Detenuti abbandonati e impreparati alla libertà. Il Dap dà indicazioni, ma mancano le risorse di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 marzo 2022 Il fine pena è un traguardo importante, è la riconquista della libertà perduta. Ma usciti fuori dal carcere, se lasciati soli, gli ex detenuti rischiano di ricadere nell’oscurità che li ha portati a delinquere. Per questo motivo è di fondamentale importanza l’assistenza pre e post-dimissioni. Recentemente il Dap, in particolar modo il direttore generale Gianfranco De Gesu, ha inviato una circolare che ha come oggetto il “Trattamento del dimittendo”. Compare anche l’importanza dei Consigli di aiuto sociale, ma il Dap stesso evidenza che attualmente non sono più funzionanti. Nella circolare viene sottolineato che il confronto con l’esterno e la conclusione del periodo di detenzione, rappresentano per ogni detenuto un momento particolarmente delicato: l’idea del cambiamento, lo “spettro” della libertà con i suoi rischi e le sue molte possibilità, rendono la cura delle dimissioni un tassello fondamentale del percorso di inclusione sociale realizzato insieme e a favore del detenuto. Quei “Consigli di aiuto sociale” che, tranne a Palermo, non funzionano - Per questo motivo si richiamano gli adempimenti della Direzione dell’istituto penitenziario in materia di dimissioni del detenuto. L’art. 43 comma 2 dell’ordinamento penitenziario dispone in capo al Direttore l’obbligo di comunicare, almeno tre mesi prima, la data prevista per l’uscita del dimittendo al “Consiglio di aiuto sociale” (ma che, com’è detto, non ci sono; tranne quello istituito a Palermo grazie all’iniziativa di Antonio Balsamo, presidente del tribunale) e al “Centro di servizio sociale” del luogo in cui ha sede l’Istituto, nonché di quello in cui il detenuto intende stabilire la sua residenza, ameno che egli non rappresenti espressamente di non volere che i propri riferimenti sociali vengano a conoscenza del suo stato di detenzione. L’Uepe e i servizi territoriali competenti ed il volontariato, di intesa tra loro, prendono quindi contatto con i familiari presso i quali il condannato o l’internato andrà a stabilirsi, al fine degli opportuni interventi. il programma di trattamento va redatto sei mesi prima delle dimissioni - La circolare del Dap, sottolinea che tra gli adempimenti più importanti, vi è la redazione di un particolare programma di trattamento, per la cui definizione ed esecuzione, la Direzione richiede la collaborazione dei servizi territoriali competenti e del volontariato. Tale programma deve essere redatto possibilmente a partire dai sei mesi prima delle dimissioni: il legislatore ha così inteso favorire, attraverso la costituzione di una équipe, l’analisi delle problematiche relative ai singoli detenuti e delle possibilità offerte per il loro superamento. Infine l’art. 43 dell’ordinamento penitenziario, al comma 4, stabilisce che l’Istituto, su richiesta dell’interessato, dovrà rilasciare, all’atto delle dimissioni o in un momento anche successivo, l’attestazione della qualificazione professionale conseguita nel corso della detenzione, quale credenziale per futuri collocamenti nel mondo del lavoro. Il Dap indica le azioni necessarie da fare per agevolare l’ingresso in libertà - Cosa fare dunque nel concreto? Il Dap, alla luce delle normative vigenti, indica alcune azioni che si ritengono necessarie intraprendere al fine di favorire il più possibile il reingresso nella società libera del soggetto in via di dimissioni. Innanzitutto stilare, a cura del gruppo di osservazione e trattamento, l’elenco dei detenuti in fase di dimissione, da aggiornare mensilmente, affinché vengano attivati nel più breve tempo possibile gli interventi di sostegno alla persona e preparatori alla dimissione dal carcere. Favorire il più possibile i momenti di incontro del detenuto in via di dimissioni con i familiari, autorizzando anche colloqui aggiuntivi a quelli consentiti dall’ordinamento penitenziario (soprattutto se nel nucleo familiare sono presenti minori). Sollecitare l’assistenza del volontariato e il contatto con la comunità esterna. Assicurare, per quanto possibile, un’attività lavorativa, affinché i detenuti indigenti in via di liberazione vengano forniti di risorse anche minime, di cui poter disporre al momento delle dimissioni. Anche l’inserimento di detenuti I dimissione in attività di pubblica utilità - ci tiene a sottolineare il Dap - apre loro una vasta gamma di opportunità per generare un circuito virtuoso. Altra azione fondamentale che indica il Dap è quella di proporre permessi premio anche “ad horas”, per favorire brevi momenti di riappropriazione di spazi di libertà, con particolare riguardo ai detenuti che siano privi di riferimenti familiari e che per tale motivo non abbiano avuto l’opportunità di essere ammessi nel corso della detenzione all’esperienza dei permessi. Importante questa azione consigliata dal Dap, perché afferma la vera finalità dei permessi premio, ovvero che sono volti a preparare gradualmente il detenuto alla libertà. E come abbiamo visto, non è indolore ritrovarsi di punto in bianco catapultati fuori dalle mura carceraria. Vanno previsti momenti di incontro tra operatori e familiari - Altra azione indicata è quella di prevedere momenti di incontro tra gli operatori del carcere e i familiari, individuando un referente al quale i congiunti possano rivolgersi, per la risoluzione di problematiche inerenti l’accoglienza, l’ascolto e l’informazione e a tutte le variabili collegate all’uscita dal carcere (abitazione, documenti, ricerca del lavoro, aspetti legati all’opportunità di un sostegno psicologico sia per i familiari che per gli ex detenuti), ristabilendo in tal modo i contatti con il mondo esterno. Per questo, il Dap invita le direzioni delle carceri e provveditorati, di avviare, congiuntamente con gli Uffici locali di esecuzione penale esterna, collaborazioni con le strutture territoriali (sia istituzionali, sia del privato sociale) per trovare risposte alle esigenze dei detenuti. Ancora. Il Dap chiede di agevolare le richieste di trasferimento, in tempo utile prima della liberazione, in un istituto prossimo al luogo di residenza ‘ salvo che non ostino ragioni contrarie”, consentendo in tal modo che la scarcerazione avvenga nel territorio d’origine, dove sarà più facile il reinserimento nel tessuto sociale. Distribuire all’uscita opuscoli con le informazioni sul mondo libero - Si consiglia, con l’aiuto delle associazioni di volontariato (che già in molte realtà, nel corso degli anni, se ne sono assunte gli oneri), di distribuire opuscoli al momento dell’uscita, contenenti indicazioni dei luoghi dove poter mangiare e dormire, le linee dei mezzi pubblici, gli ospedali, gli sportelli del lavoro, l’indirizzo dell’Ufficio locale di Esecuzione penale esterna della città. Infine, si chiede di avviare percorsi di sostegno psicologico diretti al rafforzamento delle competenze, al riconoscimento delle risorse personali, al superamento dei timori che l’imminente scarcerazione procura, specie in chi non è stato in grado di realizzare in modo pieno e completo il processo di autonomia durante la detenzione. Infine, di vitale importanza, sono i detenuti tossicodipendenti o con problemi psichiatrici. Una tematica delicata. Il Dap sottolinea che in questi casi occorrerà la massima collaborazione tra le Direzioni e le ASL e la creazione di una rete virtuosa tra i due organismi, al fine della tutela della salute del detenuto anche dopo le dimissioni dal carcere. Indicazioni di grande importanza ed emerge particolare attenzione, da parte del Dap, per questa fase delicata della detenzione. Ma di difficile attuazione se mancano ad esempio i Consigli di aiuto sociale, oppure se persiste la problematica della mancanza di lavoro professionalizzante in carcere, o la penuria degli assistenti sociali. In cella ingiustamente e senza risarcimento di Tiziana Maiolo Il Riformista, 29 marzo 2022 Almeno due terzi delle domande di risarcimento per ingiusta detenzione sono respinte: perché ci si è avvalsi della facoltà di non rispondere o per motivi ideologici. Scopriamo così che quelli che finiscono in cella senza aver fatto nulla sono il doppio di quanti ne conta il Ministero della giustizia. Quanti sono ogni anno i cittadini italiani arrestati ingiustamente? Più del doppio di quello che ci dice il ministero e che vengono risarciti dallo Stato. Senza che mai alcuna toga paghi per i propri errori. Ci vorrebbe una scossa, come quella del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, e anche una riforma del codice di procedura penale, sul risarcimento per ingiusta detenzione. L’articolo 314 sancisce che “chiunque è stato prosciolto con sentenza irrevocabile…ha diritto a un’equa riparazione, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”. Questo principio è stato interpretato liberamente nel modo più ampio dai magistrati. Quanti sono ogni anno i cittadini italiani arrestati ingiustamente? Più del doppio di quello che ci dice il ministero e che vengono risarciti dallo Stato. Senza che mai alcuna toga paghi per i propri errori. Ci vorrebbe una scossa, come quella del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, e anche una riforma del codice di procedura penale, sul risarcimento per ingiusta detenzione. Una scossa che dia la sveglia allo stanco rituale per cui ogni anno in primavera per un giorno qualche quotidiano (non tutti, quest’anno pochissimi) ci racconta il carcere degli innocenti, con il numero delle ingiuste detenzioni e le cifre esorbitanti che lo Stato ha versato per mettere una pezza, almeno sul piano economico, sugli errori delle sue toghe. Sui processi sbagliati, sugli innocenti prima sbattuti in galera e poi assolti. Per la cronaca, se quest’anno abbiamo saputo che nel 2021 lo Stato ha dovuto sborsare ben 25 milioni di euro per errori giudiziari e detenzioni ingiuste, lo dobbiamo soltanto a un’interrogazione del deputato Enrico Costa e alla risposta in aula alla Camera della sottosegretaria all’economia Alessandra Sartore. Nel silenzio del Ministero di giustizia, che avrebbe il dovere ogni anno di fornire al Parlamento tutti i dati sull’amministrazione della giustizia entro il 31 gennaio. Ma il tema delle toghe che sbagliano, non sempre in buona fede, è molto spinoso, negli uffici di via Arenula dove ha sede il ministero di Marta Cartabia. Perché il luogo è affollato di magistrati, soprattutto nelle posizioni apicali. Sono la gran parte dei famosi 200 fuori ruolo, cioè distaccati dai tribunali in organi amministrativi. Così ogni anno il rituale si svolge in primavera. E la stessa sottosegretaria del Ministero all’economia, che poi è quello destinato ad aprire i cordoni della borsa, si è lamentata non poco, nell’aula di Montecitorio, per essere stata costretta, il 9 febbraio, a sollecitare ai colleghi della giustizia i dati del 2021, che sono infine arrivati il 22 febbraio. Lentezza o resistenza rispetto a una ferita aperta che la magistratura non vuole neppure vedere? La contraddizione è del resto palese. Se anche nell’anno della pandemia in cui si è arrestato di meno, anche su sollecitazione dello stesso procuratore generale Cesare Salvi, ancora seicento persone (contro le mille degli anni precedenti) sono finite in galera da innocenti, come mai il Csm “assolve” sempre il 99% dei magistrati colpiti da azioni disciplinari? È dunque il fato a mettere erroneamente le manette ai polsi di un numero così impressionante di persone che poi verranno assolte? In particolare nei distretti come quello di Catanzaro dove i blitz di 300 persone vengono poi sconfessati dai giudici? Un vulnus esiste però anche nella legge, e qui occorre chiamare in causa il Parlamento. A volte noi osservatori ci domandiamo se in questa legislatura esistano solo il deputato Enrico Costa e pochi altri a occuparsi di giustizia. Un’occhiata andrebbe data per esempio all’articolo 314 del codice di procedura penale, laddove sancisce che “chiunque è stato prosciolto con sentenza irrevocabile…ha diritto a un’equa riparazione, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”. Questo principio, che comunque andrebbe meglio precisato con un’opportuna riforma, è stato interpretato liberamente nel modo più ampio dai magistrati. Prima di tutto ha consentito alle corti d’appello di bocciare le richieste di riparazione a tutti coloro che, magari nel primo interrogatorio, quando erano ancora sconvolti per l’arresto, si erano avvalsi della facoltà di non rispondere alle domande. Un diritto, appunto. Non un’astuzia (che sarebbe masochistica, oltre a tutto) per dirottare il pubblico ministero nelle indagini. Ma non solo. Ci sono stati casi di persone accusate di reati di terrorismo, come Giulio Petrilli, che aveva subito una lunghissima carcerazione e che due anni fa organizzò anche una manifestazione di protesta e una petizione all’Unione europea, che si sono visti negare l’erogazione del risarcimento per motivi ideologici. Una sorta di giudizio morale sulle sue frequentazioni giovanili. O più di recente il caso di Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega ed ex sottosegretario, che dopo sei mesi di ingiusto carcere preventivo e un enorme danno finanziario, si è visto respingere la richiesta di risarcimento dalla corte d’appello di Genova perché le sue dichiarazioni negli interrogatori sarebbero state “caratterizzate da notevole opacità”. Questi casi sono tantissimi, abbiamo calcolato che almeno i due terzi delle domande vengono rigettate con questo tipo di argomentazioni. Quindi occorre più che raddoppiare i dati del ministero. Una luce è però spuntata alla fine di questo tunnel, fatto di argomentazioni capziose e non disinteressate. Perché ogni magistrato ha il timore che qualche seria riforma della giustizia lo porti a rispondere a qualcuno -che non sia il Csm dei 99 “perdoni” su 100- delle sue azioni, del suo lavoro, delle sue capacità professionali. Stiamo parlando di quella sentenza numero 1684 della quarta sezione penale della cassazione (v. Il Riformista, 23-3-2022) che ha considerato il silenzio dell’indagato non ostativo alla riparazione per ingiusta detenzione, proprio sulla base del decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza. Giurisprudenza destinata a fare scuola o a essere scacciata come un fastidioso moscerino? Il Parlamento si occupa da un quarto di secolo dei bambini in carcere. E non ha risolto nulla di Franco Corleone L’Espresso, 29 marzo 2022 Con scarso impegno e molte tergiversazioni, si parla del problema da più di venti anni. Ma per una riforma che tuteli i minori secondo i principi della Costituzione serve l’abbandono delle norme speciali, o questa vergogna non finirà mai. Lo scandalo continua. È di moda denunciare a proposito e a sproposito detenzioni sine titulo, ma su quella dei bambini piccoli non vi è dubbio alcuno. È ingiusta e disumana e si protrae da troppo tempo incomprensibilmente. Il Parlamento iniziò ad occuparsene un quarto di secolo fa, con scarso impegno e varie tergiversazioni, e con il rischio che la proposta di legge morisse con la fine della legislatura. Proprio per questo sentii l’esigenza di iniziare un digiuno per costringere all’attenzione verso un provvedimento di carattere fortemente simbolico come la liberazione dal carcere dei bambini e delle loro madri detenute. Al tempo ero sottosegretario alla Giustizia e l’iniziativa fece scalpore (Il Foglio la definì “Il paradosso del giusto”). Nel 2001, la legge Finocchiaro fu approvata. Non a caso fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale l’8 marzo e consegnai il testo a San Vittore con una vera festa. Allora i bambini minori di tre anni in carcere erano 83, il picco più alto, le madri erano ben 79. Negli anni successi la media delle presenze si è consolidata intorno alle 50 unità con oscillazioni verso l’alto o il basso. Perché il fenomeno non si azzerò? Il titolo della legge era assai eloquente “Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori”. Nonostante le norme penali e penitenziarie prevedessero la preferenza per una esecuzione della pena fuori dal carcere, la presenza dell’inciso “salve le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza” e, per le definitive, il richiamo ai reati ostativi dell’art. 4bis dell’Ordinamento penitenziario, ha vanificato l’aspirazione della legge. Anche le condizioni di fatto, come la considerazione di un domicilio adeguato (un campo nomadi, nell’ipotesi di donne rom, in alcuni casi non è stato ritenuto tale) blocca la concessione della misura alternativa. Invece di monitorare le ragioni della disapplicazione, il Parlamento approvò nel 2011 una nuova legge, la 62, che oltre ad alzare l’età di possibile permanenza in carcere dei bambini fino a sei anni, prevedeva dei luoghi specifici, gli Istituti a custodia attenuata (Icam). Così si realizzava una forma di paternalismo compassionevole, che manteneva donne e bambini in detenzione, seppur “attenuata”. Erano anche previste “case-famiglia protette”, ma senza oneri per la finanza pubblica: solo nella legge di bilancio 2021 sono state inserite risorse per realizzare queste strutture. Al 28 febbraio 2022 le detenute “con figli al seguito” (dizione usata nella tabella statistica del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), sono 15 e i bambini 16. L’emergenza della pandemia ha prodotto un miracolo, spingendo ad applicare la legge in modo più aperto. Che fare ora? La soluzione limpida è l’abbandono delle norme speciali, per imboccare la via maestra di una riforma del carcere secondo i principi della Costituzione. Le donne in carcere sono solo 2.248 sul totale di 54.372 (circa il 4 per cento) e la maggior parte per reati minori. Fanno parte di quella montagna di “detenzione sociale”, come la definiva Sandro Margara, che affolla le nostre carceri (pressoché tutta la detenzione, se si eccettuano 10 mila carcerati nel circuito dell’alta sicurezza e 741 nel 41bis). E che richiede di superare le pulsioni punitive e correzionaliste per immaginare invece percorsi di sperimentazione sociale fondati sui diritti e la soggettività. Una questione di piccoli numeri ma di illuminante qualità, come quella delle donne “con figli a seguito”, può aprire nuovi scenari. Liberiamo subito tutti i bambini. È possibile. Non sono numeri, sono persone. O devo iniziare un nuovo digiuno? La riforma contro i bambini in carcere c’è, ma i Cinque stelle la frenano da anni di Susanna Turco L’Espresso, 29 marzo 2022 Con la proposta di legge targata Pd, le madri condannate sconterebbero la pena nelle case-famiglia. Ma il ddl Siani, che ha il consenso anche di Fdi, è fermo da tre anni per le perplessità dei grillini. Tentativi di dialogo, riapertura dei termini per gli emendamenti, sottolineatura della necessità di un iter spedito, riunioni anche coi tecnici del ministero per rassicurare i perplessi. Così, a cinque settimane dall’appello della ministra Marta Cartabia, la commissione Giustizia della Camera sta cominciando a dare blandi segnali di una volontà concreta: “Mai più bambini in carcere”, aveva detto la Guardasigilli il 18 febbraio, nel corso di un’audizione alla commissione Infanzia. Un obiettivo concretamente raggiungibile, tutto nelle mani del Parlamento. Giace infatti dal 2019 in commissione Giustizia una proposta di legge, a prima firma il pediatra e deputato del Pd Paolo Siani (fratello del giornalista Giancarlo, assassinato dalla camorra nel 1985) che ha proprio come fine regolativo quello di far sì che i bambini non debbano più crescere dietro le sbarre. Nemmeno dietro a quelle degli Icam, gli Istituti a custodia attenuata per le detenute madri introdotti dieci anni fa, con una legge che ha rivelato profili problematici che questa proposta dem vorrebbe appunto sanare. Il testo della legge Siani punta a superare, di fatto, gli Icam e individua nelle case famiglia il luogo naturale di destinazione delle madri, considerando invece gli istituti a custodia attenuata l’estrema ratio per i casi più delicati, quelli in cui sussista un “pericolo rilevante”. La stessa proposta di legge prevede che debba essere il ministero a individuare le strutture adatte: in Italia al momento ce ne sono infatti solo due, a Roma e a Milano (con un emendamento alla finanziaria, sempre a firma Siani, che è capogruppo della commissione Infanzia, sono stati introdotti finanziamenti da distribuire ai Comuni per rafforzare questa rete). Si prevede inoltre - ed è forse uno degli snodi più delicati - il divieto assoluto di applicazione del regime carcerario per le donne incinte o conviventi con figli fino a 3 anni (attualmente è uno) e si prevede che il differimento della pena possa essere applicato in presenza di bambini tra i 3 e i 6 anni: si lascia infatti in questi casi che a prevalere sia comunque l’interesse del minore. Proprio il timore che, attraverso le maglie di un principio giusto, passi invece la possibilità - ad esempio - di liberare donne accusate di reati mafiosi, o consenta loro di fatto di mantenere vivi i legami associativi, è alla base dei dubbi più volte avanzati dai Cinque stelle. Il Movimento è l’unico partito ad avere espresso contrarietà: nemmeno da Fratelli d’Italia, principale opposizione, è arrivata infatti ostilità. Quello dei grillini, che pure hanno sinora bloccato la legge, non è un no assoluto: proprio in questi giorni sono in programma riunioni informali, anche con i tecnici di via Arenula, sugli emendamenti da presentare in commissione, per superare i dubbi ed arrivare ad una condivisione che sbloccherebbe l’iter della legge arenata ormai da tre anni. Csm, Cartabia fa muro sul sorteggio. Ancora braccio di ferro sulla riforma di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2022 Cartabia fa muro sul sorteggio e chiede mani libere sui fuori ruolo. Si è svolto ieri, e proseguirà anche oggi, il vertice fra la ministra e le forze di maggioranza. Al centro della discussione i punti critici della riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, cristallizzati in oltre 250 emendamenti sui quali la commissione Giustizia della Camera a breve dovrà iniziare a votare, anche perché il testo che sarebbe dovuto approdare ieri in Aula è già slittato di due settimane, all’11 aprile. Molto più in là sarà però difficile andare visto che l’approvazione finale dovrebbe comunque arrivare entro maggio: incombe infatti, a luglio, la scadenza per il rinnovo del Consiglio superiore della magistratura e, se vi si vorrà arrivare, come tutti ritengono necessario, con un nuovo sistema elettorale, questo avrà bisogno di un lavoro non banale di messa a punto (la definizione dei collegi elettorali, per esempio, già contestata nel parere votato pochi giorni fa dal Csm come suscettibile di abusi da parte del ministero). Ieri Cartabia ha tenuto il punto su uno degli elementi più caldi, quello del sorteggio, sia pure in forma temperata. Di fronte a Italia Viva, spalleggiata da Forza Italia, che ha ribadito la volontà di portare al voto della commissione la proposta di introduzione di forme di sorteggio nella selezione delle candidature per il Consiglio superiore, la ministra ne ha fatto una questione di principio, sottolineando il rischio di incostituzionalità e anticipando il parere negativo del ministero all’emendamento sul punto. Accesa è stata anche la discussione sul tema dei fuori ruolo, dove forte è la spinta dei partiti, capofila Enrico Costa di Azione, per arrivare a forme di limitazione del numero dei magistrati chiamati a incarichi estranei alla giurisdizione, sui limiti di tempo al loro impiego, sul contenimento delle remunerazioni. Un accordo è stato invece trovato su altri punti e su altri emendamenti. Via libera così all’introduzione di un illecito disciplinare specifico per sanzionare il consigliere del Csm colpevole di una sorta di “traffico di influenze” con il magistrato interessato all’avanzamento in carriera o all’attribuzione di funzioni direttive e semidirettive. Come pure passi avanti sono stati fatti sul fronte delle “pagelle” ai magistrati, dove l’indicazione condivisa è per una valutazione di professionalità meno burocratica, svolta non più a campione sui provvedimenti ascrivibili alla singola toga, ma prendendo in considerazione la totalità del lavoro fatto (con il problema però dell’esame del lavoro svolto in forma collegiale). Passa anche un ritocco alla sanzione disciplinare per il magistrato che trasgredisce la nuova disciplina sulla presunzione d’innocenza, in particolare per il mancato rispetto dei limiti alle comunicazioni. La sanzione, peraltro già prevista nell’attuale versione dell’ordinamento giudiziario, potrà essere inflitta, ma solo nel rispetto del principio di offensività, solo quando cioè le dichiarazioni rese dal pubblico ministero hanno contribuito a ledere i diritti dell’indagato. Nel nuovo incontro in programma oggi sarà affrontato invece il tema dei tempi e dei modi delle candidature in politica dei magistrati e delle forme del loro rientro una volta concluso l’incarico politico. Con la questione della definizione del perimetro dei magistrati interessati, includendo o no quelli incardinati in ruoli tecnici all’interno delle pubbliche amministrazioni (Governo o enti locali). Riforma Csm, la maggioranza si spacca: Lega e Iv chiedono modifiche. Scontro Ferri-Cartabia di Liana Milella La Repubblica, 29 marzo 2022 Il deputato di Italia viva, e tuttora magistrato, che era all’hotel Champagne con Luca Palamara, alla Guardasigilli: “Sul sorteggio se ne faccia una ragione”. E lei: “Non mi gioco la faccia su una norma incostituzionale”. Oggi nuovo vertice di maggioranza alla Camera. Cosimo Maria Ferri contro Marta Cartabia. Lui alla Guardasigilli: “Se lei è contraria al sorteggio ce ne faremo una ragione”. Lei: “Non posso mettere la mia faccia e la mia storia su una norma incostituzionale, sulla quale ci possono essere anche dei problemi in sede di promulgazione”. Il che vuol dire che Sergio Mattarella, il capo dello Stato e del Csm - e che è stato giudice alla Consulta insieme alla Cartabia - non firmerà una riforma in cui si prevede il sorteggio come legge elettorale per scegliere i togati del futuro Consiglio. Tensione massima, in via Arenula, durante le tre ore di vertice sulla giustizia e sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura. A cui - ed è davvero singolare e del tutto inopportuno che sia così - partecipa anche il deputato Cosimo Maria Ferri, che fa parte anche della commissione Giustizia, e che puntualmente prende la parola a nome di Italia viva alla Camera quando si parla di riforme e di giudici. Ma stavolta eccolo anche al tavolo delle trattative per cambiare le regole del Csm in chiave anti correnti. Proprio lui che delle correnti è maestro e dominus, quale esponente di spicco da sempre del gruppo di Magistratura indipendente. Ruolo lasciato solo per diventare sottosegretario alla Giustizia in ben tre governi - Letta, Renzi e Gentiloni - e poi parlamentare prima del Pd e poi renziano. Ma non basta. Perché proprio lo stesso Ferri è tuttora sotto processo disciplinare al Csm per la cena all’hotel Champagne dell’8 maggio 2019 in cui lui, Luca Palamara e il Dem Luca Lotti spingevano per far vincere il posto di procuratore di Roma al Pg di Firenze Marcello Viola contro gli altri candidati, Franco Lo Voi e Giuseppe Creazzo. E Viola, il 23 maggio, con 5 voti fu indicato anche dalla quinta commissione. La vicenda disciplinare di Ferri (che non è mai stato sotto inchiesta a Perugia) è andata per le lunghe per la controversia sull’uso delle sue intercettazioni su cui la Camera ha negato il via libera. Ebbene, a trattare sulla legge che Mattarella chiede sia contro le correnti, c’è proprio Ferri. Che fa la voce grossa contro Marta Cartabia. Si affronta ancora una volta la questione della futura legge elettorale. Cartabia annuncia possibili miglioramenti al suo maggioritario binominale, ma arriva lo stop di tutto il centrodestra e di Italia viva che pretendono solo il sorteggio temperato, prima si sorteggiano i candidati e poi si vota su questi. Da Cartabia arriva un deciso niet. Ma Lega, Forza Italia, Italia viva e Azione sono per il sorteggio. E Ferri diventa il paladino del sorteggio contro Cartabia e le dice: “Se lei è contraria, ce ne faremo una ragione”. L’incontro finisce bruscamente e, un’ora dopo, è Federico D’Incà, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, a scrivere ai partecipanti un secco sms: “Buonasera a tutti. Dopo l’incontro avvenuto oggi, convocherei per domani alle 11 e 30 una riunione di maggioranza sulla delega del Csm in sala Tatarella al quinto piano dei gruppi”. Gelido quanto basta, dopo un incontro che non poteva andare peggio di così. Perché si capisce sin da subito che Lega e Italia viva si sono alleati. Tocca a Eugenio Saitta, relatore della riforma con il Dem Walter Verini, e capogruppo in commissione Giustizia per M5S, porre una pregiudiziale. Saitta vuole sapere “se tutti siamo d’accordo sul fatto che gli accordi raggiunti alla Camera varranno anche al Senato, visto che l’obiettivo di questa legge è quello di consentire la futura elezione del nuovo Csm”. Csm che scade a luglio. Pd e M5S - che alla Camera conta l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede e Giulia Sarti, la responsabile Giustizia scelta da Giuseppe Conte - sono d’accordo per votarla in tempo. Concordando un testo che passi identico sia alla Camera che al Senato. E qui la maggioranza si spacca. Perché la Lega e Italia viva dichiarano che l’accordo può valere solo per la Camera, mentre al Senato è un’altra storia, vogliono piena libertà di voto. Un Senato dove non solo c’è lo stesso Renzi, ma la presidenza della commissione Giustizia è nelle mani del leghista Andrea Ostellari. Pd e M5S protestano, mentre crescono i dubbi su una Lega che in realtà voglia giocare soprattutto la partita dei referendum sulla giustizia - i cinque ammessi dalla Consulta - tenendosi le mani libere sulla riforma del Csm. A sentire Giulia Bongiorno, la responsabile Giustizia del partito di Salvini, i fatti non stanno così. Lei ribadisce che “se il testo della riforma resta com’è adesso, non cambia nulla al Csm”. Tant’è che la Lega si batte per un emendamento tranchant, e cioè una sanzione disciplinare contro i membri del Csm che trafficano con le nomine. Ed è ferma sul sorteggio, proprio come Forza Italia, tant’è che nel corso dell’incontro il capogruppo alla Camera Pierantonio Zanettin dice che la scelta di questo sistema elettorale arriva direttamente da Berlusconi. Quindi sono esclusi compromessi. Ma a questo punto il tavolo della trattativa si blocca. Cartabia offre un compromesso a M5S sull’illecito disciplinare sulla presunzione d’innocenza, che scatterà solo in presenza di “un comportamento idoneo a ledere i diritti dell’indagato”. Ma è lite con Enrico Costa di Azione sui magistrati fuori ruolo. Lui accusa: “Non è possibile che a decidere le norme siano i magistrati fuori ruolo alla Giustizia”. E chiede di ridurre da 10 a 5 anni il periodo in cui restare fuori ruolo. Cartabia invece chiede piena libertà di delega sulla questione. Su cui Costa e il centrodestra non sono d’accordo. Alla fine è il Pd a porre una pregiudiziale con Verini: “Se non siete d’accordo su niente, allora non facciamo niente”. E qui la riunione si chiude. Si complica la trattativa sul Csm, i partiti insistono sul sorteggio di Valentina Stella Il Dubbio, 29 marzo 2022 Ferri (Italia Viva) sfida Cartabia: “La norma non è incostituzionale, la metteremo ai voti” FI e Azione d’accordo. Come Turri (Lega) che avverte: “No a un esame finto in Senato”. Una fonte parlamentare confessa che “siamo ancora in alto mare”: quindi ci sarà ancora da lavorare dopo i colloqui con i partiti. Si è affrontato il nodo della legge elettorale per il rinnovo del Csm. Il governo sarebbe pronto a rivedere la proposta ma non allargando a ipotesi ritenute incostituzionali come il sorteggio temperato. Forza Italia, con il capogruppo in commissione Pierantonio Zanettin, tira dritto e va avanti invece con la selezione casuale dei candidabili: “Da parte nostra nessun passo indietro”. Sulla stessa scia il deputato di Italia Viva Cosimo Ferri, che ha discusso in modo animato con Cartabia e che ci dice: “Noi non ritiriamo ma anzi porremo in votazione l’emendamento sul sorteggio. La ministra ha ribadito che è incostituzionale. Però 2000 magistrati nel referendum dell’Anm si sono espressi a favore di tale sistema. E anche esperti di dottrina lo ritengono costituzionale, quindi mi pare ingeneroso da parte della ministra liquidarlo in maniera così secca. E poi il sistema proposto dal governo è farraginoso e sembra scritto dalle correnti per rafforzare il loro potere”. Roberto Turri, capogruppo del Carroccio in commissione, è stato a propria volta chiaro sul tema: “Apprezziamo l’impegno della ministra nella ricerca di una sintesi, dimostrato dalle fitte riunioni di queste ore, ma per noi”, ha avvertito, “vale quanto detto all’inizio dal premier Draghi e dalla stessa guardasigilli: siamo aperti al contributo del Parlamento. Bene, dal nostro punto di vista significa che anche per i senatori esiste un diritto a un esame vero della riforma, e che non possono essere cancellate dal tavolo questioni come il sorteggio temperato, soluzione per noi necessaria e di cui non condividiamo il giudizio d’incostituzionalità”. La Lega, insieme ad Italia Viva, ha fatto sapere dunque che non garantiscono per la discussione in Senato. Come vi abbiamo raccontato, nella prima riunione con Cartabia, mercoledì scorso, il governo aveva chiesto di allargare la discussione anche ai capigruppo Giustizia del Senato per anticipare eventuali osservazioni critiche e andare lisci a Palazzo Madama. Ma evidentemente non sarà così. E questa posizione potrebbe trasformarsi in un vero “problema politico” all’interno della maggioranza, ha detto per esempio il capogruppo M5S in commissione, Eugenio Saitta. Polemica anche sui magistrati fuori ruolo: la ministra avrebbe chiesto una delega molto ampia, quasi una “delega in bianco” sul loro riassetto, ci racconta un parlamentare. Tuttavia Azione, Lega, IV ma anche 5S si sono opposti e hanno chiesto “criteri più stringenti, più dettagliati per limitare il potere della delega”. Inoltre un altro deputato di Iv, Catello Vitiello, ci informa che la guardasigilli ha fornito una indicazione per la riformulazione dell’emendamento del governo relativo alla presunzione di innocenza, che va nel senso di specificare che l’illecito disciplinare scatterà quando ci sarà una lesione effettiva di questo diritto dell’indagato. “La preoccupazione è che ci sia una sorta di passo indietro da parte della ministra, forse anche a causa delle forti polemiche uscite dal plenum del Csm”, commenta il parlamentare. Insoddisfatto della riunione anche il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa: “Vedo una barriera formata dal Partito democratico, come in un campo di calcio, volta a intercettare e respingere ogni tentativo di innovazione e spinta riformista. Spero che l’arbitro non si metta in barriera con loro”. Insomma, volendo rimanere nella metafora calcistica, la partita si fa sempre più difficile e le posizioni invece di avvicinarsi sembrano allontanarsi. I prossimi giorni saranno decisivi. Su carriere e sistema di voto noi toghe chiediamo riforme radicali di Giuseppe Cascini* Il Dubbio, 29 marzo 2022 Il dibattito sulle riforme in materia di giustizia viene sovente rappresentato, nella narrazione prevalente, in termini di scontro tra magistratura e politica. Non fa eccezione la vicenda relativa al progetto di riforma del Csm, rispetto al quale il parere recentemente approvato dal Consiglio viene rappresentato in termini di “veto”, di “bocciatura”, di contrarietà della magistratura ad ogni possibile riforma. Nulla di più lontano dal vero. Nel parere del Consiglio, reso in quello spirito di leale collaborazione che ha sempre caratterizzato l’approccio del Csm, si possono leggere apprezzamenti per alcune delle proposte della Ministra - che peraltro hanno anche recepito alcune indicazioni provenienti dal Consiglio - rilievi critici su alcuni aspetti e anche indicazioni e suggerimenti su possibili ulteriori interventi. Un approccio che con evidenza non corrisponde alla rappresentazione di una “bocciatura” o di una pregiudiziale contrarietà ad ogni ipotesi di cambiamento. Allo stesso modo non corrisponde alla realtà la rappresentazione di una spaccatura del Consiglio sul parere, in particolare tra la componente laica e quella togata. La componente laica ha fornito un rilevante contributo alla elaborazione del parere sia nella fase dei lavori della Commissione, che ha approvato la proposta all’unanimità, sia nella fase del dibattito al Plenum, nel corso del quale sono stati approvati numerosi emendamenti, anche proposti dai componenti laici, e con il loro voto favorevole. È anche vero che in sede di votazione finale i componenti laici, salvo alcune astensioni, hanno espresso voto contrario. Ma mi permetto, molto sommessamente, di dire che questo voto ha probabilmente risentito più del dibattito esterno sul tema che degli esiti della discussione interna al Consiglio. Sulla riforma della legge elettorale del Consiglio mi pare rilevante segnalare che nel parere è stato inserito, su iniziativa del prof. Donati e con una votazione a larghissima maggioranza, un apprezzamento per la scelta della Ministra di escludere qualsiasi ipotesi di sorteggio come strumento di selezione dell’elettorato passivo, considerato in contrasto con il chiaro disposto dell’articolo 104 della Costituzione. Inoltre è stata ribadita la assoluta necessità di una riforma della legge elettorale dei componenti del Consiglio, considerando quella vigente una delle cause di quelle distorsioni del funzionamento del governo autonomo che di recente sono emerse in tutta la loro gravità. A riprova della piena consapevolezza da parte del Consiglio della necessità di interventi di riforma. Quanto al meccanismo elettorale proposto dalla Ministra, sono state formulate alcune osservazioni di ordine tecnico ed è stata avanzata una proposta correttiva, che senza modificare l’impianto, sembrava a quelli di noi che l’hanno formulata più rispondente agli obiettivi perseguiti con la riforma. Il pericolo delle degenerazioni correntiste deriva soprattutto dall’eccessivo potere che l’attuale legge elettorale attribuisce di fatto agli organismi dirigenti dei gruppi associativi nella selezione degli eletti. Con il meccanismo maggioritario plurinominale oggi vigente, infatti, i gruppi sono indotti a presentare un numero di candidati pari al numero che presumono di eleggere per poi concentrare i voti su quei candidati. In questo modo il numero dei candidati finisce per essere sempre di poco superiore, quando non addirittura pari, al numero dei posti disponibili e gli elettori, anche quelli che aderiscono ai gruppi, hanno un potere di scelta assai limitato. Questo pericolo rischia di riprodursi anche con il meccanismo dei collegi binominali proposto dalla Ministra. Inoltre, l’accentuato carattere maggioritario del sistema rischia di escludere la possibilità di una rappresentanza per i gruppi minori e di rendere impossibile la elezione di candidati che non siano espressione dei gruppi. Per questo abbiamo proposto, con un emendamento approvato a maggioranza, di estendere a tutti i tredici seggi del collegio di merito il meccanismo elettorale previsto dalla proposta solo per cinque seggi. In questo modo risulterebbero comunque eletti i più votati in ogni collegio, ma a fronte di un numero di candidati almeno quattro volte superiore, quindi con una ben maggiore possibilità di scelta per gli elettori e rilevanti possibilità di garantire l’elezione di candidati indipendenti e di candidati di genere diverso. Sulle modifiche in tema di carriera dei magistrati, il parere contiene numerosi apprezzamenti per alcune delle proposte avanzate dalla Ministra, molte delle quali recepiscono indicazioni provenienti dal Consiglio. Proprio nella condivisione della necessità di interventi forti e radicali su questo tema, abbiamo proposto alcune modifiche ancora più incisive, quali la effettiva temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi e l’obbligo per i dirigenti di completare l’incarico per l’intero periodo di otto anni prima di presentare domanda per un nuovo incarico. Nella stessa direzione si muovono anche alcuni rilievi critici contenuti nel parere in merito ad alcuni aspetti della proposta di riforma che rischiano, a nostro avviso, di accentuare impropriamente gli aspetti verticistici e gerarchici della organizzazione degli uffici. Questo punto della proposta è stato approvato a larga maggioranza dal Plenum, con ampia condivisione da parte della componente laica e la contrarietà solo dei rappresentanti di un gruppo associativo. Nel parere, inoltre, sono stati espressi rilievi critici anche sulla estensione degli illeciti disciplinari per i magistrati del pubblico ministero per le violazioni delle disposizioni introdotte con la riforma del 2021 in tema di presunzione di innocenza. Il Consiglio Superiore ha sempre dimostrato grande attenzione al tema della comunicazione sulle indagini giudiziarie e della necessità di tutela dei diritti delle persone coinvolte, come indagati o come parti, nei procedimenti penali, adottando specifiche linee guida sull’argomento. E, personalmente, ho sempre sostenuto la necessità di una particolare prudenza e misura da parte dei magistrati nella comunicazione sulle indagini giudiziarie. Ma l’illecito proposto, per la sua eccessiva ampiezza e genericità, rischia di entrare in conflitto con il principio di determinatezza degli illeciti disciplinari e di trasferire impropriamente in sede di sindacato disciplinare valutazioni di mera opportunità, esponendo i magistrati del pubblico ministero ad un eccessivo rischio disciplinare. Una più netta divisione tra componente laica e componente togata vi è stata invece sul tema del contributo degli avvocati alle valutazioni di professionalità. E di ciò io personalmente mi dolgo. Su questo tema, come è noto, vi sono sensibilità diverse all’interno della magistratura, ma le critiche tecniche al meccanismo previsto dalla proposta erano ampiamente condivise, anche dalla componente laica, almeno nella prima fase della discussione sul parere. La mia personale opinione sul tema, solo in parte presente nel parere, è che il contributo della avvocatura nel procedimento di valutazione di professionalità sarebbe particolarmente utile e prezioso e lo sarebbe di più se venissero effettivamente utilizzati gli strumenti informativi che la legge già prevede in capo all’avvocatura. Non deve, però, a mio avviso, tradursi in un giudizio valutativo, in quanto questo rischia di inquinare le (e/ o essere inquinato dalle) dinamiche relazionali connesse alle funzioni svolte. Per questo, a mio avviso, il contributo degli avvocati deve essere sì incrementato e rafforzato, ma sul versante della comunicazione di elementi di fatto rilevanti per la valutazione, non attraverso un giudizio, peraltro espresso in modo unitario dall’organismo rappresentativo. Del resto questa è la mia opinione anche con riferimento al ruolo degli altri attori del procedimento di valutazione, in quanto sono convinto che sia da evitare anche il giudizio valutativo del dirigente dell’ufficio, che rischia di accentuare impropriamente aspetti di dipendenza gerarchica negli uffici, o il giudizio valutativo di altre componenti, quali il personale amministrativo o i magistrati di altri uffici. Mentre a tutti gli attori del procedimento dovrebbe essere richiesto, direi anzi imposto, di fornire elementi di fatto utili per la valutazione. Ciò perché la verifica periodica di professionalità non serve ad attribuire giudizi o valutazioni di merito, ma a verificare la persistente idoneità del magistrato a svolgere le funzioni. Anche per questo alcuni degli interventi su questo tema mi sembrano il frutto di quello spirito di propaganda che da troppi anni è la causa principale delle difficoltà di un dialogo costruttivo sulla giustizia. *Consigliere togato del Csm La gelosia non è una licenza per uccidere di Valeria Valente* La Stampa, 29 marzo 2022 Nell’ottobre 2019 Antonio Gozzini, 81 anni, uccide con 20 coltellate la moglie Cristina Maiolo, insegnante in pensione di 62 anni, dopo averla stordita con un mattarello nel sonno. In primo grado la Procura di Brescia chiede l’ergastolo, ma la Corte d’Assise assolve l’imputato perché ritenuto infermo di mente, affetto da delirio di gelosia. Le perizie psichiatriche dei consulenti, sia della difesa che del giudice, infatti, avevano convenuto che l’uomo, pur non avendo mai mostrato prima segni di gelosia, non fosse in grado in intendere e di volere al momento del femminicidio, perché, affetto da gelosia patologica. La sentenza, già all’epoca, aveva suscitato indignazione nell’opinione pubblica e in particolare tra le associazioni femminili e femministe. Nella motivazione, tra l’altro, la stessa Corte di Assise aveva mostrato di preoccuparsi di costituire un pericoloso precedente, pur affermando il prevalente “principio di civiltà secondo il quale non può esservi punizione laddove l’infermità mentale abbia obnubilato nell’autore del delitto la capacità di comprendere il significato del proprio comportamento”. Il femmicida, reo confesso, veniva così assolto e ricoverato in una Rems perché ritenuto socialmente pericoloso. Nel processo di appello, il Procuratore generale di Brescia è tornato a chiedere 21 anni di reclusione, ma la Corte d’Assise di Appello ha confermato in questi giorni l’assoluzione, ritenendo l’uomo infermo di mente al momento dell’uxoricidio in quanto affetto da gelosia patologica. Perché tutto questo è doppiamente pericoloso? Perché deve indurci a riflettere e a rabbrividire? A mio avviso per due buoni motivi: perché sta rientrando dalla finestra ciò che nel femminicidio era finalmente uscito dalla porta: la scusante della gelosia patologica. E perché in questo modo si assiste a una sorta di medicalizzazione del processo, che sposta la valutazione del reato dal piano giuridico, proprio dello stato di diritto, a quello sanitario. Mi spiego meglio. È bene ricordare che non è un caso che l’articolo 90 del codice penale espressamente dispone che “gli stati emotivi o passionali non escludono, né diminuiscono, l’imputabilità”. Questo significa che la gelosia, sentimento passionale, non può essere un motivo per scagionare un uomo che ammazza una donna. Altrimenti si tornerebbe al delitto passionale e ogni marito che si ritenga geloso potrebbe pensare di essere autorizzato a uccidere la consorte, sapendo di poterla fare franca. Ben diversa è l’ipotesi in cui quella condizione abbia determinato uno stato psichiatrico tale da escludere totalmente la capacità di intendere e di volere, anche temporanea, del reo. E qui veniamo al rischio che intravedo: che la decisione sia interamente determinata dalle consulenze tecniche o perizie. La preoccupazione è che il giudizio sulla responsabilità penale per la morte di una persona, per l’uccisione della propria compagna o moglie sia demandato integralmente alle sole valutazioni extragiuridiche di alcuni psichiatri. Se il magistrato fonda la sua decisione sulle sole perizie psichiatriche penso che sostanzialmente abdichi al suo ruolo di giudice, di peritus peritorum e che il processo venga medicalizzato. Tradotto significa che da oggi in poi ogni avvocato difensore di un femminicida, anche se reo confesso, potrà invocare questa sentenza come precedente e, sulla base di una consulenza psichiatrica che ritenga la gelosia patologica causa di infermità mentale, possa fare scagionare l’assassino. È ciò che succedeva anche con la cosiddetta Sindrome di alienazione parentale (Pas) a cui ricorrevano ormai sistematicamente i difensori dei padri nei casi di affido dei figli nelle cause di separazione, anche in presenza di violenza domestica, per togliere i figli alle madri, fino a quando la recentissima sentenza della Cassazione sul caso di Laura Massaro ha imposto uno stop. È per questo che confidiamo nell’impugnazione della decisione da parte della Procura Generale di Brescia, perché riteniamo che anche in questo caso i giudici di legittimità della Corte di Cassazione sapranno riaffermare un principio cardine del nostro ordinamento giuridico: la decisione è del giudice, anche quando deve trovare fondamento su dati ed accertamenti di natura scientifica. Non è accettabile che un uomo geloso patologico abbia licenza di uccidere. Altrimenti le donne torneranno a essere uccise da compagni, fidanzati, mariti potendo contare su tesi e interpretazioni che sono soltanto il prodotto della cultura patriarcale. *Senatrice Pd e presidente della Commissione Femminicidio ‘Ndrangheta, il pentito della super cosca accusa lo stato: “Mia figlia in mano al clan” di Giovanni Tizian e Nello Trocchia Il Domani, 29 marzo 2022 Ha scelto di collaborare con la giustizia, di denunciare persino i familiari affiliati, ma lo hanno lasciato senza figlia. È stata affidata alla madre che però non ha tagliato il cordone con la ‘ndrangheta. “O mi fate fare il padre oppure mollo tutto”, dice Emanuele Mancuso, rampollo dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta, la più potente della Calabria, con ramificazioni in tutto il mondo e interlocutrice alla pari con i cartelli della droga del sud America. Una vita nell’ombra del padre, Pantaleone, detto l’ingegnere, e nipote di Luigi, detto il Supremo. Emanuele, però, ha deciso di collaborare con la giustizia da quando, quattro anni fa, ha saputo che sarebbe diventato padre. Dal carcere, proprio durante la gravidanza della compagna Vera Chimirri, ha deciso di iniziare il percorso di collaborazione con i magistrati. È il primo pentito dei Mancuso, cosca in grado di operare in tutto il mondo e finita sotto processo nell’inchiesta della procura di Catanzaro ribattezzata “Rinascita Scott”. Eppure la sua collaborazione è a rischio, sottoposta a un cortocircuito amministrativo e giudiziario che chiama in causa assistenti sociali e tribunale di minori, e rischia di respingere il rampollo nelle braccia della famiglia di origine. Un’ipotesi che inquirenti e magistrati vogliono scongiurare, ma che racconta errori e sviste nella gestione dell’affido della figlia minore. La compagna mai pentita - Emanuele Mancuso ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha sollecitato la pubblica opinione attraverso i giornali per rendere pubblica la sua storia. La compagna, Chimirri, è sotto processo per reati gravi, accusata di essere contigua al clan Mancuso. Non si è mai pentita eppure vive in località protetta, dorme con la figlia che è stata affidata ai servizi sociali. Il tribunale dei minori di Roma ha stabilito una limitazione della genitorialità tenendo conto del conflitto tra padre e madre. Un conflitto insanabile perché il primo ha scelto di recidere i rapporti con la cosca, mentre l’altra resterebbe ancorata all’ambiente criminale. Contro il provvedimento del tribunale, Mancuso ha presentato un ricorso che sarà discusso a metà aprile. Il paradosso è che mentre Chimirri convive con la bambina in una casa famiglia, il padre è costretto a vederla solo un’ora a settimana quando non sopraggiungono impegni di giustizia. In diverse occasioni, quando ci sono udienze o altre incombenze, il collaboratore ha chiesto più volte di trovare una finestra di disponibilità alternativa, ma senza esito. Insomma non c’è solo il provvedimento limitativo della genitorialità disposto dal tribunale dei minori, ma anche la modalità con cui i servizi sociali calendarizzano gli incontri. Il caso presenta però anche altre anomalie: la vicinanza geografica tra il luogo dove ha trascorso la latitanza il padre del pentito, il boss Pantaleone Mancuso, e il posto dove vive in località protetta l’ex compagna di Mancuso. Segnali che preoccupano il collaboratore di giustizia, insieme alla notizia che la donna si sarebbe resa protagonista di un furto nel luogo segreto dove si trova sotto protezione. “Quando riesco a vedere mia figlia devo incontrarla in locali fatiscenti che non mi consentono di costruire un rapporto, una relazione con lei, tutto questo è inaccettabile”, dice Mancuso. Per il collaboratore la figlia rappresenta la nuova vita lontano dalla ‘ndrangheta, non essendo più sodale e custode dei segreti del clan. “Non avevo una dote (grado di affiliazione, ndr) di ‘ndrangheta, la mia specializzazione era informatica, giravo con le valigette, portavo comunicazioni, bonificavo i posti dalle microspie. I Mancuso sono come un’istituzione, siamo un modello di vita. Mi rapportavo con agenti infedeli, con politici locali, lì lo stato non è il comune, ma la cosca”, racconta. Il piano per farlo smettere - I familiari hanno tentato in ogni modo di fargli cambiare idea, la collaborazione nelle cosche è sinonimo di “infamità”, è “disonorevole”. “Mi avevano dato i nomi di due avvocati, dovevo fingermi pazzo, prendere soldi e andare all’estero per aprirmi un bar, mia figlia viene utilizzata per raggiungere questo scopo, ma non ci sono riusciti e non ci riusciranno”, dice. Le pressioni sul pentito hanno portato anche alcune condannate in primo grado. Come nel caso della stessa compagna, Vera Chimirri, che, oltre ad essere coinvolta in procedimenti penali dove emergono i rapporti con i Mancuso, è stata condannata a quattro anni per aver tentato di far desistere l’ex compagno dalla collaborazione. L’indagine racconta il potere della famiglia fuori e dentro il carcere. Il fratello del pentito era venuto a conoscenza dell’intenzione di Emanuele Mancuso di pentirsi. Mentre si trovava in carcere Mancuso viene “avvisato” da un altro detenuto, la conversazione è annotata in una relazione dei poliziotti carcerari: “Chi bue tamburru, cane... vi ma ti ricogli sennò fai la fine i latri (che vuoi pecorone, cane...vedi di tornare indietro altrimenti fai la fine degli altri)”. All’interno del carcere il giovane Mancuso percepiva l’ostilità. Lo stesso detenuto che gli aveva dato del “cane”, gli ha detto: “Cuè che ti dice mu parri? U cumpari Nicola (chi ti dice di parlare? Il compare Nicola?)”. Il riferimento è al magistrato Nicola Gratteri, nemico numero uno delle cosche di Vibo Valentia. Il tentativo di dissuadere Mancuso dalla collaborazione si è scontrato con la determinazione dello stesso ragazzo, nonostante gli avessero fatto capire che non avrebbe più visto la figlia. Mancuso ha resistito, ora vuole solo fare il papà e aiutare la giustizia a mettere alla sbarra i padroni della Calabria. Dopo un colloquio con la procura è stato disposto un avvicinamento al luogo dove vive la figlia con l’ex compagna, in attesa delle decisioni del tribunale. Questi fatti avvengono in una terra che, dal 2012, si era distinta per un protocollo rivoluzionario adottato dal tribunale dei minori di Reggio Calabria, all’epoca guidato dal presidente Roberto Di Bella. Il progetto si chiamava “Liberi di scegliere”. I minorenni che passavano dal tribunale, condannati per estorsione, minacce, tentati omicidi, una volta scontata la condanna non cambiavano strada ma continuavano la scalata dell’organizzazione criminale. La ‘ndrangheta è una mafia fondata sui legami familiari, fin da piccoli i bambini vengono indottrinati con le regole e i codici della famiglia criminale. Gli esempi sono innumerevoli: un ragazzo della provincia di Reggio Calabria ha raccontato ai magistrati che era stato costretto ad assistere alla riunione sui traffici di droga e che era stato usato come copertura per le consegne. Un altro aveva ricevuto l’ordine dal padre di uccidere la madre, anche lei diventata collaboratrice di giustizia. Per spezzare la trasmissione dei valori criminali, il magistrato Di Bella aveva intrapreso un percorso che portava all’allontanamento dei minorenni dalle famiglie mafiose. Così facendo molte madri avevano iniziato a fidarsi del tribunale. Anno dopo anno, in numero sempre maggiore, le donne dei clan hanno bussato alla porta di Di Bella per chiedere di essere portate via dall’ambiente familiare. Una rivoluzione per un sistema impenetrabile come quello ‘ndranghetista. Quel protocollo ora viene applicato anche in Sicilia e Campania, ma manca una legge che le associazioni chiedono da moltissimo tempo. La deputata del M5s, Danila Nesci, ha presentato nei giorni scorsi una proposta di legge alla ministra Marta Cartabia per trasformare il protocollo nato a Reggio in una norma nazionale. Non sarebbe un cambiamento di poco conto: perché funzioni il meccanismo servono risorse e non può essere lasciato tutto in mano al volontariato e alla buona volontà di chi decide di accogliere chi scappa dalla mafia. Roma. Taser ai vigili urbani? Perché il sindaco Gualtieri deve impedirlo di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2022 Alcuni giorni fa il Consiglio comunale di Roma ha approvato una mozione presentata dalla Lista Calenda e da Fratelli d’Italia per dotare anche i vigili urbani capitolini della pistola Taser, che da metà marzo ha già cominciato a essere distribuita a polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza in 18 città italiane (Roma compresa). Il Taser è una pistola a impulsi elettrici capace di immobilizzare temporaneamente il destinatario dell’elettroshock. Come altre volte è accaduto, l’Italia copia sulle politiche di sicurezza gli Stati Uniti d’America, dove la pistola elettrica è in dotazione alla polizia sin dal 2000. Alcuni anni fa un’inchiesta dell’agenzia giornalistica Reuters, che esaminò centinaia di certificati autoptici, mostrò come il Taser sia tutt’altro che innocuo: tra il 2000 e il 2017 più di mille persone hanno trovato la morte dopo essere stati storditi dalla scossa elettrica. Non è facile capire esattamente il ruolo giocato dal Taser nel decesso, ma oltre 150 autopsie lo citavano esplicitamente quale causa unica o concausa della morte. Presumibilmente i numeri sono ben più alti. La stessa azienda produttrice, la Taser International Incorporation, riconosce un rischio dello 0,25%. Ogni 400 persone, una rischia di morire. Se l’effetto è legato a patologie neurologiche o cardiache pregresse, è evidente come queste non siano individuabili al momento dell’intervento. Dopo aver dibattuto per quasi un secolo sull’utilizzo dell’elettroshock in psichiatria, diamo adesso al singolo poliziotto la possibilità di improvvisarne la somministrazione fuori da qualsiasi base scientifica. Ancora leggendo i dati dell’inchiesta Reuters, troviamo che una su quattro delle persone decedute soffriva di un disturbo mentale o neurologico. In nove episodi su dieci la vittima era disarmata, a dimostrazione di come il fatto di avere l’arma a disposizione induca a utilizzarla anche al di là dello stretto necessario per la difesa. Pochi giorni fa, nel quartiere romano di Tor Bella Monaca, alcuni poliziotti, freschi dell’aver ricevuto la pistola Taser nella loro dotazione, l’hanno utilizzata contro un uomo destinatario di un’ordinanza cautelare per motivi di droga, il quale al loro ingresso nella sua abitazione aveva iniziato a tagliarsi per protesta con un coltellino. Un comportamento evidentemente disturbato e non particolarmente pericoloso, visto che l’uomo era solo con la giovane fidanzata mentre i poliziotti erano diversi. È evidente come la pistola Taser non vada a sostituire nella prassi di polizia un’arma più letale quale la pistola ordinaria, bensì armi meno offensive quali il manganello o addirittura l’intervento di immobilizzazione a mani nude, cui i poliziotti si presume siano addestrati. Si poteva e si doveva evitare la dotazione del Taser a tutte le forze di polizia. Ma sicuramente, ancor più, ci sono due ambiti dove il Taser non deve assolutamente sconfinare: la polizia penitenziaria e la polizia municipale. Quanto alla prima, non c’è organismo internazionale che non vieti l’uso delle armi in carcere. Ancor più dopo aver visto le immagini di Santa Maria Capua Vetere, sappiamo quanto sia importante che il carcere non sia un luogo conflittuale e violento. La finalità costituzionale della pena deve puntare a un carcere nel quale si respiri un clima sereno, con un trattamento penitenziario volto al recupero sociale. Servono istruzione, formazione, operatori sociali, educatori. Gli operatori penitenziari hanno dimostrato di avere grandissime professionalità e di saper gestire i conflitti con il dialogo, senza aver bisogno di quelle scariche elettriche che non farebbero altro che alimentare le tensioni. Quanto ai vigili urbani, ancor più dobbiamo evitare che si trasformino nell’ennesimo corpo di polizia armato. Essi non devono avere funzioni di ordine pubblico, essendo nati ed essendo stati addestrati con altre finalità. Quando, già nel 2018, si volle allargare la sperimentazione del Taser alla polizia locale delle città con oltre 100.000 abitanti, Antigone scrisse ai sindaci dei grandi comuni italiani proponendo un ordine del giorno volto a non aderire alla sperimentazione. L’ordine del giorno fu al tempo approvato a Bergamo, Palermo, a Torino e a Milano. Ci auguriamo che anche a Roma il sindaco Gualtieri sappia riconoscere i danni che provocherebbe l’attuare la mozione votata dal Consiglio. *Coordinatrice associazione Antigone Airola (Bn). Il magistrato Maresca e il garante Ciambriello incontrano i giovani detenuti di Alessandro Fallarino ottopagine.it, 29 marzo 2022 “Il lavoro delle associazioni che aiutano i giovani con problemi di devianze e che troppo spesso delinquono è fondamentale, ma il vero motore con il compito di trainare le giovani generazioni verso una vita giusta deve essere lo Stato”. Non ha dubbi Catello Maresca, magistrato, che questa mattina, accompagnato dal Garante dei detenuti per la Regione Campania, Samuele Ciambriello, ha incontrato, ad Airola, prima gli studenti del Liceo Lombardi, poi i giovani detenuti dell’Istituto penale minorile della città Caudina. Il magistrato, accolto dalla direttrice del carcere minorile, Marianna Adanti, si è soffermato con i detenuti con i quali ha scambiato opinioni e parlato a lungo. Un dibattito interessante e a tratti vivace. Il magistrato partenopeo, oggi consigliere comunale a Napoli, si è confrontato con i giovani che stanno scontando pene, anche per reati gravi. “Il dottor Maresca è un magistrato che giustamente manda in carcere i delinquenti ma non tutti sanno della sua sensibilità per questi ragazzi, per gli adolescenti che vivono un disagio e una devianza. Li aiuta grazie alla sua associazione Arti e Mestieri, che ha lo scopo di avvicinare i giovani al mondo del lavoro” ha rimarcato il garante Samuele Ciambriello che ha introdotto i lavori. “Non è sempre semplice parlare a questi adolescenti a metà, responsabili di reati gravi che hanno la morte nel cuore. Bisogna ripartire da loro, parlarci, aiutarli e capire il perchè di questo disagio”. Ciambriello ha poi snocciolato i numeri dei giovani protagonisti di quelle che inizialmente possono sembrare semplici devianze ma che troppo spesso si trasformano in reati: “Napoli ha 172mila minori. In Italia 13.652 giovani sono stati fermati, accompagnati dai genitori o in strutture come queste. Il 47 per cento, 6.500 ragazzi erano campani. Cosa facciamo per questi giovani? Come evitare di passare dal disagio alla criminalità?”. Mancanza di interesse per ciò che li circonda potrebbe rappresentare una prima risposta: “Il 62 per cento di questi giovani napoletani non fa mai sport e il 32 per cento non usa abitualmente internet. Partiamo da queste esigenze reali, dal presente per cercare di impedire loro di avere un futuro difficile”. Importante, dunque, aiutare i giovani a non delinquere, ma aiutarli anche dopo aver scontato una pena affinché non finiscano nuovamente nel buio della criminalità. “Bisogna tendere loro la mano non solo nelle strutture ma soprattutto fuori” ha infatti rimarcato più volte il dottore Maresca. “C’è l’esigenza di accompagnarli, come farebbe un genitore attento durante il percorso di vita e specialmente quando questi giovani tornano nel loro territorio”. Tante sono le iniziative messe in campo negli istituti penali minorili che aiutano i detenuti ad intraprendere un nuovo percorso di vita. “Serve però che lo Stato faccia di più all’esterno, quando questi giovani escono dal carcere” ha rimarcato il magistrato che ha poi aggiunto: “Il percorso rieducativo comincia qui ma deve continuare anche dopo, quando i giovani devono rientrare a far parte nella società civile. Il rispetto delle regole restituisce un futuro migliore, ma questo messaggio deve essere riempito di contenuti”. Bisogna prevenire questo tipo di soluzioni e non solo intervenire dopo. Questo si potrebbe fare riducendo la dispersione scolastica: “Un problema reale soprattutto in certi quartieri di Napoli dove il fenomeno sfiora il 33 per cento. Bisogna intercettare i ragazzi che lasciano la scuola quartiere per quartiere, casa per casa e indirizzarli ad un diverso equilibrio di vita e per fare ciò servono educatori, assistenti sociali ed altre figure che lo Stato deve mettere a disposizione. Milano. Un pedofilo “in cura” ogni cinque giorni: due recidivi (su 331 utenti) di Marianna Vazzana Il Giorno, 29 marzo 2022 Sono 186 i “nuovi accessi” al percorso rieducativo trattamentale per stalker, maltrattanti e autori di violenze sessuali nel 2021. Ventiquattro per pedopornografia e 47 per violenza sessuale su minori: uno ogni 5 giorni, su un totale di 331 utenti seguiti in totale dal Cipm, Centro italiano per la promozione della mediazione presieduto da Paolo Giulini, criminologo clinico e docente dell’Università Cattolica. Un trattamento con psicologi psicoterapeuti e criminologi clinici al quale fino a qualche giorno fa partecipava anche G. V., ventottenne, pedofilo seriale bloccato e arrestato la settimana scorsa a ridosso della Stazione Centrale: si trovava nell’area allestita per l’accoglienza dei profughi ucraini. Secondo le indagini, l’uomo sarebbe riuscito a entrare in contatto con dei minori nonostante fosse sottoposto al regime di sorveglianza speciale (con divieto di allontanarsi dal luogo del soggiorno obbligato) e dovesse restare ad almeno un chilometro di distanza da luoghi abitualmente frequentati da bambini come scuole, parchi e impianti sportivi. Obblighi che avrebbe violato almeno dieci volte a Milano e in due Comuni dell’hinterland tra la fine del 2021 e i primi due mesi del 2022. Le manette sono scattate sia per la violazione della sorveglianza speciale e sia per i circa 10,3 gigabyte di materiale pedopornografico ritrovato nel suo computer; nella richiesta di convalida del provvedimento, il pm ha richiamato due presunti abusi compiuti dal ventottenne. Professor Giulini, in questo caso il percorso non è stato sufficiente? “Abbiamo avuto due casi di recidive su 331 utenti, inviati da avvocati, dalle carceri, dall’ufficio che gestisce le misure alternative (del Ministero della Giustizia), dalla magistratura e dalle forze dell’ordine. Segno che il sistema funziona, perché si è creata una rete con tutti gli attori in campo: magistratura, Questura, Comune di Milano. Si è costruito un sistema di prevenzione basato su un “modello di rete” e che prevede l’obbligo del percorso trattamentale, grazie alla prassi introdotta dal presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano Fabio Roia. È un percorso rieducativo che mira ad aiutare la persona affinché arrivi a comprendere pienamente il disvalore penale e sociale delle sue condotte. Nello stesso tempo, l’inasprimento dei provvedimenti (misure di sorveglianza speciale e carcere in caso di violazione) rappresentano un ulteriore livello di prevenzione: si interviene prima che l’eventuale reato sia commesso. Quando si è “sul ciglio del burrone”. Quest’uomo è uno dei due recidivi”. Che attività seguiva? “Partecipava, peraltro in maniera discontinua, a uno dei tre ‘gruppi trattamentali per autori di reati sessuali’, al presidio criminologico territoriale del Comune gestito dalla nostra cooperativa Cipm. Un gruppo è riservato ai parenti e un quinto a stalker e maltrattanti. Questo utente era arrivato da noi per un’ingiunzione trattamentale”. Una volta bloccato dalla polizia, ha dichiarato di “essere malato” e ha chiesto la “castrazione chimica”. Come commenta queste dichiarazioni? “Preferisco non commentare. Noi ci occupiamo del percorso trattamentale e non di altro”. I “nuovi arrivati” del 2021 come sono suddivisi? “Cinquanta hanno avuto accesso al trattamento per episodi di maltrattamenti in famiglia; 21 per stalking; 24 pedopornografia; 47 per violenza sessuale su minori; 31 per violenza sessuale sulle donne. Sono i principali”. Quando è cominciato il “programma di trattamento”? “Siamo partiti nel 2005 alla Casa di Reclusione di Bollate. Su 358 autori di reati sessuali di cui ci siamo occupati (tra cui lo stesso G. V.) abbiamo avuto 13 recidive”. Con quali istituzioni collaborate? “Con il Comune di Milano: da più di 20 anni Cipm gestisce servizi di ascolto, trattamento e orientamento attraverso un’équipe di psicologi, criminologi, mediatori e avvocati. Con la Questura attraverso il Protocollo Zeus (i soggetti ammoniti dal Questore sono invitati ad intraprendere il percorso al Cipm), la Regione, le carceri e altri enti”. Milano. Carcere: la scrittura, strumento per lo scavo interiore di Marta D’Auria riforma.it, 29 marzo 2022 Intervista ad Alberto Figliolia, coordinatore del Laboratorio di lettura e scrittura creativa attivo da quasi un trentennio pressi la casa di reclusione di Milano Opera. 28 anni fa nella casa di reclusione di Milano-Opera - la più grande delle 208 carceri italiane - la poetessa Silvana Ceruti fondò il Laboratorio di lettura e scrittura creativa ancora oggi attivo. Da 16 anni vi partecipa attivamente Alberto Figliolia, autore, giornalista pubblicista, già collaboratore di svariate testate e quotidiani nazionali. “L’esperienza è iniziata per caso. Ero stato incaricato da un giornale con il quale collaboravo, di seguire in una libreria di Milano un’iniziativa del Laboratorio di lettura e scrittura creativa che già esisteva ad Opera da una dozzina di anni. Rimasi molto colpito dai contenuti e dall’atmosfera di quell’incontro. Dopo la pubblicazione del mio articolo, fui contattato dalla signora Silvana Ceruti, alla quale dissi che, come autore, avrei volentieri potuto dare un contributo al laboratorio. Così vi andai una prima volta. In quanto giornalista ero già entrato in un carcere, ma fui conquistato dalla capacità di ascolto dei volontari, dalla maniera di proporre la scrittura e la poesia ai detenuti. Vi tornai una seconda, e poi una terza volta. Da allora è cominciata la mia collaborazione che dura da sedici anni. Tanti incontri, tante cose nella vita accadono per caso e poi si rivelano molto fecondi per il proprio panorama esistenziale”. Cosa avviene durante il Laboratorio di scrittura e lettura creativa? “Ci incontriamo ogni sabato e durante i nostri incontri ascoltiamo quello che i detenuti hanno scritto durante la settimana, o anche scritti e poesie che noi autori proponiamo; facciamo esercizi di scrittura utilizzando varie metodologie; poi, dopo aver raccogliamo il materiale particolarmente riuscito dal punto di vista formale, produciamo delle antologie con un editore di riferimento che ha sposato il progetto. Sono stati pubblicati due libri di poesie in forma di preghiera, e ogni anno realizziamo un Calendario poetico-fotografico a tema: per il 2022 Aria. Acqua. Terra. Fuoco (prefazione di Elena Wullschleger Daldini e immagini di Margherita Lazzati). Il Calendario rappresenta una riappropriazione virtuosa anche dei propri ricordi, ma, oltre che specchio personale, è un osservatorio sul mondo esterno dal quale si è apparentemente esclusi, almeno dal punto di vista fisico (vi sono muri di cemento, ma anche muraglie di pregiudizi). Il pensiero e i sentimenti non possono tuttavia essere fermati da cemento e sbarre, e un tramonto ha sempre tutta la sua sconvolgente bellezza capace di impregnare pure l’anima di chi è in carcere. È una grande soddisfazione per i detenuti vedersi pubblicati - lo sarebbe per chiunque! -, traspare in loro la sensazione di aver combinato qualcosa di buono e di bello: in una vita magari storta, finita dentro, allontanati dalla società, scoprono di riuscire a scrivere qualcosa che può arrivare al cuore anche di chi è fuori. La scrittura ha la doppia funzione etica ed estetica. Nel laboratorio cerchiamo di insegnare in maniera orizzontale, democratica, di incentivare anche la lettura. Attraverso la scrittura e la lettura i detenuti vivono scampoli di felicità, c’è un recupero di consapevolezza che è veramente importante”. Quali frutti quest’esperienza ha portato nella sua vita? “La partecipazione al laboratorio è stata per me fondamentale: mi ha dato una visione più ampia dei fatti e dell’essere umano. Trovarsi in una realtà così dura, pesante per chi la deve vivere o subire, ti costringe a riconsiderare le cose della vita sotto un’ottica diversa, e a capire che ci può essere un’altra via, che per un cristiano può essere il perdono, e che laicamente è il tentativo di restituire alla società queste vite che hanno spezzato vite, relazioni, ma sono state anche spezzate, avendo il reato conseguenze sugli altri ma anche su se stessi. La scrittura allora può essere un grande strumento per lo scavo interiore, per recuperare parti di sé, per rielaborare i sentimenti negativi, distruttivi, o autodistruttivi, per riacquisire consapevolezza, per ripristinare un cammino esistenziale non più storto. Tutto è anche patrimonio degli insegnanti volontari perché quello che avviene durante il Laboratorio è un flusso non univoco ma reciproco che ti consente di avere uno sguardo forse un po’ più acuto sulla realtà, dove non è sempre netta la distinzione tra ciò che è bene e ciò che male, ma dove ci sono le persone con la loro dignità, con il loro vissuto, con i loro errori, persone che possono imparare dai propri errori, non si passa infatti indenni attraverso questo corridoio di dolore che è il carcere. Come essere umano sei costretto a confrontarti con questo universo di sofferenza e impari a sviluppare una vista diversa sulle cose del mondo, impari a discernere, o comunque ad alimentare dubbi, che possono essere fecondi. È importante continuare a porsi domande, soprattutto quando l’opinione pubblica ha risposte facili, preconfezionate, dettate dalle mode o dagli impulsi di pancia. Nelle attività che organizziamo nell’ambito del laboratorio, cerchiamo anche di sondare i pregiudizi che albergano in tanti sulla condizione carceraria e sulle persone che sono recluse. È un’esperienza forte, impegnativa, di responsabilità, che ti succhia anche tante energie dal punto di vista emotivo, ma che è anche estremamente arricchente dal punto di vista umano”. Milano. “A filo refe”, un percorso letterario per conoscere il carcere di Caterina Orsenigo glistatigenerali.com, 29 marzo 2022 In un’intervista degli anni 80, la scrittrice e attrice Goliarda Sapienza, in seguito a un periodo di reclusione a Rebibbia per furto di gioielli, disse a Enzo Biagi: “Io ci volevo andare da molto tempo in carcere. A casa mia si diceva che il proprio paese si conosce conoscendo il carcere, l’ospedale e il manicomio. Ma il carcere per conoscerlo, bisogna andarci”. Dalla vita di chi non lo conosce, il carcere appare invece lontanissimo. Lontanissimo e astratto. Si percepisce come un’entità altra, come se non riguardasse tutti i cittadini, come se non fossimo tutti “carcerabili” esattamente come siamo tutti “ospedabilizzabili”: entrambe eventualità tabù, la prima molto più della seconda. A raccontarlo, il carcere, ci sono solo serie televisive come Orange is the new black e alcuni film americani; lo si immagina in qualche canzone di De André, lo si legge sui giornali sotto forma di numeri - gli anni da scontare - e raramente di rivolte, ogni tanto di morti come quella di Stefano Cucchi. Che aspetto abbia veramente, come funzioni la vita all’interno, di tutto ciò non si ha che una vaghissima idea. E, se Goliarda Sapienza aveva ragione, questo vuol dire non conoscere il proprio paese. A partire da marzo e fin dopo l’estate, in Zona Due, a Milano, si susseguiranno iniziative e incontri dedicati al carcere in un percorso divulgativo e letterario volto a colmare almeno in parte questa distanza. Il progetto si chiama A Filo Refe: si tratta di una tecnica tipografica che si utilizza per legare insieme le pagine di un libro, e vuole rimandare al “lavoro associativo e culturale di cui c’è bisogno per tenere insieme tante piccole realtà sparse e coordinarle insieme per avere un po’ più di voce nel dire che di carcere è necessario parlare e vogliamo farlo”, come spiega uno degli organizzatori, Francesco Sala (Libreria Anarres). Ma fa anche pensare a un lavoro di cucitura fra il mondo fuori e il mondo dentro. Tutto comincia con il Bando per Il libro e la Lettura di Fondazione Cariplo del 2020: fra i vincitori c’è anche questo progetto incentrato sul carcere e la detenzione. A parlarsi saranno in particolare il territorio di Zona 2 di Milano e il Carcere di Bollate. Sono quindi coinvolte le cooperative Carte Bollate, ZeroGrafica e Camelot che lavorano dentro il carcere, le librerie di quartiere (Anarres, Potlach, Noi, Iman, Covo della Ladra), le case editrici Eleuthera e Agenzia X, l’associazione culturale Axis, piedipagina e quella degli Amici del Parco Trotter, la biblioteca di quartiere di Crescenzago e i soggetti istituzionali del Municipio 2. Ci saranno incontri dal titolo “Cos’è la detenzione” nel corso dei quali si indagheranno tematiche come la rappresentazione mediatica del carcere; la questione psichiatrica e quella delle droghe; la deriva carcerocentrica del diritto penale; il carcere durante il Covid e molte altre. Si proietteranno film come Cattività di Bruno Oliviero, Luca Mosso e Mimmo Sorrentino, Nella città l’inferno di Renato Castellani e Le Rose Blu di Emanuela Piovano. Ci saranno anche reading nei cortili di via Padova, organizzati dalla casa editrice Eleuthera, e passeggiate letterarie nel territorio di municipio 2 con letture di brani e narrazioni sul carcere durante la resistenza o negli anni ‘70 della Mala. Una passeggiata si svolgerà anche all’interno di Bollate insieme ai detenuti, mentre il gruppo di lettura della Biblioteca di Crescenzago e quello di Bollate intraprenderanno percorsi di lettura condivisi. Uno dei primi eventi si è tenuto ieri: all’ex chiesetta del Parco Trotter è stato presentato il nuovo numero di Carte Bollate, il periodico di informazione dei detenuti e delle detenute di Bollate. Due detenuti raccontavano il loro rapporto con la lettura e la scrittura in generale e con l’esperienza di questa redazione, spiegando come la lettura diventi uno spazio personale in un luogo in cui per definizione c’è il tempo ma non manca lo spazio, e come si riveli strumento fondamentale per andare oltre l’orizzonte delle sbarre e così emanciparsi da se stessi e imparare a leggere il mondo alla giusta profondità; della scrittura sottolineavano la possibilità che offre di vivere quello che lì non si può vivere, di “creare mondi altri in cui vivere e abitare”. La redazione di Carte Bollate veniva invece raccontata come “un posto dove si progetta”, fondamentale perché “in carcere è difficile progettare ma chi non progetta muore. La redazione è un modo di allearsi per fare qualcosa insieme”. Così, in presenza del direttore del carcere si è parlato anche di come il “modello Bollate” sia rarissimo nonostante le norme prevedano un lavoro attivo per favorire la risocializzazione. La realtà dei fatti è che, se qualcosa va storto, si punisce prima il direttore che si è messo a rischio per rispettare questa norma, rispetto a quello che pur di non rischiare che qualcosa vada storto non la rispetta. Già quella di ieri, insomma, un’occasione per reinserire il carcere in un orizzonte cittadino, come quartiere della città e non mondo a se stante. Il percorso di “A filo refe” permetterà di interrogarsi su questa istituzione. Un carcere che separa è un carcere che non prende veramente in considerazione il reinserimento del detenuto, che non si interroga sui motivi per cui qualcuno in carcere ci finisce (il 75% dei detenuti hanno al massimo la terza media), è specchio di una società che giudica il detenuto per non riflettere su se stessa. “Chi partecipa a questo progetto” scrive ancora Francesco Sala su Carte Bollate “è convinto invece che le condizioni in cui si esegue una condanna penale siano essenziali nel dibattito sociale e non solo per un senso di umanità (cosa che comunque non dovrebbe mai mancare), ma proprio per aumentare la sicurezza generale della società in cui viviamo. Non la sicurezza delle sbarre e dei cancelli che creano deserti relazionali ma la sicurezza vera e duratura che scaturisce da una più equa ripartizione delle risorse e delle possibilità all’interno del tessuto sociale. Per farlo pensiamo che sia utile far uscire il carcere dalla coltre di silenzio e di marginalità in cui il dibattito pubblico lo ha relegato e parlare francamente dell’idea di giustizia che vogliamo costruire, tutti insieme”. Alessandria. Da barrique a nidi per gli uccelli con il lavoro dei detenuti di Emiliano Moccia vita.it, 29 marzo 2022 Da albero a barrique per la vinificazione, da barrique a nidi artificiali destinati a ospitare uccelli insettivori utili all’equilibrio del vigneto, costruiti dai detenuti del penitenziario di Alessandria. È questa la finalità del progetto “Il Nido della Sostenibilità” promosso dalla Cantina Ricci Curbastro. “Da albero a barrique per la vinificazione, da barrique a nidi artificiali destinati a ospitare uccelli insettivori utili all’equilibrio del vigneto, costruiti dai detenuti del carcere di Alessandria. Il ciclo virtuoso del legno all’insegna del recupero di persone e materiali”. Il senso dell’iniziativa promossa dall’azienda Ricci Curbastro che ha sede a Capriolo, in provincia di Brescia, è tutto in queste parole. Un percorso di sostenibilità ambientale, economica ed etica che la cantina del Franciacorta ha deciso di condividere e portare avanti insieme alla casa circondariale “Cantiello e Gaeta” con l’idea di recuperare i materiali e chi in passato ha avuto problemi con la giustizia. Il percorso “Le Tre Vite dell’Albero” segna di fatto il primo capitolo di un progetto più ampio legato a “Il Nido della Sostenibilità”. “Il legno di barili e barriques, che proviene da foreste demaniali francesi gestite in modo sostenibile, non è sempre facilmente riciclabile: i classici usi come tavolini o come fioriere scontano il limite di spazi spesso ridotti nelle abitazioni così come nei locali pubblici. E questo rischia di interromperne il ciclo virtuoso” ha detto Riccardo Ricci Curbastro, illustrando l’iniziativa. “Per noi, si trattava di offrire a queste doghe di rovere una terza vita dopo la crescita in foresta che garantisce, grazie all’energia solare, lo stoccaggio nel legno dell’anidride carbonica così pericolosa per il riscaldamento globale e dopo l’uso per svariati anni come contenitore ideale per la maturazione dei nostri vini”. Al concetto di sostenibilità ambientale ed economica, quindi, si è aggiunto il terzo pilastro, quello della sostenibilità etica. Il ciclo virtuoso del legno prosegue, infatti, grazie all’intervento dei detenuti del reparto falegnameria del carcere piemontese a cui è stato affidato il compito di trasformare le doghe di barili e barriques in cassette per nidi artificiali destinati ai vigneti aziendali per ospitare Cinciallegre, Codirossi e altri insettivori utili all’equilibrio naturale dei vigneti stessi. A seguire il lavoro nella sua concretezza sarà la cooperativa Idee in Fuga, promossa da Ises e creata allo scopo di rendere produttivo il tempo dei detenuti dell’Istituto di Pena di Alessandria. All’interno del carcere è stata creata una nuova falegnameria per permettere alle persone recluse di acquisire nuove competenze in grado di offrire opportunità di lavoro una volta terminata la pena. “Ci adoperiamo per coinvolgere i detenuti in attività che offrano loro una seconda possibilità, partendo proprio dal lavoro, perché solo il lavoro garantisce dignità e possibilità di riscatto reale” ha evidenziato Andrea Ferrari, presidente dell’associazione Ises impegnata in azioni di promozione sociale e culturale. “In tal senso, il progetto dei nidi artificiali sposa perfettamente la nostra mission: recuperare persone e materiali partendo da qualcosa di nuovo, di bello, di utile e rispettoso per l’ambiente”. Le botti in legno che si trasformano in nidi di uccelli si inseriscono in questo lungo cammino, coniugando innovazione ambientale ed attenzione al sociale. I detenuti lavorano sei giorni su sette, affiancati dalla Polizia Penitenziaria e da esperti falegnami volontari con l’obiettivo di soddisfare ordini da tutta Italia recuperando materiali e promuovendo una economia circolare che utilizzi legno riciclato o scartato per difetti. In questo cammino di riscatto sociale si inserisce la visione della cantina Ricci Curbastro che in questi anni ha seguito il cammino della sostenibilità portando nel 2005 l’azienda alla completa autosufficienza per l’energia elettrica, poi nel 2015 al biologico ed infine ad essere una delle prime 9 aziende italiane certificate sostenibili con lo standard Equalitas nel 2017. “Tutto ciò che utilizziamo in cantina” ha concluso Riccardo Ricci Curbastro “segue una logica di naturale recupero. Come il sughero dei tappi, usato per la produzione di pannelli fonoassorbenti e coibentanti, oppure utilizzando su alcuni vini fermi tappi in polimero prodotto da canna da zucchero, ad impatto produttivo neutro e interamente riciclabili”. Lecce. La colomba realizzata dai detenuti per i bimbi ucraini di Annachiara Valle Famiglia Cristiana, 29 marzo 2022 Il ricavato della vendita del dolce pasquale realizzato artigianalmente dai ragazzi di Social Food Corporation, il laboratorio gastronomico ideato dall’imprenditore Davide De Matteis dove lavorano detenuti a fine pena della casa circondariale Borgo San Nicola. Il ricavato della vendita delle colombe pasquali artigianali realizzate dai detenuti del carcere di Lecce interamente devoluto all’Unicef per sostenere i bambini vittime del conflitto in Ucraina. È l’iniziativa “300mila per l’Ucraina” di Social Food Corporation, il laboratorio gastronomico ideato e lanciato nel 2019 dall’imprenditore Davide De Matteis nell’ex carcere minorile di Lecce, dove lavorano detenuti a fine pena, in accordo con il ministero della Giustizia. Sono oltre 7,5 milioni i minori che hanno bisogno urgente di assistenza umanitaria in Ucraina: acqua pulita, coperte per ripararsi dal freddo, cure mediche di base, kit per l’igiene personale e assistenza psico-sociale. Il 300mila di Lecce, tra le imprese amiche dell’Unicef, ha deciso di unirsi alla raccolta fondi con questa iniziativa in vista delle feste pasquali. Le colombe (al costo di 40 euro, un prezzo maggiorato per una giusta causa) si possono acquistare a Lecce presso il 300mila, in via 47° Reggimento Fanteria 5. “La colomba è in gabbia, speriamo che la gabbia presto si apra e questa guerra insensata abbia fine”, dice Davide De Matteis, patron del 300mila di Lecce nato nel 2021 dall’evoluzione del 300mila Lounge Bar (più volte miglior bar d’Italia per il Gambero Rosso) e del Nazionale Ristorante. “Sono colombe artigianali, preparate con ingredienti di alta qualità, lievito madre di 20 anni e 30 ore di lievitazione, farcite con arance candite e mandorle di Toritto”, spiega lo chef Marco Silvestro, che dirige Social Food Corporation, un progetto nato nel 2019 dal sogno di Davide De Matteis di creare un grande laboratorio dove mettere le “mani in pasta”, fare ricerca e produrre tutto ciò che viene pensato dal dolce al salato, che poi si è realizzato nell’ambito di una proposta di cooperazione con il ministero della Giustizia per il reinserimento lavorativo dei detenuti della Casa Circondariale di Borgo San Nicola, vicini al termine della pena. In circa mille metri quadrati, nell’ex carcere minorile di Lecce, il Laboratorio ha diverse linee produttive e apparecchiature di ultima generazione, punta su filiera corta, rispetto del territorio, tutela dell’ambiente e della salute, ingredienti per lo più di origine biologica e del territorio pugliese, ricette tradizionali ed elaborate ad hoc. Il valore rieducativo del lavoro in carcere - Oggi Social Food Corporation rifornisce il 300mila a Lecce e i punti “Orecchiette à porter” a Milano, Bergamo e Roma. Il progetto è in fase di sviluppo e a breve partirà con una struttura più ampia, un’offerta più ricca e nuove assunzioni. Nei penitenziari italiani solo il 34% dei 54mila reclusi è impegnato in un lavoro (15.827 alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e 2.130 di cooperative esterne), secondo il recente studio “Valutare l’impatto sociale del lavoro in carcere” promosso da Fondazione E. Zancan, Compagnia di San Paolo, Fondazione Con Il Sud con il patrocinio del ministero della Giustizia. Eppure i benefici del “lavoro autentico e abilitante” emersi sono tanti: significativa diminuzione della depressione, minore incidenza dell’obesità, riduzione dei farmaci consumati e delle visite mediche, diverso atteggiamento nei confronti della pena e minori rischi di violenza. Con un doppio vantaggio: il tasso di recidiva scende e la produttività sale. Se il 50% dei detenuti in Italia fosse impiegato nelle aziende produrrebbe un fatturato di 900 milioni di euro in più all’anno. Pacifismo e garantismo sono incompatibili? di Piero Sansonetti Il Riformista, 29 marzo 2022 Sono due idee diverse, certo, ma attingono a valori comuni. Sicuramente non sono inconciliabili. Si fondano su una visione del mondo che rifiuta la forza, il contrappasso, la vendetta e la punizione. In questi giorni ricevo lettere, telefonate, messaggi e moltissimi tweet che contestano il mio dichiarato schieramento pacifista, perché - sostengono - il pacifismo è in contrasto col garantismo e con l’essere liberali. Io non credo che abbiano ragione. So benissimo che esistono molti garantisti che hanno compiuto una scelta interventista, e rispetto in modo assoluto le loro idee, e conosco da molti anni la distinzione tra idea nonviolenta e idea pacifista, anche perché ho conosciuto Marco Pannella. Però non posso accettare, francamente, la pretesa di contrapporre pacifismo e non violenza. O anche di contrapporre garantismo e pacifismo. Una cosa è dire che non c’è automatismo, cioè che non è necessaria l’identificazione, una cosa diversa è lanciare l’anatema e pretendere l’inconciliabilità. La mia idea di garantismo, effettivamente è molto vasta. E si fonda sul pensiero liberale ma anche, e soprattutto, sul pensiero cristiano. Cioè sull’idea del perdono o, meglio ancora, della non-colpa echi è senza colpa scagli la prima pietra”, oppure “tu, ladro, vieni con me in paradiso”. Cioè due passaggi colossali del Vangelo). Garantismo - Provo a riassumere il mio punto di vista un po’ schematicamente. Non credo che il garantismo sia solo la richiesta del rispetto totale di una serie di regole - sostanziali o formali - che riguardano l’amministrazione della giustizia. Non penso che il garantismo possa limitarsi all’esaltazione dei diritti della difesa e alla presunzione di innocenza, e alla richiesta di prove provate. Ho l’impressione che se si lascia stringere in questo perimetro un po’ angusto, il garantismo muore. Perde il respiro. E soprattutto finisce con il diventare vittima delle interpretazioni Le quali permettono una grande elasticità e molte distinzioni. Cioè permettono di difendere solo alcuni e non altri, solo fino a un certo punto e non oltre, solo gli innocenti e non i colpevoli, solo se assolti e non se condannati. lo invece credo che il garantismo sia un’idea generale di società. Fondata sui diritti e non sulla punizione. Sulla soluzione dei problemi e non sulla ricerca del colpevole, Sul valore di ogni esistenza e non su un’etica che stabilisce una gerarchia, e sceglie le esistenze migliori e le peggiori, quelle degne di premi e quelle degne di punizione, quelle da rispettare e quelle da calpestare. Il garantismo, per quello che mi riguarda - e qui usciamo anche dal cristianesimo - è l’idea che si rifiuta di operare distinzioni nette tra bene e male. E che immagina che la forza del bene non stia nella repressione del male, ma nella comprensione e nella assunzione. Pacifismo - Che c’entra il pacifismo? L’idea di fondo del pacifismo, per quel che ho capito in questi primi miei settant’anni, è il rifiuto della guerra come strumento di prosecuzione della politica. Naturalmente rifiuto della guerra è l’ultimo stadio del rifiuto dell’uso della forza come mezzo per regolare la convivenza. È chiaro che questo principio prevede delle eccezioni. Però il principio vale. Vale la tendenza. L’idea è quella: la scelta di usare la politica, la diplomazia, la deterrenza, la pressione, l’economia, la forza di massa del popolo, come mezzi essenziali per sedare le tensioni e risolvere le controversie. Questa idea non è del tutto balzana se è scritta a chiare lettere nella nostra Costituzione. Leggevo in questi giorni, fornitomi dal figlio di Mario Zagari (deputato socialista alla Costituente) il resoconto del dibattito che si svolse prima dell’approvazione dell’articolo 11 della Costituzione. Quello sulla guerra. Fu Zagari a chiedere e ottenere che la parola “rinunzia” fosse sostituita con la parola “ripudia”. L’Italia ripudia la guerra. Non è un dettaglio. La scelta è quella di non considerare la posizione contro la guerra come un’opzione passiva, ma al contrario come opzione attiva. Accompagnata dalle righe successive dell’articolo 11, le quali stabiliscono che è compito del nostro paese favorire e promuove organizzazioni internazionali che servano a garantire la pace tra i popoli. È quella parola - ripudia - a imprimere alla nostra Costituzione un carattere nettamente pacifista. Rafforzata dall’incitamento a promuovere la pace e non solo ad accettarla lo ho l’impressione che questa idea pacifista sia in perfetto allineamento con l’idea garantista. Il punto comune è il punto di partenza: la ripugnanza per la forza, per la vendetta, per la punizione. E la convinzione che i mezzi non siano indifferenti e non contino meno dei fini: se il mezzo è la morte, l’uccisione, lo sterminio, conta poco il fine, per quanto esso sia nobile. L’infamia del mezzo finisce per omologare il liberatore all’oppressore. Il giudice al reo. Il moralizzatore al colpevole. Naturalmente è un argomento molto complesso, questo. Che investe la filosofia. E io non sono un filosofo. Perciò chiamo in mio aiuto un grande filosofo francese del 600. Antico ma di pensiero molto moderno. Diceva così: “Si dovrà dunque uccidere per impedire che ci siano dei cattivi? Uccidendo se ne faranno due invece di uno”. Si chiamava Blaise Pascal, questo filosofo. Esprimeva l’idea essenziale del pacifismo e del garantismo. Chi vuole la guerra? Un’altra citazione. Leggete queste poche righe: “È naturale che la gente non voglia la guerra. Non la vogliono gli inglesi, non la vogliono gli americani, neanche i tedeschi la vogliono. Si capisce. È compito dei leader del paese orientarli, indirizzarli verso la guerra. È facilissimo: basta dirgli che stanno per essere attaccati, denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo, e perché mettono in pericolo il paese. Funziona così in qualunque paese, che sia una democrazia, una monarchia o una dittatura”. È una dichiarazione di Hermann Goering, rilasciata nei giorni del processo di Norimberga, nel 194S. Voi sapete chi era Goring: uno dei massimi gerarchi nazisti e il fondatore della Gestapo. Non credo che ci sia bisogno di commentarle. Aumento spese militari, Draghi vede Conte per trovare una via d’uscita di Giacomo Puletti Il Dubbio, 29 marzo 2022 Il tira e molla sulle armi tra premier e 5S dura da giorni, e non è escluso che in maggioranza possa arrivare l’incidente d’Aula che nessuno vuole ma tutti temono. Fiducia o non fiducia? È tutto in questo dilemma che si gioca il futuro della maggioranza nelle prossime ore, quando in Senato arriverà il cosiddetto decreto Ucraina, già approvato dalla Camera, e si voterà l’ordine del giorno di Fratelli d’Italia sull’aumento delle spese militari. Aumento sul quale il presidente del Consiglio, Mario Draghi, sembra voler tirare dritto, nonostante i richiami alla prudenza del Movimento 5 Stelle e la contrarietà del partito di maggioranza relativa espressa dal leader Giuseppe Conte. Un primo round di “negoziati” si è avuto ieri sera, quando si sono incontrati in videoconferenza i capigruppo delle Commissioni Esteri e Senato, i presidenti dei gruppi parlamentari che appoggiano il governo Draghi e il ministro per i rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà, tuttavia l’impressione è che la battaglia non sia ancora finita. Ma se una crisi di governo su questo tema sembra impensabile, il tira e molla tra pentastellati e area di governo dura ormai da giorni, e non è detto che da un momento all’altro possa presentarsi l’incidente parlamentare che nessuno vuole ma tutti temono. Per non parlare della Lega, con la maggioranza del partito schierata apertamente per il sì all’aumento fino al due per cento del Pil per le spese militari, ma con il leader, Matteo Salvini, che un giorno sì e l’altro pure ricorda la sua (nuova) difficoltà nell’applaudire “quando si parla di armi”. Il tutto condito dall’incontro di oggi pomeriggio tra Conte e Draghi che dovrebbe portare a un accordo per una conferma dell’aumento, come del resto già avvenuto nei governi che hanno preceduto l’ex presidente della Bce a palazzo Chigi, ma diluito nel tempo, così che anche l’ex avvocato del popolo possa portare lo scalpo della vittoria di fronte ai militanti grillini nella corsa (travagliata) alla leadership del Movimento. “Non consentiremo che il Documento di economia e finanza contenga un aumento delle spese militari - ha detto ieri Conte - Gli impegni non li mettiamo in discussione, ma nessuno può pensare attraverso questo impegno, con una tempistica così stretta, di accelerare una corsa al riarmo che sarebbe inutile, una illusoria certezza di sicurezza: sarebbe un prendere in giro gli italiani”. Ma il leader grillino ha poi buttato acqua sul fuoco, spiegando che “il M5S è un pilastro di questa esperienza di governo”, e dando la colpa ai media, rei secondo lui di dire che il Movimento abbia cambiato idea sull’aumento delle spese militari. Ad attaccare Conte è anche il leader di Italia viva, Matteo Renzi, secondo il quale “Conte ha minacciato la crisi di governo in caso di aumento delle spese militari, quelle stesse spese militari che ha aumentato più di noi e che si è ulteriormente impegnato ad aumentare nei vertici Nato cui ha partecipato”. Per poi concludere che “questo è lo stile politico dei populisti”. In mezzo c’è la Lega, con il presidente della Conferenza Stato Regioni, Massimiliano Fedriga, secondo il quale “per il sì all’aumento delle spese militari c’è stato un ordine del giorno alla Camera firmato dalla Lega” e quindi questa è la posizione ufficiale del partito. Anche se “qualche singolo può pensarla in modo diverso”. Il problema è che tra quei singoli, almeno a parole, c’è anche Salvini. Il quale deve vedersela con l’ormai solita concorrenza a destra di Fratelli d’Italia, che oltre ad aver presentato l’odg secondo cui i soldi per le spese militari si dovrebbero prendere dal reddito di cittadinanza (“irricevibile” e “vergognoso”, secondo alcuni esponenti M5S), per bocca della leader Giorgia Meloni ha ricordato di essere stati “gli unici a mettere nel programma l’aumento delle spese militari, perché la libertà ha un costo”. A tenere la barra dritta è tuttavia lo stesso Draghi, che ieri nel corso di una telefonata con il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, non solo ha confermato gli impegni presi ma avrebbe anche dato la disponibilità dell’Italia a fare da garante per la futura sicurezza dell’Ucraina, come spiegato dall’ambasciatore di Kiev a Roma, Yaroslav Melnik. Il piano coinvolge i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la Germania, il Canada, Israele, Turchia e appunto l’Italia, e prevede che tali paesi forniscano armi a Kiev entro 24 ore in caso di eventuale attacco di un paese terzo. Ora bisogna solo spiegarlo al Movimento 5 Stelle. “Pandemia, repressione e crisi dei diritti: anno nero” di Eleonora Martini Il Manifesto, 29 marzo 2022 Rapporto Amnesty International 2021. “La disparità nella diffusione dei vaccini semina il terreno per più grandi conflitti”. Per forza di cose, il rapporto di Amnesty International riguardante l’anno 2021 - e stilato già molte settimane fa - non tiene conto di quanto sta accadendo in Ucraina. Né in Russia. Ma nell’introduzione al corposo documento di 576 pagine, la segretaria generale Agnès Callamard ha voluto sottolineare che, tra gli oltre 80 Paesi del mondo dove la repressione non è riuscita a fermare il dissenso, “in Russia, i raduni organizzati a sostegno del leader d’opposizione Aleksej Navalnyi sono proseguiti anche di fronte a una quantità di arresti arbitrari di massa e procedimenti giudiziari mai vista prima”. D’altronde il denso capitolo riguardante la violazione dei diritti umani, civili e politici e della libertà di espressione nel territorio russo durante l’anno scorso restituisce il quadro di un Paese che si stava già preparando al buio totale di questi giorni. Analizzando l’Ucraina - dove continuano la tortura, le violenze di genere e gli attacchi omofobi, malgrado “nuove leggi” introdotte per contrastare tali crimini - Amnesty International scrive che “gli organi d’informazione sono stati generalmente liberi e diversificati, anche se una manciata di media sono stati presi di mira in modo selettivo dalle autorità” perché “percepiti come filorussi e accusati dal servizio di sicurezza ucraino”. Per quanto riguarda la Crimea invece si legge: “Le autorità de facto hanno continuato il giro di vite sulla libertà d’espressione e su ciò che rimaneva del dissenso. I media liberi sono stati repressi e chi lavorava per loro ha dovuto fare i conti con gravi ritorsioni”. Non che il resto del mondo stia messo molto meglio: “Nel 2021, in almeno 67 Stati sono state introdotte nuove leggi per limitare le libertà di espressione, di associazione o di manifestazione. Almeno 36 Stati degli Usa hanno approvato un’ottantina di provvedimenti per restringere la libertà di manifestazione, mentre il governo del Regno Unito ha proposto una legge che penalizzerebbe gravemente la libertà di riunione pacifica, anche attraverso l’ampliamento dei poteri di polizia. Le autorità di Cuba, Iran, Myanmar, Niger, Senegal, Sudan e Sud Sudan hanno bloccato o limitato Internet per impedire la condivisione di informazioni e l’organizzazione di proteste”. Per non parlare della Cina e di Hong Kong dove Amnesty è stata costretta a chiudere l’ufficio locale aperto 30 anni fa: “È stata una decisione sofferta. Sintomatica del fatto che tutelare i diritti e denunciarne le violazioni è sempre più difficile e pericoloso”, ha spiegato Riccardo Noury, portavoce di AI Italia. D’altronde, nel ricordare i “nuovi e irrisolti conflitti scoppiati o proseguiti in Afghanistan, Burkina Faso, Etiopia, Israele/Territori palestinesi occupati, Libia, Myanmar e Yemen”, Callamard sottolinea “l’inefficacia della risposta internazionale a queste crisi” resasi “ancora più evidente dalla paralisi del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che non ha agito sulle atrocità in Myanmar, sulle violazioni dei diritti umani in Afghanistan e sui crimini di guerra in Siria”. “Questa vergognosa mancanza d’azione - scrive Amnesty - la costante paralisi degli organismi multilaterali e la mancata assunzione di responsabilità delle potenze hanno contribuito a spalancare la porta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che ha violato nel modo più evidente il diritto internazionale”. Il rapporto Amnesty 2021 comincia però con un bilancio sulla pandemia e non a caso sarà lanciato in Sudafrica, il Paese che insieme all’India già nell’ottobre 2020 chiedeva di abolire i brevetti sui vaccini e dove a maggio 2021 “circa 750 mila bambini avevano abbandonato l’istruzione, un numero tre volte superiore al periodo pre-pandemico”. Con meno dell’8% di vaccinati completi alla fine del 2021, infatti, “l’Africa ha il tasso di vaccinazione più basso al mondo, a causa delle insufficienti forniture” provenienti da Covax, dal Fondo di acquisizione ad hoc e dalle donazioni bilaterali. Ma nel mondo sono tanti i Paesi per i quali il Covid-19 è ancora un dramma: “In Venezuela- riferisce Amnesty ponendo lo Stato sudamericano tra quelli dove la crisi è più sentita - la pandemia ha peggiorato la preesistente emergenza umanitaria: lo scorso anno il 94,5% della popolazione viveva con un reddito da povertà, il 76,6% in estrema povertà”. Una disparità, quella della campagna di vaccinazione mondiale, che comporta conseguenze perfino nei Paesi occidentali e “ha anche seminato il terreno per più grandi confitti e per una maggiore ingiustizia”. La potenza dell’opinione, inarrestabile e preoccupante di Giuseppe De Rita Corriere della Sera, 29 marzo 2022 Ormai non ci sono verità che non possano essere messe in dubbio: domina il primato del parere personale. Ma non è dato sapere tale dinamica dove ci porterà. Dicevano i nostri vecchi che “la matematica non è un’opinione”, sicuri che le verità indiscutibili non possono essere scalfite da ondeggianti valutazioni personali, spesso dovute a emozioni interne e collettive. Temo che quella sicurezza non abbia più spazio nell’attuale dinamica culturale. Se qualcuno si esponesse a dire che due più due fa quattro, si troverebbe subito di fronte qualcun altro che direbbe “questo lo dice lei”, quasi insinuando il dubbio che non si tratta di una verità, ma di una personale opinione. Vige ormai da tempo qui da noi la regola “uno vale uno”. Non ci sono verità che non possano essere messe in dubbio: tu la pensi così, ma io la penso al contrario e pari siamo. Non ci sono santi, dogmi, decreti, ricerche di laboratorio, tabelle statistiche; vale e resta dominante il primato dell’opinione personale. Siamo così diventati un popolo prigioniero dell’opinionismo, e ormai non solo per tradizione di tifo calcistico, ma di lettori di tutti i problemi e gli eventi su cui si svolge la nostra vita collettiva. Basta comprare al mattino un quotidiano e si rimane colpiti da prime pagine piene di riferimenti che annunciano tanti articoli interni, quasi tutti rigorosamente legati a fatti d’opinione, a personaggi d’opinione, a polemiche d’opinione, in un inarrestabile primato dell’Opinione regina mundi. Da vecchio opinionista (lo sono su questo giornale dal 1976) mi sorprende quanto siano ampie e forti le ondate quotidiane d’opinione, il loro rimpallarsi a circolo, l’enfasi che ci si mette per mantenersi l’uditorio, la propensione a sentirne la potenza di convincimento quasi la presunzione di far parte di un mondo, non condizionato da altri poteri, un “mondo potente di suo”. Non ci rendiamo però conto che restiamo tutti prigionieri di livelli culturali bassi, inchiodati alle proprie opinioni, refrattari a livelli più alti di conoscenza, restii all’approfondimento, al confronto, alla dialettica. Non interessa la dimensione scientifica di una malattia, vale l’onda d’opinione che su quella malattia si è formata o si può formare; non interessa la dimensione complessa di un testo di legge o di una sentenza, vale l’onda d’opinione che si forma su di esse; non interessa la incontrovertibilità di un dato economico o di una tabella statistica, vale l’onda d’opinione che ci si può costruire sopra; non interessa la lucidità di una linea di governo del sistema, vale lo scontro di opinioni (di gradimento o di tradimento, direbbe Adriano Sofri) che su di essa si scatena. Ma senza confronto e senza dialettica non si fa cultura, non si fa sintesi politica, non si fa governo delle cose; con l’effetto finale che nel segreto del dominio dell’opinione si attua una trasfigurazione in basso e banale della realtà. Viene addirittura il sospetto che si sia in presenza di un uso primordiale ma sofisticato dell’opinione; e non si sa chi e come la gestisce. Qualcuno può ricordare quando a fine Ottocento arrivò a cittadinanza pubblica l’uso primordiale dell’immagine e della visione (prima con le fotografie e poi con il cinema); ma nessuno si preoccupò dei pericoli che ne sarebbero venuti alla vita sociale e all’equilibrio politico. Nessuno, neppure dei grandi come Baudelaire e Benjamin, aveva previsto il fascino tenebroso delle hitleriane parate di massa; e nessuno, neppure Giulio Bollati, avrebbe previsto che l’elitaria esaltazione di D’Annunzio per le foto della “gemmata” Regina Margherita sarebbe un giorno sfociata nel compiacimento piccolo borghese per le foto di Mussolini a petto nudo durante la “campagna del grano”. Non c’è dato comunque di sapere (visto che pochi lo studiano) dove potrebbe portarci la progressiva potenza dell’Opinione, un fattore fra l’altro più subdolo e sfuggente dell’immaginario visivo dei nostri padri. Converrà però cominciare a pensarci sopra, magari partendo dal preoccuparci che la nostra comunicazione di massa si ingolfa troppo nell’opinionismo autoalimentato e senza controllo. So che i greci avrebbero difeso quel che chiamavano la “Necessità” (in questo caso: la inarrestabile potenza dell’opinione) ma sarà permessa anche la modesta “necessità” collettiva del bisogno collettivo di non cedere alle sabbie mobili del regno dell’opinione. Scuola, così si è rotto il “patto educativo” fra genitori e insegnanti di Gianna Fregonara e Orsola Riva Corriere della Sera, 29 marzo 2022 Troppo indulgenti con i propri figli, ansiosi e frustrati, per 2 docenti su trei i genitori, con le loro continue interferenze, sono uno degli aspetti più problematici del lavoro. Sostanzialmente degli impiccioni. Questo sono, o meglio sono diventati, i genitori per gli insegnanti dei loro figli. Le continue interferenze delle famiglie sempre pronte a sindacare sulle scelte di maestre e professori rappresentano ormai una delle principali problematiche della professione docente. O almeno così la vedono gli insegnanti interpellati dal sondaggio Ipsos, presentato al congresso della Cisl del 16 marzo. Per il 70 per cento dei docenti è questo uno degli aspetti più critici della loro quotidianità. Del resto è notizia di questi giorni che in un famoso liceo di Milano, lo scientifico Leonardo da Vinci, si è scatenata una tale faida - oggetto del contendere: la gestione del cosiddetto “contributo volontario” pagato dalle famiglie - che l’ufficio scolastico regionale si è trovato costretto prima a mandare gli ispettori e poi a decretare la chiusura del consiglio d’istituto per “ingerenza nella potestà in materia didattica dei docenti” e “prevaricazione delle competenze del dirigente scolastico” da parte dei rappresentanti dei genitori. Indulgenti e ansiosi - Non sorprende che, in questo clima spesso arroventato, i giudizi reciproci siano tutt’altro che lusinghieri. Nove insegnanti su dieci (87 per cento) ritengono che i genitori siano (troppo) indulgenti con i propri figli, uno su due (53 per cento) che siano assenti, tre su cinque (58 per cento) che siano ansiosi e infine il 62 per cento che siano frustrati. Mentre, dal lato opposto della barricata, tre genitori su quattro (il 77 per cento) accusano i docenti di essere poco presenti, appena pochi di meno li bollano come frustrati (70 per cento), due su tre li trovano ansiosi E un papà e una mamma su quattro li giudicano troppo severi con i propri figli. Il tempo andato - Non è sempre stato così. Per un insegnante su due i rapporti scuola-famiglia sono peggiorati nel tempo. Mentre al contrario il 38 per cento dei genitori ritiene che si siano rafforzati. Una diversa percezione probabilmente dettata dal fatto che i docenti sentono di aver dovuto cedere su molti aspetti, mentre specularmente le famiglie percepiscono di aver conquistato spazi che prima si guardavano bene dal reclamare. Sono dati che fanno dire a Nando Pagnoncelli, che ha presentato i risultati, che “il patto educativo” è ormai un’espressione svuotata di significato. Il clima positivo per i genitori - Che il patto educativo vada ripensato è ancor più evidente se si considera “l’asimmetria” dei giudizi espressi da genitori e docenti, per dirla ancora con Pagnoncelli. Un insegnante su tre non è per nulla soddisfatto, o lo è molto poco, del suo rapporto con i genitori della classe, mentre soltanto uno su quattro si dichiara pienamente appagato. I genitori, invece, descrivono come tutto sommato positivo “il clima con il corpo insegnanti” e considerano con una certa autoindulgenza il loro rapporto con la scuola, perché pensano che ad essere troppo invadenti e puntuti nei confronti della scuola siano sempre gli altri genitori, mai loro. Fuori - Va da sé che alla domanda se debbano/vogliano partecipare di più alla vita scolastica, gli insegnanti oppongono un netto no ai genitori: il 35 per cento preferiscono che se ne stiano a casa loro. Per loro le famiglie dovrebbero fidarsi di più degli insegnanti (91 per cento), ascoltarli maggiormente nell’educazione dei figli (90 per cento). L’86 per cento dei genitori invece vorrebbero partecipare ancora di più. Bocciati e promossi - La buona notizia è che, in generale mamme e papà sono abbastanza contenti della scuola nella quale hanno iscritto i propri figli, non ne vedono grandi difetti e sono disposti a difendere la loro scelta: l’86 per cento dei genitori promuove la propria scuola, il 40 per cento le assegna un voto tra il 6 e il 7, non moltissimo ma pur sempre sufficiente, mentre quasi uno su due è disposto a darle tra 8 e il 10. Ma quando è ora di parlare della scuola italiana in generale, il giudizio diventa molto più severo: il 31 per cento dei genitori ritiene che il sistema scolastico sia da bocciare. Un pregiudizio culturale che non trova riscontro nell’esperienza. Indagare sui crimini di guerra. Poi un tribunale ad hoc di Marco Perduca Il Riformista, 29 marzo 2022 L’Italia spesso si definisce “culla del diritto” ma nel dibattito pubblico che accompagna la guerra in Ucraina, forse perché più televisivo che intellettuale, lo Stato di Diritto e gli obblighi internazionali raramente vengono chiamati in causa. Sono passati quasi 24 anni da quando l’Italia ha ospitato una conferenza diplomatica per l’adozione dello Statuto della Corte Penale Internazionale (CPI) che porta il nome della nostra capitale, un trattato fortemente voluto dalla maggioranza degli Stati dell’Onu per porre fine all’impunità individuale per crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità e, dal 2010, per l’aggressione. “Se gli attacchi sono diretti intenzionalmente contro la popolazione civile è un reato. Se gli attacchi sono diretti intenzionalmente contro obiettivi civili è un reato. Non ci sono giustificazioni legali per attacchi indiscriminati o sproporzionati contro la popolazione civile”. Con queste parole Karim Khan, procuratore della CPI, ha aggiornato pubblicamente quanto il suo ufficio sta facendo per documentare le violazioni del diritto umanitario internazionale (le regole della guerra) in Ucraina. Lo Statuto di Roma è entrato in vigore 20 anni fa ma l’Italia, tra i primissimi a ratificarlo, ancora non ha terminato l’adeguamento dei propri codici agli impegni previsti, specie per il crimine dell’aggressione, e forse non sorprende che chi in passato ha manifestato simpatie putiniane stia facendo di tutto per ritardare l’adeguamento. Non ci sono dubbi sulla dinamica dell’inizio della guerra e i suoi “motivi”, documentare come questa si stia sviluppando potrà contribuire a poter assicurare alla giustizia internazionale chi l’ha decretata e chi la sta organizzando sul campo provocando migliaia di vittime civili e distruzione di obiettivi civili. Il 16 marzo scorso Khan ha incontrato di persona in Ucraina Dmytro Kuleba, Ministro degli Affari Esteri e Iryna Venediktova, Procuratrice Generale dell’Ucraina e virtualmente anche il Presidente Zelensky per “ampliare la collaborazione con tutte le autorità nazionali competenti in modo da poter garantire che le violazioni del diritto internazionale siano indagate a fondo”. Le indagini richiedono il coinvolgimento di chi può avere informazioni rilevanti: testimoni, sopravvissuti e le comunità colpite, per raccogliere quanto più materiale possibile è stato lanciato un portale dedicato in ucraino e russo sul sito della Corte. Purtroppo c’è una lacuna: la CPI non può indagare sul crimine di aggressione a meno che questa non sia deferita dal Consiglio di sicurezza dell’ONU. La Russia, in quanto membro permanente del Consiglio e con diritto di veto, non mancherebbe di esercitarlo in propria difesa. Qualche giorno fa un gruppo di personalità ha lanciato la proposta di un Tribunale ad hoc per i crimini commessi in Ucraina (uno Stato che non riconosce la giursdizione della Corte), tra loro l’ex primo ministro britannico Gordon Brown, il ministro degli esteri ucraino Kuleba, il professore Philippe Sands, l’ex procuratore di Norimberga Benjamin Ferencz, Nicolas Bratza, ex presidente della Corte europea dei diritti umani. Sarebbe una giurisdizione da istituire al di fuori del sistema delle Nazioni unite ma che farebbe tesoro delle indagini in corso e del contributo di varie organizzazioni non-governative già attive per quello. Anche la ministra Marta Cartabia ha sottolineato che “i ministri della Giustizia europei hanno reagito prontamente in modo coordinato e coeso nei confronti della grave aggressione che si sta verificando in Ucraina [...] esprimendo determinazione a non lasciare nessuna zona di impunità e rafforzare la cooperazione fra di loro soprattutto nell’ambito di Eurojust”. A queste buone intenzioni devono però seguire fatti concreti: occorre rafforzare i finanziamenti nazionali alla CPI e chiedere che altrettanto faccia la Commissione europea, occorre che l’Italia completi l’adeguamento dei propri codici per il pieno rispetto del Trattato di Roma e modifichi il proprio ordinamento affinché, come avviene altrove in Europa, si possa invocare la giurisdizione universale in caso di crimini come quelli che si commettono in Ucraina. Occorre infine approfondire la perseguibilità di un Tribunale ad hoc. Il Belpaese, che ritiene di essere la culla del diritto - anche se la Corte europea sui diritti umani ha avuto spesso da eccepire - deve cogliere l’occasione di una guerra che non avremmo mai pensato di veder accadere nel Terzo Millennio per fare quanto necessario perché l’impunità non continui a essere l’unico sbocco per i criminali di guerra. Ue unita sui profughi ucraini, sì al piano per gli aiuti. Fondi diretti ai rifugiati di Claudio Tito La Repubblica, 29 marzo 2022 Accolti già 3,8 milioni, di cui due in Polonia. Si rafforza il sostegno agli Stati, previsti anche incentivi ai trasferimenti. Lamorgese: “Valutiamo contributi alle persone”. Il Consiglio europeo ha confermato ieri il via libera al Piano di aiuti per i profughi ucraini. Nuovi fondi da assegnare ai Paesi ospitanti, stanziamenti diretti ai rifugiati e incentivi al trasferimento dai Paesi di primo arrivo. La lettera inviata dai governi tedesco e polacco, dunque, ha sortito l’effetto desiderato. E, forse, per la prima volta è scattata una mobilitazione collettiva nella gestione di un flusso migratorio senza precedenti. I ministri degli Interni dell’Ue hanno quindi approvato le misure per affrontare l’emergenza e la Commissione europea sta valutando “proposte aggiuntive”, rispetto ai 3,5 miliardi già resi disponibili, per rafforzare il sostegno finanziario diretto agli Stati membri. Alcune nazioni, in primo luogo la Polonia, stanno sopportando il peso maggiore degli arrivi. Bisogna tenere presente che, secondo la Commissaria Ue agli Affari interni Johansson, sono già 3,8 milioni i rifugiati accolti nell’Unione (800 mila hanno già chiesto lo status di rifugiato) e molti sono minori. E quasi due milioni si trovano in territorio polacco. È il confine più ampio e più facilmente raggiungibile. Considerando poi che molti cittadini in fuga preferiscono non allontanarsi troppo dal loro Paese per potervi tornare rapidamente quando la guerra sarà finita. Senza contare che in Ucraina sono almeno 7 milioni gli sfollati e una parte potrebbe decidere di varcare i confini europei sebbene negli ultimi giorni il flusso migratorio si sia ridotto. Adesso arrivano “solo” 50 mila ucraini al giorno. Dopo l’accordo siglato ieri, allora, la Commissione definirà un indice per stabilire a quali Stati membri destinare la quota più alta di risorse. Varsavia, ad esempio, ha già fatto sapere di aver impiegato oltre due miliardi di euro per l’accoglienza. Ma in una situazione critica si trovano anche Romania, Ungheria e Slovacchia. Anche la Moldavia, che però non fa parte dell’Ue, è pesantemente sotto pressione. E Bruxelles è intenzionata ad aiutare anche una nazione limitrofa e che ha presentato la richiesta di adessione all’Unione. In base alla direttiva europea sulla protezione temporanea, chi scappa dall’Ucraina ha diritto ad attraversare liberamente i confini europei e a scegliere il Paese dove rifugiarsi. Per questo una redistribuzione obbligatoria non è possibile. Nel Piano, però, si stabilisce un sistema che incentivi e agevoli gli spostamenti attraverso l’uso gratuito dei mezzi di trasporto. Una sorta, insomma, di esortazione volontaria alla ripartizione. I singoli governi, poi, stanno valutando un sostegno diretto anche ai profughi. Lo sta facendo sicuramente l’Italia. “Per quanto riguarda il nostro Paese - ha detto la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese - tramite i Comuni e il commissario alla protezione civile, stiamo valutando un contributo economico”. Si tratta di 300 euro per gli adulti e di 150 per i minori. A proposito di minori, una delle questioni su cui si sta concentrando l’Ue è la tratta di esseri umani. Un pericolo che sta emergendo in questa fase e che va impedita con regole ad hoc. Il “pacchetto” verrà definito nei prossimi giorni. Ma la richiesta di aiuto avanzata dalla Polonia sta ora rimettendo in discussione le posizioni originarie sulle politiche migratorie. I governi sovranisti di Visegrad, infatti, si sono sempre strenuamente opposti a una gestione comunitaria dei migranti, in particolare quelli che sbarcano in Italia Spagna e Grecia dall’Africa. La mano tesa verso Varsavia, dunque, per i Paesi del Mediterraneo dovrà essere accompagnata da una disponibilità a varare il nuovo Patto sull’Asilo e i migranti che è bloccato dai veti ormai da quasi un anno e mezzo. Le donne e le guerre. Quando lo stupro diventa un’arma di Arianna Farinelli La Repubblica, 29 marzo 2022 Nei conflitti il corpo femminile viene usato come bottino, campo di battaglia, bersaglio strategico da colpire. Per terrorizzare i civili e distruggere le comunità. Lo stupro in guerra non è un crimine privato né un atto individuale, ma è un’arma. Dove ci sono guerre ci sono stupri perché nei conflitti il corpo delle donne diventa bottino, campo di battaglia. Le donne sono bersagli strategici da colpire per terrorizzare i civili, per distruggere le comunità, e quando è tutto finito sono sempre loro a dover raccontare l’indicibile. In questi giorni giungono notizie di donne stuprate e poi impiccate dai soldati russi nel villaggio di Brovary, a venti chilometri da Kiev. Nelle cittadine di Bucha e Irpin le violenze sarebbero state perpetrate anche contro donne anziane, ancora più vulnerabili perché impossibilitate a fuggire. Secondo alcune testimonianze queste donne, violentate a turno da un gruppo di soldati russi, avrebbero poi deciso di togliersi la vita. Una donna avrebbe raccontato di essere stata violentata di fronte alla figlia dopo che i soldati russi le avevano ucciso il marito. I pubblici ministeri hanno avviato più di duemila indagini a carico dell’esercito di Mosca. Le autorità russe continuano a respingere tutte le accuse dicendo che gli ucraini mentono sugli attacchi contro i civili in quella che loro chiamano ancora “operazione militare speciale” per denazificare l’Ucraina. In effetti, le accuse di stupro non sono state ancora confermate da fonti indipendenti e spesso la violenza sessuale rientra nella propaganda di guerra. Secondo Human Rights Watch, però, le truppe russe si sono macchiate di reati sessuali anche in passato, soprattutto durante la guerra in Cecenia. Nel frattempo, il procuratore capo della Corte penale internazionale, la cui autorità non è riconosciuta né dai russi né dagli americani, è arrivato a Leopoli per raccogliere prove su presunti crimini di guerra commessi dall’esercito di Mosca. Lo stupro è stato per molto tempo considerato uno sfortunato ma inevitabile effetto collaterale delle guerre, il risultato dei lunghi mesi di astinenza degli uomini al fronte, la soddisfazione di un bisogno naturale. Donne prede, dunque, oggetti di gratificazione sessuale. Ne furono esempi, durante il secondo conflitto mondiale, le schiave sessuali nei territori occupati dai giapponesi (le chiamavano “donne di conforto”), gli stupri delle giovani tedesche da parte dell’Armata Rossa e le donne italiane promesse dagli Alleati ai mercenari. Questi stupri, come scrive Carmen Trimarchi, non furono neppure presi in considerazione durante i processi di Norimberga e Tokyo, e anche quelli commessi dagli eserciti vincitori caddero nell’oblio. Le donne italiane stuprate non furono mai risarcite (anche perché allora lo stupro era un reato contro il buon costume e spesso passava sotto silenzio). Diverso invece il caso degli stupri commessi negli anni Novanta nella ex Jugoslavia (in particolare contro le donne bosniache musulmane) e durante il genocidio in Ruanda (quando le donne stuprate erano di etnia Tutsi). In questi casi i tribunali speciali internazionali istituiti all’Aia, in Olanda, riconobbero lo stupro come atto di tortura e crimine di guerra. Nel 2008, poi, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione che condanna lo stupro come arma di guerra sostenendo che la violenza sessuale in tutte le sue forme rientra nei crimini di guerra e nei crimini contro l’umanità e deve essere esclusa dalle disposizioni di amnistia. Purtroppo, però, gli stupri di guerra sono continuati. Pensate alle donne yazide ridotte a schiave sessuali dallo Stato Islamico nel 2014 e alle trecento studentesse nigeriane rapite da Boko Haram. Nadia Murad, una delle cinquemila donne yazide stuprate dall’Isis, vincitrice nel 2018 del Nobel per la pace, raccontò come i jihadisti uccisero sua madre e i suoi sei fratelli prima di venderla come schiava al mercato di Mosul. Perché si stupra? Sicuramente lo scopo è quello di umiliare, dominare, impaurire, sancire la debolezza degli uomini non più capaci di proteggere le loro donne. Ma ci sono ragioni anche più terribili. Nei conflitti etnici, ma anche nelle guerre di occupazione, lo stupro di guerra ha l’intento di generare vita, di far nascere figli. Per i nazionalisti le donne sono anzitutto generatrici e riproduttrici, il loro ruolo è quello di essere “madri della nazione”. Farle rimanere incinte significa “contaminare” l’etnia, affermare la supremazia di un popolo su un altro. Vuol dire anche, come dice Flavia Lattanzi, già giudice del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia e di quello per il Ruanda, distruggere una comunità. Spesso, infatti, le donne stuprate sono ripudiare dai loro mariti e allontanate dalle loro famiglie. In alcune culture sono considerate come paria, nessuno le sposerà più. Per questo le violenze rimangono spesso impunite: lo stupro è taciuto affinché la donna sia ancora in grado di trovare un marito. Alcune delle vittime, poi, sono poco più che bambine, adolescenti che si ritrovano a crescere da sole figli non voluti, figli di guerra. La comunità internazionale ha il dovere di fare luce sugli stupri commessi in Ucraina, raccogliendo testimonianze, verificando fatti e accertando responsabilità, affinché mai più si consideri lo stupro uno sfortunato ma inevitabile effetto collaterale della guerra. Che cosa rivelano gli stupri di guerra di Dacia Maraini Corriere della Sera, 29 marzo 2022 La guerra è profondamente reazionaria e regressiva: detesta le libertà e la rivendicazione dei diritti. Probabilmente è per questo che piace tanto ai tiranni. Chi ancora pensa e scrive che lo stupro è un atto che viene acceso da un impeto sessuale, anzi da un desiderio improvviso e focoso nei riguardi del corpo femminile, sbaglia di grosso. Lo stupro, soprattutto quello di gruppo, sconosciuto fra gli animali, è un’arma intimidatoria tutta umana, e ha un valore simbolico grave e devastante. Nell’atto dello stupro il pene diventa la spada che taglia, ferisce e penetra nel luogo sacro della nascita, appropriandosi allegoricamente della grande forza della procreazione. L’uomo che stupra è come se dicesse, nel linguaggio potente dei vincitori, “Io qui ora sono il padrone invado il tuo corpo nemico e lo riempio del mio seme e se avrai un futuro, questo porterà i segni del mio dominio e della mia proprietà”. Come immaginare una offesa più profonda di quella di un nemico che introduce la sua identità nel progetto procreativo del vinto? Come difendersi da un attacco così insinuante alla specificità profonda di un popolo? Credo che si capisca come, al posto del desiderio sessuale che, nella sua normalità si basa su condivisione e reciprocità, subentrino primitivi istinti di dominio, appropriazione violenta, e controllo del territorio. Istinti che si accompagnano sempre a brutalità, aggressività, odio. Tutti impulsi che la guerra suscita e coltiva. La guerra è profondamente reazionaria e regressiva: detesta le libertà e la rivendicazione dei diritti. Probabilmente è per questo che piace tanto ai tiranni. Oltre al fatto che ogni azione guerresca compatta in maniera automatica il senso dell’appartenenza e l’odio verso il vicino e il diverso. Per le donne poi è proprio una disgrazia. Oltre a rischiare la vita, a dovere affrontare emergenza e sofferenze, saranno spinte ad occupare i ruoli tradizionali. L’abbiamo visto in questi giorni con l’Ucraina: via le donne e i bambini, gli uomini alla guerra. Tornano automaticamente le divisioni dei compiti. E con le divisioni dei compiti anche le divisioni di responsabilità e di rappresentanza. “Quando le cose si fanno serie”, ho sentito dire a un militare, “noi uomini dobbiamo prenderci le responsabilità del caso”. Benissimo. Ma peccato che insieme alle responsabilità ci si prenda anche il privilegio delle decisioni sulle libertà di genere e sulla costruzione del futuro. Russia. Chiude la Novaya Gazeta, muore la libertà di stampa di Anna Zafesova La Stampa, 29 marzo 2022 Dopo 29 anni e otto collaboratori uccisi, si ferma l’ultimo giornale di opposizione. Il direttore premio Nobel per la pace: “Non abbiamo altra scelta”. La morte definitiva della libertà di stampa in Russia, annunciata tante volte, è stata certificata a mezzogiorno di ieri, ora di Mosca, quando la Novaya Gazeta ha annunciato di sospendere la pubblicazione. “Abbiamo ricevuto un altro ammonimento dal Comitato russo per la vigilanza (Roskomnadzor). Di conseguenza sospendiamo la pubblicazione sul sito, nei social network e su carta, fino alla conclusione della “operazione militare speciale” in Ucraina. Con rispetto, la redazione”. Poche righe di necrologio, per chiudere una delle pagine più ricche e tragiche del giornalismo libero in Russia, una testata che ha raccontato ventinove anni di storia russa. Migliaia di articoli, centinaia di inchieste e reportage, scritti anche con il sangue di otto giornalisti e collaboratori uccisi, una costellazione di firme di prima grandezza tra cui la più celebre resta quella di Anna Politkovskaya, la prima martire di quella “Russia di Putin” alla quale aveva dedicato il suo libro più famoso. Un giornale nato nel 1993 grazie ai soldi del premio Nobel di Mikhail Gorbaciov, l’uomo che aveva dato inizio alla demolizione del totalitarismo sovietico aprendo alla libertà di stampa, che decide di autocensurarsi, e se ne va spegnendo la luce su quella che da ieri è definitivamente una dittatura militare. Il Nobel per la pace, vinto dal direttore Dmitry Muratov appena sei mesi fa, è riuscito a proteggere la Novaya Gazeta un po’ più a lungo delle altre testate, schiacciate già due settimane fa. Il giornale di opposizione più celebre della Russia è durato 34 giorni di guerra, “i più tragici della nostra storia”, scrive Muratov in una mail inviata ad amici e sostenitori. Mentre il governo chiudeva uno dopo l’altro siti, giornali, televisioni e radio, il team della Novaya ha deciso di proseguire a lavorare, seppure sotto censura: il 96% dei lettori ha votato per non sospendere la pubblicazione. Il giornale è uscito con copertine censurate e ha accettato di non scrivere la parola “guerra”, per la quale in Russia si viene puniti oggi in base all’articolo sul “discredito delle forze armate”. Gli articoli avevano assunto una forma surreale, per esempio, “le conseguenze di (parola proibita dal governo) saranno pesanti”. I giornalisti avevano cercato di non pubblicare notizie dal fronte. Muratov aveva addirittura deciso di non partecipare personalmente alla videointervista che Volodymyr Zelensky aveva concesso a quattro giornalisti di opposizione russi. Si era limitato a trasmettere una domanda. È stato sufficiente: ieri il Roskomnadzor ha ammonito il giornale, per la seconda volta in un anno, per un errore formale, l’aver omesso la dicitura obbligatoria “agente straniero” accanto al nome di una delle Ong o testate già finite nelle liste di proscrizione del Cremlino. Due ammonimenti, secondo la legge russa, rendono possibile la revoca della licenza di un media. Muratov ha preferito non aspettare: “Non abbiamo altra scelta”, ha spiegato. Forse, voleva evitare ai suoi colleghi un’incriminazione formale. Forse, aveva ricevuto dal Cremlino - continuava ad avere ottimi contatti in alcune delle sue stanze - un avvertimento che non si poteva ignorare. “Una decisione terribile e difficile, ma l’importante è conservarci incolumi”. È la fine di tre decenni gloriosi. I reportage dal fronte ceceno che avevano trasformato Anna Politkovskaya nella principale teste di accusa dei crimini dei militari russi contro i civili. Le indagini sulla corruzione di oligarchi e ministri, di Eltsin e di Putin. Le denunce di torture della polizia. Le inchieste sui nazionalisti estremisti e le loro complicità altolocate. La rivelazione della persecuzione dei gay in Cecenia. La verità sulla catastrofe del Covid in Russia. Infine, negli ultimi giorni, gli strazianti e crudeli reportage di Elena Kostiuchenko, forse la vera erede di Politkovskaya, dalle città ucraine bombardate dall’esercito russo. E poi i migliori critici televisivi e cinematografici, gli opinionisti più graffianti, i letterati più famosi e irriverenti: tutto questo oggi appartiene al passato. Il direttore promette ai lettori “un nuovo incontro”, e torna a chiamare la “parola proibita dal governo” con il suo nome: “Come è possibile che il nostro popolo abbia potuto permettere di aprire ben due guerre, quella di occupazione in Ucraina e quella quasi civile in Russia”. Una domanda sulla quale in Russia non è più lecito interrogarsi. Caso Assange, il padre a Roma: “Dai tribunali inglesi grottesca persecuzione” di Alberto Sofia Il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2022 “Ho visto mio figlio Julian Assange pochi giorni fa, nel carcere di Belmarsh, nel giorno del suo matrimonio con Stella Moris. Dopo oltre un decennio di detenzione arbitraria, le sue condizioni di salute non sono delle migliori, ha perso molto peso, lo stress per la continua lotta per la libertà si fa sentire. E ora, se verrà estradato negli Stati Uniti, morirà in prigione”. La denuncia arriva da John Shipton, padre del fondatore di WikiLeaks, intervistato da IlFattoquotidiano.it, nel corso di un incontro organizzato a Roma nella sala della Fondazione Basso, in collaborazione con MicroMega, Filosofia in movimento e il Centro per la riforma dello Stato. Assange è incarcerato da quasi tre anni, dall’11 aprile 2019, nella prigione londinese di massima sicurezza, Belmarsh, che doveva diventare la ‘Guantanamo’ inglese. Sotto accusa per aver reso pubblici documenti che testimoniavano i crimini di guerra commessi dalle truppe degli Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq, Assange ha perso la libertà il 7 dicembre 2010. E da allora non l’ha più riacquistata, mentre attende la conclusione del complesso processo sull’estradizione: l’ultimo capitolo è stato il diniego della Corte suprema britannica a presentare appello contro la decisione con cui l’Alta corte lo scorso dicembre 2021 aveva ribaltato il verdetto in primo grado. Ovvero, quello che negava l’estradizione negli Usa del giornalista d’inchiesta australiano. Una giravolta motivata con la convinzione secondo cui Washington sia in grado di offrire tutte le garanzie per eliminare il pericolo di suicidio durante la sua detenzione. “Secondo Amnesty International queste garanzie non sono però credibili. Così come non lo sono nemmeno quelle sul non inviarlo nel carcere americano più estremo, l’ADX Florence, in Colorado, dove sono rinchiusi criminali del calibro del re del narcotraffico, El Chapo Guzman, oltre che sotto il regime speciale di detenzione SAM, caratterizzato da un feroce isolamento”, spiega Stefania Maurizi, giornalista d’inchiesta collaboratrice del Fatto Quotidiano e tra i massimi esperti al mondo del caso riguardante il fondatore di Wikileaks. “A questo punto la richiesta di estradizione passa al ministero dell’Interno inglese, guidato da Priti Patel, una ministra falco della compagine Tory di Boris Johnson. Per cui è molto probabile che verrà concessa. La difesa potrà ancora fare appello, ma con quali chances?”, continua Maurizi. Eppure, il padre di Julian Assange, John Shipton non intende arrendersi: “Dobbiamo alzare la posta e combattere ancora più duramente per il rilascio di Julian. E ancora insistere affinché la Corte inglese, applicando le proprie leggi, liberi Julian su cauzione prima della prossima udienza. E poi sottoporremo il caso alla Corte europea dei diritti dell’uomo”, aggiunge. Anche perché, in caso di estradizione negli Stati Uniti, con 18 capi di imputazione, tra i quali l’accusa di spionaggio, l’attivista rischia 175 anni di carcere. “Una grottesca persecuzione che va avanti già da 13 anni. La scelta di concedere l’estradizione porterebbe disonore ai giudici, sarebbe una macchia nell’amministrazione del diritto”, ribadisce Shipton. “Julian Assange rischia di diventare il primo giornalista nella storia statunitense a pagare con la reclusione per tutta la vita per aver soltanto svelato documenti importanti, come il vero volto delle guerre in Iraq e Afghanistan, e quei 15mila morti civili e innocenti mai conteggiati nei resoconti ufficiali del conflitto iracheno. Un’ingiustizia mostruosa contro la quale abbiamo il dovere di mobilitarci”, è l’appello di Maurizi, che spiega invece di “non avere fiducia nel processo legale”. All’opinione pubblica si appella anche il padre, John: “Se mi aspettavo che l’elezione di Joe Biden come presidente degli Stati Uniti al posto di Donald Trump potesse cambiare le sorti del caso e rappresentare una svolta? No, le politiche degli Stati Uniti continuano per decenni e decenni, e in questo momento la linea resta quella di perseguitare Assange e altri whistleblower ed editori. Soltanto con l’attivismo di giornalisti, editori e della stessa opinione pubblica si può arrivare a un cambiamento”, aggiunge Shipton. Mentre Maurizi ricorda: “L’incriminazione di Assange è stata promossa da Trump. Nelle amministrazioni Obama, invece, si era valutato, ma non l’aveva mai fatto. Oggi invece Biden non chiuderà il caso”. Una scelta già contestata in modo duro da Daniel Ellsberg, l’analista militare che passò molte notti a fotocopiare di nascosto sette mila pagine top secret che rivelarono come le autorità americane avessero mentito ai loro cittadini sulla guerra in Vietnam e come avessero mandato a morire migliaia di giovani americani. “Il presidente potrebbe chiudere il caso in ogni momento, nel giro di un’ora. È una vergogna che Biden persegua ancora Assange”, aveva attaccato Daniel Ellsberg, intervistato dalla stessa Maurizi. “Ha ragione, avrà un effetto devastante”, spiega la giornalista. Una posizione condivisa da Sara Chessa, reporter che in Inghilterra segue il caso per la testata Independent Australia e attivista della Ong Blueprint for Free Speech: “Se verrà estradato, sarà una sconfitta per tutti. Passerebbe il principio per il quale possiamo essere imbrogliati dai nostri governi su fatti importanti come crimini di guerra, senza che la questione ci interessi”. “Non smetteremo di mobilitarci per ottenere il rilascio di mio figlio. C’è soltanto una strada per la libertà ed è la conoscenza. Abbiamo bisogno della libertà di stampa, non c’è un’altra strada”, è l’appello finale di Shitpton. Algeria. Da un anno in carcere per aver diffuso denunce di tortura di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2022 La vicenda è simile a quella raccontata qui la settimana scorsa: emergono prove di torture in una stazione di polizia ma a finire sotto indagine sono coloro che le hanno rivelate. La volta scorsa in Egitto, questa volta in Algeria. Un anno fa due attivisti di “Hirak”, Mohamed Tadjadit e Tarek Debaghi, pubblicano su Facebook un video nel quale si vede un quindicenne arrestato durante una manifestazione pacifica piangere disperatamente dopo che, dice, agenti di polizia lo hanno aggredito e hanno cercato di stuprarlo. Il video diventa virale e dopo un po’ persino le Nazioni Unite ne chiederanno conto alle autorità algerine. Queste prendono le contromisure per mettere a tacere la vicenda. Il 4 aprile la polizia arresta Tadjadit e un suo amico, Malik Riahi. Il giorno dopo è la volta di Debaghi, Noureddine Khimoud e Souheib Debaghi, imparentata con Tarek. La sera stessa la procura di Algeri annuncia l’apertura di un’inchiesta sulla denuncia di torture. Ma tre giorni dopo, l’8 aprile, la stessa procura convoca una conferenza stampa nella quale afferma che i cinque attivisti sono sotto indagine, che si sta indagando anche sui loro legami col movimento “Rachad”, accusato di terrorismo, che il ragazzino è un tossicodipendente e in quanto tale non credibile e che, infine - dato che per screditare le persone usare il tema dell’omosessualità torna sempre comodo - avrebbe avuto una relazione sospetta con uno degli attivisti. In più, i cinque attivisti avrebbero ricevuto fondi dall’estero per architettare tutta l’operazione allo scopo di minacciare l’unità nazionale e avrebbero sfruttato il quindicenne per fini politici. Le accuse nei loro confronti vengono così formalizzate: offesa a pubblico ufficiale, diffamazione nei confronti della magistratura, pubblicazione di notizie false, corruzione di un minorenne, istigazione di un minorenne alla dissolutezza, minaccia alla vita privata di un minorenne mediante la pubblicazione di immagini che possono danneggiarlo, sfruttamento di un minorenne attraverso l’uso di mezzi di comunicazione in modo immorale e possesso di droga. Da un anno, dunque, i cinque attivisti sono in detenzione preventiva in attesa del processo. Il 28 febbraio hanno intrapreso uno sciopero della fame, interrotto dopo tre settimane a colpi di botte. Per rappresaglia, sono stati trasferiti dalla prigione di al Harrach a quella di al Bouira. Un processo in realtà è iniziato, nei confronti di Malik Riahi, ma per una vicenda separata: è imputato di aver reso pubblico “materiale che pregiudica la sicurezza nazionale”, prodotto dal whistleblower Mohamed Abdellah. Il processo va avanti, col rischio di una condanna a tre anni di carcere. Dei cinque imputati, Mohamed Tadjadit, detto “il poeta di Hirak”, era stato già condannato nel 2019 a un anno e mezzo di carcere, con pena poi ridotta in appello, per “minaccia alla sicurezza nazionale”: aveva declamato versi durante le manifestazioni. *Portavoce di Amnesty International Italia