Il Terzo settore promuove la scelta di Cartabia per il Dap di Luca Cereda Vita, 2 marzo 2022 Carlo Renoldi è un teorico del carcere “compatibile con la Costituzione”, come decenni invoca - e mette in pratica ogni giorno il Terzo settore “responsabile dell’ottanta per cento delle attività trattamenti e rieducative secondo Costituzione”, afferma Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti. Ha un nome il nuovo capo delle carceri - il Dap, ovvero il dipartimento amministrazione penitenziaria - scelto direttamente dalla ministra della Giustizia. Si chiama Carlo Renoldi, ha 53 anni, è originario di Cagliari, e in passato, è stato magistrato penale e poi di sorveglianza nella sua città. Magistrato che non ha mai cercato la ribalta mediatica, è poco noto fuori dalla cerchia interna alla categoria. Marta Cartabia per questo ha chiesto al Csm di mettere “fuori ruolo” Renoldi, oggi giudice della prima sezione penale della Cassazione. Tra i suoi riferimenti e maestri, Renoldi ha Alessandro Margara, che fu capo del Dap ed è passato alla storia perché trattava i detenuti come uomini con diritti, una rivoluzione allora anche se questo era scritto in calce nella Costituzione. Il suo era un “carcere dei diritti”. Sia dei detenuti, sia degli agenti. La sua nomina è in continuità sia con gli orientamenti della Corte Costituzionale in materia di carcere, a partire dalla recente ordinanza che ha dichiarato incostituzionale il carcere duro senza benefici per i condannati ostativi - 41 bis - che non hanno collaborato con la giustizia, ma anche con la linea della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, sulla funzione riabilitativa del carcere. “Sono per un carcere costituzionalmente compatibile. Un carcere dei diritti, in cui però siano garantite le condizioni di sicurezza”, ha scritto recentemente lo stesso Renoldi. “Non serve un “superuomo”, ma un gruppo che giochi di squadra” - “Un uomo solo al comando non basta, e non serve. Da parte di Renoldi, ma soprattutto della Ministra Cartabia, occorre un passo avanti verso il Terzo settore: qualcuno deve iniziare a prendere atto del fatto che l’80 per cento delle attività trattamentali e rieducative in carcere sono fatte dal mondo del volontariato e delle cooperative sociali. Questo è il mandato costituzionale primo, e quello più disatteso, ancora di più in tempo di pandemia”, ragiona Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato e giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti. Che aggiunge: “Speriamo venga fatto un gruppo operativo, non l’ennesima commissione. Si deve mediare con le diverse componenti del carcere, anche con la Polizia penitenziaria. Dobbiamo superare il clima autarchia carceraria di questi anni, che lo isola ancora di più: bisogna mettere in campo le forze che conoscono il carcere e sanno di cosa ha bisogno per cambiare, e che si mettono a disposizione. A partire dai volontari delle associazioni e dagli operatori delle cooperative sociali”, aggiunge Favero. Tra i “rischi” di questo incarico per Renoldi, c’è l’eventuale scadenza naturale di questa XVIII legislatura della Repubblica Italiana. Tra meno di un anno. “Come Terzo settore sappiamo le difficoltà a cui andrà incontro. Difficoltà in cui riversa il sistema carcere e non per via della pandemia, ma già da prima. I capi del Dap devono considerarsi dei “curatori fallimentari”, così Draghi e Cartabia hanno definito il carcere a Santa Maria Capua Vetere, un fallimento. Da curatore fallimentare deve vedere cosa c’è di positivo, preservarlo e valorizzare e poi lavorare sull’eliminazione di quello che c’è di negativo. La nostra esperienza di Terzo settore, presente da più di trent’anni si mette a disposizione”, spiega Nicola Boscoletto, fondatore della cooperativa sociale Giotto e presidente del consorzio sociale Giotto di Padova. Il Terzo settore deve poter contare nel percorso rigenerativo del carcere - “Quando una persona mette una camicia sporca in lavatrice, si aspetta che esca più pulita. se la camicia esce più sporca non è colpa della camicia, ma della lavatrice. Ecco, il carcere lavatrice non funziona. Questa è un’eredità lunga. Non deve Renoldi pensare di essere responsabili per tutto. Ma, anche alla luce della riforma del Terzo settore che dà piene cittadinanza alla società civile anche in carcere, possiamo essere uno strumento - per volontà nostra e per responsabilità civile - utile per non dire fondamentale per ripensare il sistema”, chiosa con una metafora calcante Boscoletto a cui si aggiunge l’immagine di Favero: “I cittadini hanno protestato per il prolungamento pomeridiano dell’orario delle Poste, e non senza fatica, lo hanno ottenuto. Le carceri sono deserte da dopo le 15 del pomeriggio. E i detenuti non hanno la voce che hanno avuto i milioni di italiani con le Poste”. Il capo del Dap è chiamato ad essere anche quella voce, partendo “dagli affetti, dalle videochiamate alle telefonate quotidiane fino agli incontri in presenza. Sostenere gli affetti delle persone detenute, a partire dall’uso allargato al massimo delle tecnologie. Se a inizio lockdown fossero state subito messe in atto le misure per ampliare il numero delle telefonate, forse la paura e la rabbia sarebbero state più contenute, ma quello che non si può più cambiare ci deve però insegnare per il futuro, e il primo insegnamento è che, quando finirà l’emergenza, non vengano tagliate le uniche cose buone che la pandemia ha portato, il rafforzamento di tutte le forme di contatto della persona detenuta con la famiglia”, rilancia Ornella Favero. “Ha più un profilo da garante dei detenuti che da capo del Dap” - Il suo profilo considerato progressista e riformatore in tema di gestione del carcere, però, non convince i sindacati di polizia penitenziaria, visto che Renoldi assumerà anche il ruolo di capo del corpo. “Renoldi non dimentichi che dovrà rappresentare coloro che pressoché quotidianamente hanno a che fare con detenuti che mettono a repentaglio l’ordine e la sicurezza della sezione detentiva”, si legge in un comunicato del Sappe, “Per quello che ha detto nel passato, dunque, credo che Carlo Renoldi sarebbe più indicato per fare il garante dei detenuti che non il Capo del Corpo di Polizia Penitenziaria”. Calca la mano lo stesso Donato Capece, segretario generale di Sappe: “Oltre ad un lauto stipendio avrà anche una mega indennità come Capo del Corpo di Polizia Penitenziaria, ossia di coloro che in carcere sono in prima linea, spesso soli su quattro piani detentivi, con 300 detenuti da controllare, tra i quali un buon dieci per cento psicopatici, un altro trenta per cento extracomunitari e un trenta per cento tossicodipendenti”. Le posizioni sull’antimafia - A rendere quantomeno divisivo il profilo di Renoldi, ci sono anche le sue prese di posizione, oltre che sul tema dell’ergastolo ostativo, sul tema dell’antimafia e della gestione del carcere. In un convegno nel capoluogo toscano nel 2020, ha parlato della sua idea di Dap, spiegando che “che in questi anni è rimasto profondamente ostile a quegli istituti che tentano di varare una nuova stagione di diritti “giustiziabili” per le persone detenute. Un atteggiamento miope di alcune sigle sindacali che declinano ancora la loro nobile funzione in una chiave microcorporativa”. Nella stessa sede è stato molto critico anche su alcune posizioni interne all’antimafia in materia di carcere: “Pensiamo all’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri, che certamente è giusto celebrare, ma che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile, dimenticando ancora una volta che la prima vera azione di contrasto nei confronti delle mafie, cioè l’affermazione della legalità, non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti”. Necessità future e bisogni contingenti del carcere - “Bisogna mappare le esperienze di giustizia riparativa realizzate negli istituti penitenziari, a cominciare dai percorsi di autentica rieducazione in cui famigliari di vittime di reati, come Agnese Moro, Fiammetta Borsellino, Silvia Giralucci accettano di entrare in carcere e di aprire un dialogo con le persone detenute, come già si è sperimentato a Padova. Perché questi conflitti, affrontati solo con rapporti disciplinari, perdita della liberazione anticipata, trasferimenti, alla fine allungano la carcerazione delle persone punite e non affrontano affatto il tema cruciale, che è quello della difficoltà a controllare l’aggressività e la violenza nei propri comportamenti”, spiega Favero che come presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti ha scritto recentemente alla ministra Cartabia un decalogo di iniziative su cui lavorare insieme in carcere perché “un uomo solo al comando” delle carceri non basta. Tuttavia, il rischio è che l’inattesa nomina del nuovo capo del Dap Renoldi crei nuovi ostacoli politici all’approvazione del ddl. Il testo e la nomina del relatore - il presidente del M5S della commissione Giustizia, Mario Perantoni - sono stati votati da tutti i partiti della maggioranza e anche da Fratelli d’Italia. Questa larga convergenza, però, potrebbe guastarsi proprio in seguito alla scelta di Renoldi. Lo scandalo di un garantista a capo delle carceri di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 2 marzo 2022 Il candidato al Dap della ministra Cartabia costretto a scrivere una lettera per spiegare perché l’esecuzione penale non può mai andare contro la Costituzione. Contro il giudice Renoldi torna l’asse Lega-5telle, con l’appoggio esterno di Meloni. Ha dovuto scrivere una lettera di spiegazioni. Una decisione spontanea, assicurano dal ministero della giustizia, che tutta via Marta Cartabia ha certamente apprezzato. È lei che vuole Carlo Renoldi alla guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, un magistrato con una lunga esperienza nell’esecuzione penale, che però prima ancora che il Csm ne decida la collocazione fuori ruolo (accadrà la prossima settimana) è finito sotto l’attacco di ha voluto presentarlo come troppo morbido con i detenuti e persino con i mafiosi. Questo perché Renoldi ha sostenuto - due anni fa, ricordando Sandro Margara - che anche il carcere duro deve rispettare i dettami della Costituzione: umanità e finalità rieducativa. Del resto lo prescrive anche la Corte costituzionale, ma evidentemente questa è una bestemmia per i sostanzialisti di casa nostra. Non solo per il partito di Giorgia Meloni per il quale, come da proposta di legge, se l’ergastolo ostativo non è compatibile con la Costituzione bisogna cambiare la Costituzione. E infatti ritiene Renoldi “non adatto a fare il direttore del Dap ma casomai il garante dei detenuti”, massimo insulto trattandosi di una figura che per la destra meglio sarebbe cancellare. Ma non vogliono un garantista al Dap neanche Lega e 5S, del resto insieme al governo ai tempi in cui il ministro Bonafede diffondeva video musicarelli con un detenuto in ceppi all’ufficio matricola. Ma Salvinie Conte sono di nuovo insieme nella maggioranza della ministra Cartabia, così Renoldi ha dovuto scrivere la sua lettera. Il magistrato - che nel 2020 aveva criticato “l’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri, che certamente è giusto celebrare, ma che vengono ricordati” solo ricorrendo alla “esemplarità della risposta repressiva” dimenticando “che la prima vera azione di contrasto nei confronti delle mafie, cioè l’affermazione della legalità, non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti” - adesso scrive a Cartabia per dirsi dispiaciuto degli equivoci. “Nessuno può avere intenzione di sottovalutare la gravità del dramma della mafia, costato la vita a tanti colleghi e servitori dello Stato - scrive -, non ho mai messo in dubbio neanche la necessità del 41bis, essenziale per recidere i legami tra il detenuto e il contesto delinquenziale di appartenenza. Come emerge da sentenze a cui ho contribuito in Cassazione, in cui si sottolinea la necessità che le misure restrittive siano specificamente finalizzate a tale esigenza”. Non rinuncia dunque Renoldi a ricordare che le misure afflittive devono essere coerenti e conseguenti allo scopo, così come rivendica la necessità di “interrogarci” su quale sia la “strada per tenere insieme uno strumento oggi ancora indispensabile, come l’ergastolo, e i principi dell’umanizzazione della pena e del trattamento rieducativo”. Renoldi è stato per dieci anni giudice di sorveglianza a Cagliari. Da sei anni è alla prima sezione penale della Cassazione. Ha lavorato nell’ufficio legislativo del ministero della giustizia contribuendo a scrivere il decreto del 2013 con il quale l’Italia ha risposto alla condanna della Cedu per il sovraffollamento carcerario (sentenza Torregiani). Da giudice ha sollevato due questioni di costituzionalità sulle norme penitenziarie che sono state accolte dalla Corte. Nel 2013 ha fatto parte della commissione Giostra per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Per Lega e 5 Stelle il suo profilo non carcerocentrico non è adeguato, lo hanno ripetuto in diverse dichiarazioni. Senza repliche, ieri, da Pd e Leu. Il passaggio della nomina in Consiglio dei ministri dovrebbe essere solo formale, si tratta di una scelta fiduciaria della ministra. Così come dovrebbe esserlo - prima - il via libera del Csm. Al Consiglio non spettano valutazioni di merito, ma si aspettano gli interventi di Ardita e Di Matteo. La nomina al Dap è il nuovo fronte dello scontro sulla giustizia di Giulia Merlo Il Domani, 2 marzo 2022 Lega, Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia considerano Renoldi troppo aperturista sulla riforma del carcere ostativo, lui scrive alla ministra per chiarire le sue posizioni: “vanno tenuti insieme strumenti come l’ergastolo con i principi del trattamento rieducativo”. La scelta del magistrato di Cassazione, Carlo Renoldi, al vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sta scatenando polemiche contro la ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Al centro della polemica ci sono alcune dichiarazioni di Renoldi, che nel corso di un dibattito sul carcere nel 2020 si è espresso in termini favorevoli alla modifica del 41 bis e ha criticato “l’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri”, che ricorda solo la risposta repressiva e dimentica che “l’affermazione della legalità non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti”. Queste parole hanno suscitato la durissima reazione di un inedito asse tra Lega, Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia. I contrari - I parlamentari M5S della commissione Antimafia hanno scritto che “La possibile nomina di Renoldi alla guida del Dap ci preoccupa e ci lascia interdetti” perchè “Al Dap crediamo che sia necessaria una figura che abbia come priorità la conservazione e la valorizzazione degli strumenti ideati dai nostri martiri, come Falcone, Borsellino, e molti altri, e che abbia massima attenzione per il difficile e massacrante lavoro della polizia penitenziaria. Basta con le picconate continue e inesorabili al 41bis”. Parole simili a quelle della responsabile Giustizia, Giulia Bongiorno, secondo cui “desta perplessità la scelta di affidare un incarico così delicato, anche per il messaggio che ne deriva, a chi ha assunto posizioni, anche pubblicamente, che hanno sollevato un vespaio di polemiche nel fronte dell’Antimafia”. Sulla stessa lunghezza anche Fratelli d’Italia, il cui responsabile Giustizia Andrea Delmastro ha chiesto che la ministra “ritiri la proposta di Renoldi a capo del Dap. Dopo le rivolte carcerarie che hanno devastato i nostri istituti, dopo le costituzioni di parte civile del Ministero contro gli agenti che hanno sedato le rivolte e mai contro i detenuti che hanno saccheggiato gli istituti penitenziari, manca solo la nomina a capo del Dap di un magistrato che ha sempre contrastato il carcere duro per i mafiosi per dare l’idea della resa della Stato”. Il muro del ministero - Fonti del ministero fanno sapere che la ministra non ha alcuna intenzione di tornare sui suoi passi su una nomina che, ricordano, è di tipo fiduciario. Il capo del Dap, infatti, è un dirigente di un dipartimento del ministero, la cui nomina passa attraverso il sì del consiglio dei ministri ma che è di appannaggio della Guardasigilli. Tuttavia, Renoldi ha ritenuto di far pervenire una lettera a via Arenula, nella quale spiega meglio le sue posizioni e si rammarica delle polemiche in seguito alla pubblicazione delle frasi del convegno del 2020. “Nessuno, men che meno io, può avere intenzione minimamente di sottovalutare la gravità del dramma della mafia”, costato la vita a tanti “servitori dello Stato e non ho mai messo in dubbio la necessità dell’istituto del 41bis”. Però, ricorda Renoldi, la piaga della mafia non può “far dimenticare che in carcere sono sì presenti persone sottoposte al 41bis, ma la stragrande maggioranza è composta da altri detenuti. A cui vanno garantite carceri dignitose, come ci ha ricordato il capo dello Stato”. In materia di ergastolo ostativo ha ricordato poi che “le sentenze delle Alte Corti devono interrogarci su quali risposte dare e il Parlamento lo sta facendo, alla ricerca di una strada per tenere insieme uno strumento oggi ancora indispensabile, come l’ergastolo, e i principi dell’umanizzazione della pena e del trattamento rieducativo”. Le conseguenze - Lo scontro sulla nomina mette in luce un contrasto che continua a covare dentro la maggioranza. La ministra Cartabia ha individuato in Renoldi, ex magistrato di sorveglianza e quindi conoscitore delle carceri e toga progressista di Magistratura democratica, un interprete della sua stessa visione del carcere. Movimento 5 Stelle, Lega e Fratelli d’Italia, invece, si sono saldati proprio nell’antagonismo forte alla riscrittura delle norme sul carcere ostativo, resa però indispensabile da una pronuncia della Corte costituzionale. Il paradosso è che che tutti i partiti si sono ritrovati nell’approvazione del mandato al relatore per portare in parlamento la riforma del carcere ostativo, mentre si sono divisi sulla nomina di un magistrato che proprio in questa riforma crede. Quali siano le conseguenze concrete è difficile dirlo, ma potrebbero riguardare un rallentamento dell’approvazione della riforma in parlamento. Dap, il Capo in pectore ora deve “giurare” sul 41-bis di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2022 Carlo Renoldi, direttore del Dap in pectore, costretto a scrivere una lettera alla ministra Marta Cartabia, che lo ha scelto per guidare l’amministrazione penitenziaria. Il gesto dell’attuale consigliere di Cassazione arriva dopo che il Fatto ha rivelato la notizia della sua nomina e ha riportato una serie di sue dichiarazioni passate che hanno provocato sconcerto tra i familiari delle vittime di mafia e tra alcune forze politiche: M5S, Lega e FdI. Renoldi nella lettera ci contesta, senza citarci, di aver “frainteso” sue frasi pronunciate a un convegno del 2020 e di averle “estrapolate”, pur avendo riportato fedelmente le sue dichiarazioni. Le polemiche, di cui si “dispiace”, sono scoppiate perché in quell’occasione il magistrato aveva sostenuto che l’associazionismo antimafia è “arroccato nel culto dei martiri”, con riferimento a chi a differenza sua e della Consulta non ritiene giusto che l’ergastolo ostativo ai mafiosi non collaboratori vada allentato, così come il 41 bis. Ora Renoldi prova ad aggiustare il tiro: “Nessuno, men che meno io, può avere intenzione minimamente di sottovalutare la gravità del dramma della mafia, costato la vita a tanti servitori dello Stato. E non ho mai messo in dubbio neanche la necessità dell’istituto del 41 bis”. Quanto all’ergastolo ostativo, ribadisce: “Le sentenze delle Alte Corti devono interrogarci su quali risposte dare. Il Parlamento lo sta facendo (obbligato dalla Consulta, ndr) alla ricerca di una strada per tenere insieme uno strumento ancora indispensabile, l’ergastolo e i principi dell’umanizzazione della pena”. Renoldi, però, trascura che l’ostativo riguarda ergastolani mafiosi non collaboratori. Glielo ricordano i parlamentari M5S in Commissione antimafia: “Crediamo che la nostra massima attenzione debba essere rivolta alle vittime e non a dare benefici ulteriori a chi si è macchiato di reati gravissimi. Le garanzie per i detenuti esistono, così come esistono i benefici per coloro che decidono di collaborare”. Interviene anche il responsabile giustizia di Fdi, Andrea Delmastro: “Ci opporremo alla sua nomina anche nel culto dei martiri di mafia che tanto infastidiscono Renoldi”. Al fianco del giudice, invece, Andrea Costa, di Azione: “Renoldi viene attaccato da quelli del ‘marcire in galera’ o del ‘buttare la chiave’ per avere affermato ciò che è scritto in Costituzione e ribadito dalle pronunce della Consulta”. Ma la sorella di Giovanni Falcone, Maria, ringrazia “quelle forze politiche che con forza ribadiscono la necessità di difendere un’applicazione rigorosa del 41 bis e le conquiste ottenute nella lotta contro Cosa nostra”. L’ergastolo tra Consulta e Parlamento di Stefano Anastasia Il Manifesto, 2 marzo 2022 Con l’ordinanza 97 del 2021, la Corte costituzionale ha ribadito un suo antico orientamento, secondo cui la pena dell’ergastolo è legittima nella misura in cui la persona che vi sia condannata possa accedere alla liberazione condizionale. Conseguentemente, il cosiddetto “ergastolo ostativo”, cioè l’ergastolo che non ammette l’accesso alla liberazione condizionale in ragione di una preclusione assoluta, derivante da una presunta pericolosità sociale determinata dal tipo di reato commesso, è per la Corte costituzionalmente illegittimo. La Corte costituzionale però non ha voluto dichiarare immediatamente la illegittimità della norma e si è riconvocata per il prossimo 10 di maggio, lasciando in tal modo al Parlamento la possibilità di “ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo, anche alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione attualmente esibite dalla normativa censurata”. Come si sa, dopo la pronuncia della Corte c’è stato chi ha pensato di riproporre pari pari la normativa censurata e chi addirittura ha pensato di modificare direttamente la Costituzione, pur di conservare l’ergastolo ostativo. La scorsa settimana, finalmente, la Commissione giustizia della Camera ha approvato un articolato che in questi giorni è all’esame dell’assemblea di Montecitorio. Ma il metro di valutazione del testo non può che essere quello della giurisprudenza costituzionale e del principio che ne è alla base: l’incompatibilità dell’ergastolo senza possibilità di revisione con l’ordinamento costituzionale. L’ergastolo è il “problema da risolvere” (Papa Francesco), come ricordiamo nel frontespizio di Contro gli ergastoli, curato con Franco Corleone e Andrea Pugiotto (Futura 2021). E come lo risolve la Commissione giustizia? Un po’ malignamente e un po’ propagandisticamente. Nel breve periodo è solo (maligna) propaganda l’innalzamento della soglia di accesso alla liberazione condizionale a 30 anni di pena scontata, visto che non potrà che applicarsi ai reati commessi dopo l’entrata in vigore della legge, e quindi - nei fatti - non prima del 2060. Ai numerosi vincoli indicati dalla Corte costituzionale già nella sentenza 253/2019 che ha consentito ai condannati non collaboranti di richiedere permessi, la Commissione ne aggiunge qualcun altro, come il sibillino riferimento alla esclusione dell’attualità e del pericolo di ripristino di collegamenti con “il contesto nel quale il reato è stato commesso” e quello a “iniziative dell’interessato a favore delle vittime”. Deciderà, evidentemente, la giurisdizione come dovranno interpretarsi questi e quegli “elementi specifici”, “diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione” dall’organizzazione criminale di appartenenza, che consentano di escludere l’attualità e il pericolo di ripristino “anche indiretti o tramite terzi” di collegamenti con essa. Certo è che, se dall’istruttoria del giudice dovessero emergere indizi (inevitabilmente fumosi, considerate le premesse legali) di un’attualità o di un pericolo di ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata, sarà “onere del condannato fornire … idonei elementi di prova contraria”. Il percorso a ostacoli delineato dalla Commissione giustizia della Camera, sommato alla cancellazione dell’unico canale di accesso alla liberazione condizionale attualmente a disposizione degli ergastolani ostativi (l’impossibilità o l’irrilevanza della collaborazione), potrà causare un ulteriore restringimento nell’accesso alla liberazione condizionale per gli ergastolani non collaboranti. Ma spetterà alla Corte, all’esito della udienza pubblica del prossimo 10 maggio, “verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte” dal legislatore. Ergastolo ostativo: tradito l’art. 27 della Costituzione di Tiziana Maiolo Il Riformista, 2 marzo 2022 L’attacco di Caselli alla modifica della legge fatta propria dalle Camere che di limatura in limatura stanno andando nella direzione di disattendere le indicazioni dell’Alta Corte, che però avrebbe dovuto avere più coraggio. Tira brutta aria alla Camera dei deputati, dove lunedì scorso è iniziata la discussione sull’ergastolo ostativo. E non spira migliore brezza dalle parti del Ministero di giustizia, dove la guardasigilli Cartabia è già sotto attacco per aver indicato per la direzione del Dap, in luogo del consueto pm “professionista” dell’antimafia, un ex giudice di sorveglianza che conosce il carcere e le sue regole. E che è stato già costretto, dopo aver subito attacchi vergognosi, a fare atto di fede all’articolo 41-bis del regolamento carcerario. Al dottor Renoldi aveva già scritto ieri sul Fatto quotidiano una lettera aperta il dottor Caselli. Il quale, dopo aver ricordato come “l’esperienza più difficile della mia vita professionale” i due anni trascorsi al Dap, dà un’unica raccomandazione al collega: “l’ergastolo ostativo non va toccato”. Un’indicazione che sembra esser stata raccolta prima di tutto proprio dal Parlamento dove, di limatura in limatura, si sta andando nella direzione di disattendere le indicazioni dell’Alta Corte, che un anno fa sancì l’incostituzionalità della “morte sociale”, dando al Parlamento un anno di tempo (la scadenza al prossimo maggio) per l’approvazione di una legge che rispetti, oltre alla Costituzione, anche l’articolo 3 del regolamento della Corte europea dei diritti dell’uomo. È sempre antipatico dover riconoscere di aver avuto ragione, ma quando nell’aprile dell’anno scorso avevamo scritto alla Corte Costituzionale “serviva più coraggio”, avevamo guardato con realismo la composizione dell’attuale Parlamento, fermo nei numeri e nella qualità dei suoi rappresentanti alle elezioni del 2018, con la prevalenza numerica dei Cinque stelle, con una Lega ondeggiante tra l’iniziativa referendaria e quel gusto antico del “buttare la chiave” dopo aver chiuso la cella, un Pd disposto a tutto pur di stare al governo con i grillini e la destra di Giorgia Meloni ancorata sempre più alle tradizioni del Msi. Resta ben poco sul piano numerico, senza nulla togliere alla qualità non solo dei componenti di Forza Italia e Italia viva, oltre a qualche singolo parlamentare, come Enza Bruno Bossio del Pd. La giurisprudenza che mette in discussione il cuore stesso della norma che dal 1992 esclude dai benefici penitenziari una serie di condannati per reati gravi che non si siano “pentiti”, cioè di coloro che hanno ammesso i reati propri e denunciato quelli altrui, è chiarissima fin dal 2019. E non consente limature né i famosi “salvo che” in cui è specializzata la cultura di una certa sinistra, quella più sensibile alle sirene del Partito dei pm. Si parte dalla “sentenza Viola”, quella con cui la Cedu aveva condannato l’Italia perché non consentiva a Marcello Viola, condannato per gravi reati di mafia, di accedere ai benefici penitenziari previsti dalla legge del 1975. Il detenuto si era sempre dichiarato innocente ed estraneo ai reati che gli erano stati contestati. La sua era quindi una collaborazione impossibile. La sentenza metteva in discusIl sione la costrizione al “pentimento”. È importante ricordare quel punto di partenza, perché è da lì che si arriva ai provvedimenti della Corte Costituzionale. Che, ancora di recente, con la sentenza numero 20 di quest’anno, ribadisce come punto fermo l’esistenza della collaborazione impossibile o inesigibile. Ora la domanda è: nel testo in discussione alla Camera questo principio esiste ancora? Pare di no. Bisogna tener conto del fatto che non esistono solo coloro che si dichiarano non colpevoli, ma anche quei condannati che non hanno più nulla da aggiungere a quel che spesso un’intera schiera di “pentiti” ha già raccontato. E ancora, tanti sono i detenuti che hanno già fatto un intero percorso (di 26 anni) di cambiamento della propria vita, ormai lontani dal mondo mafioso, ma che per una questione di principio non vogliono scendere al livello dei delatori, oppure semplicemente temono per la vita dei propri familiari. Perché tutti costoro devano essere inchiodati a ciò che furono? dottor Caselli ritiene, e non è il solo, che chi è stato delinquente una volta lo sia per sempre, perché negli ambienti della criminalità organizzata tutti sarebbero vincolati a una sorta di giuramento religioso o massonico insuperabile. Non è così. Potremmo fare i nomi e i cognomi dei tanti che sono veramente cambiati e si sono reinseriti nella società. Ma anche l’intervento di lunedì alla Camera del presidente della Commissione giustizia, Mario Peraboni, esponente dei cinque stelle, non promette niente di buono, e pare allineato al pensiero dei magistrati “antimafia” che sono stati ascoltati nel corso del lavoro in commissione. Punto primo: per quale motivo per la concessione al detenuto di permessi premio o di liberazione anticipata occorre interpellare il pm presso il giudice che ha emesso la sentenza (e in alcuni casi addirittura il Procuratore nazionale antimafia)? Cioè colui che ha scattato la fotografia nel momento della commissione del reato? Secondo punto: il Parlamento non si fida dei giudici di sorveglianza, di quelli come il dottor Renoldi, insomma. Infatti il testo base in discussione sposta ogni decisione al tribunale, organo collegiale. E ancora: i 26 anni trascorsi i quali l’ergastolano può cominciare ad avanzare le sue richieste diventano 30. Ma non basta. È inquietante quel “se sarà dimostrato” non solo il suo cambiamento, ma anche il concreto distacco dalle organizzazioni criminali. Pare che il testo preveda una sorta di corsa a ostacoli, lunga e complicata che il detenuto dovrà sostenere per arrivare all’agognata meta. E che dovrebbe fungere in realtà da disincentivo. Ma la Cedu e la Corte Costituzionale avevano detto altro. Ergastolo ostativo. “Non voltiamo le spalle al garantismo”, Verini e le scelte del Pd sul 4bis di Errico Novi Il Dubbio, 2 marzo 2022 Più che una difesa d’ufficio, il discorso pronunciato da Walter Verini due giorni fa, a Montecitorio, sulla legge che riforma l’ergastolo ostativo è l’ammissione di una difficoltà estrema, mai sperimentata dal Pd in una legislatura che, sulla giustizia, non ha certo risparmiato prove complicate. essuno poteva realisticamente aspettarsi, sull’ergastolo ostativo, uno slancio garantista incondizionato. Nessuno poteva illudersi che l’attuale Parlamento concepisse una legge davvero illuminata. E infatti il testo condiviso dalla commissione Giustizia, sul quale di qui a qualche ora arriverà il via libera dell’aula di Montecitorio, è una trincea piena di ostacoli per il condannato “non collaborante”. Lo ha ricordato ieri, in un’intervista al Dubbio, la deputata del Pd Enza Bruno Bossio, tra i pochi che, nell’esame in commissione, abbiano avuto il coraggio di difendere davvero i princìpi dettati dalla Consulta. Perché, va ricordato, la legge sull’ostativo è la conseguenza di una pronuncia, la numero 97 dello scorso anno, con cui la Corte costituzionale ha spiegato che non è legittimo considerare la collaborazione con la giustizia come la sola via a disposizione di un ergastolano condannato per reati ostativi che voglia accedere al più importante dei benefici, la liberazione condizionale. Certo, il giudice delle leggi ha chiesto al Parlamento di eliminare il pregiudizio assoluto tuttora previsto, per chi non collabora, dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario senza però compromettere la sicurezza collettiva. Ma nel testo si legge la volontà di alzare vere e proprie barricate sul ritorno alla libertà del detenuto di mafia. È da lui, da chi è stato per trent’anni recluso quasi sempre in regime di 41 bis, che si pretendono prove in grado di escludere residui collegamenti con l’organizzazione o il rischio che vengano ripristinati. È vero d’altronde che, per la maggioranza attuale, un risultato diverso era di fatto impossibile. Si può legiferare se si è consapevoli che l’ossequio allo Stato di diritto verrebbe travisato un minuto dopo, dai pm antimafia e dal Fatto quotidiano, come un regalo alle cosche? Si può, ma è davvero molto difficile. E su quanto fosse difficile, ha offerto una testimonianza in fondo schietta Walter Verini, dirigente dem che ha esposto, due giorni fa in Aula, la posizione prevalente nel suo partito. Ha esordito così: “Diciamo subito che il testo è il frutto di un lavoro importante e impegnativo e per niente semplice”. Non può passare inosservato che ad Enza Bruno Bossio si sia data la possibilità di proporre una “relazione di minoranza”, in parallelo con l’intervento di Verini. Segno della prova non facile che il partito oggi di maggioranza relativa nel Paese si è trovato ad affrontare. “Il lavoro svolto raggiunge una sintesi, con un testo perfettibile certamente, ma in grado di tenere insieme i due princìpi segnalati dalla Corte costituzionale”, ha detto Verini. Che non ha taciuto delle sollecitazioni arrivate alla commissione affinché adottasse un impianto davvero garantista: “Le opinioni del professor Ruotolo, di Patrizio Gonnella di Antigone, del presidente Anm Santalucia, del professor Anastasia: alcune di queste personalità sono, secondo noi, punti di riferimento di grande spessore nel dibattito giuridico-costituzionale e in quello legato all’ordinamento penitenziario”, ha chiarito il deputato dem. Che ha aggiunto: “Sono critiche e questioni che meritano ascolto, anche se alcune, forse, viziate da una certa unilateralità. Ma probabilmente è giusto, perché analoga unilateralità può essere stata espressa da altre personalità con opinioni diverse e magari opposte”. Verini insomma ha reso l’idea della tenaglia in cui si sono trovati i deputati: da una parte la tesi di chi ha ben presenti gli insulti alla Costituzione consumati nel sistema e nell’ordinamento penitenziario, dall’altra gli irriducibili che vedono nello Stato di diritto un vile cedimento. Si poteva e doveva arrivare in Aula con una legge migliore di questa. Ma quanto avvenuto spiega benissimo come l’insinuazione dell’accusa di collaborazionismo in qualsiasi lampo garantista delle leggi antimafia sia ancora oggi uno dei più formidabili e violenti ricatti a cui si è costretti ad assistere nella politica giudiziaria. Viaggio nel disastro della sanità in carcere: medici precari e poco personale sanitario di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 marzo 2022 Troppi sono i detenuti che attendono di essere ricoverati o per visite specialistiche o per interventi chirurgici. L’attesa a volte è più lunga della pena. Una vera e propria emergenza sanitaria che coinvolgono diversi penitenziari. C’è il caso dei penitenziari campani, così come la questione del carcere della Dozza di Bologna dove c’è penuria di medici, o a Sulmona dove a fine marzo (come in tutta Italia) vanno via gli Oss e l’organico sanitario rimane scoperto. Il caso emblematico della Dozza di Bologna - Partiamo dalla questione bolognese, un caso emblematico. Non si trovano medici che vogliano assumere incarichi nel carcere. Il motivo principale è perché sono precari, li pagano poco e fanno turni pesanti. Accade quindi che tutta la mole di lavoro e soprattutto la responsabilità, cade sugli infermieri. Ciò ha provocato un grave episodio di disorganizzazione registrato fra il 19 e il 20 febbraio nella casa circondariale della Dozza: il penitenziario si è infatti ritrovato privo di personale medico per l’intero turno notturno, con la gestione di qualunque genere di emergenza sanitaria affidata esclusivamente al personale infermieristico in forza al carcere. “Non è possibile ritrovarsi a lavorare in queste condizioni: la probabilità che nella notte fra sabato e domenica non ci fossero medici a disposizione era già stata prospettata da inizio settimana dalla direzione sanitaria, eppure, in tutti questi giorni, non è stato fatto nulla per cercare una soluzione - ha denunciato Antonella Rodigliano, segretaria territoriale del sindacato Nursind di Bologna -. L’unica comunicazione giunta è stata quella che, poche ore prima dell’inizio del turno, avvisava gli infermieri di dover affrontare la nottata da soli. Si tratta di una cosa gravissima”. La situazione all’interno del carcere, come denuncia il sindacato, è al limite: i medici in organico sono appena sedici e la carenza di personale è evidente. Mai però si era giunti ad una situazione simile, con la totale assenza di una figura medica all’interno della struttura per un intero turno. Gli atti di autolesionismo da parte dei detenuti e le aggressioni al personale infermieristico sono spesso all’ordine del giorno alla Dozza, rendendo già di per sé complicato il servizio nella struttura. “Non si può continuare così”, ha rimarcato quindi Rodigliano. Un episodio che è ricaduto tutto sulle spalle degli infermieri - Poco prima dell’inizio del turno fra il 19 e il 20 febbraio, gli infermieri in servizio nel carcere sono stati messi al corrente della situazione, senza nessuna possibilità di porvi rimedio o trovare delle altre soluzioni per tempo. Sono state invece fornite indicazioni operative straordinarie, come il potenziamento della continuità assistenziale della guardia medica in condizioni di necessità e la prassi da seguire in caso di nuovi accessi, dando per scontata la disponibilità degli infermieri ad accettare tutto quanto. “Chiaramente non ci tiriamo mai indietro perché siamo dei professionisti che amano il proprio lavoro e lo fanno sempre con grande passione e serietà - ha concluso la segretaria regionale del Nursind - ma non possiamo rischiare di ritrovarci di nuovo in una situazione del genere. È il momento che qualcuno si assuma le proprie responsabilità”. In Campania l’attesa di una visita può essere più lunga di una pena - Veniamo ora al caso delle carceri campane. A segnalare l’emergenza è il garante regionale Samuele Ciambriello. In visita all’Ospedale Cardarelli di Napoli ha puntato l’attenzione sull’assistenza sanitaria a chi sconta una pena in carcere. “Al Cardarelli ci sono 12 posti - denuncia il garante - oggi solo nove perché una stanza con tre posti è inutilizzabile. A Benevento, per volere della direzione sanitaria dell’Ospedale San Pio, non ci sono posti riservati ai detenuti. Perché solo così pochi posti? Tantissimi detenuti attendono di essere ricoverati o per visite specialistiche o per interventi chirurgici. L’attesa a volte è più lunga della pena. Nel pieno rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza e della tutela della salute, credo che la nostra società e le nostre Istituzioni non siano rispettose dei diritti umani dei detenuti”. Per il garante la riforma sanitaria in carcere è ancora una chimera: “Tarda ad avere piena e incondizionata applicazione. Tale diritto deve essere riconosciuto conciliabile e non contradditorio con le esigenze di sicurezza. L’irragionevole incertezza, a volte gelosie tra l’area sanitaria e le direzioni delle carceri sono un’afflizione aggiuntiva per i detenuti. Le aggravanti nelle carceri sono poi gli aumenti dei detenuti con un problema in più: quello mentale e quello delle tossicodipendenze”. A Sulmona si rischia il collasso per mancanza di operatori socio-sanitari - C’è il caso del carcere abruzzese di Sulmona denunciato da Mauro Nardella, Segretario generale territoriale della Uilpa polizia penitenziaria. In sostanza, non solo carenza di medici ma anche di Operatori socio sanitari (Oss) dietro le sbarre. Per questo la Uil non esulta sulla fine dell’emergenza pandemica fissata per il prossimo 31 marzo. Alla precarietà dei sanitari (4 in servizio sui 7 previsti in organico), si aggiungerà, a partire dal 31 marzo, quella degli Oss (operatori socio sanitari) che, durante la pandemia, sono stati fondamentali nell’evitare il collasso del sistema dietro le sbarre. “Con il venire meno dello stato di emergenza gli Oss non sarebbero più contemplati dalla Protezione civile e quindi non più utilizzabili in carcere - scrive Nardella -. La sanità abruzzese non può non farsi carico di questo potenziale e pericoloso scenario futuro. Per questo motivo la Uil invita l’assessore alla sanità Nicoletta Veri e tutta la dirigenza Asl a farsi carico della situazione e a porvi subito rimedio”. Il sindacalista offre dei suggerimenti: “A tal proposito può essere utile invitare loro a destinare, con le modalità che la Asl saprà adottare, un’aliquota degli Oss facendo permanere le unità attuali impegnate in loco e che ben sanno cosa fare per continuare a soddisfare le esigenze dell’Amministrazione. Il tutto, nelle more dell’espletamento della procedura concorsuale aggregata (in corso di svolgimento) per le Asl di Teramo, Lanciano- Vasto- Chieti e Avezzano- Sulmona- L’Aquila gestita dalla Asl di Teramo dalla quale sarebbe auspicabile l’assegnazione di unità presso gli istituti di pena di Sulmona (4 per 420 detenuti), L’Aquila (3 per 200 detenuti) ed Avezzano (2 per 60 detenuti)”. Il problema sanitario è evidente e deve interessare soprattutto il ministro della Salute Roberto Speranza. Ricordiamo che dal primo aprile 2008 la salute delle persone detenute è divenuta formalmente una competenza del Servizio sanitario nazionale e si è venuta così a sanare una delle tante anomalie normative che riguardano la gestione della vita penitenziaria. Calandoci sul piano del diritto vivente, tuttavia, questa anomalia è stata adeguatamente superata esclusivamente sul piano formale. Nella materialità della detenzione permangono le criticità che ostacolano una piena affermazione dell’equivalenza delle cure, principio cardine della riforma stessa. Il trasferimento del personale, strumentazioni e responsabilità alle Aziende sanitarie locali è stato generalmente vissuto come un ulteriore “peso” scaricato sulle spalle già fragile della sanità regionale (e dei suoi bilanci). Non a caso, come detto inizialmente, c’è il discorso della precarietà che coinvolgono anche i medici, difficilmente disposti a sacrificare la loro vita per pochi soldi rispetto ai colleghi che lavorano nel mondo libero. Ma non solo. La difficoltà principale è quella di riuscire a valutare la questione sanità penitenziaria da un punto di vista nazionale e quindi si creano forti disparità tra territori. Accade nel mondo libero, ma nel carcere tutto si amplifica. Referendum e riforma del Csm alleati nel costruire la nuova giustizia di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 2 marzo 2022 Grande attenzione, nei giorni scorsi, è stata riservata ai quesiti referendari e alla loro ammissibilità. Ha suscitato reazioni, in particolare, la notizia della bocciatura del quesito sull’eutanasia legale, battaglia sociale da lungo dibattuta, in particolare dai Radicali con principale esponente l’Onorevole Marco Cappato; così è stato anche per quello sulla depenalizzazione della coltivazione di cannabis. Referendum, i due succitati, che dunque non si terranno. Si terranno invece quelli relativi all’abrogazione di talune disposizioni della legge Severino, sulla limitazione del ricorso alla custodia cautelare in carcere, sulla separazione delle carriere dei magistrati, sulle modalità di elezione del Csm e, infine, sull’introduzione del diritto di voto, nei Consigli giudiziari, per i “laici”, gli avvocati e i professori, tema sul quale lo scrivente si è espresso - favorevolmente- in ogni sede, anche su queste pagine. Ad onor del vero, su tutti questi, chi scrive, ha già avuto modo di esprimere le proprie opinioni in passato, effettuando un’approfondita valutazione, giungendo a differenti conclusioni. Ora è doveroso un quadro d’insieme. Relativamente alla legge Severino, forti dubbi erano stati espressi in ordine ad una sua abrogazione, dal momento che questa appariva costituzionalmente orientata e, ancora più rilevante, pragmaticamente efficiente. Non si ritiene infatti necessario andare ad eliminare il cosiddetto automatismo di incandidabilità ed ineleggibilità e decadenza per i rappresentanti di governo, parlamentari, sindaci e amministratori comunali. Quanto su detto, contrariamente a quanto diffuso nel dibattito pubblico, dispiegherebbe gravose conseguenze per il rappresentante della res publica solo in relazione a condanne (seppur provvisorie come ovvio per il procedimento penale laddove il giudicato di una sentenza non divenga definitivo) di una certa gravità. A ciò si aggiunga che è fisiologico, seppur non necessariamente corretto, sia chiaro, che il soggetto venga sottoposto a misure cautelari: è ontologicamente connesso alla modulazione attuale del sistema giudiziario. Partendo da tale assunto non si comprende perché risulti tanto necessario eliminare un automatismo che pare giustificato da motivi di rilevanza costituzionale, come il buon andamento dell’Amministrazione Pubblica, un automatismo che trova applicazione solo qualora ricorrano particolari e tassative circostanze. Doverosa, invece, la limitazione del ricorso alla misura cautelare carceraria preventiva. Da troppo tempo, infatti, si assiste inermi ad un abuso di tale strumento, quasi a dimenticare che tale misura rappresenta l’extrema ratio del nostro sistema. È bene ricordare, in tal frangente, che il fine ultimo della pena va letto in ottica rieducativa; spesso il carcere ha effetti opposti all’obiettivo costituzionalmente perseguito. A ciò si aggiunga che molti sono poi gli imputati/ indagati carcerati preventivamente che poi risultano innocenti, assolti con formule piene. Parimenti doverosa la separazione delle carriere, nel pieno e concreto perseguimento di quell’imparzialità di cui la magistratura deve sempre godere, soprattutto agli occhi e nell’interesse del popolo, per il quale la giustizia è amministrata. Si auspica che il passaggio del quesito referendario in commento possa, finalmente, restituire quella terzietà auspicata da ogni fronte. Pur non potendo apprezzare in concreto i pratici risvolti che avrà l’eventuale passaggio di tale quesito, si ritiene positiva anche l’eliminazione della raccolta firme per candidarsi nell’organo di governo autonomo della magistratura. Si auspica, infatti, che si possa porre fine o, quanto meno, limitare quella prassi secondo cui la presentazione delle firme diveniva una mera formalità, che non risultava in alcun modo funzionale a diversificare i candidati alle elezioni dei componenti del Csm. Infine, assai apprezzata è la previsione di inserire i cosiddetti “laici” nei Consigli giudiziari anche quando le discussioni, e le deliberazioni, vertono sulla valutazione dei magistrati. Al pari del precedente quesito la previsione si inserisce nel più ampio progetto di riforma dell’intero ordine della magistratura, soprattutto al fine di dare un segnale alla società civile, sì che il sistema giudiziario possa riacquisire quella credibilità tristemente minata dai noti fatti di cronaca. Assieme ai nuovi criteri di valutazione dei magistrati che intendono assumere la veste di componente delle Corti superiori, lo scrivente auspica che tali misure possano eliminare parte di quell’autoreferenzialità che nel corso dei passati decenni ha condotto ora ad una deresponsabilizzazione, conducendo il vertice da un Sistema di governo ad un Governo di sistema! Sarà interessante annotare quelli che saranno i successivi sviluppi e, ancor di più, vedere quali risvolti tali modifiche avranno in concreto. Allo stato dell’arte tutto milita per un positivo cambiamento, ormai doveroso e non oltre rinviabile, fortemente voluto dalla guardasigilli. *Avvocato, Direttore Ispeg Anm: con le pagelle cresce l’ansia dei magistrati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2022 La riforma Cartabia. In audizione alla Camera il segretario Casciaro parla di “visione iper produttivistica”. Il 9 marzo termine per deposito subemendamenti in Commissione. Le pagelle ai magistrati? Produrranno “ansia competitiva”. Le porte girevoli toghe-politica? Il magistrato deve potere conservare il posto di lavoro. I fuori ruolo? Si rischia una “stretta” con frizioni sul Csm. Gli effetti della riforma? Un magistrato stretto in una morsa di iperproduttività. Piovono critiche e perplessità da parte dei magistrati sulla riforma di Csm e ordinamento giudiziario delineate dalla ministra Marta Cartabia. L’Anm, in audizione alla Camera, mette nel mirino i cardini dell’intervento; ne contesta innanzitutto, sul piano generale, la fisionomia di magistrato che ne sarebbe sottesa. Lo esplicita il segretario Salvatore Casciaro: “questa riforma stringe il magistrato in una morsa” perché punta “su una visione iper-produttivistica che capisco vada verso il target del Pnrr, ma poi sarà inevitabile un atteggiamento difensivo da parte del magistrato e questo determinerà una diminuzione dei provvedimenti”. E poi Casciaro rincara la dose: “l’Europa non ci chiede solo produttività, ma anche di assicurare qualità alla giurisdizione e, secondo me, questo è un elemento trascurato dagli emendamenti del Governo”. Più nel dettaglio, per il presidente Anm Giuseppe Santalucia, “sul discorso delle pagelle, non vogliamo sfuggire a valutazioni del nostro lavoro. Le valutazioni servono per intercettare le cadute, le lacune, ma non devono essere un momento in cui si vive una competizione. Le pagelle, cioè le votazioni, inevitabilmente introducono un’ansia competitiva. Che bisogno c’è di dare voti sulla capacità di organizzare il proprio lavoro, così come prevede l’emendamento governativo? Piuttosto si valuti il magistrato, ma senza voti”. Gli risponde a stretto giro Enrico Costa di Azione, che si chiede “meglio un po’ di sana competizione o per individuare i più bravi o essere in mano alle scelte delle correnti? Oggi il 99% delle valutazioni è positivo: o sono tutti geni o qualcosa va cambiato”. Ma l’Anm non digerisce neppure l’introduzione del drastico divieto al rientro in magistratura, sempre e comunque, per la toga anche solo lambita dalla politica. Per Casciaro infatti “il magistrato che, come qualsiasi cittadino, aspira ad avere una carica elettiva dovrebbe mantenere il suo posto di magistrato e non diventare un dirigente amministrativo. L’articolo 51 della Costituzione mira a incentivare la partecipazione alle cariche e agli uffici pubblici di tutti i cittadini, indistintamente”. E sui magistrati fuori ruolo, che gli emendamenti Cartabia si propongono di ridurre, Santalucia precisa che “noi siano assolutamente favorevoli alla riorganizzazione dei fuori ruolo, che sono comunque previsti dalla legge”, quindi “chiedere al Csm di tenere conto delle ricadute che lo svolgimento dell’incarico fuori ruolo può determinare sotto il profilo dell’imparzialità e dell’indipendenza mette un po’ in contraddizione il Consiglio superiore con una previsione di legge”. Intanto, in commissione Giustizia, il termine per il deposito dei subemendamenti è stato fissato a mercoledì 8 marzo e nelle prossime ore da parte di tutte le forze politiche partirà la corsa ad aggiustamenti, correzioni, anche stravolgimenti, destinati a modifiche sostanziali in una situazione comunque “aperta”, per la decisione del Governo di non porre la fiducia a differenza delle deleghe su processo civile e penale. Pagelle ai magistrati, l’Anm non ci sta: “Mettono troppa ansia…” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 marzo 2022 Riforma del Csm, le audizioni in Commissione giustizia. I penalisti: “Separazione delle carriere vera risposta alla crisi di consenso delle toghe”. Da una parte l’Anm, dall’altra l’Unione delle Camere Penali, al centro la proposta del Governo di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Uno scontro a distanza, oggi, durante le audizioni convocate dalla Commissione Giustizia della Camera. Se i primi hanno detto no ai tentativi della Cartabia di responsabilizzare maggiormente la magistratura, i secondi hanno tacciato la proposta approvata a Palazzo Chigi di essere ancora troppo debole. “È pericoloso agganciare le valutazioni di professionalità di un magistrato all’andamento successivo degli affari trattati. Come se un’assoluzione in appello dopo una condanna rappresentasse un errore: questo è un luogo comune che si sta pericolosamente diffondendo”, ha detto Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm. “Questo luogo comune - ha proseguito - sta generando molta sfiducia nell’amministrazione della giustizia. Il processo è fatto per accertare la verità. È laborioso e complesso. Bisogna rispettarne tutte le fasi”. Bocciata altresì l’articolazione del giudizio relativo alla capacità di organizzazione del lavoro in discreto, buono o ottimo: “Sul discorso delle pagelle, noi non vogliamo non essere valutati. Però le valutazioni periodiche di professionalità dovrebbero intercettare le lacune, le cadute di professionalità, capire se il magistrato è in grado di tenere il passo assicurato a tutti i cittadini. Non possono diventare un momento in cui si vive una competizione. Se si sganciano da positivo/negativo introducono un’ansia competitiva, perché un voto diverso potrà pesare quando un magistrato vorrà concorrere per un incarico (semi) direttivo”. Santalucia esprime anche il no del “sindacato” delle toghe in merito ad una “eccessiva” separazione delle funzioni: “Distinguere troppo significherebbe isolare il pm all’interno dell’unicità delle carriere”. La vice presidente Anm Alessandra Maddalena ha invece partecipato il no al voto degli avvocati nei consigli giudiziari, stigmatizzando anche la proposta del Pd del voto attraverso un parere del Coa: “Questa soluzione non è in grado di superare il rischio di personalizzazione: i Consigli dell’Ordine sono pur sempre organi elettivi, con maggioranze e minoranze, e il voto potrebbe influire sulla indipendenza e serenità di giudizio del magistrato. Bisogna anche pensare che i distretti non sono tutti uguali: in quelli più grandi il rischio potrebbe essere inferiore, ma in quelli piccoli il rapporto tra magistratura e avvocatura è particolarmente complesso”. Sul tema delle porte girevoli ha parlato il segretario Casciaro: “Il magistrato che, come qualsiasi altro cittadino, aspira ad avere una carica elettiva dovrebbe mantenere il “suo” posto di magistrato e non diventare un dirigente amministrativo all’esito. L’articolo 51 della Costituzione mira a incentivare la partecipazione alle cariche e agli uffici pubblici di tutti i cittadini, indistintamente”, ha proseguito. Il fatto che “chi si candida perda il suo posto di lavoro originario e debba convertirsi ad una attività di amministrazione a mio avviso rappresenta un profilo di criticità”. È arrivato poi il turno di Eriberto Rosso, segretario dell’Ucpi, che si è espresso sugli stessi temi affrontati dall’Anm, a dimostrazione che la partita sta tutta lì: “Il maxiemendamento proposto dal Governo ha certamente un passo diverso rispetto alla delega Bonafede, ma si tratta ancora di una riforma debole, non in grado di risolvere problemi e contraddizioni che meriterebbero risposte ben più incisive. L’intervento sui meccanismi di valutazione della qualità del lavoro del magistrato, ai fini della garanzia della sua preparazione professionale e della sua idoneità al ruolo, restano comunque confinati nella attuale autoreferenzialità. Sarebbe necessario un allargamento della platea dei soggetti legittimati al giudizio e il ricorso a parametri specifici in grado di riconoscere il merito”. A proposito della separazione delle funzioni, “la vera risposta alla evidente crisi di consenso sociale della magistratura - replica Rosso indirettamente anche ai promotori dei referendum Lega e Partito Radicale - è la separazione delle carriere tra i giudici e pm. La proposta di legge di iniziativa popolare dell’Ucpi e dei settantaquattromila cittadini che l’hanno sottoscritta giace in Parlamento ed è la sola riforma in grado di garantire l’effettiva terzietà del giudice. Il prossimo referendum, che pure ha ad oggetto la sola separazione delle funzioni, può comunque rappresentare un chiaro messaggio politico per l’unica legge in grado di attuare i principi del giusto processo”. Inoltre, “gli avvocati nominati nei consigli giudiziari non possono avere solo diritto di tribuna ma a loro deve essere riconosciuto il diritto di voto in relazione a tutte le funzioni connaturate all’esercizio del mandato. Solo una visione preconcetta, come quella che è solita ribadire Anm nelle sue prese di posizione, porta a immaginare l’avvocato come soggetto astioso e incapace di serenità di giudizio proprio con riferimento alle valutazioni dei magistrati del distretto di appartenenza. Gli avvocati sanno ben riconoscere doti di equilibrio e competenze”. Invece le previsioni sui fuori ruolo “sono solo un piccolo passo; l’unica riforma adeguata sarebbe quella che non consentisse più che i magistrati selezionati per l’esercizio della giurisdizione vadano a ricoprire ruoli che rappresentano una evidente commistione tra potere giudiziario e politica”. Infine “i magistrati che scelgono la politica debbono poi essere fuori dalle funzioni giurisdizionali”. Eppure io insisto: no alla Consulta mediatica, diteci dei dissensi interni di Ezio Menzione Il Dubbio, 2 marzo 2022 “La Corte costituzionale ha il dovere di spiegare le sue decisioni”. Questo ha detto il presidente Amato in esordio della sua ben nota e discussa conferenza stampa sulle ultime sentenze della Corte. Facile sarebbe dire che, innanzitutto, la Corte ha il dovere di spiegare le sue decisioni con una motivazione adeguata e celere, cosa che non sempre avviene. Poi si discute della natura dell’esternazione del presidente Amato. Certo, può anche essere esercizio di democrazia, ma in quale cornice si iscrive? Essa si iscrive in un sistema in cui non si sa nemmeno chi fosse favorevole e chi no: in tema di democrazia sarebbe il minimo; poi, un sistema in cui a chi è di parere contrario non è dato stilare una opinione dissenziente, il che sarebbe un ulteriore passo avanti. Se esponenti di altri sistemi democratici strabuzzano gli occhi (ma non è sempre così) quando gli si dice che in Italia i magistrati dovrebbero astenersi dal commentare le proprie decisioni, è perché danno per presupposto ciò che in Italia non è, vale a dire che sia nota e motivata l’opinione dissenziente, almeno nei livelli altissimi delle corti supreme. Anche perché lì i componenti della Corte sono di nomina schiettamente politica. Anche il presidente emerito Coraggio (sul supplemento del Dubbio dell’ultimo lunedì) spalleggia la mossa di Amato sia rivendicando la politicità (sia pure indiretta e consequenziale) dell’attività della Consulta; sia richiamando recenti aperture della Corte verso il mondo civile (i viaggi nelle scuole e nelle carceri, giustamente ben coperti dai media); sia, soprattutto, rilevando come le decisioni della Corte siano da un lato “di ultima istanza” e dunque immodificabili, dall’altro quanto esse vadano a incidere nella vita di tutti, al contrario delle sentenze del giudice ordinario, che riguardano solo i soggetti coinvolti: e fino ad un certo punto è proprio così. Quest’ultimo argomento sembra forte, ma, come si suol dire, “prova troppo”. Infatti, più si constata l’ampiezza e l’incisività delle pronunce di costituzionalità, e più esse devono inserirsi in un dibattito “alto”, invece di essere lasciate alle conferenze stampa recepite sull’onda politico/ emotiva o alle comparsate da Floris. Soprattutto, esse hanno bisogno di trasparenza reale. Insisto: come si è formata la decisione? C’erano dissenzienti? Chi erano? Che argomenti hanno portato? Possiamo leggerli? La pur autorevole esternazione di Amato è stata una difesa politica di una decisione politica. E bene ha fatto il corrispondente Rai a interromperla per un poco, per mandare in onda anche l’opinione politica contraria di Cappato: mi sembra il minimo di un democratico dibattito. Certo quel che ha detto Amato non è stato memorabile, se non per la sua discutibilità. Forse Amato, che credo non esca dalle schiere dell’Azione cattolica, ha avvertito il bisogno di giustificare la decisione sul fine vita in via preventiva, e ciò è comprensibile. Ma appunto ne ha dato una giustificazione politica, senza neppure dirci quali fossero gli schieramenti interni alla Corte sul punto. Operazione astuta, da Dottor Sottile, volta anche a prevenire ciò che sarebbe successo il giorno dopo con altre due decisioni negatorie: il non far decidere gli italiani sui tre referendum che avrebbero maggiormente scosso gli animi, animato il dibattito e riscosso i maggiori consensi, trainando così anche quelli più tecnici e meno interessanti per l’opinione pubblica. Operazione che più politica è difficile immaginare. Ma i miei timori si incentrano soprattutto su un punto: se è dato al presidente della Corte costituzionale giustificare in via preventiva le decisioni, perché non dovrebbe esserlo per ogni altro giudice? Avremmo così assoluzioni o condanne che non si giustificano con ben formulate motivazioni, bensì con conferenze stampa a tambur battente che invocano questa o quella scelta politica. La critica alle sentenze, esercizio fondamentale per la democrazia, diventerà così critica alle conferenze stampa. Con una non lodevole deriva della giustizia verso i talk show. Le campagne che vittimizzano le donne devono iniziare a parlare degli uomini di Rita Rapisardi Il Domani, 2 marzo 2022 “Se resti in silenzio, stimoli il carnefice”. La frase voleva essere un invito alle donne vittime di violenza a denunciare, nei fatti accusa le donne di provocare gli uomini. Me la sono ritrovata davanti, su un poster accompagnato dal volto tumefatto di una donna, in una questura di Torino. In quelle stesse stanze in cui, in effetti, le donne si recano a denunciare. Io stessa, mesi fa, in quella questura, ho accompagnato una cara amica a denunciare l’uomo violento che l’aveva malmenata. Per fortuna quel giorno, il poster non c’era. “Se resti in silenzio, stimoli il carnefice”. Tu donna, se non denunci, “stimoli” il carnefice, “stimoli” l’uomo a picchiarti. Stimolare, dal latino stimulare, sollecitare insistentemente, incitare, spingere a fare qualche cosa. Causa-effetto: se stai zitta, le botte te le devi pur aspettare. Si parla di victim blaming, vittimizzazione della vittima, cioè la donna, vittima, diventa corresponsabile della violenza subita. La campagna è vecchia - approvata qualche anno fa dall’assessorato delle Pari opportunità di Bruino - ma a quanto sembra, non smette di fare danni. È ancora alta la percentuale di donne che non denuncia, molte non parlano con familiari e conoscenti di ciò che subiscono, pochissime si rivolgono a un centro anti violenza. Spesso neanche riconoscono di essere di fronte a un reato, non si espongono per paura, perché poco cambia subito e si rischia la pelle o perché non dipendenti economicamente. E se denunci il violento rischi pure che i figli te li tolgano. Un poster senza i colpevoli - Di comunicazione mal riuscita è piena la storia pubblicitaria, ma tanto si è fatto negli ultimi anni, con attenzione a discriminazioni di vario tipo, razzismo, sessismo e, appunto, alla violenza di genere. Peccato che poi, quelli che i media definiscono gaffe o strafalcioni, continuino a ricalcare tristemente pregiudizi a danno delle donne, come in questo caso. Quel poster ha la colpa di cancellare gli autori delle violenze, cioè gli uomini, concentrandosi sulle donne e le loro mancanze, non denunciare, manca il bersaglio. Chi perpetra violenza. Guardandolo mi è tornato alla mente un altro caso di comunicazione “da polemica”, come titolano i giornali, dopo che sui social, per fortuna, oggi questi casi fanno notizia. “Il valore di un uomo lo vedi nel sorriso della donna che ha accanto”. Letta così, decontestualizzata è difficile capire il tema di questa frase. Un frase talmente maschilista nel suo significato - già nella sua natura - che c’è da chiedersi come sia venuto in mente alla giunta di un piccolo paese del catanese di metterla in una targa commemorativa per le vittime di femminicidio. Qui le donne, che dovrebbero essere al centro, sono cancellate. Soppiantate, e non si capisce il motivo, dal “valore degli uomini”. Forse quando si è pensato di incidere questa frase su di una panchina rossa era un macabro modo per dire che una volta uccise le donne non ridono più. “Esiste la professionalità per raccontare queste cose. In certi ambiti si lavora con creativi specifici. Ad esempio se sono esperto di automotive lavorerò più su quello, se non lo sono evito. Per le campagne a scopo sociale bisogna maturare le competenze per capire che leve andare a toccare”, spiega Ella Marciello, portavoce e direttrice creativa di hella network, un collettivo che si occupa di comunicazione inclusiva, e rappresentazione equa delle donne. “Quel poster è vittimizzazione secondaria della vittima. Marcia su una pornografia del dolore, la tumefazione, il livido, la ferita, per cercare di scatenare l’empatia in chi guarda. Ma la violenza fisica è l’ultimo di una lunga serie di violenze, la prima è quella psicologica. Una cosa del genere respinge, provoca pena e spettacolarizza il dolore”. Hella network su questo ribalta la questione: ha creato alcune campagne sul victim blaming, come Gira la colpa, una ruota della fortuna con le scuse utilizzate per giustificare violenze e soprusi. “Sarà sempre colpa loro”, “aveva la gonna troppo corta”, “era per strada da sola”, “aveva bevuto”, “lei era esasperante”, tutti modi per dire “te la sei cercata!”. Il collettivo ha cercato di rivolgersi anche a chi fa informazione di cronaca nera, luogo che spesso perpetua queste visioni con soluzioni come “vendetta passionale” o “raptus di gelosia” che romanticizzano la violenza. Tentativi maldestri - A non essere esperti, spesso si cade e si vede. Soprattutto quando si cerca di inserirsi nel filone delle commemorazioni o date importanti, in cui ormai è centrale, per aziende, privati, amministrazioni, far vedere di esserci. Posizionamenti dovuti, ma spesso maldestri. E quando si è grandi e conosciuti proprio per avere intuizioni pubblicitarie, a detta di molti geniali, le cadute sono ancora più rovinose. È accaduto a Taffo che, proprio nella Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ha postato un manifesto che in quanto a victim blaming non si risparmia. “Ci sono due tipi di donne”, seguono le opzioni: quelle in bara (con immagine) e “quelle che denunciano”. Insomma, il motivetto medesimo della campagna di sopra. Stessa ricorrenza, nel 2016 il tonfo è della Rai, costretta a ritirare dal video la sua campagna di sensibilizzazione sulla violenza sulle donne. Lo spot mostrava alcuni bambini e i loro desideri: “Da grande vorrei fare la veterinaria, il poliziotto, il maestro di sci, la stilista”. Fino alla bambina bionda sul finale: “Io finirò in ospedale perché mio marito mi picchia”, concludeva in modo glaciale con il viso serio. Più che una sensibilizzazione sul tema - il video si limitava solo alla sequenza descritta - ai molti che hanno protestato, è sembrata una sentenza senza appello. Un futuro obbligato per molte bambine, spogliate della loro libertà e identificate soltanto in quanto donne malmenate. “Queste mosse inficiano il lavoro delle associazioni e dei centri anti violenza”, continua Ella. “Chi non denuncia è la stragrande maggioranza, perché è difficile: c’è lo stigma, ci sono i timori”. Capita anche che la campagna, pensata per combattere il victim blaming, sia poi accusata di commetterlo. È successo nel 2020 al Comune di Ferrara che ha promosso che sembrava proprio giustificare la vittimizzazione secondaria: “Se sei ubriaca sei in parte responsabile dello stupro”, scritto a caratteri cubitali, senza alcuna specifica. Solo la didascalia aggiungeva: “L’assunzione di alcol e droghe ti rende in parte responsabile degli abusi che hai subito. Lo pensa il 15 per cento degli italiani”. Il comune ha rimosso il post. Evitare il disagio - “Il problema è che gran parte delle campagne di questo tipo sono fatte per non toccare mai il nervo scoperto. Sono edulcorate per non mettere mai a disagio. è il loro silenzio sugli uomini contribuisce al silenzio delle donne”, aggiunge Marciello. Come per il poster sopra: dove sono i maschi? Quando illustri questi uomini, la polemica è al contrario, si offende il genere maschile. Quel “not all man”, rinfacciato solo quando si parla di violenza sulle donne, quella (auto)assoluzione per cui, “Sì, c’è la violenza, ma non tutti gli uomini la commettono”. Un pensiero inutile e limitante che non permette di affrontare la discussione senza che sfoci in guerra. Come quando a Cinisello Balsamo, un comune di Milano, una campagna ha messo al centro i padri violenti - illustrati in un fumetto - provocando l’ira della Lega: “Si insulta il ruolo del padre all’interno della famiglia, si dà il cattivo esempio, si accusano milioni di padri a priori”. Chi la commette questa violenza: delle forze oscure, soggetti mai. Ma come rivela Istat, l’85 per cento dei femminicidi sono compiuti da partner, ex partner, mariti e conoscenti. “Il punto è lavorare sulla cultura della violenza, che vede le donne subordinate e oggetto di possesso. La violenza non arriva dal nulla, il mostro non compare all’improvviso - conclude Ella - la violenza è di genere, le donne sono sottoposte a violenza in quanto donne e non esiste una controparte”. Ecco, iniziamo a parlare degli uomini, iniziamo da loro. Campania. Detenuti malati, pochi posti in ospedale e attese per i ricoveri più lunghe della pena di Viviana Lanza Il Riformista, 2 marzo 2022 Il tema della salute in carcere è uno dei più delicati e complessi da affrontare quando si parla di detenuti, di diritti e di sistema penitenziario. In Campania, poi, è un argomento che descrive un’emergenza nell’emergenza. “Tantissimi detenuti attendono di essere ricoverati o per visite specialistiche o per interventi chirurgici. L’attesa a volte è più lunga della pena”, segnala il garante. E così i diritti (quello alla salute è tra l’altro un diritto fondamentale), vengono mortificati. Perché? Questione di numeri, innanzitutto. Ciambriello lo spiega: “In Campania su 6.702 detenuti presenti nelle quindici carceri per adulti ci sono appena 36 posti di degenza nei reparti detentivi degli ospedali. Al Cardarelli, dove sono stato in visita, ci sono 12 posti, e l’altro giorno ridotti a 9 perché una stanza con tre posti è inutilizzabile”. Il problema è anche logistico. “I 36 posti sono dislocati in ogni provincia, tranne che a Benevento dove per volere della direzione sanitaria degli ultimi anni 12 anni, all’ospedale San Pio non ci sono posti riservati ai detenuti - aggiunge Ciambriello, che gira alla politica e alle istituzioni questa domanda - Perché solo così pochi posti per i detenuti negli ospedali campani?”. A ciò si aggiungano le difficoltà per gestire gli spostamenti dei detenuti da un carcere a un ospedale, e da una città all’altra. Il personale della polizia penitenziaria per fare da scorta durante gli spostamenti e i mezzi che sono necessari non sono sempre disponibili. “Nel pieno rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza e della tutela della salute - sottolinea Ciambriello - credo che la nostra società e le nostre istituzioni non siano rispettose dei diritti umani dei detenuti”. In tempo di Covid, poi, la situazione sanitaria all’interno degli istituti di pena è diventata più complessa. L’ondata di contagi registrata nei mesi scorsi è scemata, il numero dei positivi tra la popolazione detenuta è sceso a 116 casi, di cui 21 a Santa Maria Capua Vetere, mentre il numero degli agenti penitenziari contagiati si è ridotto a 71. Resta, tuttavia, il nodo salute in carcere. Per il Garante è urgente e necessaria una riforma sanitaria: “La riforma sanitaria nelle carceri tarda ad avere piena e incondizionata applicazione. Tale diritto - conclude il garante - deve essere riconosciuto conciliabile e non contradditorio con le esigenze di sicurezza. L’irragionevole incertezza e talvolta le gelosie tra l’area sanitaria e le direzioni delle carceri sono un’afflizione aggiuntiva per i detenuti. Ad aggravare tutto ci sono poi gli aumenti dei detenuti con un problema in più, quello mentale e quello delle tossicodipendenze”. E qui il tema della tutela della salute per la popolazione detenuta si lega ad un altro nodo mai risolto, quello della gestione dei detenuti con patologie mentali o tossicodipendenti. Un nodo più volte denunciato anche dagli agenti della penitenziaria, spesso costretti a gestire, senza averne le necessarie competenze, reclusi particolarmente problematici, persone per le quali andrebbe valutato un percorso alternativo e un’assistenza specialistica. Tutto per evitare che il carcere si risolva esclusivamente in restrizioni, privazioni e spesso in mortificazioni dei più elementari diritti. Vicenza. “State attenti, mi sono rovinato la vita. Ma la prigione mi ha cambiato” di Marian Lucchin Il Gazzettino, 2 marzo 2022 L’incontro degli studenti con il giovane detenuto. La lezione è stata inusuale, ma molto interessante per circa 140 studenti delle nove quinte dell’Istituto d’istruzione superiore statale, Liceo e Ite e Ipsia (Alberghiero, Meccanico e Agrario), organizzata e presieduta dai docenti di religione cattolica, Silvana Forte e Paolo Fabris, che avevano preparato in classe l’incontro con alcune lezioni introduttive e di riflessione sull’argomento. I ragazzi hanno incontrato un detenuto del carcere di Vicenza, Sergio, un giovane poco più grande di loro. È stato proprio lui, Sergio, visibilmente emozionato dal momento che era la prima volta che si cimentava nella non facile missione di raccontarsi di fronte a una platea così vasta, a rispondere anche con difficoltà alle domande, in qualche caso non semplici, degli studenti del Mario Rigoni Stern di Asiago. Lunga e toccante la sua testimonianza. Sergio ha raccontato la sua vita, tra scelte sbagliate e cattive compagnie, e a un certo punto ha affermato rivolgendosi ai suoi quasi coetanei: “Non avevo testa, non capivo quanto stavo sbagliando. Per cui state attenti perché quando ci si rende conto dei propri errori potrebbe essere troppo tardi. Per me è stato così, mi sono rovinato la vita, ho perso gran parte della mia giovinezza e ho sconvolto quella della mia famiglia: ma in prigione sono cambiato, è un’esperienza che mi è servita tantissimo e voglio rifarmi una vita nel rispetto delle regole e della legge”. Erano presenti anche Andrea Nicolini, ispettore della Polizia penitenziaria di Vicenza, ed Enrico Mastella, un volontario responsabile del progetto Carcere Sport Insieme di Vicenza. Entrambi hanno introdotto la figura di Sergio raccontando ai ragazzi che affollavano la palestra dell’Iis di Asiago il funzionamento, gli obiettivi e le finalità del carcere in modo da far capire l’importanza di uno Stato che non punisce e non si vendica, ma che cerca di far espiare la pena al fine di rieducare e reinserire nella società, quando possibile, i detenuti in modo che possano rifarsi una vita una volta fuori di prigione. Latina. “Non tutti sanno. La voce dei detenuti di Rebibbia” sabato presentazione del libro di Giovanni Del Giaccio Il Messaggero, 2 marzo 2022 Sarà presentato sabato 5 marzo alle 18, presso la Curia vescovile di Latina, in piazza Paolo VI, il libro “Non tutti sanno. La voce dei detenuti di Rebibbia” (Libreria editrice vaticana). Il testo è a cura di suor Emma Zordan - religiosa delle Adoratrici del Sangue di Cristo - che vive nel capoluogo pontino e da otto anni volontaria nell’istituto romano. Il libro raccoglie le paure e le emozioni dei reclusi durante la pandemia. Parteciperanno all’evento oltre alla curatrice monsignor Mariano Crociata, vescovo della diocesi di Latina-Terracina-Sezze e Priverno, il cardinale Giuseppe Petrocchi arcivescovo de l’Aquila e già vescovo di Latina, Cosimo Rega ex ergastolano e attore. L’incontro sarà moderato dal giornalista vaticanista Roberto Monteforte. Roma. Testimone di Geova e volontaria in carcere: “La diffidenza ci dispiace” di Silvia Mari agenziadire.com, 2 marzo 2022 “È noto che la maggioranza delle persone ha dei pregiudizi su di noi, però io mi concentro su quelle, e non sono poche, che parlano con noi volentieri, che ci stimano, che ci apprezzano”. Anna Paola si definisce una donna libera: “Io sono profondamente convinta che Dio ci abbia creato liberi, al punto di poter sbagliare” e raccontando della sua vita, del suo desiderio di aiutare gli altri scardina, parola dopo parola, una certa immagine stereotipata di chiusura e isolamento che spesso si ha dei testimoni di Geova. Ad entrare in questo difficile aspetto è la direttrice del centro Lirec, Raffaella Di Marzio: “I testimoni di Geova vivono nella società come tutti gli altri. I loro figli frequentano le scuole pubbliche e quindi sono a contatto con persone di tutte le religioni. Lavorano ovunque, non sono un gruppo di persone che vive isolato dalla società, questo è un dato di fatto. È vero, però, che la comunità dei testimoni di Geova ha delle prassi, dei comportamenti che li fa sembrare al pubblico generale, diciamo così, separati dalla società o dal mondo. Ma in realtà qualsiasi comunità religiosa che vuole veramente seguire determinate regole, pratiche, scritte nella Bibbia secondo la loro interpretazione, risulta agli esterni come una comunità strana, ma questo non vuol dire che non siano pienamente inseriti nella società. La loro caratteristica è che vogliono in tutti i modi preservare quello che la Bibbia e Geova insegnano, anche se questo può sembrare alle persone che non credono nella loro fede qualcosa di particolarmente strano o anomalo o addirittura in alcuni casi patologico”. Un messaggio riassunto per i testimoni di Geova nel Vangelo di Giovanni (17,14): ‘Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo’. “Una delle cose più belle che questa scelta di fede mi ha dato è quella di essere nominata ministro di culto per le carceri. Qui a Roma a Rebibbia ci sono tante donne- racconta Anna Paola- hanno bisogno di essere ascoltate. Io ho visto personalmente, davanti alle Scritture, delle detenute alle quali si riempivano gli occhi di lacrime, quando capivano che Dio non le aveva abbandonate, che aveva anzi fiducia in loro, le amava e voleva aiutarle con i suoi insegnamenti a cambiare vita, a essere persone accettate. E alla fine la Bibbia ha un messaggio di speranza e questo dà loro una forte motivazione. Sono profondamente convinta che queste donne si possono aiutare in modo concreto solo se si dà loro di nuovo una certa dignità. È vero che hanno sbagliato, ma è vero che chi ha sbagliato può cambiare. Non ho mai chiesto a una di loro quale reato avesse commesso o quanto durasse la pena. Non è per quello che io sono qui”. Il Centro Lirec da tempo denuncia come i testimoni di Geova siano narrati sui media con una tendenza alla stereotipizzazione, senza un reale approfondimento sulla loro organizzazione. Il termine ‘setta’, un altro aspetto stigmatizzato dal centro che studia le religioni, viene spesso usato a sproposito e anche alcune notizie verrebbero strumentalizzate in questa direzione. Un esempio recente è quello della famiglia pistoiese di testimoni di Geova descritta come no vax, in cui madre, padre e figlia sono morti di covid e su cui il centro Lirec ha diramato una nota ufficiale di smentita. Un’altra storia, di grande fortuna sul web, quella della mamma che non può più vedere le figlie testimoni di Geova dopo aver fatto una trasfusione. “La storia di questa madre che è andata a dire e scrivere ovunque che lei non poteva più vedere le sue figlie- spiega Di Marzio a proposito di una notizia uscita diversi mesi fa- perché aveva dovuto fare una trasfusione di sangue e le sue figlie non volevano più incontrarla né vederla, è girata in una maniera veramente assurda e a un certo punto noi di Lirec siamo riusciti a sentire le due figlie e il motivo per cui invece loro non vedevano più la loro mamma non era la trasfusione”, ma una storia di maltrattamenti familiari perché volevano rimanere testimoni di Geova e la mamma non era d’accordo. “Erano state cacciate di casa ed erano intervenuti i Carabinieri”. Anna Paola la sua scelta di fede l’ha maturata prima attraverso un lungo percorso di studio, “ci ho messo tanto, tre anni. Ma non era uno studio accademico, era un cercare di capire. E nel cercare queste risposte - ricorda - alla fine le ho trovate. È come se un puzzle si componesse, come se tutti i tasselli andassero al loro posto. E così mettermi in discussione mi ha fatto bene, perché ho trovato quello che cercavo veramente e ho anche eliminato tanti condizionamenti che comunque senza saperlo la società ci mette. E poi ho capito che c’era la possibilità di vivere in un mondo più giusto e ho capito anche che era realistico lavorare per questo. Ho capito che la scala dei valori non è orizzontale, è verticale e ho messo a posto le mie priorita’. Io non ho mai conosciuto così bene la gente come da quando parlo con loro di cose profonde, le aiuto e alcune si lasciano supportare e le vedo più felici, ed è una cosa che nessun successo professionale mi avrebbe mai dato. Sono contenta di aver fatto questa scelta”. E a chi pensa che una donna che segue una certa spiritualità manchi qualcosa, sia meno libera, Anna Paola risponde così: “Ero con mio marito in barca a vela, c’era stata una burrasca e stavamo tornando dalla Sardegna. Era finita la burrasca e ci siamo trovati in mezzo al Tirreno: non si vedeva più l’Italia, non si vedeva più la Sardegna. E noi eravamo lì in mezzo con il nitido che c’è dopo le burrasche, il sole, il mare, il silenzio. Un senso di libertà assoluta. Questo perché? Perché sapevamo che in barca avevamo la bussola e la carta nautica, che ci avrebbero permesso di andare dove volevamo andare. Senza di quelli saremmo stati persi. Ecco, due piccoli strumenti ci hanno permesso di essere davvero liberi. Ecco, io questi strumenti li ho trovati nella Bibbia e questo mi dà il senso di libertà. Io ogni giorno sperimento che funzionano e ogni mattina mi alzo e liberamente scelgo di essere testimone di Geova”. “Così la giustizia spettacolo ha trasformato i processi in scontri urlati tra tifoserie” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 2 marzo 2022 L’analisi di Bruti Liberati, ex procuratore di Milano. La “rivoluzione” di Mani Pulite, vera o presunta che fosse, ha avuto tra le sue conseguenze l’ingresso delle telecamere nei palazzi di giustizia. Non che prima non entrassero, ma erano casi rari. Da allora invece divenne prassi quotidiana (successivamente rientrata, almeno parzialmente). Il processo-simbolo di quella stagione, a carico del manager Sergio Cusani, venne trasmesso in diretta tv, le deposizioni dei leader di partito interrogati dal pm Antonio Di Pietro commentate da un esperto del settore insieme al telecronista, come durante una partita di calcio. E i giudici, dopo aver pronunciato il verdetto, si intrattennero sugli effetti di una simile esposizione mediatica. “A giudizio di questo collegio - scrissero nella premessa alle motivazioni della sentenza - i vantaggi si sostanziano nell’aver reso noto in modo immediato a un vasto pubblico i rapporti tra la politica, il mondo economico e gli atti di cattiva amministrazione; gli inconvenienti si riassumono nel rischio che il processo perda agli occhi del pubblico la sua caratteristica di esame approfondito del caso singolo nel rispetto delle forme che garantiscano l’imparzialità del giudizio, per diventare la rappresentazione di uno spettacolo di vita dove hanno libero sfogo le reazioni più immediate e passionali che non è possibile controllare o prevenire”. Non più, quindi, un dibattimento dove accusa e difesa si confrontano davanti al giudice chiamato a verificare l’eventuale responsabilità penale di un singolo imputato per un singolo reato, bensì una sorta di rito collettivo andato oltre il suo significato istituzionale. Effetto negativo che si somma a quello (positivo, secondo i giudici) di svelare al grande pubblico la connessione tra politica, economia e malaffare. Queste considerazioni, che danno conto di quanto pure il tribunale si sentì protagonista dello “spettacolo” andato in scena, sono ricordate da Edmondo Bruti Liberati nel suo nuovo libro “Delitti in prima pagina. La giustizia nella società dell’informazione” (Raffello Cortina Editore, pagg. 276, euro 19,00): un compendio di fatti e riflessioni approfondite e critiche, senza difese corporative da parte dell’ex magistrato (è stato procuratore di Milano fino al 2015) e senza scadere nelle strumentalizzazioni in cui spesso s’inciampa affrontando questo argomento. Nei trent’anni trascorsi da Mani Pulite a oggi, l’evoluzione dei rapporti tra procedimenti penali e pubblicità mass-mediatica ha portato ai processi celebrati in tv prima ancora che nelle aule di giustizia, e alla sovraesposizione delle toghe (soprattutto pubblici ministeri) da cui sono derivate anche carriere politiche (quasi mai luminose). L’ex procuratore analizza tutto questo con occhio critico: “Il protagonismo di taluni magistrati genera effetti perversi a cascata. La comunicazione “urlata” di taluni impedisce approfondimenti su temi delicati come quelli della giustizia e dei processi, suscita per reazione comunicazione altrettanto “urlata” di altri, stimola la stucchevole contrapposizione delle tifoserie dei giustizialisti e dei garantisti”. E di tutto avrebbe bisogno, il dibattito sulla giustizia e sulla sua ordinaria amministrazione, tranne che di tifoserie. Invece è quel che accade. Perché al ruolo sempre maggiore acquisito dalla magistratura, soprattutto a causa della gestione delle emergenze scaricata su di essa dal potere politico (terrorismo, mafia, corruzione e altri fenomeni delinquenziali), ha fatto da contrappeso l’incapacità di quello stesso potere politico di fare i conti con le realtà emerse da giudizi e processi, al di là dei verdetti. Bruti Liberati racconta di altri Paesi dove le classi dirigenti sono in grado di “attivare la responsabilità politica indipendentemente e a prescindere dalla responsabilità penale”, attuando il sano principio di una moralità pubblica con “valori propri e codici deontologici indipendenti”; quelli secondo cui un condannato può restare al suo posto perché la moralità del suo comportamento non risulta compromessa dai reati commessi, e viceversa un assolto debba abbandonare la carica per i motivi opposti. Un traguardo che richiederebbe l’impegno di tutti. Perché, chiosa Bruti, “povera la società che affidi l’etica pubblica alla magistratura penale, ma povera la magistratura che alimenti questa distorsione!”. Informazione. Articolo21, vent’anni dopo di Vincenzo Vita Il Manifesto, 2 marzo 2022 L’associazione Articolo21 ha compiuto vent’anni. Il compleanno è stato lo scorso 27 febbraio, per l’esattezza. Il clima di quei giorni era terribile per la libertà di informazione. Si stava in pieno regime berlusconiano e fioccavano gli editti bulgari. Vittime illustri - da Enzo Biagi, a Michele Santoro, a Daniele Luttazzi, a Renato Parascandolo - furono oggetto di repressione e censura. Il cavaliere di Arcore, re del conflitto di interessi e tragico imperatore del mondo televisivo privato, aveva messo le mani sulla Rai e condizionava parte consistente della carta stampata attraverso il rubinetto pubblicitario. Era, poi, sbarcato Rupert Murdoch in Italia e nell’universo in rapida espansione delle telecomunicazioni le logiche finanziarie prevalevano sulle grandi opportunità tecniche offerte dal boom della rete. Accanto alla rabdomantica intuizione del primo fondatore Beppe Giulietti si appalesò già nelle prime ore un dichiarato liberale che era stato vicino ad Indro Montanelli, Federico Orlando. Ora, da quando lo stesso Giulietti è diventato presidente della federazione della stampa italiana e dopo la scomparsa di Orlando e la malattia di Tommaso Fulfaro, si è costruito un gruppo dirigente largo e capace di aprirsi al territorio. Barbara Scaramucci, Elisa Marincola, Giuliano Montaldo, Paolo Borrometi, Stefano Corradino, Roberto Natale, Antonella Napoli, Graziella Di Mambro, Renato Parascandolo, Angelo Giacobelli sono protagonisti - insieme ad una schiera numerosa di persone appassionate- di un’attività che ha varcato i confini di un pur fondamentale passo della Costituzione, per aprirsi ai temi sociali e alla lotta contro ogni forma di oppressione. Dalla vicenda tragica di Giulio Regeni, alla storia dimenticata di Andrea Rocchelli (a proposito di Ucraina), alle vittime mediali dei regimi, l’impegno civile ha cercato di connettere i diversi punti di osservazione. L’universo comunicativo è sempre meno a sé stante, essendo il motore di nuove agguerrite modalità di egemonia. Purtroppo, negli anni ci hanno lasciato alcuni decisivi soci fondatori: da Roberto Morrione, a Sergio Lepri, a Santo Della Volpe. Ma che eredità. Il ventennale di Articolo21 non è, però, una mera celebrazione. Ciò che va sottolineato, al di là delle belle parole dovute, è l’aspetto forse meno evocato dell’importanza dell’associazione. Il tratto peculiare di quest’ultima, infatti, è l’essere riuscita a tenere vivo il conflitto su argomenti coperti ormai da indifferenza, sottovalutazione e subalternità. Ora più che mai, non certamente meno di quel brutto 2002 di angherie, si respira un torbido clima di ingiustizia, di sopraffazione e di semplificazione autoritaria del pensiero. Il lavoro è talmente precario da sconfinare in una inedita servitù della gleba ritmata dagli algoritmi, il ricorso ossessivo all’arma delle querele per mettere il bavaglio ad un diritto di cronaca ferito pure da recenti provvedimenti normativi di ostacolo al suo esercizio (il decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza) sono la prova di una volontà di spegnere ogni residuo quarto (o quinto) potere. Mentre, se mai, cresce prepotentemente il sesto dei poteri, quello della sorveglianza di massa sotto l’egida dell’intelligenza artificiale. Le organizzazioni criminali e le guerre colpiscono con costanza macabra gli operatori indipendenti. Stupisce, ad esempio, che si siano levate voci astiose contro un corrispondente della Rai - Il puntuale Marc Innaro- reo di aver tentato di storicizzare l’abnorme aggressione russa contro l’Ucraina. Testo e contesto sono facce di un’unica medaglia: il racconto della verità. Aver mantenuti fermi i principi fondamentali costituisce un merito indubbio. Vittorie e sconfitte si colorano diversamente a seconda che rimangano in piedi o meno le soggettività con la loro carica alternativa. Un movimento carsico attraversa l’infosfera e una resistenza affrancata da ogni nostalgia è essenziale. Ecco perché gli auguri ad Articolo21 sono davvero meritati. Vent’anni dopo, per riprendere il titolo celeberrimo di Dumas padre, le ragioni iniziali ci interpellano persino con maggiore urgenza. Se vuoi la pace prepara la pace di Vito Mancuso La Stampa, 2 marzo 2022 “Una giornata di preghiera e digiuno per la pace in Ucraina”: con queste parole Papa Francesco ha invitato “tutti” a un gesto personale di partecipazione e solidarietà. Per i cattolici è logico, visto che oggi è il Mercoledì delle Ceneri quando essi sono già di per sé tenuti “all’astinenza e al digiuno” (canone 1251 del Codice di Diritto Canonico). Ma quale può essere il valore dell’appello per i laici, per i credenti non cattolici e anche per i cattolici “così così” sempre più numerosi? L’obiezione infatti sorge spontanea. A che serve il digiuno? “Si vis pacem, para bellum”, recita il celebre adagio: “Se vuoi la pace, prepara la guerra”. E se invece voglio la guerra? La risposta è scontata: “Si vis bellum, para bellum”. Ne viene che, in ogni caso, che io voglia la pace o la guerra, devo preparare la guerra, non digiunare e pregare. Penso che si spieghino così i 1981 miliardi di dollari della spesa militare globale del 2020, cifra record in progressivo aumento ovunque nel pianeta, grazie a cui peraltro alcuni Stati, tra cui l’Italia, possono oggi aiutare la resistenza ucraina inviando armamenti. Mi sembra di sentire cantare Antoine quand’ero ragazzo: “Se sei bello, ti tirano le pietre, se sei brutto, ti tirano le pietre”. La guerra, come le pietre, è il nostro inesorabile destino? Il Mercoledì delle Ceneri è detto così perché secondo il rito millenario il sacerdote impone della cenere sul capo o sulla fronte dei fedeli e dice: “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai” (le parole di Dio ad Adamo mentre insieme a Eva lo cacciava dal paradiso terrestre, cfr. Genesi 3,19). Ma occorre chiedersi: è proprio quello di cui “oggi” abbiamo bisogno? Dopo oltre due anni di Covid, nel mezzo della guerra di Putin che mette a ferro e fuoco l’Ucraina alludendo esplicitamente alla minaccia nucleare, con tutti i problemi che le sanzioni contro di lui creeranno anche alla nostra economia, è davvero sensato parlare di “preghiera e digiuno”? Non sarebbe più salutare seguire il più sereno consiglio di Lorenzo de’ Medici nei Canti carnascialeschi secondo cui “chi vuol esser lieto, sia”, visto che tanto “di doman non v’è certezza”? Io non amo né il Carnevale né la Quaresima, sono attratto piuttosto dalla pacata regolarità della saggezza classica, anzitutto socratica, la quale non sente il bisogno di eventi o momenti straordinari ma aderisce alla logica modesta e ordinata delle cose nella sobrietà quotidiana, e per questo non ricerca né la crapula né il digiuno. Tuttavia a volte la Storia bussa con incontenibile violenza e la coscienza ne viene sconvolta sentendosi obbligata a prendere posizione, esteriormente e interiormente. Esteriormente lo fa schierandosi contro l’invasore in tutte le possibili forme e sostenendo le vittime con aiuti concreti a livello economico. E interiormente? È mai possibile limitarsi a una dichiarazione, poi magari a una donazione, e alla fine rimanere insensibili o addirittura darsi ai divertimenti come alcuni nostri politici (noti amici di Putin) hanno fatto durante la prima notte di guerra? Io penso che il compito della coscienza moralmente retta sia di rispondere all’appello della Storia generando consapevolezza ed empatia, così da assumere su di sé un po’ del dolore del mondo partecipandovi in prima persona. “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”, ovvero “ricordati che devi morire”. Abbiamo riso tutti alla scena del film di Benigni e Troisi quando i frati di Savonarola li ammonivano proprio con queste parole e Troisi con quella sua indimenticabile timidezza rispondeva: “Mo me lo segno”. Lo sappiamo tutti che dobbiamo morire, l’umanità l’ha sempre saputo; anzi, si può dire che siamo giunti a creare cultura proprio a partire da questa consapevolezza, amara eppure luminosa, che ci distingue da ogni altro vivente. Da qui è nato il primo poema dell’umanità, l’Epopea di Gilgameš, da qui gli antichi greci presero a chiamarsi proprio così, “i mortali”, Platone riassumeva lo scopo della filosofia come “imparare a morire”, Seneca lo ripeteva con insistente dolcezza all’amico Lucilio. Oggi a Kiev e nelle altre città ucraine ci pensano le bombe di Putin a somministrare notte e giorno questo insegnamento filosofico. Quanti sono i civili finora ammazzati? Quanti i soldati ucraini? Quanti i soldati russi? Quanti gli esseri umani ridotti in cenere dalla sanguinosa liturgia del Sommo Sacerdote del Cremlino? Ma se la sapienza insegna a imparare a morire, noi però, nel frattempo, viviamo. Ebbene, che cosa significa vivere da esseri umani qui e ora, in modo da risultare all’altezza di questi giorni che ci ricordano così intensamente il nostro destino? Sostanzialmente due cose: capire e amare. Ognuno di noi è intelligenza e volontà, e, se usate bene, l’intelligenza capisce e la volontà ama. Di conseguenza, vivere da esseri umani significa usare bene l’intelligenza ottenendo conoscenza e usare bene la volontà generando amore. Ieri ricorreva il decimo anniversario della morte di Lucio Dalla, di cui ho avuto la fortuna di essere amico, e mi vengono in mente le parole di una canzone del 1993 scritta durante la guerra balcanica, Henna: “Io credo che il dolore, che è il dolore che ci cambierà”. Il dolore opprime, si sa, ma può anche insegnare. È una consapevolezza antica, Eschilo parlava di una legge istituita da Zeus secondo cui “con il dolore si impara” (Agamennone, 411). Che cosa si impara guardando in faccia il dolore dei viventi? Che oltre alla ragione che logicamente continua a dichiarare “Si vis pacem, para bellum”, c’è in noi un’altra facoltà, spegnendo la quale si cade nel cinismo più cupo e che possiamo chiamare fiducia o solidarietà, la quale replica: “Se vuoi la pace, prepara la pace”. In che modo? Iniziando a diventarla tu stesso. Per questo io penso che abbia senso accogliere l’invito del Papa al digiuno per la pace in Ucraina, a prescindere dalla fede e a prescindere da come lo si pratichi: se rimanendo del tutto senza cibo, o diminuendolo, o mediante altre forme di astinenza. L’importante è assumere su di sé un po’ del dolore del mondo e trasformarlo in conoscenza e in amore. I pacifisti chiamano la piazza: “Neutralità attiva, non armi” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 2 marzo 2022 Kiev non è sola. Sabato manifestazione nazionale a Roma. “Non c’è un più minuto da perdere. Nel momento in cui la guerra uccide e divide, noi dobbiamo lavorare per la pace, per la vita e unire” dice Sergio Bassoli, coordinatore della Rete italiana Pace e disarmo. E così, dopo le tante iniziative contro la guerra dei giorni scorsi, diffuse in decine di piazze del paese, si è deciso di lanciare una manifestazione nazionale a Roma per sabato prossimo, 5 marzo. Si scenderà in piazza in nome dello slogan: “Contro la guerra, cambia la vita. Dai una possibilità alla pace”. Nel tardo pomeriggio di ieri c’è stata la riunione online, convocata per definire i dettagli organizzativi: “Facendo seguito alle mobilitazioni dei giorni scorsi, visto il peggiorare della situazione in Ucraina, l’aggressione militare russa, gli scontri armati nelle città, le colonne di profughi, la sofferenza della popolazione civile, invitiamo tutte le associazioni, i sindacati che hanno partecipato alla manifestazione di Roma e delle altre città”, dicono dalla Rete Pace e disarmo. Dunque, l’appello parte dalle organizzazioni che hanno manifestato a piazza Santi Apostoli sabato scorso: Cgil, Cisl e Uil assieme ad Arci, Anpi, Emergency, Legambiente, Forum Terzo settore. Il corteo partirà dalle 13.30 da piazza della Repubblica per arrivare a piazza San Giovanni. Gli organizzatori condannano senza mezzi termini “l’aggressione e la guerra scatenata dalla Russia in Ucraina”, chiedono “il ‘cessate il fuoco’ e il ritiro delle truppe” e invocano “l’azione delle Nazioni unite per il disarmo e la neutralità attiva”. “Dall’Italia e dall’Europa devono arrivare soluzioni politiche, non aiuti militari - si legge nel testo di convocazione - Protezione, assistenza, diritti alla popolazione di tutta l’Ucraina, senza distinzione di lingua e cultura. Siamo con la società civile, con le lavoratrici e i lavoratori ucraini e russi che si oppongono alla guerra con la nonviolenza”. E infine si schierano contro “l’allargamento della Nato” e favore della “sicurezza condivisa”. Dai promotori arrivano anche forti critiche alla scelta di inviare armamenti sul campo di battaglia, fatta anche dall’Italia. Secondo Francesco Vignarca, della Rete Pace e disarmo, “l’invio di armi non serve alla pace. Questa non è una posizione di etica morale dei pacifisti. È una cosa concreta: inviare le armi, in Libia, in Afghanistan, in Iraq, non è mai servito a migliorare niente. In quel caso addirittura non si trattava nemmeno di eserciti così strutturati. In tutto ciò ci sono problemi logistici: non si sa a chi possono finire in mano. Possono diventare non lo strumento che ferma il conflitto ma che lo alimenta”. Inoltre, sostiene sempre Vignarca, inviare armamenti “è un modo indiretto che l’Europa sta avendo per entrare in un conflitto. Per alcuni forse è anche un modo per lavarsi la coscienza”. La Rete, che oggi partecipa alla giornata di digiuno proposta da papa Bergoglio, si attende molte adesioni e una piazza gremita. “Ci sarà una partecipazione larghissima da tutta Italia - aggiunge Alberti, dell’esecutivo dell’organizzazione pacifista - La richiesta è alla Russia affinché si fermi, ritiri l’esercito. Innanzitutto diamo la nostra solidarietà alla popolazione ucraina e a quella russa che si sta opponendo a Putin”. Per domani, invece, annunciano una manifestazione i giovani ambientalisti di Fridays for future, che raccontano di aver raccolto la paura e il dolore dei loro compagni ucraini. E ieri, mentre il parlamento votava la risoluzione sulla guerra, la rete No War Roma si è riunita davanti a Montecitorio dietro lo striscione “Vostre le guerre, nostri i morti. Né con la Russia né con la Nato”. C’erano anche gli studenti medi del movimento della Lupa. “Siamo in piazza per dire no alla partecipazione del nostro paese alla guerra e all’escalation fomentata dai paesi dell’Unione Europea e dalla Nato”, hanno spiegato gli studenti. Contro le violazioni di Mosca si muove la giustizia penale internazionale di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 2 marzo 2022 La Corte penale internazionale annuncia un’indagine contro l’invasione. Ecco gli strumenti giuridici per sanzionare i russi. Il Prosecutor della Corte Penale Internazionale, Karim Khan (avvocato britannico esperto di diritto penale internazionale), ha annunciato che verrà avviata un’indagine sull’invasione russa ai danni dell’Ucraina il più “rapidamente possibile”. L’Ucraina non ha ratificato lo Statuto di Roma, istitutivo della Corte Penale Internazionale, e per questo motivo non può rimettere i casi alla CPI. “Ma per due volte - rileva Khan - ha esercitato le sue prerogative per accettare la giurisdizione della Corte per presunti reati previsti dallo Statuto di Roma che si sono verificati sul suo territorio. La prima dichiarazione presentata dal governo ucraino che ha accettato la giurisdizione della CPI si riferisce a presunti crimini commessi sul suo territorio dal 21 novembre 2013 al 22 febbraio 2014. La seconda dichiarazione ha esteso questo periodo a tempo indeterminato per presunti crimini commessi sul territorio ucraino dal 20 febbraio 2014 in poi”. La giustizia penale internazionale è, dunque, al lavoro per l’aggressione militare iniziata lo scorso 24 febbraio, data ormai entrata nei libri di storia. “Considerata l’espansione del conflitto negli ultimi giorni - afferma il Prosecutor della CPI -, è mia intenzione indagare anche su eventuali nuovi presunti reati che rientrano nella giurisdizione del mio ufficio, commessi da qualsiasi parte in conflitto e in qualsiasi parte del territorio dell’Ucraina”. La Corte penale internazionale è un organo giurisdizionale indipendente e permanente: processa le persone accusate dei più gravi reati che generano allarme e preoccupazione a livello internazionale, si pensi al genocidio, ai crimini contro l’umanità e ai crimini di guerra. Gli strumenti giuridici per perseguire la Russia possono essere utilizzati in diverse sedi. “Non bisogna dimenticare - dice al Dubbio Marco Predrazzi, ordinario di Diritto internazionale nell’Università di Milano “La Statale” - le reazioni cui la Russia è soggetta in consessi internazionali diversi dalle Nazioni Unite. Ad esempio, il 25 febbraio scorso il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha immediatamente sospeso la Federazione Russa, ai sensi dell’articolo 8 dello Statuto, dai suoi diritti di rappresentanza nello stesso Comitato e nell’Assemblea parlamentare per grave violazione dei principi dello stato di diritto e della tutela dei diritti fondamentali che stanno alla base del vincolo che lega gli Stati membri di questa organizzazione. Si tratta a ragion veduta di sospensione e non di espulsione, il che consente di mantenere a carico della Russia il vincolo a rispettare gli obblighi derivanti dallo Statuto. E non dimentichiamo che a questi si riconnettono quelli discendenti dalla Convenzione europea dei diritti umani”. Altre organizzazioni internazionali potrebbero intervenire o continuare ad intervenire. “Occorre ricordare - aggiunge Pedrazzi - che già ora sono in corso nei confronti della Russia varie procedure davanti a Tribunali e altri organi internazionali relative a presunte violazioni commesse da questo Paese in conseguenza degli eventi prodottisi in Ucraina a partire dal 2014. In particolare vanno ricordati il caso “Ucraina contro Russia”, pendente davanti alla Corte internazionale di giustizia, cui si aggiunge il nuovo ricorso introdotto dall’Ucraina il 26 febbraio, e i numerosi ricorsi di cui è stata investita la Corte europea dei diritti umani. È probabile che ulteriori ricorsi vengano ad aggiungersi a seguito degli ultimi eventi”. Proprio davanti Corte internazionale di giustizia, con sede all’Aja, l’accademico italiano Fausto Pocar è impegnato come giudice ad hoc in una causa promossa dall’Ucraina contro la Federazione Russa su questioni concernenti sia la Crimea che il Donbass. Che può fare il diritto penale internazionale di Daniele Archibugi* Il Manifesto, 2 marzo 2022 È quindi necessario sostenere l’azione del Procuratore Kahn, il quale ha ricordato che qualsiasi dei 123 stati membri della Corte penale internazionale possono rafforzare il suo operato qualora deferissero la guerra in Ucraina alla sua attenzione. Di fronte ad una invasione militare, sembra proprio che le armi del diritto siano spuntate se non addirittura ridicole. Mentre si spara casa per casa, e si mette in stato d’allerta l’arsenale nucleare, ha senso ricordare che l’invasione infrange le norme del diritto internazionale? Eppure, chi non è chiamato a sparare non può far altro che ricercare altri strumenti che siano allo stesso tempo dissuasivi e repressivi. È con questo spirito che il procuratore della Corte penale internazionale (Cpi) Karim A.A. Khan ha deciso di aprire una indagine per presunti crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nel conflitto in Ucraina. La competenza della Cpi, è bene ricordarlo, non riguarda i crimini commessi dagli stati, bensì le responsabilità penali individuali. Sul banco degli imputati, quindi, non ci finirebbe lo stato russo ma gli individui che hanno deciso di combattere la guerra. La stessa Cpi, istituita nel 1998, è stata salutata per la possibilità che offriva di non punire interi popoli per i misfatti compiuti dai propri governi, bensì di calibrare la sanzione nei confronti degli effettivi responsabili. Purtroppo, tutto il discorso sulla giustizia penale internazionale è anch’esso stato viziato dalla legge del più forte. I crimini di guerra sono continuati mentre i processi sono stati pochi, tardivi e selettivi. Alla sbarra e in cella sono finiti una manciata di governanti, e tutti dopo che erano stati ampiamente sconfitti sul campo di battaglia. È quindi lecito chiedersi se in una situazione di guerra serva veramente aprire le indagini penali. La Cpi opera con competenze molto ristrette: né la Russia né l’Ucraina hanno firmato il trattato istitutivo della Corte. Ne è pienamente consapevole Khan che però, visto che l’Ucraina ha già accettato la sua giurisdizione per i precedenti conflitti in Crimea e nel Donbass, ha comunque deciso di aprire l’indagine. Sapere che una indagine è in corso può essere un deterrente: non per evitare il crimine della guerra, ma almeno per limitare i crimini di guerra. L’Ucraina ha già denunciato l’uso da parte dell’Esercito russo di armi vietate dalle norme internazionali, quali le bombe a grappolo e le bombe a vuoto. Non solo, ma i colpi indirizzati nei confronti di obiettivi e della popolazione civile sono crimini di guerra e possono essere denunciati sia la leadership russa che i singoli comandanti militari. Non sappiamo come evolverà il conflitto. Esso potrebbe perdurare e, vista la prossimità culturale e linguistica tra le forze di occupazione e la popolazione locale, la violenza potrebbe degenerare, come è accaduto un quarto di secolo fa nei Balcani. Fu proprio di fronte a quelle atrocità che una comunità internazionale indecisa sul da farsi si lavò la coscienza istituendo il primo tribunale penale internazionale dopo quello di Norimberga, un tribunale che ha continuato ad operare per decenni dopo che finalmente i fucili e i cannoni avevano smesso di sparare. Furono molti a lamentare che, se quel tribunale fosse stato istituito prima, forse sarebbe stato capace di esercitare un minimo di dissuasione. Oggi il tribunale c’è e anche se gli stati più importanti del mondo - Stati uniti, Russia, Cina, India, Israele - non ne fanno parte, lo si può usare come dissuasore. È quindi necessario sostenere l’azione del Procuratore Kahn, il quale ha ricordato che qualsiasi dei 123 stati membri della Cpi possono rafforzare il suo operato qualora deferissero la guerra in Ucraina alla sua attenzione. È una azione concreta che l’Italia - la nazione paladina della Cpi, e che per tale ragione ha ottenuto che il trattato istitutivo fosse firmato proprio a Roma il 17 luglio 1998 - può oggi fare. Meglio ancora se insieme a tutti gli altri membri dell’Unione europea e la Gran Bretagna. Sarebbe un segnale politico che testimonierebbe alle parti che qualsiasi reato compiuto potrà in futuro essere oggetto di procedimento penale. L’ufficio del Procuratore ha reso disponibile un proprio indirizzo email, otp.informationdesk@icc-cpi.int, al quale si possono inviare le segnalazioni relative alle violazioni del diritto di guerra, con tanto di foto dei reparti e dei loro comandanti. È una iniziativa concreta che le organizzazioni non governative dovrebbero immediatamente sfruttare per raccogliere sistematicamente le informazioni sulle atrocità commesse. *Co-autore di “Delitto e castigo nella società globale”, Castelvecchi. Riccardo Noury: “Crimini di guerra, convenzioni violate” di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 marzo 2022 Parla il portavoce di Amnesty International Italia: “I russi hanno usato bombe a grappolo su un asilo a Okhtyrka. Sul kindergarten si è abbattuto un lanciarazzi multiplo Uracan 200 millimetri, che può contenere fino a 16 razzi 9M27K. Dentro ci sono bombe a grappolo 9N210”. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, che tipo di armi sta usando la Russia contro l’Ucraina, convenzionali? Nei primi cinque giorni erano armi convenzionali ma imprecise: mortai, artiglieria varia, razzi non guidati, che mai dovrebbero essere usate in un contesto urbano perché sono talmente imprecise che producono attacchi indiscriminati anche se non necessariamente deliberati. E può capitare che si colpisca un ospedale, come è avvenuto. Il 24 febbraio a Wuhledar per esempio è stato usato un missile balistico privo di guida, un 9M79 Tochka. Ma fin qui erano ancora armi convenzionali. Il 25 invece sono state usate bombe a grappolo su un asilo nella città di Okhtyrka, nell’Ucraina nordorientale, un’arma che è vietata dalla convenzione di Ottawa del 2008. Anche se né Russia né Ucraina sono vincolate, c’è un consenso internazionale enorme sul bando di quelle armi, produzione, stoccaggio, uso e vendita. Abbiamo ricostruito che su quell’asilo è stato usato un lanciarazzi multiplo Uracan 200 millimetri, uno di quelli che vedevamo in viaggio nei giorni scorsi. Questi lanciarazzi possono contenere fino a 16 razzi 9M27K che a loro volta contengono bombe a grappolo del modello 9N210. Come avete fatto a capirlo? Nell’impossibilità di fare ricerca sul campo, ci avvaliamo di due team: uno di verificatori digitali, esperti che analizzano e geolocalizzano le immagini che sono girate sul posto da testimoni, anche con droni, per verificarne l’autenticità completa (giorno, ora e luogo). L’altro team di esperti di armi ricava notizie sull’armamento usato attraverso quelle immagini. Nel caso dell’asilo hanno analizzato le immagini dei resti dei razzi entrati dal tetto e delle bombe esplose nel kindergarten. Lì c’erano le forze russe, queste sono armi in dotazione alle forze russe. E quindi la conclusione è che si è trattato di un crimine di guerra peraltro compiuto con armi non convenzionali. Quali tipi di armi usano invece gli ucraini? Non abbiamo analizzato le armi dell’esercito ucraino ma a giudicare dai danni ricevuti sembrerebbe che non siano attrezzati a sufficienza contro i missili e che non abbiano sufficienti postazioni di artiglieria pesante come mortai, ecc. Oggi (ieri, ndr) i russi hanno colpito un palazzo a Kharkiv senza che si sia stata una grande reazione. Anche se la resistenza militare ucraina via terra è stata maggiore del previsto. È giusto inviare armi all’esercito ucraino? È necessario prendere tutte le precauzioni e valutare tutti i rischi possibili, prima di autorizzare trasferimenti di armi. Perché potrebbe esserci il rischio che quelle armi possano essere usate per commettere gravi violazioni di diritti umani. Avete stime sul numero di vittime civili? Confrontando le fonti del governo ucraino e quelle dell’Onu direi alcune centinaia di sicuro fino a lunedì sera. Anche questa guerra si gioca sul terreno dalla disinformatia, non è la prima. Cosa c’è di particolare? Questa è una guerra che si gioca sui social molto più che in passato. Forse l’unico caso precedente è quello della guerra in Siria, con una propaganda pazzesca sui social che alla fine ha spostato non l’esito del conflitto ma gli orientamenti dell’opinione pubblica. In Bielorussa il referendum che ha permesso di ospitare testate nucleari russe è stato verificato da organizzazioni internazionali? Non mi risulta, anche perché non era possibile senza il consenso di Lukashenka. In Russia le manifestazioni contro la guerra non diminuiscono malgrado la repressione. Cosa succede a chi viene arrestato? Circa 7 mila persone sono state arrestate finora, per loro si prospetta una detenzione amministrativa anche di alcune settimane. La minaccia, che sembra non aver sortito effetto, è stata di una segnalazione sulla fedina penale. Ci sono state anche misure extragiudiziarie: alcuni giornalisti sono già stati espulsi. Minacce e intimidazioni producono una censura anche sui mezzi di informazione. Che accade nelle carceri russe? Il timore è che ci sia molta ostilità nei confronti di persone che possano essere considerate, dal punto di vista morale, traditori. Se si continua così ci sarà anche un problema di sovraffollamento, di condizioni insalubri, di detenzione in carceri non ufficiali e di rischio di maltrattamenti. In generale, abbiamo visto immagini di torture irripetibili, nelle carceri russe. Lei potrebbe dire che da questo punto di vista la Russia e gli Usa si assomigliano? No, non lo direi. A parte Guantanamo, negli Usa il trattamento duro è costituito dall’isolamento, in Russia dal sovraffollamento. Sono sempre trattamenti contrari al diritto internazionale, in Russia però in questi ultimi anni sono emerse torture fisiche anche verificate dagli organismi internazionali, come il Comitato europeo Cpt. Secondo lei questo di Putin è un attacco all’Europa? Il desiderio di ridisegnare l’Europa sotto diverse sfere di influenza mi pare evidente. È un attacco a quell’idea di Europa successiva al 1997 che ha visto una parte dello spazio ex sovietico diventare membro della Nato. E quindi è un po’ anche colpa della Nato? Fino alla sera del 23 febbraio discutere di come eravamo arrivati a questo punto aveva anche un senso. Oggi dobbiamo discutere del punto, non di come ci si è arrivati. “Presto quattro milioni di profughi, la crisi più grande” di Corrado Zunino La Repubblica, 2 marzo 2022 L’allarme dell’Onu. L’Alto commissario Grandi: “Mai visto uno spostamento di persone così rapido”. L’Alto commissario Onu per i rifugiati, l’italiano Filippo Grandi, avverte il Consiglio delle Nazioni Unite: “L’Europa affronterà presto la più grande crisi di profughi di questo secolo”. Il ventunesimo. Alle venti di ieri sera, sesto giorno e sesta notte di guerra, con i conteggi di alcune polizie di frontiera ancora in corso e le file disumane di auto e uomini ai varchi doganali, 677.000 ucraini avevano lasciato il loro Paese. A occidente, verso Sud. E, si scopre adesso, era scappato anche un numero imprecisato di russi residenti in Ucraina. “Stiamo pianificando un’accoglienza per quattro milioni di rifugiati”, ha detto ancora Grandi. “Lavoro da 40 anni sulle crisi umanitarie e raramente ho visto uno spostamento di persone così rapido, il più grande in Europa dalla guerra nei Balcani”. Si è attivata un’altra crisi, tra l’altro: lo spostamento di cittadini ucraini interno. Dal Donbass, da Kharkiv, da Kiev verso la parte occidentale del Paese. L’Alto commissario stima la migrazione interna in un milione di persone tenendo conto che lo sfinimento di un’attesa alla frontiera che può durare 60 ore ha portato diversi fuggitivi a tornare indietro, a Leopoli per esempio. Lo svuotamento di Kiev è di queste ore. “La situazione sta evolvendo così rapidamente che è impossibile per le organizzazioni umanitarie distribuire sistematicamente gli aiuti di cui gli ucraini hanno bisogno”. Oltre la metà dei profughi è entrata in Polonia (377.400, l’ultimo conteggio). I ritmi della prima mattina, ieri, sono stati impressionanti: 12.000 passaggi l’ora dai nove varchi della frontiera ucraino-polacca. Nella fiumana a piedi c’era anche l’attore e regista americano Sean Penn, in fuga da Kiev mentre girava un documentario sulla crisi del Donbass. Il ministro degli Esteri polacco Zbigniew Rau dice: “Da noi arriverà un milione di profughi”. E appare prudente. In Romania gli ingressi sono stati, dice il governo, 47.000, perlopiù da Siret. In Ungheria, ancora dati dell’Alto commissario, 94.000. In Moldavia 40.000. Altri 30.000 ai cinque accessi della Slovacchia. Un pugno di ucraini è migrato verso la Bielorussia. I Paesi dell’Est non sono l’approdo finale: almeno 35.000 profughi hanno già raggiunto Germania, Olanda, Francia, l’Europa del Sud. Il nostro Paese ne attende almeno 900.000, sostiene l’Associazione culturale europea Italia-Ucraina. Quattro volte quelli già residenti. Nell’emergenza la sofferenza più acuta è riservata ai bambini. Con un assedio che non sta risparmiando asili e orfanotrofi, metà delle persone in transito sono sotto i 14 anni. Nell’Est dell’Ucraina 750 scuole sono state chiuse. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, sostiene che serviranno 1,7 miliardi per i prossimi tre mesi. Il virologo della Statale di Milano, Fabrizio Pregliasco, dice invece che l’esodo può far ripartire il Covid negli stati confinanti: “Solo un terzo dei cittadini ucraini è vaccinato”. La guerra in Ucraina e le sue cause: la radice del male è il nostro razzismo di Sergei Lebedev* La Repubblica, 2 marzo 2022 L’analisi storica e psicologica dello scrittore moscovita sulle ragioni di ciò che sta accadendo: “una mentalità razzista post-imperiale inalterata nel tempo allunga le sue radici nella nostra coscienza collettiva e nella nostra cultura”. Ancora una volta, dopo molti anni di guerra congelata, la Russia ha aggredito militarmente l’Ucraina. Il Giorno della Disgrazia. Il più nero della nostra storia. L’attacco, dal quale eravamo stati messi in guardia, è arrivato nondimeno a sorpresa. Di fatto, il veleno dell’ostilità ribolliva da tempo. Molti oggi dicono che l’unico responsabile è il presidente Putin e che i russi sono nell’insieme contrari alla guerra, sebbene abbiano timore a manifestarlo apertamente. Forse una parte considerevole della società è contraria alla guerra, perlopiù per ragionevoli motivazioni di interesse personale. Questo, però, non impedisce di chiederci come questa guerra sia possibile politicamente e psicologicamente. Si palesa la questione del razzismo russo post-imperiale, che era e resta il presupposto di fondo dell’aggressiva politica di Putin, sia all’estero sia a livello interno, e che non sparirà da sola, nemmeno se Putin se ne andasse. La Federazione russa è un Paese razzista. Questo razzismo post-imperiale inalterato nel tempo allunga le sue radici nella nostra coscienza collettiva e nella nostra cultura, nella nostra lingua e nella nostra concezione del mondo, ed è radicato non in uno, non in due, ma in decine di Paesi che formano una gerarchia multi-composita dallo sciovinismo fluido. Alla metà degli anni Novanta e nei primi anni del Duemila, quando la Russia era in guerra con la Cecenia, gli atteggiamenti razzisti presero di mira le persone originarie del Caucaso. Esisteva addirittura una definizione semi-ufficiale: “Persona di nazionalità caucasica”. Era il “volto della nazionalità caucasica” che la propaganda di Stato cercò di trasformare nel volto del nemico, dell’invasore, del terrorista. L’immagine stessa del male. Poi, quando la Cecenia infine è stata occupata, molti lavoratori provenienti dagli stati dell’Asia centrale - Tagikistan, Uzbekistan, Kirghizistan e altri ancora - sono venuti in Russia per cercare lavoro. Si è andata affermando così un’altra immagine razzista, sostenuta dalla cultura popolare: quella dell’uomo “giallo”, asiatico, una creatura sporca di seconda categoria, ignorante ma astuta, che doveva servire padroni bianchi arricchitisi enormemente in poco tempo. I due esempi citati presentano un tipo di razzismo costruito a partire dall’esplicita contrapposizione tra “noi” e “loro”, gli altri, i pericolosi esseri di serie B. Esiste poi un altro tipo di razzismo, quello contro i popoli di Ucraina e Bielorussia. Basato sul modello paternalistico e sull’ethos sovietico della “famiglia delle nazioni”. Ucraini e bielorussi sono considerati vicini, abitanti di nazioni “fraterne”, ma pur sempre collocate su un gradino più in basso di questa gerarchia familiare immaginaria: sono come i russi, ma un po’ più in basso. I russi hanno un livello gerarchico superiore. Uno studio accurato rivelerebbe decine di ulteriori motivazioni razziste diverse nei confronti delle nazioni che costituiscono la Federazione russa. Questo razzismo poliedrico è una conseguenza diretta della storia imperiale russa e della sua politica coloniale. Per settant’anni il sistema sovietico ha postulato “l’amicizia dei popoli” e l’eguaglianza delle nazioni. In verità, vi furono occupazioni e innumerevoli deportazioni; i movimenti per l’indipendenza nazionale furono imbavagliati e messi a tacere, si incoraggiò il collaborazionismo e il rifiuto di un’identità nazionale a favore del “Soviet”. Purtroppo, però, questo strumento repressivo non rimase un carattere peculiare del progetto comunista sovietico. È inverosimile che nella Russia odierna vi sia una percentuale significativa della popolazione smaniosa di riportare in vita l’ideologia comunista. Il razzismo post-imperialista, invece, è vivo e vegeto. La leadership politica russa non considera l’Ucraina protagonista di una sua storia e di un suo destino. Nel suo prolisso discorso pronunciato per giustificare la guerra, Vladimir Putin non ha impartito soltanto una lezione storica non richiesta sull’Ucraina. In linea con la logica imperiale russa, Putin di fatto nega all’Ucraina il diritto di essere la vera Ucraina. E non si parla soltanto di indipendenza dello Stato, ma di nazione in quanto tale. Stiamo parlando di una terribile ricaduta nel razzismo post-imperiale, in virtù del quale sui territori che la Russia considera storicamente “suoi” esistono soltanto nazionalità subordinate e secondarie. Quei Paesi sono trattati con condiscendenza nel migliore dei casi, o soggetti soltanto a ubbidire agli ordini. Il loro destino è scritto da altri. Purtroppo, io credo che questi atteggiamenti mentali siano condivisi consapevolmente o inconsapevolmente, in misura più o meno grande, da una percentuale significativa del popolo della Federazione russa. Perfino nello scenario futuro più ottimistico - la caduta del regime di Vladimir Putin - continuerebbe a esserci una domanda senza risposta: che fare del razzismo post-imperiale? Che farne, visto che permea il senso dello stato dei russi, la politica russa, la vita russa in tal misura e a tal punto da non essere neanche più notato dall’interno? Sarebbe ingenuo pensare che, da sole, l’economia di mercato e le prassi democratiche potrebbero bastare a risolvere una volta per sempre il problema. Dopo tutto, la guerra della Russia contro l’Ucraina è, tra altre cose, il segno del crollo morale e umanitario della cultura russa, di una cultura i cui molti illustri rappresentanti - da Dostoevskij e Bulgakov a Brodskij e Solgenitsyn - furono colpiti anch’essi dal virus dell’imperialismo, dal principio di “superiorità” della lingua russa e dei suoi diritti speciali. Adesso che le parole “russo” e “russi” sono diventate ulcere lebbrose per molti anni a venire, noi russi dovremmo ripensare da zero la nostra cultura, la nostra storia, il nostro sistema politico. Il mondo non ha bisogno soltanto di una Russia senza Putin. Il mondo ha bisogno di una Russia sprovvista per sempre di una coscienza imperiale. Molti dei miei conoscenti e amici russi oggi chiedono perdono agli ucraini. Credo che sia troppo presto per chiedere perdono. Noi, cittadini russi, non abbiamo ancora il diritto di farlo. Lo avremo soltanto quando i criminali di Stato al potere nel nostro Paese saranno assicurati alla giustizia e condannati alla punizione che meritano. Se ciò non accadrà, non ci potrà essere perdono alcuno per noi. *Traduzione di Anna Bissanti Tutto il mondo pagherà il prezzo della guerra di Mario Platero La Repubblica, 2 marzo 2022 Dalle forniture di materie prime ai danni per la crescita, che si stava consolidando dopo i due anni del Covid, dal dilemma della Fed sul rialzo dei tassi alle nuove tensioni geopolitiche. Ecco le conseguenze per l’economia dell’invasione russa in Ucraina. Ci sono tre derivazioni economiche dalla guerra che Vladimir Putin ha scatenato contro l’Ucraina. La prima e immediata e riguarda il potenziale danno al ciclo congiunturale nelle sue varie componenti, catene produttive, commerci, mercati, inflazione - e le ricadute delle forti sanzioni contro Mosca. La Russia pagherà un prezzo duro, dice Joe Biden, ma da questa guerra un prezzo lo pagheremo anche noi. Sono gli indici di Borsa a darci il polso delle conseguenze, ad esempio per la tenuta della crescita proprio quando ci si preparava a un’uscita più solida dal Covid. La seconda è più a lungo termine e riguarda l’impatto di questa guerra e dell’aggressività di Putin sull’impianto geopolitico del post Guerra fredda. Si erano creati i presupposti per un lungo periodo di crescita in un ordine politico e giuridico non privo di tensioni o di crisi finanziarie, ma pur sempre a garanzia di uno sviluppo armonico globale. Ora una conseguenza dell’attacco all’Ucraina e delle sanzioni imposte dall’Occidente anche per i servizi bancari e per alcuni individui sarà l’apertura alla Russia dei forzieri cinesi. Qui il rischio è l’accelerazione di certi fenomeni già in corso, incluso lo strappo cinese verso un regime valutario che dovrebbe essere influenzato dal renminbi e dalle criptovalute a danno del dollaro. La terza derivazione è più subdola e fa da amplificatore a uno dei mali più gravi del nostro tempo, la diffusione di fake news che spesso viaggiano impunite sulla rete. Lo abbiamo visto negli Stati Uniti con la negazione del risultato delle Presidenziali 2020 e con l’attacco al Parlamento del 6 gennaio 2021. Vladimir Putin e la sua Russia hanno fatto di peggio: la giustificazione dell’attacco, ha detto Putin, è il “genocidio di russi” avvenuto per mano degli ucraini. Qui la fake new supera qualunque limite. E ci porta dritti alle fake news che provocano guerra. Non che non sia già accaduto, ma nell’era di Internet l’accelerazione dell’azione-reazione attorno alle fake news è straordinaria. Il finto diventa efficace e utile. Con una conseguenza: non è possibile per un’economia e per sistemi produttivi di mercato operare in un contesto privo di certezze giuridiche o contrattuali dove tutto può essere affidato alla fantasia del bullo di turno, che si chiami Donald Trump o Vladimir Putin. Ma vediamo com’è possibile declinare per ciascuna di queste tre derivazioni di una guerra ingiusta e pericolosa, scenari, ipotesi e possibili problemi. Oggi per avere un maxi-Suv GMC Yukon Denali occorre aspettare fra i cinque e i sette mesi. Il problema: la mancanza di microchip dopo il lockdown da Covid in Malesia dove i chip vengono prodotti. GM aveva annunciato che il problema era stato finalmente risolto e poteva completare circa 80 mila vetture ferme in deposito. Ma oggi saranno altre componenti essenziali a mancare. Anche in Europa. Un esempio: con il 30% del mercato globale, la MC Norilsk Nickel PJSC e il più grande produttore al mondo di palladio, il metallo usato per la produzione di marmitte catalitiche. E senza marmitta l’auto non può uscire sul mercato. La Russia è anche grande esportatore di alluminio e di rame, altri componenti chiave per il settore auto, e nel momento in cui l’esportazione si bloccherà, andrà in crisi la catena dell’offerta per le catene di montaggio. In altri settori, quello agricolo ad esempio, sia Russia che Ucraina sono grandi esportatori e contano per il 29% dell’output globale di grano. Complessivamente l’interscambio russo con il resto del mondo è stato di 785 miliardi di dollari nel 2021, con un vantaggio di circa 200 miliardi per l’export. Le sanzioni dovrebbero eliminare quel surplus. Nel frattempo, il costo dei trasporti di merci, sul Mar Nero, è aumentato fra i 3 e i 5 dollari alla tonnellata. La Germania ha fermato il progetto Nord Stream 2. Il prezzo del petrolio è ormai al di sopra dei 100 dollari al barile, ma non potendo avere quello russo gli aumenti sul mercato continueranno. Tutto questo per dire che alla penuria globale di certi prodotti si accompagnerà la componente inflazione. Cosa che mette pressione sulla Fed già preoccupata da manifestazioni inflattive strutturali: potrà Jerome Powell aumentare i tassi come voleva, rischiando di strangolare l’economia? Qualcuno dice che gli aumenti dei tassi rallenteranno rispetto alle attese e l’inflazione esploderà. Questi sono solo alcuni esempi fra i moltissimi comparti che si trovano nella stessa situazione, cosa che ci dà nel complesso un’idea del danno enorme a cui potremmo trovarci esposti noi stessi, oltre alla Russia. Sbagliato? Controproducente? Rischioso imporre queste sanzioni? Come si diceva, le violazioni della morale internazionale da parte della Russia sul piano della storia sono inaccettabili e occorre dare un segnale forte. Il rischio è che quello che non può uscire dalla porta esca dalla finestra. Putin non punta solo all’Ucraina, dopo la Georgia, la Crimea il Kazakistan e la Bielorussia si aggiungeranno altre nazioni della regione fuori dalla Nato, magari semplicemente intimidite da Mosca. Putin vuole cambiare gli equilibri di potere. E anche se il Pil della regione è molto piccolo, il messaggio politico è forte e destabilizzante. Anche perché Mosca potrebbe commerciare attraverso la Cina e non sembra che la tradizionale extraterritorialità delle leggi americane sarà estesa al di là della Grande Muraglia. Pechino si prepara a sua volta a crescere nel suo ruolo internazionale, farà da sponda fra Mosca e altri Paesi - ad esempio in Sudamerica - per aggirare le sanzioni. È lo scienziato politico Walter Russell Mead a riassumere la sfida che si apre: “Putin vuole scalzare l’America dalla sua posizione globale, spezzare l’ordine emerso nel post Guerra fredda, azzoppare l’Ue e sconfiggere la Nato. La Russia pone una minaccia che l’America non può ignorare”. Infine, le fake news. Putin su questo fronte ha lasciato indietro tutti. Gira su Internet una lista di falsità storiche molto ben costruite dalla propaganda di Mosca. Putin dice che l’America aveva promesso a Gorbaciov che non sarebbe mai arrivata a schierare la Nato in Paesi ex Patto di Varsavia. Falso. Lo ha smentito lo stesso Gorbaciov. In un mondo virtuale dove si fa largo il Metaverso qualcosa di diverso doveva accadere. Con una differenza non da poco: nella guerra di Mosca contro l’Ucraina e il mondo, di solo virtuale purtroppo non c’è nulla.