerente alla vocazione costituzionale della pena disegnata, pur tra paletti a volte troppo rigidi e limiti difficilmente valicabili, dalla Consulta. Ogni tentativo di produzione normativa, con pochissime eccezioni, ha visto lo sforzo ideativo orientato unicamente a resistere ai dettami della Corte costituzionale e Cedu attraverso la costruzione di meccanismi di verifica talmente capillari e irrealizzabili da disegnare uno sbarramento insuperabile per i ristretti per reati ostativi a qualunque aspirazione di recupero o di ritorno in libertà. Eppure è ormai cristallizzato il principio secondo cui una pena senza fine è una menomazione della dignità umana che, nelle parole della Corte Edu, nel caso Viola contro Italia: ‘è nel cuore del sistema istituito dalla Convenzione e impedisce la privazione della libertà di una persona con la coercizione senza allo stesso tempo lavorare per reintegrarla e per fornirle una possibilità di recuperare questa libertà un giorno’. Per questo l’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario deve essere rivisto, perché esclude da ogni aspettativa di reinserimento la persona reclusa che decida di non collaborare con la giustizia non per pulsione omertosa o pervicace appartenenza a circuiti criminali ma per mille ragioni diverse e legittime quali il timore per i propri cari; lo struggimento al pensiero di sradicarli dai loro contesti di vita, di lavoro, di affetti; la volontà di non autoaccusarsi di nuovi crimini, declinazione del diritto al silenzio, la professione della propria innocenza. Di carcere si muore quando manca la speranza, l’attesa e la proiezione di recupero, di restituzione. La società si incancrenisce di ogni vita non restituita. Non vanno certo sottovalutate le potenzialità aggressive di fenomeni criminali quale quello mafioso che trae sostanza della sua specificità dalla sua grave offensività, dal pericolo concreto per l’ordine pubblico che scaturisce da una capacità di insediamento nel tessuto sociale, nel commercio, nell’agroalimentare, nel turismo, in ogni settore, nella gestione dei rifiuti, nella sanità; dalle potenzialità di destabilizzazione degli equilibri, di destituzione, perfino, della potestà statale nel governo di realtà territoriali. E, ancora, dalla capacità di produrre consenso con l’esercizio di un potere che trae forza dalla disponibilità di ingenti somme di denaro da cui scaturiscono variegati fenomeni di corruttela che cementano nuove relazioni trasversali e aggregano in una zona grigia dove il confine tra legalità e illegalità è sempre più sfumato e meno marcato. Occorre, però, tenere presente un dato empirico incontestabile: non esiste più una mafia, ma ne esistono tante, come codificato dal legislatore quando ha introdotto nell’art. 416 bis c. p. organizzazioni aventi la stessa natura e le medesime caratterizzazioni comunque localmente denominate e le ‘ mafie straniere’; come verificato dai giudici di legittimità che, nel tempo, hanno affermato la possibilità di individuare ‘piccole mafie’ o ‘mafie silenti’ che dell’associazione mafiosa riproducono i tratti salienti. E, allo stesso modo, non esistono ‘i mafiosi’ ma uomini, persone, ciascuna con una irriproducibile identità di pensiero e di azione che mutano nel tempo e si rigenerano reattivamente secondo il vissuto e i condizionamenti che ciascuno attraversa, subisce, elabora. A ognuno deve essere conservata quella unicità che permette il superamento cosciente e critico dell’errore, anche il più grave, anche quello che sembra imperdonabile. Occorre, allora, abbandonare definitivamente un concetto anacronisticamente perdonistico e paternalistico di Stato e di giustizia e guardare all’uomo nella sua essenza di Caino e di Abele, due volti dello stesso individuo, di ogni individuo. Per tutti, per ciascuno, essere Speranza contro ogni speranza, secondo l’impeto di battaglia ideale di Marco Pannella fino alle sue ultime ore. A distanza di trent’anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio che hanno deturpato il volto della Nazione e disvelato un orrore di intollerabile ferocia occorre finalmente comprendere che al male non si risponde con il male, che ogni ferita è una ferita, che la vendetta è un sentimento vile e inutile che produce solo fango, che la retorica è retorica, quella antimafia come ogni altra, e ammanta di incensi l’inedia di quanti riposano sul facile approdo dell’eliminazione del reo, della sua esclusione, del suo abbandono che è rinuncia, resa, sconfitta. Si abbia il coraggio di onorare i nostri martiri chiedendo coralmente e a gran voce la vittoria di ciò per cui hanno sacrificato le loro vite: la punizione degli autori di reati di mafia, certo, ma non la rinuncia ai principi che informano e governano la nostra Costituzione che è espressione ideale e sofferta di resistenza allo stato etico per l’affermazione dello Stato di Diritto. *Avvocato, direttivo di Nessuno Tocchi Caino Santalucia (Anm): “Umanizzare la pena non vuol dire essere indulgenti con le mafie” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 marzo 2022 Nel vivo del dibattito sulla riforma del Csm, dell’ergastolo ostativo e dei referendum sulla giustizia, approfondiamo alcuni aspetti con il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. Presidente, in audizione avete illustrato la vostra contrarietà a diversi punti della riforma. Le pongo la domanda che le ha fatto anche il dem Verini in Commissione: qual è la vostra proposta concreta sul piano ordinamentale per mettere in atto quella rivoluzione etica auspicata più volte dal Capo dello Stato e della ministra? Il nostro non è un “no” alla riforma in generale, non vorrei che l’Anm venisse rappresentata come desiderosa di un immobilismo. In audizione abbiamo però indicato alcuni aspetti di criticità che possono essere risolti in sede parlamentare per consegnarci un testo migliore. In merito alla rivoluzione etica: essa non si rende percepibile in tempi brevi. Mentre in tempi brevi, purtroppo, si è demolita l’immagine della magistratura. In periodi necessariamente più lunghi si potrà apprezzare il nostro impegno per una rinnovata attenzione ai profili etici; noi non abbiamo delle ricette i cui effetti possano essere visibili dall’oggi al domani. È un percorso di riflessione già iniziato e avanzato all’interno dell’associazione. Oggi i comportamenti sono assolutamente diversi da quelli emersi nel cosiddetto scandalo Palamara e credo che sia già visibile agli attori politici: stiamo semplicemente partecipando al dibattito nel pieno rispetto delle Istituzioni senza indebite interferenze, come invece avvenuto impropriamente in passato da parte di una dirigenza associativa dalle cui storture abbiamo imparato. Il voto degli avvocati nei consigli giudiziari è un tema che interessa molto i nostri lettori. La vice presidente dell’Anm Maddalena ha bocciato la proposta del Pd, fatta propria dalla ministra, di prevedere il voto del Coa, perché anche qui si potrebbe verificare un conflitto di interessi. Non le sembra mortificante dire questo nei confronti di quella che è una istituzione pubblica? Non c’è alcuna intenzione di sminuire l’autorevolezza dei Coa. Le segnalazioni dei Coa al Consiglio giudiziario per le valutazioni dei magistrati sono già previste da tempo. Ma non so dire quanto i Coa abbiano sfruttato questa possibilità, sarebbe interessante saperlo. Per quanto concerne il voto, benché esso sia stato concepito dalla riforma come unitario, arriverebbe comunque da avvocati in pieno servizio. Ci sono piccoli distretti in cui questa espressione del voto potrebbe addirittura rendere più conflittuale il rapporto tra avvocati e magistrati, invece che agevolarlo. Dicendo no alle pagelle e ad una rivisitazione delle valutazioni di professionalità, quale strumento suggerite affinché, a parità di curriculum, prevalga il merito e non la corrente di appartenenza? Il problema si risolve arricchendo i fascicoli personali non di giudizi, ma di fatti. Noi non siamo contrari all’istruttoria sui fatti, sui dati oggettivi sull’esercizio dell’attività. Tuttavia, riteniamo pericolosi i momenti valutativi, quando non necessari, perché stimolano sentimenti competitivi tra i magistrati; invece dovrebbero solo verificare se il magistrato mantiene uno standard adeguato di professionalità, non se è il migliore. L’individuazione del migliore avverrà quando ci sarà da assegnare un ruolo semi o direttivo. Sul tema delle porte girevoli, il Segretario Casciaro ha detto che ci potrebbero essere profili di incostituzionalità se il magistrato non mantenesse il suo originario posto di lavoro. Però una delibera del Csm del 2015 proponeva invece il ritorno nei ranghi dell’Avvocatura di Stato o della dirigenza pubblica. Ha sbagliato il Csm? Quello che disse il Csm rappresenta sicuramente una posizione autorevole e potremmo dire unanime all’interno della magistratura, sia istituzionale che associata, che sente come problema quello della difesa dell’immagine e della imparzialità per i magistrati che svolgono incarichi politici. Tuttavia, il segretario Casciaro ha giustamente posto una perplessità sulle soluzioni da adottare rispetto all’assetto costituzionale. Sottolineare un profilo critico però non vuole dire automaticamente opporsi al cambiamento, vogliamo contribuire affinché il risultato sia il migliore possibile. Passiamo al tema dell’ergastolo ostativo. Lei nel sollevare il dubbio di legittimità costituzionale che ci ha portati dove siamo oggi scrisse: “L’esistenza di preclusioni assolute all’accesso alla liberazione condizionale si risolve in un trattamento inumano e degradante, soprattutto ove si evidenzino progressi del condannato verso la risocializzazione; e ciò perché, in tal modo, il detenuto viene privato del diritto alla speranza”. Il testo in discussione in aula preserva quel diritto alla speranza oppure no? È una domanda difficile. Non credo sia questa la sede per bocciare o promuovere il testo di legge. Io lo interpreto quando svolgo il mio ruolo di giudice. Quello che posso dire è che la Corte costituzionale è intervenuta per restituire non la libertà ai detenuti incalliti, ma per dare alla magistratura di sorveglianza la possibilità di controllare in concreto se, al di là della collaborazione, possano usufruire di alcuni benefici. Se questo è il senso dato dalla Consulta, occorrerà verificare se la legge, irrigidendo con dei paletti l’accesso alle misure, sia fedele a quel tipo di indicazione. Vorrei che si comprendesse che il principio evocato dalla Corte non è un segnale di lassismo nei confronti della criminalità mafiosa. A proposito di questo ci sono state molte polemiche per la scelta della ministra Cartabia di individuare in Carlo Renoldi il nuovo capo del Dap. Lei ha plaudito a questa scelta ma il deputato Ferraresi del M5S le ha chiesto invece di riflettere meglio sulla sua posizione. Cosa ne pensa di tutta questa polemica? Come si risolve questo conflitto tra i diritti di tutti i detenuti e la lotta alla mafia? Bisogna uscire fuori da questo equivoco, spesso alimentato ad arte per creare polemiche, ma senza ragioni a fondamento: chi ha attenzione ai profili di umanizzazione della pena non si pone in una posizione di indulgenza nei confronti della lotta alla criminalità organizzata. Un carcere più umano, in grado di portare avanti la sua missione rieducativa e risocializzante, è intanto un carcere più sicuro e allo stesso tempo un carcere che rispetta la dignità di tutti. Ci sono certamente dei detenuti forse irrecuperabili, ma questo non significa che non debba essere sperimentata sul campo la loro capacità di mutamento. E questa è anche la posizione del collega Renoldi, la cui storia professionale ho potuto apprezzare. Non c’è alcuna contraddizione tra attenzione dei diritti dei reclusi e rigore nella risposta al fenomeno mafioso. Sui referendum promossi da Lega e Partito Radicale farete campagna per il no o per l’astensione? Noi non siamo un soggetto politico che interviene nell’agone in questi termini. Noi daremo il nostro contributo di razionalità: cercheremo di spiegare intanto come i quesiti referendari siano distanti dai grandi problemi della giustizia. Poi volendo entrare nel merito di alcuni di essi: abolire la legge Severino significa spazzare via uno dei presidi di prevenzione della corruzione. Ulteriormente non capisco come un allentamento delle esigenze cautelari possa rispondere ai bisogni di una giustizia più giusta, io invece temo il contraccolpo. Se dovesse essere approvato il quesito, non potendo prevedere la misura cautelare per un indagato per un reato di alto profilo, si tornerà ad una normativa più stringente. “Troppi detenuti in attesa di giudizio. La legge Severino va cancellata” di Massimo Coppero La Stampa, 3 marzo 2022 Sono cinque i referendum sulla giustizia promossi da Lega e Radicali e sostenuti da uno schieramento trasversale, da Forza Italia ad Italia Viva fino ad alcuni esponenti garantisti di sinistra. La scelta dell’avvocato Aldo Mirate, ex parlamentare Pci e principe dei penalisti astigiani, è un po’ a sorpresa. “Voterò quattro sì e mi asterrò su uno dei quesiti, quello sulla separazione delle funzioni”. Avvocato, lei va sulle posizioni della Lega… “Faccio una premessa: le riforme della giustizia non si possono fare con i I referendum, che hanno solo una funzione di stimolo. Però poi in concreto riconosco che la Lega, dopo decenni di giustizialismo con il cappio agitato in Parlamento e la pretesa di mettere tutti in carcere, ha cambiato idea divenendo ragionevole e spostandosi su valutazioni più simili alle mie. E quindi non ho problemi a votare “sì” ad una consultazione popolare promossa anche dal partito di Salvini”. Tra i quesiti sui quali si chiede ai cittadini di pronunciarsi ve ne è uno che limita fortemente la custodia cautelare… “Lo ritengo corretto. Vi è un eccesso di carcerazione preventiva, con troppi imputati detenuti in attesa di giudizio. Il pericolo di reiterazione del reato che viene posto alla base delle misure cautelari è troppo generico, quindi è necessario rivedere i presupposti”. E sulla legge Severino…? “Fui contrario alla sua approvazione, dieci anni fa. Molti sindaci e amministratori pubblici sono stati sospesi dall’incarico a causa di questa legge dopo una condanna di primo grado, poi cancellata in Appello. La presunzione di non colpevolezza deve valere sempre”. Due dei referendum riguardano direttamente le carriere della magistratura: valutazione nei Consigli giudiziari ed elezione del Csm. I promotori ritengono di riuscire a ridimensionare il potere delle correnti… “Sono d’accordo con l’ipotesi che nei Consigli giudiziari distrettuali anche gli avvocati possano esprimersi sulla valutazione dei magistrati e non limitarsi a fare gli spettatori. E anche sul tema, molto tecnico, della raccolta delle firme per le candidature al Csm ritengo positiva la proposta referendaria. Tutto ciò che limita il potere delle correnti è benvenuto, con la sola esclusione del sorteggio per il Csm che mi avrebbe trovato nettamente contrario”. Un altro quesito chiede di rafforzare la separazione delle funzioni tra pm e giudice, con la quasi impossibilità di transitare da un ruolo all’altro… “Su questa scheda mi asterrò, non barrerò sì o no. Da un lato mi rendo conto delle ragioni di molti miei colleghi avvocati, che notano una mancanza di autonomia del giudice rispetto al pubblico ministero, e quindi chiedono una barriera più rigida al cambio di funzione. Dall’altra però temo la trasformazione della figura del pubblico ministero in quella di un commissario di polizia, sottoposto alle pressioni delle forze dell’ordine e in definitiva del governo e della politica, vanificando l’autonomia di cui ora gode il pm nel nostro ordinamento. Mi permetto di aggiungere un argomento al dibattito...” Dica… “In Francia, dove il pm dipende dal governo, gli avvocati stanno facendo una battaglia per riportare la figura del magistrato accusatore nell’ordinamento giudiziario, con l’indipendenza garantita ai giudici” Qui invece? “La maggioranza dei miei colleghi punta all’obiettivo contrario, sono in disaccordo con loro. E ho una idea differente anche sulla responsabilità civile diretta dei magistrati. Giustamente la Corte costituzionale non ha ammesso questo quesito. Giudici e pm che sbagliano debbono essere sanzionati disciplinarmente dal Csm, ma non chiamati a risarcire direttamente le parti in causa. Si creerebbe troppa tensione e mancherebbe la necessaria serenità nel pronunciare le sentenze”. “Il carcere ti vuole innocuo”. Il diritto alla salute e alla dignità nelle strutture detentive di Chiara Formica linesistente.it, 3 marzo 2022 Per tutti quelli che lo conoscono è “l’Avvocato”. Fabio Falbo è lo scrivano del reparto di Alta Sicurezza della Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso, si occupa di redigere istanze e di aiutare i suoi compagni detenuti a presentare e difendere i loro diritti presso le varie istituzioni. Tra questi anche il diritto alla salute e alla dignità, argomenti della nostra intervista. Abbiamo chiesto a Fabio cosa significhi esercitare il diritto alla salute all’interno di una struttura detentiva. Cosa significhi scoprire di avere una malattia e faticare quotidianamente affinché la propria voce non venga dimenticata o del tutto inascoltata mentre si pronuncia il diritto a esistere. Il diritto alla salute, sancito dalla nostra Costituzione, è un diritto inalienabile, indipendentemente dalla condizione e dalla collocazione sociale che occupa un uomo. Lo è anche in carcere? Contrariamente a quanto si è soliti dire, la nostra civiltà non può essere misurata a partire dalle patrie galere, perché in queste strutture si viola la dignità della persona. La salute in carcere è un nervo scoperto per tutta la popolazione detenuta: è qui che la nostra Costituzione viene umiliata, indipendentemente dal fatto che si faccia riferimento a un diritto fondamentale, inviolabile, o a diritti di altro genere. Il diritto fondamentale previsto dall’articolo 32 della Costituzione è disatteso, tralasciato, trascurato, dimenticato, trasgredito, eppure la salute dovrebbe sempre prevalere sulla pena e su qualsiasi trattamento. Quello della salute è un diritto fondamentale e agisce nel tempo e nello spazio, non lascia possibilità di interpretazione. Ha carattere universale, deve essere riconosciuto erga omnes, perché si ricollega alla dignità della persona, il perno della nostra Costituzione. Nel caso di insorgenza di malattie o patologie mentre si sta scontando una condanna penale qual è l’iter che la persona detenuta si trova a dover affrontare? In carcere si possono verificare una miriade di problemi, tra questi anche l’insorgenza di una malattia invalidante. I tempi sono fondamentali per curare o guarire una persona, ma il tempo del carcere si traduce in una lunga attesa, decisamente in contrasto con le cure necessarie in campo medico. Il mio stesso caso insegna: tempo fa, una persona detenuta come me, che soffriva di problemi al pancreas, visti i miei disturbi, mi ha consigliato di controllare i valori di lipasi e amilasi, così tra il 2017 e il 2018 mi sono sottoposto a nuovi esami ematici. L’esito confermava il problema al pancreas, che mai era risultato prima. A quel punto un altro mio amico, il cui figlio soffriva dello stesso problema, mi consigliò uno specialista presso l’ospedale Forlanini di Roma. Lo contattai tramite i miei legali. Solo a febbraio del 2022 sono riuscito a ottenere una visita privata da parte di un medico consigliatomi dal professore del Forlanini. Grazie a lui sono riuscito a ricevere una visita completa e lo definisco un alieno: mi ha spiegato, come mai prima e senza pregiudizio, per filo e per segno quello che avrei dovuto fare e in quali tempi. A quali cure dovrò sottopormi. D’altra parte, però, il medico che lavora nel reparto penitenziario non voleva prescrivermi gli esami indicati dal medico di famiglia. Soltanto dopo molte insistenze sono riuscito a farmi prescrivere gli esami per i markers tumorali e la risonanza magnetica. Se avessi fatto la tac già nel 2017 o 2018, probabilmente il mio pancreas non sarebbe nello stato in cui è ora e, con la dovuta prevenzione, non ci sarebbero state ricadute di tipo economico sulle stesse casse dello Stato. Ho riscontrato una differenza deontologica sostanziale tra il modo in cui opera un medico all’interno di un istituto totale come il carcere e il modo in cui lavora un medico all’interno di una struttura pubblica, aperta a tutti. Oltre alle difficoltà per ricevere una diagnosi, una volta ottenuta e individuato il percorso di cura, la persona detenuta si trova a dover affrontare un altro ostacolo, causato sostanzialmente da un vuoto normativo, che a sua volta non fa che aumentare la disperazione del detenuto: comunicare alla direzione e all’area educativa i propri problemi di salute, avvisando della possibilità della riduzione delle attività trattamentali fino a quel momento svolte. Il vuoto normativo è dovuto alla mancata comunicazione da parte dell’area sanitaria agli addetti al trattamento e anche al magistrato di sorveglianza e incide di fatto nell’ambito della cosiddetta risocializzazione, poiché non indica in quale modo l’area trattamentale debba approcciarsi al caso. In altre parole, al Got (Gruppo Osservazione e Trattamento) spetta il compito di prevedere il proseguo o la limitazione delle attività trattamentali e dell’osservazione della persona detenuta, ma per farlo è necessario che l’area sanitaria comunichi le effettive condizioni di salute del detenuto. Il diritto alla salute dovrebbe prevalere su qualsiasi trattamento penitenziario. Lo dico proprio alla luce della mia esperienza personale: da quando sono stato informato dei miei problemi di salute non ho più la voglia né la grinta, tanto meno la lucidità, per proseguire nel percorso trattamentale come ho fatto finora, e che mi ha condotto fino al conseguimento della laurea. So già che molto probabilmente non potrò soddisfare le previsioni di trattamento. La domanda che quindi andrebbe aggiunta è in che modo si concilia il diritto alla salute con il diritto alla risocializzazione. Se prendiamo per esempio il caso ipotetico di una persona che viene condannata a 15 anni di carcere, in seguito a un processo durato dai 4 ai 6 anni, e a cui viene assegnato un percorso trattamentale in concomitanza all’insorgenza di una malattia, che non gli permette di soddisfare le linee guida segnalate dall’area trattamentale. Il tempo intercorso dalla condanna alla guarigione verrà azzerato? E se si azzera che fine fanno il diritto alla salute e il diritto alla risocializzazione? Le persone detenute affette da patologie pregresse all’ingresso in carcere continuano ad accedere alle cure necessarie? Chi ha patologie pregresse una volta in carcere non riceve le stesse cure a cui poteva accedere in libertà per una serie di problemi logistici, strutturali, materiali o altro ancora. Se si pensa ai centri clinici come strutture in cui poter risolvere il problema ci si sbaglia, perché non sono altro che celle normali con letti e arredamenti uguali alle celle ordinarie. Sono stato detenuto nel carcere di Secondigliano e lo pseudo centro clinico dell’amministrazione penitenziaria è una delle realtà peggiori che abbia mai conosciuto. È importante che si capisca che in queste strutture qualsiasi persona affetta da una qualsiasi patologia non può restarvi, invece, attualmente vengono rinchiuse persone con le più disparate patologie, tra cui persone in dialisi, persone con patologie rare e che non riescono a ricevere i farmaci di cui necessitano, persone in attesa di trapianto, persone con tumori diagnosticati anche con metastasi diffuse o altro ancora. Delle tante istanze che inviamo all’area sanitaria, raramente o quasi mai riceviamo risposta. Non troppo tempo fa, lo scorso luglio, ho chiesto di avere la copia della certificazione del medico che non aveva potuto somministrarmi il vaccino anti-covid e successivamente, a ottobre, ho richiesto di poter effettuare un test sierologico per la somministrazione del vaccino. Circa un mese dopo, però, mi ritrovavo a chiedere spiegazioni all’area sanitaria riguardo il motivo per cui ero stato convocato nell’infermeria del reparto per ricevere l’antistaminico. Come al solito non ho ricevuto risposte ma l’infermiera mi ha riferito che l’antistaminico serviva per effettuare il vaccino fuori dalla struttura, anziché sottopormi alla tac per la somministrazione del nuovo vaccino Novavax, come richiesto. Per farla breve, l’assunzione dell’antistaminico andava a sostituire la tac. Quali sono le terapie farmacologiche più diffuse in carcere o alle quali è più semplice accedere? Le terapie più utilizzate in carcere riguardano i cosiddetti ansiolitici, psicofarmaci usati per attenuare l’ansia, lo stress, il dolore, la sofferenza e l’angoscia. Il carcere ti vuole innocuo, non devi lamentarti, devi soffrire in silenzio. La popolazione libera non immagina la quantità enorme di psicofarmaci che viene consumata nell’ambito carcerario. Sono farmaci che diminuiscono l’attività del sistema nervoso centrale e possono essere aggiunti neurolettici per le fasi acute, a volte anche per lungo tempo nei pazienti schizofrenici. Ma il problema a volte diventa proprio il sovradosaggio di questi farmaci, non si comprende alla fine quali siano gli effetti dell’uso di questi farmaci, né la quantità totale, anche in termini economici. Tra i farmaci più utilizzati anche le benzodiazepine che hanno quasi completamente sostituito i barbiturici, ma è questo il modo di curare chi sta male? La somministrazione sconsiderata che lascia nella dipendenza coloro che prima del carcere non erano avvezzi a un uso così eccessivo e dannoso dei farmici? Quali sono quelle a cui invece sembra o è impossibile accedere? Le terapie impossibili riguardano le cure per malattie che il carcere non sa, non vuole e non può curare, come ad esempio la dialisi. Qui in carcere si rimedia con gli antidolorifici, spasmolitici o antispastici, paracetamolo o acetaminofene, medicinali contenenti rilassanti muscolari e antibiotici, tra l’altro generici o equivalenti. Molti di noi dopo una chemioterapia o dopo un’operazione chirurgica nei vari presidi sanitari esterni sono costretti ad affrontare il dolce ritorno in carcere nel pieno del caos sanitario e delle celle sovraffollate. La vivibilità di uno spazio consente di non infliggere alla persona detenuta un trattamento inumano e degradante, a maggior ragione se si tratta di una persona malata, ma è effettivamente così? Il sovraffollamento è un problema così allarmante da rendere quasi vana qualsiasi cura. In carcere mancano gli spazi, i luoghi di cura, i professionisti specializzati, mancano i cosiddetti piantoni che sono persone detenute che si prendono cura delle altre persone detenute malate. Se ne prendono cura facendo le pulizie nella loro stanza, accompagnandole a fare la doccia, in infermeria e lavando loro gli indumenti e altro ancora. Purtroppo è da circa tre anni che queste figure sono state soppresse e quindi le persone malate sono lasciate a soffrire senza cura da sole perché il ruolo del piantone volontariamente non si può svolgere. Mi definisco il difensore delle cause perse e non ho mai smesso di sottolineare anche la violazione del distanziamento sociale, ritenuto indispensabile almeno a inizio pandemia: nelle celle multiple la distanza tra un letto e l’altro è di circa 50 centimetri e anche la stessa igienizzazione degli spazi e degli utensili presenti in cella diventa impossibile. La privazione della libertà personale dovrebbe non coincidere in alcun modo con la violazione della dignità e del diritto alla salute, in base alla tua esperienza senti di poterlo confermare? Il mio bagaglio di conoscenze e di vita vissuta in questo luogo hanno influenzato più che mai la mia sensibilità e la capacità di provare sentimenti stabili, luminosi e liberanti. Confrontandomi con le varie istituzioni tramite le tante istanze fatte anche a nome dei tanti che soffrono in silenzio e senza difesa, mi sono imbattuto in risposte poco consone al senso di giustizia. Le risposte che ho ricevuto riguardo a questo periodo di pandemia e in relazione ai focolai di contagi che si erano sviluppati in reparto dimostrano che la dignità, l’etica, la morale e il diritto per la salvaguardia della salute non sono altro se non un triste ricordo. La nostra situazione di rischio è stata descritta nelle risposte di alcuni giudici con aggettivi come “paventata”, “ipotetica”, sostenendo che le strutture penitenziarie fossero in grado di ridurre e addirittura “azzerare” il rischio di contagio e di trasmissione del virus tra la popolazione penitenziaria. In Italia l’articolo 40 del Codice Penale recita: “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. È un articolo che tutela ogni persona da abusi, mancanze, mancata prevenzione, mancati servizi sanitari, vitto o sopravvitto e da tutto ciò che una persona privata della libertà personale subisce. È un articolo che ricorda che la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua condizione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. Lo stesso articolo 3 della Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo) pone a carico delle autorità un obbligo positivo nell’assicurare a ogni detenuto condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, una modalità di esecuzione della misura che non sottoponga l’interessato a uno stato di sconforto, né a una prova di intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente. Sono entrato in carcere in salute e ora devo fare i conti con una malattia che non ha cure. Metto a disposizione la mia formazione giuridica gratuitamente per tutti i miei compagni cercando di tutelare i diritti umani e vorrei che queste mie parole avessero un seguito. Referendum a pezzi. Tutti i no della Consulta di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 marzo 2022 A due settimane dalla conferenza stampa del presidente Giuliano Amato, la Corte costituzionale deposita le sentenze che dichiarano inammissibili i tre quesiti su eutanasia, cannabis e responsabilità diretta dei magistrati. Le motivazioni erano state già anticipate dal presidente Giuliano Amato, ma ieri - a due settimane esatte di distanza dall’inusuale (anche se non da tutti disdegnata) conferenza stampa con la quale il “Dottor Sottile”, inaugurando una nuova stagione nel rapporto con i media, aveva spiegato perché la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibili i quesiti referendari sull’”eutanasia legale”, sulla cannabis e sulla responsabilità civile dei magistrati - sono state depositate le decisioni dei giudici costituzionali. Che sembrano rispondere in parte anche alle polemiche sollevate e alle critiche contrapposte dai comitati promotori dei referendum esclusi, in particolare quelli i cui quesiti sono stati supportati da quasi due milioni di firme reali, anche se in parte digitali. La responsabilità diretta delle toghe infatti è uno dei sei referendum promossi dalla Lega e dal Partito radicale ma depositati da nove Consigli regionali a maggioranza di centrodestra. Omicidio del consenziente, il diritto alla vita che diventa dovere - Era il più atteso, il più richiesto e il più “divisivo” dei quesiti referendari, quello per l’”eutanasia legale”, come viene chiamato nella campagna del Comitato promotore. Si tratta dell’abrogazione parziale dell’articolo 579 c.p. (omicidio del consenziente) che secondo la sentenza n°50 (redattore Franco Modugno), contrariamente alle intenzioni dei promuoventi, avrebbe reso “penalmente lecita l’uccisione di una persona con il consenso della stessa, fuori dai casi in cui il consenso risulti invalido per l’incapacità dell’offeso o per un vizio della sua formazione (art. 579, comma 3, che considera omicidio se il consenso è fornito da minorenni, da persone incapaci di intendere e volere anche momentaneamente o sotto effetto di sostanze, o se estorto, ndr)”. La norma di risulta quindi, secondo la Consulta, “verrebbe a sancire, all’inverso di quanto attualmente avviene, la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo”. A prescindere, cioè, “dai motivi per i quali il consenso è prestato, dalle forme in cui è espresso, dalla qualità dell’autore del fatto e dai modi in cui la morte è provocata”. I giudici sottolineano che quando si tratta del bene “apicale” della vita umana, “la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima”. E ricordano l’ordinanza n. 207/2018 della stessa Consulta secondo la quale “in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale” non si possono ignorare “le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite”. Sul punto risponde l’avvocata Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Luca Coscioni, primo promotore del referendum: “La giurisprudenza è chiara: tutte queste fragilità sono sempre ricondotte al concetto di deficienza psichica in quanto determinano disagi psicologici che sono sempre tutelati ai sensi del comma 3 dell’art. 579 c.p. In altre parole: non è la situazione familiare in sé a determinare un’eventuale richiesta di morte bensì il malessere psichico che tale situazione provoca nella persona. Ed il malessere psichico è indiscutibilmente protetto dal comma 3 che rimaneva intatto a garanzia delle persone vulnerabili e del bene vita in generale”. Gallo, che ha discusso il quesito davanti alla stessa Consulta, considera parti delle motivazioni “frutto di considerazioni astratte che la Corte potrebbe svolgere nel ruolo di giudice delle leggi, ma non nel giudizio di ammissibilità di un referendum”, generate “da valutazioni slegate dalla realtà, dai veri diritti, dalla vera sofferenza”. Una “decisione politica” dunque, perché la Corte invece di “utilizzare gli strumenti descritti dalla Costituzione per verificare l’ammissibilità del referendum”, ha usato quelli “del giudizio di legittimità che non sono previsti neanche dalla sua stessa giurisprudenza”. Intanto alla Camera è ripreso ieri l’esame della legge sull suicidio assistito ed è stato respinto il tentativo delle destre di porre ulteriori restrizioni al testo già fortemente discordante perfino dai paletti imposti dalla sentenza della Consulta del 2019. Con voto segreto sono stati bocciati gli emendamenti di Lega, Fd’I e FI. L’iter riprenderà oggi stesso. Cannabis, il paravento degli obblighi internazionali - Secondo la sentenza n° 51, il referendum che si prefiggeva di depenalizzare la coltivazione senza scopo di lucro di cannabis è inammissibile perché viola l’art. 75 della Costituzione in quanto si pone “in contrasto con le Convenzioni internazionali e la disciplina europea in materia”; è inoltre poco chiaro, incoerente e perfino non idoneo allo scopo che si era prefisso. Nelle 19 pagine del dispositivo, redattore Giovanni Amoroso, si spiega che - “per quello che è il suo contenuto oggettivo, l’unico rilevante, e non già la finalità soggettiva assunta dal Comitato nella sua memoria” - i due tagli proposti dal quesito all’art. 73 della legge 309/90 (eliminare nel comma 1 la parola “coltiva” tra le fattispecie di reato riferite a tutte le piante psicotrope, ed eliminare nel comma 4 le pene relative ai reati di cui al comma 1 ma riferite solo alla cannabis) avrebbe prodotto la liberalizzazione delle coltivazioni anche del papavero sonnifero e delle foglie di coca da cui si estraggono oppio e cocaina, vietate dalle Convenzioni di Vienna e di New York e dalla Decisione Quadro europea del 2004. Secondo i giudici costituzionali, inoltre, ci sarebbe una contraddizione tra questi tagli e l’aver mantenuto intatti i due articoli 26 e 28 che sanzionano la coltivazione di qualsiasi pianta da cui possano estrarsi stupefacenti. Infine e in breve, “pur rimanendo precluse, nel giudizio di ammissibilità del referendum, valutazioni di merito sulla legittimità costituzionale della normativa di risulta”, la Corte trova una “manifesta contraddittorietà della normativa di risulta con l’intento referendario” perché “la sanzione detentiva permarrebbe in riferimento ai medesimi fatti quando di “lieve entità”, e perché la coltivazione sarebbe comunque sanzionabile secondo gli articoli 26 e 28 del T.U. In una prima nota, riservandosi di intervenire più approfonditamente tra qualche giorno, il comitato promotore giudica “lunare” l’accusa formulata al quesito di produrre la legalizzazione delle “droghe pesanti”: “La Corte impiega metà sentenza a dare conto a se stessa di quale sia la normativa vigente del testo unico, evidentemente avendo incontrato qualche difficoltà ricostruttiva del testo oggetto dei quesiti” e “riconosce che “indirettamente” il ritaglio referendario si riferiva anche alla cannabis, contraddicendo le mistificazioni avanzate dal Presidente Amato nella sua conferenza stampa del 16 febbraio, confermando la differenza tra “piante” e “sostanze” ma eludendo la conseguenza logica della necessità di mettere in campo una serie di altre condotte - non interessate dal referendum - affinché dalle prime si producano alle seconde”. Secondo i promotori, le Convenzioni Onu sono state interpretate “come se il mondo fosse fermo al 1961. Non solo ci sono Paesi che hanno modificato le normative nazionali sulle droghe (Uruguay, Canada, Malta e 19 Stati Usa) senza uscire dai documenti internazionali, ma nel 2016 la sessione speciale dell’Onu sulle droghe ha stabilito che le Convenzioni prevedono flessibilità interpretative per adeguarsi al contesto nazionale prevalente e che nel 2020, col voto favorevole dell’Italia, la Commissione Droghe dell’Onu ha cancellato la cannabis dalla tabella IV quella delle piante o sostanze di maggiore pericolosità”. Inoltre, spiegano, il fatto di non aver toccato gli articoli 26 e 28 serviva proprio per mantenere penalizzate le grandi coltivazioni di cannabis a scopo di lucro. Una contraddizione che semmai dovrebbe ricadere, dicono, sulla stessa decisione della Consulta. In ogni caso, fanno notare, “così facendo la legge sulle droghe viene resa intoccabile per via referendaria”. Speriamo che lo sia per via parlamentare, almeno, visto che da mercoledì prossimo riprenderà in commissione Giustizia, alla Camera - - secondo quanto annunciato ieri dal presidente Mario Perantoni (M5S) - l’esame della pdl sulla depenalizzazione della coltivazione domestica della cannabis il cui testo base è già stato votato. Responsabilità civile dei magistrati: “Manipolativo e creativo” - Come già preannunciato dal presidente Amato, la sentenza n° 49 (redattore Augusto Barbera) giudica inammissibile il quesito proposto da Lega e Prntt che abrogava “diverse disposizioni della legge n. 117 del 1988 (cosiddetta legge Vassalli), come modificata dalla cosiddetta riforma Orlando, n. 18 del 2015, che disciplina il regime della responsabilità civile dei magistrati per danni arrecati dagli stessi nell’esercizio delle loro funzioni”, con l’obiettivo di trasferire l’azione risarcitoria dallo Stato al magistrato. Secondo la Corte il quesito “avrebbe introdotto una disciplina giuridica nuova, non voluta dal legislatore, e perciò frutto di una manipolazione non consentita”. Inoltre, la normativa di risulta non avrebbe consentito alcuna azione risarcitoria “poiché ne sarebbero rimasti oscuri i termini e le condizioni di procedibilità”. Nei tre no ai quesiti i limiti della Consulta su tutti i referendum di Errico Novi Il Dubbio, 3 marzo 2022 Le motivazioni criticano di fatto tutte le proposte che mirano ad abrogare specifiche parti di una disciplina. Esce indebolito lo strumento referendario. Non solo il progetto dei comitati promotori. Le tre sentenze con cui la Corte costituzionale motiva l’inammissibilità di altrettanti quesiti esaminati a metà febbraio su responsabilità dei giudici, eutanasia e cannabis contengono implicitamente critiche alla tecnica di tutti i referendum che colpiscano specifiche parti di una disciplina. Ed è soprattutto l’esclusione della proposta sulle toghe che sembra destinata a suscitare repliche, giacché si regge essenzialmente sul richiamo a una giurisprudenza costituzionale ostile ai quesiti “di ritaglio”, che colpiscono chirurgicamente, appunto, specifici dettagli della legislazione, in modo da far risultare una “disciplina giuridica sostanzialmente nuova, non voluta dal legislatore”. Nella pronuncia si fa riferimento ad altre analoghe decisioni della Corte. Ma è vero che in un passato non lontano la tecnica del ritaglio è stata ammessa, ad esempio in materia elettorale. Di certo, le tre sentenze di ieri, e soprattutto quella sulle toghe, consolidano un orientamento restrittivo. Non se ne possono rallegrare il Partito radicale e la Lega, che hanno sì visto promossi gli altri 5 quesiti sulla giustizia, ma che subiscono, con il no alla proposta sulla responsabilità dei giudici, un colpo durissimo per la rincorsa al quorum. Un po’ diverso è il quadro per omicidio del consenziente e cannabis. In particolare per il primo caso, nel quale pare più difficile ribattere alle obiezioni della Consulta relative al deficit di “tutela minima della vita” prodotto dall’eventuale vittoria del sì. Tecnicamente più complessa la già nota contestazione per la cannabis, riguardante la tabella delle sostanze riconducibile alla norma da abrogare. Inevitabili le reazioni dei comitati (di cui si dà almeno in parte conto in altri servizi del giornale). Nella sentenza che dichiara inammissibile il quesito sulla responsabilità delle toghe (redatta dal giudice e costituzionalista Augusto Barbera) si contesta appunto il “carattere manipolativo e creativo, non ammesso dalla costante giurisprudenza costituzionale”. Si rileva pure una “mancanza di chiarezza”. In particolare perché, secondo la Corte, “la normativa di risulta non avrebbe consentito di configurare un’autonoma azione risarcitoria, esperibile direttamente verso il magistrato”, in quanto “ne sarebbero rimasti oscuri termini e condizioni di procedibilità”. Come riassume il comunicato della Consulta, la disciplina sopravvissuta al taglio abrogativo “non sarebbe stata idonea a definire i tratti e le caratteristiche della nuova azione processuale”. Di certo, considerate le motivazioni della sentenza, sembrerebbe a questo punto impossibile abrogare le norme vigenti, cioè la legge Vassalli dell’88 e la Orlando del 2015, in modo che “sopravviva” una responsabilità diretta dei magistrati. Chi, come radicali e Lega, guardava a quell’obiettivo, non avrebbe potuto formulare il quesito se non nei termini in cui è stato sottoposto alla Corte. Il no al referendum sull’eutanasia, o meglio sull’omicidio del consenziente, rimanda alla necessità che la disciplina risultante dall’abrogazione parziale, anche in questo caso, di una norma (nello specifico dell’articolo 579 cp) sia comunque coerente con i princìpi costituzionali. E secondo la sentenza redatta dal giudice Franco Modugno sula proposta di Associazione Coscioni e Radicali italiani (riuniti nel comitato “Referendum eutanasia legale”), “una normativa come quella dell’articolo 579 Cp può essere modificata e sostituita dal legislatore, ma non puramente e semplicemente abrogata, senza che ne risulti compromesso il livello minimo di tutela della vita umana richiesto dalla Costituzione”. La vittoria del Sì avrebbe reso penalmente lecita l’uccisione del consenziente in tutte le circostanze diverse dai tre casi di consenso “invalido”, cioè prestato da minorenni, da infermi di mente oppure esorto con minaccia o inganno. Qui la Consulta lascia almeno una traccia al legislatore, quando ricorda che una disciplina in materia può anche andare oltre i limiti già sanciti dalla Corte stessa con la sentenza Cappato - Dj Fabo (la 242 del 2019), ma a condizione di tutelare la vita umana dalla “collaborazione di terzi a scelte autodistruttive” senza limitarsi alla “categoria dei soggetti vulnerabili”. Scelte del genere possono risultare comunque “non adeguatamente ponderate”. Il no al quesito sulla cannabis era già stato riferito da Giuliano Amato, nella conferenza stampa dello scorso 16 febbraio, al contrasto con le “Convenzioni internazionali” e con “la disciplina europea in materia”. La sentenza redatta da Giovanni Amoroso specifica che a essere compromessi (dal rischio che depenalizzare la “coltivazione” autorizzi l’impianto dell’oppio e della coca, oltre che della cannabis) sono gli “obblighi derivanti dalle Convenzioni di Vienna e di New York” e dalla “Decisione quadro 2004/757/Gai”. Si obietta, al quesito, anche la mancanza di “chiarezza e coerenza intrinseca”, perché per “analoghi fatti di lieve entità sarebbe rimasta comunque in vigore la pena congiunta della reclusione e della multa”. Il quesito sarebbe stato inoltre “inidoneo allo scopo” perché sarebbero comunque sopravvissute nell’ordinamento altre norme punitive per i coltivatori di cannabis. La Corte si arrampica sugli specchi: non voleva il voto sulla cannabis di Franco Corleone* Il Riformista, 3 marzo 2022 Altro che chiarire i dubbi, come aveva promesso il presidente Amato: le motivazioni della Consulta confermano che la bocciatura è stata una decisione politica. Questo referendum non s’ha da fare. Il Presidente Amato aveva ammonito in diverse occasioni pubbliche che la sentenza avrebbe chiarito oltre ogni ragionevole dubbio i motivi della inammissibilità del referendum su alcune disposizioni repressive della legge antidroga del 1990. La lettura delle motivazioni conferma che la decisione è tutta politica: Questo referendum non s’ha da fare. La modestia delle argomentazioni impone di respingere al mittente l’accusa espressa da Amato nella conferenza stampa a caldo di avere sbagliato il quesito. Ora l’aggettivazione è arricchita, infatti sarebbe stato illusorio, fuorviante e inidoneo a raggiungere lo scopo di ammorbidire la persecuzione della cannabis. L’errore scagliato in maniera irridente era di avere preso lucciole per lanterne, perché la cancellazione della condotta della coltivazione non riguardava la canapa ma il papavero e la coca, cioè le piante da cui si possono estrarre le droghe pesanti. In realtà l’errore marchiano della Corte era di connettere le diciassette condotte vietate descritte nel comma 1 dell’art. 73 del Dpr 309/90 con le tabelle I e III (contenenti le droghe pesanti), mentre il legame è con le pene per il reato compiuto, da sei a venti anni di carcere. La sentenza non può ristabilire la verità, perché chiarirebbe che la decisione si è fondata su un falso, quindi si arrampica sugli specchi, sostenendo che la canapa è ricompresa indirettamente, in quanto il comma 4 prevede per le condotte (compresa la coltivazione) riguardanti le tabelle II e IV una pena detentiva da due a sei anni. Non è così. La legge è scritta male, oltre che essere gravemente criminogena, ma è evidente che le diciassette condotte riguardano tutte le tabelle e le pene sono diverse per le droghe pesanti e leggere. A conferma di quanto sostengo sta il fatto che le condanne per le droghe leggere sono riferite al comma 1 e 4. La Corte contesta lo slogan della campagna di propaganda, ma il titolo deciso dalla Cassazione e condiviso dal Comitato promotore è esplicito e non equivoco facendo riferimento alla abrogazione di disposizioni penali e di sanzioni amministrative relative alle sostanze stupefacenti e psicotrope. Non solo alla cannabis. Tralasciamo una parte sovrabbondante e inutile sulla legge Fini-Giovanardi cancellata nel 2014 dalla Corte Costituzionale. Viene ribadito con insistenza il vincolo dei criteri desumibili (sic) dall’articolo 75 della Costituzione, elaborati nel 1978 con la sentenza n. 16: il ventaglio dilatabile come una gomma americana va dalla chiarezza alla omogeneità, dalla univocità a una matrice razionalmente unitaria. Caratteristiche usate molto spesso arbitrariamente per cassare richieste referendarie scomode. Si dice che il quesito deve consentire ai cittadini una scelta libera e consapevole; a parte l’atteggiamento paternalistico, di tutela di incapaci di comprendere la posta in gioco, questa volta la domanda era chiara e limpida: Volete limitare i danni della guerra alla droga? Troppo accecante. Siamo stati chiari nella scelta della eliminazione della fattispecie della coltivazione che nella giurisprudenza dei tribunali e della Cassazione riguarda quella forma domestica e artigianale caratterizzata dallo scarso numero di piante (spesso tenute sul balcone) appare destinata all’uso personale; lo scopo era di sancire una depenalizzazione circoscritta a una modalità precisa. Viene imputato il fatto di avere lasciato il divieto generale di coltivazione di tutte le piante, ma se l’avessimo tolto la bocciatura del referendum sarebbe stata ancora più netta. In realtà la coltivazione massiva e delle piante da cui secondo la Corte si ricavano le droghe pesanti sarebbe rimasta penalizzata avendo ben presenti le altre sedici condotte (produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve, a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene). Per la Corte l’architrave della repressione sta invece nella coltivazione della canapa. È la conferma che l’erba è davvero una pianta maledetta. La Corte sbrigativamente sostiene che i vincoli internazionali rendono impossibile il referendum e ferma il tempo a sessant’anni fa. Il mondo è cambiato, le Convenzioni dall’Onu sono state ridimensionate a uno strumento flessibile e non rigido, affidato al giudizio degli Stati. La Corte ignora che l’Uruguay e il Canada hanno addirittura legalizzato la produzione e la vendita di cannabis senza conseguenze rispetto alle norme delle Convenzioni? La Corte non sa che l’eventuale violazione dei sacri testi della proibizione non prevede sanzioni? La Corte si preoccupa di essere accusata di basarsi sulla normativa di risulta per l’inammissibilità, ma è proprio così. Infatti la Corte sostiene che il referendum proponeva la cancellazione della pena del carcere per le violazioni legate alla cannabis, ma denuncia la contraddizione di avere mantenuto la pena carceraria per i fatti di lieve entità. Il quinto comma dell’art. 73 riguarda sia le droghe pesanti che quelle leggere (comma 1 e 4), sarebbe stato ingiusto cancellare la possibilità di una sanzione (da sei mesi a quattro anni) più contenuta per fatti lievi riguardanti le droghe pesanti. D’altronde essendo una fattispecie autonoma, qualunque giudice l’avrebbe utilizzata per i fatti relativi al comma 1. Bontà sua la Corte non eccepisce nulla rispetto alla cancellazione del ritiro della patente, norma vessatoria e discriminante, ma purtroppo una sentenza della Corte del 2014 (n. 12) ha stabilito che il quesito non si può scindere e quindi non offre possibilità di soluzione intermedia tra il rifiuto e l’accettazione integrale della proposta abrogativa. Peccato, neanche un contentino è concesso! Che dire? La Corte Costituzionale di Amato ha dato uno schiaffo ai firmatari del referendum e ha inferto un duro colpo alla fiducia nelle Istituzioni. Il Parlamento da venti anni tiene chiuse nei cassetti le proposte di riforma della legge sulle droghe. Che fare? Occorre un’azione incisiva per riaffermare i principi della Costituzione e i valori dello stato di diritto che devono valere anche per la Consulta. “Non Mollare” rimane il nostro motto, dell’intransigenza di fronte al potere. *Presidente del Comitato Scientifico della Società della Ragione Così diventa impraticabile qualsiasi proposta sulla responsabilità diretta dei magistrati di Giovanni Guzzetta Il Dubbio, 3 marzo 2022 Si è escluso di poter applicare ai giudici altre norme dell’ordinamento. Ma nell’87 la valutazione fu diversa. La cautela, poi nel caso specifico, si impone perché chi scrive ha fatto parte del collegio difensivo davanti alla stessa Consulta e quindi, come tutti coloro che si affezionano alle proprie creature, rischia di cedere a valutazioni partigiane. Il lettore è dunque avvertito. Per questo motivo, più che una disamina dei singoli profili argomentativi trattati dalla corposa sentenza, ci si limiterà a qualche considerazione generale. Si deve, innanzitutto, premettere che questa è la quarta iniziativa referendaria in materia di responsabilità dei magistrati. Solo la prima, risalente al 1987, in occasione del referendum promosso dai radicali sull’onda delle note vicende legate al caso Tortora, fu coronata da successo. Le tre successive, compresa quella di ieri, sono state invece bocciate dalla Corte, sulla base di argomenti che, in buona misura, ricorrono in ognuna delle citate occasioni. L’obiettivo dei promotori era quello di determinare una responsabilità diretta dei magistrati, cioè di consentire al cittadino che si ritenga leso dagli atti compiuti nell’esercizio della giurisdizione, di chiamare direttamente in giudizio il singolo magistrato, anziché dover percorrere obbligatoriamente la via, oggi prevista, di rivolgersi allo Stato, il quale poi, in alcuni casi, avrebbe l’obbligo di rivalersi sul responsabile. Ora, nel giudizio della Corte, il risultato auspicato non avrebbe potuto realizzarsi mediante questo referendum abrogativo. Gli effetti dell’abrogazione, infatti, secondo i giudici della Consulta non avrebbero potuto essere quelli auspicati dai promotori, e anzi quegli effetti non sarebbero stati nemmeno chiaramente intellegibili, alla luce della formulazione del quesito, così da inquinare la genuinità del voto degli elettori, lasciati in uno stato di incertezza. Quesito impropriamente manipolativo e non chiaro, dunque. L’argomento principale per giungere a questa conclusione è che una volta eliminate le norme abrogate, il sistema risultante non avrebbe comunque previsto la responsabilità diretta del magistrato, in mancanza di una disciplina ricavabile altrove e capace di “espandersi” e applicarsi anche al caso di specie. Non è possibile né è il caso di entrare ulteriormente nei dettagli. Ma questo è certamente l’argomento principe usato dalla Corte. Colpisce, però, che il percorso argomentativo sul punto, adottato ieri e già anticipato nei due casi precedenti che hanno subìto la stessa sorte, appaia diverso da quanto ritenuto dalla Corte in occasione del referendum del 1987. In quel caso, infatti, oggetto del referendum era esattamente una disciplina speciale per la responsabilità dei magistrati, la cui abrogazione avrebbe potuto porre gli stessi problemi di individuazione della normativa di risulta applicabile. In quel caso però la Corte ritenne (sentenza 26/ 1987) che l’abrogazione dello “specifico regime che, allo stato attuale della legislazione, contraddistingue la responsabilità civile dei magistrati”, non impedisse il via libera al referendum. La Corte ritenne insomma che non ci fossero ostacoli alla disciplina generale con la quale il legislatore aveva dato attuazione all’articolo 28 della Costituzione, il quale prevede la responsabilità di tutti i pubblici funzionari, ivi compresi i magistrati. Né la Corte si dimostrò ignara del fatto che quel referendum, equiparando la responsabilità dei magistrati a quella degli altri pubblici funzionari, potesse, astrattamente, porre dei problemi di legittimità costituzionale della normativa di risulta. In quanto, come già affermato in una precedente decisione (2/ 1968), “la peculiarità delle funzioni giudiziarie (…) suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati” (cioè un trattamento speciale). Malgrado ciò, però, la Corte, rimanendo fedele alla propria giurisprudenza che distingue il giudizio di ammissibilità da quello di legittimità costituzionale, rinviò il problema a un futuro intervento del legislatore o della Corte. Il che consentì al corpo elettorale di pronunziarsi. Gli effetti di quel referendum sono stati dapprima sospesi in sede di promulgazione e poi modificati con l’introduzione della legge che nella sostanza si applica ancora oggi. Ecco, la sensazione, a prima lettura e con tutte le cautele del caso, anche alla luce dei precedenti più ravvicinati, è che nel nuovo giudizio la Corte abbia ritenuto di non poter applicare l’approccio del 1987, forse anche in considerazione del fatto che la responsabilità diretta dei magistrati avrebbe ormai costituito una soluzione troppo eccentrica rispetto al modello che il legislatore ha scelto con la riforma del 1988. La domanda, che a questo punto rimane, è se ormai, nel contesto della legislazione vigente, sia tecnicamente formulabile un quesito in grado di superare il vaglio di ammissibilità. Se si esclude, infatti, che esista nel sistema una disciplina capace, come ritenuto nel 1987, di applicarsi ai magistrati una volta prodottosi l’effetto abrogativo, anche l’ipotesi estrema di un’abrogazione totale della legge sulla responsabilità civile dei magistrati apparirebbe molto probabilmente impraticabile. Là dove, nel 1987, il referendum riguardò proprio l’abrogazione totale della disciplina speciale allora prevista. Referendum, Cappato: “Si tratta di sentenze politiche: Amato si scusi” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 3 marzo 2022 Intervista al tesoriere dell’Associazione Coscioni dopo le motivazioni con cui la Consulta ha argomentato l’inammissibilità dei quesiti. Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Coscioni, davanti alle motivazioni con cui la Consulta argomenta l’inammissibilità dei referendum, sostiene che “Amato si dovrebbe almeno scusare con i comitati promotori” e che “se non si scusa dovrebbe dimettersi”. Cosa pensa delle motivazioni della Corte sull’inammissibilità del quesito in materia di fine vita? Le motivazioni confermano la gravità della decisione di fondo, che è quella di anticipare in fase di ammissibilità il giudizio di costituzionalità sulla normativa che sarebbe risultata dal referendum. È grave perché il giudizio di ammissibilità si deve attenere a ciò che è scritto nella Carta, che esclude in modo tassativo tre materie, cioè le leggi di Bilancio, quelle di amnistia e indulto e quelle di ratifica di trattati internazionali. I profili di costituzionalità della normativa di risulta devono essere affrontati successivamente al voto, perché a quel punto la Corte ha un potere diverso, potendo fissare l’incostituzionalità parziale. In sostanza, la Corte avrebbe potuto intervenire dopo il referendum come ha fatto riguardo all’articolo 580 nel mio processo. Così come avrebbero potuto fare anche il Parlamento o il governo, che potevano dire che la depenalizzazione è eccessiva e limitarla ad alcuni casi. La Corte ha scritto che “l’incriminazione dell’omicidio del consenziente risponde allo scopo di proteggere il diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili”. Cosa risponde? È proprio il soggetto debole che deve avere il diritto di essere aiutato a morire. È una motivazione che conferma una scelta politica di negare al popolo italiano il diritto di esprimersi su questo tema. Entrando nel merito, la Corte sembra voler ignorare totalmente la giurisprudenza in cui la Cassazione stabilisce che a viziare il consenso è necessaria anche una non totale riduzione della capacità psichica che renda pur momentaneamente il soggetto non pienamente consapevole delle conseguenze del suo volere. Delusioni amorose o crisi depressive, ad esempio, sarebbero rientrate nelle situazioni sottratte al voto del referendum. Nelle motivazioni è scritto che nel quesito non rientravano i tre casi di “consenso invalido”, tra cui una deficienza causata dall’abuso di alcol. Su questo avevate avuto un duro scontro con Amato… Il presidente Amato in conferenza stampa si è permesso di dire che con il nostro referendum una persona che aveva un po’ bevuto avrebbe potuto farsi ammazzare senza che l’omicida incorresse in qualche conseguenza. Ovviamente nelle motivazioni la Corte non ha potuto ripeterlo perché anche con l’approvazione sarebbe rimasto in vigore il terzo comma che riguarda l’abuso di sostanze alcoliche. La motivazione smentisce Amato, il che dimostra il volere politico della sentenza. Il quesito sulla cannabis è invece definito “contraddittorio, contrario agli obblighi internazionali e inidoneo”. Qual è il suo parere? Pensiamo che anche questa motivazione dimostri la volontà di minare la credibilità del comitato promotore. Anche in questo caso, tutti i limiti sottolineati dalla Corte nel quesito, che è solo abrogativo, avrebbero potuto essere affrontati successivamente. Si vuole considerare che la coltivazione della pianta di coca non è ammissibile perché in violazione dei trattati internazionali? A parte che non è vero, ma anche se lo fosse stato, Parlamento, governo e la stessa Corte avrebbero potuto intervenire dopo il voto, non prima. Rimaniamo però sulla questione cannabis. Cosa non vi convince ancora della decisione? Ribadiamo che sono stati commessi errori grossolani nel merito, che indicano la volontà di anticipare a prima del referendum modifiche che potevano essere fatte dopo. Ancor di più dal momento che il presidente della Repubblica può ritardare l’entrata in vigore delle leggi derivanti dal referendum. In conferenza stampa Amato disse che la cannabis non era parte del referendum ipotizzando un errore del comitato. Ovviamente la motivazione non ha ripreso quell’errore, e io penso che Amato si dovrebbe almeno scusare con i comitati. Poniamo che non lo faccia... Se non si scusa dovrebbe dimettersi. Ma dovrebbe farlo a tutela della credibilità della Corte, non per espiare una colpa. Non possiamo permetterci di avere nel massimo organo della giurisdizione italiana un presidente che, nella conferenza stampa con cui spiega le motivazioni della bocciatura, dà informazioni false. Questo danneggia la credibilità dell’istituzione. Amato è un autorevolissimo giurista, non è una questione personale ma di difesa della Corte. Quali saranno i vostri passi? Sicuramente valuteremo se, sulla base delle motivazioni, gli errori contenuti nella conferenza stampa possano costituire elemento per un ricorso. Dopodiché rimangono due strade: quella parlamentare e quella delle azioni dirette, attraverso i ricorsi nei singoli casi e la disobbedienza civile. Diritto di cronaca e presunzione d’innocenza di Sergio Menicucci L’Opinione, 3 marzo 2022 I nodi del decreto Cartabia sulla presunzione d’innocenza stanno venendo al pettine. Lo dicono i giornalisti che operano nel campo della giudiziaria. I rischi per l’informazione sono stati confermati dal Procuratore di Milano facente funzioni Riccardo Targetti nel corso di un dibattito organizzato dal sindacato Rai, al quale è intervenuto anche il presidente della Federazione nazionale della stampa Giuseppe Giulietti. Una legge difficile da applicare e preoccupante perché introduce il concetto di velina di regime. Nel redare la circolare interpretativa la riflessione del Pm Targetti è stata quella di chiedersi “se non stesse addossando al Procuratore della Repubblica un grande potere, maggiore di prima e se questo non fosse concentrato in maniera troppo eccessiva per uno Stato democratico”. Sul tavolo dell’analisi un problema di fondo: diritto di cronaca o presunzione di innocenza, legge bavaglio o provvedimento giusto? Il punto di partenza è l’entrata in vigore dal 14 dicembre del decreto Cartabia che in pratica affida alle Procure le modalità dell’afflusso delle informazioni ai giornalisti. In appena tre mesi gli eccessi di interpretativi in senso limitativo sui fatti di cronaca sono aumentati. Secondo il presidente della Fnsi Giulietti, “sono stati commessi molti abusi in materia di presunzione d’innocenza, limitando l’accesso alle informazioni sui procedimenti penali. E questo nonostante già esistono regole precise: carte deontologiche, diritto di rettifica e di replica, visibilità dell’assunzione dell’imputato rispetto alle accuse”. Il decreto Cartabia “è frutto di un eccesso di zelo”, ha osservato il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia anche perché il nuovo sistema burocratizza e rallenta l’informazione e le azioni di polizia. Secondo Riccardo Sorrentino attribuire al Procuratore della Repubblica il potere di decidere quali informazioni meritano o meno di essere comunicate alla stampa sminuisce il ruolo del cosiddetto quarto potere. Spetta cioè ai giornalisti determinare quali notizie siano meritevoli o no di essere raccontate e pubblicate come i Magistrati hanno il diritto di determinare cosa sia o no interesse pubblico. In un’epoca in cui imperversano le “fake news” sui social (che non sono controllati) il lettore, l’opinione pubblica devono fidarsi che il giornalista abbia fatto le opportune verifiche sulla veridicità di quanto pubblicano. A questo proposito il giornalista del Corriere della Sera Cesare Giuzzi è intervenuto per confermare che il giornalismo moderno dedica gran parte del suo tempo a selezionare e verificare la correttezza delle notizie. Dal dibattito sono emersi alcuni orientamenti di merito: una riforma del decreto per permettere la consultazione tempestiva e agevolata degli atti dei procedimenti che sono accessibili. La Fnsi ha già inviato una lettera al commissario europeo per la giustizia al fine di valutare se sussistono elementi per una procedura d’infrazione a causa di una difformità tra il testo della direttiva europea e quello italiano. La Procura di Milano a sua volta dopo un consulto al suo interno per delimitare la portata della normativa (solo il penale?) sta valutando l’istituzione di un ufficio stampa. L’altra faccia della medaglia sono le valutazioni degli avvocati sul diritto di innocenza degli indagati. Il presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, Vinicio Nardo e la vice della Camera penale Valentina Alberta si sono dichiarati a favore del provvedimento e delle interpretazioni restrittive secondo i quali si sarebbero verificati alcuni “eclatanti casi” di abusi commessi dai giornalisti. Riforma della giustizia, come cambia il Csm di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 3 marzo 2022 Il punto fondamentale è la nuova legge elettorale del Consiglio superiore della magistratura, con l’adozione di un sistema maggioritario temperato da alcuni correttivi. Dopo aver affrontato le modifiche relative al processo civile e a quello penale, la Camera ha iniziato l’esame del disegno di legge che riforma l’ordinamento giudiziario e il Csm, cioè la terza parte della complessiva riforma della giustizia, promossa dalla ministra Cartabia. Si tratta di un provvedimento molto complesso e posso qui trattare solo alcuni aspetti. Sono senz’altro condivisibili le previsioni volte a regolare, e in linea di principio impedire, le cosiddette “porte girevoli” tra magistratura e politica, misure che diversi partiti sembrano decisi a rendere ancora più stringenti. Punto fondamentale della riforma è la nuova legge elettorale del Csm, con l’adozione di un sistema maggioritario temperato da alcuni correttivi. Il risultato prevedibile sarà un ulteriore rafforzamento delle due correnti più forti (Area e Magistratura indipendente), mentre alle altre resterà poco più che il diritto di tribuna. Ritengo un’illusione immaginare che basti modificare il sistema elettorale per eliminare le correnti, risultato peraltro non auspicabile perché anche il microcosmo dei magistrati, pur numericamente ridotto, ha diritto a dividersi e a organizzarsi secondo orientamenti ideali e culturali, quando al centro del dibattito c’è l’amministrazione della giustizia. Del resto, nella storia del Csm si sono alternati ben sette diversi sistemi elettorali e le correnti sono sempre sopravvissute proprio perché rispondono a un’esigenza reale. Resta invece piena la condanna per la degenerazione del cosiddetto correntismo, accentuatasi in questi anni. Sono convinto che l’unica vera soluzione per tale degenerazione resti una diversa qualità e un diverso atteggiamento dei singoli magistrati, frutto di quella rigenerazione morale più volte invocata dal presidente della Repubblica. Tuttavia, anche un nuovo sistema elettorale, con regole diverse da quelle che hanno portato a esiti tanto negativi, potrà aiutare la magistratura nel suo sforzo di rinnovamento. Un secondo punto qualificante della riforma riguarda le valutazioni quadriennali di professionalità dei magistrati, con la previsione di una più precisa articolazione del giudizio espresso dai consigli giudiziari e della partecipazione con diritto di voto dei rappresentanti dei Consigli dell’Ordine degli avvocati. Anche in questo caso si tratta di modifiche positive e sono convinto che il voto degli avvocati possa portare punti di vista ed esperienze diverse e aiutare a esprimere valutazioni più aderenti al livello di professionalità e maturità raggiunto dal soggetto esaminato. Si deve però essere consapevoli che, a tutela della indipendenza del singolo magistrato, queste valutazioni non potranno mai sindacare il merito dei provvedimenti adottati e che, come ha riconosciuto lo stesso presidente delle Camere Penali, Gian Domenico Caiazza, della mancata conferma di tali provvedimenti nel corso successivo dei processi si può tenere conto solo in casi di percentuali assolutamente patologiche (sui limiti e sulle difficoltà di questo giudizio rinvio a quanto già scritto su questo giornale). La riforma prevede anche una ulteriore specificazione dei criteri che il Csm deve adottare per il conferimento degli incarichi direttivi. È opportuno che i criteri siano indicati dal legislatore piuttosto che dalle circolari del Csm (spesso così dettagliate e farraginose da lasciare uno spazio esagerato all’intervento del giudice amministrativo), ma deve essere chiaro, tuttavia, che la scelta tra i candidati non è il prodotto di una formula matematica o il risultato di una corsa sui 100 metri in cui vince il tempo migliore. Il Csm deve conservare un margine di discrezionalità - non di arbitrio - per scegliere il profilo più adatto a uno specifico incarico. Come va accettato un dato di realtà: spesso la scelta si pone tra candidati di pari livello e con titoli uguali, ma che sono portatori di diverse, ugualmente legittime, visioni sull’organizzazione e la gestione del lavoro dell’ufficio. Un altro punto importante della riforma è la riduzione a due soli passaggi (oggi sono quattro) tra funzioni requirenti e giudicanti. In sostanza, un significativo passo verso la separazione delle funzioni, cui tende anche uno dei referendum ammessi dalla Corte Costituzionale. Un obiettivo, peraltro, già pressoché raggiunto nei fatti, dato che i cambi di funzione in tre anni (2016-2019) sono stati soltanto 121 e hanno riguardato per lo più i giovani magistrati che vogliono avvicinarsi alle città di origine dopo i primi anni di servizio in sedi poco gradite. Resta invece fuori dalla prospettiva della riforma proposta dal governo la separazione delle carriere tra giudice e Pm, nella consapevolezza, evidentemente, delle profonde divisioni in proposito tra le forze di maggioranza e dei delicati problemi di equilibrio istituzionale che una simile soluzione reca inevitabilmente con sé. Mentre invece è del tutto illusorio che essa possa costituire il principale rimedio a tutti i mali della giustizia. Non c’è processo giusto senza separazione delle carriere di Enrico Morando Il Riformista, 3 marzo 2022 L’avvocato dell’accusa e quello della difesa devono giocare alla pari. Se non basteranno le riforme del Governo, dovranno essere gli elettori con il Sì al referendum ad aprire la strada ad un nuovo equilibrio. Quando Alberto De Bernardi mi ha chiesto di partecipare al dibattito della Fondazione Per su: “A 30 anni da Tangentopoli: noi c’eravamo”, ho pensato che avrei potuto dare un contributo alla discussione se mi fossi proposto di rispondere a quattro precise domande: 1) Tu che c’eri, avevi capito di cosa si trattava? 2) In funzione di quello che avevi capito, cosa hai fatto? 3) Quello che hai fatto, ha prodotto risultati (buoni o cattivi che siano stati)? 4) Alla luce di quell’esperienza, oggi cosa serve? Provo a rispondere, cercando di andare all’essenziale su ognuna delle quattro questioni. 1) Cosa avevo capito di quello che stava accadendo. Dico subito che non avevo capito che Tangentopoli sarebbe diventata la causa principale -se non addirittura l’unica- del collasso del sistema politico italiano che oggi chiamiamo “prima Repubblica”. Non lo avevo capito allora semplicemente perché Tangentopoli non è stata la principale causa del crollo di quel sistema politico. A determinare il collasso fu il crollo del muro di Berlino, il venir meno della contrapposizione tra due blocchi politicamente, economicamente, ideologicamente e militarmente contrapposti. Quanti considerano Tangentopoli il principale fattore di crisi avanzano - contro questa mia tesi - un’obiezione precisa: “Il muro di Berlino cade per tutti, in Europa e nel mondo. Perché solo da noi trascina nella sua caduta l’intero sistema politico? Perché solo da noi esplode Tangentopoli.” La domanda è ben posta, ma la risposta è sbagliata: la fine dell’Unione Sovietica e del conflitto Est-Ovest ha in Italia un effetto più profondo perché solo in Italia - alla fine degli anni 80 del novecento - il sistema politico era ancora organizzato attorno alla linea di faglia Est-Ovest. Nessuno dei partiti della prima Repubblica si era davvero preparato per essere protagonista del nuovo mondo: il PCI, in primis. Ma, a cascata, anche la DC e il PSI. Tangentopoli è stata invece un potentissimo fattore di accelerazione e moltiplicatore della crisi di funzione dei partiti e del sistema politico, trasmettendo l’onda d’urto dell’89 agli altri fondamentali “poteri” dello Stato. Infatti, anche il rapporto tra sistema politico e sistema dei controlli si era sviluppato “tenendo in gran conto” il carattere anomalo della democrazia italiana, in cui la principale forza di governo “doveva” restare alla guida del paese -ad ogni costo-, perché la principale forza di opposizione “non poteva” farsi protagonista di un’alternativa di governo. Il vincolo della contrapposizione Est-Ovest teneva avvinti anche gli organismi di controllo. Quando il vincolo viene meno, vengono sconvolte tutte le relazioni tra i poteri. Il “potere costituente”, chiamato a costruire un nuovo equilibrio, era situato nel rapporto tra cittadini elettori e partiti politici: mentre i primi danno segni evidenti di aver compreso l’urgenza dell’innovazione istituzionale (la partecipazione massiccia al referendum elettorale del ‘91), i secondi sembrano nostalgici del vecchio equilibrio, condannandosi per questa via all’impotenza. Nel vuoto tra l’esigenza (e la domanda) di innovazione politica e istituzionale e l’incapacità delle forze politiche di definire (o anche soltanto di concepire) gli architravi di un nuovo sistema, si inserisce l’iniziativa della magistratura requirente, che usa senza infingimenti la categoria del “consenso popolare”, tipica della politica democratica (invito chi ha dei dubbi in proposito ad andare a rivedere o rileggere la conferenza stampa di Di Pietro e degli altri colleghi inquirenti contro il decreto Conso). Ora, posso rispondere alla prima domanda: sia pure confusamente, che l’89 avesse questa portata “sistemica” e che Tangentopoli ne amplificasse l’onda d’urto l’avevo capito, assieme a tanti altri dirigenti e militanti della sinistra, che cercarono di far corrispondere a questa consapevolezza una precisa iniziativa politica. Vengo così alla risposta alla seconda domanda. 2) Se avevi capito, cosa hai fatto? Nel giugno del 1992, l’Area Riformista del PDS -di cui mi onoro di aver fatto parte-presenta alla riunione della Direzione del partito un documento sulla fase politica, su Tangentopoli, sull’iniziativa del PDS. Quel documento era stato preparato da tre persone, appositamente incaricate da una riunione più larga: Gerardo Chiaromonte, Umberto Minopoli e il sottoscritto. Tre le questioni fondamentali affrontate: a- la necessità di dare carattere costituente alla legislatura che si era appena aperta. Ho già ricordato l’esito del referendum del ‘91. Ma, soprattutto, era in corso la raccolta delle firme per i referendum elettorali per il maggioritario, su iniziativa del Comitato Segni, di cui un autorevole membro dell’Area Riformista del PDS - Augusto Barbera - era vicepresidente. In questa prima parte del suo documento l’Area Riformista del PDS - dimostrando di avere chiare le enormi conseguenze “nazionali” dell’89 - proponeva al partito di impegnarsi nella costruzione di un nuovo equilibrio politico e istituzionale; b- L’esigenza di riconoscere che era esistito ed esisteva, anche per il PCI-PDS, un “ambito di iniziativa finanziaria non trasparente”, da superare non solo con autoriforme, ma anche con interventi legislativi, così riconoscendo il fenomeno fatto emergere dalle indagini giudiziarie come problema politico; c- L’urgenza di sviluppare un’iniziativa politica per la costruzione di un’alternativa alla DC attraverso un “polo aggregante” costituito dalle forze del socialismo democratico. Alla luce di questo obiettivo, il documento proponeva di assumere un atteggiamento di esplicita apertura verso il tentativo di Giuliano Amato per la costituzione del nuovo Governo. Circa l’accoglienza riservata al documento, basterà ricordare che le sue (numerose) pagine vennero fisicamente lanciate dal Segretario Achille Occhetto sulle prime file della Direzione. Alla nostra richiesta di pubblicazione sull’Unità venne opposto un netto rifiuto (col paradossale risultato che un’intera pagina pubblicava reazioni critiche ad un documento ignoto). Il rifiuto venne ribadito anche quando, per iniziativa di Domenico Carpanini, che aveva organizzato un’apposita sottoscrizione, si chiese all’Unità di pubblicarlo a pagamento, come inserzione pubblicitaria. Non mancò, infine, lo sberleffo di Cuore: impegnatosi a “reagire alla censura” pubblicando su ogni numero ben tre righe del testo, mantenne “l’impegno” fi no alla sua ultima edizione. Nell’immediato, l’unico risultato ottenuto fu quello della rottura della maggioranza che aveva fatto la svolta dal PCI al PDS. Guardando allo specifico problema di Tangentopoli, a cosa era dovuta la chiusura di Occhetto e della (in parte nuova) maggioranza del PDS? Molti, nell’immediato e successivamente, tesero a vederci la manifestazione di un disegno politico circa l’uso di Tangentopoli a fi - ni di parte. Io, allora come oggi, mi convinsi che a dettare quella scelta siano state paura e illusione. Paura che anche la nuova creatura, il PDS, potesse essere travolta; e illusione che potessimo mantenerci - nel silenzio - al riparo dell’onda di piena. 3) E i risultati di più lungo periodo? Nella mia esperienza personale, quella dura battaglia del giugno 1992 fu l’inizio di un lavoro di lunga lena, sia sulla strategia politica generale, sia sullo specifico tema della costruzione di un nuovo equilibrio tra potere politico e poteri di controllo. Sul primo punto, tornerò un’altra volta (se avessimo “aperto” ad Amato, nel 1992, saremmo rimasti poi nel governo Ciampi, nel 1994… E alle elezioni di quell’anno non saremmo andati coi “Progressisti” - in sostanza, PCI più Indipendenti di sinistra - ma con il “centrosinistra” del governo uscente…). Sul secondo, voglio ricordare la grande soddisfazione che provai, da senatore della Repubblica, quando un larghissimo schieramento introdusse in Costituzione il “giusto processo”, col nuovo articolo 111. Pensai che da lì alla separazione delle carriere il passo sarebbe stato obbligato e cortissimo. Mi sbagliavo, ma qui siamo arrivati all’oggi, cioè all’ultima domanda. 4) Alla luce di questa esperienza, cosa serve? Poiché 30 anni di permanente squilibrio nel rapporto tra i poteri fondamentali definiscono una condizione di inaccettabile stabilità, dobbiamo utilizzare l’occasione che ci viene offerta dalla combinazione di riforme progettate (e in parte realizzate) dal Governo Draghi e referendum popolari, per definire un nuovo equilibrio. A questo scopo, il tema della separazione delle carriere della magistratura giudicante e requirente è assolutamente centrale. Cosa deve ancora succedere perché si capisca che un processo giusto, in tempi ragionevoli, è solo quello che vede nel PM l’avvocato dell’accusa, in condizioni di effettiva parità rispetto a quello della difesa? Bene dunque l’iniziativa riformatrice del Governo. Se però essa non dovesse trovare uno sbocco positivo - o se le soluzioni adottate non fossero sufficienti a superare il quesito - bisognerà che siano gli elettori, con la partecipazione al voto e la vittoria del SÌ, ad aprire la strada verso un nuovo equilibrio. In materia di giustizia e di soluzioni liberali dei problemi aperti, i cittadini italiani, con la schiacciante vittoria del SÌ al referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati, avevano pronunciato parole chiare. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire… Bisognerà gridare almeno altrettanto forte. Giustizia, i primi piccoli passi nella direzione corretta per imprese e cittadini di Mariano Bella e Luciano Mauro Il Dubbio, 3 marzo 2022 Il Pnrr manifesta un’adeguata attenzione al tema della giustizia. È una buona notizia. Evitando inutili dettagli - visto che il Piano è in corso di realizzazione e sarebbe prematuro trinciare giudizi sulla sua efficacia - conviene piuttosto offrire qualche riflessione dal punto di vista delle imprese e del sistema economico in generale. Sono, ormai, innumerevoli gli studi sulla relazione positiva tra efficacia del sistema giudiziario e tasso di crescita di un’economia. Il principale canale di trasmissione riguarda gli investimenti, i quali dipendono positivamente dal prodotto (marginale) del capitale e negativamente dal costo del capitale stesso. Una giustizia scarsamente funzionante da una parte peggiora il rendimento atteso degli investimenti, dall’altro ne accresce il costo, il quale dipende dall’incertezza e dalla rischiosità legate al processo d’investimento. Non c’è nulla di più incerto - e, quindi, costoso - di una giustizia dai tempi dilatati e dagli esiti non ragionevolmente prevedibili. Pertanto, l’investimento è minore quando le condizioni del sistema giudiziario sono peggiori. Senza investimenti, l’accumulazione di capitale langue, l’innovazione non sboccia, il capitale umano emigra o non è impiegato in modo efficiente. A questo semplice schema, la politica economica del nostro Paese ha associato, fino a oggi - è il caso di sottolinearlo - una balzana strategia, improntata a quella che potemmo definire perfetta sostituibilità dei fattori dentro la funzione di produzione. In parole povere, si ha l’impressione che qualche legislatore nel corso del tempo abbia considerato sostituibile il costo del lavoro con l’imprevedibilità, appunto, degli esiti del processo (in particolare quello civile): la decontribuzione del lavoro, per esempio, in taluni territori, compenserebbe deficit strutturali nella qualità e nel funzionamento delle istituzioni che caratterizzano l’ambiente in cui opera l’azienda, come appunto la giustizia. Come se, insomma, un’azienda potesse davvero decidere di investire in un territorio con tribunali inefficienti semplicemente perché il costo dei lavoratori risulterebbe inferiore rispetto a location dove la giustizia funziona. Questo trade-off semplicemente non esiste: così, sovente, gli incentivi sono soldi dei contribuenti (cioè, nostri e vostri) buttati, mentre i problemi del sistema giudiziario restano. L’Italia è in cima alle classifiche per la durata media di un processo (di cognizione per le cause civili nel primo grado di giudizio). Secondo la Corte Europea, negli ultimi sessant’anni, l’Italia ha conseguito, tra le principali economie europee, il non invidiabile primato di condanne per violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, sia in relazione al diritto a un giusto processo, sia in relazione alla lunghezza del procedimento, sia in relazione alla non esecutività della sentenza. La quasi totalità si riferisce alla giustizia civile, per un totale di 1.501 condanne, contro le 129 della Germania, le 565 della Francia, le 69 della Spagna e le 123 del Regno Unito; rapportando questi numeri alla popolazione e posto pari ad 1 l’indice del Paese meno condannato (Spagna), l’Italia ha un parametro di 17,2, cioè è stata condannata 17 volte rispetto al migliore, considerando che la Francia, il secondo peggiore, è stata condannata solo sei volte rispetto al migliore. All’origine di questo malfunzionamento del sistema giudiziario si collocherebbero varie cause di ordine strutturale che non possiamo qui analizzare. Osserviamo esclusivamente due aspetti della questione. Il primo, relativo all’offerta, riguarda il personale di staff ai giudici: in Italia 35 per 100mila abitanti, contro i 106 della Spagna, i circa 65 per Germania e Austria e i 49 circa della Svezia. A questo proposito, il Pnrr, nel processo di rafforzamento dell’Ufficio del processo, sembrerebbe porre un rimedio, colmando o quasi i suddetti gap, attraverso l’acquisizione di adeguate risorse. Non sarà risolutivo, ma è una strategia logicamente fondata ed empiricamente supportata dalle evidenze. L’altro aspetto, molto più spinoso del precedente, riguarda la domanda. Facciamo riferimento al mito della straordinaria litigiosità del popolo italiano. Ora, pacificamente ammesso che non esiste il gene della litigiosità, si capisce che il problema è capire l’origine di quest’eccesso, piuttosto che prenderlo come un dato di partenza (è, piuttosto, l’arrivo). Se prendiamo sul serio il punto, lasciando da parte stravaganti congetture sul ruolo dell’avvocatura come sprone a intentare cause - la dimensione della domanda indotta sarebbe comunque marginale - non si può che fare riferimento tanto alla diffusa difficoltà nel capire norme e leggi quanto all’uso strumentale che alcuni cittadini fanno della giustizia denegata per resistere in giudizio in condizione di torto palese oppure, che è lo stesso, nel l’intentare cause per evitare di adempiere a un’obbligazione cogente. Disgraziatamente, si vede che in entrambi i casi i problemi “di domanda” si ribaltano, trovandovi origine, nell’offerta di giustizia, dove norme e leggi in generale ne costituiscono il presupposto. D’altra parte, è una regola generale di chi opera in un mercato - non si offenda nessuno, per carità - assumere che i consumatori abbiano sempre ragione. Non si vede perché non si debba applicare questa massima di buon senso alla domanda di giustizia. Se c’è, ci deve essere una ragione genuina perché ci sia. Allora le domande diventano: norme e leggi di cui disponiamo favoriscono negoziazioni private a costi minimi? O costituiscono, piuttosto, trappole ben congegnate per rendere difficile, più difficile, la vita di cittadini e imprese? Se la risposta alla prima domanda fosse positiva - e non lo è - la deflazione del contenzioso si otterrebbe da sé, attraverso transazioni tra le parti ben prima di sopportare i costi di una causa. È la visione ispirata al Teorema di Coase (in versione ultra- semplificata) delle norme come apparato che favorisce, non inibisce, tutti i possibili accordi tra privati. Allo stesso tempo, se la risposta alla seconda domanda fosse positiva - e lo è - allora la riduzione dei tempi della giustizia passerebbe da una revisione del corpus di leggi in vigore, nella direzione di un’intellegibilità di come funzionano le norme, a partire dalla redazione dei famosi testi unici) per materia al fine di capire, preliminarmente, dove sono le norme e come si coordinano tra loro. Certo è difficile. Ma dobbiamo fare le cose utili, non quelle facili. Affrontate queste ineludibili questioni, poi verrebbero i temi della produttività dei magistrati, l’ampiezza dei tribunali, la specializzazione dei giudici e degli avvocati e gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, riconoscendo, riguardo a quest’ultimo punto, che la mediazione non va imposta, ma incentivata, rendendola conveniente. Alla fin fine, il primo principio della giustizia giusta è che sia accessibile a tutti, in modo pieno e nella sua versione di eccellenza. Milano. Quei baby detenuti lontani da casa di Monica Serra La Stampa, 3 marzo 2022 Il carcere minorile Beccaria ha solo 31 posti. Oltre 50 giovanissimi trasferiti in Sicilia, Puglia e Campania. “Colpa di lavori mai finiti che vanno avanti da 17 anni”. Gnido e Momo sono gli ultimi di una lunghissima lista. Accusati di far parte di una violenta baby gang, sono stati arrestati all’alba di ieri dai carabinieri e sono finiti al cpa del carcere minorile di Airola, Benevento, a ottocento chilometri di distanza dalle loro seppur complicate famiglie. Da fratelli, sorelle, mamme, papà, affetti, fragili punti di riferimento. Che, tra il lavoro spesso precario, gli altri figli da tirare su, le enormi difficoltà economiche per arrivare alla fine del mese, certamente non riusciranno ad andare a trovarli in Campania. Semmai potranno sentirli, quando va bene, con una videochiamata. Guido e Momo sono nomi di fantasia perché questi ragazzi hanno soltanto 15 e 14 anni. Ma la loro situazione è identica a quella di più di cinquanta giovanissimi arrestati tra Milano e la Lombardia. Finiti addirittura a Caltanissetta, Bari, Nisida, un’isoletta campana dell’arcipelago delle Flegree. A denunciare la loro situazione è il garante dei detenuti Francesco Maisto, che ne ha riferito anche alla Commissione carceri del Comune. “Perché nell’unico istituto della regione, il Beccaria, lo spazio che dovrebbe essere destinato a loro è interessato da lavori di ristrutturazione che vanno avanti da oltre quindici anni. L’appalto, assegnato dal Provveditorato alle Opere pubbliche, risale infatti al 2005. Nel 2022 l’ala non è ancora stata riconsegnata alla direzione del carcere”. I motivi di questo stallo, che Maisto definisce “uno schiaffo a una città come Milano che tanto fa e investe, anche a livello associazionistico, nella rieducazione dei minori”, sono presto detti. “Non ho in mano ancora le carte degli appalti - che senza dubbio saranno costati milioni di euro di soldi pubblici, anche se nessuno rivela la cifra precisa-ma da quel che ho potuto ricostruire i problemi in questi diciassette anni sono stati i più svariati, moltiplicati dalle lungaggini della burocrazia, tra ditte fallite, ricorsi di aziende che non si sono aggiudicate la gara e varianti in corso d’opera”. E già, perché ovviamente in 17 anni sono cambiate completamente le esigenze e le regole di costruzione. Il risultato? Al Beccaria ci sono solo 31 posti. Quando si arriva a 38 detenuti, si procede allo “sfollamento”: cioè a caricarli sui cellulari della Penitenziaria e a trasportarli a centinaia di chilometri di distanza da casa, con buona pace di mamme e avvocati che in questi anni hanno scritto decine di lettere al Tribunale per i minorenni e alla direzione del carcere. “Tutto questo - denuncia Maisto - si aggiunge a un altro fatto grave: anche l’ala che è stata ristrutturata e già restituita all’amministrazione penitenziaria in realtà non è occupata dai ragazzi, perché desta molte preoccupazioni rispetto all’adeguatezza a ospitare detenuti minori”. Nel senso che, sembra di capire, è stata costruita per ospitare uffici, spazi comuni, non celle con tutti i sistemi di sicurezza necessari per i giovani detenuti. Così, a causa di burocrazia e scelte che si sono rivelate nella migliore delle ipotesi del tutto inadeguate, in barba al principio di territorialità della pena, ragazzi di 14o 16 anni finiscono in Sicilia, in Puglia, in Campania. “Eppure - racconta Maria Vittoria Rava, della Fondazione Francesca Rava, che tanto sta facendo per il Beccaria con il progetto “Palla al centro” - se ai ragazzi chiedi cosa gli manchi di più della loro vita fuori, tutti rispondono la famiglia e non la libertà”. E questo dà la misura della dimensione del problema, per anni denunciato anche nel report “Ragazzi Dentro” dell’associazione Antigone. Dell’osservatorio fa parte Michele Miravalle: “Quel che nel tempo mi ha fatto più impressione è stato vedere l’enorme cambiamento del quartiere intorno al carcere, mentre dentro restava tutto uguale. Da dieci anni, per accedere passo sotto un tunnel nel cantiere. E questo dà plasticamente l’idea del mondo parallelo che c’è dentro”. C’è da dire che però a partire dal 2017 qualcosa si è mosso. Perché la presidente del Tribunale per i minorenni Maria Carla Gatto, la direttrice del Centro di giustizia minorile della Lombardia, Francesca Perrini, e il capo del dipartimento Giustizia minorile del ministero, Gemma Tuccillo, appena nominate quattro anni fa, hanno subito preso a cuore la situazione dando una scossa all’avanzamento dei lavori che pure non dipendevano da loro, ma dal Provveditorato alle Opere pubbliche. “Abbiamo dovuto combattere in sinergia e non è stato semplice. Perché - racconta la presidente Gatto - in questi anni di fatto è stato impedito al più importante istituto penale per i minorenni d’Italia di poter funzionare al massimo delle sue potenzialità”. Ora la speranza è che i lavori si concludano per la fine del 2022. Forse però, a monte, sarebbe servita qualche valutazione in più su una struttura talmente vecchia e inadeguata “che si sarebbe fatto prima ad abbattere e ricostruire, invece di ristrutturare”. Milano. “Rieducazione difficile a centinaia di chilometri dalle famiglie” di Monica Serra La Stampa, 3 marzo 2022 Il capo della procura per i minorenni: “Non vanno sradicati dai riferimenti altrimenti non si riesce a iniziare un progetto a lungo termine”. Per un ragazzino di 14 o 16 anni è fonda mentale continuare a coltivare tutte le relazioni familiari e affettive soprattutto quando è ristretto in carcere. Anche in vista della necessaria progettualità e della finalità rieducativa della pena, di fatto difficile da realizzare a centinaia di chilometri da casa”. Il capo della procura per i minorenni di Milano, Ciro Cascone, ragiona anche davanti ai numeri degli arresti che negli ultimi mesi stanno aumentando “a causa del disagio giovanile che si moltiplica tra lockdown e pandemia e forse anche per un effetto emulativo dei numerosi fatti di cronaca che riguardano i giovanissimi e che vengono raccontati”. Procuratore, perché è così importante che i minorenni restino vicino a casa? “Lo prevede il principio di territorialità della pena: questi ragazzi non possono essere sradicati dai punti di riferimento. Soprattutto gli stessi servizi sociali, così, hanno difficoltà a intraprendere un percorso per il loro reinserimento”. In che senso? “Se un ragazzo finisce nel carcere di Roma o di Bari e non si sa neanche per quanto tempo si fermerà lì, i servizi sociali del posto non riescono a intraprendere con lui e con la sua famiglia un progetto di lungo termine per avviare un concreto percorso di rieducazione. Questo è l’aspetto più grave della situazione”. Stesso problema per le ragazze detenute? “Oramai al Beccaria da anni non c’è una sezione femminile. Le ragazze, che per fortuna sono meno dei maschi, finiscono tutte nel carcere di Pontremoli, in Toscana. E vivono gli stessi problemi dei ragazzi”. Ma al momento di un arresto chi decide in quale istituto deve andare un minorenne? “Non siamo noi, ma il dipartimento della Giustizia minorile del ministero. Noi comunichiamo il numero degli ingressi e Roma stabilisce dove devono essere portati”. A seconda delle disponibilità? “Certo. Inizialmente si provava a mandarli a Torino, che comunque è più vicina e più agevole da raggiungere per le famiglie. Ma anche Torino ha iniziato a riempirsi. Così questi ragazzi ora sono nei più svariati istituti d’Italia”. E perdono completamente il contatto coni cari? “Di certo non riusciranno a vederli o a fare colloqui. Potranno sentirli per telefono, quando va bene, con una videochiamata”. Tutto questo in un momento in cui gli arresti dei ragazzini aumentano… “La misura in carcere dipende dalla gravità dei fatti commessi e in questi mesi vediamo crescere i numeri dei reati e degli arrestati che non devono in alcun modo essere sfiorati dal senso di impunità”. Ma qual è secondo lei il motivo di questo incremento? “Penso e temo che ora iniziamo a vedere gli effetti a lungo termine della pandemia, proprio come accadeva con i contagi. Il problema è che non so dire se abbiamo già raggiunto il picco”. Qual è il rischio concreto che corrono a stare così lontani? “Per quanto grave possa essere il reato commesso, la distanza produce effetti traumatici. Rischiamo di perderli e dobbiamo evitarlo in ogni modo”. Forlì. Al via tre laboratori nei quali lavorano i detenuti della Casa circondariale 4live.it, 3 marzo 2022 Il Comune di Castrocaro Terme e Terra del Sole, lo scorso 23 settembre, è diventato partner di Rete del Protocollo Altremani, che ha dato vita ai Laboratori nei quali lavorano, ogni giorno, detenuti della Casa Circondariale di Forlì, ovvero il Laboratorio Altremani di assemblaggio e di saldatura. Il seminario sarà l’occasione per la sindaca, Marianna Tonellato, di presentare alla cittadinanza, ed in particolare agli imprenditori del territorio, le motivazioni di tale adesione, certa che il lavoro in carcere possa essere sicuramente un’opportunità di reinserimento sociale per il detenuto ma anche un significativo vantaggio per l’impresa. Il Protocollo conta 25 firmatari tra i quali, oltre ovviamente al carcere, enti locali, istituzioni, aziende del territorio. Nato nel 2006, il Laboratorio Altremani rappresenta un’esperienza di grande successo, per nulla scontato all’interno di un carcere, sia in termini occupazionali che economici. Altremani, infatti, rappresenta un’eccellenza a livello nazionale non solo per gli oltre 80 detenuti che in questi anni ha coinvolto, ma anche grazie all’autosufficienza economica raggiunta dal Laboratorio, superando le difficoltà strutturali, logistiche, normative e relazionali caratterizzanti le attività in carcere che spesso ne compromettono non solo l’autosufficienza economica ma la stessa sostenibilità. Interverranno al seminario Palma Mercurio direttore Casa Circondariale di Forlì, Lia Benvenuti direttore Generale Techne, agenzia formativa pubblica che coordina i laboratori con funzioni di regia, tutoraggio e monitoraggio, nonché rappresentanti di imprese della nostra Provincia che hanno scelto di commissionare lavori ai laboratori in carcere. Tra questi: Pietro Bravaccini, Vossloh Scwabe Italia Spa, Davide Saputo, Cepi Spa, Cristian Ciani, CRD Lamiere Srl. Sabato 5 marzo alle ore 9,30 al Palazzo Pretorio di Terra Del Sole Padrona di casa, e coordinatrice dei lavori, sarà la sindaca di Castrocaro Terme e Terra del Sole, Marianna Tonellato. Roma. Preghiera per la pace, Cartabia e Tartaglia a Regina Coeli di Marco Belli gnewsonline.it, 3 marzo 2022 C’è un’aria di solennità sospesa quando, nella biblioteca della Casa circondariale di Regina Coeli, Nazareno, detenuto ucraino, accende i nove piccoli ceri disposti davanti al crocefisso. Nove come le sezioni detentive dell’istituto, a testimoniare simbolicamente la presenza e la vicinanza di tutta la popolazione reclusa nel carcere romano per quel momento di preghiera per la pace chiesto da Papa Francesco nel giorno delle Ceneri. Un invito, quello del Santo Padre che invoca alla preghiera collettiva nella giornata del 2 marzo e rilanciato anche dall’ispettore dei Cappellani delle Carceri d’Italia, don Raffaele Grimaldi. Davanti a Padre Vittorio Trani, cappellano del carcere che guida la preghiera, c’è una piccola rappresentanza di chi vive quotidianamente all’interno di quelle mura: una ventina di detenuti, alcuni poliziotti penitenziari, personale e volontari, insieme alla direttrice uscente Silvana Sergi e al neo comandante Ezio Giacalone. E poi c’è la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che, insieme a Roberto Tartaglia che ha attualmente la reggenza del Dap e al Provveditore regionale per il Lazio, Carmelo Cantone, ha voluto essere con tutti loro per condividere l’invito del Pontefice. Un invito rilanciato dall’Ispettore dei Cappellani delle carceri, don Raffaele Grimaldi, con una lettera indirizzata alla pastorale penitenziaria dei 190 istituti italiani. Il giovane Bright, detenuto nigeriano, intona un canto nell’antica lingua africana del Regno di Edo, accompagnandosi con la chitarra. La sua voce rende ancora più vive le parole del Santo Padre, che all’Angelus di domenica scorsa ha invitato tutti a raccogliersi e digiunare contro il male della guerra, “prego tutte le parti coinvolte perché si astengano da ogni azione che provochi ancora più sofferenza tra le popolazioni, destabilizzando la convivenza tra le nazioni e screditando il diritto internazionale”. Il rito prosegue poi con la lettura di due misteri del Rosario e le parole della preghiera per la pace di Papa Giovanni II, per concludersi con la benedizione impartita da Padre Vittorio. Nel rispettoso e composto silenzio che regna fra le invocazioni di preghiera, i pensieri di tutti i presenti, credenti e non credenti, sono volati ai preoccupanti echi del conflitto alle porte dell’Europa. E a una accorata speranza di pace. Una speranza che, a cerimonia conclusa, la ministra Cartabia ha voluto personalmente testimoniare salutando tutti di detenuti presenti. E in particolare soffermandosi per qualche minuto con due giovani ucraini, con i quali ha scambiato parole di preoccupazione e speranza. Viterbo. Triangolare di calcio: lo sport aiuta i detenuti. Inziativa del Coni Lazio di Renato Vigna Il Messaggero, 3 marzo 2022 Si è concluso nel carcere di Mammagialla il progetto Lo sport entra nelle carceri promosso da Coni Lazio e Regione all’interno del protocollo d’intesa Coni e Regione, compagni di sport. L’atto finale è stato un triangolare di calcio a cui hanno preso parte due formazioni di detenuti guidate dalla panchina da Massimo Baggiani che ha curato la parte tecnica dell’iniziativa per quattro mesi e una rappresentativa della Smam (Scuola marescialli Aeronautica militare) che grazie al colonnello Sandro Cascino si è resa disponibile. Le gare sono state dirette da arbitri dell’Aia di Viterbo diretta dal presidente Luigi Gasbarri. La realizzazione del progetto si è potuta concretizzare per la collaborazione con la direttrice della Casa circondariale, Anna Maria Dello Preite, del commissario Daniele Bologna comandante del carcere, di Natalina Fanti responsabile area trattamentale e della delegazione del Coni rappresentata da Ugo Baldi e Adriano Ruggero. Al termine della manifestazione sono stati premiati i partecipanti con coppe, medaglie e diplomi. “Quella della rieducazione attraverso lo sport è una sfida impegnativa - ha detto il presidente del Coni, Riccardo Viola - e passa attraverso questi progetti che mirano al potenziamento dell’autostima, sviluppo del potenziale personale e recupero di quei valori come la legalità, la lealtà e la cooperazione. Lo sport è uno degli strumenti più potenti per evolvere e diventare persone migliori, e grazie al protocollo d’intesa con la Regione da cinque anni sosteniamo gli istituti penitenziari nel loro lavoro di riabilitazione dei detenuti”. Ai detenuti è stato consegnato da parte delle società di calcio di Civita Castellana, Flaminia e Jfc, del materiale sportivo (palloni, scarpe da gioco e guanti da portiere) utile per l’attività quotidiana. Il fotografo Bispuri: “Così lo sguardo entra nella carne del mondo” di Eugenio Giannetta Avvenire, 3 marzo 2022 Il fotoreporter racconta la sua esperienza con i disagi umani e sociali: “Come si fotografa la sofferenza? Passando molto tempo con chi soffre. Mi interessa conoscere l’uomo nella sua profondità”. Come nasce una storia? Come si conduce un reportage fotografico? Quale distanza deve mantenere un fotografo rispetto a ciò che sta documentando? Sono alcune delle domande a cui prova a rispondere Valerio Bispuri, fotoreporter pluripremiato che da oltre vent’anni porta su alcune delle principali testate internazionali storie di uomini e donne che vivono in Paesi dove le disparità sociali scavano solchi ed erigono barriere. Di questo parlerà il suo incontro di sabato a Book Pride (ore 17.30, Sala Cristina Campo, con Francesca Adamo e Marco Damilano) e di questo parla il suo libro Dentro una storia. Appunti sulla fotografia (Mimesis, pagine 150, euro 14), una sorta di bilancio di vent’anni di lavoro e insieme un metodo, una cassetta degli attrezzi per imparare il mestiere di raccontare per immagini, andare in profondità con una foto e imparare a usare e dosare tempo e coraggio. “Ho sempre visto la fotografia come un guardare attraverso il mondo con la lente d’ingrandimento delle nostre emozioni - spiega Bispuri -. È un gesto che diventa forma, uno spazio che si interpone agli angoli remoti delle nostre linee interiori”. Angoli remoti che per Bispuri non sono solo metaforici, perché nelle sue foto ci sono aspetti insieme umani e di denuncia, storie di emarginati, ultimi, rifugiati, invisibili dall’Africa, dove ha approfondito il tema della malattia mentale, ma anche dall’Asia, dal mondo Rom, dal Sudamerica, dove ha lavorato a lungo sulle carceri (dieci anni e 74 strutture detentive, oltre a un altro lavoro sulle prigioni italiane tra le carceri di Poggioreale, San Vittore, Regina Coeli e Ucciardone). “L’idea degli ultimi e dei dimenticati è stata sempre dentro di me - dice. Quando viaggiavo cercavo di capire la parte più sofferente dei luoghi, con una curiosità innata e una fortissima esigenza di fare qualcosa di importante. Perciò quando mi viene chiesto perché fotografo la sofferenza, posso rispondere solo che il vero mondo è lì. A me interessa capire chi sono veramente i soggetti che fotografo, mi interessa l’essere umano che soffre e che lotta”. Ma come si fotografa la sofferenza? Cosa serve per farlo con la giusta accortezza e delicatezza necessarie? Il tempo è la caratteristica più preziosa. Passare molto tempo con i soggetti fotografati, a volte anche senza fare nulla, stare semplicemente con loro, stabilire una fiducia, conoscerli e conoscere sé stessi, imparando a bilanciare tra le nostre emozioni e la realtà. Io non mi considero solo un fotografo, perché racconto la realtà finalizzata al mio lavoro. Non mi considero un artista, per me la fotografia è semplicemente il mezzo con cui mi trovo meglio a raccontare la realtà, con pazienza e coraggio. Il fotoreporter è un po’ giornalista, un po’ antropologo, ma anche investigatore. Tra le tante realtà che ha raccontato, una delle più significative è la malattia mentale, iniziata con un percorso in Africa nel 2017 e sviluppata ulteriormente negli ultimi anni. Con il Covid si è aperto un mondo sulla malattia mentale e ho iniziato a lavorare su questo tema anche in me stesso, con alcuni permessi per ospedali e case famiglia. La cosa più importante che ho imparato stando a contatto con loro è il senso del tempo. Non sentono quasi mai la noia, non sentono lo scorrere del tempo. Noi andiamo ai mille all’ora tutti i giorni, ma stando con loro si deve rallentare, si deve stare al loro tempo, che è tutto interno, per andarsi incontro, trovarsi e capire un po’ di più. Tra i lavori più importanti, poi, un progetto in cui ha fotografato i sordi, una delle sue più grandi sfide. Perché? Non c’è visibile nella loro sordità, per cui ho dovuto cambiare modo di scattare. Ci ho messo mesi per realizzare la prima foto, mi sono fatto creare dei tappi in silicone e ho indossato cuffie da lavoro che non mi facessero sentire rumori, né la mia stessa voce. La chiave è arrivata poi quasi un anno dopo, ribaltando la prospettiva e raccontando il loro rumore e non i loro silenzi. E ora, quali sono i prossimi soggetti su cui posare lo sguardo? Concluso questo lungo lavoro sulla malattia mentale, in dirittura d’arrivo, mi vorrei occupare di infanzia dimenticata e orfanotrofi. Il “mandato” è più o meno sempre lo stesso, capire quando è il momento giusto di scattare, capire qual è la distanza giusta da una scena… Ci si deve sempre domandare: questa fotografia aggiunge o no qualcosa a quello che sto raccontando? “Mai più guerra”, Bergoglio apre la giornata del digiuno di Luca Kocci Il Manifesto, 3 marzo 2022 All’iniziativa del Papa per il mercoledì delle ceneri hanno aderito anche non credenti. Cattolici, cristiani, credenti in altre fedi e non credenti hanno digiunato ieri per la fine della guerra in Ucraina, rispondendo all’appello di papa Francesco che dieci giorni fa ha lanciato l’iniziativa. “Mai più la guerra, con la guerra tutto è distrutto”, le parole del pontefice che hanno aperto la giornata. Ribadite nel pomeriggio, durante le celebrazioni di inizio Quaresima del mercoledì delle Ceneri, all’Aventino, dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, che ha letto l’omelia di Bergoglio, assente a causa di una “gonalgia acuta”: “Preghiera, carità e digiuno sono le armi dello spirito, è con esse che, in questa giornata, imploriamo da Dio quella pace che gli uomini da soli non riescono a costruire”. In mattinata, al termine dell’udienza in Vaticano, il papa - che qui invece c’era - ha ricordato il dramma della guerra quando ha salutato i fedeli polacchi presenti. “Voi, per primi, avete sostenuto l’Ucraina, aprendo i vostri confini, i vostri cuori e le porte delle vostre case agli ucraini che scappano dalla guerra”, ha detto Francesco, che poi si è rivolto allo speaker, un frate francescano ucraino, che ha letto i saluti in polacco: “I suoi genitori sono in questo momento nei rifugi sotto terra, per difendersi dalle bombe, vicino a Kiev. Accompagnando lui accompagniamo tutto il popolo che sta soffrendo dei bombardamenti”. Giornata di digiuno come preghiera per i credenti, ma anche come laica azione politica nonviolenta. Come fu nove anni fa, 7 settembre 2013, quando il pontefice promosse un’analoga iniziativa per la Siria, che sembrava sul punto di essere bombardata da Usa e Regno Unito. Quella giornata di preghiera e digiuno ebbe una risonanza globale decisamente maggiore di quella di oggi, anche perché in serata - non c’era il Covid - venne convocata una grande veglia di preghiera a piazza San Pietro. Ma il senso delle due iniziative è lo stesso. In quell’occasione Vladimir Putin era un interlocutore privilegiato per il Vaticano: presiedeva il vertice del G20 in programma a San Pietroburgo, era ostile all’azione armata contro Damasco, e Francesco gli inviò una lettera per parlare ai “grandi”: “Abbandonino ogni vana pretesa di una soluzione militare”, si cerchi “con coraggio e determinazione una soluzione pacifica attraverso il dialogo e il negoziato”. Oggi invece Putin è l’aggressore. Il papa non gli ha scritto, ma venerdì scorso è andato dall’ambasciatore russo presso la Santa sede per invitarlo a “fermare i combattimenti e tornare al negoziato”. Segno che la diplomazia di Oltretevere è in movimento: Parolin ha ribadito l’offerta di mediazione, sebbene ci si muova su un terreno scivoloso, perché già cadono le bombe e perché i rapporti fra le Chiese ortodosse russe e ucraine sono un campo minato, a causa delle profonde divisioni a cui i nazionalismi non sono affatto estranei. Il punto su cui Bergoglio batte è sempre quello delle armi: “Chi fa la guerra dimentica l’umanità e si affida alla logica diabolica e perversa delle armi”, ha ripetuto domenica all’Angelus. Ovvero la direzione opposta verso cui hanno deciso di muoversi Europa e Italia, con le forniture di armamenti a Kiev. Sulla questione delle armi, cinque fra le principali associazioni del mondo cattolico italiano (Azione cattolica, Acli, movimento dei Focolari, comunità papa Giovanni XXIII e Pax Christi), partecipando alla giornata di digiuno, hanno rinnovato l’invito a governo e Parlamento ad aderire “adesso” al Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari - già firmato da oltre cinquanta Stati -, di cui si tornerà a discutere a Vienna nei prossimi giorni. “Sarà un segnale per tutti in un momento in cui si è adombrata la terribile possibilità di utilizzo di ordigni atomici - scrivono le associazioni -. Siamo convinti che ci vuole più coraggio a scegliere la pace che non la guerra. E questo è il momento”. Insieme ai credenti (la comunità di Sant’Egidio, gli scout dell’Agesci, parrocchie e comunità di base, chiese protestanti, comunità islamiche), anche molti non credenti hanno aderito al digiuno per la pace. Fra gli altri, in Italia, Rete pace e disarmo e Movimento nonviolento: “Non di armi c’è bisogno, ma di strumenti di pace”. Pacifismo. Il risveglio della “quarta potenza mondiale” di Tonino Perna Il Manifesto, 3 marzo 2022 Dopo 30 anni abbiamo rivisto nel mondo centinaia di migliaia di persone invocare la pace. Con il coraggio dei pacifisti russi che rischiano ogni volta la galera. Trent’anni fa, dopo l’attacco dell’11 settembre e la risposta degli Stati uniti, e quindi della Nato, nacque nel mondo un vasto movimento pacifista con milioni di persone, in prevalenza giovani, che scesero in piazza per urlare contro l’invasione dell’Afghanistan e poi dell’Iraq. L’attacco all’Afghanistan veniva giustificato con la presenza di Osama bin Laden, arrivando a bombardare ed occupare un intero paese per colpire il capo del movimento del gruppo terrorista che aveva organizzato l’attentato alle torri gemelle. Era come, scrissi allora su questo giornale, se si voleva prendere Totò Riina ed i suoi adepti mafiosi bombardando le province di Trapani e Palermo. La seconda guerra della Nato, o della Grande Alleanza, contro l’Iraq di Saddam Hussein fu giustificata con le armi di distruzione di massa da lui possedute e portarono alla rovina un intero paese e la sua popolazione (poi si è scoperto che era tutta una invenzione!). Nel 2003, contro questa seconda guerra del Golfo (la prima era stata nel 1991) ci sono state centinaia di manifestazioni per la pace in tutto il mondo, così partecipate e coinvolgenti da far definire questo movimento addirittura come “la quarta potenza mondiale”. È indimenticabile l’immagine dell’Italia con milioni di bandiere della pace sulle case che sporgevano dai balconi, dalle terrazze, dalle finestre, nelle grandi città quanto nei paesini, da Nord a Sud, un paese unito nel segno della pace. Tutto inutile. La volontà del governo statunitense e dei sudditi portò avanti una guerra assurda e distruttiva: oltre 300.000 morti iracheni, milioni di feriti, enormi danni ecologici. Da quel momento il movimento pacifista si è inabissato. Spento. Ci sono voluti quasi trent’anni per rivedere oggi in varie parti del mondo centinaia di migliaia di persone invocare la pace. Ma, attenzione. C’è una bella differenza tra i pacifisti russi che scendono in piazza rischiando la galera e, alle volte, la vita, e quelli nel mondo occidentale. E c’è ancora una differenza più grande tra chi parla di pace e poi invia le armi agli ucraini per difendersi dall’attacco sovietico. Insomma, una sorta di “armiamoci e partite”. Al di là di tutto ci si rende conto che questo invio di armi da parte dei paesi Ue all’Ucraina provoca e legittima Putin ad alzare il livello dello scontro? Non si sfida Putin sul suo terreno, altrimenti gli si dà la giustificazione per aumentare la sua potenza di fuoco, per colpire i civili indiscriminatamente. È invece sul piano economico che queste sanzioni lo stanno mettendo in ginocchio, con una rivolta che sta montando sia da parte degli oligarchi che della popolazione russa che ben presto soffrirà la fame e la disoccupazione di massa. Bisognava dare ragione a Biden quando affermava, la scorsa settimana, che l’alternativa alle sanzioni è la terza guerra mondiale. Tertium non datur. Così come quando si parla di solidarietà ed accoglienza non si può che essere contenti della risposta dei governi europei rispetto ai profughi di guerra ucraini, ma non possiamo anche in questo caso non porci delle domande. Perché la stessa disponibilità non c’è stata rispetto ai profughi di guerra siriani (oltre sette milioni sono scappati dalla Siria) o afghani o yemeniti o africani? Mentre, l’Ue è così aperta e generosa con gli ucraini, e ribadisco che ne siamo contenti, paga il sultano Erdogan per mantenere in un campo di concentramento milioni di rifugiati e profughi. O la Polonia, l’Ungheria, la Croazia, la Grecia, fanno bastonare queste persone dalla polizia e stendono muri e filo spinato per impedire il passaggio nel proprio territorio. È un problema di colore della pelle? Tutto questo per dire che siamo ben lieti che ci sia un risveglio del movimento per la pace e che speriamo che la manifestazione di Roma di sabato prossimo, convocata dalla Rete italiana Pace e Disarmo, registri una grande partecipazione. La qualità dell’appello di convocazione della manifestazione, in cui si dice chiaramente che “dall’Italia e dall’Europa devono arrivare soluzioni politiche non aiuti militari” fa ben sperare. Quello che l’esperienza decennale ci ha insegnato è che il cammino della pace è estremamente lungo e difficoltoso e può dare frutti solo se c’è la costanza dell’impegno e la determinazione ad andare avanti nella campagna per il disarmo. Nei lontani anni ‘70 c’era una parte del sindacato (i metalmeccanici della Flm in Italia) che si batteva in vari paesi europei, a partire dal Regno Unito, per la conversione dell’industria bellica. E da quelle lotte che bisognerebbe ripartire perché il rischio più grande a cui andiamo incontro è quello della corsa agli armamenti. In nome della difesa dal nuovo satana, ci sarà una crescita spaventosa della spesa militare in tutti i paesi europei con grande soddisfazione dell’industria bellica statunitense, primo beneficiario. Dopo il riarmo del Giappone, che ha dovuto modificare la propria costituzione, adesso anche la Germania sembra aver scelto la stessa strada, malgrado la coalizione semaforo che la governa e, soprattutto, la sua Costituzione. La sfida della pace è ardua ma imprescindibile se vogliamo salvarci dalla catastrofe finale. L’incubo di una guerra permanente di Alessandra Ghisleri La Stampa, 3 marzo 2022 Tre italiani su dieci temono che il conflitto tra Russia e Ucraina durerà oltre l’anno. La fiducia in Draghi cresce di oltre 5 punti. L’87,8% della popolazione italiana non nasconde il fatto di essere preoccupato rispetto al conflitto russo-ucraino. Questa angoscia cresce proporzionalmente con il crescere dell’età: tra i più giovani il dato sfiora l’80,0%, mentre tra coloro che hanno più di 65 anni il dato registrato è il 96,1%. Per il 41,1% dei cittadini le principali attese sono riposte nella speranza che il conflitto sia breve, qualche settimana (21,3%) o al massimo fino alla prossima estate (19,8%). Il 32,0% invece è convinto che il percorso bellico possa procedere oltre l’anno. L’86,8% oggi si sente direttamente coinvolto nelle possibili influenze di questo conflitto: il 37,9% nel percorso di guerra e il 36,6% a livello economico. Il 6,6% teme addirittura che il conflitto possa arrivare fino ai nostri confini, mentre il 5,7% si sente già implicato avendo dei parenti o persone vicine ucraine o russe. Mentre ancora scorrono i numeri - con un trend in discesa - della pandemia, un nuovo dramma si è imposto nella cronaca giornaliera; e come per il Covid, mai situazione fu tanto solo prefigurata per poi concretizzarsi con così tanta velocità. Siamo sgomenti nel seguire i racconti che un conflitto “social” narra nei particolari momento per momento. Gli italiani in maggioranza si dichiarano impauriti e contrari ad un intervento diretto delle nostre truppe (59,5%). Allo stesso tempo sono favorevoli ad escludere la Russia dal circuito di pagamenti swift (62,8%). In tutto questo il mondo che conosciamo sta lentamente lasciando il posto ad una nuova interpretazione che improvvisamente ci ha riportato al primo quarto del secolo scorso. Per il 76,7% degli italiani intervistati esiste la convinzione che questo conflitto avrà delle serie conseguenze sulla stabilità internazionale e sullo stato di pace vissuto fino ad ora. Tensioni e ritorsioni sono il pane del giorno e così anche la nuova dura posizione della Unione europea è stata vista di buon grado dal 47,1% dei cittadini -mentre solo una settimana fa il ruolo dell’Istituzione era definito “marginale” dal 45,9% del campione-. Questa posizione non è condivisa dal 34,0% degli intervistati principalmente raccolti tra i piccoli partiti e l’elettorato di Fratelli di Italia. È necessario evidenziare che il 18,9% non ha saputo dare una risposta nel merito. Anche le sanzioni fino ad oggi attuate nei confronti della Russia sia a livello economico, finanziario e sportivo spaccano il nostro Paese con il 45% di coloro che condividono e il 35,2% che non credono possano essere efficaci e utili per indebolire la morsa di Vladimir Putin, unitamente al 19,8% che, anche in questo caso, non sa rispondere nel merito. Sulla stessa linea forte si unisce la maggioranza degli italiani che portano con le loro affermazioni l’indice di fiducia del nostro presidente del Consiglio Mario Draghi al 53,6% esattamente +5,8% dal 16 febbraio e +3,8% rispetto all’ultima settimana. L’emergenza pare essere diventata una condizione strutturale dei nostri giorni alla quale non riusciamo ad abituarci sia perché l’eccezione è sempre il dato di fatto, sia perché - a questo punto - le intenzioni possono farsi strada momento per momento. Se la guerra mette alla sbarra la cultura russa di Lara Crinò La Repubblica, 3 marzo 2022 Dalla polemica su Dostoevskij al Padiglione della Biennale di Venezia. Con l’invasione dell’Ucraina l’arte di Mosca finisce sotto accusa. C’è chi usa il termine cancel culture e chi le definisce “sanzioni culturali”. Il quotidiano britannico Guardian, riassumendo in una formula ciò che sta accadendo, titola: The Show can’t go on, lo spettacolo non può continuare. In Italia, in Europa e nel resto del mondo, l’invasione russa dell’Ucraina sta comportando un effetto collaterale nel mondo delle arti. Qualcosa di inedito, che assume molte forme: si prendono le distanze dalla Russia e dalle sue istituzioni culturali statali, ma c’è anche chi chiede il boicottaggio delle arti e degli artisti russi, sia che siano vicini al regime putiniano sia tout court. Addirittura, per eccesso di zelo, si rischia di censurare pure i morti, peraltro illustri. Ha fatto scalpore il caso dello scrittore e russista Paolo Nori, cui la Bicocca di Milano aveva fatto sapere di voler rimandare il suo corso su Dostoevskij per evitare polemiche; l’università ha poi invertito la rotta, ma la questione è arrivata in Parlamento, con l’annuncio di un’interrogazione alla ministra Messa sull’accaduto. Nelle stesse ore, il curatore del padiglione della Russia alla prossima Biennale di Venezia, il lituano Raimundas Malašauskas, ha deciso di dimettersi per protesta rispetto a ciò che accade a Kiev, definendo “intollerabile” l’idea di “tornare indietro o andare verso l’assoggettamento alla Russia” ed esprimendo però “ammirazione e gratitudine” per Alexandra Sukhareva e Kirill Savchenkov, i due artisti russi che dovevano essere protagonisti del Padiglione e hanno invece deciso di ritirarsi, ricevendo “piena solidarietà per questo atto coraggioso” anche da parte della Biennale stessa; non ci sarà quindi la Russia all’Arsenale, ma - fanno sempre sapere da Venezia - si farà di tutto affinché ci sia una presenza dell’Ucraina e dei suoi artisti. E in tutta Italia i casi si moltiplicano: la Children Book Fair che si tiene a Bologna tra tre settimane ha annunciato di aver sospeso ogni collaborazione con le organizzazioni ufficiali russe, ma non con i singoli illustratori o editori di quel Paese che potranno partecipare alla grande fiera, la più importante al mondo, dedicata alla letteratura per ragazzi. Altro caso quello del festival Fotografia Europea, in programma da fine aprile a giugno a Reggio Emilia, dove la Russia avrebbe dovuto essere il Paese ospite. L’iniziativa faceva parte di un progetto di parternariato con il museo Ermitage, che avrebbe curato la mostra Sentieri di ghiaccio con i lavori di tre fotografi russi. La mostra è stata annullata; il direttore della Fondazione Magnani Rocca, che organizza la rassegna, nota che “non è possibile alcuna interlocuzione con le istituzioni di un Paese che in questo momento è aggressore”, nonostante la solidarietà verso i singoli fotografi e i curatori dell’Ermitage; per paradosso, uno dei reporter coinvolti, Alexander Gronsky, è stato prima arrestato e poi rilasciato in patria, a Mosca, per aver protestato contro la guerra: interpellato sull’esclusione dalla manifestazione italiana, ha dichiarato che capisce perfettamente la decisione e ritiene “assolutamente inappropriato collaborare con qualsiasi istituzione russa. Dobbiamo fermare la guerra”. Dal caldo fronte dei musei non è tutto. Cecilie Hollberg, che dirige la Galleria dell’Accademia di Firenze, ha depennato le opere in prestito dal Museo Puškin di Mosca che avrebbero dovuto essere esposte nella mostra su Pier Francesco Foschi e il Rinascimento a Firenze. Con l’invasione russa, sostiene Hollberg, “è stata trasgredita ogni tipo di frontiera” e non si può correre il rischio “che il prestito di opere a un’importante istituzione come la Galleria dell’Accademia venga strumentalizzato politicamente e usato ai fini di propaganda”. Eike Schmidt, direttore degli Uffizi, che non chiuderà il Museo delle Icone Russe a Palazzo Pitti, pur ribadendo che “in questo momento di embargo economico anche il prestito di opere d’arte è naturalmente interrotto” nota come “i rapporti culturali tra Russia e il resto del mondo sono stati faticosamente ricostruiti dopo la seconda guerra mondiale, e non possiamo vanificarli per un’indole punitiva o vendicativa”. Non va meglio sul fronte della musica e del balletto, in Italia e all’estero, dove teatri e festival rinunciano alle star russe: oltre all’affaire Valery Gergiev, il direttore d’orchestra vicino a Putin che non si esibirà alla Scala né al Petruzzelli di Bari (ma è anche stato “scaricato” dalla filarmonica di Monaco di Baviera e dal festival di Edimburgo), la Royal Opera House di Londra ha annullato la residenza estiva del corpo di ballo del Bolshoj. All’editrice Daniela Di Sora, fondatrice del marchio Voland, è arrivata una mail, inviata da alcune istituzioni culturali ucraine, che invita a boicottare i libri russi. Di Sora commenta sconcertata: “Il nome Voland viene da Bulgakov, che come sappiamo era nato a Kiev e morì a Mosca: nel nostro catalogo ci sono autori russi e libri di autori ucraini. La letteratura unisce, crea ponti”. Sui ponti creati dall’arte, attendendo un altro giorno di guerra, e le notizie di altre sanzioni culturali, potete guardare un video diventato virale in rete e ripreso dal New York Times. Un volontario ucraino, Zhenya, incontra un reporter americano, Alex Lourie, vicino a Kiev. Entrambi hanno vissuto a Teheran e parlano farsi. Il soldato, guardando la telecamera, recita un verso struggente del poeta persiano Hamid Mosadegh. Un uomo si chiede chi annuncerà la sua morte alla sua donna, e conclude: “Il tuo amore ha bruciato fino alla cenere/La giungla della mia anima”. La strage dei difensori dei diritti umani: 357 uccisi nel 2021 di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 3 marzo 2022 Un ambientalista colombiano che ha salvato dall’estinzione una rara specie di pappagallo, una giovane attivista femminista in Afghanistan e due poeti in Myanmar che hanno usato i loro versi per protestare contro il colpo di stato militare sono tra i 357 difensori dei diritti umani assassinati in 35 paesi lo scorso anno. Lo denuncia il rapporto di Front Line Defenders (Fld) pubblicato oggi su il Guardian. L’ambientalista Gonzalo Cardona Molina, 55 anni; Frozan Safi, 29 anni, docente di economia afghana, K Za Win e Khet Thi, due dei numerosi poeti uccisi, sono stati tra quelli presi di mira a causa del loro lavoro “pacifico e potente”. Molte delle uccisioni avrebbero potuto essere evitate, poiché sono state precedute da minacce e richieste di protezione, secondo FLD, l’ong che cerca di proteggere gli attivisti a rischio. Come negli anni precedenti, la maggior parte degli omicidi è avvenuta nelle Americhe e nella regione Asia-Pacifico. La Colombia, dove gli attivisti sono regolarmente presi di mira dai gruppi armati nonostante l’accordo di pace del 2016, è ancora il Paese più pericoloso per i difensori dei diritti umani, con 138 morti registrate. Il secondo Paese più mortale è stato il Messico, con 42 morti, seguito da Brasile, India, Filippine e Afghanistan, dove l’acquisizione del potere dei talebani ad agosto ha accelerato la crisi dei diritti umani nel Paese. La maggior parte delle persone uccise, il 59%, lavorava la terra, si occupava di ambiente e diritti degli indigeni. Si tratta di attività che hanno toccato gli interessi economici delle industrie minerarie e di altre industrie estrattive. Altre centinaia di difensori dei diritti umani sono stati picchiati, detenuti e messi sotto accusa, ha affermato Fld, in particolare in Medio Oriente. Le crisi in Myanmar, Nicaragua e Afghanistan hanno costretto i difensori a nascondersi o a fuggire. “Nella maggior parte dei casi, i difensori dei diritti umani vengono prima minacciati. Se ci fosse una risposta quando le minacce vengono segnalate e venissero subito prese misure di protezione, allora sicuramente alcuni di questi omicidi potrebbero essere prevenuti” ha dichiarato Andrew Anderson, direttore di Fld.