Carceri, il post pandemia è tutto da scrivere. Palma: “Sindacalismo distorto” di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 marzo 2022 “Non è possibile immaginare che il 31 dicembre, al termine della proroga dei provvedimenti straordinari adottati per l’emergenza Covid, circa 700 persone che da due anni sono fuori dal carcere per licenze straordinarie svolte senza incorrere in alcuna infrazione, né penale né disciplinare, tornino a dormire in carcere come prevede il loro status di semiliberi”. Stefano Anastasia, portavoce dei Garanti territoriali dei detenuti, mette la questione sul tavolo delle priorità di quanti ieri si sono riuniti a Roma per discutere di “Dignità e reinserimento sociale, quali carceri dopo l’emergenza?”. Anastasia rivolgendosi al Parlamento ha chiesto un “atto di giustizia” affinché venga valorizzato un percorso di reinserimento sociale avviato causa forza maggiore ma finito col diventare un esempio virtuoso di pena non meramente afflittiva, e punta il dito contro l’attuale legge sulle droghe responsabile di gran parte del sovraffollamento. Un approccio questo largamente condiviso dalla Conferenza dei Garanti delle persone private della libertà (che conta 72 Garanti, di cui 16 regionali e di province autonome, 6 provinciali e di aree metropolitane e 50 comunali) e dalla Conferenza nazionale del volontariato della Giustizia (presieduta da Ornella Favero) che hanno organizzato l’evento a Palazzo Valentini per fare il bilancio di due anni di pandemia e immaginare una fase di transizione che porti le carceri oltre l’emergenza, tenendo conto delle proposte per la riforma del sistema penitenziario messe a punto dalla commissione ministeriale presieduta dal costituzionalista Marco Ruotolo. La quarta ondata del Covid non si è ancora conclusa neppure per detenuti e agenti (su 55 mila reclusi e 37 mila poliziotti circa, ieri c’erano “1.329 positivi tra i detenuti e 1.444 tra il personale negli istituti”); i colloqui non sono ancora ripresi in presenza come prima della pandemia e molti reclusi sono ancora negli istituti dove sono stati spostati per diminuire il sovraffollamento. Problemi che si sommano a condizioni strutturali quasi disastrose. Eppure, fa notare il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, “rispetto ai numeri, alle regole, alla magistratura di sorveglianza, agli operatori e alla nuova dirigenza, vedo una tendenza del Dap a presentarsi come se tutto fosse funzionante e richiedesse solo piccole oliature. Invece c’è bisogno di un cambiamento amministrativo prima ancora che ideologico su alcuni punti”. E mentre, fuori dal convegno, Matteo Salvini coglie l’occasione per amplificare le pretese di certi sindacati di polizia chiedendo di fornire pistole taser agli agenti penitenziari e di spostare il Corpo alle dipendenze del Viminale, Mauro Palma parla insolitamente di un “sindacalismo distorto” nel sistema penitenziario. Un “sindacalismo difensivo - dice evocando le torture sui detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere - che non denuncia mai le violazioni anche gravi che talvolta si consumano nei confronti di coloro che dovrebbero essere tutelati”. “Proprio perché nutro grande stima nei confronti del Corpo di polizia penitenziaria - puntualizza al manifesto - penso che questa distorsione non giovi a un pensiero democratico, e si rischi di accettare un certo modo di interpretare la rappresentanza”. A parlare di “superamento delle contrapposizioni” è la stessa ministra di Giustizia Marta Cartabia che nel suo intervento rivolto anche ai parlamentari e ai magistrati di sorveglianza presenti al convegno sottolinea che “il tema della dignità in carcere va insieme a quello sulla sicurezza”. “La videosorveglianza ad esempio fa bene all’uno e all’altro. Dobbiamo essere concreti e lavorare in sinergia. Il tempo dell’emergenza pandemica - aggiunge - è stato anche un tempo di innovazione e sperimentazione. Il video-colloquio, ad esempio, nelle carceri in cui è stato sperimentato ha portato beneficio ai detenuti ma anche a tutto l’ambiente carcerario. Servono - conclude - interventi di sollievo concreto subito”. Carcere, Cartabia incontra i Garanti: “È il momento della concretezza” di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 30 marzo 2022 “Concretezza, questo è il tempo di operare. Abbiamo studiato, riflettuto, convocato una Commissione e ci possiamo giovare degli esiti di riflessioni ricchissime svolte negli anni passati. Ora è giunto il momento di essere operativi, a partire dalle piccole grandi cose che fanno la vita quotidiana del carcere: le assunzioni del personale, gli interventi sugli edifici - perché anche le mura devono parlare di dignità”. Così in un passaggio del suo intervento, la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, si è espressa durante la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà “Dignità e reinserimento sociale. Quali carceri dopo l’emergenza?”, che si è tenuta nell’aula consiliare della Città metropolitana di Roma Capitale. Ai lavori, introdotti da Stefano Anastasia, portavoce della Conferenza nazionale del volontariato della giustizia, hanno portato il loro saluto, tra gli altri, il Sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, il presidente dell’Unione delle Camere penali, Giandomenico Caiazza. La Guardasigilli ha poi ricordato come in questi due anni di pandemia, il carcere abbia avuto “un carattere ancora più afflittivo per i detenuti e più usurante per la Polizia e per il personale” le aggressioni sono cresciute e il numero dei suicidi è sempre troppo alto. Riferendosi a quanto detto dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in un suo recente appello: “Dignità è un carcere non sovraffollato, è un carcere dove si possa percorrere veramente una strada di reinserimento, perché anche in questo modo che si coltiva la sicurezza della società”, ha ribadito all’aula: “In questo momento di crisi, dobbiamo superare le contrapposizioni, perché non esiste un carcere della dignità e un carcere della sicurezza, non esiste un problema della polizia e uno dei detenuti o dell’amministrazione. Dobbiamo trovare il modo di lavorare in sinergia nella concretezza e nei dati di realtà”. La ministra Cartabia alla Conferenza dei Garanti territoriali - Rivolgendosi ai Garanti convenuti, ne ha rimarcato il ruolo fondamentale: “È importante la conoscenza e l’operatività che portate nella galassia del carcere; vedete e segnalate problemi grazie proprio alla vostra presenza sul territorio, siete innovatori e i vostri sguardi diversi sono fondamentali”. E ha indirizzato loro un invito: “Mettiamoci in rete, parliamoci, troviamo il modo di far confluire tutto quello che ci può permettere sia orizzontalmente sia verso il centro, con l’amministrazione, con la magistratura di sorveglianza, con la Polizia, di avere un incessante scambio di informazioni, esperienze, indicazioni di problemi. Questo è l’unico modo che abbiamo per poter incidere su una realtà che, per me, ogni volta che visito un carcere scopro un mondo pieno di contraddizioni”. Infine la Ministra ha auspicato “un carcere sempre più simile al volto che la Costituzione gli vuole assegnare”. Cartabia: “Il Covid ha esasperato il carcere ma ha mostrato nuove vie” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 marzo 2022 Sul tema del carcere è tempo di passare dalle riflessioni ad azioni concrete, attraverso uno spirito di collaborazione che superi le divergenze: è questo il senso dell’intervento tenuto ieri dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia all’incontro “Dignità e reinserimento sociale. Quali carceri dopo l’emergenza?” organizzato a Roma dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Conferenza nazionale del volontariato della giustizia, con l’adesione del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza e dell’Unione delle Camere penali italiane. In questi due anni di pandemia “il carcere ha avuto un carattere più afflittivo per i detenuti - ha detto Cartabia - ed è stato più logorante anche per la polizia e il personale. In questa fase dobbiamo superare le contrapposizioni”, perché “non esiste un carcere della sicurezza e un carcere della dignità. La videosorveglianza, ad esempio, fa bene all’uno e all’altro. Dobbiamo essere concreti e lavorare in sinergia”. La pandemia è servita anche per innovare e sperimentare - “Il tempo dell’emergenza pandemica - ha proseguito - è stato anche un tempo di innovazione e sperimentazione. Il video- colloquio, ad esempio, nelle carceri in cui è stato sperimentato ha portato sollievo e allentamento della tensione, a beneficio dei detenuti ma anche di tutto l’ambiente”. Ma il profilo a cui tiene di più la ministra è appunto la ‘ concretezza’. L’ex presidente della Corte costituzionale ha infatti sottolineato: “È tempo di operare. Abbiamo studiato, detto tante cose, abbiamo riflettuto, abbiamo convocato una Commissione che ha elaborato delle proposte. Possiamo giovarci degli esiti di riflessioni ricchissime svolte negli anni passati, ma ora è giunto il momento di essere operativi a partire dalle piccole, grandi cose che fanno la vita quotidiana del carcere. Lo abbiamo cercato di fare con Petralia prima, stiamo continuando a farlo con Carlo Renoldi adesso”, ha aggiunto Cartabia che fa riferimento “alle assunzioni del personale, agli interventi sugli edifici, ma soprattutto alle tante proposte che nella commissione Ruotolo sono state articolate a vario livello, alcune realizzabili dall’amministrazione con una circolare, che poi però va recepita a livello territoriale. Ma questo può funzionare con un maggiore coordinamento e maggiore scioltezza tra tutti i settori coinvolti”. La ministra: “servono interventi di sollievo concreto subito” - La ministra ha poi illustrato le varie direttrici di operatività: “Ci sono cose che possono essere fatte subito, addirittura a costo zero, altre che chiedono investimenti. Altre che chiedono qualche piccolo intervento normativo sul regolamento, qualcuna che richiede qualche intervento legislativo ma qui la mia richiesta è: partiamo dal basso perché tanto si può fare a questo livello, poniamoci obiettivi realistici, concreti, immediati servono interventi di sollievo concreto subito”. Ha poi concluso: “Per me è fondamentale metterci insieme per lavorare nella stessa direzione. Quando si discute si hanno idee diverse ed è giusto averle. Sul piano dei principi emergono delle divergenze che sembrano inconciliabili ma invece sul terreno della concretezza più facilmente si arriva a delle proposte comuni”. Tutto questo può essere così tradotto: la Guardasigilli dovrà valutare, si spera quanto prima, le proposte della commissione Ruotolo, fare le sue scelte, la sua sintesi politica. Sarà importante la collaborazione con tutti gli attori in gioco chiamati a congelare le divergenze ideologiche per trovare una sinergia sul piano concreto. I lavori sono stati aperti da Stefano Anastasìa, Portavoce della Conferenza dei Garanti delle persone private della libertà: “È arrivato dunque il momento di mettere in campo tutte le energie e di trasformare in fatti le proposte che possano essere esaminate dal Parlamento in questo scorcio di legislatura e adottate dal ministero per accompagnare le carceri fuori dall’emergenza pandemica e oltre i loro più antichi problemi, autorevolmente indicati dal Presidente Mattarella nel suo discorso di insediamento: “Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza”. E poi la proposta per la liberazione anticipata per Covid: “Tra i mille ristori che la comunità nazionale ha dovuto riconoscere a categorie economiche e gruppi sociali, non è possibile che non si riconosca che la detenzione in pandemia è stata enormemente più dura di quanto non sia normalmente. Questa maggiore sofferenza va riconosciuta con equità dalle istituzioni. Da un anno a questa parte diciamo “un giorno di liberazione anticipata speciale per ogni giorno passato in pandemia”. Liberazione anticipata speciale: le proposte ferme in parlamento - “In Parlamento ci sono proposte per tornare alla liberazione anticipata speciale già sperimentata ai tempi della condanna europea per sovraffollamento. Sarà l’una, sarà l’altra, o una via di mezzo tra le due, ma non si può non riconoscere che circostanze eccezionali hanno costretto decine di migliaia di persone a pagare più del dovuto il loro debito nei confronti della giustizia. E la giustizia, se vuole essere tale, deve essere capace di riconoscerlo”. Non poteva mancare Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale: “Abbiamo ancora una situazione non preoccupante ma che rispetto ai numeri richiede l’attenzione di non potere ancora parlare totalmente di “dopo pandemia”. Sono 1329 le persone positive in carcere, 1.444 il personale, è molto ristretto il numero dei sintomatici. Solo 4 in ospedale”. E quanto all’amministrazione penitenziaria, Palma ha aggiunto: “Già vedo da parte del Dap una tendenza a presentarsi come se tutto fosse funzionante. Invece c’è bisogno di un cambiamento amministrativo prima che ideologico: va ripresa la capacità di avere un sistema informatico, non si è investito in questo settore. Così come vanno rivisti i circuiti, nati per dare un trattamento più indirizzato alle persone. E i magistrati di sorveglianza devono tornare a fare colloqui e a rendersi conto di cosa accade negli istituti”. In collegamento Giandomenico Caiazza, leader dei penalisti italiani: “Ho ascoltato la ministra, comprendo le difficoltà alle quali dobbiamo guardare con chiarezza e onestà. Questo è il Parlamento che ha fatto un falò degli Stati generali dell’esecuzione penale, non solo dei risultati di quello straordinario lavoro ma anche del fatto che intorno a quel lavoro fosse nata una comunità inedita di avvocati, magistrati, giuristi di amministratori e direttori di carcere. Quel falò fu rivendicato come segnale politico del nuovo corso. Il Parlamento è lo stesso, non c’è più la stessa maggioranza di governo, le difficoltà vanno comprese, capisco che la ministra inviti alla concretezza, a individuare quello che si può guadagnare in questo contesto politico”. Presente anche Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino: “Una classe politica seria proporrebbe l’amnistia e l’indulto ma sappiamo con chi abbiamo a che fare. Ma allo stesso tempo sappiamo che esistono come strumenti, previsti dalla Costituzione per governare momenti come questo”. Il carcere dopo il Covid, i Garanti: “Ora ristori anche per i detenuti” di Angela Stella Il Riformista, 30 marzo 2022 “È tempo di operare. Abbiamo studiato, detto tante cose, ma ora è giunto il momento di essere operativi a partire dalle piccole, grandi cose che fanno la vita quotidiana del carcere”: così ieri la Ministra Cartabia all’incontro “Dignità e reinserimento sociale. Quali carceri dopo l’emergenza?” organizzato dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Conferenza nazionale del volontariato della giustizia, con l’adesione del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza e dell’Unione delle Camere penali italiane. Dopo due anni difficilissimi per il carcere in cui alla solita dura pena si è aggiunto il dramma del Covid è davvero arrivato il momento della “concretezza”, come ha ripetuto la professoressa? La Guardasigilli ha parlato di “assunzioni del personale, interventi sugli edifici, ma soprattutto le tante proposte che nella commissione Ruotolo sono state articolate a vario livello”. Però è anche vero che, da quanto appreso, la Ministra ancora deve valutare le proposte della commissione Ruotolo, fare le sue scelte, la sua sintesi politica. E allora quando potremo vedere i primi, veri risultati concreti? Cartabia fa un appello ad uno sforzo collettivo: “Per me è fondamentale metterci insieme per lavorare nella stessa direzione. Quando si discute si hanno idee diverse ed è giusto averle. Sul piano dei principi emergono delle divergenze che sembrano inconciliabili ma invece sul terreno della concretezza più facilmente si arriva a delle proposte comuni”. Ha aperto i lavori Stefano Anastasìa, Portavoce della Conferenza dei Garanti delle persone private della libertà, che ha rilanciato la proposta per la liberazione anticipata per Covid: “Tra i mille ristori che la comunità nazionale ha dovuto riconoscere a categorie economiche e gruppi sociali, non è possibile che non si riconosca che la detenzione in pandemia è stata enormemente più dura di quanto non sia normalmente. Questa maggiore sofferenza va riconosciuta con equità dalle istituzioni. Da un anno a questa parte diciamo “un giorno di liberazione anticipata speciale per ogni giorno passato in pandemia”. In Parlamento ci sono proposte per tornare alla liberazione anticipata speciale già sperimentata ai tempi della condanna europea per sovraffollamento. Sarà l’una, sarà l’altra, o una via di mezzo tra le due, ma non si può non riconoscere che circostanze eccezionali hanno costretto decine di migliaia di persone a pagare più del dovuto il loro debito nei confronti della giustizia. E la giustizia, se vuole essere tale, deve essere capace di riconoscerlo”. Tra i relatori Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale: “Abbiamo ancora una situazione non preoccupante ma che rispetto ai numeri richiede l’attenzione di non potere ancora parlare totalmente di ‘dopo pandemia’. Sono 1329 le persone positive in carcere, 1.444 il personale, è molto ristretto il numero dei sintomatici. Solo 4 in ospedale”. E quanto all’amministrazione penitenziaria, Palma ha concluso: “Già vedo da parte del Dap una tendenza a presentarsi come se tutto fosse funzionante. Invece c’è bisogno di un cambiamento amministrativo prima che ideologico: va ripresa la capacità di avere un sistema informatico, non si è investito in questo settore. Così come vanno rivisti i circuiti, nati per dare un trattamento più indirizzato alle persone. E i magistrati di sorveglianza devono tornare a fare colloqui e a rendersi conto di cosa accade negli istituti”. In collegamento Gian Domenico Caiazza, leader dei penalisti italiani: “Ho ascoltato la ministra, comprendo le difficoltà alle quali dobbiamo guardare con chiarezza e onestà. Questo è il Parlamento che ha fatto un falò degli Stati generali dell’esecuzione penale. Quel falò fu rivendicato come segnale politico del nuovo corso. Il Parlamento è lo stesso, non c’è più la stessa maggioranza di governo, le difficoltà vanno comprese, capisco che la ministra inviti alla concretezza, a individuare quello che si può guadagnare in questo contesto politico”. Presente anche Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino: “Una classe politica seria proporrebbe l’amnistia e l’indulto ma sappiamo con chi abbiamo a che fare. Ma allo stesso tempo sappiamo che esistono come strumenti, previsti dalla Costituzione per governare momenti come questo”. Giustizia, passi avanti su porte girevoli e funzioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 marzo 2022 La riforma Cartabia Separazione delle funzioni, allo studio altre limitazioni. Passi avanti significativi su “porte girevoli” e anche su separazione delle funzioni. Fermezza assoluta della ministra Marta Cartabia su tre punti a rischio di incostituzionalità. Si susseguono le riunioni tecniche sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm tra le forze di maggioranza (ormai partecipano anche i capigruppo in commissione Giustizia del Senato per assicurare un percorso più rapido a un testo ora in discussione alla Camera) e da oggi si comincia a votare in commissione sui punti che hanno registrato un’intesa, sui quali il ministero darà i necessari pareri. Tra questi, nell’incontro di ieri mattina, è compreso anche uno di quelli più delicati, le condizioni cui assoggettare i magistrati che si candidano a cariche elettive o anche solo vanno a ricoprire ruoli tecnici nelle amministrazioni pubbliche e dalla politica sono comunque lambiti. Rispetto alla versione approvata in consigliò dei ministri alcune settimane fa, sembra ora possibile una serie di modifiche. Innanzitutto, scenderebbe da tra anni a uno solo la pausa di decantazione prima del possibile reingresso in magistratura per chi ha ricoperto incarichi apicali nei ministeri o negli enti locali; per i candidati eletti il ritorno in magistratura prevedrà delle forti limitazioni distrettuali e, infine, alle cariche elettive saranno di fatto parificati gli incarichi di governo (ministri e sottosegretari). Per quanto riguarda la separazione delle funzioni, punto anche questo assai sensibile, visto che incombe il referendum, è oggetto di riflessione l’introduzione di forti e ulteriori limitazioni, rendendo possibile il passaggio da giudice a pm, e viceversa, solo nei primi 5 anni dall’ingresso in magistratura (con una possibile apertura su un ulteriore transito, a determinate condizioni). Cartabia ha invece tenuto il punto sull’introduzione del sorteggio per la scelta dei componenti togati del Consiglio superiore, sul divieto di eleggere parlamentari tra i laici e sulla responsabilità civile diretta da parte dei magistrati. Netta la ministra per la quale “la mia storia mi fa vedere profili di incostituzionalità su questi tre punti e per questo non posso non dare parere negativo. Ed è doveroso da parte mia che ve ne sia traccia”. Perplessità che potrebbero poi riscontrare una sintonia con la Presidenza della Repubblica. Domani è in programma un nuovo round tecnico, ma rimane l’incognita dei tempi visto che, per ora almeno, Lega e Italia Viva non hanno assicurato un passaggio al Senato di semplice conferma del punto di equilibrio che la Camera potrà avere raggiunto. Riforma del Csm: ancora frizioni nella maggioranza, intesa sulle porte girevoli di Valentina Stella Il Dubbio, 30 marzo 2022 Se pure il clima ieri mattina tra la ministra e i capigruppo di maggioranza in commissione Giustizia della Camera è sembrato più sereno rispetto a quello di due giorni fa, restano due problemi politici sul tavolo della riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Il primo: Lega e Italia Viva hanno ribadito di non voler garantire la continuità dei lavori al Senato. Ciò significa un terzo passaggio della riforma alla Camera e la quasi certezza che il nuovo Csm andrebbe eletto con la stessa legge elettorale di adesso. Sarebbe davvero una sconfitta per la politica: da due anni ormai si reclama un nuovo sistema elettorale per scongiurare le distorsioni del correntismo. Lo stesso Mattarella lo scorso novembre indirizzò l’ennesimo monito alle forze di maggioranza e al governo: “Il dibattito sul sistema elettorale per i componenti del Consiglio superiore deve ormai concludersi con una riforma che sappia sradicare accordi e prassi elusive di norme”. Tuttavia neanche si potrebbe addossare l’eventuale responsabilità della debacle a Lega e Iv perché la loro è pur sempre la difesa di una legittima prerogativa del Parlamento, quella di discutere le riforme, troppo spesso passate a colpi di fiducia. Il secondo problema politico riguarda le proposte avanzate sul sorteggio da Forza Italia e Lega, sulla responsabilità diretta dei magistrati (sostenuta da Azione) e sull’incandidabilità dei parlamentari in carica a consiglieri Csm (promossa dal M5S). Secondo Cartabia sono tutte incostituzionali, e per questo il parere che la ministra intende darne sarebbe negativo, ma per ora gli emendamenti non sono stati ritirati. Eppure ci sono margini di soluzione, come ci spiega il capogruppo 5S in commissione Eugenio Saitta: “Noi saremmo disposti a ritirarlo ma in un’ottica di maggioranza in cui ognuno fa un passo indietro per trovare una sintesi”. Ieri, dalle 11.30 alle 14, è stato affrontato per diverso tempo il tema delle porte girevoli. Sempre Saitta ci dice: “La nostra impostazione, volta ad escludere il ritorno nelle funzioni giurisdizionali anche per i magistrati che sono stati ministro, sottosegretario, assessore regionale, assessore comunale ha trovato ampio consenso nella maggioranza. Quindi da questo punto di vista si va verso una convergenza sul nostro emendamento”. Sulla possibilità che a luglio il Csm si rinnovi con la stessa legge elettorale: “Sarebbe gravissimo: per quanto ci riguarda noi facciamo costanti riunioni con Conte e i colleghi del Senato per lavorare in piena sinergia tra i due rami del Parlamento. Per risolvere la situazione ho proposto che siano i capi politici a riunirsi per trovare una sintesi”. Nonostante questo scenario, per Alfredo Bazoli, capogruppo Pd in commissione, “abbiamo fatto dei passi avanti su molti temi”, in particolare, appunto, “sulle porte girevoli, su cui si sono trovati dei punti di sintesi abbastanza validi”. Anche “sulla separazione delle funzioni si discute in maniera costruttiva: l’emendamento Zanettin, che prevede un solo passaggio dopo i primi 5 anni, rappresenta una buona base di partenza”. E la ministra sarebbe d’accordo sull’ipotesi che prima di diventare pm si debba svolgere un’esperienza da giudice. Bazoli aggiunge che “c’è l’idea di un ammorbidimento delle regole per capi di gabinetto e capi degli uffici legislativi: si valuta una riduzione del periodo nel quale devono stare fuori dall’esercizio delle funzioni”. Invece si va verso una “maggiore stretta sui candidati non eletti, per cui ci sarebbe un divieto assoluto di tornare a svolgere le funzioni nella circoscrizione o distretto nel quale si sono candidati”. Infine, il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa riguadagna terreno sulla sanzione disciplinare per chi non rispetta le norme sulla presunzione di innocenza: “Si sono schierati tutti, Lega, Iv e FI, a sostegno del mio emendamento. Il Pd ha ritirato il proprio, che avrebbe indebolito le sanzioni”. Sull’emendamento giudicato incostituzionale dalla ministra chiude: “Sono disposto a ritirare quello sulla responsabilità diretta dei magistrati a patto che venga irrigidita la responsabilità civile, sui cui ho presentato un’altra proposta”. Prossima riunione con la ministra domani, stamane torna in aula l’ergastolo ostativo. I magistrati in politica, eletti o non eletti, non metteranno più la toga di Liana Milella La Repubblica, 30 marzo 2022 All’incontro con Cartabia e D’Incà non si presenta Cosimo Ferri che aveva polemizzato con la ministra. La Guardasigilli ribadisce: “Sorteggio incostituzionale”. Lega e Italia Viva vogliono mani libere al Senato. Rimane l’illecito disciplinare “duro” contro chi viola la presunzione d’innocenza. Ancora tre ore di vertice sulla riforma del Csm. E stavolta non partecipa Cosimo Maria Ferri, tuttora magistrato, ma deputato di Italia Viva, che appena 24 ore prima aveva posto alla Guardasigilli Marta Cartabia un altolà sul sistema del sorteggio come legge elettorale per rinnovare il Consiglio superiore. Di cui Cartabia ribadisce l’assoluta incostituzionalità che lo rende inapplicabile con parole nette del tipo “non darò mai il mio parere favorevole”, anche perché se dovesse entrare nella legge dal Quirinale potrebbe arrivare uno stop all’intera riforma. a Lega e Italia Viva insistono e chiedono assoluta libertà di modifiche nel futuro passaggio al Senato, rifiutando l’ennesimo appello del ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà. A cui risponde invece favorevolmente Eugenio Saitta, relatore della riforma per M5S, che nella riunione dichiara: “In un’ottica di maggioranza, se tutti sono disponibili a ritirare gli emendamenti, io ne parlo con Giuseppe Conte, e cerco una sintesi di gruppo, ma per farlo devo avere la garanzia che c’è l’impegno delle altre forze politiche a fare lo stesso”. Impegno che finora non c’è da parte di Lega e Italia Viva, mentre sembra più disponibile Forza Italia. Giovedì nuova riunione di maggioranza. “L’unica cosa che ho da offrire al Parlamento, che cerca punti di sintesi, è la luce della Costituzione”. Ed è proprio su queste parole della Guardasigilli, in vista di giovedì, che bisogna riflettere. Perché la ministra, mentre presenta a sera, con il presidente della Consulta Giuliano Amato, il libro del direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini “Uguali per Costituzione”, ritorna alla riforma del Csm. “Sono fiduciosa - dice guardando già a giovedì - perché sono stati fatti passi avanti. Stiamo cercando i punti di convergenza, ciò che ci unisce per farlo prevalere rispetto alla diversità dei punti di partenza che sono sotto gli occhi di tutti”. Cartabia non nega i contrasti, ma torna alla Costituzione, il suo libro mastro, dicendo che “non è un documento morto, ma continua a darci ispirazione, sia per i suoi principi, sia per lo spirito di unità che stiamo cerca di coltivare anche in questa importante riforma dell’ordinamento giudiziario”. Nessun riferimento specifico ai punti controversi - sorteggio e responsabilità civile diretta - ma un richiamo fermo a quello che la Carta può consentire o può impedire. Proprio come nel caso dei due punti su cui insiste il centrodestra. Si chiude sulle porte girevoli - Comunque un primo risultato viene raggiunto. Un’intesa definitiva sulle cosiddette “porte girevoli”, la possibilità per i magistrati di entrare in politica e poi uscirne mettendo di nuovo la toga sulle spalle. Questo non sarà più possibile. “Mai più casi Maresca” dunque, come ha garantito Cartabia. Sia i giuridici eletti che quelli non eletti non potranno più tornare indietro, perché - è il criterio - la loro indipendenza è ormai definitivamente compromessa. A questa regola dovrà sottostare anche chi entra a far parte del governo, come l’attuale sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli, che è un consigliere di Stato. Diverso regime invece per i capi di gabinetto perché la loro connotazione è più tecnica. Ma, terminato l’incarico, dovranno restare per tre anni senza chiedere, né assumere incarichi direttivi. Il Dem Walter Verini, anche nella veste di co-relatore della riforma, non ha dubbi: “Si tratta di figure che svolgono un ruolo chiave per lo Stato, e quindi non possono essere puniti per questo”. Naturalmente la legge avrà una norma transitoria e varrà per il futuro. Anche se Enrico Costa di Azione ha ipotizzato un emendamento escamotage che potrebbe costringere anche chi riveste oggi incarichi tecnici a scegliere entro un certo lasso di tempo. Resta l’illecito sulla presunzione d’innocenza - Ed è ancora Costa, almeno al momento, che sembra aver vinto la battaglia sull’illecito disciplinare per punire il pm che parla del processo e viola la direttiva sulla presunzione d’innocenza approvata a novembre. Duramente contestato da Giuseppe Cascini, ex pm di Roma e togato del Csm, che considera la norma un attacco alla libertà di stampa. Ma tant’è. Alfredo Bazoli, capogruppo del Pd in commissione Giustizia, ritira il suo emendamento che pure era stato accettato dalla ministra Cartabia, e ipotizzava l’illecito solo nel caso di “un comportamento idoneo a ledere i diritti dell’indagato”. Formulazione che Costa boccia sin dalla mattina perché, a suo dire, “mette nel nulla la legge stessa sulla presunzione d’innocenza”. Obbligatorio per il pm fare prima il giudice - Ecco un’altra novità che potrebbe materializzarsi con la riforma. La propone Costa, la vuole Federico Conte di Leu, la sottoscrivono Verini e Bazoli, sta bene a Saitta, e piace alla Cartabia che nel corso dell’incontro la definisce “interessante”. E arriva pure il sì del senatore di Forza Italia Giacomo Caliendo. In pratica si ridurrebbero dagli attuali quattro oggi consentiti a solo due i passaggi da giudice a pm e viceversa. Ma con l’obbligo, per chi entra in carriera, di fare prima il giudice e solo dopo il pm. In modo da avere piena esperienza dell’iter processuale. L’ostacolo della legge elettorale - I Dem lavorano per raggiungere un’intesa. E altrettanto collaborativi sono i 5stelle che con la riforma Cartabia in realtà portano a casa anche la riforma dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede che ne rappresenta l’impianto originario. Ma adesso il vero ostacolo - che potrebbe anche bloccare l’arrivo della riforma in aula alla Camera per l’11 aprile - è la futura legge per il Csm. “O si arriva a una riforma condivisa, e la ministra Cartabia sta lavorando per questo, e si portano a casa tre riforme di sistema utili per giustizia italiana (civile, penale, del Csm), ma se prevalgono posizioni divisive proprio la legge sul Csm rischia di restare al palo” dice durante la riunione il dem Verini. A questo punto, anche in vista del prossimo incontro di giovedì, tutto dipenderà dall’effettiva volontà di Lega e Italia viva di giungere a un accordo. Il leghista Roberto Turri ha detto chiaramente che dovrà parlarne con Matteo Salvini e con la responsabile Giustizia Giulia Bongiorno. Il capogruppo in commissione Giustizia di Forza Italia Pierantonio Zanettin dovrà sentire Antonio Tajani. Mentre Italia viva manda in campo i “duri”, ieri Ferri, oggi Catello Vitiello, l’ex M5S espulso già durante le elezioni perché considerato massone, e mette in panchina, perché troppo “colomba”, la capogruppo in commissione Giustizia Lucia Annibali. La ministra Cartabia replica con savoir-faire e alla commissione Giustizia della Camera, impegnata nella riforma, comincia a mandare i pareri su tutti gli emendamenti che già vedono la maggioranza d’accordo. Resta il nodo del sorteggio, ma in casa Pd - alla riunione era presente anche il senatore Franco Mirabelli, capogruppo in commissione Giustizia a palazzo Madama - si può raccogliere il seguente commento: “Si sta già trattando sul rapporto tra quota maggioritaria e quota proporzionale, quindi l’impressione è che chi spinge sul sorteggio in realtà voglia tenere in piedi il vessillo, ma solo per non cedere subito”. Giovedì nuovo round. Sorteggio e separazione delle funzioni spaccano la maggioranza di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 30 marzo 2022 Chi vuole vedere il bicchiere mezzo pieno dice che al termine di due mezze giornate di confronto “franco”, ieri pomeriggio la maggioranza ha raggiunto una mediazione su buona parte delle questioni aperte relative alla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Compresa quella delicata delle cosiddette “porte girevoli”, cioè il ritorno - o meno - nelle loro funzioni delle toghe che hanno scelto la politica o la diretta collaborazione con i ministri. Ritorno che è garantito dalla Costituzione (“Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto a conservare il suo posto di lavoro”, articolo 51) ma che per un magistrato che si è impegnato in politica fa un po’ a pugni con il dovere di essere e apparire imparziale. La soluzione trovata nel vertice di maggioranza con la ministra Cartabia prevede una stretta non solo per i magistrati eletti, che non potranno più tornare a funzioni giurisdizionali, ma anche per quelli che si candidano e non vengono eletti e per quelli - tanti - che si impegnano nei gabinetti dei ministri o nei dipartimenti: dopo un anno lontani dalla giurisdizione potranno tornare ma in una circoscrizione diversa dalla regione di provenienza e senza incarichi direttivi o monocratici. Gli ottimisti fanno presente che il passo in avanti è provato dal fatto che oggi dal ministero arriveranno, finalmente, i primi pareri su emendamenti e subemendamenti relativi ai temi oggetto dell’accordo. La commissione giustizia della camera potrà finalmente cominciare a lavorare. Chi vede il bicchiere mezzo vuoto, però, ha gioco facile a sottolineare che le questioni sulle quali non c’è accordo anche se numericamente inferiori sono proprio le più importanti. Separazione rigida e definitiva delle funzioni tra giudici e pm, responsabilità civile dei magistrati, sistema elettorale per la componente togata del Csm. L’ultimo, in particolare, è uno scoglio assai ingombrante perché in parlamento esiste una teorica maggioranza favorevole al sorteggio “temperato”, cioè utilizzato per una prima scrematura delle candidature, soluzione che la ministra considera a forte rischio incostituzionalità. Ma Italia viva, Azione e +Europa e Lega insistono per questo esito, lo fanno soprattutto loro più ancora di Forza Italia e Fratelli d’Italia che pure hanno presentato subemendamenti analoghi. E alla ministra, ex presidente della Corte costituzionale, tocca ascoltare le spiegazioni interessate dei parlamentari di questi partiti, per esempio quelle del deputato, a lungo leader di corrente e ancora magistrato in carica Ferri di Italia viva, che vogliono convincerla che invece il sorteggio non sbatte contro l’articolo 104 della Costituzione che parla di magistrati “eletti” al Csm. Cartabia non si è fatta convincere e, per il secondo giorno consecutivo, ieri ha ripetuto che lei non darà mai parere favorevole a un emendamento che propone il sorteggio. E nemmeno accetterà che il governo si rimetta all’aula, come le era stato suggerito di fare per uscire dall’impasse. C’è poi un altro problema. Per avere qualche garanzia che una volta raggiunto l’accordo questo regga al senato, evitando una terza lettura del provvedimento, la ministra aveva suggerito di invitare al tavolo della maggioranza anche i senatori della commissione giustizia, ma ieri c’erano solo Mirabelli del Pd e Caliendo di Forza Italia. Di nuovo, Lega, centristi e Italia viva si oppongono a blindare il testo una volta approvato - se e quando sarà - dalla Camera, cosa che potrebbe comunque fare Draghi se decidesse di tornare indietro dalla promessa di non mettere la fiducia. Adesso si conosce anche la data dei referendum sulla giustizia (12 giugno) che non per caso riguarderanno proprio i temi sui quali non c’è accordo, separazione delle funzioni e responsabilità civile in particolare. E chiaro che per fare campagna elettorale a Lega e Iv conviene tirare la corda fino all’ultimo, anche a rischio che non si faccia in tempo ad approvare la modifica del sistema elettorale per le imminenti elezioni del Csm, in programma a luglio. In quel caso l’estremo rimedio è già pronto: il rinvio a settembre dell’elezione dei togati, quando è prevista quella dei laici in parlamento. La ministra lo ha escluso a febbraio, ma da allora le cose si sono complicate. Anche se ieri sera ha lanciato questo messaggio: “Sono stati fatti passi avanti. Sono fiduciosa”. Ecco perché si rischia a definire illegittimo il sorteggio dei togati di Giovanni Guzzetta Il Dubbio, 30 marzo 2022 Prima di bocciare l’ipotesi, bisogna chiedersi se non renderebbe, in realtà, più libera la scelta. Il dibattito in corso sulla riforma del Csm ha posto alcuni dubbi di natura costituzionale, su cui la dottrina ha cominciato da qualche tempo a misurarsi. Uno di questi riguarda l’ipotesi di introdurre il metodo del sorteggio nell’ambito del procedimento di selezione dei membri del Consiglio. Com’è noto la questione viene declinata secondo due possibili prospettive. La prima è quella dell’introduzione del sorteggio tout court per designare i componenti del Consiglio. La seconda, battezzata “sorteggio temperato”, consiste invece nel prevedere che la selezione dei candidati, su cui poi i magistrati voteranno, sia compiuta, appunto, per sorteggio. Quanto alla prima ipotesi (sorteggio per la designazione) la ragione della controversia dipende dal fatto che l’articolo 104 della Costituzione prevede che i membri togati del Csm siano “eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie”. Il riferimento all’”elezione” escluderebbe per ciò stesso il sorteggio, trattandosi di due modalità alternative. Uno spunto in questo senso si ricava, in effetti, dalla stessa giurisprudenza costituzionale (sent. 415/ 1994). Del resto, ogni questione relativa ai “filtri” per la partecipazione a un procedimento elettorale ha sempre due facce. La prima, più evidente, si riflette sull’interesse ad essere eleggibili, sull’elettorato passivo. La seconda, indirettamente, sul diritto degli aventi diritto di esprimersi e far valere le proprie preferenze (l’elettorato attivo). E chiaro che se gli “eletti” fossero scelti per sorteggio, il diritto di elettorato attivo verrebbe completamente meno, perché non sarebbe esercitabile. Questo mi pare uno dei motivi principali per cui l’ipotesi hard del sorteggio tout court dei componenti del Csm non sia comunque praticabile. Quand’anche si ritenesse che l’espressione “eleggere” (cioè etimologicamente “scegliere”) possa, astrattamente, includere la scelta operata dal caso… resterebbe comunque il fatto che la Costituzione prevede che l’elezione dei membri del Csm sia fatta “da tutti i magistrati”. Il che, evidentemente, esclude che sia fatta, invece, “dal caso”. Per una simile soluzione ci vorrebbe appunto una riforma della Costituzione. Diverso il discorso per il sorteggio “temperato”. In questo caso i membri del Consiglio verrebbero effettivamente eletti da tutti i magistrati, ma su una platea di candidati (ovviamente se disponibili) ristretta a coloro che siano stati individuati per sorteggio e non in base ad altri criteri (un certo numero di sottoscrizioni, l’auto-candidatura). La lettera della Costituzione sarebbe salva. Ovviamente però l’interpretazione della Carta non si limita al dato letterale. La questione quindi non può essere liquidata sbrigativamente. Ciò detto, la conclusione dell’incostituzionalità anche di questa ipotesi non mi pare così scontata. È vero che il sorteggio dei candidati incide sull’elettorato passivo, ma qui la questione da capire è se la Costituzione consenta, in questo campo, che il legislatore detti restrizioni, limitando ai soli sorteggiati la pretesa elettorale. A questa domanda nei sessanta anni di vita del Csm nessuno ha dato una risposta negativa. Limitazioni dell’elettorato passivo sono sempre state considerate legittime, purché fosse rispettato il precetto costituzionale per cui la scelta debba ricadere su magistrati appartenenti alle “varie categorie”. Già dal 1963 la Corte costituzionale, con la sentenza n. 168, ha previsto che “nel sistema adottato dalla Costituzione, eccetto alcune disposizioni fondamentali, come ad esempio quelle sancite dall’art. 48, la disciplina della materia elettorale, date le modificazioni eventualmente determinate dalle mutate esigenze, resta deferita al legislatore ordinario”. E ha concluso che “il principio deve essere applicato anche per quanto attiene al Consiglio superiore della Magistratura, per la formazione del quale, dal punto di vista dell’elettorato passivo, il precetto costituzionale esige soltanto che i componenti siano scelti fra i magistrati appartenenti alle varie categorie (art. 104, quarto comma)”. Tale conclusione è anche dimostrata dalla prassi legislativa. La legge n. 195/ 1958, nel disciplinare il Csm e in particolare il suo sistema di elezione, è stata modificata numerosissime volte proprio in punto di elettorato passivo. Di volta in volta, ad esempio, sono stati dichiarati eleggibili (per la rispettiva categoria) solo i magistrati di Cassazione purché svolgenti effettivo esercizio delle funzioni di legittimità, oppure anche se non esercenti quelle funzioni, o anche se non ancora dichiarati idonei all’esercizio di funzioni direttive superiori. Ugualmente per i giudici di tribunale, in una certa fase, tutti sono stati considerati eleggibili, mentre in altri periodi solo quelli con tre anni di anzianità o, in altri periodi, con quattro anni di anzianità. La rieleggibilità dei consiglieri uscenti fu prima consentita e, da un certo punto in poi, esclusa. I magistrati che, al momento della convocazione delle elezioni, non esercitino funzioni giudiziarie in una certa fase hanno goduto dell’elettorato passivo e in altra no. Per non parlare dei limiti all’eleggibilità a seconda della gravità o meno delle sanzioni disciplinari ricevute. Insomma, il tema dell’elettorato passivo è largamente lasciato alla “discrezionalità” del legislatore politico. Allo stesso modo la previsione, a seconda dei momenti, che la candidatura richiedesse un certo numero (variabile nel tempo) di sottoscrizioni di appoggio, fino all’ipotesi oggetto del referendum oggi in campo per abrogare la norma che prevede qualsiasi sottoscrizione (norma che la Corte costituzionale non ha ritenuto costituzionalmente obbligata), dimostra che il legislatore può prevedere diversi “filtri” per limitare la candidabilità. Se ne desume, a mio parere, che invocare una violazione diretta della Costituzione per l’ipotesi del cosiddetto sorteggio temperato può essere quantomeno discusso. Certo è chiaro che la “discrezionalità” del legislatore non è illimitata e che essa soggiace ai parametri di ragionevolezza dalla Corte costituzionale più volte richiamati. Ma il giudizio di ragionevolezza, per la sua struttura, risponde a logiche diverse dal contrasto immediato e diretto con una singola norma costituzionale. Esso considera in particolare la coerenza tra il fine perseguito e le soluzioni prescelte. La domanda da porsi, dunque, sarebbe se, di fronte a un sorteggio temperato, l’obiettivo proclamato dai sostenitori di una maggiore apertura e un maggior pluralismo nella competizione per l’accesso al Csm sia in tal modo coerentemente perseguito. Considerando che, se è vero che essere un buon magistrato non significa necessariamente essere un buon amministratore della magistratura, è anche vero che, come ogni elezione, quella per il Csm non è un concorso basato sull’accertamento della competenza ma sulla preferenza degli elettori, i quali, anche in questo scenario, conserverebbero tutta la libertà di esprimerla. Per il magistrato l’imparzialità deve prevalere sul diritto a candidarsi di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 30 marzo 2022 Continua l’iter sulla riforma della ministra Cartabia, ora con l’intervento dei maxiemendamenti voluti dall’Esecutivo. Ultimo approdo, dopo le modifiche al procedimento penale e civile, è una coerente e profonda riforma del Csm, volta a restituire alla magistratura il proprio ruolo indipendente, terzo, imparziale, ma soprattutto, credibile poiché eroso col seguire degli ultimi noti scandali. Si passa dall’inserimento degli avvocati nei Consigli giudiziari per la valutazione dei magistrati, alla riforma elettorale volta ad attenuare le tendenze partitiche del Csm, nonché al cosiddetto “stop delle porte girevoli”, ossia a quella prassi che vede spesso i magistrati passare dalla carriera di giudicante/ inquirente a quella di politico, di consigliere giuridico ministeriale e viceversa. Quest’ultimo aspetto che, sorprendentemente, sta trovando accoglimento favorevole non solo nella politica, ma anche in seno alla stessa magistratura, da parte di autorevoli esponenti le cui opinioni possono rappresentare elementi incisivi affinché la riforma transiti senza eccessive modifiche. Si veda ad esempio quanto espresso da Giuseppe Pignatone in un’intervista a La Repubblica del 4 marzo scorso, laddove si definiscono “condivisibili le previsioni volte a regolare, e in linea di principio impedire, le cosiddette porte girevoli”. Non tutta la magistratura è però, ovviamente, favorevole al cambiamento, e si ricorda, a tal proposito, la levata di scudi di Anm sul punto, sostenuta dalla violazione del dettato costituzionale, non potendosi limitare la capacità elettorale passiva di alcuno: “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”, così la Carta Costituzionale all’art. 51. Le modifiche più rilevanti apportate dal maxiemendamento del governo al disegno di legge A. C. 2681, in compendio sono: 1) esclusione dell’eleggibilità a parlamentare nazionale ed europeo, a consigliere regionale o presidente di Regione (o di Provincia autonoma), nonché l’assunzione dell’incarico di assessore e di sottosegretario regionale, dei magistrati che prestano servizio, o l’hanno prestato nei 3 anni precedenti la candidatura (2 anni per il ddl.), in Uffici giudiziari aventi giurisdizione, anche parziale, sulla Regione nella quale è inclusa la circoscrizione elettorale (aventi giurisdizione sulla circoscrizione elettorale, per il ddl); 2) esclusione dell’eleggibilità a sindaco o consigliere comunale, nonché l’assunzione dell’incarico di assessore comunale, dei magistrati che prestano servizio, o l’hanno prestato nei 3 anni precedenti la candidatura, in Uffici giudiziari aventi giurisdizione, anche parziale, sulla provincia in cui è compreso il comune o sulle province limitrofe (il ddl prevedeva l’ineleggibilità solo per i comuni con popolazione superiore a 100 mila abitanti). Sempre l’articolo 16 del citato disegno di legge prevede che i magistrati che rientrino in ruolo, a termine del mandato elettivo, vengano collocati presso il ministero di appartenenza, ovvero che siano ricollocati in ruoli e destinati dal Csm - che gode di quel margine di discrezionalità- ad attività non direttamente inquirenti o giudicanti. Quest’ultima previsione è oltremodo interessante ed è lì chiarita la volontà del governo di assicurare il rispetto del dettato costituzionale. L’art. 51 della Costituzione, ultimo comma, infatti, prevede la conservazione del proprio posto di lavoro al termine del mandato elettivo. Ecco che si palesa la ratio di quest’ultima modifica, volta a garantire che i magistrati, pur non rientrando in funzioni giurisdizionali, comunque vengano reimpiegati, sostanzialmente - più che formalmente - rientrando a lavoro (anche per non disperdere risorse in un sistema, quello giudiziario italiano, sempre in affanno di personale, in ogni stato e grado). La norma, va detto, affina il filo del rasoio dal momento che i ruoli riassunti dal magistrato al termine del proprio incarico non possono definirsi né formalmente, né sostanzialmente, comparabili con le funzioni tipiche del magistrato. Nel caso di specie è evidente come i principi da modularsi, reciprocamente, siano l’art. 51 e l’art. 104 della Costituzione. Occorre procedere ad un bilanciamento. A parere di chi scrive il principio dell’indipendenza e dell’imparzialità (che interessa tutta quanta la res publica) non può subire contrazioni giustificate dal diritto di un singolo, ancorché magistrato, a veder garantita la propria capacità giuridica elettiva. La stessa Corte costituzionale, allo scopo, in una validissima interpretazione rilasciata con la sentenza n. 170/ 2018, afferma come il diritto all’imparzialità e all’indipendenza della magistratura attiene anche a quel complesso di norme deontiche che fanno dell’indipendenza del magistrato la figura più alta dell’Ordinamento cui il cittadino si rivolge con la fiducia che ogni istituzione repubblicana merita: “Da osservarsi in ogni comportamento di rilievo pubblico del magistrato, al fine di evitare che dell’indipendenza e imparzialità dei magistrati i cittadini possano fondatamente dubitare la Costituzione, in tal modo, mostra il proprio sfavore nei confronti di attività o comportamenti idonei a creare tra i magistrati e i soggetti politici legami di natura stabile, nonché manifesti all’opinione pubblica, con conseguente compromissione, oltre che dell’indipendenza e dell’imparzialità, anche della apparenza di queste ultime”. L’indipendenza così intesa, pertanto, è tanto una prerogativa della magistratura quanto un diritto dei cittadini, del Popolo in nome del quale è amministrata la Giustizia e, per l’effetto, un dovere imperativo per il Sistema. L’indipendenza così tanto posta a baluardo dalla magistratura per frenare qualsivoglia tipo di riforma che intendesse in qualche modo comprimere l’autogoverno, ora pare essere un limite incisivo che va sicuramente a comprimere altri diritti. Questo in nome della funzione sociale del magistrato che, a differenza di ogni altro funzionario statale, gode di un rilevo pubblico (confermato anche da arresti giurisprudenziali Cedu, quali la pronuncia del 18 ottobre 2011 nel caso Graziani- Weiss vs Austria). “Disse un giudice, che aveva una certa fantasia, a un professore di procedura “Voi passate la vita ad insegnare agli studenti che cosa è il processo: meglio sarebbe, per cavarne buoni avvocati, insegnar loro che cosa il processo non è. Per esempio: il processo non è un palcoscenico per gli istrioni; né una vetrina per mettervi in mostra le mercanzie; né un’accademia di conferenzieri; né un salotto di sfaccendati che si scambiano motti di spirito; né un circolo di giocatori di scacchi; né una sala di scherma...”. “Né un dormitorio...” continuò timidamente il professore”, così in un indimenticato aneddoto di Piero Calamandrei. *Avvocato, Direttore Ispeg Avvocato malato, scatta la perquisizione del Pm. “Io indagato e medico interrogato, gravissimo” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 30 marzo 2022 Lo sdegno delle associazioni forensi che chiedono un intervento del Consiglio nazionale forense del Ministero della giustizia a tutela dell’avvocatura. Il tribunale aveva accolto l’istanza di rinvio del legale ma la Procura di Potenza ha proceduto autonomamente. Continua la mobilitazione delle principali associazioni ed organismi forensi dopo che un avvocato di Potenza è finito sotto indagine con tanto di visita fiscale domiciliare, interrogatori ai parenti e acquisizione delle registrazioni di una telecamera installata nei pressi dello studio a seguito della richiesta di rinvio di un’udienza per legittimo impedimento attestato da un certificato medico. Una vicenda di una “gravità abissale” rispetto alla quale “gli organismi forensi e l’intera avvocatura” dovrebbero “intraprendere ogni iniziativa volta a dare risalto con decisione all’accaduto al fine di affermare con forza il decoro il prestigio della classe forense, denigrati e umiliati da episodi come quelli narrati”. La denuncia arriva direttamente dal legale coinvolto, l’avvocato Antonio Murano, del Foro di Potenza. L’istanza di rinvio dell’udienza alla quale non poteva presenziare per motivi di salute, era stata accolta dal collegio del Tribunale, nonostante questo il legale ha ricevuto una visita fiscale a casa, all’esito della quale ha scoperto di essere indagato, il medico è stato a lungo interrogato in caserma, ed è stata disposta una perquisizione del suo studio legale. “Vicenda di gravità inaudita” scrive l’Organismo congressuale forense in una nota. L’unica “colpa” dell’avvocato Murano è stata quella “di aver addotto il legittimo impedimento per una momentanea indisposizione segnalata con tanto di certificato medico”. “Il risvolto paradossale della questione è che, mentre il collegio giudicante - il Tribunale di Potenza - ha accolto l’impedimento e non ha ritenuto di disporre accertamenti di sorta, questi sono stati decisi invece in autonomia dalla Procura, che ha ritenuto di iscrivere l’avvocato nel registro degli indagati ed ha addirittura trattenuto a lungo in caserma il medico, dovendo quest’ultimo subire una perquisizione odiosa perquisizione e persino il sequestro del telefonino”. Un episodio giudicato “sorprendente” dall’Ocf anche considerato che il rinvio per l’indisposizione dell’avvocato “non ha causato alcun problema al procedimento in questione, non a rischio prescrizione”. “Davanti a vicende come questa - è il commento del Coordinatore, Giovanni Malinconico - si resta attoniti. Il capriccio intimidatorio di un pm, perché di questo si tratta, oltre a suonare come un inaccettabile schiaffo all’intera classe forense, incide in modo gravissimo sul diritto di difesa a danno della parte assistita dal Collega e della stessa Giustizia”. L’Associazione Italiana Giovani Avvocati esprime “forte preoccupazione” ed auspica “un immediato intervento del Ministero della Giustizia, previa ispezione, volto ad adottare i più opportuni provvedimenti”. “È gravissimo” rileva l’Avv. Mariarita Mirone, Vicepresidente AIGA “che, in dispregio del legittimo impedimento, peraltro riconosciuto in giudizio, la classe forense venga sottoposta ad un arbitrario ed intollerabile abuso da parte della magistratura, con difetto di tutte le garanzie processuali e costituzionali”. “La gravità di quanto accaduto nel nostro Foro” aggiunge l’Avv. Roberta Fiore, Presidente della Sezione AIGA di Potenza “è ancor più insostenibile per il fatto che l’ispezione dello studio legale del Collega Murano sia avvenuta persino in difetto della comunicazione preventiva al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Potenza, come invece imposto dall’art. 103 c.p.p., realizzando un ingiusto attacco all’Avvocatura potentina.” Il Movimento Forense parla di “sgomento e preoccupazione” per un collega che “si è trovato, suo malgrado, al centro di una vera e propria azione di polizia da parte della locale Procura della Repubblica”. “Non è concepibile, in uno stato di diritto - prosegue la nota -, che si possa verificare - ma anche soltanto immaginare - quanto accaduto: sono stati messi in un angolo e inammissibilmente calpestati i principi fondamentali del giusto processo e delle garanzie connesse al diritto di difesa, ledendo, nel contempo, l’immagine, la reputazione e la funzione stessa dell’Avvocatura. Per tali ragioni, la nostra Associazione chiede che le massime istituzioni forensi adottino i provvedimenti più opportuni a tutela dell’intera categoria”. In un documento inviato al Consiglio dell’ordine di Potenza, ai vertici del Tribunale e della Corte d’Appello, alla Procura generale, al Consiglio nazionale forense e al Consiglio superiore della magistratura, il legale riassume la vicenda. In primis, ricorda che essendosi sottoposto a controlli e avendo avuto un certificato dal suo medico curante, aveva chiesto il rinvio dell’udienza del 24 marzo scorso e delegato un collega a chiedere il “differimento del procedimento, visto l’impedimento a comparire”. Il collegio del tribunale “ha accolto l’istanza” rigettando le richieste del pm di “disporre una verifica sulle mie condizioni di salute e di trasmettere il certificato alla procura”. Nonostante questo, riferisce ancora l’avvocato Murano, “si è presentato un medico accompagnato dai carabinieri per effettuare una visita dichiarando che era stata disposta dalla procura di potenza” visita alla quale “non mi sono opposto, consentendo al medico di verificare il mio status” nonostante l’eccezionalità della procedura. Infatti, spiega il legale “non mi pare che sia mai stata disposta un’ispezione medica su un avvocato né in quasi quarant’anni di professione forense e mi è mai capitato di sentire un episodio simile”. “Ad ogni modo - prosegue - consentita la visita alla quale mi sarei potuto lecitamente opporre e concessa al medico inviato dalla Procura la facoltà di verificare le mie condizioni, ho sperato che la faccenda fosse chiusa”. Invece, prosegue: “Ho appreso, e non nego con stupore, di essere indagato, non so per cosa, e nell’ambito di tali indagini sono stati disposti gli interrogatori di mia madre ultraottantenne, mio fratello e mio figlio il collega Pasquale Murano”. “Il dottor Donato Labella, stimato professionista da oltre quarant’anni, ‘colpevole di avermi visitato e redatto il certificato, è stato trattenuto per circa tre ore in caserma, attinto da decreto di perquisizione locale e personale e decreto di sequestro del telefonino, vedendosi privato del dispositivo contenente le applicazioni relative all’identità digitale, necessarie, tra le altre cose, a firmare le guarigioni e disporre la fine della quarantena dei suoi pazienti”. “Ancora, verso le 20:00 del 24/03/2022, si sono recati, in mia assenza, presso il mio Studio Legale i Carabinieri (cui va riconosciuta grande discrezione), i quali chiedevano di acquisire le registrazioni della videosorveglianza. Anche in tale occasione la richiesta appare anomala in quanto non mi è stato notificato alcun avviso di garanzia che legittimasse atti invasivi della privacy e, quindi, pur sussistendo i presupposti per opporsi, veniva consentito l’accesso, che non dava alcun esito in quanto il sistema non era funzionante”. “Ripeto, tutto ciò s’è verificato senza che io abbia ricevuto, ad oggi, un’informazione di garanzia o qualunque altro provvedimento, a fronte di azioni fortemente invasive del campo professionale e privato”. “Né si comprende la ragione di un simile sospetto che ha portato all’immediata iscrizione della notitia criminis con cotanto ‘dispiego di forze’, posto che il procedimento penale oggetto di rinvio non è prossimo alla prescrizione, i cui termini sarebbero rimasti, in ogni caso, sospesi, visto il differimento per motivi di salute del difensore”. Aversa (Ce). Carceri e patologie psichiatriche di Luigi Labruna La Repubblica, 30 marzo 2022 La ferocia degli invasori russi in Ucraina monopolizza l’attenzione di tutti facendo sì che vengano ignorate o sottovalutate persino violazioni di norme di civiltà che accadono qui da noi e che, in tempi diversi, provocherebbero polemiche senza fine. Pochi, ad esempio, hanno dato rilievo all’ennesima condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo all’Italia per i “trattamenti inumani e degradanti” inflitti ad una persona tenuta in carcere nonostante fosse affetta da gravi patologie psichiatriche, per curare le quali sarebbe stato necessario il ricovero immediato in una delle “residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza” (Rems). Strutture create per “superare” gli “ospedali psichiatrici giudiziari” (Opg), a loro volta istituiti nel 1975 per sostituire i “manicomi giudiziari” sull’onda dell’indignazione provocata dalla morte, in quello di Napoli, di una poveretta bruciata viva sul letto di contenzione. A parte il nome, però, l’innovazione cambiò ben poco. Tanto che nel 2012 una commissione di inchiesta del senato scoprì che in quegli “ospedali” accadevano cose che - disse Napolitano - suscitavano “estremo orrore”. Si passò, così, alle Rems (ora “regionalizzate”), che dovrebbero essere governate da logiche di cura e non di contenzione senza che, però, ciò sempre accada. Inoltre, molte non hanno posti sufficienti ad accogliere tutti quelli che dovrebbero. Come hanno costatato il 12 scorso gli osservatori di “Antigone” che hanno visitato l’ex ospedale psichiatrico giudiziario “Filippo Saporito” di Aversa, dove quasi 150 anni fa fu istituita la prima “sezione per maniaci” (“delinquenti” troppo “pazzi” per stare in carcere e troppo “criminali” per stare in un manicomio “civile”). E hanno riscontrato che, nonostante sia una “casa di reclusione”, vi sono attualmente astrette, per effetto di misure di sicurezza, ben 53 persone. Inoltre, nonostante le necessità di cura di queste, manca ancora un dirigente dell’area sanitaria e per mesi è mancato persino uno psichiatra (ci va due volte a settimana una psicologa dell’Asl). Insomma, balletto dei nomi a parte, le norme di civiltà sugli internati con patologie psichiatriche vengono disattese. Mentre il garante nazionale dei detenuti denuncia che, dall’inizio del 2022, siamo ormai a un tentativo di suicidio (spesso riuscito) ogni tre giorni. Firenze. Ristrutturare biciclette e reinventare la raccolta rifiuti. La resilienza dei detenuti di Lorenza Cerbini Corriere della Sera, 30 marzo 2022 Arrivano dal deposito comunale di Firenze. Vengono restaurate nel carcere cittadino di Sollicciano e con il marchio Piedelibero tornano in strada. Sono biciclette da donna, uomo e anche bambino. Sono da passeggio, corsa o city bike. Alcune persino a scatto fisso, rapporto unico, piacciono tanto ai più giovani. Il progetto Piedelibero è un esempio di resilienza umana e ambientale, un progetto nato nel 2013 come upgrade di Milleeunabici varato dalla cooperativa sociale Ulisse. Da allora ha coinvolto una trentina di detenuti. “Nessuno di loro era in origine un meccanico. Nessuno sapeva come smontare, lubrificare, verniciare e rimontare una bicicletta. I detenuti sono stati assunti con busta paga, hanno appreso regole e competenze. L’attività in officina è diventata un percorso per il loro reinserimento nel mondo del lavoro e nella società”, dice Cristiano Sciascia, responsabile inserimenti lavorativi di Ulisse. Nel carcere di Sollicciano sono state riciclate centinaia di biciclette, ognuna diversa dall’altra fino a diventare modelli unici. “Il format iniziale di Piedelibero prevedeva il noleggio delle biciclette restaurate in carcere e la rivendita dei rottami, ma con l’arrivo di quelle asiatiche, usate per il bike sharing cittadino, abbiamo dovuto rivedere la strategia d’uso”, spiega Sciascia. Oggi dall’officina di Sollicciano escono mezzi destinati alle flotte aziendali e ai privati. L’ultimo ordine in via di consegna riguarda 230 mezzi per la cooperativa La Comune. A incidere sui tempi influiscono due varianti. “In officina possono lavorare al massimo due detenuti per volta” spiega Sciascia. “La selezione è impegnativa. Servono attitudini manuali, la fase di apprendistato è lunga ed è favorito chi deve scontare molti mesi di prigione. Poi ci sono le bici, non sempre dai depositi comunali ne arriva un numero tale da coprire gli ordini. I mezzi recuperati rimangono nei magazzini per i8 mesi in attesa che eventuali proprietari li riscattino. In questo momento abbiamo carenza di mezzi. Riceviamo quelle recuperate nel primo lockdown, ma in quei mesi pochi viaggiavano. I mezzi portati a Sollicciano vengono sottoposti ad accurato esame. “Si separano quelli in buone condizioni da quelli che richiedono molte ore di manodopera, riciclati per i ricambi”. Pezzi d’arte in mostra - Le bici custodite nei depositi del Comune sono spesso frutto di furto o abbandono, oppure sono state rimosse di intralcio al passaggio di veicoli e pedoni. “Non tutti i proprietari hanno interesse a riaverle e a pagare eventuali costi di deposito. Non tutte le bici hanno un valore commerciale”. Nelle ultime due decadi, i brand asiatici a basso costo hanno invaso il mercato a scapito anche di marchi storici italiani. “Recuperare un mezzo di bassa qualità non sempre è produttivo”, dice Sciascia. Le Piedelibero, tuttavia, hanno un valore tutto loro. Possono ordinarle anche i comuni cittadini e i più esigenti possono persino chiederne la personalizzazione. “Possono scegliere modello e colore. L’officina è dotata di tutti i macchinari necessari per la sabbiatura del telaio e la verniciatura. Prima della consegna, l’eventuale proprietario può provarla e a quel punto è libero di acquistarla oppure no”. Negli anni, il progetto ha varcato persino le Alpi. “Un manager di una multinazionale di Bruxelles ci chiamò per una bici col colore aziendale, un bel verde. Finì in palio in una riffa interna”. Il telefono squillò ancora quando il designer veneto di fama internazionale Maurizio Molin chiese “una bicicletta da rivestire con i vetri di Murano”. Diventata opera d’arte, è esposta a Roma. Mezzi per il noleggio Negli anni, Piedelibero è diventato un brand “con campagne pubblicitarie e slogan che ricordano il piacere di andare in bicicletta, lo stato mentale dello stare in carcere e la transizione ecologica in corso”. Quegli slogan appaiono oggi su t-shirt e felpe in vendita online (segreteria®cooperativa ulisse.org). Esempi? “I migliori vanno sempre controvento”, “Chi è libero dentro è libero ovunque”, “Il pensiero non ha catene”, “Sulla strada in piano sono bravi tutti”, “In salita e in discesa cambiano i rapporti”, “Il sudore non inquina”. 11 futuro? “A livello personale, vorrei che il progetto approdasse in quei territori dove la bicicletta è usata ogni giorno come mezzo di lavoro e non solo per le passeggiate domenicali”, dice Sciascia. Intanto, i 230 mezzi riciclati per La Comune torneranno sulle strade di Firenze in modalità noleggio. “Il progetto coinvolge i privati, studenti o lavoratori che vogliono spostarsi con un mezzo proveniente da una filiera sicura a canone agevolato e da tenere per un periodo di sei mesi o un anno”. Pedalare a piedelibero diventa così un nuovo modo di vivere le strade cittadine, sapendo di essere in sella a un mezzo riciclato, nato da un progetto sociale amico dell’ambiente. Benevento. Progetto “Cortincarcere”, rieducare si può… anche attraverso il cinema di Riccardo Polidoro Il Riformista, 30 marzo 2022 La guerra in Europa e la pandemia hanno cambiato il nostro modo di vivere. L’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia vede i cittadini impotenti spettatori di tragici avvenimenti che si credevano irripetibili. Il Covid ha paralizzato, per lungo tempo, ogni attività e solo recentemente si è tornati ad una quasi normalità che c’induce a ben sperare per il futuro. Si sono riprese le attività lavorative, ricreative, culturali e sportive per lungo tempo bloccate dall’emergenza sanitaria. Ci si avvia - pur con il pensiero rivolto alla vicina guerra e alle sue conseguenze - alla normalità. Occorre recuperare il tempo perso e ciò vale anche per la detenzione in carcere, dove quel minimo d’iniziative finalizzate al reinserimento sociale deve riprendere al più presto. In tale ottica, va vista con grande attenzione e favore quella della Camera penale di Benevento: “Cortincarcere”. Un cineforum, nella locale casa circondariale, iniziato il 18 marzo scorso, che si concluderà il 3 giugno prossimo. Una serie di dodici incontri, ogni venerdì dalle 13.30 alle 15, a cui parteciperanno i detenuti sia del reparto femminile che di quello maschile. Non vi saranno esclusioni dovute alla tipologia di reato ovvero di personalità. Comuni e protetti, sex offender, media e alta sicurezza, tutti avranno la possibilità di partecipare alle lezioni. La meritoria iniziativa vede protagonista l’associazione Libero Teatro, nata nel 2005 a Telese Terme, con lo scopo di offrire ai giovani e agli adulti l’opportunità di formarsi ed arricchirsi attraverso il cinema e il teatro. Per raggiungere le sue finalità, l’associazione vanta la presenza di esperti dalle competenze e dal know how differenziato nelle varie discipline artistico-culturali, capaci di assicurare professionalità e affidabilità. Ed ora, grazie all’intervento della Camera penale di Benevento, Libero Teatro porta il cinema in carcere, come percorso di formazione e di riabilitazione socio-educativa. Un progetto interessante ed ambizioso, realizzato con l’apporto e la collaborazione di tutto il personale della casa circondariale, con il supporto tecnico-logistico della direzione del carcere ed il coordinamento di tutta l’organizzazione demandata all’avvocato Nico Salomone, segretario della Camera penale con delega al carcere. Una grande apertura sul mondo del cinema, in un progetto comune di elevata contaminazione reciproca e di notevole qualità artistica che avrà ricadute positive anche sul territorio. Si riaprono così le porte del carcere al mondo esterno e ci auguriamo che il Ministro della Giustizia sappia incentivare finanziamenti stabili e proporzionati alle attività da svolgere, per i progetti trattamentali che dovranno coinvolgere un numero sempre maggiore di detenuti ed istituti. Questa è la strada da seguire per un carcere che rispetti i principi costituzionali e ospiti persone solo in caso di effettiva necessità. Per le altre si dia ampio spazio alle pene alternative, il cui catalogo va ampliato per mirare concretamente al recupero sociale degli individui. L’autore di reati va responsabilizzato e seguito. Vanno, pertanto, rafforzati, con risorse umane ed economiche, gli Uffici di esecuzione penale esterna (UEPE), oggi in grande affanno su tutto il territorio nazionale. La recente nomina del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ci lascia ben sperare sulla nuova organizzazione degli istituti di pena, mentre le parole del Ministro della Giustizia sull’importanza delle misure (pene) alternative - che hanno uno specifico Dipartimento con competenza anche sui minorenni - se effettivamente pronunciate per l’effettivo cambiamento, ci porteranno ad un’esecuzione penale diversa, finalizzata a quella sicurezza sociale tanto auspicata. Avverso tutto ciò l’irriducibile schieramento dei “buttate la chiave”, privo di effettive cognizioni di diritto e spinto solo da sete di vendetta. Parola quest’ultima priva di significato giuridico, che tanti danni ha fatto e continua a fare, in un Paese che, invece, dovrebbe finalmente guardare unitariamente ad una politica del tutto diversa, sulle irrinunciabili basi indicate, nel 1948, dai Padri Costituenti. Milano. Teatro a Bollate, le amiche Serena e Bea lo riaprono: un sogno realizzato (grazie a un detenuto) di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 30 marzo 2022 Due tesi di laurea sul carcere e l’amicizia con un detenuto innamorato del teatro che le ha messe in contatto. È cominciata così l’avventura di Serena Andreani e Beatrice Masi, 29 e 34 anni. Passano interi pomeriggi dietro le sbarre, aiutando reclusi a Bollate a scrivere e recitare liberando creatività e pensiero: il debutto qualche giorno fa sul palco del penitenziario che dopo anni di stop, grazie a loro, ha riaperto. Allo spettacolo era invitata la cittadinanza e in tutte le repliche ha registrato un entusiasta sold out. La “squadra” - Le due ragazze si guardano e ancora non ci credono. Danno il merito a Christian, “mentore e facilitatore”, e lui ben volentieri in parte se lo prende. “Siamo una squadra”, si sminuisce uscendo dalla cella dove vive da anni ed entrando all’ennesimo laboratorio teatrale cui partecipa. Riavvolgono il nastro, i tre. Serena si era laureata allo Ied, Beatrice all’Accademia delle Belle arti di Brera. Entrambe le tesi erano focalizzate sul teatro, eppure a Bollate durante gli anni universitari non si erano mai incontrate. La prima collaborava con la cooperativa Estia fondata dall’attrice e regista Michelina Capato, che già nel 2003 puntava sul teatro per mantenere salda l’autostima di chi vive dietro le sbarre. Beatrice invece portava gruppi di ragazzi detenuti fuori dalle mura affidando loro la realizzazione di murales. Nel 2018 la cooperativa Estia si sciolse e il teatro del carcere di Bollate si fermò con un ultimo colpo di coda, una gloriosa rappresentazione in trasferta al Piccolo. Poi l’impasse. A romperla fu proprio Christian, che aveva conosciuto separatamente Beatrice e Serena e non si rassegnava all’interruzione dei laboratori in cui riusciva a dare il meglio di sé. Un colpo di fulmine - Un giorno prese separatamente Serena e Bea e chiese loro di conoscersi, di trovarsi per un caffè. E ha talmente insistito che le due lo hanno fatto. I caffè sono diventati due, tre, quattro. “Ci siamo conosciute, studiate, confrontate sulle idee che avevamo in testa e sulla volontà reale di mettere in piedi un progetto a lungo termine all’interno del carcere di Bollate”, racconta Serena. “È stato un colpo di fulmine il nostro. Perché quando due persone sono allineate si riconoscono subito”, annuisce Bea. Lei aveva fondato la Società cooperativa sociale Le Crisalidi già nel 2017 e svolgeva attività legate al sociale ma non nello specifico al teatro in carcere. “Insieme le abbiamo dato una nuova veste - la ringrazia Serena -. Grazie allora a Bea perché si è fidata di me e ha voluto che fossimo in due in questo percorso, e ha condiviso quanto aveva già iniziato a costruire. Oggi eccoci, come due sorelle che si conoscono da sempre. Essere in due è bello. E noi siamo caratterialmente una l’opposto dell’altra, proprio per questo funzioniamo”. I testi li scrivono insieme - In un certo senso hanno preso il testimone della Capato, scomparsa di recente, e nel 2020 il penitenziario diretto da Giorgio Leggieri ha affidato loro formalmente le attività teatrali, così come fanno ad esempio anche l’associazione Puntozero al Beccaria e il Cetec a San Vittore. Dopo la pandemia sono partite a spron battuto: “Lavoriamo a 360 gradi, dalla regia alla scenografia alla drammaturgia che prende forma dalle voci del gruppo”, dicono. I testi, manco a dirlo, li scrivono insieme. Hanno anche appena vinto un bando di Fondazione di Comunità Milano e perciò possono guardare già al prossimo spettacolo: “Lo dedicheremo, anche questo, al nostro “assistente numero 1”, Christian”. Volterra (Pi). Un racconto tra web e social: dalla candidatura allo spettacolo in carcere intoscana.it, 30 marzo 2022 Alle ore 15 di sabato 2 aprile in esclusiva dal Carcere di Volterra la diretta videostreaming dello spettacolo di Vinicio Capossela con Armando Punzo e la Compagnia della Fortezza. L’anno di Volterra Città della cultura toscana si apre ufficialmente sabato 2 aprile. Si annuncia un anno ricco di eventi che verranno raccontati dai giornalisti e dalle telecamere di intoscana.it, il Portale ufficiale della Toscana. Alle ore 15 di sabato 2 aprile, infatti, intoscana.it trasmetterà in esclusiva dal Carcere di Volterra la diretta videostreaming dello spettacolo di Vinicio Capossela con Armando Punzo e la Compagnia della Fortezza. La diretta continuerà poi con la sfilata degli attori dal Carcere alla piazza dei Priori. Poi proseguirà dalle 18 con il concerto evento “Voglio sognare un uomo” di Vinicio Capossela con Armando Punzo, la Compagnia della Fortezza e con la partecipazione di Giovanni Truppi. La redazione giornalistica di intoscana - guidata dal direttore, Davide De Crescenzo - seguirà la giornata anche con interviste, servizi e aggiornamenti sui propri canali social. Tutti i momenti, dirette e collegamenti, saranno trasmessi sul sito di www.intoscana.it, sui canali Youtube e Facebook del Portale e rilanciati in crossposting sui social del Comune di Volterra, degli organizzatori e della Regione Toscana. Benevento. Il carcere ricrea spazio giochi e attività per figli in visita ai genitori detenuti di Guido del Sorbo cronachedelsannio.it, 30 marzo 2022 Uno spazio dedicato ai figli dei detenuti in attesa del colloquio in carcere con i propri genitori. Un modo per accogliere e preparare nel migliore dei modi piccoli e giovani all’incontro in un ambiente allegro e sano agevolando i rapporti con madri e padri ristretti: è l’obiettivo del protocollo d’intesa firmato dalla Casa Circondariale di Benevento e dal Cam, Centro di Aiuto al minore Telefono Azzurro presentato questa mattina presso il carcere di contrada Capodimonte. Il progetto si pone come obiettivo quello di agevolare i rapporti tra genitori detenuti e figli attraverso una struttura di accoglienza dedicata a questi ultimi, restaurata e arredata con i fondi messi a disposizione da Cassa Ammende, accompagnando e sostenendo i minori nelle delicate fasi prima del colloquio, per aiutarlo ad esprimere le emozioni che vive, tutelare il legame continuativo ed affettivo con il genitore, e a gestire la separazione forzata e le situazioni di disagio. Di ciò si prenderanno cura due volontari che una volta a settimana, almeno nella fase primordiale del progetto, intratterranno piccoli e adolescenti in molteplici attività diversificate in base all’età e alle esigenze dei coinvolti. “Immaginate cosa vuol dire per un bambino che viene a trovare i genitori l’impatto con questa struttura” ha commentato il direttore del penitenziario beneventano, Gianfranco Marcello. “Bisogna anche aggiungere che purtroppo non sempre riusciamo ad assicurare il colloquio in tempi brevi e i bambini aspettano oltre un’ora in ambienti inadeguati. Ciò - ha aggiunto ai giornalisti presenti - può essere pesante per loro ma anche per i genitori, per questo motivo abbiamo allestito una piccola stanzetta per permettere ai bambini di superare l’impatto traumatico con la struttura facendo trascorrere loro quell’oretta in un ambiente giocoso”. S’inizierà dunque con una giornata sperimentale a cadenza settimanale, ma l’intento è di estendere le attività all’intera settimana. “Per noi è importante che i bambini capiscano che i genitori continuino a volere il loro bene e che riescano a esprimere le loro emozioni” ha affermato la responsabile locale del Cam Telefono Azzurro, Carla Miele, entrata poi nei dettagli. “Cerchiamo di metterli a proprio agio perché non tutti riescono ad accettare di vedere la mamma o il papà in carcere. Daremo vita a una serie di attività ricreative ed educative per far venire fuori le loro emozioni, facendoli scrivere, disegnare e dividendoli in gruppi differenziati in base alla frequentazione delle scuole materne, primarie e secondarie”. Ieri i taleban oggi gli invasori russi: manuale per raccontare il “nemico” senza invettiva di Francesco Grignetti La Stampa, 30 marzo 2022 Il racconto del giornalista Rai Nico Piro nel libro, “Kabul, crocevia del mondo”: analogie e dubbi tra Kiev e Kabul. Ieri i taleban, oggi gli invasori russi. Solo pochi mesi corrono tra due guerre brutte sporche e cattive che hanno colpito la coscienza del mondo. E però, tra Kiev e Kabul, torna un quesito: c’è un modo per raccontare il nemico senza scadere nell’invettiva, nella ripulsa e quindi, in definitiva, nel rifiuto? Chi ci sta provando immancabilmente è accusato di intelligenza con il nemico. Uno che ne sta facendo le spese sui social, ad esempio, è il giornalista Nico Piro, inviato della Rai, che ha seguito con passione il ventennale conflitto afghano ed è al suo terzo libro sul tema, “Kabul, crocevia del mondo” (people editore). Piro ha scarpinato per l’Afghanistan quando muoversi era davvero pericoloso per i giornalisti occidentali. È andato a ficcarsi in posti incredibili seguendo i militari italiani o quelli statunitensi, come anche le forze regolari afghane, quelle che poi si sono sciolte nell’8 settembre di Kabul. Ha rischiato la pelle. Una volta, per tirare fuori la pattuglia con cui viaggiava da un’imboscata dei taleban, sono intervenuti gli F15 americani che hanno bombardato tutt’attorno. Quindi non può e non dev’essere sospettato di cedimenti sentimentali verso i taleban, però Piro è un giornalista fino in fondo. Ed è un pacifista. Il suo motto è stupendo: “Se vuoi la pace, impara a conoscere la guerra”. Già, perché guarda caso, chi conosce sul serio la guerra, ha sentito l’odore della morte, ha visto i cadaveri a terra, è poi il primo a volere la pace. Diffidare invece dei guerrafondai da salotto, che una guerra non l’hanno mai vista. Ecco dunque che Nico Piro è tornato in Afghanistan per primo, dopo il cambio di regime, nello scorso autunno. Ha scoperto il paradosso di avere per interlocutori, gli stessi che fino a qualche mese prima tentavano di accopparlo. Racconta di un tè preso con i miliziani taleban che lo scortano in un’area remota della provincia di Nangarhar, appena liberata dai competitor dell’ISKP, il gruppo affiliato all’Isis: “Sin dal mio arrivo all’aeroporto di Kabul - scrive - sto vivendo una sensazione di disagio: a proteggermi oggi ci sono gli stessi che per anni hanno provato ad ammazzarmi o, nella migliore delle ipotesi, a scaraventarmi nel cofano di un’auto diretta nelle aree tribali. Fatico a capacitarmene. Davanti al tè, chiacchieriamo della guerra contro gli infedeli, della vittoria voluta da Allah contro la potente America, fin quando chiedo a tutti: “Oggi sono qui con voi al sicuro, ma fino a poco fa facevate di tutto per ammazzarmi perché ero un giornalista e uno straniero. Cosa è cambiato?”. La risposta è corale: “Tu sei nostro ospite, l’ospite in Afghanistan è sacro”. “Per me questo è il Paese più bello del mondo, sapete che ho sempre desiderato portarci la mia famiglia?” “Portala pure, garantiamo noi per la loro sicurezza.” Un miliziano dal fondo del gruppo aggiunge, gridando: “Welcome to Afghanistan!”, orgoglioso di quelle poche parole in inglese che conosce”. Il dilemma del giornalista è tutto qui. Se ci si ferma al giudizio morale, con i taleban non si parla, non si tratta, tantomeno si prende il tè. Se si vuole capire che cosa ha in testa il nemico, chi è, allora ci si deve spogliare dai pregiudizi e inoltrarsi in terra incognita. Attenzione, i primi a non fidarsi dei taleban, sono gli afghani stessi. Quelli che si erano lanciati in una prospettiva di democrazia, diritti e modernità e ora vivono un incubo. “Gli afghani - scrive Piro - non si fidano dei talebani. Nonostante ormai ci siano nuove generazioni di combattenti, tutti si portano dietro la maledizione del ‘96, quella del primo Emirato, durante il quale avevano commesso un’infinita serie di abusi e prevaricazioni sulla popolazione locale: l’uccisione barbara dell’ex Presidente Najibullah, l’attacco al museo nazionale e la distruzione dei Buddha di Bamiyan, le frustate alle donne trovate in strada da sole o senza burqa, le esecuzioni allo stadio alle quale gli studenti venivano obbligati a partecipare. Se a ciò si aggiungono vent’anni di conflitto durissimo in cui mai hanno risparmiato la popolazione civile, si capisce perché nonostante abbiano riportato la pace, nonostante gli attentati e i combattimenti siano finiti, non tutti gli afghani si fidino di loro. La convinzione diffusa è che sia solo una questione di tempo, prima o poi ritorneranno a essere quelli di prima”. E intanto sono le ragazze le prime a pagare il prezzo del nuovo regime: la sospensione “temporanea” dell’istruzione femminile sta diventando definitiva. Gli ex impiegati della Repubblica sono disoccupati. Aiuti internazionali non arrivano più. E monta una carestia devastante, aggravata dal cordone sanitario che è stato steso attorno all’Afghanistan dei nuovi potenti. Ci sono già bambini che muoiono di fame e di malattie. Più che prevedibile il boom nella coltivazione di papavero da oppio perché è la pianta che meglio si adatta alle condizioni climatiche dell’Afghanistan e perché l’eroina è il prodotto che si può esportare con più facilità. “È troppo presto, quindi, per prevedere come sarà il raccolto del 2022 ma è difficile sbagliarsi. In un Afghanistan assediato dalla fame e senza più aiuti internazionali, la produzione di oppio è destinata a essere indispensabile e persino salvifica per centinaia di migliaia di famiglie, ma una maledizione per molte più persone nel resto del mondo, dove continuerà ad arrivare eroina a basso prezzo e dove politici miopi continueranno a guardare l’Afghanistan sprofondare, pensando: Stavano meglio quando c’eravamo noi”, la conclusione amara di Piro. Ecco, questa è la cruda realtà afghana. Poi, certo, per i taleban come per i russi, si può scegliere la via della ripulsa. Ma non sapremo mai che cosa si agita nel loro animo, per prendere magari le contromisure in tempo. Amnesty: “In Italia restrizioni dei diritti per migranti, donne, anziani, detenuti, Lgbt” dire.it, 30 marzo 2022 “L’Italia nel 2021 è caratterizzata da tante occasioni mancate per i diritti”. Il giudizio arriva dall’ultimo rapporto su “La situazione dei diritti umani nel mondo 2021-22”. La responsabile Amnesty Ilaria Masinara ricorda “la morte registrata nel carcere di Santa Maria Capua Vetere”, il naufragio della Legge Zan, “le limitazioni al diritto all’aborto” e “l’isolamento prolungato degli anziani chiusi nelle case di riposo” “L’Italia nel 2021 è caratterizzata da tante occasioni mancate per i diritti”. Il giudizio arriva dall’ultimo rapporto su “La situazione dei diritti umani nel mondo 2021-22” e a riferirlo in conferenza stampa a Roma è la responsabile campagne Ilaria Masinara. A essere ancora oggetto di restrizioni “sono i migranti, le donne, gli esponenti della comunità Lgbt e le persone private della libertà”. A partire dagli oltre 1.500 morti nel Mar Mediterraneo nel 2021, un terzo in più rispetto al 2020. “Italia e Ue - avverte Masinara - continuano a ignorare i canali di protezione legali, mentre sono state oltre 32 mila le persone riportate dai guardiacoste libici in Libia, dove abbiamo prove documentate che questa gente poi subisce torture e segregazione”. Luoghi di sospensione dei diritti esisterebbero anche sul suolo italiano: “Penso ai centri per il rimpatrio o alle navi quarantena, ma anche a qui migranti senza un riconoscimento legale che li obbliga a vivere ai margini, in centro informali. Persino con la pandemia non si è accelerato il processo per l’accesso alla salute”. Masinara cita le cause giudiziarie a carico persone o organizzazioni che salvano le vite in mare, e che “spesso si estendo indefinitamente: solo a maggio si terrà in Sicilia l’udienza preliminare per gli equipaggi di Iuventa, Medici senza frontiere e Save the Children in relazione alle operazioni di soccorso condotte nel 2016 e 2017”. Infine, per quanto riguarda gruppi vulnerabili come detenuti, anziani e comunità Lgbt, la responsabile Amnesty ricorda “la morte registrata nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, con denunce di torture e maltrattamenti”, il naufragio della Legge Zan che “avrebbe tutelato dai crimini d’odio la comunità Lgbt e le donne”, “le limitazioni al diritto all’aborto” e infine “l’isolamento prolungato degli anziani chiusi nelle case di riposo”. Masinara conclude sottolineando che quegli operatori sanitari e socio-assistenziali che hanno denunciato anche l’inadeguatezza di questi luoghi durante la pandemia da Covid-19 “sono stati sottoposti a procedimenti disciplinari ingiusti e ritorsioni dai datori di lavoro”. Secondo la responsabile, “resta ancora evasa la richiesta di Amnesty di istituire una commissione d’inchiesta”. Ius scholae, quei ragazzi senza il diritto di avere una cittadinanza nel paese in cui vivono di Chiara Saraceno La Repubblica, 30 marzo 2022 Con gli oltre 700 emendamenti sulla legge, si rischia di bloccare ancora una volta l’accesso dei figli degli emigrati. 728 emendamenti, la stragrande maggioranza dei quali di segno restrittivo quando non esplicitamente abolizionista, rischiano di bloccare ancora una volta l’accesso alla cittadinanza italiana ai ragazzi e alle ragazze che sono nati in Italia o comunque sono andati a scuola e cresciuti fianco a fianco con chi è nato da genitori italiani. Nonostante gli sforzi di mediazione dell’onorevole Brescia, cui va dato atto di essere stato sempre una delle voci più equilibrate sul tema dell’immigrazione all’interno del suo partito, il M5S, anche in contrasto con la leadership, l’ostruzionismo di Lega e FdI minaccia di deludere ancora una volta le speranze di centinaia di migliaia di adolescenti, rafforzando il loro senso di esclusione e non appartenenza. Il testo in discussione non basa l’acquisizione della cittadinanza sul solo fatto di nascere in Italia, quindi sullo ius soli, ma sull’aver frequentato almeno cinque anni di scuola in Italia, quindi sull’aver passato diversi anni nel nostro paese (anche chi è nato qui dovrebbe avere almeno dieci anni), apprendendone abitudini, regole di vita, oltre che lingua. Ma questo non appare abbastanza a Lega e FdI, per i quali la cittadinanza si può acquisire solo per sangue, anche se da italiani che vivono all’estero (dove pagano le tasse) magari da più di una generazione, e senza sapere la lingua né conoscere le leggi, mentre per tutti gli altri va il più possibile ostacolata. Anche se si tratta di bambine/i e adolescenti che sono culturalmente e linguisticamente più “italiani” di chi è nato e cresciuto all’estero. Non è vero, come dichiarato dal leghista Iezzi, che i figli di immigrati non hanno nulla di meno dei loro coetanei italiani e perciò non occorre una legge che consenta loro di chiedere la cittadinanza, per tramite dei genitori, prima del raggiungimento della maggiore età. Non possono muoversi liberamente fuori dai confini se non hanno il passaporto del loro paese, passaporto che spesso non possono ottenere perché i genitori vuoi non possono permettersi il costo del viaggio, vuoi si esporrebbero a gravi rischi se tornassero nel paese da cui sono fuggiti. Non possono, spesso, riconoscersi come appartenenti a nessun paese, perché l’unico in cui sono cresciuti e di cui conoscono la lingua li rifiuta come propri, ma sanno poco o nulla di quello da cui provengono i genitori. D’altra parte, non possono neppure passare periodi troppo lunghi nel paese d’origine, pena perdere la continuità di residenza in Italia richiesta per poter accedere al percorso abbreviato alla cittadinanza riservato (per una breve finestra temporale) a chi nasce e cresce qui al compimento dei 18 anni. Sono costretti a vivere in un limbo, non solo giuridico-burocratico, ma anche di (non) appartenenza, sistematicamente fatti sentire come estranei. Non ci si può stupire se, crescendo, alcuni di questi ragazzi trattati da estranei si comportano, se non da nemici, da sradicati. O se, una volta ottenuta la cittadinanza da maggiorenni, emigrino verso altri paesi (come per altro fanno anche molti loro coetanei italiani “per sangue”), vanificando ogni anche piccolo investimento che questo paese ha fatto su di loro, sia pure obtorto collo. È, se mai, stupefacente che dopo trent’anni di proposte mai giunte a conclusione, di speranze alimentate e tradite, molti continuino ancora a chiedere di essere accolti come italiani - per sé e per quelli venuti dopo -manifestando una fiducia e un attaccamento che questo paese, o meglio il parlamento che lo rappresenta, non ha certo meritato. Ius scholae, valanga di emendamenti della destra: 484 della Lega, 167 di FdI di Giovanna Casadio La Repubblica, 30 marzo 2022 Il provvedimento rischia di affondare in commissione Affari costituzionali della Camera. In tutto le proposte di modifica sono 728. Il Carroccio: “Faremo ostruzionismo”. Meloni: “Cittadini dopo i 18 anni”. La destra non vuole lo “ius scholae”, versione minimalista dello “ius soli”, cioè della legge per concedere la cittadinanza ai bambini figli di immigrati nati o cresciuti in Italia. Sulla proposta - che consentirebbe a un ragazzo figlio di stranieri, dopo avere completato un ciclo di studi di almeno cinque anni, di dirsi italiano a tutti gli effetti - si è abbattuta una valanga di emendamenti. La Lega di Salvini ne ha presentati 484 e Fratelli d’Italia ben 167. In tutto sono 728 le proposte di modifica che la commissione Affari costituzionali della Camera, dove è cominciato l’esame, ha ricevuto ieri. Di fatto per lo “ius scholae” sarà ostruzionismo. Dice il leghista Igor Iezzi: “La nostra posizione è “no” alla legge, perché non serve a niente. I bambini figli di immigrati non hanno nulla di meno rispetto a quelli italiani. Questa proposta è il cavallo di Troia per dare la cittadinanza ai genitori, agli stranieri. Faremo ostruzionismo”. Una battaglia lunga trent’anni, declinata ora dal grillino Giuseppe Brescia (che ha unificato i diversi progetti in un testo unico) in modo da legare cittadinanza e integrazione scolastica, rischia di naufragare di nuovo. Già fu così nel 2015 quando, approvato lo “ius soli” alla Camera, si inabissò nel porto delle nebbie del Senato. E circa 850 mila ragazzi italiani di fatto, ma non di diritto, continueranno a restare nel limbo. Per la destra va cancellata la proposta, che è composta da due soli articoli, nei quali si prevede la richiesta della cittadinanza da parte dei genitori stranieri per i figli nati, o arrivati in Italia entro i 12 anni, e che per almeno cinque anni abbiano frequentato la scuola. Il Pd e il suo segretario, Enrico Letta ne fanno una questione di civiltà e di diritti, che non può più essere rinviata. “L’obiettivo per noi Dem è quello di confermare l’impianto di fondo e di migliorare alcuni aspetti, in modo da dare al nostro Paese una legge finalmente all’altezza dei tempi e in grado di interpretare al meglio le trasformazioni degli ultimi decenni”, ribadiscono Matteo Mauri e Stefano Ceccanti. I 5Stelle con Brescia, che è presidente della commissione Affari costituzionali, condividono l’impostazione. E questa volta anche Forza Italia, pressata da Renata Polverini (la quale aveva presentato una proposta di legge simile nella passata legislatura) ha approvato il testo in commissione. Perciò i forzisti hanno scritto una decina di emendamenti, con i quali si chiede che non ci sia solo la frequenza ma anche il superamento del ciclo di studi. Un emendamento è più restrittivo: il requisito deve essere di 8, e non di 5, anni di studi. Per Fratelli d’Italia, una delle proposte di modifica sottoscritta dalla leader del partito Giorgia Meloni, disfa l’impostazione dell’intera legge. Per Meloni infatti la cittadinanza si ottiene comunque una volta compiuti i 18 anni, su richiesta quindi dell’interessato, prevedendo tuttavia delle facilitazioni per i giovani arrivati in Italia entro i 12 anni e che abbiano compiuto un doppio ciclo di studi di 8 anni. “Non siamo favorevoli alla ‘cittadinanza facile’ e questo è uno ‘ius soli’ mascherato, ma sì a uno ‘ius scholae’ reale che premi integrazione e merito”, annuncia Emanuele Prisco. Precisazioni poi negli 11 emendamenti di Italia Viva, nei 9 del M5Stelle, Leu chiede di ampliare la platea. Il Pd in una delle 15 proposte di modifica, vorrebbe alzare a 17 anni il requisito di età di arrivo in Italia. Richiesta anche una “finestra retroattiva “che sani le situazioni già presenti. Inoltre nessun contributo (ora di 250 euro) per presentare la domanda. Inoltre i dem ritengono che la domanda di cittadinanza possa essere di un genitore solo, e non di entrambi. “Gli emendamenti del Pd testimoniano quanto ci crediamo. Sono un numero ridotto ma di sostanza. Migliorare la proposta Brescia è un dovere e un sostegno per raggiungere un traguardo di civiltà”, ribadisce Barbara Pollastrini, ex ministra delle Pari opportunità. Brescia punta a mediare. Incontrerà i rappresentanti di tutti i gruppi per “definire possibili punti di incontro sulle diverse richieste di modifica: è una questione di civiltà che va sottratta dalla campagna elettorale di qualsiasi partito”, ribadisce. Cannabis, legalizzare si può in accordo con le Convenzioni di Grazia Zuffa Il Manifesto, 30 marzo 2022 Davvero la legalizzazione della cannabis a scopo ricreativo viola le Convenzioni internazionali sulle droghe, come hanno di recente decretato i giudici costituzionali italiani nel respingere il referendum? Non è così. Una risposta politica negativa era stata già data dall’Assemblea Generale Onu sulle droghe (Ungass 2016), che nel documento finale approvato all’unanimità aveva proclamato la “flessibilità” delle Convenzioni a sperimentare nuove politiche: con ciò l’organismo più alto delle Nazioni Unite, mentre allontanava l’ipotesi di revisione dei trattati, sanciva al tempo stesso la compatibilità delle Convenzioni con i sistemi di regolamentazione legale della cannabis inaugurati in alcuni paesi (dall’Uruguay, al Canada, a molti stati Usa). Una risposta simile proviene da un corposo studio di Kenzi Riboulet-Zemouli, della Faaat (Fondazione per un approccio alternativo alla dipendenza da sostanze), che ha approfondito i fondamenti storico-giuridici della flessibilità delle Convenzioni. Il rapporto del ricercatore francese (High compliance, a lex lata legalization for the non medicai cannabis industry) sostiene che l’interpretazione proibizionista dei trattati internazionali sulle droghe è per l’appunto una interpretazione, che si è imposta successivamente, a rimorchio della “guerra alla droga” e della sua dottrina (risalente a Nixon e agli anni Settanta). Se invece guardiamo al testo avendo presente lo spirito di quel tempo e il dibattito che portò alla sua stesura, si scopre che la Convenzione non rispecchia gli intenti proibizionisti degli USA. Tanto è vero che il famigerato falco della proibizione della cannabis, Henry Aislinger, abbandonò il tavolo della trattativa, mentre la maggioranza degli stati decidevano di sostituire la dizione “proibizione” con “controllo” della cannabis (il titolo dell’art.28). Lo scopo principale della Convenzione era di regolare in dettaglio la produzione delle sostanze psicoattive come farmaci, mentre per la produzione a fine non medico e scientifico furono inserite diverse clausole di “flessibilità”. In sostanza, la proibizione fu pensata e formulata come una “opzione ultima” (o clausola di salvaguardia) a disposizione degli stati, non come obbligo. Il rapporto si concentra sulla lettura di alcuni articoli-chiave, come l’art. 22 (Speciali Previsioni per la coltivazione): questo prevede che lo stato aderente “proibirà la coltivazione” “quando le condizioni prevalenti del paese o di un territorio siano tali da rendere la proibizione della coltivazione di papavero da oppio, di coca o di pianta di cannabis la misura più adatta, a suo giudizio, a proteggere la salute pubblica e il benessere”. La flessibilità si evince soprattutto nel giudizio lasciato ai singoli stati. Anche l’art. 2 (Sostanze sotto controllo), al par. 5, ripete la medesima formula, condizionando la proibizione al giudizio dello stato aderente, quale mezzo più appropriato “alla difesa della salute e del benessere”. Così come è utile rileggere i trattati alla luce della storia, è legittimo interpretarli alla luce del presente: le finalità - la tutela della salute e del benessere delle popolazioni - rimangono valide, ma cambiano i significati alla luce delle conoscenze e delle concezioni odierne. Le Convenzioni citano la prevenzione del “abuso”, oggi si parla di “disordini correlati al consumo” e di rischi/danni droga- correlati. Su questa base, il rapporto indica le condizioni per legalizzare senza violare Convenzioni, mettendo in atto le misure oggi a disposizione a difesa della salute pubblica: una efficace prevenzione dei consumi intensivi e più dannosi e politiche di riduzione del danno. C’è da augurarsi che questo studio contribuisca ad aprire un dibattito serio anche in Italia, dove spesso si straparla di vincoli delle Convenzioni al solo scopo di chiudere la via delle riforme. Draghi e Mattarella uniti sull’aumento delle spese militari. Ci sarà la conta in aula e chi vota no è fuori di Tommaso Ciriaco e Giovanna Vitale La Repubblica, 30 marzo 2022 Di fatto è l’annuncio di una potenziale fiducia capace di ridisegnare l’attuale compagine di unità nazionale. E di spaccare il Movimento Cinque Stelle. Il governo non arretra, l’incremento delle spese militari fino al 2% del Pil sarà segnalato già nel Def. Se poi Giuseppe Conte decidesse di sfidare comunque Palazzo Chigi, chiedendo di rinnegare un impegno internazionale assunto dall’Italia, allora Mario Draghi chiederà alla maggioranza di “contarsi in Parlamento”. Di fatto, è la promessa di un dentro o fuori. L’annuncio di una potenziale fiducia capace di ridisegnare l’attuale compagine di unità nazionale. E di spaccare il Movimento, che dovrà decidere se votare contro l’esecutivo in piena crisi internazionale, oppure ascoltare le ragioni dell’ala moderata capitanata da Luigi Di Maio. Se c’è un giorno che racconta un intero periodo, è proprio ieri: Draghi vola dal sindaco di Napoli insieme a Roberto Garofoli. Incontra giovani profughi ucraini e non trattiene le lacrime. Incoraggia un sacerdote, Antonio Loffredo, che recupera giovani nel rione Sanità. Poi a Roma partecipa a una delicata call con Joe Biden. Infine si ritrova faccia a faccia con Conte. E scopre che l’ex premier, a dispetto del lavoro degli ambasciatori, continua a minacciare una crisi di governo, pretendendo che si rinneghino patti internazionali già sottoscritti. Draghi non si trattiene. Dice in faccia al leader cinquestelle che il governo intende “rispettare e ribadire con decisione gli impegni” sulle spese militari. “In un momento così delicato alle porte dell’Europa”, ricorda, è impossibile metterli in discussione. E non è serio farlo. Anzi, “se ciò avvenisse verrebbe meno il patto che tiene in piedi la maggioranza”, perché si minerebbe un punto fondativo per l’esecutivo. Ma non basta. Per mettere pressione al suo predecessore, Draghi sale al Colle. Informa Sergio Mattarella del colloquio, oltreché degli sviluppi della guerra. Tra i due c’è totale sintonia. Se c’è una cosa che il premier non può tollerare, è la strumentalità di alcuni argomenti. Uno, in particolare: quello su una presunta “corsa al riarmo” inaugurata dal suo esecutivo. Innanzitutto perché si tratta di un accordo sottoscritto in passato con gli alleati, dunque non patteggiabile: alimenterebbe vecchie speculazioni sulla nostra affidabilità sul piano internazionale. E poi ci sono le cifre, capaci di mostrare come le recenti posizioni di Conte contraddicano le decisioni da lui stesso assunte quando era premier. I piani concordati già nel 2014, e seguiti dai vari governi che si sono succeduti - chiarisce Draghi - prevedono entro il 2024 un continuo e progressivo aumento degli investimenti. Quando nel 2018 l’avvocato approdò a Palazzo Chigi, il bilancio della difesa era sostanzialmente uguale a quello del 2008: circa 21 miliardi. Nel triennio “contiano”, fino al 2021, è però salito a 24,6 miliardi. Con un aumento del 17 per cento. Dati certificati dal dicastero retto da Lorenzo Guerini. Tra il 2021 e il 2022 - dunque con Draghi - il bilancio della difesa è invece progredito di poco fino a 26 miliardi, pari al +5,6 per cento. Conte non ci sta. È livido. “Io non metto in discussione gli impegni con la Nato, né voglio che lo faccia il governo”. “Però - aggiunge - ho il dovere di rappresentare la preoccupazione della prima forza politica in Parlamento: affrettarsi a rispettare la soglia del 2% del Pil significa provocare un picco delle spese militari in un momento di massima difficoltà per gli italiani. Se incrementiamo di 15 miliardi i fondi per la Difesa, dove si troveranno i soldi per far fronte al carobollette, alla scarsità di materie prime, alla spinta inflativa?”. Tra i due cala il gelo. Draghi è impassibile. Non cede. Il messaggio è chiaro: sui fondi per la sicurezza nazionale non si torna indietro. E chi non ci sta è fuori. Una durezza che l’ex premier non si aspettava. “Il presidente del Consiglio non ha fatto un passo in avanti - si sfoga al termine del colloquio con i suoi uomini più fidati - ma io non ne ho fatto uno indietro. Le posizioni restano distanti”. E sempre ai dirigenti che lo chiamano per sapere com’è andata racconta che il suo successore ha intenzione di tirare dritto, “neppure sul Def ha ceduto”, la situazione si è fatta delicata per davvero. E ora bisognerà valutare attentamente il da farsi. Studiare le contromisure. Ce l’ha con il governo, Conte: “È curioso che in Senato abbia accolto l’odg dell’unica forza di opposizione, anziché accettare il confronto avanzato dal partito di maggioranza relativa”. Ma è irritato pure con il Pd, che ha impedito la votazione. E, per bocca di Alessandro Alfieri, fedelissimo del ministro Guerini, lo ha persino accusato di voler “mettere in difficoltà l’esecutivo”. Eppure, se avessero dato al M5S la possibilità di dire no, di cristallizzare la sua contrarietà alla “corsa al riarmo”, forse lo strappo si sarebbe potuto scongiurare. E invece, nonostante le proteste dei senatori grillini, la presidente dem della commissione Difesa, Roberta Pinotti, ha chiuso la discussione e ha evitato di certificare la distanza dalla maggioranza. “Uno sgarbo grave”, così lo bollano i luogotenenti dell’avvocato. Un affronto che rischia adesso di incrinare anche l’alleanza con Enrico Letta. Il quale, dal Nazareno, fa sapere di “seguire con preoccupazione” un braccio di ferro che non immaginava potesse finire tanto male. Draghi e Conte allo scontro finale sulle spese militari di Daniela Preziosi Il Domani, 30 marzo 2022 La giornata inizia con i toni da commedia di Giuseppe Conte che spiega che il suo partito non voterà per innalzare al 2 per cento del Pil la spesa per le armi, cosa che in realtà ha già fatto alla Camera, e finisce con il passo grave di Mario Draghi che sale al Colle e spiega che “così viene meno il patto di maggioranza”. Se non è l’annuncio di una crisi di governo poco ci manca. In mezzo c’è stato l’incontro fra il premier e l’ex premier. Conte ha chiesto che le spese militari non siano contenute nel Documento di economia a finanza (Def), che dovrebbe essere varato fra il 5 e il 6 aprile. Ma forse non ha capito bene la risposta se all’uscita ha spiegato soddisfatto ammettendo che la questione delle spese militari “può essere procrastinata ma va affrontata”. E invece subito dopo Draghi sale al Colle per dire a Mattarella, il presidente che lo ha voluto a palazzo Chigi, che “il governo intende rispettare e ribadire con decisione gli impegni della Nato sull’aumento delle spese militari”. Cosa succede se il principale partito della maggioranza, prima o poi, non intende rispettare questi accordi? Conte assicura “di non volere la crisi di governo”, ma le due affermazioni non stanno insieme. Il vaso trabocca? Ma in realtà il malumore del premier non risale al pomeriggio. Mentre il governo è impegnato a cercare un ruolo nella soluzione del conflitto russo-ucraino, in questi giorni in commissione bilancio della Camera di discute la delega fiscale. Palazzo Chigi si vede smontare le sue scelte, un tassello alla volta, dall’asse Lega-M5s, a cui si aggiunge anche Italia viva. Quella delle spese militari è, senza dubbio, una questione cruciale per il ruolo del paese nell’alleanza. Ma forse è solo la goccia che fa traboccare il vaso. Draghi si è stancato di farsi logorare. L’ultimo numero da circo è andato in scena ieri pomeriggio in commissione Difesa del Senato. Alla fine di un estenuante tira e molla il governo ha dato la sua benedizione all’ordine del giorno di Fratelli d’Italia sull’impegno dell’Italia ad aumentare le spese militari. L’impegno del resto era stato preso da tempo e confermato da Giuseppe Conte, quando era premier. Il fatto che l’ordine del giorno non si sia votato in commissione ha fatto impazzire i Cinque stelle, che speravano di potersi distinguere solo in quella sede, salvandosi la coscienza per poi votare senza complessi il secondo decreto Ucraina. La realtà è che per tutto il pomeriggio M5s (e Leu) hanno sperato di votare in commissione, implorato Draghi di imporre la fiducia al decreto domani in aula per far decadere gli odg ed evitare spaccature nella maggioranza. Il governo Draghi potrebbe comunque proseguire la sua navigazione. Una navigazione però sempre più lenta e pericolosa. Tant’è che in transatlantico comincia a balenare l’ipotesi di elezioni anticipate a novembre, perché così, viene spiegato da più parti, “non si regge più”. Il segretario Pd, fin qui l’alleato più responsabile di palazzo Chigi, ieri notte ha seguito “con grande preoccupazione” le convulsioni del M5s. Letta fa di tutto per mantenere fermo l’asse con l’alleato. In queste ore non si lascia scappare commenti, solo ribadisce “che di fronte al rischio di una nuova recessione - la terza in circa un decennio - l’ultima cosa da fare, per democratici e progressisti, è smarrire le ragioni dell’interesse nazionale e dell’orizzonte lungo di questo passaggio d’epoca”. A chi, anche nel suo partito, gli chiede di rispondere alle provocazioni grilline, ripete: “Voliamo alto, la notte tra il 23 e il 24 febbraio è cambiato il mondo, la politica, la geografia. Tutto. È la prova più alta chiesta alle nostre generazioni dal secondo dopoguerra, parliamo il linguaggio della verità. E costruiamo anziché dividerci”. Dal Pd verso Conte parte l’invito “a non esacerbare. Questo è il tempo della politica adulta, non di infantili rincorse al consenso dell’ultim’ora”. Il chiarimento interno al movimento è stata accolto con favore, anche se viene fatto notare che il lavoro di Conte sulla identità del movimento è bene che “finalmente avvenga” purché “si sappia tutti che la legge elettorale è ancora quella maggioritaria che obbliga ad alleanze e a considerare che l’avversario non è l’alleato ma il dirimpettaio”. Messaggio chiarissimo. Che può essere liberamente tradotto così: alla fine l’alleanza sarà ineluttabile, i trucchetti per lucrare qualche zero virgola di consenso agli alleati sono un gioco al massacro e a somma zero. L’improvviso voltafaccia grillino sull’aumento delle spese militari si può infatti spiegare in controluce sui numeri di un sondaggio Swg relativo all’ultima settimana: dà il Pd al 21,1 per cento, in calo dello 0,5, e M5s al 13,4, in crescita dello 0,5. Lo stesso istituto stima che il 52 per cento degli elettori Pd non è d’accordo con l’aumento delle spese militari, oltreché il 63 per cento degli elettori M5s. Ma la verità è che la rottura del vecchio e ormai logorato schema giallorosso è davvero poca cosa se è l’effetto collaterale della rottura del governo Draghi. Violenza e libertà di parola. Lo stato dei diritti umani di Riccardo Noury Il Domani, 30 marzo 2022 Il Rapporto annuale 2021 - 2022 di Amnesty International contiene schede su 154 Stati. Tra i dati che meritano una particolare attenzione, si segnalano la promulgazione di norme che hanno inciso negativamente sulla libertà d’espressione, di associazione e di manifestazione pacifica in almeno 67 stati e l’uso eccessivo o non necessario della forza per disperdere proteste in almeno 85 stati. Le novità più drammatiche del 2021 sono arrivate dall’Asia, dal colpo di stato del 1° febbraio in Myanmar (con la militarizzazione delle città, il ritorno dei conflitti etnici, l’uccisione di oltre 1700 manifestanti e l’arresto e le condanne di Aung San Suu Kyi) e dal ritorno al potere dei talebani in Afghanistan il 15 agosto, caratterizzato da stragi e rappresaglie contro varie categorie di persone, soprattutto le donne e le minoranze etniche e religiose. Dell’Asia, a proposito della Cina ricordiamo anche il proseguimento del sistema di internamenti di massa ai danni delle minoranze musulmane dello Xinjiang e il deserto dei diritti umani che è diventata Hong Kong, con centinaia di arresti e incriminazioni, non poche condanne e diverse chiusure di sindacati, quotidiani e organizzazioni della società civile, tra cui la stessa Amnesty International. America del sud e Africa - L’America latina, con un totale di 252 omicidi di cui 138 solo in Colombia, ha continuato a rivelarsi la zona più letale al mondo per i difensori dei diritti umani mentre il Messico ha continuato a rimanere il luogo più pericoloso per i giornalisti (ne sono stati uccisi nove nel 2021) e per le donne (quasi 1000 omicidi indagati come femminicidi). E se nel mondo è stata uccisa una persona transgender al giorno, 125 di questi omicidi sono avvenuti in Brasile. A Cuba c’è stata una repressione che non si vedeva da decenni, con circa 700 arresti legati alle proteste di luglio. In Africa, il conflitto iniziato nel novembre 2020 tra il governo regionale del Tigray e quello centrale è sfociato in una vera e propria guerra civile che ha visto anche l’intervento di forze straniere come l’esercito dell’Eritrea. Sedici mesi di conflitto hanno avuto conseguenze devastanti: più di cinque milioni e 200mila persone dipendenti dagli aiuti alimentari. Pensavamo di esserci lasciati alle spalle il fenomeno vergognoso degli stupri di guerra, ma purtroppo non è così. È infatti tornato d’attualità al grido di “ora tocca a noi”, urlato di fronte a donne e ragazze inermi dalla soldataglia dell’etnia opposta. In Europa, il 2021 è stato segnato da una complessiva erosione dei diritti delle donne, soprattutto nello spazio regionale centro-orientale. In Russia, la sempre più marcata repressione del dissenso è stata esemplificata dalla persecuzione di Aleksej Navalny e dalla riduzione al silenzio di ogni espressione della società civile. Bielorussia e Polonia - Ma la vicenda più grave ha riguardato la frontiera tra Bielorussia e Polonia. Per mesi, migliaia di persone provenienti da zone di conflitto (curdi, afgani, siriani e altri), attirate dal governo di Minsk con l’ingannevole promessa di un comodo ingresso nell’Unione europea, sono state vittime di una gara a chi si comportasse peggio: rimbalzati da una frontiera all’altra, inseguiti da uomini armati e cani, privati sempre e comunque del diritto di chiedere asilo. Sempre in Bielorussia è proseguita la repressione delle proteste iniziate nell’agosto 2020 con la contestata rielezione di Lukashenko: sono stati posti in essere comportamenti che dovrebbero essere estranei a istituzioni statali, come il dirottamento di un volo di linea per catturare un giornalista dissidente o il tentato rapimento di una atleta che gareggiava alle Olimpiadi di Tokyo. In Africa del Nord abbiamo assistito a un ulteriore peggioramento della situazione dei diritti umani in Egitto, ben evidenziata dalla persecuzione giudiziaria di Patrick Zaki, Alaa Abd el-Fattah e migliaia di altri prigionieri di opinione, e in Algeria dove sono proseguiti gli arresti di chiunque avesse qualche legame con le proteste pacifiche di Hirak. Le autorità israeliane hanno continuato a violare tutta una serie di diritti dei palestinesi dei Territori occupati, proseguendo nell’espansione degli insediamenti illegali e usando forza eccessiva nei confronti delle proteste. In Iran è proseguita la detenzione di cittadini con doppio passaporto, vere e proprie pedine di scambio a scopo di vantaggio politico e diplomatico: se un paio di queste situazioni si sono risolte all’inizio del 2022, resta ancora in sospeso quella di Ahmadreza Djalali, che da cinque anni ha un cappio che gli penzola accanto, e purtroppo non è una metafora. Dell’Italia, infine, vanno ricordati gli sviluppi giudiziari sulle torture inflitte ai detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, l’occasione persa con l’abbandono del ddl Zan, la continua criminalizzazione della solidarietà con indagini e processi nei confronti di singole persone e di organizzazioni di ricerca e soccorso in mare e la prolungata e insopportabile complicità in gravi crimini di diritto internazionale costituita dall’accordo tra Italia e Libia. L’ingiustizia ha provocato la resistenza degli ucraini di Julián Carrón* Corriere della Sera, 30 marzo 2022 Il fattore umano è decisivo e sorprende chi non credeva che qualcuno è ancora disposto a battersi per la libertà. Caro direttore, che impressione le immagini della popolazione civile che sventola le bandiere dell’Ucraina davanti ai carri armati! Più ancora degli uomini in armi per un impeto naturale di autodifesa. Che sproporzione! Sulla guerra in corso - “atto barbaro e sacrilego” lo ha definito papa Francesco all’Angelus di domenica 27 marzo - si è scritto molto. Interpretazioni diverse e persino opposte si sono avvicendate. Ma c’è un dato che s’impone e con cui tutte le diverse posizioni sono costrette prima o poi a fare i conti. Quale? La resistenza inaspettata degli ucraini. Il fattore umano - al netto di quelli militari e strategici che pure ci sono e delle valutazioni che si possono fare, ma su questo non ho alcun titolo per intervenire - si è imposto a tutti: soprattutto a chi non avrebbe mai scommesso - come noi, forse - che ci fosse ancora qualcuno disposto a impegnarsi per la difesa della libertà. Con la loro audacia, gli ucraini stanno testimoniando a tutti una autocoscienza che ci lascia senza parole, una fame e una sete di giustizia e un desiderio di libertà che ci riempiono di stupore. Così, ci hanno “costretto” a prendere consapevolezza della irriducibilità dell’io, del loro e del nostro. Credevamo che si fossero lasciati addormentare dal consumismo, come tanti di noi, o che non valesse la pena assecondare la sete di libertà che costituisce la stoffa del cuore umano, ma siamo stati smentiti: in loro, al di là di tutto ciò che può essere detto, stiamo vedendo che il cuore non si arrende al potere. Come spiegare, dunque, l’origine della strenua resistenza degli ucraini che tanto ci stupisce? È sempre una provocazione della realtà a risvegliare l’umano. Dovremmo averlo imparato dall’esperienza vissuta nella pandemia, davanti all’acuirsi delle domande che la diffusione del Covid ha sollevato in noi. In tutti, senza distinzione di ideologia, credo o condizione sociale. Se dunque guardiamo la nostra esperienza, non faremo fatica a capire che cosa ha risvegliato l’io degli ucraini, di fronte alla “violenta aggressione” che stanno subendo. Niente risveglia in noi l’esigenza di giustizia, per quanto assopita, come il percepirla calpestata, specie davanti alla “bestialità della guerra!” (papa Francesco). Non c’è discorso, strategia, autoconvinzione, o etica, che abbia la forza di risvegliare l’io più della provocazione potente che viene dalla realtà. Lo ha colto bene Massimo Recalcati, che ha richiamato a un fattore “che può sfuggire anche alle più sottili analisi geopolitiche”. Quale? La “forza del desiderio”, cioè di quel “fattore supplementare che esorbita le capacità militari e le arti strategiche”. È quello che spesso sottovaluta il potere. Forse la provocazione della guerra in Ucraina non ci ha toccato così da vicino come il Covid, ma le immagini di distruzione, che in Europa pensavamo di esserci lasciate definitivamente alle spalle dopo le due guerre mondiali, ci hanno indubbiamente scosso e non abbiamo potuto evitare di fare i conti con questa scossa, come testimonia la gara di solidarietà nei confronti dei profughi che stiamo accogliendo nelle nostre città. Un mare di carità che riempie di gratitudine. Come non confondersi però davanti alla quantità di articoli, di dibattiti televisivi e di dialoghi tra di noi che attraversano le nostre giornate? Può aiutarci un suggerimento di metodo: non consentire alla ragione di diventare ab-soluta, cioè slegata dalla realtà, per non lasciarla in balia dell’ideologia. È proprio l’imbattersi della persona nella provocazione della realtà che fa scaturire tutta l’esigenza della ragione, impedendole così di soccombere alle diverse riduzioni. È forse proprio la considerazione del desiderio di giustizia di chi la violenza la subisce che ha consentito a giornalisti come Antonio Polito e Ezio Mauro, per fare due esempi, di smascherare un uso ridotto della ragione e l’equidistanza tra l’io e il potere. Lo diceva magnificamente Vasilij Grossman nel suo Vita e destino: “Il totalitarismo non può fare a meno della violenza. Se lo facesse perirebbe. L’eterna, ininterrotta violenza, diretta o mascherata, è la base del suo potere. L’uomo non rinuncia volontariamente alla libertà. In questa conclusione è racchiusa la luce del nostro tempo, la luce del futuro”. Quella che si sta giocando nell’invasione dell’Ucraina da parte dalla Russia è una lotta che riguarda ognuno di noi. Come possiamo difenderci della pretesa totalitaria del potere? Essendo consapevoli della strategia che usa. Don Giussani la descrive così: “Il suo grande sistema, il suo grande metodo è quello di addormentare, di anestetizzare, oppure, meglio ancora, di atrofizzare [...] il cuore dell’uomo, le esigenze dell’uomo, i desideri [...], quell’impeto senza confine che ha il cuore. E così cresce della gente limitata, conclusa, prigioniera, già mezzo cadavere, cioè impotente”. Per questo, lo ribadisco, l’unico vero argine al potere è il desiderio, e perciò incontri e luoghi che lo sappiano ridestare. Continua Giussani: “L’unica risorsa per frenare l’invadenza del potere è in quel vertice del cosmo che è l’io, ed è la libertà. [...] L’unica risorsa che ci resta è una ripresa potente del senso cristiano dell’io, della irriducibilità della persona”. Da qui l’affermazione: “Noi non abbiamo paura del potere, abbiamo paura della gente che dorme e, perciò, permette al potere di fare di loro quel che vuole”, perché “il potere è tale in proporzione dell’impotenza altrui”, della inconsapevolezza dell’io. Qual è l’oggetto adeguato della nostra libertà, cioè della capacità di soddisfazione totale? Che cosa basta al desiderio che ci muove dal fondo di noi stessi? Solo ciò che è in grado di compierlo. Tutto il resto, anche l’annessione di un’altra nazione, è “poco e piccino per la capacità dell’animo nostro”, ci ricorda Leopardi. Solo una pace all’altezza del cuore dell’uomo potrà essere vera pace, duratura, quella che abbiamo implorato con tutta la Chiesa venerdì scorso. Solo Cristo, non come puro nome o dottrina, ma come avvenimento presente è all’altezza del cuore di ogni uomo. Come grida al mondo papa Francesco, è Cristo, Cristo vivo, la “sorgente della vera pace”: per i russi, gli ucraini e noi. *Professore di Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano “Torture sistematiche sui migranti”. Nuovo rapporto della missione Onu in Libia Avvenire, 30 marzo 2022 I migranti intercettati in mare e riportati in Libia vengono reclusi e sottoposti a periodi prolungati di detenzione arbitraria in luoghi in cui viene “praticata sistematicamente la tortura”. L’ennesima conferma arriva da un nuovo rapporto della missione Onu in Libia che sarà all’attenzione del Consiglio dei diritti umani oggi a Ginevra. Da ottobre scorso, riferisce il rapporto, migliaia di persone che hanno tentato la traversata in mare e sono state riportate in Libia, vivono in “condizioni disumane”, sono “sistematicamente torturate, violentate o minacciate di stupro e talvolta uccise”. L’inchiesta dell’organismo Onu parla di recenti prove che testimoniano come la tortura sia praticata ripetutamente e continuativamente contro i detenuti. Ciò include luoghi di detenzione ufficiali e siti gestiti dalle milizie che agiscono sotto l’egida dello stato libico. Inoltre, molte delle prigioni, che erano state dichiarate chiuse, operano invece in segreto e i rappresentanti Onu sottolineano come, in molti casi, le autorità non hanno eseguito gli ordini di rilascio dei detenuti. “Il persistere di gravi violazioni dei diritti umani e una cultura di impunità in diverse parti della Libia sta ostacolando la transizione verso la pace, la democrazia e lo stato di diritto”, hanno detto i rappresentanti delle Nazioni Unite. Oltre alle massicce violazioni che colpiscono i gruppi vulnerabili, come i migranti, il rapporto riferisce di molte altre violazioni che riguardano la transizione verso la democrazia e l’integrità del processo elettorale, come intimidazioni e abusi nei confronti di attivisti o attacchi al sistema giudiziario. “Tutto ciò - conclude il rapporto - mette in dubbio il rispetto da parte del governo e delle autorità de facto dei loro obblighi di garantire la libertà di espressione e di riunione dei libici”.