Cartabia “salva” l’ergastolo ostativo: niente permessi ai detenuti al 41bis di Liana Milella La Repubblica, 31 marzo 2022 Marta Cartabia “salva” la legge sull’ergastolo ostativo dall’ennesimo scontro nella maggioranza. Sono ormai le nove di sera, e un suo parere, giunto alla Camera in extremis, mette pace nella maggioranza che sta litigando da due ore. Sui detenuti al 41bis, il carcere duro per i mafiosi, la linea della Guardasigilli è intransigente, come del resto lo è stata la Consulta un anno fa quando ha bocciato la legge in vigore sull’ergastolo ostativo. Adesso Cartabia dice: i detenuti che si trovano al 41bis non potranno fare alcuna istanza al tribunale di sorveglianza per ottenere la liberazione condizionale o altri permessi premio se prima non hanno, a loro volta, presentato una richiesta per revocare il carcere duro. La sua decisione diventa una “pregiudiziale secca” che entrerà nel testo del nuovo ergastolo ostativo. Ed è esattamente la posizione che, in commissione Antimafia, ha espresso l’ex procuratore nazionale Antimafia ed ex procuratore di Palermo Piero Grasso, poi passato in politica e divenuto presidente del Senato. Dice Grasso: “Chi ha il 41 bis non può fare istanza per ottenere qualsiasi beneficio perché il presupposto stesso del 41bis è che i collegamenti con la mafia ancora esistono. Quindi, prima il detenuto deve uscire dal 41bis presentando un’istanza al tribunale di Roma, è solo quando il regime del 41bis è caduto allora può chiedere di ottenere i benefici perché ha dimostrato che non ha piu collegamenti con la criminalità organizzata”. Tutto questo Grasso lo ha anche scritto in una sua proposta di legge presentata al Senato. Ma alla Camera invece il testo approvato dalla commissione Giustizia il 23 febbraio non conteneva questo passaggio. Ed è qui che si è scatenata la bagarre in aula. Dove la deputata del gruppo Misto Giusi Bartolozzi (ex Forza Italia) ha posto il problema. Sollevato nei giorni precedenti anche durante una riunione della commissione Antimafia. E cioè l’assenza esplicita, nel testo della legge, della piena e totale esclusione della possibilità di ottenere la liberazione condizionale, o altri benefici, per i detenuti al 41bis. Bartolozzi cita anche le sentenze scritte in Cassazione dell’attuale capo del Dap Carlo Renoldi che, a suo dire, potrebbero aprire una prospettiva di questo genere. A questo punto si allarma il gruppo grillino che con Vittorio Ferraresi ha seguito passo dopo passo l’iter della legge che ormai va avanti dall’anno scorso. Perché l’obbligo, per il Parlamento, di riscrivere entro il prossimo 10 maggio, pena l’intervento della stessa Corte, le regole dell’ergastolo ostativo, nasce proprio dall’ordinanza della Consulta del 19 aprile 2021. In cui viene bocciato il criterio rigido di una liberazione condizionale possibile solo se il detenuto collabora con la giustizia. Già un mese dopo il M5S, con Ferraresi, presenta una sua proposta di legge. Ma siamo a oggi, il 10 maggio è vicino, e siamo ancora in prima lettura alla Camera. Dove ancora ieri la maggioranza ha fibrillato sul 41bis, salvata in extremis dal parere determinante della ministra Cartabia. Con la sua pregiudiziale secca, che entra nel testo del relatore Mario Perantoni, la diatriba si chiude. I 41bis, se restano nel regime del carcere duro, come del resto aveva espressamente previsto la stessa Consulta nell’ordinanza del giudice relatore Nicolò Zanon, non possono accedere ai benefici e tantomeno alla liberazione condizionale. Eppure c’è chi, come Riccardo Magi di +Europa, vorrebbe altre “esclusioni”. Con un suo emendamento, Magi, e con lui anche la Dem Enza Bruno Bossio ed Enrico Costa di Azione, chiede che tutti i reati di corruzione siano esclusi dall’elenco che rende impossibile accedere al lavoro all’esterno, ai permessi premio e alle misure alternative alla detenzione. Ma è improbabile che la proposta passi. Carcere di Modena, violenze e torture da “macelleria messicana” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 marzo 2022 Nelle testimonianze raccolte dalla Procura si parla di detenuti ammassati in uno stanzone, ammanettati, presi a manganellate e alcuni denudati. Tra loro persone semi coscienti per l’abuso di metadone. Era l’8 marzo 2020. Ammassati in una stanza vengono obbligati con lo sguardo a terra, alcuni sarebbero stati denudati con la scusa della perquisizione, e via a una violenta scarica di manganellate e ceffoni. Emerge un vero e proprio massacro che ha luogo in un locale situato in un casermone attiguo al carcere di Modena, prosegue durante il viaggio notturno in pullman e non si esaurisce quando i detenuti giungono al penitenziario di Ascoli Piceno. Tanti di quei reclusi denudati e picchiati nel casermone dell’istituto carcerario Sant’Anna di Modena erano già in stato di alterazione dovuto da mega dosi di metadone assunte durante la rivolta dell’8 marzo 2020. Sono soprattutto reclusi stranieri a essere stati picchiati, tanti di loro - com’è detto -, in stato di incoscienza dovuto dall’assunzione elevata dose di droga e psicofarmaci. Ma tra loro c’era anche Salvatore Piscitelli, l’uomo che in seguito - trasferito nella notte al carcere di Ascoli Piceno assieme agli altri - morirà dopo essere stato trasportato di urgenza in ospedale con un oggettivo ritardo rispetto alla richiesta di aiuto da parte dei suoi compagni di cella. Come già riportato da Il Dubbio, la procura di Ascoli Piceno ha presentato la richiesta di archiviazione. L’associazione Antigone, tramite l’avvocata Simona Filippi, ha avanzato opposizione. E l’agente minacciò: “Adesso facciamo un altro G8!” - Ma dagli atti della vicenda Piscitelli emergono altri dettagli che, se confermati dalle indagini tuttora in corso, dipingono un vero e proprio “sistema” di abusi e torture attuato da alcuni agenti penitenziari di almeno tre istituti penitenziari diversi: oltre a quelli di Modena, anche di Bologna e di Reggio Emilia giunti come rinforzo. E questo, sottolineiamo, riguarda la presunta mattanza avvenuta nel carcere Sant’Anna a fine rivolta. Il Dubbio ha potuto visionare in esclusiva gli atti. Sono diverse testimonianze di detenuti raccolte dalle Pm della procura modenese e tutte convergono su una vera e propria “macelleria messicana”, tanto che - come testimonia un detenuto - c’è stato un agente penitenziario, una volta entrato nella stanza del casermone, che avrebbe urlato: “Adesso facciamo un altro G8!”. Il ricordo va inevitabilmente ai terribili fatti della scuola Diaz avvenuti a Genova nel 2001, quando la polizia fece irruzione e al grido “Adesso vi ammazziamo”, picchiò i ragazzi del coordinamento del Genoa Social Forum. Dopo la rivolta le violenze inaudite su circa ottanta detenuti - Ritorniamo ai fatti di Modena emersi dalla ricostruzione delle testimonianze raccolte dalla procura. L’8 marzo 2020 scoppia una violenta rivolta, prendono fuoco alcune sezioni, compreso l’ufficio di comando. Scene apocalittiche. Alcuni detenuti riescono a prendere le chiavi lasciate dagli agenti, mettendo così in salvo altri reclusi rimasti chiusi in cella. Man mano gli agenti hanno indirizzato i detenuti nel campo dicendo loro di rimanere lì, tranquillizzandoli perché non sarebbe successo niente. Dopodiché, man mano, sarebbero stati ammanettati e costretti a rimanere con la testa abbassata. Hanno attraversato due porte carraie, fino a giungere in una specie di casermone e ammassati dentro una stanza. Dalle testimonianze raccolte in atti emerge che diversi detenuti sarebbero stati manganellati, insultati e riempiti di sputi lungo il corridoio che portava al locale. Alcuni detenuti, soprattutto stranieri, entravano nello stanzone già con la testa sanguinante. All’interno c’erano agenti penitenziari che provenivano sia da Bologna che da Reggio Emilia. Alcuni testimoni li hanno riconosciuti perché precedentemente erano stati reclusi in quei penitenziari. A tutti i detenuti ammassati nello stanzone, circa una ottantina, sono state fatte togliere le scarpe e costretti a rimanere seduti per terra. Ed è in quel momento che diversi reclusi avrebbero ricevuto ulteriori manganellate in faccia, nei fianchi, sulle gambe. “Ad esempio c’era un ragazzo straniero - racconta alle Pm un testimone -, non so se tunisino o marocchino. Si vedeva che era in condizioni pietose, al livello di… non so cosa avesse assunto, e gli hanno dato un sacco di manganellate a questo qua, in faccia, in testa, questo ha fatto uno, due, tre, quattro metri e si è accasciato a terra”. Salvatore Piscitelli stava già male ed è stato manganellato - Altri detenuti, come dicono più testimoni ascoltati, sono stati fatti completamente spogliare con la scusa della perquisizione. In quella caserma giunse anche Salvatore Piscitelli. Secondo un altro testimone sentito dalle Pm, era già in condizioni particolari. “Quando lui è entrato già nella stanza lui tremava, tremava - racconta il detenuto -, io l’ho guardato e lui mi fa: “Mi hanno picchiato”“. Testimonia che tremava così tanto, che un agente ha chiamato un’infermiera dell’ambulanza, che gli ha dato delle gocce. Un altro testimone racconta che avrebbero manganellato Piscitelli anche dentro quella famigerata stanza. Nel trasferimento uno di loro è stato lasciato a Rimini e rianimato - Non sarebbe finita lì. Nella notte diversi detenuti sono stati fatti salire nei pullman per trasferirli nel carcere di Ascoli Piceno. Durante il tragitto, un detenuto testimonia di aver visto agenti manganellare alcuni reclusi. Diversi di loro si sentivano male, uno in particolare gli usciva la schiuma dalla bocca e per questo motivo è stato portato al carcere di Rimini, quello più vicino. Giunti sul posto lo hanno messo sull’asfalto, è venuta l’ambulanza, gli hanno fatto una siringa e lo hanno rianimato con il defibrillatore. Ricordiamo che nel tragitto c’era anche Piscitelli che, a detta di alcuni testimoni, stava già visibilmente male. Giunti al carcere di Ascoli Piceno, l’inferno non sarebbe finito - Sempre tutti i testimoni ascoltati convergono con il fatto che la visita medica effettuata appena sono entrati, sarebbe stata fatta superficialmente. Non solo. Un detenuto testimonia che, nonostante fosse visibilmente pieno di segni dovute dalle percosse, il medico di guardia gli avrebbe soltanto chiesto: “Hai qualche patologia? Prendi farmaci particolari?”. A riposta negativa, “A posto, vai!”. Tutto qui. Anche Piscitelli stava male, tanto è vero - come raccontano i detenuti -, gli agenti l’avrebbero fatto scendere dal pullman prendendolo per i capelli, perché lui non riusciva a camminare da solo. Un testimone racconta che alla visita medica, Piscitelli ha lasciato bisogni fisiologici sulla sedia. Scene indegne per un Paese civile. Le violenze sarebbero proseguite anche nel carcere di Ascoli Piceno - Come risulta dalle testimonianze raccolte dalle Pm di Modena, al carcere di Ascoli sarebbero proseguite le violenze da parte degli agenti. Nella notte, i detenuti trasferiti hanno infatti avuto il sentore che potesse accadere di nuovo. Un testimone racconta di come il suo compagno di cella, un serbo, gli ha detto di ripararsi dietro di lui nel caso di una spedizione punitiva. Tutto tace. Ma è stata la quiete prima della tempesta. Il mattino seguente, una squadra di agenti sarebbero entrati nelle celle a manganellare. In seguito, per quasi 15 giorni, avrebbero proseguito la violenza senza manganelli, ma con gli schiaffi. Per quasi un mese sono rimasti scalzi e con gli stessi vestiti e biancheria intima. Emerge una omertà che avrebbe coinvolto non solo gli agenti, ma anche altre figure penitenziarie. Solo grazie all’esposto fatto da sette detenuti, è emerso tutto questo Sistema di torture e lesioni aggravate. Resta il dubbio: tra i morti c’era qualcuno di quelli picchiati? Attualmente il fascicolo sulle violenze al carcere di Modena è ancora aperto. Alcuni agenti sarebbero stati identificati grazie al riconoscimento dei detenuti. Nove però sono le morti archiviate. Molti sono detenuti stranieri deceduti per overdose. Rimane il dubbio atroce: alcuni di loro sono quelli picchiati nella caserma del carcere Sant’Anna? Sappiamo che Piscitelli, per la cui morte Antigone ha fatto opposizione all’archiviazione, era tra quelli come dicono più testimoni. Su queste morti sarà investita la Corte Europea dei Diritti umani. Sulle violenze, ancora si attende l’esito delle indagini. Sullo sfondo c’è la commissione ispettiva del Dap istituita per le rivolte del 2020, ed è composta da un magistrato, tre direttori, due comandanti e due dirigenti. Darà risposte su questa ennesima mattanza che emerge dagli atti? Errori giudiziari, un’ecatombe intollerabile in uno Stato di Diritto di Mimmo Gangemi Il Dubbio, 31 marzo 2022 C’è una media annuale di mille indennizzi per ingiusta detenzione, ma sarebbero più del doppio considerando chi per legge non ne ha diritto. “Ci sarà pure un giudice a Berlino”. La frase, attribuita a Bertolt Brecht, è l’accorata speranza di un uomo qualunque che confida in una giustizia imparziale. Lui, un mugnaio, la trovò, in Federico II il Grande, re di Prussia. E la trovò nel XVIII secolo. Nel XXI troppo spesso non succede. E imperversa l’errore giudiziario. Che è argomento tabù, con la valenza del reato di lesa maestà nei confronti di chi - pochi e tuttavia incidenti sull’opinione pubblica - presume d’essere alle dirette dipendenze del Padreterno, si crede investito della missione di anticipare in terra il giudizio divino. Numerose le Procure nelle quali sono incrostate sacche di resistenza, con personaggi per nulla intenzionati a schiodarsi dalla destra del Padre, che pure tira calci per non averceli al fianco, e ossessionati dalla smania malaticcia di ottenere risultati, meglio se eclatanti, su nomi di rilievo, in grado di smuovere carriere che altrimenti stenterebbero. L’errore giudiziario merita approfondimenti. Occorre ripristinare la verità completa, correggendo i numeri, fin qui calcolati per difetto. I dati - Uno studio del Corriere della Sera ha determinato che dal 1992 al 2016 in Italia si sono verificati 24 mila rimborsi per ingiusta detenzione e che la cifra corrisposta fu di 648 milioni di euro, con la maggiore incidenza in Calabria. Il dato si è mantenuto pressoché costante, come si evince dalle relazioni annuali del ministero della Giustizia al Parlamento. E la media annuale di 1.000 indennizzi riparatori, comunque allarmante, porta a ritenere che 1.000 siano stati anche gli arresti ingiustificati. Sbagliato. Perché è lontana da quella reale che, a occhio ma non tanto, si attesta almeno al doppio, essendoci i respingimenti e le mancate richieste, pur a fronte di assoluzioni piene. Non hanno infatti diritto al risarcimento quanti, in seguito riconosciuti estranei ai delitti contestati, nella fase istruttoria si sono avvalsi della facoltà di non rispondere e quanti avevano solide premesse di colpevolezza, indizi a sfavore da aver indotto gli inquirenti alla valutazione scorretta, con quest’ultimo che è un elemento soggettivo, in teoria applicabile a chiunque. Ed ecco che i 1.000 diventano 2.000, 2.500. Ecco che i 28 mila si trasformano in 60 mila, 70 mila. È tollerabile una simile ecatombe in una democrazia, in uno Stato di diritto? No. Eppure, nonostante Francesco Carnelutti, insigne giurista e accademico, per il quale “La sentenza di assoluzione è la confessione di un errore giudiziario”, mai compaiono colpe da contestare, provvedimenti sanzionatori, nemmeno un buffetto, un vago rimprovero, un distinguo, e la dice lunga che la Consulta abbia bocciato il referendum sulla responsabilità diretta dei magistrati. E chi incorre nell’obbrobrio sistematico di incarcerare innocenti a bizzeffe fischietta indifferente, tanto la coscienza è un optional, tanto gli applausi dell’ignavia e della morbosità scrosciano ugualmente, tanto le stellette guadagnate su meriti fasulli non verranno restituite. Naturalmente, perfezione pretenderebbe che l’errore giudiziario non si verificasse mai - e questo è umanamente e obiettivamente impossibile. Ma fin dove esso è fisiologico? Qual è il confine entro cui si mantengono applicate le garanzie costituzionali? Da che punto in poi si trasforma in una stortura del sistema? Beh, se l’incidenza del carcere su estranei al delitto assume proporzioni vistose, se i malcapitati finiscono con il sommergere per numero i colpevoli, o se i colpevoli non ci sono affatto, se le anomalie riguardano molte delle grandi e strombazzate inchieste con arresti a raffica, allora la dea bendata, con la spada in una mano e la bilancia nell’altra, quella benda se l’è tolta per poter strizzare complice l’occhio, allora si è in presenza di un crollo, o di una devianza voluta, della capacità investigativa e di una pericolosa sospensione dei diritti umani, allora si è di fronte a una giustizia arruffona, frettolosa, sommaria, cinica, allora ci si accosta a una deriva autoritaria, a una sorta di regime legalizzato che puzza di Stato di polizia, allora occorre riflettere sulle perplessità di Sabino Cassese, grande giurista e accademico, già ministro del governo Ciampi e giudice della Corte Costituzionale - “se ci sono tanti innocenti (riconosciuti tali nei processi, ndr) questo è veramente l’esercizio di un potere autoritario e arbitrario”; “noi vogliamo che i procuratori siano magistrati; se si comportano da Robin Hood, non sono più magistrati” - allora tornano di cruda attualità le parole di Gaetano Salvemini: “se ti accusano d’aver stuprato la statua della Madonnina appollaiata sul Duomo di Milano, intanto devi riparare all’estero, poi si vede”. E non può valere l’assunto che in guerra qualsiasi mezzo sia lecito e che gli agnelli debbano farsi una ragione d’essere finiti in bocca al lupo. La (stra)ordinaria disumanità delle carceri vista dai giovani avvocati di Francesco Paolo Perchinunno* e Domenico Attanasi** Il Dubbio, 31 marzo 2022 Le immagini della drammatica protesta inscenata dal personale di polizia penitenziaria della casa circondariale di Foggia, che il 25 marzo ha deciso simbolicamente di ammanettarsi e di bruciare i tesserini che ne dichiarano l’appartenenza al ministero della Giustizia, rappresentano solo gli ultimi fotogrammi di una escalation di eventi che negli ultimi tempi sembra avere definitivamente travolto anche l’ultima illusoria parvenza di dignità del sistema carcerario italiano. Il Segretario Nazionale del Sappe ha dichiarato che a Foggia “manca il comandante di reparto, responsabile della sicurezza, e mancano i poliziotti. Nel 2000 a Foggia erano previste 350 unità, adesso siamo scesi a 270 con gente che ha tra i 53 e i 54 anni”. I turni di lavoro, definiti “massacranti”, “non sono più di 6 ore come prevede la legge, bensì di 8, 10 ore o addirittura di 16 ore”. La situazione, per Pilagatti, è “diventata insostenibile” e “a questo ci aggiungiamo le aggressioni da parte dei detenuti, soprattutto quelli del reparto psichiatrico che non hanno più alcun controllo”. Quanto accaduto a Foggia segue peraltro in rapida successione di tempo la (auto)denuncia della stessa ministra Cartabia, la quale dopo avere visitato il carcere di Torino ha dichiarato di avere visto “un reparto inguardabile per la sua disumanità, sia per le condizioni di lavoro della polizia penitenziaria, sia per i detenuti”. Un incubo senza fine, dunque, se a tanto si aggiunge l’ennesima condanna che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha inflitto al nostro Paese per avere trattenuto in carcere un uomo con gravi problemi psichiatrici e le statistiche davvero impietose che emergono dall’ultimo rapporto dell’osservatorio dell’associazione Antigone: carceri perennemente sovraffollate, atti di autolesionismo in costante crescita, celle che a causa delle loro dimensioni o per le dotazioni relative ai servizi igienici o agli impianti di riscaldamento si presentano ben al di sotto del limite oltre il quale il trattamento dei detenuti viene comunemente considerato inumano o degradante. Assistenza medica, psicologica e sociale inadeguata. Personale sotto organico. Suicidi di detenuti e di agenti di polizia penitenziaria. Aggressioni, scontri e processi per fatti gravissimi nei quali il ministero della Giustizia figura nella duplice e paradossale veste di parte civile e di responsabile civile. Insomma, sembrerebbe avere preso oramai definitivamente forma - contro ogni intenzione positivizzata o dichiarata - la visione del carcere che si può intravedere sul fondo di quella “retorica giustizialista” che ha formato oggetto di una puntuale e rigorosissima “Critica” da parte di Francesco Petrelli e che “anziché tentare di civilizzare gli spazi di risentimento sociale canalizzandoli responsabilmente verso soluzioni condivise e ragionevoli che tendono al recupero del condannato” attinge “all’istintività emotiva che abita ogni essere umano”, trasformando il “marcire in galera” nella “formula magica che si sostituisce ad ogni altro orizzonte di giustizia”. Il carcere è invece il luogo in cui si misura il livello di civiltà di un Paese. Lo diceva un gigante del pensiero illuminista come Voltaire, “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”, e lo pensano, fuori da ogni retorica, i giovani avvocati dell’Aiga che il 22 febbraio scorso hanno istituito un Osservatorio Nazionale Aiga sulle Carceri con oltre 130 sedi territoriali e un comitato scientifico composto da personalità che rivestono ruoli di rilievo all’interno del panorama accademico, politico e sociale. Compito dell’Osservatorio Aiga sarà quello di predisporre un’effettiva e concreta mappatura della reale condizione di tutti gli istituti penitenziari presenti sul territorio italiano e di condurre una vera e propria battaglia non solo politica ma soprattutto culturale, affinché il legislatore comprenda che la riforma dell’ordinamento penitenziario non è più procrastinabile. Siamo fermamente convinti che solo attraverso una generale riorganizzazione delle sistema carcere si possa raggiungere quel grado di civiltà e dignità auspicato non da ultimo dal Presidente Mattarella nel suo discorso di insediamento. Occorrono immediati passi in avanti sulla strada, mai come oggi tremendamente in salita, della umanizzazione degli istituti di pena e del reinserimento sociale dei detenuti. Per ridare civiltà e sicurezza al nostro Paese. *Presidente Nazionale Aiga *Componente dell’Osservatorio Nazionale Aiga sulle carceri Mattarella: “Urgente la riforma del Csm, Pnrr occasione irripetibile per la giustizia” di Liana Milella La Repubblica, 31 marzo 2022 Il presidente della Repubblica davanti ai magistrati in tirocinio: “Il ruolo del Consiglio è di garanzia”. Il monito al Parlamento mentre alla Camera i capigruppo decidono di far slittare al 19 aprile l’approdo del testo Cartabia in Aula. Una riforma, quella del Csm, che non è più rinviabile. Che, anzi, va “approvata con urgenza”. Perché il Consiglio superiore della magistratura “è imprescindibile” e perché “gli accordi per favorire gli interessi personali sono in contrasto con la funzione giurisdizionale” del Consiglio stesso. A ribadire la necessità di procedere spediti con il riordino del Csm è, ancora una volta, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che, al Quirinale, davanti ai magistrati ordinari in tirocinio nominati nel 2021 torna a insistere su un tema che in queste settimane agita la maggioranza. Un richiamo al Parlamento che il capo dello Stato lancia mentre, a Montecitorio, la conferenza dei capigruppo della Camera decide di far slittare al 19 aprile, dunque dopo Pasqua, l’approdo del testo Cartabia in Aula (inizialmente atteso per il 28 marzo). “Centrale - ha detto pertanto Mattarella nel ricevere le toghe in tirocinio - è il ruolo del Csm, che costituisce il presidio voluto dalla Costituzione a garanzia. Il Consiglio riveste un ruolo di garanzia imprescindibile nell’ambito dell’equilibrio democratico. Pertanto è di grande urgenza approvare nuove regole per il suo funzionamento, affinché la sua attività possa mirare a valorizzare le indiscusse professionalità di cui la magistratura è ampiamente fornita. Sono in contrasto, quindi, con la funzione giurisdizionale accordi per favorire interessi personali: la garanzia della più alta qualità della giurisdizione è un dovere inderogabile e costituisce il fondamento del rapporto di fiducia che il Paese deve poter nutrire nei confronti dell’amministrazione della giustizia”. Entro Pasqua, dunque, si dovrà trovare la complicata intesa su vari aspetti della riforma, sul quale il governo si è impegnato a non porre la questione di fiducia, chiedendo però che abbia una rapida doppia lettura per regolare il rinnovo del Csm già fra giugno e luglio. Tra i nodi da sciogliere sul provvedimento - sui quali i gruppi hanno presentato emendamenti anche se ancora non si trova la sintesi - ci sono il sorteggio per l’elezione dei componenti del Csm e la responsabilità civile diretta dei magistrati (sostenuta da Italia Viva, Lega e Forza Italia). Avvicinamenti invece pare siano stati registrati sulle ‘porte girevoli’ tra politica e magistratura con una ‘stretta’ sul rientro in servizio delle toghe che si candidano alle elezioni. Un monito di rilievo, quello del capo dello Stato (presidente anche del Csm medesimo) che ai magistrati ha ricordato l’importanza di evitare “la tentazione dell’autocelebrazione e la ricerca assoluta del consenso”. “La giurisdizione - ha poi sottolineato - è centrale per il progresso del Paese ed occorre adeguarne gli strumenti di funzionamento per garantirne l’efficacia. Anche la magistratura è chiamata a sostenere il cambiamento avviato per la ripresa del Paese, attraverso l’assunzione di un impegno effettivo per la realizzazione degli obiettivi indicati nel Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza, ndr). Le risorse di mezzi e di personale investite nel Piano rappresentano, peraltro, un’occasione irripetibile per migliorare gli strumenti attraverso i quali si esercita la giurisdizione”, aggiunge Mattarella. “A voi - cari magistrati in tirocinio - competerà un ruolo primario per assicurare il pieno funzionamento dell’Ufficio del processo, strumento rafforzato per consentire al giudice di fornire una risposta alla domanda di giustizia in maniera più efficace e tempestiva, grazie all’apporto delle figure che, a diverso titolo, collaborano all’interno dell’Ufficio. In questa prospettiva sarà necessario delineare nuove modalità attraverso le quali esercitare la giurisdizione, in una prospettiva che, ormai, non è più solo nazionale ma pienamente europea”. “Il principio di imparzialità - ha proseguito - transita necessariamente anche attraverso il rifiuto del protagonismo e dell’individualismo giudiziario. L’imparzialità viene, infatti, rafforzata dalla riservatezza nei riguardi dei processi o delle materie di cui ci si occupa; diversamente si può correre il rischio di apparire di parte o pregiudizialmente orientati, forzando i dati della realtà. Al contempo, è opportuna la trasparenza della decisione da assicurare attraverso un’adeguata comunicazione istituzionale, idonea a tutelare il prestigio della funzione, che viene ulteriormente garantita e rafforzata dal riserbo dei magistrati”. Mattarella alle giovani toghe: “Rifiutate il facile consenso” di Valentina Errante Il Messaggero, 31 marzo 2022 “Prudenza, che non vuoi dire né timidezza né timore della reazione che può comportare la decisione assunta”, Parla ai giovani magistrati ordinari, il presidente Sergio Mattarella. Al piccolo esercito di toghe, che si appresta a svolgere il tirocinio negli uffici giudiziari, ricevuto ieri al Quirinale, il Capo dello Stato ha ricordato l valori che devono ispirare l’azione della magistratura e a margine è tornato sull’urgenza della riforma del Csm. Il primo suggerimento del Presidente ai giovani magistrati è quello di “rifuggire da ricostruzioni normative avventate o dettate da impropri desideri di originalità o di consenso esterno”. Poi il Mattarella tocca uno dei terni più dibattuti, che riguarda proprio il ruolo della magistratura “Per garantire l’equilibrio delle decisioni - dice - è necessario conoscere i limiti della propria funzione, senza mai cedere alla tentazione dell’autocelebrazione e della ricerca assoluta del consenso. Anche quando si ritiene di essere nel giusto - ovunque. in qualunque ruolo e condizione - aggiunge - occorre coltivare la fiducia nelle proprie ragioni attraverso il ricorso agli strumenti che l’ordinamento pone a disposizione di tutti, pone a vantaggio di tutti, anche nelle vicende giudiziarie, senza mai cercare di plasmare le regole a piacimento, ma seguendo il modello di garanzie disegnate dalla nostra Costituzione”. Quindi la sobrietà e riserbo, condotte indispensabili per le toghe. “Le funzioni che vi apprestate a svolgere - ha ricordato il Capo dello Stato - sono caratterizzate da grande responsabilità sociale, che impone il serio rispetto della deontologia professionale e la sobrietà nelle condotte individuali. A voi è chiesto di amministrare la giustizia con professionalità e con riserbo, avendo sempre presente il principale dovere che deve assumere il magistrato: l’eticità dei suoi comportamenti, anche nelle diverse forme di comunicazione”. Poi il messaggio alla politica: “È necessario, e di grande urgenza. approvare nuove regole” per il Csm “affinché la sua attività possa pienamente mirare a valorizzare le indiscusse professionalità di cui la Magistratura è ampiamente fornita”, dice Mattarella, che sottolinea: “Sono in contrasto con la funzione giurisdizionale accordi per favorire interessi personali”. Ma l’ennesimo richiamo del capo dello Stato coincide con l’ennesimo slittamento dell’esame della riforma in commissione Giustizia alla Camera, dove oggi è in programma una nuova riunione di maggioranza con la ministra, Marta Cartabia, per provare a risolvere i nodi divisivi, A partire dalle proposte di sorteggio temperato per l’elezione dei consiglieri e dalla responsabilità civile dei magistrati, su cui il ministro ha espresso forti dubbi di costituzionalità. Inizialmente atteso per il 28 marzo, l’approdo in Aula alla Camera della riforma del Csm è slittato al 19 aprile. Entro Pasqua si dovrà comunque trovare la complicata intesa su vari aspetti del provvedimento, sul quale il governo ha promesso di non porre la questione di fiducia, chiedendo pero che abbia una rapida doppia lettura per regolare già il rinnovo del Csm fra giugno e luglio. Ieri, l’esame degli emendamenti sui primi articoli in commissione Giustizia è stato rinviato: se ne riparlerà questo pomeriggio. Un problema di pareri mancanti da parte del governo, secondo fonti parlamentari, mentre per il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto i pareri “sono stati formulati” e Io slittamento è legato “alla necessità, anche dei relatori, nell’esprimere i residui pareri, di approfondire quanto emerso nella riunione di maggioranza”. Dopo una giornata intensa anche per la discussione sull’ergastolo ostativo (altro tema sul quale i partiti che sostengono il governo non sono del tutto allineati), oggi la maggioranza si confronterà di nuovo con Cartabia La guardasigilli si è detta “fiduciosa”, parlando di “passi avanti”. Ce ne sono stati in questi giorni verso un avvicinamento sulle “porte girevoli”: la maggioranza condivide la rigidità sul divieto di tornare in magistratura per chi ha ricoperto cariche elettive, ma c’è un tentativo di attenuare il divieto dopo incarichi tecnici, come quello di capo di gabinetto o di un ufficio legislativo. Ma sull’elezione dell’organo che garantisce l’indipendenza della magistratura ancora un accordo non c’è. La corsa a Palazzo dei Marescialli è aperta: tutti vogliono un posto al Csm di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 31 marzo 2022 Nonostante il “Palamaragate”, la ventilata ipotesi di disaffezione da parte delle toghe è destinata a rimanere nel cassetto: “È pur sempre un luogo di grande potere”. La campagna elettorale per l’elezione dei futuri componenti togati del Consiglio superiore della magistratura è ormai ai blocchi di partenza. I vari gruppi associativi stanno ultimando in questi giorni le liste dei candidati per le prossime elezioni. Unità per la Costituzione, la corrente centrista dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, utilizzerà il sistema delle primarie. E lo stesso farà il gruppo progressista Area. Magistratura indipendente, la corrente moderata, ha optato invece per un rosa di nomi da sottoporre direttamente al voto dell’Assemblea nazionale degli iscritti. Questo grande attivismo da parte dei gruppi associativi è il segno evidente che la legge elettorale proposta dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, un maggioritario con correttivo proporzionale unito all’innalzamento da 16 a 20 componenti, non subirà sostanziali modifiche in Parlamento, sbarrando la strada al sorteggio. L’attivismo dei gruppi associativi delle toghe stride, infatti, con l’estenuante melina che sta andando in scena da mesi a Montecitorio dove è incardinato dal 2019 il testo. La riunione dei rappresentati dei partiti di maggioranza sulla riforma Cartabia è stata aggiornata a domani mattina. E martedì è andato in scena l’ennesimo appuntamento a vuoto. Diversi parlamentari hanno stigmatizzato quanto accaduto, sottolineando di aver ormai perso il conto degli incontri effettuati con la ministra sulla riforma. In caso di ulteriori slittamenti è comunque pronto il voto di fiducia, che il premier Mario Draghi aveva inizialmente escluso, su tutto il pacchetto di riforme. E a quel punto nessuno fra i partiti, prevedibilmente, avrà il coraggio di votare contro il provvedimento, aprendo ad una crisi di governo dagli esiti incerti. Tornado, comunque, ai vari gruppi associativi, la ventilata ipotesi di disaffezione da parte delle toghe, dopo il “Palamaragate”, sulle attività consiliari, è destinata a rimanere nel cassetto: le correnti avranno problemi nel gestire un surplus di candidature. Un surplus destinato nei prossimi giorni, quando il quadro delle candidature sarà chiaro, a creare più di un mal di pancia fra gli esclusi. “Il Csm rimane sempre un luogo di grande potere”, ha detto il giudice del tribunale di Ragusa Andrea Reale, esponente di Articolo 101, il gruppo nato per contrapporsi alle correnti, commentando questo probabile overbooking di candidati. Anche Articolo 101, comunque, participerà alle prossime elezioni per il rinnovo della componente togata del Csm. La modalità per individuare i suoi candidati per Palazzo dei Marescialli sarà quella del sorteggio. Nei mesi scorsi tale sorteggio e stato già effettuato ed è stato costituito un paniere di potenziali eleggibili. Nei prossimi giorni si procederà ad una scrematura fra chi accetterà di essere successivamente votato e chi invece rinuncerà. Essere consigliere del Csm, oltre all’innegabile prestigio, è appetibile sia per l’importante indennità percepita, che va a sommarsi al normale stipendio da magistrato, sia in prospettiva di carriera. Aver svolto le funzioni di componente del Csm è un titolo di merito importante per un futuro incarico direttivo. L’unica incognita, a questo punto, resta quella della data del voto. La Costituzione prevede che i componenti del Csm restino in carica 4 anni. Entro settembre dovrebbe allora essere eletta la nuova compagine. Sono però all’opera giuristi che, visto l’impasse in Parlamento, stanno cercare di “guadagnare’ qualche mese, senza violare la Costituzione, in caso la road map parlamentare abbia tempi troppi stretti. Fonti qualificate hanno riferito a Il Dubbio la possibilità di un voto verso la metà del prossimo mese di ottobre. Ovviamente tutto potrà tornare in discussione in caso il Parlamento decida di far saltare il banco e di votare il sorteggio. E su questo i rumors dell’ultima ora stanno facendo balenare l’ipotesi che la melina da parte di alcuni partiti sia finalizzata a spostare la partita da Montecitorio a Palazzo Madama, dove i numeri di Pd e M5S, i più contrari al sorteggio, sono ben diversi. Al Senato, poi, la Commissione Giustizia è presieduta da Andrea Ostellari, leghista di stretta osservanza che sulla giustizia ha idee opposte da quelle del suo omologo alla Camera, il pentastellato Mario Perantoni. Senza dimenticare, infine, che al Senato ci sono due pezzi forti come Matteo Salvini e Matteo Renzi che spingono, per diverse ragioni, verso una riforma della giustizia molto più radicale di quella voluta dalla ministra Cartabia. Comandano ancora i grillini, la Camera difende la legge spazza-corrotti di Tiziana Maiolo Il Riformista, 31 marzo 2022 La proposta di Magi (+Europa), Costa (Azione) e dei dem Bruno Bossio e Raciti elimina l’equiparazione nel 4bis dell’ordinamento penitenziario tra reati contro la Pa e quelli di terrorismo e criminalità organizzata. Fi e Pd avevano votato contro la legge bandiera dei grillini: se ne ricorderanno? Una restituzione di dignità al Parlamento, prima ancora che ai singoli rappresentanti politici nelle istituzioni. Questo potrebbe essere il risultato, se oggi la Camera dei deputati votasse a favore dell’emendamento presentato dal radicale di Più Europa Riccardo Magi, da Enrico Costa di Azione, e soprattutto da due esponenti di quel Pd cui in tema di giustizia non resta più nemmeno la dignità, Enza Bruno Bossio e Fausto Raciti. Un voto che dovrà modificare una delle due “Leggi vergogna” contro la politica e contro la democrazia votate negli ultimi dieci anni: la legge Severino del 2012 (governo Monti) e la legge “spazzacorrotti” nel 2019 (primo governo Conte). È questa la norma presa di mira dai quattro deputati con la proposta di modifica dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario nei punti in cui equipara i reati contro la pubblica amministrazione a quelli di terrorismo e criminalità organizzata. E di conseguenza condiziona i benefici penitenziari e la libertà condizionale al “pentimento”, cioè confessione e delazione da parte del condannato. Sarebbe una vera occasione, se oggi si attuasse una piccola rivoluzione copernicana. Un mezzo miracolo. Che cosa faranno Forza Italia, Italia viva e Pd? Al momento tutto fa temere il peggio e ancora una volta vinceranno le manette. Nessuna rivoluzione, nessun cambio di passo. Comandano ancora i grillini e la loro cultura. Una restituzione di dignità al Parlamento, prima ancora che ai singoli rappresentanti politici nelle istituzioni. Questo potrebbe essere il risultato, se oggi la Camera dei deputati votasse a favore dell’emendamento presentato dal radicale di Più Europa Riccardo Magi, da Enrico Costa di Azione, e soprattutto da due esponenti di quel Pd cui in tema di giustizia non resta più nemmeno la dignità, Enza Bruno Bossio e Fausto Raciti. Un voto che dovrà modificare una delle due “Leggi vergogna” contro la politica e contro la democrazia votate negli ultimi dieci anni: la legge Severino del 2012 (governo Monti) e la legge “spazza-corrotti” nel 2019 (primo governo Conte). È questa la norma presa di mira dai quattro deputati con la proposta di modifica dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario nei punti in cui equipara i reati contro la pubblica amministrazione a quelli di terrorismo e criminalità organizzata. E di conseguenza condiziona i benefici penitenziari e la libertà condizionale al “pentimento”, cioè confessione e delazione da parte del condannato. Sarebbe una vera occasione, se oggi si attuasse una piccola rivoluzione copernicana. Un mezzo miracolo. Anche perché questo Parlamento la dignità l’ha persa da tempo. Non l’ha avuta nei primi anni novanta quando ha messo spontaneamente la testa sotto la mannaia dei pubblici ministeri aprendo la strada alla repubblica giudiziaria, che ha governato almeno fin quando non è comparso all’orizzonte il soldato Luca Palamara e il suo libro scritto con Sandro Sallusti. Ha addirittura fatto harakiri quando ha abolito l’immunità parlamentare, il contrappeso voluto dai padri costituenti a bilanciamento dell’indipendenza della magistratura. Ha toccato il fondo nel 2012 quando ha delegato il famoso governo Monti (quello costruito in vitro per far fuori l’ultimo legittimato da una vera maggioranza elettorale, quello presieduto da Silvio Berlusconi) e la sua guardasigilli Paola Severino a emanare una norma, che porta il nome della ministra, che ha tagliato le gambe non solo agli eletti, ma anche agli elettori. Una normativa che stabilisce la priorità delle decisioni dei giudici (anche quelle non definitive) rispetto a quelle dei cittadini nelle urne. Ma la verità è che, se credevamo che con quella legge del 2012, che è figlia diretta della sub-cultura moralistica che sovrappone il peccato al reato, lo Stato di diritto avesse chiuso i battenti, ancora non sapevamo che sarebbero arrivati in Parlamento e al Governo i grillini con l’onestà-onestà a suon di marcia a occupare Palazzo Chigi e i due palazzi del potere legislativo, Madama e Montecitorio. Ognuno ha i punti di riferimento che si merita, e al Parlamento del 2018, che è lo stesso di oggi, in cui il Movimento cinque stelle è il primo partito per peso numerico (pur con le tante defezioni), capitò anche come ministro della giustizia Alfonso Bonafede. Fedele esecutore non più e non soltanto della sub-cultura moralistica, ma soprattutto di quella vendicativa, tipica della frustrazione e dell’invidia. Nei confronti di chi ha avuto successo nella vita, fosse grande imprenditore, intellettuale o politico. Chiunque avesse una cultura appena più alfabetizzata della capacità di pronunciare un “vaffa”, fu visto con sospetto. E in particolare il mondo politico e istituzionale è stato preso di mira con violenza e considerato furfante e ladro. È in questo clima, alimentato - lo diciamo senza soddisfazione - anche da tanti magistrati (o ex) che trovano ospitalità compiacente non solo sul proprio house organ, il Fatto quotidiano, ma anche in quelli che Travaglio chiama giornaloni, che nasce la “legge spazza-corrotti”, sorella minore ma non meno maligna della “legge Severino”. La primogenita prevede incandidabilità, ineleggibilità e decadenza automatica per parlamentari, rappresentanti del governo, consiglieri regionali, sindaci e amministratori locali in caso di condanna. Ha valore retroattivo e comporta sia l’impossibilità alla candidatura, ma anche la decadenza in caso di condanna a una pena superiore a due anni per reati gravi, tra cui quelli contro la pubblica amministrazione. Con l’aggravante che, mentre per i parlamentari la norma si applica solo in caso di condanna definitiva, per gli amministratori locali è sufficiente una sentenza di primo grado. Una disparità che ha indotto di recente il Pd, in genere sordo ai richiami sulla giustizia, a presentare una proposta di riforma che equipari le diverse situazioni, pur senza mettere in discussione il principio. Del resto, almeno tre sentenze della Corte Costituzionale hanno confermato l’aderenza alla legge delle leggi. Anche se molti giuristi si erano espressi in modo opposto, soprattutto nei giorni in cui, sulla base dell’applicazione della legge, ci fu la clamorosa decadenza dal Senato di Silvio Berlusconi, dopo la condanna di cassazione, nell’agosto 2013, per frode fiscale. Piccole proposte di riforma sono state depositate in questi giorni, magari anche per evitare il referendum numero sei che, tra quelli presentati da radicali e Lega, vuol proprio cancellare quella norma Severino e l’automatismo della sua applicazione. Se la prima delle due “leggi vergogna” interveniva a colpire la politica in relazione all’attività parlamentare o amministrativa, la seconda ha a che fare con le modalità di esecuzione della pena di chiunque sia stato condannato per reati contro la pubblica amministrazione. “Spazzare via”, vuol dire togliere di torno, buttare via. Che cosa? L’immondizia. Immondizia da spazzare sono i condannati per corruzione o concussione o peculato o altri reati previsti dal titolo secondo del codice penale. I principi di questa norma sono due. Il primo è che si tratti di persone indegne e da buttare, appunto, il secondo è che nell’esecuzione della pena debbano essere trattati come i terroristi, i boss mafiosi, piuttosto che i trafficanti di organi o gli schiavisti. Di qui la modifica dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, quello che vincola, per i condannati per reati gravissimi di terrorismo o mafia, la concessione dei benefici previsti dall’ordinamento penitenziario come i premio, il lavoro esterno e la detenzione domiciliare, al “pentimento”. Se non collabori, muori in carcere. Sono i famosi reati “ostativi”, il cui principio è già stato messo in discussione dalla Corte Costituzionale anche per quel che riguarda gli ergastolani. Ed è proprio quello di cui sta discutendo il Parlamento, che ha ancora poco più di un mese di tempo per dare applicazione all’incostituzionalità già adombrata dall’Alta Corte. Come si inquadra, in questa discussione, l’emendamento promosso da Magi, Bruno Bossio, Raciti e Costa? È un cuneo che cerca di demolire dall’interno una legge nata sulla spinta della propaganda grillina, un mattoncino che va a colpire al cuore la Spazza-corrotti, spazzando via la confusione tra i reati contro la pubblica amministrazione e quelli più gravi previsti dal codice penale. In fondo che differenza c’è tra chi si sia reso responsabile di un fatto di corruzione e un boss mafioso con trenta omicidi? È questo che pensa veramente il Parlamento? E quando poi arriva la condanna e ci sia la possibilità di riparazione al di fuori del carcere, perché questa deve essere negata, soprattutto a condannati che non hanno commesso reati contro la persona? Ci sono stati casi clamorosi, come quello di Roberto Formigoni, che ha dovuto subire la carcerazione addirittura per l’applicazione retroattiva della legge, prima che intervenisse la Corte Costituzionale, con una sentenza storica che ha demolito la giurisprudenza della cassazione applicando il principio di “prevedibilità” sancito dall’articolo 7 della Cedu, per cui ciascuno deve sapere prima non solo quali comportamenti siano considerati reato, ma anche quale pena è prevista. Ma è proprio la sostanza della legge, a dover essere abrogata. E andrebbe ricordata la pregiudiziale di incostituzionalità che era stata presentata dall’intero gruppo di Forza Italia alla “spazza-corrotti”, proprio perché la norma rompeva quell’equilibrio che teneva distinti il binario mafioso-terroristico di quei reati che destano maggiore allarme sociale e problemi di sicurezza da tutti gli altri, compresi quelli contro la pubblica amministrazione. L’emendamento all’articolo 4-bis che sarà votato oggi va a proprio in quella direzione, e speriamo che Forza Italia e il Pd che aveva votato contro quella legge, se ne ricordino. E consentano al Parlamento un’altra rivoluzione copernicana dopo quella dell’Alta Corte che ha cancellato la retroattività della norma. Umbria. Il Garante: “Il problema sanitario nelle carceri non è solo la gestione del Covid” umbria24.it, 31 marzo 2022 Discontinuità assistenziale anche in casi gravi, personale esiguo e turn-over accelerato. Caforio: serve una nuova organizzazione. Grave carenza di personale, sia medico che infermieristico nelle carceri umbre, acuita da condizioni contrattuali che anziché prevedere incentivi per chi dovesse optare per il lavoro nelle strutture penitenziarie non garantisce lo stesso trattamento economico di altre categorie: i medici delle Usca hanno una tariffa oraria quasi doppia rispetto ai medici di continuità assistenziale e i professionisti in forza agli ospedali guadagnano il triplo. Nelle carceri umbre sono rientrati in servizio medici in pensione e c’è la necessità di prorogare i contratti in scadenza dei medici assunti per il periodo legato all’emergenza covid. Servirebbero una maggiore flessibilità contrattuale e meno paletti, come quello rappresentato dalla incompatibilità fra incarichi, per agevolare il lavoro di chi è chiamato a dare continuità assistenziale in strutture che necessitano, per ovvie ragioni di sicurezza, anche di una adeguata copertura dei turni. Queste considerazioni sono state fatte dai responsabili e dagli operatori della sanità penitenziaria delle strutture umbre (Alessandro Lucarini, Antonio Marozzo, Gaetano Giubila, Romano Trastelli, Simonetta Antinarelli, Benedetta Malici e Silvia Ceppi) nel corso dell’audizione richiesta dal consigliere Thomas De Luca (M5s) che si è tenuta in Terza Commissione, a cui hanno preso parte il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale, Giuseppe Caforio e il direttore regionale della sanità umbra Massimo Braganti. Non solo pandemia Il Garante Caforio, in carica da meno di un anno, ha detto che sulla sanità carceraria ha inciso non solo la pandemia, ma anche e soprattutto la difficoltà a dare risposta alle patologie diverse dal covid, essendosi verificata discontinuità assistenziale anche in casi gravi ed ha sottolineato l’esiguità del personale e il turn over accelerato. Necessaria quindi una riorganizzazione della sanità penitenziaria. Il direttore generale della sanità umbra Massimo Braganti ha rassicurato sul fatto che i contratti in scadenza saranno prorogati e ha detto che prosegue la non facile caccia ai professionisti. “Stiamo chiedendo - ha detto - un intervento sui contratti di alcuni settori della sanità, come quella penitenziaria ma anche il 118, che risultano penalizzati. In precedenza ho fatto rilevare al Ministero che la necessità di copertura del contact tracing e del servizio Usca ha generato un esodo di personale che ha legittimamente scelto di andare a fare servizi diversi da quelli del 41 bis. Come Regione Umbria vedremo cosa si può fare attraverso accordi aziendali, rimanendo nella legittimità. Sarebbe più facile gestire le necessità se ci fosse la possibilità di uniformare i diversi istituti contrattuali. Le remunerazioni sono tutte diverse e i professionisti scelgono. Ci auguriamo d poter avere professionisti anche all’Università che possano essere formati adeguatamente per svolgere incarichi dentro i penitenziari”. Parma. Il carcere di via Burla è rimasto senza Garante parmatoday.it, 31 marzo 2022 Dopo la nomina di Roberto Cavalieri come garante regionale il suo posto è rimasto vacante: il Comune deve indire un avviso per la presentazione delle candidature, poi il voto in Consiglio Comunale. Dopo l’elezione, avvenuta nel mese di febbraio, dell’ex garante dei detenuti del comune di Parma Roberto Cavalieri come Garante regionale dei detenuti, il suo posto come riferimento per le persone ristrette della libertà nel carcere di massima sicurezza di via Burla è rimasto vacante. Per sostituire Cavalieri il Comune di Parma deve pubblicare un avviso per la presentazione delle candidature e poi votare in Consiglio comunale per l’elezione di uno dei candidati. Il ruolo, svolto gratuitamente, prevede una serie di azioni da effettuare, come scritto nel regolamento approvato nel 2018 dal Consiglio comunale. E’ probabile che la procedura per l’individuazione del nuovo garante non venga attivata prima della fine del mandato del Pizzarotti: sarà il nuovo sindaco a farsi carico della questione e a cercare un sostituto per un ruolo che, soprattutto in questi giorni con l’incendio di quattro celle da parte dei detenuti, è di fondamentale importanza per tutto il territorio. Garante dei detenuti: ecco cosa fa - “Il Garante - si legge nel regolamento approvato - opera per migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà personale mediante: la promozione di iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani e dell’umanizzazione delle pene delle persone comunque private della libertà personale; la promozione di iniziative volte ad affermare per le persone private della libertà personale il pieno esercizio dei diritti comportanti relazioni ed interazioni operative anche con altri soggetti pubblici competenti in materia. Il Garante, svolge le sue funzioni anche attraverso intese e accordi con le Istituzioni interessate volti a consentire una migliore conoscenza delle condizioni delle persone private della libertà personale, mediante visite ai luoghi ove esse stesse si trovino, nonché con associazioni ed organismi operanti per la tutela dei diritti della persona. Il Garante partecipa agli incontri periodici del Comitato Locale per l’area dell’Esecuzione Penale Adulti (C.L.E.P.A) istituito in attuazione del “Protocollo d’Intesa tra il Ministero di Grazia e Giustizia e la Regione Emilia Romagna per il coordinamento degli interventi rivolti ai minori imputati di reato e agli adulti sottoposti a misure penali restrittive della libertà”. Il Garante promuove inoltre l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone comunque private della libertà personale ovvero limitate nella libertà di movimento, domiciliate, residenti o dimoranti nel territorio del Comune di Parma, con particolare riferimento ai diritti fondamentali, al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute, allo sport, per quanto nelle attribuzioni e nelle competenze del Comune medesimo, tenendo altresì conto della loro condizione di restrizione; 5. Il Garante svolge la sua attività in piena libertà ed indipendenza e non è sottoposto ad alcuna forma di controllo gerarchico e funzionale”. Andria (Bat). Nella masseria dove si riassapora la vita di Stefano Proietti dire.it, 31 marzo 2022 I sogni di don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli sono diventati il sogno di una intera comunità diocesana, che ha ridato vita a un antico casolare abbandonato facendolo diventare luogo di riabilitazione e reinserimento per decine di detenuti ed ex detenuti. Il progetto “Senza sbarre” e la cooperativa “A mano libera”. Galera, carcere, prigione, gattabuia, istituto penitenziario, casa di reclusione. Fra tutti i sinonimi che ogni epoca ha coniato per il luogo deputato a limitare la libertà personale certamente non c’è la parola “masseria”. Ed è proprio traendo spunto da una preziosa testimonianza del magistrato Giannicola Sinisi che arriviamo alla masseria S. Vittore, in agro di Andria. Qui si respira l’aria pura dell’Alta Murgia, alle pendici di Castel del Monte, sapori dell’orto e della frutta, antiche fragranze di grano, prodotti della terra e dell’allevamento, su otto ettari di superficie. Ma è soprattutto il profumo del servizio e del riscatto che avvolge la comunità “Amici di San Vittore” grazie al progetto “Senza Sbarre” della diocesi di Andria, finanziato da Caritas Italiana nel 2017 con 200mila euro provenienti dai fondi dell’8xmille. Un progetto portato avanti con il contributo di imprenditori privati, ristoratori e associazioni, in particolare “Amici per la vita”: partite di solidarietà, teatro, concerti, mercatini, per contribuire a realizzare le misure alternative al carcere, previste dalla legge. Sostenuto fortemente dal vescovo Luigi Mansi, “Senza Sbarre” nasce su iniziativa di don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli, da anni impegnati nel volontariato in carcere. “Un sogno diventato realtà, commenta mons. Mansi: fare di più per sostenere i nostri fratelli che, pur avendo compiuto errori tali da incorrere nelle maglie della giustizia, manifestano il desiderio sincero di restituirsi alla vita familiare e sociale”. La masseria “San Vittore”, proprietà della diocesi pugliese, un tempo florida masseria della famiglia Azzariti, dismessa alcuni anni fa dalla comunità di recupero per tossicodipendenti guidata da don Gelmini, versava in stato di completo abbandono ed è tornata ad essere un luogo di fiducia e di speranza. Dispone di stanze per l’accoglienza, di cucina, comuni, uffici, una chiesetta e un piccolo alloggio per i due sacerdoti. Una parte dei fabbricati, poi, viene utilizzata per l’attività lavorativa. Nel 2018 è nata anche una società cooperativa sociale denominata “A mano libera”, che impiega detenuti ed ex detenuti nella produzione di pasta fresca e taralli. I prodotti sono realizzati con materie prime naturali di qualità e a kilometro zero. Tutte le risposte ai bisogni degli utenti sono coordinate da una équipe socio- educativa e integrate fra tutti gli operatori, sia del Ministero della giustizia che degli enti locali. I detenuti curano i campi e gli animali, producono pasta fresca, taralli, pane e focacce cotte a legna, manutengono le strutture, trasformano i prodotti agricoli e li vendono, si curano del verde e del giardino della chiesa, ma anche delle zone pubbliche nei dintorni di Castel Del Monte. Partecipano agli eventi, alla formazione, alla celebrazione eucaristica e alla preghiera comunitaria. Semiresidenziali, semiliberi, affidati, messi alla prova, in permesso premio, nelle diverse forme di libertà condizionale o vigilata, liberi in sospensione della pena in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza: qui si attuano tutte le misure alternative al carcere e sarebbero tutte storie da raccontare. Come quella di Riccardo, 50 anni, due figli, di cui uno calciatore, una moglie malata, carpentiere prima di delinquere, ma anche pittore. “Questa comunità - confida - mi ha ridato l’aria che mi tolgono le sbarre. Qui il lavoro è incessante e il tempo passa in fretta, mentre le ore in carcere sono interminabili. Serve una volontà ferrea per cambiare, ma anche gli incontri giusti”. Ha progetti per il futuro: riprendere il suo mestiere in azienda per dare credibilità ai suoi figli. E poi Roberto, 70 anni, ergastolano, due figli, nonno. Specializzato termoidraulico, ma anche autista di tir, sconta da 50 anni la sua pena. Di macerie ne ha viste tante nella masseria S. Vittore, scavata pezzo per pezzo, come le stratificazioni della sua esistenza. La sua forza? La moglie, che non l’ha mai lasciato, ed è rimasta al suo fianco nella buona e nella cattiva sorte. “È questa la Chiesa in uscita: nitido esempio di interazione tra liturgia e azione” - spiega don Riccardo Agresti - perché è la comunità che deve farsi carico delle fragilità”. E lui lo sa bene, dopo oltre 25 anni in un quartiere difficile di Andria (Croci-Camaggio) e poi trasferito come parroco nella Chiesa S. Luigi, meglio conosciuta come S. Maria al Monte: desolata nel gelido inverno, d’estate popolata di villeggianti, anch’essi ormai partecipi delle attività della masseria. Rieducare, reinserire, riconciliare: guarire la società dal dolore dei delitti impone uno sforzo di riconciliazione. “È un progetto di Dio - aggiunge don Riccardo - dove uomini incoscienti, a partire dal nostro vescovo che si è fidato di persone inadeguate come me e don Vincenzo, hanno avuto tra le mani un’opera strategica per far capire che la Parola di Dio deve diventare carne. Dobbiamo andare incontro alla carne sofferente e superare la mentalità dello stigma che chi ha sbagliato deve pagare per sempre. L’uomo non è il suo errore, ripeteva don Oreste Benzi. Il Progetto senza Sbarre non dà onori, ma solo oneri - continua don Riccardo. Quando, calato in questa nuova realtà, sono stato tentato di andarmene, il richiamo per me è stato il libro di Rut, con la fedeltà di lei alla suocera Noemi. Con il Signore Dio ci si stupisce sempre: anche quando ci sono buio, solitudine, mormorazione, dobbiamo cogliere i segni della bellezza, della meraviglia, della grandezza. Ed è per questo che ha senso l’orto della riparazione, dove sono stati piantati 20 alberi di ulivo. Ognuno dei condannati simbolicamente ha comprato un alberello e il ricavato, il frutto, sarà un segno della necessaria riparazione verso le vittime. È la mentalità che deve cambiare. Più che tenerli in carcere a nutrire idee di morte, dobbiamo alimentare vita, generando mediatori di pace tra le vittime. Il carnefice deve piegarsi, la vittima non deve essere esclusa dal processo né dall’incontro con chi le ha fatto del male. Dobbiamo colmare questa distanza storica, culturale e spirituale. Oggi l’ultimo rudere attende di essere restaurato, per l’edificazione di un mulino in pietra: farina con grani antichi, il grano grezzo dell’inclusione, molto più pregiato. Saranno creati anche alloggi per i volontari o per chi vuole fermarsi a conoscere il mondo carcerario. La Provvidenza che ha ispirato questo percorso di rinnovamento - conclude don Riccardo - continui a trovare gente pronta a sporcarsi le mani nell’accogliere quegli scarti, che per noi sono pietre angolari per rendere vivo il Vangelo”. Nel 2018, eravamo già stati a visitare questo progetto, ma ancora non era diventato quello che è oggi. Ecco il video-racconto realizzato allora da Giovanni Panozzo. Udine. La proposta di Corleone: “Un laboratorio per riformare le carceri” Messaggero Veneto, 31 marzo 2022 Fare di Udine un “laboratorio per riformare il carcere in termini di diritti e dignità”, un esempio a livello nazionale “di rete tra associazioni e istituzioni per progettare e facilitare il reinserimento dei carcerati”. A lanciare la sfida è stato Franco Corleone, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del comune di Udine, che ieri ha promosso un incontro sul tema “Il carcere dopo il Covid-19”. “Dobbiamo pensare ad azioni concrete - ha spiegato Corleone - a cominciare da un modo per mitigare il fenomeno dell’affollamento. Oltre alle misure alternative alla detenzione, immaginiamo un provvedimento ad hoc per più giorni di liberazione anticipata per chi va verso il fine pena. Un segno di attenzione nei confronti dei carcerati dopo tutto quello che hanno passato negli ultimi due anni a causa della pandemia”. Il garante ha toccato anche altri temi, come la carenza di educatori o la necessità di avviare una sorta di hou-sing sociale per chi esce di galera senza più avere una famiglia o una casa. “Pensiamo a lavori socialmente utili - ha concluso - per favorire il reinserimento”. Nuoro. “Giri di boa”, 16 ex detenuti iniziano percorso di lavoro ansa.it, 31 marzo 2022 Si chiama “Giri di boa” ed è un progetto finanziato con il bando “Liberi” dell’Aspal, che punta al reinserimento di 16 persone del Nuorese, sottoposte a misure alternative alla detenzione carceraria. È il primo progetto dei tanti promossi dall’Agenzia regionale per il lavoro, rivolti a persone che hanno subìto una condanna penale e che vede coinvolti la cooperativa Lariso, la Provincia di Nuoro e l’Ufficio di esecuzione penale del ministero di Grazia e Giustizia. “Liberi è un intervento in cui crediamo molto perché mira a un rafforzamento personale e sociale di persone sottoposte a misure alternative alla detenzione con l’obiettivo di aiutarle a reinserirsi nella società civile - ha detto Maika Aversano, direttrice generale dell’Aspal, nel corso della presentazione del progetto a Nuoro -. Con tutti i partner del Ministero della Giustizia abbiamo avviato questa progettazione che riguarderà in tutta la Sardegna 64 persone. Quello di Nuoro è il primo che parte del bando “Liberi” e a brevissimo seguiranno anche i progetti della città Metropolitana di Cagliari, provincia del Sud Sardegna, provincia di Oristano e della provincia di Sassari”. “Cominceremo con un tirocinio che durerà 5 mesi e lo faremo con dei laboratori di formazione e inserimento al lavoro - ha spiegato il presidente della Cooperativa Lariso Silvio Obinu - lavoreremo in partenariato col Progetto H di Macomer, sull’uso della parola, sul lavoro di squadra, sulle regole. Poi procederemo a individuare le aziende da abbinare ai destinatari del progetto. La cosa positiva è che 40 aziende sono disponibili ad accogliere le 16 persone svantaggiate: 12 uomini e 4 donne. Il fulcro del progetto - conclude Obinu - è quello di affermare che non solo le istituzioni e le coop. sociali si devono prendere cura di queste persone, ma tutta la società a cominciare dalle aziende”. Livorno. Svolta green sull’isola di Gorgona: protagonisti i detenuti e gli agenti di Massimiliano Minervini gnewsonline.it, 31 marzo 2022 L’isola di Gorgona rappresenta un autentico polmone verde, ricoperta da una folta vegetazione e aree boschive. Ma è anche una isola-penitenziario. Questo territorio, grazie a un sistema innovativo di fitodepurazione delle acque e ad azioni energetiche che non prevedano incrementi di CO2, sta per diventare autosufficiente e green. Per illustrare il virtuoso cammino, è stato presentato, nella Sala Cerimonie del Palazzo Comunale di Livorno, il progetto per la realizzazione di due interventi innovativi, improntati alla sostenibilità ambientale, nell’ambito del finanziamento da oltre 684mila euro che il Fondo per gli investimenti nelle Isole Minori del Dipartimento per gli Affari regionali e le Autonomie della Presidenza del Consiglio ha assegnato al progetto presentato da Comune di Livorno, ASA e Amministrazione Penitenziaria. Decisivi, in questo percorso, sono stati proprio i detenuti e gli agenti del penitenziario toscano che, sin dagli albori dell’iniziativa hanno fornito un significativo contributo. “Ho seguito il progetto e mi sono fatto parte attiva - commenta il direttore della casa circondariale di Livorno - Carlo Mazzerbo - di comune intento con le altre realtà che hanno partecipato, fra cui va sottolineato l’apporto fondamentale di ASA e Comune di Livorno”. “La parte più interessante - ritiene il direttore - è che i tecnici si sono recati sull’isola, oltre che per i sopralluoghi di rito, anche per coinvolgere gli ospiti del carcere e gli agenti sotto il profilo della nella messa a punto. Tale coinvolgimento proseguirà anche in sede di gestione ordinaria dell’impianto, quando sarà completato. La particolarità è che l’intervento permetterà di completare il circolo di depurazione già esistente. Le acque prodotte saranno ulteriormente depurate e indirizzate all’ uso agricolo, riducendo i costi”. Mazzerbo conclude con un auspicio: “Ciò dovrebbe ulteriore sviluppo a questa attività, magari consentendo di impiegare un numero ancor più ampio dei detenuti. In questo senso voglio sottolineare che l’attività agricola che intendiamo sviluppare costituisce il focus del progetto di rilevanza nazionale PON Inclusione” Sulmona (Aq). Un mobilificio dietro le sbarre arrederà tutte le carceri d’Italia ilgerme.it, 31 marzo 2022 Da laboratorio ad industria vera e propria: il carcere di Sulmona diventa punto di riferimento e fornitore degli arredi di tutte le carceri italiane. La Regione Abruzzo ha pubblicato l’avviso per l’individuazione dell’ente di formazione che si dovrà occupare di trasformare i detenuti in operai specializzati: 80 per iniziare, ma che a regime potrebbero anche crescere, per un progetto che ha il plurimo scopo di perfezionare e affinare i modelli produttivi, trasformare l’esperienza artigiana che è già presente da anni in via Lamaccio in attività produttiva, insegnare un mestiere ai detenuti e inserirli in un processo di rieducazione all’avanguardia. Per questo i formatori, a cui è destinato un budget di 100mila euro, avranno il compito di andare oltre l’insegnamento dell’uso delle macchine, con risvolti cioè di tipo educativo e psicologico. Il progetto, che vede un partenariato con il carcere di Lecce, è finanziato con 750mila euro dai fondi Pon e Fse 2014-2020 e vedrà i detenuti-falegnami impegnati a realizzare le forniture e gli arredi per tutti gli istituti penitenziari d’Italia. Una commessa già acquisita a cui, però, e questa è la scommessa vera, potrebbero seguirne altre esterne: l’obiettivo è quello di confrontarsi con il mercato e diventare competitivi per trasformare il laboratorio dietro le sbarre in una fabbrica e in opportunità di lavoro. Perché di lavoro, comunque, si tratterà per gli ospiti di via Lamaccio che saranno retribuiti a tariffa oraria secondo il contratto nazionale di lavoro. Pesaro. Laboratorio “Luce Dentro”, nel carcere di Fossombrone si creano le icone russe di Tiziana Petrelli Il Resto del Carlino, 31 marzo 2022 C’è un piccolo laboratorio artigianale di icone russe, all’interno del carcere di Fossombrone. Dentro quelle immagini d’oro disegnate a mano su tavolette di legno, c’è la voglia di riscatto di tre detenuti e il loro pentimento che risplende. Le storie di tre uomini del sud, tutti ergastolani per essersi macchiati le mani di sangue, si sono incrociate nel Laboratorio “Luce Dentro” attivato nel carcere di Fossombrone, dove ora quelle mani servono a creare bellissime immagini sacre, davanti le quali pregare e convertirsi. “L’iniziativa si colloca nel pieno solco delle leggi vigenti, che favoriscono il lavoro all’interno e all’esterno degli Istituti previdenziali, con specifica possibilità per i detenuti di esercitare attività artigianali, intellettuali ed artistiche, ed è stata specificamente approvata dal Provveditorato Regionale per l’Emilia Romagna e Marche - spiega Giorgio Magnanelli, presidente dell’associazione “Mondo a Quadretti” che edita anche il giornalino del carcere -. Nel Laboratorio lavorano attualmente tre detenuti (Giovanni, Damiano e Pasquale) e due volontarie (suor Catherine e Chiara) e il tutto si svolge sotto la straordinaria supervisione e maestria del Maestro iconografo Antonio “Tonino” Calandriello, un maestro di fama nazionale”. Allievo del maestro Alexander Stalnov di San Pietroburgo, dove apprende la tecnica per la pittura (o meglio la scrittura) delle icone, Calandriello dal 2002 tiene, come volontario, il corso di iconografia presso la Casa Circondariale bolognese della Dozza, e, da qualche anno, presso la Casa di Reclusione di Fossombrone. “Questo progetto nasce dal fatto che un detenuto - spiega Magnanelli - aveva iniziato a Bologna, con il maestro Calandieriello, un corso di iconografia secondo la scuola russa. Poi è stato trasferito a Fossombrone e qui ha chiesto di poter iniziare questa attività, dicendo di aver acquisito le competenze. Mi ha mostrato qualche icona e a me sono sembrate molto belle. Non solo per l’oggetto in sé, ma per tutto quello che c’è dietro”. Magnanelli ci racconta che Giovanni, oggi, concepisce la realizzazione di icone come un’esperienza spirituale. “Prima di dipingere, o meglio andare a scrivere l’icona, perché loro dicono che l’icona si scrive - prosegue Magnanelli - fa un’ora di preghiera, digiuna, studia i testi sacri e solo dopo si mette a dipingere. L’esperienza della scrittura iconografica non è quindi solo artistica. Dalla preparazione dei colori, ottenuti utilizzando esclusivamente materiali naturali, alla predisposizione del corpo e dello spirito alla scrittura, per mezzo della meditazione, della preghiera, del digiuno, della riconciliazione e della benedizione, scrivere un’icona è un’esperienza totalizzante: spirituale, esistenziale, umana. Inoltre, in carcere, realizzare un’icona significa recuperare due aspetti di cui la vita carceraria è priva: la libertà e la bellezza”. Quando l’associazione “Mondo a Quadretti” ha deciso di investire i suoi soldi nel progetto del detenuto Giovanni, ha coinvolto altri due ergastolani. A distanza di un qualche anno raccontano i risultati di questo progetto, per valorizzarlo e metterlo in mostra. “Secondo me è una cosa da valorizzare anche da un punto di vista commerciale - conclude Magnanelli -. Così ho ideato un logo, abbiamo fatto un certificato di garanzia, abbiamo impostato un catalogo per poter commercializzare queste icone. La produzione è chiaramente limitata perché per farne una ci vogliono 40 giorni. Sono tutti pezzi unici, completamente dipinti a mano su tavole di faggio. Dopo Pasqua faremo una mostra a Fossombrone, ho già contattato l’assessore”. Tornando alla parte più commerciale, comunque assolutamente secondaria, alcuni ordini sono già iniziati ad arrivare: Nadia e Sergio da Casalecchio di Reno, Chiara e Pier Domenico da Pescara, Lucia e Luca di Fano. “Ci rivolgiamo a tutti - dice Magnanelli - perché prendiate in considerazione le icone di “Luce dentro” per regali di nozze, di anniversario, di compleanno ecc. Siamo certi che sarà un regalo graditissimo”. Per prenotarne una basta inviare una mail a gmagna@libero.it Livorno. Croce Rossa, al via corsi di formazione e prevenzione per i detenuti livornotoday.it, 31 marzo 2022 Percorsi di formazione e prevenzione alle persone detenute delle carceri di Livorno e Gorgona. Questa è l’idea nata da Croce Rossa Italiana - Comitato di Livorno e rapidamente trasformata in progetto concreto attraverso un protocollo nel quale è stata coinvolta l’amministrazione penitenziaria. Obiettivo dell’accordo è quello di attivare corsi mirati alla crescita culturale, professionale e artistica dei partecipanti per dare concreta attuazione alla finalità rieducativa della pena. Un percorso strutturato in lezioni che saranno erogate direttamente dai volontari e che verteranno su varie tematiche nell’ottica degli obiettivi associativi: tutela e promozione dell’educazione universale alla salute e alla sicurezza, promozione della cultura di inclusione sociale volta all’integrazione di coloro che si trovano coinvolti in situazioni di vulnerabilità sociale e/o economica e alfabetizzazione informatica. “Questa iniziativa rappresenta un segnale di ripresa delle tante attività che svolgiamo, dopo due anni in cui abbiamo dovuto concentrare le nostre energie quasi esclusivamente nella gestione della pandemia - dice il presidente di Croce Rossa Livorno, Giacomo Artaldi -. L’obiettivo è anche quello di cogliere le esigenze dei corsisti e cercare di proporre un’offerta formativa sempre più ampia e variegata”. Soddisfazione anche nelle parole del garante dei detenuti del Comune di Livorno, Marco Solimano. “Questa è la prima esperienza che facciamo in tal senso - spiega. Le risorse della società civile che entrano in contatto con la nostra realtà sono un’esperienza positiva, indipendentemente dalla tipologia di proposta formativa. Questo progetto agisce infatti su due fronti: consente l’acquisizione di competenze e abilità e attenua le distanze, quel continuo chiaro/scuro tra questa struttura e la città. Inoltre, un’istituzione così importante come la Croce Rossa potrebbe anche essere un punto di partenza per lo svolgimento del volontariato durante la pena o alla fine di quest’ultima”. Firenze. La Giustizia Riparativa alla prova in Italia. Confronto a più voci provincia.fi.it, 31 marzo 2022 Il Vice Presidente del Csm David Ermini a Firenze venerdì 1 aprile 2022 per un incontro sul tema, alle 17, nella Sala Pistelli di Palazzo Medici Riccardi. Intervengono Gianassi, Giazzi, Stefani e Lo Presti, autore de ‘Il Guerriero Guaritore’ sul modello Mandela. “Oltre le catene dell’odio”: la giustizia riparativa alla prova della riforma Cartabia e alla luce del libro di Alessandro Lo Presti, ‘Il Guerriero Guaritore’, che la Città Metropolitana e il Comune di Firenze presentano in un incontro venerdì 1 aprile 2022, alle ore 17, nella Sala Pistelli di Palazzo Medici Riccardi (con ingresso da via Cavour 9), al quale prenderanno parte: David Ermini, Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura; Federico Gianassi, assessore del Comune di Firenze e giurista esperto di questa materia. ; Rossella Giazzi, Dirigente Penitenziario Esecuzione penale esterna; Simone Stefani, Presidente Associazione Aleteia, una delle associazioni più attive nella mediazione penale e negli altri strumenti di giustizia riparativa. La Regione Toscana porterà il suo saluto con un suo rappresentante. Modera: l’Avv. Niccolò Falomi. Sarà presente Alessandro Lo Presti, autore del volume edito da Setteponti. La riforma del Ministro Cartabia, per la prima volta intende introdurre nel nostro ordinamento la Giustizia riparativa con una disciplina organica. Il modello realizzato da Nelson Mandela quando da Presidente della Repubblica decise di riconciliare il suo Paese è un esempio preso in esame proprio da Lo Presti, che affronta i tempi della “Riconciliazione pubblica” ma prende in esame anche ciò che muove la persona al perdono individuale. Roma. “Parole in cerca di libertà”, dati, racconti e storie di rap in carcere romatoday.it, 31 marzo 2022 Sono “Parole in cerca di libertà” quelle che martedì 5 aprile riempiranno gli spazi di Moby Dick, la biblioteca hub in via Ferrati, per raccontare storie, incrociare dati e vivere - anche solo per poco - all’interno degli Istituti di Pena Minorili. “Dati, racconti e storie di rap in carcere” - come spiega il sottotitolo - organizzati da Antigone, CCO - Crisi Come Opportunità e minimum fax, che il pubblico ascolterà attraverso l’esperienza e la voce di Francesco “Kento” Carlo. “Eventi come questo confermano quanto la riflessione sulle carceri minorili sia ormai meritatamente al centro del dibattito - commenta Kento - e quanto il rap possa avere un ruolo fondamentale nel far suonare forte la voce dei ragazzi reclusi. La sinergia tra affermate realtà che lavorano sul campo - come Antigone e CCO - e di una casa editrice dello spessore di minimum fax è un risultato di cui sono enormemente fiero, e spero che questo sia solo il primo passo di una lunga collaborazione. Personalmente, continuo a raccontare il carcere con le canzoni, con i libri e sullo schermo. E presto annunceremo altre bellissime novità”. Una testimonianza preziosa, quella del rapper e scrittore calabrese, che ha raccolto il vissuto di oltre 10 anni di laboratori di scrittura all’interno delle carceri, e lo ha trasformato in un libro - Barre, edito da minimum fax - e poi in due web serie - Barre Aperte, disponibile su Repubblica TV, e realizzato con il sostegno di CCO, Associazione Puntozero, e il supporto di Fondazione Alta Mane Italia, e Keep It Trill, realizzata da Antigone. “Lawrence Ferlinghetti, il primo autore straniero che minimum fax pubblicò nel 1995, scrisse che “la poesia è un canarino in una miniera di carbone, e noi sappiamo perché l’uccello in gabbia canti - così esordisce Daniele Di Gennaro, editore di minimum fax - Specie nei regimi che costringono la libertà, la forza della parola è un canto che supera ogni sbarramento. Un canto che più è costretto e più è bello e struggente. Il percorso di Francesco “Kento” Carlo riflette una delle ragioni forti per cui sentimmo di tentare l’esperienza della fondazione di una casa editrice dopo quella di una rivista indipendente. Attraverso l’Hip-Hop, l’esperienza del rap e quella dell’espressione poetica, Barre fa sentire forte le voci di quel canto, racconta chi siamo e chi saremo fuori dai quei limiti, fisici e mentali”. Si apre così una finestra su un modo sconosciuto ai più, una realtà troppe volte dimenticata, quella della detenzione minorile, e con grande leggerezza e sensibilità riesce a distogliere l’attenzione dal set in cui si svolge, conducendo lo spettatore tra le attività artistiche che le diverse associazioni portano avanti da anni, e le vite di questi giovani che desiderano soltanto una seconda possibilità. “Per CCO il percorso è iniziato nel 2019 - spiega Giulia Agostini, presidente di CCO - quando è nato un tavolo di incontro e scambio tra le principali associazioni italiane che lavorano nei diversi IPM, e da questo tavolo è nata ‘L’associazione nazionale teatri e giustizia minorile’, teso alla riflessione sui temi che riguardano la detenzione minorile e alla valorizzazione delle attività artistiche, espressive e teatrali realizzate nell’area penale interna ed esterna come strumento educativo e formativo. Noi ci abbiamo creduto subito ed è iniziato così il nostro viaggio negli IPM, un viaggio intenso, pieno di persone straordinarie che vivono dietro e oltre le sbarre”. “Il carcere è un luogo chiuso - spiega sul tema Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone - un luogo che troppo spesso non ha modo di raccontare se stesso. Il carcere è tradizionalmente un luogo opaco, dove le alte mura chiudono dentro le persone detenute ma al contempo chiudono fuori il mondo esterno. Le storie delle persone che abitano il carcere sono fondamentali per aprire delle finestre attraverso le quali guardare all’interno. E auspicabilmente delle porte attraverso le quali possiamo decidere di mettere un piede dentro. Storie come quelle raccontate nella serie Keep it trill ci fanno capire che in carcere ci sono persone come noi, che condividono le nostre aspettative e delusioni, le nostre forze e debolezze. È un pezzo di società, del quale tutti siamo chiamati a farci carico”. Ingresso gratuito, Super Green Pass obbligatorio, prenotazione consigliata. Info: mobydick@laziodisco.it. Crisi inflattiva, l’aumento dei prezzi riguarderà soprattutto le famiglie povere di Massimo Taddei Il Domani, 31 marzo 2022 Dopo un aumento dei prezzi molto consistente nel corso del 2021, legato soprattutto al rimbalzo della domanda con il miglioramento della crisi sanitaria e alle restrizioni dell’offerta dovute alla scarsità di materie prime e semilavorati e al rallentamento delle catene globali del valore, ci si aspetta un ulteriore aumento dei prezzi dovuto alla guerra in Ucraina, già in parte realizzato, per esempio con il boom del prezzo della benzina. Partiamo proprio dagli aumenti dei prezzi che si sono già registrati: nelle ultime settimane, il prezzo del petrolio è cresciuto fino a 50 dollari al barile rispetto a un anno fa, mentre quello del gas ha subito aumenti ancora superiori: secondo i dati elaborati dall’Ocse, il gas europeo è arrivato a costare anche oltre 200 $/MWh e si è stabilizzato oltre i cento dollari, contro poco meno di 20 $/MWh all’inizio del 2021. L’aumento del prezzo del gas naturale è stato così elevato rispetto a quello del petrolio a causa della fortissima dipendenza dell’Unione europea dalla Russia: nel 2020, infatti, quasi il 40 per cento delle importazioni di gas arrivavano dal paese di Putin. Naturalmente, gli aumenti dei costi delle materie prime hanno causato pesanti rincari sul prezzo della benzina e sulle bollette, richiedendo anche l’intervento del Governo. Per provare invece a capire quale sarà l’impatto della guerra e delle tensioni internazionali sui prezzi nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, dati e previsioni molto utili vengono forniti dall’Interim Economic Outlook di marzo 2022 dell’Ocse. Oltre alla dipendenza dal gas e dal petrolio russo, i paesi occidentali contano su Russia e Ucraina per molte altre materie prime, in particolare per quanto riguarda i beni alimentari e l’agricoltura. La Russia fornisce il 20 per cento delle esportazioni mondiali di grano, cui si aggiunge un ulteriore 10 per cento proveniente dall’Ucraina, che rappresenta anche il 13,5 per cento dell’export mondiale di granoturco. In Russia, inoltre, si producono in grande quantità fertilizzanti agricoli a base di cloruro di potassio: poco meno di un quarto dei fertilizzanti esportati nel mondo provengono da lì. A questi prodotti del settore dell’agricoltura, si aggiungono poi quote rilevanti di esportazioni di metalli preziosi e non, come palladio, nichel, platino e oro, soprattutto dalla Russia. Con la guerra tra i due paesi e le pesanti sanzioni imposte alla Russia dall’Occidente, è naturale aspettarsi un crollo dell’offerta mondiale di questi prodotti, con conseguente spinta al rialzo sui prezzi. Secondo l’Ocse, anziché crescere del 5,3 per cento come previsto in precedenza, il livello dei prezzi dei beni alimentari nel mondo potrebbe crescere del 8,5 per cento nel 2022 in uno scenario di crisi moderata con una risoluzione del conflitto in Ucraina relativamente rapida, mentre potrebbe arrivare addirittura a +12,6 per cento in caso di totale blocco delle esportazioni di beni agricoli dall’Ucraina nel 2022. Le conseguenze sul prezzo dei prodotti agricoli, dei mangimi e dei prodotti di allevamento nel mondo sarebbero quindi molto gravi, in particolare nei paesi in via di sviluppo. L’inflazione, è noto, è una “tassa” che colpisce soprattutto due categorie: i lavoratori dipendenti e assimilati (ossia i pensionati), che, ricevendo un reddito fisso, non possono aggiustare le proprie entrate in base all’andamento dei prezzi, almeno nel breve periodo, e le famiglie meno abbienti, che hanno un molto meno margine nel rivedere le proprie spese di fronte a un aumento dei prezzi, dal momento che la quota di spesa che potremmo definire superflua è molto inferiore rispetto a quella delle famiglie più ricche. Questa considerazione, valida nella maggior parte dei casi, diventa ancora più rilevante nel caso di questa crisi inflattiva. I prodotti che trainano la crescita dei prezzi, infatti, sono soprattutto quelli che pesano di più sul bilancio delle famiglie più povere: beni alimentari ed energia. Secondo il bollettino Istat sull’inflazione a dicembre 2021, infatti, la spinta inflattiva del 2021 aveva già danneggiato maggiormente le famiglie più povere, con un aumento dell’indice dei prezzi al consumo per le fasce meno abbienti pari al 2,4 per cento durante il 2021 rispetto al +1,6 per cento per quelle più ricche. Andando a vedere i beni e servizi considerati da Istat per il calcolo dell’inflazione, suddivisi per livello di benessere delle famiglie, si notano forti differenze nella composizione dei diversi panieri di consumo in base al livello di reddito: per le famiglie più ricche, per esempio, hanno un peso maggiore i servizi ricreativi e culturali, mentre il peso dei beni alimentari e quello dell’energia calano al crescere del reddito. Cosa significa? Che le famiglie più povere, che sono più esposte alla crescita dei prezzi degli alimenti e dell’energia, proprio i prodotti il cui prezzo crescerà di più a causa della guerra, subiranno ancor più degli altri questa nuova ondata di inflazione causata dal conflitto. Spese militari, mediazione del Pd con M5S: saliranno al 2% del Pil, ma solo nel 2028 di Matteo Pucciarelli e Giovanna Vitale La Repubblica, 31 marzo 2022 Lo slittamento della scadenza proposto dal ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Domani al Senato il voto di fiducia sul decreto Ucraina. L’esecutivo cominciava a scricchiolare, “non intendiamo fare passi indietro” sul no all’aumento delle spese militari entro il 2024, prometteva Giuseppe Conte. Alla fine il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, sia per conto del Pd che per quello del governo, si fa carico di indicare una mediazione. L’aumento concordato nel 2014 con la Nato, arrivando cioè al 2 per cento del Pil, slitterà al 2028. Il M5S chiedeva il 2030, ma insomma la sostanza è che - se effettivamente la proposta di Guerini verrà ratificata dall’esecutivo - tutti possono dirsi soddisfatti e cantare vittoria. In primis il Movimento, perché “fino a ieri ci davano degli irresponsabili, oggi si fa un buon passo quanto chiedevamo”, è quanto si commentava dalla sede romana del partito in Campo Marzio dopo l’uscita del ministro. E poi lo stesso Conte al Tg1: “La nostra posizione è sempre stata lineare e coerente. Sin dall’inizio avevo parlato di famiglie e imprese in difficoltà economica”. Domani è fissato il voto di fiducia a Palazzo Madama sul decreto Ucraina. In caso di fiducia, se il voto del Senato è favorevole sono preclusi tutti i restanti emendamenti e ordini del giorno presentati in assemblea. Non ci sarà quindi l’odg di Fratelli d’Italia recepito due giorni fa dal governo che lo impegnava sul 2 per cento; nelle pieghe dei regolamenti parlamentari si è consumato “un trucchetto puerile”, secondo il capogruppo di Fdi Luca Ceriani, di certo anche qui il M5S festeggia. Le altre forze della maggioranza invece confermano che il documento è stato recepito e tanto basta, l’atto di indirizzo è cristallizzato come impegno politico. “Sono stupita dal racconto fatto dal M5S sul 2 per cento per gli investimenti in difesa - ragiona mostrando un certo fastidio la capogruppo Pd al Senato, Simona Malpezzi -. Tutti gli ultimi governi, compreso quello Conte, hanno incrementato gli investimenti proprio per rispettare gli impegni presi in sede internazionale. Il Pd non ha cambiato linea. Anche in questa circostanza abbiamo dimostrato disponibilità ma abbiamo anche ribadito che gli accordi con la comunità internazionale si rispettano per garantire la credibilità del Paese. E per noi è importante sostenere il governo in questo impegno”. La sostanza è che comunque Pd, 5 Stelle, Leu, Lega, Forza Italia e centristi voteranno in maniera più o meno compatta al provvedimento che impegna il nostro Paese in aiuti umanitari, economici e militari verso il paese attaccato dalla Russia. Nel Movimento ad esempio il presidente della commissione Esteri, Vito Petrocelli, conferma il suo no, il che lo mette virtualmente fuori dal partito. Al Senato per il M5S c’è anche un’ala che, sul fronte diametralmente opposto a quello di Petrocelli, non apprezza la linea Conte, considerata poco responsabile. La linea della mediazione sulla dilazione temporale infatti era stata proposta già dalla settimana scorsa e poi ieri mattina in assemblea da Primo Di Nicola, mentre altri tre colleghi avevano dato forfait in commissione Difesa martedì, non convinti dalla posizione intransigente dell’ex presidente del Consiglio. Beghe per ora placate dall’accordo trovato oggi. Spese militari, scontro Draghi-Conte. Il decreto Ucraina va in cassaforte di Giacomo Puletti Il Dubbio, 31 marzo 2022 Il governo pone la fiducia sul testo, domani il voto finale. Restano le tensioni nella maggioranza sul riarmo. E alla fine il governo ha deciso di porre la fiducia sul decreto Ucraina. Che però è arrivato in Aula a palazzo Madama senza relatore, cioè tale e quale a quello già approvato dalla Camera. Non si è discusso dunque degli ordini del giorno e relativi allegati, compreso quello di Fratelli d’Italia sull’aumento delle spese militari accolto dal governo e definito “inaccettabile” dal Movimento 5 Stelle. Domani il voto finale, che liquiderà il testo e metterà la parola fine, almeno per ora, sulle polemiche di questi giorni tra il partito di maggioranza relativa in Parlamento, cioè il M5S, e il governo Draghi. Almeno per ora, appunto, perché Conte non ci sta e attraverso un post su Facebook oggi pomeriggio ha rincarato la dose, con tanto di grafici. “A febbraio il 15 per cento di famiglie e Pmi non hanno pagato luce e metano: questa è la realtà di vita di tanti piccoli imprenditori, lavoratori, cittadini - ha scritto l’ex presidente del Consiglio - In questo contesto si può mai pensare che l’Italia possa partecipare a questa gara al riarmo e arrivare a spendere il 2 per cento del Pil in spese militari entro il 2024?”. Arrivata la notizia che il testo sarebbe stato presentato senza relatore, la capigruppo convocata a metà pomeriggio ha deciso di porre la fiducia e la situazione si è calmata. A mettere ulteriore acqua sul fuoco le parole del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, il quale ha ribadito che “l’impegno del governo per salire al 2 per cento del Pil entro il 2024 per spese militari risale al 2014” ma che “si può salire con gradualità, da qui al 2028, raggiungendo prima la media degli altri paesi Ue”. Un punto di vista giudicato come “un passo verso di noi” dai pentastellati. Di “ottimo risultato” ha parlato infatti la capogruppo grillina a palazzo Madama, Mariolina Castellone, spiegando che l’accordo “sgombra il campo da dubbi che non avevamo né creato né voluto noi”. Ovviamente sul decreto resta l’opposizione di Fratelli d’Italia, che attraverso la tattica parlamentare è riuscito a mettere in difficoltà il governo e ha provocato l’incidente tra Conte e Draghi. Ma il voto di Fd’I “è un voto contro il governo e il suo atteggiamento ma è anche un voto contro il ricatto dei 5 Stelle”, ha annunciato Luca Ciriani, capogruppo di Fd’I al Senato. Sullo sfondo, rimane la difficoltà di dialogo tra M5S e Pd, con il segretario dem, Enrico Letta, che in un tweet ha espresso tutta la sua irritazione per la tensione delle scorse ore. “L’Italia lascerebbe sbigottito il mondo intero se si aprisse ora una crisi di governo, che sarebbe dannosa per tutti noi e sarebbe tremendamente negativa per il processo di pace e per chi soffre per via della guerra - ha scritto sui social - Noi lavoriamo con impegno per evitarla”. L’impressione tra molti parlamentari del Pd è che Conte si stia schiacciando su una posizione sempre più vicina a quella di Alessandro Di Battista, cioè stia trasformando il Movimento 5 Stelle sempre più su un partito “di lotta” più che “di governo”. Con relativo aumento dell’instabilità dell’esecutivo ma al tempo stesso consolidando la propria posizione politica nei confronti di quello zoccolo duro di militanti che non hanno mai digerito l’okay al governo Draghi. E che ora, sulla questione armi all’Ucraina e aumento delle spese militari, si stanno facendo sentire più che mai. Il legame tra aumento delle spese militari e aumento della sicurezza è tutto da dimostrare di Stefano Feltri Il Domani, 31 marzo 2022 Il governo non cadrà sull’aumento delle spese militari. Il leader dei Cinque stelle Giuseppe Conte ha provato a cavalcare il malessere diffuso contro la guerra per risalire nei sondaggi, il premier Mario Draghi ha drammatizzato la polemica per mandare un messaggio a tutti i partiti della maggioranza: non si fa campagna elettorale sulla legge di Bilancio, che inizia ora il suo percorso con il Documento di economia e finanza. Questa micro-crisi è che ci ha rivelato quanto poco si discuta di un pezzo significativo della spesa pubblica, quella destinata alla difesa e quanto sia facile manipolare i dati, per esempio parlando di spesa in rapporto al Pil. Un governo controlla il numeratore (la spesa) ma non il denominatore (il Pil), e quindi le oscillazioni possono dipendere non da quanti soldi si mettono su carri armati e droni ma da come va la crescita, che tra 2020 e 2021 è stata falcidiata dal Covid. Se guardiamo le spese finali del ministero della Difesa autorizzate dalle leggi di Bilancio in questa legislatura, vediamo che sono salite da 20.968,9 miliardi del 2018 a 21.432,2 nel 2019 a 22.941,8 nel 2020 poi 24.5832,2 nel 2021 e 25.956,1 nel 2022. I due governi Conte hanno quindi varato aumenti di spesa per la difesa del 7 e del 7.2 per cento, la prima legge di Bilancio del governo Draghi, votata anche dai Cinque stelle, ha previsto un ulteriore aumento del 5.6 per cento nel 2022 e riduzioni dell’1.8 e del 2 per cento nei 2023 e 2024. Che titolo ha Conte per proclamarsi pacifista? Ora si parla di un aumento fino a 38 miliardi, ma la polemica di Conte non è sul “se” aumentare la spesa ma “in quanto tempo”. E invece bisognerebbe discutere le premesse di questo ragionamento e le sue conseguenze. Nel 1957 i paesi fondatori della Comunità europea spendevano il 4 per cento del Pil per la difesa, poi sono scesi sotto il 2: certo, si sono appoggiati agli Stati Uniti, certo ma anche nel 1957 la Guerra fredda c’era già da oltre un decennio. Il punto è che il progetto europeo voleva costruire un ordine internazionale fondato sulle istituzioni, non sulla deterrenza, e ha funzionato. Lo sanno anche quegli europeisti che ora cavalcano il riarmo nella convinzione che Vladimir Putin abbia offerto l’occasione di compattare l’Ue su difesa e politica estera così come il quasi-default della Greca nel 2009 ha spinto all’unione bancaria e la pandemia all’emissione di debito comune nel 2021. In questo il cinismo degli europeisti non è diverso da quello delle lobby della difesa che vogliono usare Putin e l’Ucraina per accelerare commesse miliardarie (fino a un mese fa le priorità erano salute e transizione ecologica). Vogliamo tutti più sicurezza, se qualcuno pensa che questa derivi da una maggiore spesa militare deve dimostrarlo, non metterlo in premessa. Non servono altri missili ma serve l’esercito europeo di Luigi Manconi La Stampa, 31 marzo 2022 Ma siamo sicuri, proprio proprio sicuri, che l’ordine del giorno approvato dalla Camera dei Deputati sul bilancio della difesa costituisca uno strumento utile a prevenire la guerra e affermare la pace? Quell’atto parlamentare, votato a larghissima maggioranza, a seguito di un impegno assunto già nel 2014 da tutti i paesi aderenti alla Nato, prevede un incremento fino al 2% del Pil per le spese militari. Ed è stato discusso in piena atmosfera bellica, inducendo molti a pensare che l’aumento dei costi corrisponda, di per sé, a una migliore difesa e, in ultima istanza, a una strategia efficace contro eventi come l’invasione russa dell’Ucraina. Ritengo che non sia affatto così e, se fossi stato parlamentare, avrei votato contro, come ho sempre fatto. E non per vocazione irenista, bensì per una ragione che, proprio a partire dalla tragica lezione ucraina, rafforza la mia profonda convinzione europeista. In altre parole, penso che l’aumento degli investimenti nei sistemi d’arma dei singoli stati europei abbia un effetto immediato. Ovvero quello di demotivare e, comunque, rallentare il processo di creazione di una difesa comune continentale. Tutto questo proprio mentre viene approvato, dal Consiglio europeo, la cosiddetta bussola strategica. Ossia un organismo comune che aspira a coprire progressivamente tutti gli aspetti della politica di sicurezza e difesa della Ue, lungo quattro assi: dispiegamento rapido di un corpo comprendente fino a 5mila soldati; investimenti per incrementare la capacità militare di quella forza armata; sviluppo della cooperazione con partner come Nazioni Unite e Nato; collaborazione tra i diversi servizi di intelligence. Si tratta di un primo tentativo, ancora malfermo e gracile, compromesso dalla evidente scarsità di mezzi, risorse e uomini ma che va, tuttavia, nella giusta direzione. Quindi, un passo opportuno, purtroppo immediatamente contraddetto, da atti dei parlamenti dei singoli Stati. L’ordine del giorno della Camera dei Deputati prevede, per l’Italia, un incremento stimabile in circa 13 miliardi, mentre il governo tedesco ha annunciato la costituzione di un fondo di 100 miliardi. Ci si potrà sgolare quanto si vuole nell’affermare che la scelta di incrementare i bilanci nazionali della difesa non è necessariamente alternativa a quella di promuovere la bussola strategica per l’intera Europa, ma nei fatti le cose vanno diversamente. Infatti, come scrive Raul Caruso, in un articolo assai documentato su lavoce.info, “nel 2020 gli stati membri hanno speso solo 4,1 miliardi di euro su progetti collaborativi”. E “il dato è in diminuzione del 13 per cento rispetto al 2019”. In particolare “dal 2016 la quota di spesa allocata in progetti collaborativi europei è in continuo calo”. Dunque, nonostante tutti gli impegni dichiarati per una crescente integrazione nelle politiche di difesa dei paesi membri, gli investimenti vanno in tutt’altra direzione: la maggior parte delle spese militari rimane gestita su base nazionale, da comandi nazionali e con strategie nazionali e l’industria europea continua a essere connotata da grave inefficienza e costante duplicazione di programmi e relativi costi. Un esempio solo: attualmente sono in corso ben quattro progetti di realizzazione di aerei da combattimento: e ciascuno di essi vede coinvolti, separatamente, tre o quattro paesi europei. L’Italia - come stupirsene? - va oltre e partecipa a due di questi progetti. Di conseguenza, c’è da credere che qualunque passo nella direzione di una crescita del bilancio militare nazionale porterà inevitabilmente a ostacolare la costituzione di una difesa europea. Perciò sono convinto che oggi si debbano indirizzare tutte le risorse economiche e politiche al fine di promuovere un tale obiettivo. E che solo questo potrà contribuire a rafforzare le strategie di pace e a respingere le tentazioni belliche. Certo, questo richiede, la progressiva formazione di una condivisa sovranità europea e di una condivisa politica estera. E, di conseguenza, di un governo politico dell’Unione capace di trasformarsi in una vera e propria Federazione: in luogo della macilenta e disarticolata confederazione attuale. E può essere l’esplosione di un conflitto armato nel cuore dell’Europa a funzionare da incentivo e acceleratore, proprio perché impone decisioni rapide e scelte ineludibili. D’altra parte, la storia insegna che la formazione di tutti gli organismi politici dotati di un territorio, a partire dagli Stati, avviene grazie all’imporsi di due esigenze: quella di una moneta comune, capace di integrare i mercati e di favorire i movimenti di capitali, merci e persone; e quella di una difesa comune, in grado di garantire la sicurezza e l’incolumità dei cittadini contro le aggressioni provenienti dall’esterno. Tutte le formazioni politiche moderne si sono sviluppate attraverso questi passaggi essenziali. Oggi, l’Unione Europea, messa a nudo dalla guerra, si rivela spaventosamente arretrata: e se non saprà cogliere una simile tragica opportunità, non sarà destinata a rimanere semplicemente quel corpo rattrappito e impotente che è: ma precipiterà verso un ulteriore collasso. Tribunali internazionali, uno strumento importante contro i crimini di guerra di Laura Pertici La Repubblica, 31 marzo 2022 Mentre continua la guerra in Ucraina e gli spiragli di pace restano angusti, si legge che gli investigatori della Corte Penale Internazionale dell’Aja già starebbero raccogliendo testimonianze e prove dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità commessi in quel territorio. La magistrata Carla Del Ponte, ex procuratrice del Tribunale Internazionale per l’ex-Jugoslavia, intervistata da Liana Milella su Repubblica il 13 marzo scorso, afferma che “le prove permetteranno non solo di stabilire quali e quanti, di crimini, ne sono stati commessi, ma anche di identificare gli autori”. Ancora: “l’inchiesta è partita pochi giorni dopo i primi crimini, perché sin dall’inizio sono stati intenzionalmente uccisi dei civili. Il reato di aggressione è incluso nello statuto della Corte Penale Internazionale dell’Aja”. E sono reati questi “per i quali non c’è prescrizione”. Ma cos’è la Corte Penale Internazionale (CPI)? Nel 1998, con l’adozione dello Statuto di Roma, nasce la Corte con sede nei Paesi Bassi. La CPI si occupa di crimini internazionali e ha giurisdizione sui territori di tutti gli Stati che abbiano ratificato l’intesa o che ne abbiano esplicitamente accettato la giurisdizione. Non hanno sottoscritto la Convenzione di Roma gli Stati Uniti né la Russia né la Cina (Israele ha firmato, ma non ha ratificato). Nemmeno l’Ucraina ha ratificato lo Statuto di Roma, ma ha espressamente accettato la giurisdizione della CPI già dal 2014, dopo la prima invasione Russa. I crimini che la CPI è chiamata ad accertare sono: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra, crimini di aggressione. Per “crimine di aggressione” si intende la “pianificazione, la preparazione, l’inizio o l’esecuzione, da parte di una persona in grado di esercitare effettivamente il controllo o di dirigere l’azione politica o militare di uno Stato, di un atto di aggressione che per carattere, gravità e portata costituisce una manifesta violazione della Carta delle Nazioni Unite del 26 giugno 1945”. Come si vede, tutte le condizioni richieste perché sia esercitabile la giurisdizione della Corte sono presenti nella situazione determinatasi a seguito dell’attacco militare della Russia contro l’Ucraina. Ma è possibile prevedere, realisticamente, che Vladimir Putin, proprio lui, sia chiamato a rispondere dei propri crimini davanti alla Corte Penale Internazionale? Non si può nascondere il fatto che, evidentemente, si tratta di una ipotesi di assai ardua realizzazione, anche perché la CPI non contempla la possibilità di processi nei confronti di imputati contumaci. E, tuttavia, oltre al significato simbolico - francamente enorme - che avrebbe la messa in stato di accusa del presidente russo, la giustizia internazionale, tuttora assai gracile, qualche risultato lo ha pur raggiunto, anche a seguito dell’istituzione di alcuni tribunali ad hoc da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. In particolare, il Tribunale Internazionale per l’ex Iugoslavia (ICTY), creato nel 1993, per giudicare i crimini commessi sul territorio dell’ex-Jugoslavia, è stato il primo a emettere un mandato d’arresto per un Capo di Stato in carica, Slobodan Miloševi?. E, con ciò, ha ha affermato il principio che non c’è immunità per crimini di diritto internazionale. Oltre a Miloševic, tra i condannati più importanti vanno ricordati Radovan Karadži? e Ratko Mladic. Il Tribunale Internazionale per il Rwanda (ICTR), anche esso stato istituto dal Consiglio di Sicurezza nel 1995, ha svolto più di cinquanta processi, compreso quello a carico di un primo ministro e di alcuni ministri, prefetti, sindaci e altri leader, responsabili del genocidio contro i Tutsi. Una menzione particolare merita la Corte Speciale per il Sierra Leone (SCSL), che è il Tribunale Internazionale che ha avuto l’impatto più importante sulla transizione democratica e pacifica del paese. Gli effetti di deterrenza, prodotti da questi tribunali internazionali - e da quelli cosiddetti “ibridi”, istituiti per Cambogia, Libano e Kosovo - sono tuttora oggetto di discussione: non sono stati in grado, di per sé, di impedire la strage di Srebrenica nel luglio del 1995, né tantomeno di fermare le atrocità commesse contro le popolazioni Hutu fuoriuscite dal Rwanda. Ma il loro indubbio merito - sostiene Niccolò Figà-Talamanca, segretario di Non c’è pace senza giustizia - è stato quello di affermare un principio fondamentale: chi cerchi di conquistare o di conservare un sistema di potere attraverso crimini e massacri, sappia che potrebbe doverne rendere conto. Inoltre, ed è questo forse il risultato più importante, hanno dimostrato che la giustizia penale internazionale, fino ad allora considerata solo a livello teorico, può avere un’attuazione pratica, aprendo la strada per la creazione e il buon funzionamento della Corte Penale Internazionale. Con questa guerra viene uccisa la verità (e l’ipotesi di pace) di Peter Gomez Il Fatto Quotidiano, 31 marzo 2022 Mosca, 22 febbraio 2017, in una stanza del ministero della Difesa prende la parola il generale Yuri Balyevsky, ex capo di Stato maggiore. “Dobbiamo smettere di giustificarci”, afferma, ripreso dall’agenzia di Stato Novosti. È in atto “una lotta per il controllo della mente e della coscienza di massa. La vittoria nella lotta dell’informazione, nel mondo attuale, acquisisce più significato di una vittoria militare”. Il ministro della Difesa, Sergey Shoigu, è sulla stessa lunghezza d’onda: “La propaganda deve essere intelligente, competente ed efficace”. Segue una riunione in cui si discutono i metodi da seguire: post sui social in diverse lingue, siti Internet, articoli su Sputnik, servizi su Russia Today e molto altro. In questi giorni di guerra vera ho ripensato spesso a quell’incontro moscovita. E mi sono chiesto se sapere da anni come Vladimir Putin si sia scientificamente mosso per inquinare i pozzi dell’informazione, spingendo un numero sempre maggiore di cittadini a considerare il suo modello sociale un’alternativa credibile al nostro, non ci fa sbagliare qualcosa nel modo in cui noi, come giornalisti, seguiamo l’aggressione russa all’Ucraina. Sul campo i media occidentali hanno schierato centinaia di coraggiosi inviati. Nella maggioranza dei casi si tratta di colleghi che guardano bombardamenti, massacri, battaglie dalle retrovie del fronte ucraino. I loro articoli e reportage ci restituiscono fedelmente quello che accade. Ma, giocoforza, ci fanno vedere solo un pezzo della guerra. Quello che succede oltre le linee, e tra le linee, ci è invece quasi ignoto. Dall’altra parte del fronte ci sono invece i soldati russi e giornalisti di Russia Today. Ma quella tv, proprio perché fa parte della dichiarata macchina putiniana della propaganda, non arriva più nelle nostre case. L’Unione europea, con una decisione discutibile in democrazia, l’ha bandita dai bouquet satellitari. E così chi segue per lavoro la guerra vede fotografie e video pubblicati dai canali Telegram russi, ucraini, ceceni. Alcuni contengono presunte sconvolgenti atrocità commesse da chi si difende: una donna stuprata con una svastica scritta col sangue sul corpo; un soldato ucraino che chiama col telefonino (appena trovato in una tasca di un russo) la fidanzata del morto e gli spiega ridendo come lo ha scannato; dieci prigionieri delle forze di Mosca gambizzati dopo la cattura con colpi sparati al ginocchio, in modo che restino zoppi per sempre; un combattente vivo a terra a cui viene ficcato nell’occhio un pugnale. Stabilire se siano veri o falsi è difficile. Spesso impossibile. E così, salvo nel caso in cui sugli accadimenti sia stata aperta un’indagine (i prigionieri gambizzati), di questi presunti orrori i media ufficiali occidentali non mostrano nulla. Il pericolo che i video e le foto facciano parte “della guerra per il controllo delle menti” è troppo alto. Ma, se siamo onesti, dobbiamo ammettere, come ci ha magistralmente raccontato Domenico Quirico su La Stampa, che al di là del dibattito sul singolo video, la guerra, anzi le guerre, sono questo. Atrocità indicibili da entrambe le parti. Che si moltiplicano se, come accade in Ucraina, sul campo di battaglia ci sono mercenari, milizie, squadroni nazisti e combattenti stranieri. Così, in fondo, il dubbio che quelle immagini siano fake e che quindi non vadano giustamente pubblicate, fa comodo a molti. Perché non poter raccontare a generazioni di cittadini che non l’hanno mai vissuta, cosa sia davvero una guerra, rende più facile per chi decide continuare a ripetere: armiamoci e partite. Russia. Il vicedirettore della Novaja Gazeta: “Putin non potrà imbavagliare la libertà” di Francesca Sforza La Stampa, 31 marzo 2022 Kyrill Martynov parla oggi all’Europarlamento: “Il Cremlino ha alzato troppo la posta, una crisi interna è possibile”. “È improbabile che i cittadini russi smettano di sognare”. Aveva chiuso così, tre giorni fa, il suo ultimo articolo, contro il reinserimento della pena di morte in Russia. Oggi Kyrill Martynov parlerà al Parlamento Europeo, e dopo non ha intenzione di tornare nel suo Paese, almeno per il momento. Il giornale di cui è vicedirettore e opinionista politico, la Novaja Gazeta, è stato costretto a sospendere le pubblicazioni a causa delle pressioni ricevute da Roskomnadzor, l’agenzia federale che vigila sulla comunicazione. Il direttore e Premio Nobel per la Pace Dmitry Muratov si trova in questi giorni in ospedale perché ha avuto problemi di cuore. “Non lasciateci soli”, ci dice Martynov in questa intervista. Martynov, cosa significa essere giornalisti oggi in Russia? “Posso dire quello che ha significato fino al giorno in cui non siamo stati costretti a interrompere il nostro lavoro. Fino al 28 marzo, i giornalisti della Novaya Gazeta a Mosca hanno lavorato come al solito, senza giorni di ferie e di riposo. Il nostro sito è visitato ogni giorno da oltre 2 milioni di persone, e la nostra è stata una missione chiara fin dall’inizio: “dobbiamo fornire ai russi informazioni veritiere sulla guerra allo scopo di fermarla”. A causa di una barbara censura militare, non abbiamo potuto scrivere delle effettive operazioni di combattimento, poiché le autorità russe, sotto la minaccia di pene detentive, ci hanno chiesto di fare riferimento solo ai dati ufficiali del Ministero della Difesa, che secondo noi sono inaffidabili. Ma abbiamo scritto della catastrofe umanitaria in Ucraina, delle città distrutte, del richiamo forzato alle armi nella repubblica separatista di Lugansk, del crollo dell’economia e della società russa”. Come facevate? “Grazie all’impegno di tutti. In particolare quello di Elena Kostyuchenko, che lavora in Ucraina, e che per noi scriveva ogni giorno la cronaca di guerra. È stata la protagonista del nostro giornale. Ma bisogna dire grazie anche a tanti giovani giornalisti che sono venuti in redazione proprio di recente, l’anno scorso, e che stanno diventando professionisti brillanti, pronti a lavorare 24 ore su 24. Essere giornalisti a Mosca è dura. È la capitale del paese aggressore, si vive tra cordoni di polizia e simboli militari ufficiali, ci sono Z dovunque”. Avete sentito solidarietà da parte della gente? “Davanti alla redazione si sono svolte diverse manifestazioni di “attivisti” statali che ci hanno accusato di “tradimento”. Ognuno di noi sa che potrebbe essere perseguito legalmente per il suo lavoro. Di fatto dopo il 28 marzo è diventato pericoloso pubblicare testi in Russia, per questo abbiamo interrotto la pubblicazione. Allo stesso tempo, so che c’è un movimento clandestino contro la guerra in Russia, molti russi odiano questa guerra e chi l’ha scatenata”. Cosa pensi della copertura giornalistica che l’Occidente sta dando sulla guerra? “I giornalisti muoiono da eroi in questa guerra e vengono feriti. Credo che il giornalismo internazionale dia un contributo fondamentale per far comprendere all’Europa e al mondo la portata della catastrofe messa in moto dai russi. Il valore del vostro lavoro ci è chiaro, e siamo grati ai colleghi europei per il loro sostegno”. Come avete raccontato la guerra, finché avete potuto? “Descrivendo la situazione come una catastrofe umana, concentrandoci su ciò che la gente comune in Ucraina vede e dice. Gli articoli di Elena Kostyuchenko sono stati una finestra per tutti i nostri lettori”. Evitando cioè di parlare di politica? “Siamo stati sin dall’inizio categoricamente contrari a questa guerra e non la accetteremo mai”. I russi stanno cambiando idea sulla guerra? “L’opinione pubblica in Russia oscilla. C’è una parte relativamente piccola di russi che sostiene attivamente la guerra e agisce in simbiosi con la propaganda di stato. L’enorme esercito di funzionari russi sa di essere legato al regime da una specie di patto di sangue, non ha un posto dove ritirarsi e aspetta soltanto di arrivare fino alla fine. Proprio come Putin, del resto. Ma c’è un numero altrettanto grande di miei connazionali che è attivamente contro la guerra: ora rischiano la reclusione ed è solo per questo che non vediamo proteste di massa contro la guerra. Ma le persone continuano a lottare, a convincere i propri cari, a stampare volantini contro la guerra, a cercare di mantenere lucida la mente nella situazione di un’insopportabile catastrofe morale che stiamo attraversando”. Conformismo o convinzione? “La maggior parte delle persone sono conformiste, come sempre, ed esitano a lottare per imporre la loro opinione. Ma il vero problema, per i russi, è che ammettere la verità sulla guerra significa ammettere la catastrofe, ammettere che il nostro Paese ha commesso un crimine, che siamo “cattive persone”. I russi tendono a rimuovere questa verità, non vogliono credere ai fatti. Affinché la guerra finisca, i russi devono abbandonare la loro “coscienza imperiale”, l’idea della Russia come un paese capace di “dividere il mondo” sul modello dell’eredità della seconda guerra mondiale, che ci vide fra i vincitori. Questo sarà il test nazionale più difficile, e in effetti l’esistenza della Russia è minacciata, io non sono sicuro che la Russia sarà in grado di sopravvivere alle conseguenze di questa guerra”. Cosa pensi delle ipotesi di un cambio di regime in Russia? “I russi credono ancora che semplicemente non ci sia alternativa a Putin. Tuttavia, non sono sicuro che il suo potere sia forte. Il Cremlino ha alzato troppo la posta in gioco, una crisi politica interna è possibile e c’è un evidente conflitto all’interno delle élite, come dimostra il ruolo di Abramovich come negoziatore - anche se i contorni della vicenda sono poco chiari - e la scomparsa di militari russi di alto rango dalla sfera pubblica. Ma bisogna capire quanto improbabile sia l’entrata in scena di un leader politico russo più liberale di Putin. Penso che la minaccia più seria sia l’ascesa politica di Ramzan Kadyrov, unica persona pronta a scatenare una violenza diretta e illimitata a Mosca”. Qual è il messaggio che vorresti lanciare all’Europa? “Sull’importanza di potersi esprimere liberamente. Ci vorrebbe una rivolta dei giornalisti in Europa e nel mondo: vediamo il vostro sostegno, vogliamo che Novaya Gazeta e altri media russi indipendenti continuino ad esistere sulle vostre pagine”. Iran. La polizia usa spray urticante contro le donne per tenerle fuori dallo stadio di Giulia Zonca La Stampa, 31 marzo 2022 Quelle che non protestano occupano i settori ghetto senza opporsi, sorridono per la foto ricordo e poi non si fanno più sentire. Fifa furiosa con la Federazione di Teheran: “Indignati”. Si valuta anche l’esclusione dai Mondiali. Quando le ragazze stufe di essere respinte ai cancelli provano a scavalcare, i militari staccano dalla cintura lo spray al pepe e lo spruzzano dritto negli occhi di chi sta in bilico sull’inferriata. Siamo allo stadio di Mashhad, Nord-est dell’Iran, quasi al confine con il Turkmenistan e stiamo davanti a uno degli stadi dove le donne sono bandite dal 1981. Si gioca Iran-Libano, una delle tante gare di qualificazioni ai Mondiali in cui i padroni di casa credono di prendere in giro l’opinione internazionale: dall’inizio dell’anno sostengono che ormai l’accesso sia garantito a tutti e tutte, invece solo una quota minima è riservata alle donne e unicamente su inviti. Le scelgono: quelle che non protestano, occupano i settori ghetto senza opporsi, sorridono per la foto ricordo e poi non si fanno più sentire. Le altre fuori. Stavolta non sono proprio entrate, nemmeno la quota di rappresentanza: si sono trovate fuori in 2000 e sono state accecate, spintonate e accusate di tafferugli. L’Iran era già qualificato ai Mondiali e con il successo dell’altra sera è in testa al girone, conferma piena che ora sta in bilico perché il disprezzo del loro governo per le regole a cui non intendono aderire si è fatto troppo evidente. Circolano diversi video, presi da più angolazione. Si vede la folla che preme e le signore con il biglietto in mano respinte ai cancelli. Hanno messo dei tagliandi in vendita per evitare le schermate del sito federale comparse via social nell’ultima occasione. Quei fermi immagine con i posti bloccati hanno portato all’ennesima reprimenda Fifa e il calcio iraniano ha pensato di togliersi anche il disturbo della ramanzina. Ora c’è caso che affrontino altri giudizi o almeno così dovrebbe essere. La squalifica è la risposta più dura, sarebbe l’unica adeguata dopo tutto il tempo passato a promettere che grazie a un cambiamento per fasi, senza strappi, si sarebbe arrivati a un pubblico misto. Ci sono ben due articoli dello statuto Fifa che obbligano ogni federazione a evitare qualsiasi tipo di discriminazione e quando l’Iran ha chiesto tempo per mettersi in pari, il presidente Infantino ha garantito in prima persona, ha parlato di “passi necessari”, ma in Iran ne ha fatto uno avanti e dieci indietro, ogni partita una farsa. E se l’è sempre cavata allo stesso modo: le autorità sportive chiedono scusa e dicono che gli ordini dell’ultimo momento dipendono dai governanti locali. Per un po’ il Covid ha sigillato il problema, stadi chiusi, ma nel 2022 si è tornati alle bugie sbandierate con sempre più arroganza. Con la convinzione dell’impunità. Per giocare Iran-Libano hanno scelto la città meta di pellegrinaggio per gli sciiti, per essere proprio sicuri di poter dire che sono le maestranze del luogo a non aver capito le direttive calcistiche. Non le ha capite nessuno. Fino a qui neanche la Fifa purtroppo, se vogliono smarcarsi da questa schifezza lo devono fare adesso. Afghanistan. Diritti umani, un quadro desolante di Giuliano Battiston Il Manifesto, 31 marzo 2022 Intervista a Shaharzad Akbar, già a capo dell’Afghan Independent Human Rights Commission: “Omicidi extragiudiziali, detenzioni illegali, torture contro detenuti”. Quando abbiamo incontrato Shaharzad Akbar la prima volta era la fine del giugno 2021, a Kabul. I Talebani conquistavano distretti su distretti, i nostri interlocutori nella capitale afghana si dicevano più preoccupati del solito, la data per il ritiro dei soldati statunitensi dal Paese si avvicinava. L’ufficio dell’Afghanistan Independent Human Rights Commission (Aihrc), l’organismo presieduto da Shaharzad Akbar, non era ancora finito nelle mani dei Talebani, che avrebbero conquistato Kabul il 15 agosto. Protetto da alte mura, nell’ufficio lungo la Darulaman Road ricorreva un anno dall’uccisione di un membro dello staff. Omicidio non rivendicato. Parte di una serie di attentati dagli autori ignoti che per mesi, in particolare dopo l’accordo di Doha del febbraio 2020 tra gli Usa e i Talebani, aveva colpito voci critiche, esponenti della società civile, giornalisti. E poi ordigni su minibus, triplici attentati alle uscite delle scuole, sempre dalla mano ignota. Shaharzad Akbar era preoccupata: “nessun processo di pace, c’è solo più violenza e qualsiasi scenario plausibile produrrà maggiori violazioni dei diritti umani”, ci diceva. Chiedeva tenacemente l’attenzione della comunità internazionale, l’invio di una missione dell’Onu sul campo, per monitorare la situazione e come deterrente. Poche settimane dopo, lascia il Paese. L’abbiamo incontrata di nuovo a inizio marzo a Milano, nel corso di un’iniziativa promossa dal consigliere regionale di + Europa Michele Usuelli, promotore di un emendamento, approvato dalla Regione Lombardia, con cui vengono stanziati 100.000 euro per le attività dello Special Rapporteur sui diritti umani in Afghanistan voluto dal Consiglio dei diritti umani dell’Onu lo scorso ottobre. A Milano è ripresa la nostra conversazione con Shaharzad Akbar. Lo scorso giugno, nel suo ufficio, criticava la cultura dell’impunità, l’inerzia della comunità internazionale, ferma alle condanne retoriche della violenza contro i civili. Poche settimane dopo, i Talebani conquistano Kabul. Cosa le è successo in quei giorni d’agosto? Sabato 14 agosto 2021 c’è stato un incontro del gruppo dirigente dell’Afghanistan Independent Human Rights Commission nel mio ufficio. Non sapevamo che sarebbe stato il nostro ultimo incontro, ma in quell’occasione suggerii a chiunque avesse già un visto di andare via, perché poi sarebbe potuto diventare impossibile. Io ho lasciato il Paese con un volo commerciale la mattina del giorno dopo. Era il 15 agosto. Il volo di ritorno era previsto per il 22 agosto ma, da allora, con la mia famiglia siamo fuori dal Paese. Molti colleghi sono rimasti, però. L’idea prevalente era che ci fosse tempo almeno fino alla fine di settembre. Invece, è tutto crollato il 15 agosto. Nel rapporto che il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha presentato a febbraio al Consiglio di sicurezza dell’Onu si parla di prove credibili di uccisioni, sparizioni forzate, abusi, difensori dei diritti umani sotto attacco, forte riduzione della libertà delle donne. Quale è lo stato dei diritti nel Paese? Il quadro è devastante. C’è stata una crescente riduzione dello spazio civico. Sono stati registrati casi, che vanno opportunamente verificati, di omicidi extragiudiziali, detenzioni illegali e arbitrarie, torture contro detenuti, omicidi selettivi contro ex membri del vecchio governo e degli apparati di sicurezza. Più recentemente abbiamo assistito alla detenzione illegale e alla sparizione di giornalisti, donne che protestavano, ricercatori universitari. Sembra che i Talebani abbiano orientato diversamente il tiro: dai funzionari del vecchio regime ai civili che hanno posizioni critiche. Per tutto il mese di febbraio ci siamo occupate delle ragazze che avevano protestato e che sono state detenute e intimidite. I Talebani prima hanno negato, poi hanno cercato di costruire una narrazione alternativa, sostenendo che le loro non fossero proteste autentiche. Infine, dietro pressione internazionale, le hanno liberate. Almeno in un caso, hanno requisito i passaporti di un’intera famiglia. Hanno poi costretto chi era coinvolta a promettere che non avrebbe parlato con i media e che non avrebbe protestato di nuovo. Lei ha sostenuto che “non bisogna normalizzare l’apartheid di genere dei Talebani”. Sul “che fare” però ci si divide: c’è chi ritiene che interloquire con i Talebani porti a istituzionalizzarne il governo e la violenza e c’è chi invece, come la stessa Deborah Lyons, a capo della Missione dell’Onu a Kabul (Unama), ritiene che sia “indispensabile lavorare con le autorità di fatto per aiutare la popolazione”. Qual è la sua posizione? Una discussione simile c’è stata a proposito del ritiro delle forze americane. Ci si è divisi tra chi diceva che andavano ritirate e chi no. Ma tra i due poli c’era un ampio spettro di opzioni e nessuno ha pensato a come andassero ritirate. La stessa “famiglia” dei diritti umani afghani è divisa. Io ritengo che, sfortunatamente, per quanto sia difficile farlo, una forma di interlocuzione sia necessaria. Non penso che sia possibile fare finta che non siano dove sono. Credo anzi che farlo renda le cose più difficili per la popolazione, che sia dannoso. Ma non credo che dialogo significhi riconoscimento. C’è un’ampia gamma di strumenti a disposizione della comunità internazionale. La cosa più importante è il come dialogare. È importante per esempio che Unama sia diretta da una donna, che le questioni dei diritti umani siano una priorità, che vengano poste domande dirette e scomode. I Talebani negano tutto. Occorre metterli davanti alla contraddizione tra parole e azioni. L’interlocuzione ci deve essere, ma deve essere critica. Non bisogna normalizzare riconoscendo il governo dei Talebani e non bisogna normalizzare dicendo che la negazione dei diritti delle donne sia parte della cultura afghana o dell’Islam. Non è così. Persa la guerra, la comunità internazionale usa l’ultima leva a disposizione, quella finanziaria. L’amministrazione Biden ha annunciato che i circa 7 miliardi di dollari della Banca centrale afghana “congelati” negli Usa verranno usati metà per l’aiuto umanitario nel Paese, metà per i famigliari delle vittime dell’11 settembre. Per qualcuno è una vendetta, una forma non dichiarata di guerra economica. Lei cosa ne pensa? Nell’economia afghana va iniettata con urgenza liquidità, è vero. Ma gli asset della Banca centrale non vanno resi disponibili in modo incondizionato alle autorità di fatto. Dobbiamo finire di pensare che i Talebani siano dei bambini. Vanno messi di fronte alle conseguenze delle loro scelte, vanno trattati come interlocutori da cui si esigono risposte. La prima domanda è: cosa significa essere l’unico Paese islamico al mondo che non consente alle bambine di andare a scuola? Perché una donna non può accedere a un servizio sanitario senza che sia accompagnata da un “custode” di sesso maschile? Oltre alla restituzione incondizionata di quei soldi, ci sono dunque molte altre soluzioni, parziali, vincolate, condizionate, che vanno esplorate. Inoltre, non sono d’accordo con il presidente Biden quando pensa di destinare quei soldi a scopi umanitari. Per fortuna il messaggio è stato in parte compreso: il rappresentante speciale degli Usa, Thomas West, ha dichiarato che non verranno tutti usati per scopi umanitari. È successo grazie alla pressione di tutti quegli afghani che non sostengono i Talebani e che, pur essendo solidali con i famigliari delle vittime dell’11 settembre, ritengono che gli asset della Banca centrale non appartengano né al presidente Biden né ai Talebani, ma alla popolazione afghana. A giugno ci diceva che “uno dei più grandi fallimenti della comunità internazionale ha a che fare con diritti e giustizia” e che in pochi mesi tutti si sarebbero dimenticati degli abusi e dei crimini commessi dalle truppe straniere. È ancora possibile ottenere giustizia? Sono ancora convinta di quel che sostenevo allora. E sono sicura che ora ottenere giustizia per i crimini passati sia più complicato. Sono molto arrabbiata per la decisione della Corte penale internazionale di indagare soltanto sui crimini potenziali dei Talebani e dello Stato islamico in Afghanistan, escludendo invece i crimini potenziali delle forze armate americane. Si tratta di una decisione ingiusta per le vittime, anche perché per molte si trattava di un’ultima opportunità per vedere riconosciute le proprie richieste. Ma la battaglia non è ancora finita. Anche dopo il 15 agosto abbiamo continuato, con le organizzazioni che seguono i diversi casi, a raccogliere materiali. Stiamo pensando a come proseguire, a come esercitare pressione affinché anche le forze armate straniere diano conto delle loro azioni.