Riforma del Csm: legge elettorale e “porte girevoli”, ecco i nodi che dividono la maggioranza di Liana Milella La Repubblica, 28 marzo 2022 Oggi alle 17.30 nuovo vertice convocato dalla ministra della Giustizia Cartabia che ha già bocciato come “incostituzionali” le richieste del centrodestra. Il Pd tenta la mediazione e richiama tutti al senso di responsabilità in vista del prossimo voto per il rinnovo del Consiglio superiore. Un passo importante per ricostruire la credibilità della giustizia...” dichiarava l’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede quando - era il 7 agosto 2020 - il consiglio dei ministri approvò la sua riforma del Csm. L’11 febbraio scorso, a palazzo Chigi, la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha presentato i suoi emendamenti alla riforma del suo predecessore. E ha dichiarato così: “Un testo per recuperare la credibilità della magistratura...”. Convinzioni identiche. Le stesse che ha più volte espresso, sollecitando come inderogabile il sì alla riforma, il capo dello Stato e del Csm Sergio Mattarella. Eppure, tra un consiglio dei ministri e l’altro sono passati ben 24 mesi. E la riforma è ancora lì, sulla carta, in attesa di essere discussa dalle Camere, e approvata. E anche questa volta la maggioranza è divisa in due pezzi, da una parte Pd e M5S, dall’altra Lega, Forza Italia e Azione, decisi ad averla vinta, grazie all’adesione di Fratelli d’Italia, sulla legge elettorale tramite il cosiddetto “sorteggio temperato”. Ma Cartabia, nell’incontro precedente ha già detto che i suoi uffici hanno bocciato, come incostituzionale, l’ipotesi del sorteggio. Da ex giudice della Consulta e da ex presidente della medesima, certo non potrebbe sottoscrivere una legge che finisce proprio sul banco della Corte e magari viene anche bocciata. Resterebbe una macchia indelebile sul pedigree di Cartabia. E lei certo non può consentirlo. Come vedremo, altrettanto incostituzionali sarebbero anche le ipotesi di impedire ai parlamentari di diventare membri laici del Csm (lo chiede M5S) e la richiesta (fatta da Enrico Costa di Azione) di inserire anche la responsabilità diretta dei magistrati. Il vertice in via Arenula - Oggi potrebbe essere una giornata decisiva, perché Cartabia riunisce la sua maggioranza intorno a un tavolo, alle 17 e trenta in via Arenula, nella sala Livatino, nota a tutti anche come “sala verde”. E stavolta da qui si deve uscire con un accordo che comprenda anche i senatori, perché è chiaro ormai che per approvare la riforma in tempo sarà necessario ricorrere alla fiducia già alla Camera, dove il testo è previsto in aula l’11 aprile. Come ha chiesto il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni al presidente Roberto Fico. La destra non vuole la fiducia, ricorda che il premier Draghi aveva promesso di non metterla, ma in un caso come questo bisogna fare “di necessità virtù”, e il Dem Walter Verini, nello scorso vertice sulla giustizia, ha riletto le parole di Draghi che garantiva il no alla fiducia a patto che tutti fossero d’accordo. Del resto, se la legge del Csm non passa, c’è il rischio di far saltare l’elezione dei togati del prossimo Csm previste a luglio, oppure di rinviarle. La precedente elezione si è svolta nella prima settimana di luglio del 2018. L’anno dopo - maggio 2019 - il caso Palamara ha terremotato il Csm in carica, costringendo ben sei consiglieri togati a dimettersi. Ma vediamo quali saranno i nodi da affrontare oggi, e cosa cambia con questa riforma. La legge elettorale, maggioritario o sorteggio? Con la legge Cartabia, e già con quella di Bonafede, il Csm torna agli antichi numeri, 20 consiglieri togati, anziché 16 come oggi, e 10 laici, anziché gli attuali otto. Questi ultimi vengono eletti dal Parlamento in seduta comune. La scorsa elezione avvenne il 19 luglio. Il vice presidente, un laico, sarà scelto dallo stesso Csm, e non indicato dal capo dello Stato, come invece avrebbe voluto l’ex presidente della Camera Luciano Violante, nella sua proposta di istituire un Alta corte per giudicare le toghe al posto dell’attuale sezione disciplinare. Che resta invariata al suo posto. Come legge elettorale la ministra Cartabia propone un sistema maggioritario binominale, ricorrendo però anche al sistema proporzionale. Sarà un sistema misto, che si basa su collegi binominali che eleggono due componenti del Csm, ma prevede anche una distribuzione proporzionale di 5 seggi a livello nazionale. Sia il il Csm che l’Anm insistono invece per il proporzionale, ma sicuramente bocciano l’ipotesi del sorteggio. Ed è questo il nodo più duro da affrontare. Perché Forza Italia, Lega e Azione, nonché Fratelli d’Italia, chiedono che la prossima elezione dei togati del Csm si svolga tramite un sorteggio “temperato”, nel senso che prima si estraggono a sorte i possibili candidati, e poi sui nomi usciti le circa 10mila toghe italiane votano. Un sistema - quello del sorteggio prima e del voto poi - per aggirare l’evidente incostituzionalità del metodo, visto che la Costituzione, all’articolo 104, parla di membri togati “eletti” dai colleghi così come i membri laici sono “eletti” dal Parlamento. Per questo Cartabia ha parlato di evidente incostituzionalità. Ma la destra insiste, e da Giulia Bongiorno (Lega) a Pierantonio Zanettin (Forza Italia), si batte per il sorteggio temperato. “Mai più casi Maresca” ovvero stop alle “porte girevoli” - È l’altro tema di scontro. Anche se meno radicale di quello sulla legge elettorale. Rispetto all’attuale sistema - chi si candida in politica, allo scadere del mandato, può ritornare in magistratura, ma senza assumere subito incarichi direttivi - Cartabia cambia le regole. Non potrà più accadere, ad esempio, un caso come quello di Catello Maresca, l’ex sostituto procuratore generale di Napoli candidato sindaco, eletto comunque consigliere comunale per il centrodestra, e ricollocato dal Csm, in base alle regole attuali, come giudice della corte di Appello di Campobasso. Dunque, contemporaneamente, giudice ed esponente politico. Questo non potrà mai più succedere. “Mai più casi Maresca” come ha promesso proprio la stessa Cartabia quando ha partecipato l’8 dicembre scorso a un dibattito alla festa di Atreju invitata personalmente da Giorgia Meloni che la ascoltava in platea. Dunque chi si candida dovrà poi rinunciare a tornare in magistratura ed accettare un ruolo in un ministero. Sorte che dovrebbe toccare anche a chi assume un incarico nel governo, ad esempio un capo di gabinetto, oppure un sottosegretario che non è stato eletto. È il caso del sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli, che arriva dal Consiglio di Stato. Perché le norme sullo stop alle “porte girevoli” si applicano a tutte le toghe, ordinarie, amministrative, contabili e militari. Ma mentre M5S non vuole assolutamente sconti per nessuno e chiede di applicare la proposta di Bonafede, il Pd invece non ritiene giusto che anche i capi di gabinetto - che svolgono un lavoro tecnico nei ministeri - debbano pagare lo stesso “prezzo salato” di chi si candida in politica e viene eletto. L’ostacolo della presunzione d’innocenza - L’ultima grana in ordine di tempo è quella dell’illecito disciplinare sulla presunzione d’innocenza. Che stavolta vede in primo piano il M5S nel chiedere modifiche. Nella riforma del Csm, all’articolo 9, è entrato un nuovo illecito per punire la toga che parla con la stampa, senza che vi sia un “interesse pubblico” per farlo, proprio come dice la legge votata definitivamente all’inizio di novembre. Alle proteste del Csm, che ha votato contro l’ipotesi dell’illecito perché nega il diritto stesso di informare l’opinione pubblica su quello che avviene nei palazzi di giustizia, si aggiungono quelle del M5S che a Cartabia chiede di cambiare il testo, mentre Enrico Costa di Azione all’opposto vuole che resti proprio così com’è adesso. La responsabilità civile diretta - Sicuramente non entrerà nella riforma del Csm la pressante richiesta di tutto il centrodestra di far pagare direttamente ai magistrati, se condannati, il prezzo della responsabilità civile. Avrebbe dovuto essere oggetto di uno dei sei referendum sulla giustizia proposti ai cittadini dalla Lega e dai radicali, sull’onda del successo ottenuto nel 1987 dal referendum lanciato da Marco Pannella, che ottenne l’80,21% di da parte dei votanti. Ma poi la legge dell’ex Guardasigilli Giuliano Vassalli, nonché padre del nuovo codice penale del 1989, stabilì che comunque a pagare fosse lo Stato. Nel 2015, con la legge dell’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, i magistrati furono costretti a pagare, ma la responsabilità è rimasta indiretta, grazie al filtro dello Stato. Adesso la Consulta ha dichiarato inammissibile il referendum sulla responsabilità civile, e la destra cerca di farla rientrare nella riforma del Csm. Ma Cartabia ha già detto che l’ipotesi della responsabilità diretta odora di incostituzionalità. Le pagelle delle toghe e gli avvocati - La Cartabia ha già detto sì al voto degli avvocati nei consigli giudiziari, i mini Csm che esistono in ogni distretto giudiziario e che preparano i currricula dei giudici in vista di una promozione. Un voto che va oltre il solo diritto di tribuna che esiste già attualmente, e cioè il diritto di partecipare alle discussioni, ma senza votare, soprattutto sui curricula delle toghe in vista degli incarichi da ottenere poi al Csm. Quindi gli avvocati - e questo non va giù ai magistrati - avranno il potere, con il loro voto, di determinare anche la “pagella” della toga, che potrà essere ottima, buona, discreta, ma anche cattiva. Il giudizio coinvolgerà anche la tenuta dei provvedimenti giuridisdizionali attraverso verifiche a campione sulle fasi del processo. Ma sarà valutata anche la capacità di organizzare il lavoro con un voto che potrà andare da discreto, a buono a ottimo. E anche su questo il dibattito è aperto, perché il centrosinistra non ha le posizioni oltranziste di Enrico Costa e della stessa Lega. Cartabia: “Che cos’è un Paese senza diritto se non una banda di ladri” di Davide Varì Il Dubbio, 28 marzo 2022 “Non si tratta di dare le pagelle ai magistrati, ma di offrire loro elementi di riflessione aggiuntivi, provenienti da chi osserva l’operare del giudice da un diverso punto di vista”, ha detto il ministro della Giustizia nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del Cnf. Una “riforma necessaria e improcrastinabile”. Così la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha definito la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, al vaglio della Commissione Giustizia della Camera. “Il legislatore è a fianco dei magistrati, consapevole della necessità di un percorso di rinnovamento e autorigenerazione. Ora siamo ancora impegnati come Governo - ha aggiunto - in un’opera di cesello, attraverso un confronto serrato con le forze politiche, per arrivare ad un accordo su un testo condiviso il prima possibile. I tempi sono stretti, in vista del rinnovo del prossimo Consiglio superiore della magistratura, ma abbiamo una fitta agenda di incontri nelle prossime settimane per sciogliere i nodi”. “Non si tratta di dare le pagelle ai magistrati, ma di offrire loro elementi di riflessione aggiuntivi, provenienti da chi osserva l’operare del giudice da un diverso punto di vista. Anche in questo, magistrati e avvocati potranno collaborare più intensamente nei consigli giudiziari, come del resto già avviene nel Csm” ha spiegato Cartabia, nel suo intervento all’anno giudiziario forense. Secondo Cartabia, che ha citato a proposito una recente sentenza della Consulta, va sfatato “il luogo comune che si ritrova talora nel dibattito e che vorrebbe contrapposta l’efficienza alla qualità della giustizia”: “una sollecita definizione dei contenziosi è una meta oggi attingibile, grazie all’impulso e ai fondi del Pnrr, con cui nelle scorse settimane sono entrati negli uffici giudiziari 8.100 giovani dell’ufficio del processo” e “sempre grazie nel quadro del Pnrr il Parlamento ha approvato le leggi delega della riforma del processo penale e civile; la riforma della crisi di impresa e dell’insolvenza”. Cartabia ha ricordato che è giunto a termine anche l’ter di approvazione del decreto per le piante organiche flessibili, che permetterà ai singoli uffici giudiziari di poter contare anche sul supporto ulteriore di altri 179 magistrati. E quanto alle riforme, “si stanno scrivendo i decreti delegati: i vari gruppi di lavoro per il processo penale presenteranno entro il 10 maggio uno schema di decreti legislativi; e entro 15 maggio si concluderanno i lavori per l’attuazione della delega civile”. E ha aggiunto, citando Sant’Agostino “che cos’è un Paese senza diritto se non una banda di ladri”. “Siamo accanto all’Ucraina anche attraverso l’azione del diritto internazionale e della giustizia internazionale che, ne sono certa, si rivelerà decisiva nel tempo” ha sottolineato Marta Cartabia. “L’Italia è stata tra i primi Paesi, ora sono 41, a chiedere l’intervento della Corte Penale internazionale, che attraverso il suo procuratore si sta già attivando per svolgere le indagini e per raccogliere le prove sui crimini commessi in Ucraina”. Pace e giustizia “sono gli obiettivi fondativi dell’Europa unita”, ha sottolineato ancora Cartabia, rilevando che “non possono essere mai considerate acquisite una volta per tutte, ma debbono essere rinnovate, riconquistate ogni giorno”. Jacopo Morrone: “Il nostro sì è per indebolire il sistema delle correnti per l’elezione del Csm” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 marzo 2022 Referendum. L’ex Sottosegretario alla giustizia leghista: “sul sorteggio temperato proposto dalla senatrice del mio partito, Giulia Bongiorno, c’è una convergenza bipartisan”. Oggi terminano i nostri faccia a faccia sui quesiti referendari, proposti da Lega e Partito Radicale. Concludiamo con il quesito che vuole abrogare l’obbligo, per un magistrato che voglia essere eletto in Csm, di trovare da 25 a 50 firme per presentare la candidatura. Ne parliamo con l’onorevole leghista Jacopo Morrone, già sottosegretario alla Giustizia nel Conte I. Onorevole Morrone perché votare sì al quesito che abrogherebbe l’obbligo, per un magistrato che voglia essere eletto in Csm, di trovare da 25 a 50 firme per presentare la candidatura? Questa è la madre di tutte le battaglie per indebolire il sistema delle correnti. Senza l’appoggio di una corrente che garantisca le firme necessarie per candidarsi al Csm, il singolo magistrato oggi è, nei fatti, impossibilitato a farlo. Possiamo quindi affermare, senza tema di smentita, che la partita elettorale per il Csm è gestita dalle correnti e che, di conseguenza, non c’è alcuna opportunità per magistrati anche di valore che non accettano di rientrare in questo schema. Votare sì al quesito referendario significa riportare tutto alle origini e consentire a ogni magistrato di proporre la propria candidatura a componente del Csm. Un’occasione unica, a mio avviso, per superare quel decadimento correntizio su cui a parole sembrano concordare tutti, ma che, nei fatti, appare un tabù insormontabile. Rispetto al dibattito sulla riforma del Csm in Parlamento, i referendum si rendono ancora più necessari? Il dibattito parlamentare sulla riforma del Csm e i quesiti referendari sono complementari e altrettanto necessari. Penso tuttavia che la spinta dei referendum sia indispensabile per sollecitare l’urgenza di una riforma strutturale più radicale, tale da intervenire su un sistema incancrenito che se ne sottrae da decenni con la conseguenza di una grave perdita di credibilità e di fiducia da parte dei cittadini. Voglio ricordare un episodio che mi vide protagonista nel luglio 2018 al mio esordio come sottosegretario alla Giustizia: durante un incontro con i magistrati tirocinanti affermai, tra le altre cose, che le correnti in magistratura avrebbero dovuto essere sempre meno presenti. Apriti cielo, scoppiò un caso politico. Allora, forse, il tema era ancora un tabù, ma era ciò in cui credevo in quel momento, esattamente come lo credo oggi. Le vicende successive, vedi il “caso” Palamara e l’emergere della degenerazione della politicizzazione e del correntismo, mi hanno dato ragione. Sui giornali e soprattutto in televisione c’è un silenzio sui referendum. È preoccupato? È vero. Dei referendum si parla troppo poco e me ne chiedo i motivi. Non sono preoccupato ma ritengo che il dibattito pubblico debba essere stimolato a tutti i livelli. Per quanto riguarda la Lega, c’è una rete capillare di militanti e soci che diffonde motivi e contenuti dei quesiti referendari tra la gente. Di altre forze politiche non so, né mi risulta. Ma non sfugge a nessuno che il dossier giustizia è centrale nel Paese. Se non si risolvono radicalmente i problemi tuttora insoluti, nonostante siano denunciati da anni, dubito che si possa parlare di ripartenza e di vera riforma. Bisogna far capire che questo treno non si può perdere. Il rischio è che permangano quelle situazioni che ostacolano, per le più diverse ragioni, le riforme di cui il sistema giustizia non può fare a meno. C’è da chiedersi se principi fondamentali come la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, la riforma strutturale del Csm, la responsabilità e la valutazione dei magistrati, per citarne solo alcuni, possano arrivare ai risultati attesi se sottoposti a censura o silenziamento anche da parte della politica, oltre che dei media. E c’è poi una domanda successiva altrettanto importante: a chi gioverebbe il fallimento dei referendum? Secondo lei quale sarebbe la data giusta per votarli? Insieme alle amministrative? Dal Viminale si pensa di accorparli ai ballottaggi: potrebbe essere una soluzione? Credo che sarebbe opportuno accorpare i referendum alle elezioni amministrative. Ai magistrati non piace la riforma Cartabia e allo stesso tempo avversano i referendum. Come legge tutto questo? Voglio pensare che la grande maggioranza dei magistrati che lavora silenziosamente con la massima efficienza, rimanendo estranea al sistema delle correnti e alla spartizione politicizzata di prestigiosi incarichi, punti al recupero di credibilità del sistema giustizia, considerando inderogabile una riforma strutturale. Sul sorteggio temperato per il Csm proposto dalla senatrice della Lega Giulia Bongiorno, per esempio, c’è stata una convergenza di vedute bipartisan. Purtroppo ci saranno sempre soggetti anche molto prestigiosi, in qualunque ambito, che considerano un “nemico” chiunque solleciti riforme che, pur giuste e ineludibili, puntano a smantellare poteri consolidati e rendite di posizione. Lo abbiamo già visto e non c’è da illudersi che esitino a mettere in campo strategie per evitare certe riforme. Certo è che i tempi sono cambiati, i “casi” di politicizzazione, correntismo e carrierismo e di guerre interne alla magistratura si sono moltiplicati. Di qui, l’auspicio che la gran parte della magistratura più lungimirante sappia convergere su riforme strutturali che non ne ledono l’indipendenza e l’autonomia, né le prerogative. Giuseppe Marra: “Quesito inutile, chi non trova neanche 25 firme è meglio che non si candidi” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 marzo 2022 Referendum. Per il consigliere del Csm di Autonomia e Indipendenza “il sistema per depotenziare le correnti sarebbe stato quello di prevedere dei collegi elettorali piccoli a livello di distretto”. Oggi terminano i nostri faccia a faccia sui quesiti referendari, proposti da Lega e Partito Radicale. Concludiamo con il quesito che vuole abrogare l’obbligo, per un magistrato che voglia essere eletto in Csm, di trovare da 25 a 50 firme per presentare la candidatura. Secondo i promotori avremmo “così votazioni che mettono al centro il magistrato e le sue qualità personali e professionali, non gli interessi delle correnti o il loro orientamento politico”. Consigliere, votare sì o no al quesito? Questo quesito è del tutto inutile. Eliminare questa norma non cambia nulla perché qualunque magistrato che goda di un minimo di stima e fiducia nel suo ambiente riesce molto facilmente a trovare 25 colleghi che sottoscrivono la sua candidatura, anche se alle spalle non ha alcun gruppo associativo a sostenerlo. Davvero mi sfugge l’utilità di questo quesito referendario. I promotori sostengono però che solo coloro che hanno una corrente a sostenerli possono giocarsi la partita... Se un collega non riesce a raccogliere neanche 25 firme vuol dire che è meglio che non si candidi. Per quanto le correnti possano avere la forza di condizionare il voto, sono assolutamente convinto che un magistrato stimato possa trovare persone che lo candidino senza grosse difficoltà. Aggiungo poi che l’emendamento Cartabia elimina la norma: per cui, se nelle prossime settimane venisse approvata la riforma così come pensata dal governo, il quesito verrebbe meno. Ma allora come si depotenziano le correnti nella elezione del Csm? Secondo me il sistema migliore sarebbe stato quello di prevedere dei collegi elettorali piccoli a livello di distretto in modo da consentire a tutti i magistrati che si vogliono candidare, anche quelli che non hanno alle spalle un gruppo organizzato, di fare la campagna elettorale nelle stesse condizioni di partenza. Fare campagna elettorale significa girare negli uffici: se si tratta di farlo in quelli del distretto in cui si lavora, nel proprio territorio il magistrato che è stimato e conosciuto può essere eletto anche senza l’appoggio delle correnti. Quando invece ci sono, come attualmente, un collegio unico nazionale o come nella bozza Cartabia dei macro collegi molto ampi è chiaro che il singolo magistrato, il cosiddetto indipendente, è svantaggiato in quanto, quando esce dal suo distretto, non lo conosce nessuno. Forse solo Nino Di Matteo, che il gruppo di Autonomia & Indipendenza ha sostenuto ma che certamente non appartiene a nessuna corrente, è riuscito ad essere eletto perché ha una notorietà nazionale che hanno pochissimi in Italia, i giudici men che meno. Lei come si spiega il fatto che una riforma così importante come quella del Csm e dell’ordinamento giudiziario ancora non sia approdata in Aula, con il rischio che il dibattito venga seriamente compromesso? Addebito questo ritardo alle divisioni all’interno del governo così eterogeneo. Una volta che il ministro Bonafede è stato sostituito è come se si fosse ricominciato da zero. E poi, come abbiamo appurato leggendo i giornali, le forze che lo appoggiano sono divise. Per questo si è cercato di prendere tempo per trovare una mediazione ma sembra che l’accordo sia ancora lontano. Anzi, si rischia che in Commissione Giustizia della Camera passi il sorteggio grazie a una maggioranza diversa rispetto a quella governativa in quanto ci sarebbe l’appoggio anche di Fratelli d’Italia. Da quanto emerso dalle discussioni in plenum a voi questa riforma non piace. Qual è il punto più critico? A parole è stato fissato un obiettivo, ossia quello di limitare il potere o comunque il condizionamento delle correnti sia nel momento elettorale sia successivamente nell’attività del Csm. Tuttavia gli strumenti proposti - legge elettorale ma anche tutto il resto per quanto concerne la nomina dei direttivi e le valutazioni di professionalità - non hanno la forza di incidere sulla capacità delle correnti di influenzare questi momenti. Anzi, per certi versi, la situazione viene addirittura peggiorata se solo pensiamo alla proposta di modifica della legge elettorale: in plenum non c’è stato nessun togato né laico che abbia difeso questo sistema di voto. L’introduzione di una quota di eletti con un sistema di fatto proporzionale è stato un passo avanti, ma esso è limitato perché riguarda solo cinque eletti su venti togati. È pertanto evidente l’inadeguatezza delle proposte rispetto allo scopo prefissato, pur consapevoli tutti che non esiste una legge elettorale perfetta e priva di controindicazioni. Come se lo spiega? È stata fatta la Commissione Luciani, la ministra ha tenuto degli incontri anche con l’Anm. Eppure alla fine non piace alle forze politiche, non piace ai magistrati, non piace agli avvocati, se pensiamo alle dure critiche mosse dall’Unione Camere Penali... Sinceramente non me lo so spiegare. La ministra ha istituito una Commissione ma poi non ha seguito le sue indicazioni, non ha dato ascolto all’Anm e da quello che leggo appunto anche l’avvocatura penalista è scontenta. Come ho ribadito nel mio intervento in plenum non si riesce a comprendere la ratio di questa riforma. Mentre nella riforma Bonafede c’era un filo conduttore, un’idea di fondo abbastanza chiara invece nella riforma Cartabia, a mio avviso, questo non è riscontrabile. Penne spezzate. Così giornalisti e fotoreporter diventano bersagli di guerra di Fausto Mosca Il Dubbio, 28 marzo 2022 Sono 23 i cronisti uccisi nel 2022. E non solo in Ucraina, dove le vittime sono già 6 in pochi giorni, ma in tutto il mondo chi cerca di informare rischia la vita. Sono già ventitré i giornalisti uccisi nel mondo da inizio anno. Un numero impressionante e destinato aumentare probabilmente mentre leggete questo articolo. In meno di un mese, nella sola Ucraina devastata dalle bombe sono già sei - tra giornalisti, fotoreporter e operatori - i martiri dell’informazione. A spegnersi, come vittime collaterali del conflitto e deliberatamente bersagliati, non “solo” donne e uomini al servizio dell’opinione pubblica ma gli unici occhi indipendenti sul campo, le uniche testimonianze delle reciproche atrocità belligeranti libere dalla propaganda. E Kiev non è il luogo in cui si muore con più frequenza. Secondo il “Barometro” di Reporter senza frontiere, aggiornato in tempo reale, nel solo 2022 sono già sette i giornalisti uccisi in Messico, che vanno ad aggiungersi agli assassini in Myanmar, Brasile, India, Siria, Iran, Haiti, Ciad Yemen. Senza contare i 362 operatori dell’informazione imprigionati in questo momento il tutto il mondo: 57 in Myanmar e 26 in Arabia Saudita (la monarchia assoluta ritenuta responsabile del brutale assassinio di Jamal Ahmad Khashoggi). Ucraina - L’ultima a perdere la vita nel conflitto in corso in Ucraina, il 23 marzo, è Oksana Baulina, giornalista russa del sito indipendente The Insider. Dal primo giorno della guerra Baulina aveva già firmato reportage da Kiev e Leopoli. E quando un razzo l’ha colpita nel distretto di Podolsk, a Kiev, stava documentando la distruzione provocata dal lancio di razzi in un centro commerciale. Il 14 marzo rimangono uccisi sotto le bombe il fotoreporter irlandese di Fox News Pierre Zakrzewski, e la giornalista ucraina Alexandra Kuvshynova. Il giorno prima, il 13 marzo, il giornalista e documentarista statunitense Brent Renaud viene crivellato con colpi d’arma da fuoco provenienti dall’esercito russo mentre a Irpin filma la disperazione dei profughi in fuga dalla città. L’11 marzo, è toccato a Viktor Dedov, operatore dell’emittente ucraina Sigma-TV finire sotto le macerie del suo appartamento a Mariupol, la città più colpita dai bombardamenti russi. E durante l’attacco missilistico alla torre della Tv di Kiev, il primo marzo, a morire è il cameraman di Live Tv Yevheniy Sakun. Ma la guerra in Ucraina non ha di certo iniziato a mietere morte il 24 febbraio, il giorno dell’invasione russa. È da almeno otto anni - dalle proteste filo europeiste che portarono alla cacciata del presidente filo russo Viktor Yanukovich e alla conseguente annessione della Crimea da parte di Putin - che il conflitto tra Kiev e Mosca va avanti nel quasi disinteresse dei media e dell’opinione pubblica occidentale. Una guerra sanguinosa che solo pochi giornalisti non hanno mai smesso di mostrare. Come Andrea Rocchelli, giovane fotoreporter freelance originario di Pavia, ucciso vicino a Sloviansk, nell’Ucraina Orientale, mentre documenta le condizioni dei civili intrappolati in Donbass, insieme a Andrej Mironov, giornalista e attivista politico russo, entrambi colpiti da una scarica di colpi di mortaio durante gli scontri fra Guardia nazionale ucraina da una parte e indipendentisti filorussi. L’unico imputato per l’omicidio, Vitaly Markiv, sergente italo-ucraino della Guardia nazionale, dopo una condanna di 24 anni in primo grado, è stato assolto in Appello. Gli italiani - Escludendo le vittime della criminalità organizzata, sono decine i giornalisti italiani uccisi in guerra dagli anni Ottanta. Almerigo Grilz (34 anni) muore in Monzambico nel 1987 colpito da un proiettile alla testa mentre sta filmando un attacco dei guerriglieri della Renamo contro postazioni governative. Il 28 gennaio del 1984 a Mostar, in Bosnia, tre inviati della Rai di Trieste Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D’Angelo vengono colpiti da una granata croato-bosniaca mentre tentano di riprendere un bambino che giocava in strada nonostante il bombardamento. E sempre nel 1994, il 20 marzo, vengono uccisi in Somalia, a Mogadiscio, la giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e l’operatore triestino Miran Hrovatin. L’anno dopo, nella stessa città, viene ammazzato l’operatore del Tg2 Marcello Palmisano. E poi Antonio Russo di Radio Radicale ucciso a Tiblisi il 16 ottobre 2000; Maria Grazia Cutuli, Corriere della Sera, perde la vita in Afghanistan il 19 novembre 2001; Raffaele Ciriello, Corriere della Sera, ucciso il 13 marzo del 2002 da una raffica di proiettili israeliani a Ramallah; Enzo Baldoni, Iraq, 26 agosto 2004; Fabio Polenghi, Bangkok, 19 maggio 2010; Vittorio Arrigoni, Gaza, 15 aprile 2011; Simone Camilli, Striscia di Gaza 13 agosto 2014. Ilaria Alpi. Quel mistero lungo 28 anni tra depistaggi ed errori giudiziari di Francesca Spasiano Il Dubbio, 28 marzo 2022 Ancora nessuna verità sull’omicidio della giornalista del Tg3 e dell’operatore Miran Hrovatin. Negli ultimi giorni lo hanno ripetuto in tanti, che se Ilaria Alpi fosse viva di certo il suo posto sarebbe in Ucraina. Magari insieme ai colleghi del Tg3, gli inviati che raccontano il conflitto dal terreno di guerra, e tutti gli altri che lo scorso 20 marzo l’hanno ricordata nell’anniversario della sua morte. Perché la guerra Ilaria l’aveva vista da vicino, a più riprese, fino all’ultima missione che gli è costata la vita, 28 anni fa, quando ne aveva soli 33. La storia è nota. Meglio, è noto che non c’è alcuna storia ufficiale. Sappiamo che il 20 marzo 1994 Ilaria Alpi è stata assassinata a Mogadiscio, in Somalia, insieme al suo operatore di fiducia Miran Hrovatin, 45 anni. I loro corpi furono trovati nei pressi dell’ambasciata italiana, dove si consumò l’agguato: una scarica di kalashnikov li aveva raggiunti a bordo di una Toyota diretta all’hotel Hamana, senza lasciargli scampo. Mentre chi aveva esploso i colpi, un commando di almeno sei o sette uomini, sparì nel nulla a bordo di una Land Rover. Sembrò subito un’esecuzione, un’operazione mirata. Anche se poi si parlò di un tentativo di rapina, di un sequestro finito male. Neanche sulle cause della morte, tra certificati spariti e perizie incrociate, c’è una versione univoca che abbia certificato se i colpi (o il colpo) alla tempia fossero partiti da vicino, come in un’esecuzione, oppure da lontano, come in un “agguato casuale”. A ripercorrere gli ultimi 28 anni di inchieste, commissioni parlamentari, indagini e processi - nei quali hanno sfilato dirigenti e funzionari della Digos, del Sismi e del Sisde - viene il mal di testa. I mandanti di quel duplice omicidio restano ignoti, impuniti. Non ci sono risposte, alle domande che Ilaria non aveva smesso di porre. Di certo c’è solo l’esito del processo di revisione a Perugia che nel 2016 ha assolto definitivamente il cittadino somalo Omar Hashi Hassan, precedentemente indicato come componente del commando dal “supertestimone” Gelle e condannato a 26 anni di carcere nel 2002. Un tassello, un errore giudiziario costato ad Hassan 17 anni di carcere, che si aggiunge a una sequenza di testimonianze contrastanti e depistaggi. Una catena di ipotesi e teorie in cui si fa strada la certezza che Alpi avesse scoperto un traffico di armi e di rifiuti tossici illegali nel quale erano coinvolti anche l’esercito e altre istituzioni italiane. E che per questo sia stata silenziata. Ma come ci era finita, Ilaria, dentro questo mistero che dura ancora? “1.400 miliardi di lire. Dove è finita questa impressionante mole di denaro? Alcune opere come la conceria e il nuovo mattatoio di Mogadiscio sono semplicemente inattivi”, si legge tra i suoi appunti. In Somalia ci era arrivata nel 1992. Si trattava di seguire, come inviata del Tg3, la missione di pace Restore Hope, promossa dalle Nazioni Unite per porre fine alla guerra civile scoppiata nel 1991. Ma Ilaria aveva una pista, e aveva deciso di seguirla fino in fondo. In poco tempo il suo volto era diventato il volto delle donne assediate dai conflitti, la voce di chi la guerra la subisce sulla propria pelle. Ed è per questo che non è così difficile immaginarla oggi lì, in Ucraina, dove si pesca a fatica la verità tra bombe, macerie e colpi di propaganda incrociata. “Non cerco giustizia, voglio solo conoscere la verità”, ha ripetuto negli anni la mamma di Ilaria, Luciana Alpi. Che nel 2018 invece è morta senza aver ottenuto neanche un briciolo di ciò per cui si è battuta senza sosta. Anna Politkovskaja, le parole contro la violenza del potere di Simona Musco Il Dubbio, 28 marzo 2022 “L’unico dovere di un giornalista è scrivere ciò che vede”. La cronista di Novaja Gazeta fu assassinata il 7 ottobre del 2006: il nome del suo mandante non fu mai svelato. I colleghi: “uccisa per il suo lavoro”. “Stiamo precipitando in un abisso di stampo sovietico, in un vuoto di informazione che, sull’onda della nostra ignoranza, provoca morte. Tutto quello che ci rimane è Internet, dove è ancora disponibile l’informazione. Per il resto, se vuoi continuare a lavorare come giornalista, è solo servilismo nei confronti di Putin. Altrimenti può esserci la morte, un proiettile, un veleno o un processo, quello che i cani guardia di Putin, i suoi servizi speciali, ritengono appropriato”. Era il 2004 quando Anna Politkovskaja, giornalista della Novaja Gazeta, scriveva queste parole, nel libro, intitolato “La Russia di Putin”. Due anni dopo, il 7 ottobre del 2006, proprio nel giorno del compleanno di Putin, la giornalista venne uccisa nell’ascensore del suo palazzo, a Mosca, a soli 48 anni. Una morte arrivata dopo anni passati a raccontare con coraggio quanto accadeva in Cecenia, in quella guerra che era servita allo zar a costruire la sua ascesa al potere. Assieme a lei, dal 27 ottobre 1999 a oggi, periodo in cui Putin ha avuto in mano il Paese come primo ministro o presidente, hanno perso la vita altri 30 giornalisti russi. E la sola Novaja Gazeta conta in quell’elenco di morte sei dei suoi cronisti. “Una situazione insostenibile, tossica”, ha affermato il direttore Dmitrij Andreevic Muratov, vincitore del Premio Nobel per la pace nel 2021. Anna non concedeva sconti al potere. E il potere, di certo, non poteva perdonarle quell’affronto, forse il più temuto, come dimostra oggi il silenziatore imposto dalla Duma alle voci libere del Paese. Ci provarono anche con lei, più volte, con minacce aperte o velate, fino a quando nel settembre del 2004, mentre si recava a Beslan per seguire il sequestro e il massacro degli ostaggi nella scuola numero 1 del capoluogo dell’Ossezia del Nord, rimase vittima di un misterioso avvelenamento, secondo lei riconducibile ai servizi segreti russi. Quegli avvertimenti, però, non erano stati in grado di fermare le sue parole. “L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede”, diceva. E così continuò a fare, con i suoi reportage sulle brutalità della “sporca guerra” in Cecenia e gli abusi compiuti dalle truppe federali. Racconti minuziosi, i suoi, sugli orrori commessi dalle forze russe e da quelle cecene nel corso della guerra dichiarata da Putin e ufficialmente nota come “operazione antiterrorista nel Caucaso del nord”, che contava esecuzioni di massa, sequestri e torture. Politkovskaja raccontava tutto in maniera impietosa, denunciando le connivenze del Cremlino, la violenza e la disumanità dell’esercito in Cecenia. Continuò a parlare fino al pomeriggio di 15 anni fa. Quel pomeriggio Anna era andata al supermercato, dove a controllare i suoi movimenti, come svelarono poi le telecamere di sorveglianza installate nel negozio, c’erano un uomo col volto coperto da un berretto da baseball e una giovane donna. Al ritorno, dopo aver parcheggiato la sua auto a pochi passi dall’ingresso del suo palazzo, entrò in ascensore per portare le buste della spesa fino alla porta del suo appartamento, al settimo piano, per poi rifare la strada al contrario. Ma una volta aperte le porte dell’ascensore al piano terra venne investita da una pioggia di proiettili, che la lasciarono senza vita. I primi due la colpirono dritta al cuore, il terzo alla spalla, così violento da scaraventarla dentro l’ascensore. Poi il colpo di grazia alla testa, sparato a distanza ravvicinata, per assicurarsi di non lasciarle scampo. A terra, vicino al suo corpo senza vita, la pistola Makarov 9 mm, firma di quell’assassinio spietato e brutale. Secondo quanto dichiarato dai colleghi, “la prima ipotesi è che Anna è stata uccisa a causa del suo lavoro”. La giornalista, infatti, era in procinto di pubblicare un lungo articolo sulle torture perpetrate dalle forze di sicurezza cecene legate al primo ministro, Ramsay Kadyrov. Ma il suo omicidio rimarrà senza un mandante: lo scorso anno, infatti, sono trascorsi 15 anni dal delitto, tempo massimo previsto dal codice penale russo per accertare l’autore del reato, che pertanto è sollevato dalla responsabilità. “Per legge - ha scritto Novaya Gazeta - solo un tribunale può estendere questo termine. Altrimenti, i mandanti rimarranno impuniti”. Non sono bastati tre processi, dunque, per dare un nome e un cognome a chi ha ordinato la sua morte: le indagini, dimostratesi subito lacunose, vennero chiuse in pochi mesi senza individuare la mente di quel delitto. Solo dopo il terzo processo, nel 2014, sono state condannate cinque persone: al ceceno Rustam Makhmudov, considerato l’esecutore materiale del delitto, e a suo zio Lom Ali Gaitukayev, considerato l’organizzatore, è stata inflitta la pena dell’ergastolo. L’ex dirigente della polizia moscovita Sergey Khadzhikurbanov, anche lui ritenuto organizzatore dell’omicidio, è stato condannato a 20 anni, mentre Dzhabrail e Ibragim Makhmudov, fratelli del presunto killer e ritenuti suoi complici, sono stati condannati invece a 14 e 12 anni di carcere. “Non posso dire di essere soddisfatto della sentenza perché non sono stati individuati i mandanti, che è la cosa più importante”, aveva dichiarato dopo il verdetto il figlio della giornalista, Ilia. Su ricorso della famiglia, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha depositato il 17 luglio 2018 una sentenza di condanna nei confronti di Mosca per non aver condotto un’inchiesta efficace per determinare chi abbia commissionato l’omicidio. Un omicidio che Politkovskaja aveva previsto, nell’ultima intervista rilasciata al sito israeliano “Newsru”: “Ci sono delle persone che hanno promesso di ammazzarmi. Chi? Il presidente ceceno Ramzan Dadyrov. Non gli piace che io lo ritenga un bandito di Stato, che lo consideri uno degli errori tragici di Putin. È un pazzo”. Cassazione: il detenuto al 41bis può ricevere gli stessi pacchi alimentari degli altri reclusi di Tommaso Siani La Città di Salerno, 28 marzo 2022 Rigettato il ricorso del Ministero: niente rischi di comunicazione con l’esterno. Potrà ricevere pacchi contenenti generi alimentari cotti e prodotti simili come i detenuti comuni il sarnese Patrizio Picardi, affiliato al clan camorristico dei Mallardo e detenuto in regime di massima sicurezza al 41bis: lo ha stabilito la Corte di Cassazione, rigettando il ricorso presentato dal ministero della Giustizia - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, avverso il provvedimento del Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia del 14 ottobre 2020. Picardi aveva lamentato “la lesione del proprio diritto soggettivo derivante dal divieto di acquisto al cosiddetto “sopravvitto” degli stessi generi alimentari accessibili ai detenuti comuni, nonché di non poter ricevere cibi cotti nei pacchi postali inviati dall’esterno, ritenendo che tali limitazioni cagionino un attuale e grave pregiudizio al detenuto, nel contempo determinando una ingiustificata disparità di trattamento”. Il Ministero con l’Avvocatura dello Stato aveva chiesto l’annullamento del provvedimento impugnato, denunciando la violazione di legge. “In realtà, la stessa Corte costituzionale aveva ritenuto legittimo il mantenimento di modalità di controllo tali da escludere che, attraverso l’acquisto di beni alimentari di lusso o di particolare pregio, possa essere acquisita o mantenuta una posizione di supremazia all’interno dell’istituto penitenziario”. Il magistrato di sorveglianza aveva accolto i reclami di Picardi, “disponendo che a cura della Direzione di quell’istituto penitenziario gli fosse consentito di acquistare gli stessi generi alimentari previsti per i detenuti in regime ordinario, con applicazione degli altri limiti e divieti di cui alla Circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del 2 ottobre 2017, nonché che allo stesso fosse consentito di ricevere cibi cotti dall’esterno, nei limiti ordinari dei pacchi ricevibili e ferme le ordinarie modalità di controllo”. Il Tribunale aveva evidenziato come la sospensione delle regole del trattamento ordinario “deve essere finalizzata a prevenire contatti con l’organizzazione criminale onde impedire il controllo di attività illecite dell’organizzazione e la consumazione di ulteriori delitti all’esterno degli istituti di pena; situazione nella specie non ricorrente, atteso che le limitazioni dei cibi acquistabili sarebbero estranee alla ratio dell’istituto e assumerebbero un valore esclusivamente afflittivo”. Non ci sono ragioni di interrompere comunicazioni con affiliati o soggetti all’esterno, potenzialmente riconducibili all’organizzazione: i beni richiesti da Picardi non comportano rischi di sorta in tal senso, non vanno contro la necessità di impedire forme di comunicazione con l’esterno o il perpetuarsi di logiche associative nel contesto penitenziario, anche attraverso l’acquisizione di una posizione di supremazia su altri detenuti. Così rischiamo una repubblica giudiziaria di Eugenio Occorsio La Repubblica, 28 marzo 2022 L’ultimo saggio di Sabino Cassese. In Italia ci sono sei milioni di cause pendenti. La durata media di un processo civile è di sette anni (contro la media europea di due), 3 per il penale: proprio quest’elemento è il più citato dalle aziende internazionali quando si rifiutano di investire da noi. Eppure, in questo quadro disastrato il potere dei giudici aumenta. Anzi, la magistratura sembra diventata parte della governance nazionale e invade la politica e l’economia fino a proporsi in apparenza finalità palingenetiche delle strutture sociali. Si è sfumata fino a perdersi la ripartizione costituzionale fra poteri esecutivo, legislativo e giudiziario. Com’è stata possibile negli ultimi trent’anni, da Tangentopoli in poi, questa deriva? Se lo chiede Sabino Cassese, padre nobile dei costituzionalisti italiani, nel suo ultimo saggio, “Il governo dei giudici”, appena uscito da Laterza. Che comincia enumerando i tanti paradossi, come il fatto che la magistratura, cronicamente sotto organico (come prova la lunghezza dei processi), fornisce propri appartenenti copiosamente a segreterie e Gabinetti di ministeri di ogni natura. Simbolo negativo è il Csm, che ha fallito in pieno in tutte e due le sue funzioni - difensore dei magistrati da tentativi di condizionamenti e simmetricamente garante del contenimento della loro funzione all’interno della sfera giurisdizionale - per diventare viceversa terreno delle più spregiudicate scorribande torrentizie. Ma anche contro le procure si accanisce Cassese: sempre negli ultimi anni troppe volte si è ricorso alla carcerazione preventiva per estorcere confessioni, e la lunghezza dei processi ha stravolto completamente la fase indagatoria preliminare rendendola il cuore dell’azione penale. Il pericolo, avverte Cassese, è di trasformare l’Italia in una “repubblica giudiziaria”. La differenza fra questo e i generici atti d’accusa urlati da tribuni di ogni specie, è però sostanziale: da fine giurista, Cassese senza pregiudizi né paraocchi ci conduce attraverso i vari passaggi che hanno portato alle attuali discrepanze. Intanto, le leggi sono troppe, spesso si sovrappongono e applicarle è difficile. Finisce anche che leggi sbagliate determinano decisioni sbagliate, e continueranno a determinarne finché non saranno cambiate, ma deve farlo il Parlamento. Questa e altre carenze qualitative della classe politica hanno paracadutato giocoforza l’ordine giudiziario su una ribalta impropria e anche scomoda. L’abuso dell’istituto delle authority - come quella anticorruzione ha sì creato corpi specialistici ma a forza di sovraccaricarli di attribuzioni e deleghe li ha trasformati in parafulmini delle carenze statuali. L’opinione pubblica non di fida più degli uomini politici, apprezza malgrado tutto ancora l’indipendenza dei giudici e finisce fatalmente con l’attribuirgli una natura profetica e oracolare. Si finisce con il dimenticare, scrive Cassese citando Montesquieu (che per primo teorizzò la divisione dei poteri), che “il potere giudiziario è privo d’azione” ed è comunque sempre appellabile a un livello superiore. Il potere dei giudici è reattivo su singoli fatti e non proattivo nel determinarli, al giudice non è permesso il “non liquet”, insomma rifiutarsi di decidere, inoltre ha un potere circoscritto alla questione che gli viene posta, non può fare compromessi o introdurre compensazioni. Se nell’opinione pubblica le decisioni dei giudici trovano uno spazio crescente, una riflessione sul ribilanciamento dei tre poteri è inevitabile. Ma deve essere equilibrata e consapevole. La religione del populismo penale di Vincenzo Carriero cosmopolismedia.it, 28 marzo 2022 “Senza Vendette - Ricostruire la fiducia tra magistrati, politici e cittadini”, edito da il Mulino, è un pamphlet agile e poliforme in egual misura. Il dialogo tra Luciano Violante e Stefano Folli è un rimbalzo luccicante di intelligenze vive. Il diritto nasce dal singolo, il dovere nasce dalla comunità. Consigli non richiesti per una democrazia cagionevole di salute Nel rapporto tra politica e attività giudiziaria sembrano enumerarsi tutte le tare di questo Paese. I suoi ritardi storici. Le sue anomalie strutturali. In Germania per difendere la democrazia hanno costruito uno Stato forte. In Italia per difendere la democrazia abbiamo costruito uno Stato debole. Raramente un libro scritto con la tecnica dell’intervista, in maniera dialogica, coniuga una tale lucidità analitica con il coraggio delle provocazioni. L’avvio e la conclusione di ragionamenti definiti, non lasciati in sospeso, refrattari alle scorciatoie semantiche implicite negli slogan. “Senza Vendette - Ricostruire la fiducia tra magistrati, politici e cittadini”, edito da il Mulino, è un pamphlet agile e poliforme in egual misura. Il dialogo tra Luciano Violante e Stefano Folli è un rimbalzo luccicante di intelligenze vive. Mai dome. Mai girate dall’altra parte del buon senso. La stagione di Mani Pulite e delle stragi di Palermo segna l’apice di uno squilibrio tra giustizia e politica le cui avvisaglie erano ravvisabili già in precedenza. Ad un osservatore di lungo corso della politica e ad un protagonista della magistratura prima - e della politica poi - il merito di essersi interrogati sulle differenti forme di destabilizzazione, e prevaricazione, del potere. Il nodo gordiano da sciogliere, secondo l’ex presidente della Camera, s’iscrive lì dove tutto ebbe inizio. Agli albori del diritto nostrano. Nelle pieghe della legge delle leggi. “I costituenti, d’intesa tra loro, decisero di avere parlamenti e governi deboli, partiti forti e una magistratura con un livello di indipendenza sconosciuto a qualunque altro ordinamento costituzionale”. Quando Borrelli, il procuratore di Milano, arriva ad affermare agli inizi di Tangentopoli, che occorreva “entrare e rovesciare tutto”, il sistema - con le sue anomalie di fondo - non si tiene più. Sgretola. Si sfarina irrimediabilmente. “Il giudice - argomenta Violante - avverte l’illusione di essere protagonista di una palingenesi morale, non di una lotta contro una parte politica, ma contro tutte le parti politiche”. È l’avvio della religione del populismo penale. Della società punitiva che trae alimento dal rancore sociale. Dell’uso politico della giustizia. Servivano - e servono - deterrenti. Riforme ragionate più che urlate. A cominciare dall’opportunità di rivedere il potere di impugnazione del pm nei confronti delle sentenze di assoluzione. Le norme sostanziali indeterminate, intrecciate a quelle processuali poi, funzionano come “mandati a conoscere”. Come autorizzazioni ad introdursi nella vita dei cittadini e delle imprese, meglio se appartenenti alle élite, che a volte sembrano diventare le nuovi classi pericolose, come gli oziosi e i vagabondi dei codici dell’Ottocento. I “mandati a conoscere” in un sistema fondato sull’obbligatorietà dell’azione penale diventano strumenti d’investigazione illimitata. Permanente. Qualcosa d’inconciliabile con la cultura liberale di un grande Paese dell’Occidente. La negazione, in ultima istanza, di una dimensione storico-spirituale della magistratura. Perché se in passato la minaccia all’indipendenza dei giudici veniva dall’esterno, oggi viene dall’interno della magistratura. A causa del peso anomalo delle correnti e dei capicorrente del Csm. E del principio, solo italiano, del primato del diritto sulla politica. Quando, invece, negli altri ordinamenti, si verifica l’esatto contrario. “Ma il problema investe la sola magistratura?”, si chiede Folli. “Occorre un’educazione civile all’esercizio del potere; tanto della magistratura quanto della politica”, ribatte Violante. Consci del fatto che senza i buoni costumi le leggi sono destinate ad essere lettera morta. Il prevalere della disgregazione e dell’avventura, secondo l’amara previsione di Craxi nel discorso a Montecitorio del 3 luglio 1992, andrà prima o poi arginato. Mediante il ripristino dello stato di salute di una democrazia. Nelle buone relazioni tra la politica e la giustizia. Il diritto nasce dal singolo, il dovere nasce dalla comunità. Agire presto - e bene - è una responsabilità di tutti. Prima che il nulla ci fagociti. Questa guerra, le democrazie e il destino dei populismi di Massimo Giannini La Stampa, 28 marzo 2022 Stanca di guerra, come la Teresa di Jorge Amado, l’Europa non riesce a badare e a bastare a se stessa. Tutto intorno risuona solo uno spaventoso clangore bellicista, fatto di luoghi e di parole che rievocano le immani tragedie del Novecento. Da Varsavia, mentre dà fuoco alle polveri nel Castello Reale distrutto dai caccia della Luftwaffe di Hitler, Biden rilancia il nuovo “scontro di civiltà” del Terzo Millennio, non più contro l’Islam radicale ma contro il “macellaio” di Mosca: in Ucraina si combatte un conflitto epocale tra le democrazie e le oligarchie, chi prevarrà tra noi e loro, quali valori? Da Mosca, mentre conta morti e feriti della sua criminale “operazione militare speciale”, Putin risponde lanciando un’Opa grottesca sulla mamma di Harry Potter e rilanciando un anatema delirante: è l’Occidente che vuole distruggere la Russia, la “cancel culture” applicata al pensiero pan-slavo ricorda i roghi dei libri compiuti dai nazisti. Da Bruxelles, dove ha appena sprecato dieci lunghissime ore di discussione plenaria, l’Unione europea non ha molto da rilanciare, se non il suo vuoto a perdere. È vero, non siamo mai stati così moralmente convinti e compatti. Ci salda l’idea di contrapporci al Piccolo Padre dell’ex Kgb che, come spiega il filosofo Michel Eltchaninoff, non si fermerà perché è ormai prigioniero della sua narrazione ideologica, dunque ammanta questa guerra di una dimensione messianica e civilizzatrice, spacciandola come una battaglia quasi metafisica tra l’Ovest materialista e la Russia portatrice di principi religiosi, spirituali. Di fronte a una minaccia di questa portata, che non è più solo militare ma è anche valoriale, sappiamo bene qual è il nostro posto nel mondo e per questo siamo volitivi e vogliosi di fare “fronte comune”. Dove difettiamo e fatichiamo, invece, è nel tradurre il cemento morale in unità di azione politica e di innovazione economica. Fa fede il Consiglio europeo di due giorni fa. Doveva far scudo non tanto e non solo ai missili ipersonici, ma anche e soprattutto ai ricatti energetici della Federazione Russa, che venderà gas e petrolio solo a chi paga in rubli. E invece quel vertice ha confermato purtroppo i timori già espressi sul nostro giornale da Domenico Quirico, Massimo Cacciari e Lucio Caracciolo. La Ue appare fatalmente schiacciata tra i “tre imperi”. E, dietro la facciata, il formidabile schieramento sanzionatorio espresso finora da Eurolandia resta segnato dalle incompatibilità culturali e dagli interessi divergenti dei singoli Stati membri. Pensiamo solo alla giusta proposta italiana di fissare un tetto massimo al prezzo del gas, che ridurrebbe costi per il mercato energetico europeo e margini per il mercato valutario russo: l’hanno fermata Olanda e Germania, che prevedono di affrancarsi dal petrolio e dal gas di Mosca già entro il primo semestre del 2024. Oppure al “trattamento speciale per la Penisola iberica” nella gestione dei prezzi dell’elettricità: l’hanno richiesto e ottenuto Spagna e Portogallo, perché hanno tante fonti rinnovabili e poche interconnessioni di rete. Uniti a parole, divisi nei fatti. Così finiamo per fare il gioco del nemico. Mentre in Ucraina distrugge vite e città, Putin in Occidente scommette sulle nostre debolezze. Individua le crepe del muro euro-atlantico e ci si infila dentro per allargarle. Perché fa il duro in Italia, minacciando ministri e denunciando giornali, mentre è più morbido con le altre cancellerie? Sa bene che qui il torbido acquitrino russofilo è più pescoso, perché lui stesso l’ha pasturato ai tempi del governo gialloverde. Per la Lega il Metropol di Mosca non è solo un bell’hotel in stile liberty costruito prima della Rivoluzione bolscevica. Per i Cinque Stelle “Dalla Russia con amore” non è solo il secondo capitolo della saga di James Bond. Noi italiani dovremmo dimenticare e far dimenticare per sempre queste pagine nere della nostra Storia, quando abbiamo rischiato di consegnare le chiavi della nostra democrazia a un dittatore russo e a un imperatore cinese. Ma soprattutto dovremmo renderci conto che da Kiev a Leopoli, da Mariupol a Odessa, è in corso una partita che sconvolgerà per sempre le regole del gioco, su scala locale e globale. Torniamo a Biden: chi vincerà? Le autocrazie o le democrazie? Cioè “noi” o “loro”? E se vinceremo noi, come io credo e spero, come cambieranno le democrazie? È la domanda-chiave, che ha formulato Giovanni Orsina su queste colonne, il 3 marzo. La sua tesi è che le democrazie, basate sul consenso e la libertà individuale, generano per definizione spinte centrifughe. Per questo la presenza di un nemico le aiuta sempre. Dopo l’11 settembre c’è stato il jihadismo, dopo l’austerità innescata dal Big Crash del 2008 c’è stato il populismo, negli ultimi due anni c’è stato il Covid. Ora c’è lo Zar reincarnato, che riempie il nostro immaginario psico-politico con i vecchi fantasmi dell’Urss: la Cortina di ferro e la minaccia atomica, gli SS-20 e Sigonella. Queste paure eserciteranno una funzione centripeta per le democrazie. E spingeranno inevitabilmente le opinioni pubbliche verso un ritorno del Potere, riportandone già ora e prepotentemente alla ribalta il lessico: “sovranità”, “forza”, “interesse nazionale”, “sicurezza”, “difesa”. In questo scenario le fratture politiche dell’ultimo decennio - europeisti e sovranisti, partitismi e populismi - sembrano destinate a ricomporsi. La tesi di Orsina è affascinante. Ma si porta dietro un’altra sub-domanda cruciale: possiamo immaginare che con la sporca guerra di Putin la stagione populista sia destinata a esaurirsi? Qui la questione si fa più complessa. Se guardiamo alle dinamiche che già ora stanno caratterizzando le leadership europee, la risposta non è univoca. In Germania parrebbe di sì: il governo sembra orientato a non allentare i cordoni del Patto di Stabilità, e Scholz ha appena annunciato una spesa per armamenti da 100 miliardi che trasforma l’esercito tedesco da “banda di aggressivi campeggiatori” (vedi Limes, numero 2-2022) a terza potenza militare del pianeta. In Francia si direbbe di no: le presidenziali del 10 aprile sono arrivate, e nonostante il frenetico attivismo diplomatico di queste settimane Macron crolla di 8 punti, mentre rimontano pericolosamente le due estreme di Marine Le Pen e Jean-Luc Melenchon. In Italia, patria delle contraddizioni, sembrano convivere tutte e due le dinamiche. Come già successe ai tempi della ex Jugoslavia e del Kosovo, dell’Afghanistan e dell’Iraq, la guerra dà e la guerra toglie. Definisce identità e sancisce marginalità. Mario Draghi, sul fronte internazionale più defilato per oggettiva irrilevanza del Paese, sul fronte interno incarna quel “ritorno del Potere” di cui parla Orsina: la guerra ha ridato centralità al suo governo, il cui destino sembrava irrimediabilmente segnato prima del 24 febbraio. A sinistra il Pd di Letta, pur con le sue limitazioni aritmetiche e le sue contraddizioni politiche, si conferma partito di sistema e pilastro della coalizione: i nemici lo chiamano “governismo”, gli amici “responsabilità”, ma il risultato non cambia. A destra il partito della Meloni continua la sua ascesa: reale o strumentale che sia, la netta virata atlantista le conferisce un “quarto di nobiltà” occidentale, anche se ora si attende un’analoga svolta sull’agenda economica, vero buco nero di Fratelli d’Italia. Sullo sfondo, con criticità uguali e contrarie, restano Lega e Movimento Cinque Stelle, le due non-più-forze del primo populismo tricolore. Da una parte Salvini. Incoronò Putin sommo statista del pianeta e adesso che bombarda i civili non riesce nemmeno a chiamarlo per nome. Voleva dare le pistole ai vigili urbani ma adesso che dovremmo mandare armi alla resistenza ucraina dice “non in mio nome”. Dall’altra parte c’è Conte. Ha firmato da premier l’accordo per portare gli investimenti della Difesa al 2 per cento del Pil, “impegno preso con la Nato”, ma ora annuncia il no dei 5S allo stesso aumento delle spese militari, anche a costo di far cadere il governo perché “ognuno farà le sue scelte”. Come finirà la comica guerricciola italiana, dentro la tragica guerra ucraina, è difficile dire. Ma tra un anno si vota. Gli esiti del conflitto si preannunciano devastanti sul fronte economico e sociale: inflazione e recessione, energia razionata e domeniche a piedi, penurie alimentari e povertà universali. Tra le macerie belliche, si intravede il drammatico “dopo” di cui scriveva Tacito: “Fanno un deserto, e lo chiamano pace”. Un deserto fatto di paura, disagio, rabbia sociale. E per quanto confuso, sbiadito, malconcio, il populismo grillo-leghista sembra pronto ad attraversarlo. Spese militari, il premier Draghi pronto a mettere la fiducia. L’invito ai partiti a non dividersi di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 28 marzo 2022 Così la conversione del decreto Ucraina verrebbe “protetta” da ordini del giorno rischiosi per la maggioranza. Comunque non ci sarebbero risorse per aumenti entro il 2024. Il “buon senso” che Giuseppe Conte chiede a Mario Draghi per disinnescare il tema politicamente esplosivo degli armamenti militari è lo stesso atteggiamento che il presidente del Consiglio si aspetta dal predecessore a Palazzo Chigi. Nei vertici internazionali il capo del governo italiano invoca l’unità degli alleati contro la guerra di Putin all’Ucraina e la stessa unità Draghi pretende, sul piano interno, dai partiti che sostengono la variegata coalizione di unità nazionale. Una politica che “vuol bene al Paese e vuole la pace” non deve dividersi, è il mantra dell’ex presidente della Bce. A Draghi certo non fanno piacere tensioni e fibrillazioni in Parlamento e nemmeno gli sfugge la ritrovata consonanza di accenti tra Conte e Salvini. Eppure il premier si mostra convinto che il M5S sarà responsabile e “la maggioranza resterà compatta”. La questione dell’aumento delle spese per la difesa agita da giorni i partiti. Conte è arrivato a stoppare preventivamente ogni “forzatura”, chiedendo in sostanza a Draghi di non puntare all’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil entro il 2024, ma di diluire l’impegno in un arco temporale più lungo. Altrimenti, ha ammonito il presidente del Movimento, toccherà allo stesso premier assumersi la responsabilità di mettere a rischio la tenuta della maggioranza. Le parole che Conte ha scandito in tv da Lucia Annunziata, su Rai3, sono state ascoltate con attenzione nelle stanze della presidenza del Consiglio e nelle segreterie dei partiti. E la lettura, ai piani alti del governo, è che il leader dei 5 Stelle stia parlando non tanto a Draghi, quanto agli iscritti e ai militanti. “Si sta montando una gran caciara sul nulla”, è la conclusione ottimistica di un esponente del governo. D’altronde i fondi per aumentare entro il 2024 le spese per la Difesa non ci sono, per arrivare al 2% del Pil mancano una quindicina di miliardi e la gradualità invocata da Conte “è già nelle cose”. La ex ministra dem Roberta Pinotti, che guida la commissione Difesa del Senato, è rimasta colpita dai “toni molto duri” di Conte, ma poi anche lei si è convinta che il leader del M5S non cerchi la crisi di governo: “Se si fa l’analisi dei suoi ragionamenti si capisce che Conte è contrario a un aumento massiccio delle spese per la difesa, ma comprende come gli impegni assunti in sede Nato vadano rispettati”. Lo stesso Conte quando era premier li rispettò ed è anche per questo che i suoi toni ultimativi vengono interpretati nel governo come una “mossa tattica” per parlare agli iscritti del M5S, chiamati a votarlo come presidente. Non risulta che ieri il premier e il leader del Movimento si siano parlati, né che ci sia nell’agenda di Palazzo Chigi un incontro imminente. Ma quando si sentiranno o si vedranno sarà lo stesso Conte a spiegare a Draghi il perché della sua virata, dopo che alla Camera l’intera maggioranza, M5S compreso, aveva votato compatta l’ordine del giorno della Lega sull’aumento delle spese per gli armamenti fino al 2%. Domani il decreto Ucraina approda nella commissione Esteri del Senato, guidata da Vito Petrocelli. L’esponente filo-Puntin del Movimento preme su Conte perché ritiri i ministri dal governo e ha coniato l’hashtag #nofiduciaDraghi. Visto il clima, a Chigi devono aver pensato che non sia il caso di procedere al buio. Alle otto di stasera il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà presiederà la videocall con i capigruppo di maggioranza, i presidenti delle commissioni Esteri e Difesa e il sottosegretario agli Affari europei, Enzo Amendola. Obiettivo: trovare un accordo prima che si cominci a votare. Il problema sono gli ordini del giorno ed è per disinnescarli che a Palazzo Chigi si è ormai deciso di porre la questione di fiducia: soluzione che consentirebbe a Conte di tenere compatto il gruppo, nonostante i maldipancia. Nel vertice con D’Incà si valuterà l’ipotesi di un ordine del giorno di maggioranza, così “soft” da tenere tutti dentro. E di come fronteggiare l’ordine del giorno di Fratelli d’Italia, che ricalca quello approvato alla Camera e poi rinnegato come “un errore” da Conte. Il governo potrebbe recepire il testo dell’opposizione, che verrebbe così votato solo in commissione. FdI segnerebbe un punto e per Draghi sarebbe un pareggio, perché eviterebbe la spaccatura della maggioranza. Ragionamenti e strategie che il voto di fiducia sembra destinato ad azzerare. L’Ucraina, la guerra, le armi e una rischiosa commedia di Paolo Mieli Corriere della Sera, 28 marzo 2022 La decisione di portare le spese militari al 2 per cento del Pil fu presa dall’Italia nel 2014. Nel tempo che da allora è trascorso, tale impegno, è stato sostanzialmente disatteso. Ma nessuno dei presidenti del Consiglio (tra i quali Giuseppe Conte) aveva mai rivelato d’averlo fatto in omaggio a Gandhi. A pensarci bene non è poi così importante che i senatori del M5S votino al Senato per l’aumento delle spese militari. Qualora decidessero di comportarsi in maniera difforme dai loro colleghi della Camera - i quali hanno votato a favore del provvedimento - darebbero solo un’ennesima testimonianza del caos che governa le loro procedure. Come è noto la decisione di portare le spese militari al 2 per cento del Pil fu presa dall’Italia otto anni fa, nel 2014. Nel tempo che da allora è trascorso, tale impegno, come capita non di rado, è stato sostanzialmente disatteso. Ma nessuno dei presidenti del Consiglio (tra i quali Giuseppe Conte) che hanno evitato di aggiungere una dozzina di miliardi agli stanziamenti per armi e soldati, aveva mai rivelato d’averlo fatto in omaggio a Gandhi. Adesso Conte annuncia che la decisione di opporsi (forse) all’aumento delle spese militari è legata, oltre ad una vocazione pacifista, a due percentuali. La prima è quella di un suo complicato ricalcolo delle spese stesse da cui risulterebbe che i miliardi da impegnare sarebbero due, tre, o anche meno. Magie dei conteggi. La seconda percentuale è quella dei voti che Conte prenderà oggi alle elezioni interne del M5S. Elezioni alle quali l’ex presidente del Consiglio si presenta nella speranza di ottenere una consacrazione di proporzioni tali da consentirgli la messa all’angolo di Luigi di Maio (che però non figura ufficialmente come avversario). Una meta ambiziosa, certo. Gli auguriamo che la percentuale si avvicini al 98%, obiettivo non irraggiungibile visto che per quella conta interna corre senza rivali. Osserviamo solo che forse non era necessario coinvolgere in una elezione del genere l’Ucraina e gli adempimenti dettati all’Italia dall’appartenenza all’Alleanza atlantica. D’altronde si può affermare che nemmeno le altre forze politiche si siano mostrate all’altezza delle ore che stiamo vivendo. Niente è venuto da parte loro che appaia destinato a restare impresso nella memoria. Fatta eccezione, va detto, per gli alti vertici dello Stato (a proposito: videro giusto coloro che un mese e mezzo fa - a differenza di chi scrive - si pronunciarono per la conferma di Sergio Mattarella al Quirinale e di Mario Draghi a Palazzo Chigi; chissà in che situazione ci troveremmo se le cose fossero andate diversamente). Doveroso è altresì dar atto ai segretari dei più consistenti partiti della sinistra e della destra d’aver preso una posizione netta. In uno stato però di percepibile isolamento: ben pochi sono stati, nelle formazioni di Enrico Letta e di Giorgia Meloni, quelli che hanno davvero dato man forte ai loro leader. Pochissimi. Sul versante opposto, è giusto riconoscere al presidente della Commissione esteri del Senato Vito Petrocelli, al capo di Sinistra italiana Nicola Fratoianni e al segretario della Cgil Maurizio Landini di aver tenuto alta la bandiera anti Nato e di aver offerto un punto di riferimento nitido a coloro che fin dall’inizio hanno individuato negli Stati Uniti i principali responsabili della guerra in Ucraina. Può apparire un rapporto sproporzionato a favore dei ben disposti alle ragioni di Zelensky. Ma non è così: tra questi ultimi i più si sono sentiti in dovere di bilanciare la propria presa di posizione ufficiale, con la manifestazione di un turbamento ispirato ai moniti di papa Francesco. Accompagnato, a destra, da una certa difficoltà a pronunciare il nome stesso di Putin. Il tutto corroborato da una generica invocazione di iniziative atte a riconquistare la pace. Come se da qualche parte si incontrasse qualcuno che, invece, ad un tale genere di trattativa è o è stato contrario. Difficile credere che potesse essere considerata una prova di ostilità al dialogo la risposta positiva dell’Occidente alla resistenza ucraina che fin dall’inizio ha implorato che le si desse una mano. Nella politica italiana c’è stata però anche qualche sorpresa. Alcune positive, altre meno. A sinistra, Sergio Cofferati e Pier Luigi Bersani hanno ben spiegato quanto sia stato improprio “consigliare” ai resistenti ucraini (talvolta esplicitamente) di arrendersi. Per quel che sono e rappresentano non era detto che lo avrebbero fatto. Curiosamente Matteo Renzi, a un mese dall’inizio della crisi, è tornato a proporre Romano Prodi e Angela Merkel nel ruolo di mediatori. E lo ha fatto proprio nel momento in cui la Merkel in Germania ha cominciato ad essere criticata per aver favorito la dipendenza energetica del suo Paese dalla Russia. La portavoce storica di Prodi, Sandra Zampa, ha dichiarato che non c’è bisogno di “più Nato” bensì “degli Stati Uniti d’Europa”. Lodevole. Peccato che il No alla Nato sia per oggi, il Sì agli Stati Uniti d’Europa, invece, per domani (forse anche dopodomani). Carlo Calenda ha considerato sia giunto il momento per dichiarare la propria contrarietà all’ingresso dell’Ucraina nella Ue (peraltro già annunciata in passato). Matteo Salvini ha ritenuto fosse giunta l’ora di render nota la propria allergia alle armi (mai rivelata precedentemente). Silvio Berlusconi ha giudicato prudente non impegnarsi in qualche considerazione sul comportamento odierno dell’”amico Putin”. In vista, dicono i suoi, della possibilità d’esser preso in considerazione per il ruolo di mediatore. Eventualmente al posto di Prodi o della Merkel qualora i due si ritraessero. Va notato che uno storico rivale del cavaliere, Carlo De Benedetti, ha pubblicamente avanzato il sospetto che dietro la ritrosia berlusconiana a pronunciarsi sull’autocrate russo si nascondano, più banalmente, questioni di soldi. Se a tutto ciò si aggiunge che il Parlamento è pressoché paralizzato, che i famosissimi obiettivi del Pnrr sono scomparsi dall’orizzonte e già si annuncia l’elaborazione di un nuovo, aggiornatissimo, piano di resilienza, resta una sola considerazione: tra un anno - stavolta non si sfugge - ci saranno le elezioni politiche; e, se affronteremo in questo modo la parte che ci riguarda dell’ora più buia, stavolta corriamo davvero grandi rischi. La guerra aumenta le diseguaglianze di Guido Alfani* La Repubblica, 28 marzo 2022 Gli effetti finanziari dell’invasione russa in Ucraina. Le grandi catastrofi, quali guerre e pandemie, tendono a influire su diseguaglianza e povertà. L’impatto redistributivo delle pandemie, che sino a un paio d’anni or sono appassionava solo gli specialisti, è stato brutalmente posto al centro dell’attenzione da Covid-19. L’invasione russa dell’Ucraina dovrebbe farci riflettere su come anche le guerre possano influire sulle diseguaglianze. Nella storia d’Europa, una terribile pandemia (la Peste Nera del 1347-52) e due Guerre Mondiali sono stati gli unici eventi capaci di produrre una contrazione significativa e duratura della diseguaglianza di ricchezza, che altrimenti ha teso a crescere costantemente nei secoli. Si tratta, però, di casi assolutamente eccezionali. Neppure le più gravi pestilenze successive alla Peste Nera, compresa la peste manzoniana del 1630, riuscirono a riequilibrare le disparità socio-economiche, e nessuna delle grandi guerre dell’età preindustriale ebbe effetti redistributivi lontanamente comparabili alle Guerre Mondiali - con una parziale eccezione: la Guerra dei Trent’anni (1618-48) che in Germania, dove fu particolarmente dura e agì di concerto con la peste, condusse a una sostanziosa riduzione della diseguaglianza di ricchezza. Ciò che distinse la Guerra dei Trent’anni dagli altri conflitti dell’età moderna fu la sua eccezionale brutalità. In altre parole, fu proprio il livello inconsueto di distruzioni materiali a indurre un drastico livellamento. Solo le Guerre Mondiali fecero di peggio, determinando un’ampia distruzione di capitale finanziario (specialmente la prima) e fisico (specialmente la seconda). Nel caso di conflitti meno devastanti, l’impatto sulle diseguaglianze è esattamente l’opposto: sia perché essi offrono eccezionali occasioni d’arricchimento a individui e imprese ben posizionati per coglierle, ad esempio nel campo delle forniture militari, sia perché tendono a mettere in secondo piano le esigenze della società civile, quindi a ridurre o sospendere gli sforzi redistributivi. In età preindustriale, quando la tassazione era regressiva (e quindi colpiva in modo relativamente più pesante i poveri rispetto ai ricchi), l’aumento della pressione fiscale causato dalla guerra agiva come un ulteriore stimolo alle diseguaglianze. Storicamente, dunque, l’impatto netto di ciascuna guerra sulla diseguaglianza è stato determinato dal prevalere di uno o l’altro di una serie di fattori contrastanti. Applicando questo schema di ragionamento al conflitto in corso, la prima conclusione è che nel territorio ucraino le distruzioni materiali già molto ampie, ma che potrebbero facilmente divenire devastanti, tenderà a portare a un livellamento delle diseguaglianze economiche, almeno nel breve periodo. Non si tratta, però, di redistribuzione di risorse, ma di distruzione di beni posseduti in modo diseguale - in altre parole, di un gioco senza vincitori. Come in ogni altra guerra, certamente alcuni risulteranno economicamente avvantaggiati, ma probabilmente si tratterà in massima parte di non-ucraini, vista l’origine delle forniture civili e militari al governo di Kiev. Per giunta, l’Ucraina non è un Paese ricco (nel 2021 il suo Pil pro-capite è stato pari a circa un ottavo di quello italiano), e la guerra non potrà che impoverirla ulteriormente. Entro il continente europeo, quindi, le diseguaglianze tra aree relativamente povere o ricche aumenteranno, dinamica che solitamente alimenta i flussi migratori. Quindi, a parte la crisi dei rifugiati attualmente in corso, l’Europa dovrebbe prepararsi a una crisi migratoria vera e propria, potenzialmente di lunga durata. *Docente Università Bocconi Disuguaglianze, un’Italia senza mobilità mantiene le ingiustizie sociali di Maurizio Franzini, Michele Raitano e Francesca Subioli Il Domani, 28 marzo 2022 La mobilità nelle posizioni individuali contribuisce ad alleviare l’impatto negativo che la disuguaglianza esercita sulla giustizia sociale, e su tutto ciò che ne consegue. Più dell’80 per cento della disuguaglianza complessiva deriva da disuguaglianza permanente; negli 11 anni che vanno da quando i lavoratori hanno 35 anni a quando ne hanno 45, le differenze di reddito anno dopo anno sono largamente spiegate dalle differenze nei redditi medi guadagnati nel corso dell’intero periodo. Siamo una società che tende a cristallizzare le posizioni individuali e che, per di più, riesce ad aggravare le disuguaglianze decretando l’ulteriore arretramento di chi - soprattutto donne, lavoratori meno istruiti e del sud - già occupava i gradini più bassi della scala economica. Quando, come è avvenuto negli scorsi decenni, gli indicatori della disuguaglianza economica registrano un aumento vuol dire, banalmente, che nel periodo considerato è aumentata la distanza tra i redditi delle persone. Quegli indicatori non sono, però, in grado di rispondere a un’importante domanda: anno dopo anno, i ricchi e i poveri sono sempre gli stessi o nelle posizioni in alto e in basso nella scala dei redditi ci sono individui diversi? La questione è importante per diversi motivi: perché aiuta a comprendere le cause e anche le conseguenze della disuguaglianza, e perché fornisce informazioni sul grado di mobilità economica e sociale che rende quest’ultima diversamente accettabile. Se gli indicatori di disuguaglianza segnalano un peggioramento ma, al contempo, le posizioni individuali nella scala dei redditi vengono “rimescolate”, c’è ragione per considerare meno grave quel peggioramento. In breve, la mobilità nelle posizioni individuali contribuisce ad alleviare l’impatto negativo che la disuguaglianza esercita sulla giustizia sociale, e su tutto ciò che ne consegue. Il caso italiano - Sappiamo poco, con specifico riferimento al nostro paese, di come si “rimescolino” le posizioni di coloro che appartengono alla stessa generazione, e la ragione è soprattutto la scarsa disponibilità di dati “longitudinali”, cioè di dati che consentono di seguire per molti anni i redditi di un campione rappresentativo di individui. I dati amministrativi dell’Inps, sui quali stanno lavorando Francesca Subioli e Michele Raitano, consentono, però, di acquisire importanti informazioni in questa prospettiva, relativamente ai redditi da lavoro. Esaminando le carriere lavorative dei singoli individui si può stabilire se esse hanno seguito dinamiche simili ovvero diverse e, quindi, valutarne gli effetti, nel corso del tempo, sulla disuguaglianza e sulla mobilità dei redditi individuali. È anche importante sottolineare che quest’ultima può scaturire dalla maggior crescita, lungo la carriera, dei redditi di chi si posizionava inizialmente nella parte bassa della distribuzione rispetto a chi partiva da posizioni più elevate (e si tratterebbe di una mobilità buona), ovvero da oscillazioni che proiettano alcuni individui in alto nella scala dei redditi in un anno e in basso nell’anno successivo (questa più che mobilità si potrebbe chiamare volatilità, e come tale foriera di insicurezza). Molti studi hanno documentato la crescita, negli scorsi decenni, della disuguaglianza nei redditi da lavoro: con riferimento all’universo dei lavoratori dipendenti privati, l’indice di Gini delle retribuzioni annue lorde, in base ai dati Inps, tra il 1982 e il 2017 è cresciuto del 24 per cento, passando da 0,34 a 0,42. La ricerca si concentra su un campione di circa 25mila lavoratori, uomini e donne, nati tra il 1940 e il 1973. Per confrontare le dinamiche reddituali in generazioni successive, tutti sono osservati nella stessa fase della loro carriera, tra i 35 e i 45 anni. Si tratta di una finestra temporale adatta ad approssimare il benessere complessivo lungo tutta la carriera, e sufficientemente lunga da consentire una stima accurata delle dinamiche del reddito individuale. Disuguaglianza sempre - Il risultato principale è che più dell’80 per cento della disuguaglianza complessiva deriva da disuguaglianza permanente; negli 11 anni che vanno da quando i lavoratori hanno 35 anni a quando ne hanno 45, le differenze di reddito anno dopo anno sono largamente spiegate dalle differenze nei redditi medi guadagnati nel corso dell’intero periodo e perciò si può parlare di disuguaglianza permanente. Peraltro, con il passare delle generazioni quest’ultima è cresciuta di importanza: tra i nati dopo il 1965 ha raggiunto il 90 per cento della disuguaglianza totale. Nel corso del tempo si è anche ridotta la probabilità che nel corso di quegli 11 anni il reddito cresca: di coorte in coorte i casi in cui ciò si è verificato sono scesi dall’85 per cento circa a meno del 65 per cento (60 per cento per le donne). Ciò è conseguenza del diffondersi di carriere insicure e discontinue, che non garantiscono di certo una costante progressione dei salari; al contrario, esse possono spingere in molti casi il reddito guadagnato a 45 anni al di sotto di quello percepito 11 anni prima. Queste evidenze permettono anche di fornire una spiegazione delle crescenti disuguaglianze nei redditi da lavoro più articolata di quella, ricorrente, che le riconduce quasi esclusivamente ai bassi e molto volatili salari dei più giovani che, anche in seguito delle riforme del mercato del lavoro, incontrano difficoltà crescenti al momento della loro entrata nel mercato del lavoro. Questo fenomeno esiste ed è rilevante, ma l’esame delle dinamiche delle carriere lavorative tra i 35 e I 45 anni di età segnala che all’aggravarsi delle disuguaglianze contribuisce l’ampliarsi della sperequazione, persistente e non occasionale, nei redditi percepiti da coloro che sono nella fase centrale della loro carriera lavorativa. Molta eterogeneità - Va anche sottolineato che le dinamiche delle carriere nascondono importanti eterogeneità: per le donne si registra un livello maggiore di volatilità reddituale, soprattutto se si tiene conto dei periodi di non occupazione. Inoltre, come atteso, i più istruiti hanno maggiore probabilità di sperimentare redditi crescenti, con progressione più rapida e più volatile degli altri. Tuttavia, nel passaggio alle coorti più recenti, il vantaggio dell’istruzione in termini di maggiore mobilità sembra essere scomparso quasi del tutto, mentre è aumentato il livello di volatilità dei redditi dei lavoratori a bassa istruzione anche a causa della maggiore frequenza di periodi trascorsi fuori dal mercato del lavoro. Infine, differenze fra le macroaree geografiche emergono solo quando nell’analisi si includono anche gli eventuali anni di disoccupazione: i buchi lavorativi di almeno 12 mesi, infatti, aggravano la disuguaglianza permanente tra i lavoratori del sud e quelli del centro nord e, inoltre, sono responsabili della maggiore volatilità dei redditi del sud rilevata nelle coorti a noi più vicine. Il quadro complessivo che emerge è, dunque, quello di una società più rigida che mobile che tende a cristallizzare le posizioni individuali e che, per di più, riesce ad aggravare le disuguaglianze decretando l’ulteriore arretramento di chi - soprattutto donne, lavoratori meno istruiti e del sud - già occupava i gradini più bassi della scala economica. Dunque più disuguaglianza “cattiva”, senza il lenitivo della mobilità. Se si vogliono combattere le disuguaglianze non si può non tenerne conto. La mano tesa della Ue ai profughi ucraini di Anais Ginori La Repubblica, 28 marzo 2022 L’Unione europea è finalmente pronta a compiere un passo verso la solidarietà nell’accoglienza ai profughi. L’accordo per garantire lo status di rifugiato, la mobilità e un sostegno economico alle persone in fuga dai bombardamenti russi in Ucraina non è solo un atto morale dovuto nella tragedia di una guerra vicina che non permette più l’alibi della distanza geografica e culturale. È la premessa di una rivoluzione copernicana che mette al centro il principio della condivisione nella gestione di flussi migratori provocati da conflitti ed emergenze umanitarie. Il paradosso vuole che quello che l’Italia ha faticato ad ottenere negli ultimi anni, stia riuscendo a paesi come la Polonia e gli altri governi di Visegrad che hanno sempre osteggiato qualsiasi iniziativa di aiuto, mentre ora si ritrovano in prima linea. Certo, l’intesa trovata in queste ore per sostenere il governo di Varsavia è stata in qualche modo agevolata dal fatto che non è possibile disquisire sulla differenza tra rifugiati e migranti economici. Le donne e bambini che scappano sono evidentemente profughi che necessitano protezione. In qualche giorno è stato superato quel limite finora inscalfibile del “Paese del primo approdo”, stabilito dalle regole di Dublino, secondo cui erano i governi che avevano frontiere esterne dell’Ue dovevamo farsi carico dei profughi, ritrovandosi in completa solitudine se non attraverso vaghi accordi di redistribuzione che mai hanno davvero funzionato. Non si contano i vertici europei finiti in un’impasse per l’egoismo di quelli che non riuscivano a vedere che l’appartenenza all’Unione produce diritti ma anche doveri. La tragedia epocale di milioni di profughi in uscita da un paese aggredito anche perché aspira a far parte dell’Ue ha messo in difficoltà la retorica sovranista che, non a caso, aveva tra i massimi ispiratori governi ora tra i più esposti all’emergenza. Aprendo il semestre di presidenza francese dell’Ue, Emmanuel Macron aveva ammesso che c’erano scarse possibilità di chiudere un accordo sul Patto Asilo e Immigrazione. Tre mesi dopo, diventa invece possibile ripensare il diritto-dovere di accoglienza in una gestione condivisa tra i ventisette paesi. Se è vero che l’Unione avanza solo attraverso le crisi, l’effetto combinato della pandemia e della guerra in Ucraina ha già portato a diverse rivoluzioni. Quella del Recovery Fund ha permesso di fare il salto dell’indebitamento comune per fronteggiare lo shock simmetrico del Covid e investire nelle sfide del futuro, dalla transizione ecologica al digitale. In meno di due anni i piani di ripresa e resilienza sono diventati una realtà, e si discute ora di come modularli, adattandoli alle nuove necessità tra cui anche le spese per una Difesa comune che fino a poco fa sembrava un’altra delle tante chimere dell’Unione. Gli ostacoli per una vera integrazione degli eserciti europei e per far lavorare insieme i gruppi industriali del settore sono ancora tanti. Ma l’Ue si è dotata di una bussola strategica, sta costruendo una forza rapida di intervento con cinquemila uomini, lavora con una Nato che non è più in “morte cerebrale”, come aveva detto Macron, ma è di nuovo impegnata sul Vecchio continente. L’Europa avanza, scoprendosi nuove vulnerabilità, a cominciare dalla dipendenza energetica, ma nel frattempo ha imparato a riconoscere le sue leve di forza, basti pensare quello che è successo anche con l’acquisto collettivo dei vaccini contro il Covid. Tutto è ancora da confermare. Lo slancio del Recovery Fund non dovrà infrangersi sul ritorno dell’ortodossia dei Paesi del nord, e passata l’emergenza dei profughi ucraini i governi dell’Est saranno chiamati a ricordarsi di cosa significa essere solidali. Ma il salto culturale è ormai compiuto: l’Ue non è più una potenza riluttante. Fino a 30 euro al giorno per rifugiato. Ecco gli aiuti alle famiglie che ospitano di Alessandra Ziniti La Repubblica, 28 marzo 2022 Fino a 30 euro al giorno per rifugiato. Ecco gli aiuti alle famiglie che ospitano. Oggi l’ordinanza della Protezione civile con i contributi per associazioni, Comuni e Regioni. Agli ucraini che si troveranno una sistemazione da soli 5-600 euro per tre mesi. Un contributo tra i 25 e i 30 euro al giorno per ogni profugo ospitato: per pagare i costi aggiuntivi delle bollette e della spesa. Finalmente in arrivo gli aiuti dello Stato alle famiglie solidali che hanno aperto le porte di casa a più dei due terzi dei 72.000 ucraini arrivati in Italia. Un flusso, leggermente diminuito, che si è assestato su circa 1500 persone al giorno. E ancora, un assegno di 5-600 euro al mese per 90 giorni per i profughi che provvederanno autonomamente alla propria sistemazione, un aumento di circa 10 euro al giorno a persona del rimborso per i centri di accoglienza e un contributo una tantum anche per i Comuni. L’ordinanza tanto attesa da famiglie, associazioni del Terzo settore, Comuni e Regioni che stanno sostenendo i costi dell’accoglienza, sarà firmata oggi dal capo del dipartimento di Protezione civile Fabrizio Curcio a cui il governo ha assegnato la gestione dei profughi. I fondi in arrivo dalla Ue - Oggi i ministri dell’Interno dei 27 cercheranno la quadra sui fondi da destinare all’accoglienza dei migranti, buona parte dei quali destinati alla Polonia, il Paese che in questo momento ne ospita di più ma che si è sempre opposto a condividere le responsabilità per la ripartizione dei migranti in arrivo dall’Africa. La ministra Luciana Lamorgese, nel ribadire il principio alla massima solidarietà, ricorderà ai colleghi che l’Italia si attende lo stesso spirito quando riprenderà il negoziato per il Patto immigrazione e asilo arenatosi proprio per l’opposizione dei Paesi di Visegrad, Polonia in testa. Difficile immaginare preventivamente quanti soldi andranno all’Italia visto che i profughi ucraini sono liberi di muoversi in Europa e la loro suddivisione nei diversi Paesi in quote non è proponibile. Da qui la necessità che, in attesa che i flussi si definiscano da soli, ogni governo anticipi le spese sostenute. Cosa che l’Italia farà con i 428 milioni del decreto Ucraina, su un orizzonte al momento di tre mesi. Gli aiuti per le famiglie - Con l’ordinanza che verrà firmata oggi potranno essere subito disponibili i contributi per 60.000 famiglie che stanno ospitando o ospiteranno mamme, bambini, anziani sostenendo spese consistenti. Riceveranno un rimborso tra i 25 e i 30 euro al giorno attraverso le associazioni del Terzo settore che, per evitare loschi appetiti) saranno garanti del possesso dei requisiti ritenuti indispensabili (dagli spazi alla disponibilità di un’accoglienza a medio-lungo termine) e si faranno carico degli stessi servizi garantiti ai profughi ospiti nei centri: dalle lezioni di italiano ai corsi di formazione, dall’assistenza legale a quella psicologica. 500 euro a chi fa da sé - Confermato il contributo autonomo (tra i 5 e i 600 euro a seconda del nucleo familiare) per i profughi che invece preferiscono provvedere autonomamente alla propria sistemazione, affittandosi un appartamento o andando presso amici e parenti contribuendo in proprio alle spese sostenute. L’assegno sarà limitato ad un periodo di tre mesi. Aumentato il rimborso ai Cas - Con Salvini al Viminale il rimborso pro-capite al giorno per i gestori dei centri di accoglienza era sceso a 21 euro. Adesso il capo del Dipartimento libertà civili e immigrazione Francesca Ferrandino ha firmato una nuova ordinanza che aumenta i costi medi per l’accoglienza diffusa a 33 euro al giorno come base d’asta, ulteriormente aumentabile per singole voci di costo motivate. Quindicimila i nuovi posti che dovranno essere reperiti dal Terzo Settore. Soldi anche ai Comuni - Un contributo per i servizi sociali che grandi e piccoli Comuni italiani stanno già sostenendo. Il quantum è da definire. La Protezione civile (che deve far quadrare i conti con i fondi disponibili) ha proposto un rimborso una tantum di 50 euro per ogni profugo, ma gli amministratori locali ritengono la cifra insufficiente. Probabilmente torneranno a battere cassa al governo in sede di conversione del decreto Ucraina. Il nodo dei bimbi fantasma - Il censimento dei minori non accompagnati già presenti in Italia sta incontrando più difficoltà del previsto. Quelli classificati ufficialmente come minori non accompagnati sono circa 300, una minima parte dei 28.000 arrivati. In buona parte sono con la madre, ma migliaia sono fuggiti affidati dai genitori ad un familiare, un vicino di casa, un educatore. Rapporti che la legislazione italiana non riconosce come tutela legale. La presenza dei minori va comunque denunciata al tribunale dei minori che - accertati identità, età reale e rapporto con l’adulto di riferimento - nominano un tutore legale. Ma questo non sta avvenendo. Per la paura delle famiglie ucraine che questo possa preludere ad un iter di affidamento o di adozione. “I minori arrivati non possono essere adottati né affidati, lo Stato ucraino ha già assegnato loro dei tutori, la loro permanenza qui va gestita solo dalle associazioni di accoglienza temporanea. L’Ucraina a cui i bambini appartengono non accetta tale violazione che potrebbe portare a un incidente diplomatico”, si spinge a dire Yuliya Dynnichenko, presidente dell’associazione italo-ucraina I Nuovi Confini. Ma il timore delle istituzioni e delle associazioni umanitarie è che in questa situazione indefinita possa nascondersi il rischio di tratta dei minori. Cittadinanza. Storie come quella di Luca Neves devono finire: subito la legge sullo Ius Scholae di Marco Bella* Il Fatto Quotidiano, 28 marzo 2022 Ci sono delle ragazze e ragazzi che sono italiane e italiani. Sono nati qui in Italia, hanno studiato qui in Italia, sono amici dei nostri figli perché hanno frequentato le scuole insieme, parlano un italiano perfetto e anche il dialetto napoletano o romanesco, ma al compimento dei 18 anni diventano dei fantasmi perché privi della cittadinanza italiana. Prendiamo come esempio la storia di Luca Neves, figlio di immigrati capoverdiani nato nel 1988 a Roma. Ha frequentato dalla materna al liceo nella capitale. A 18 anni ha presentato domanda per la cittadinanza italiana commettendo un errore fatale: ha consegnato la documentazione per certificare la sua vita a Roma fin dalla nascita con due giorni di ritardo. Per le autorità italiane era fuori termine e conseguentemente interdetto a prendere la cittadinanza. In 15 anni Luca ha protocollato numerosi ricorsi, sempre purtroppo con esiti negativi. Si è ritrovato senza documenti nonostante la sua richiesta di permesso di soggiorno e con due fogli di via. Via dalla sua nazione, l’Italia, quella in cui ha vissuto dalla nascita. Verso dove? Verso un paese nel quale non è mai stato. Luca è uno chef e la sua cucina è un mix italo-capoverdiano. Tralasciando l’inferno della sua vita lavorativa, sottopagata e senza contributi, persino la sanità per lui è a pagamento, come quando nel 2020 è stato colpito da paresi facciale. Anche in questo caso, il permesso di soggiorno per motivi di salute gli è stato negato. Ancora oggi il suo caso è irrisolto: nonostante sia incensurato gli hanno preso le impronte digitali più volte e si trova dopo 15 anni senza un’identità. Eppure, la soluzione ci sarebbe. Luca convive da 7 anni con la sua compagna italofrancese. Si sarebbe potuto sposare per uscire da questo inferno, comportandosi come chi paga per un finto matrimonio. Luca però non ha voluto intraprendere questa strada. Perché ha una dignità, ma soprattutto ha i sacrifici dei suoi genitori da difendere: ogni singola penna, quaderno comprato con il sudore del lavoro per ben quarant’anni pagando regolarmente tutte le tasse italiane. Degli 8 milioni di studenti in Italia gli stranieri sono oltre 800.000, che frequentano prevalentemente (oltre 310.000) la scuola primaria. La maggioranza (506.000) si concentra nelle regioni settentrionali. C’è una soluzione per risolvere i casi come quello di Luca: la legge sullo Ius Scholae, il cui “testo base” è stato adottato ai primi di marzo dalla Commissione Affari costituzionali della Camera dei Deputati. Questa proposta di legge prevede di dare la cittadinanza italiana al compimento del 18esimo anno di età a coloro che abbiano frequentato almeno 5 anni di scuola in Italia. È bene chiarire che ci sono i presupposti per arrivare all’approvazione, ma la strada sarà ancora lunga. Spiego a che punto siamo arrivati oggi. Nelle prossime settimane saranno discussi e votati gli emendamenti (modifiche e precisazioni al testo base), prima in Commissione e poi nell’aula di Montecitorio e affinché diventi legge dello Stato servirà un analogo passaggio al Senato. C’è però una volontà politica trasversale, perché l’adozione del testo base è stata votata da Movimento 5 Stelle, Partito Democratico, Italia Viva, Leu, e anche da Forza Italia, con l’astensione (per ora) di Coraggio Italia. Quindi, dal campo progressista e da una parte più moderata del centrodestra. Questa è sicuramente una strada meno in salita rispetto ad altre proposte di legge per le quali il centrodestra compatto ha votato contro, come l’eutanasia oppure il ddl sull’omotransfobia. Ovviamente, mi auguro che anche le leggi di cui sopra possano essere approvate, ma in parlamento è molto più facile portare a casa dei risultati per i cittadini quando si riescono a costituire delle maggioranze trasversali le più ampie possibili, piuttosto che quanto si ricorre al muro contro muro. Mancando ancora tutta la parte degli emendamenti, spero vivamente che le forze politiche che al momento hanno votato contro, come Lega e Fratelli d’Italia (ma anche purtroppo la componente del misto di ex M5s “Alternativa”), possano dare il loro contributo e cambiare idea. Questa proposta è molto diversa e nettamente più equa rispetto allo Ius Soli (chi nasce in Italia sarebbe italiano, punto e basta) per non parlare di che cosa è in vigore al momento in Italia, lo Ius Sanguinis (chi ha discendenza italiana anche remota può avere la cittadinanza italiana). Le leggi sulla cittadinanza si adeguano alle esigenze del paese in quel momento. Lo Ius Soli è applicato in nazioni che erano poco abitate come gli Stati Uniti d’America. Lo Ius Sanguinis è stato invece ideato nel momento di massima emigrazione dall’Italia a fine ‘800, sperando che i discendenti di chi è andato nelle Americhe potessero mantenere un legame con la madrepatria e un giorno ritornare in Italia. Il contesto storico nel quale è nato lo Ius Sanguinis è però cambiato totalmente. Anche quei partiti maggiormente contro gli immigrati dovrebbero voler modificare il modo oggi vigente ma anacronistico per concedere la cittadinanza. La si può dare a persone che non hanno mai vissuto in Italia, che non parlano nemmeno la nostra lingua e la cui unica connessione con il nostro paese è un lontano bisnonno, ma non a chi è nato e vissuto tutta la sua vita in Italia come Luca. Lo scopo dello Ius Scholae è quello di riconoscere che il nostro Paese ha investito nella formazione di ragazze e ragazzi e sarebbe un peccato vedere andare via delle forze giovani perché non gli è riconosciuta la cittadinanza. Significherebbe rinunciare a una grande ricchezza. Tra l’altro, approvare questa legge sarebbe anche un riconoscimento al grande lavoro di insegnanti, educatori, dirigenti scolastici che hanno fatto ogni sforzo per l’inclusione di tutti gli studenti e di tutte le studentesse. Nella scorsa legislatura il percorso per dare la cittadinanza agli italiani senza cittadinanza si interruppe. Ne parlai qui. Tra un anno terminerà anche questa, di legislatura, che tra Covid e guerra in Ucraina passerà alla storia come una delle più difficili della Repubblica. Sarebbe veramente bello che fosse ricordata anche per aver finalmente riconosciuto quei ragazzi e ragazze italiani ancora senza cittadinanza. Le premesse per centrare un risultato storico e importantissimo per il nostro Paese ci sono tutte. *Deputato M5s, ricercatore in Chimica Organica L’Italia e la “geografia del caporalato”: lo sfruttamento si sposta al Nord di Paolo Baroni La Stampa, 28 marzo 2022 Il report dell’Osservatorio Cgil: la Sicilia è la regione più colpita ma dal Mantovano al Pavese si annida sempre più spesso nelle produzioni d’eccellenza e ad alto margine di profitto. C’è tanto Nord, dalle aree agricole del Mantovano e del Pavese in Lombardia, al Veneto (con una concentrazione altissima soprattutto nel Vicentino e nel Padovano) e poi tutta la Romagna e molte zone dell’Emilia e ancora il Monferrato e l’alto Cuneese in Piemonte: su 405 località dove lo sfruttamento del lavoro nei campi è più forte, “solo” 191 sono al Sud e nelle Isole, mentre ben 129 si trovano nell’Italia settentrionale. Questa è la “Geografia del caporalato”, come recita il titolo del primo “quaderno” realizzato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil, presentato venerdì scorso alla Sapienza di Roma. La costruzione della mappa regione per regione, che in qualche modo sfata il mito del Mezzogiorno come epicentro dello sfruttamento sistematico della manodopera nei campi, è stata effettuata incrociando in maniera rigorosa e scientifica interviste on line raccolte dai sindacalisti della Flai che operano in tutto il territorio nazionale con le singole operazioni di Polizia giudiziaria e le denunce degli stessi lavoratori e del Terzo settore. In un Paese dove, stando alle ultime statistiche, quasi 4 dipendenti su 10 risultano irregolari, la regione dove il fenomeno del caporalato è più evidente è la Sicilia, con 53 aree segnalate, a seguire Veneto con 44, quindi Puglia (41), Lazio e Calabria con 39, e poi Emilia (38), Campania (28), Toscana (27), Piemonte (22) e Lombardia 21. In totale: nel Nord Ovest risultano 45 zone, 84 nel Nord Est, 82 al Centro, 123 al Sud e 71 nelle Isole. “Sfruttamento, caporalato, lavoro irregolare e mancata applicazione dei contratti sono andati assumendo confini geografici sempre più ampi nel nostro Paese, annidandosi anche in comparti caratterizzati da produzioni d’eccellenza con alto margine di profitto e coinvolgendo un numero crescente di lavoratori italiani e stranieri - spiega il segretario generale della Flai Giovanni Mininni. Si è radicata così in noi la convinzione sempre più forte che l’azione di denuncia dovesse proseguire e che fosse necessario avviare un percorso volto ad accendere un riflettore su questo fenomeno, per conoscerlo più a fondo e per contribuire a creare gli strumenti adatti a contrastarlo, per tutelare i tanti lavoratori coinvolti ma anche per spezzare l’odioso dumping basato sullo sfruttamento del lavoro, che fa delle aziende regolari altrettante vittime di questo sistema”. Secondo il prefetto di Reggio Emilia Iolanda Rolli, in passato commissario straordinario a Manfredonia con l’incarico della lotta al sommerso, “dietro al caporalato c’è criminalità e mafia, il caporalato è una lavatrice di soldi. Negli ultimi anni sono state portate alla luce situazioni problematiche che confermano come nel settore agricolo italiano lo sfruttamento lavorativo sia radicato e strutturale” e colpisca soprattutto i lavoratori stranieri (il cui numero è in fortissimo aumento) “che versano in condizioni di grave vulnerabilità sociale, costretti a spostarsi tra i diversi ghetti italiani”, vivendo così “in luoghi di marginalità, privi di diritti e isolati dalla società”. Per contrastare questo fenomeno, a parere del prefetto, “è necessario mettere a sistema tutte le azioni, ma bisogna partire dalla conoscenza: occorre conoscere il fenomeno campo per campo, ghetto per ghetto”. Anche per queste ragioni la Flai ha deciso di mettere a disposizione delle istituzioni e della collettività i risultati delle proprie ricerche. “Il lavoro di condivisione delle informazioni è basilare per contrastare il fenomeno e però - denuncia Mininni - dobbiamo constatare, non senza rammarico, che a distanza di oltre cinque anni dall’entrata in vigore della legge 199 lo Stato non è ancora riuscito a far rete tra le banche dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro, dell’Inps, di Agea, così come prescritto dalla legge. Una lacuna grave da parte delle istituzioni, a volte prigioniere di burocrazie troppo farraginose, che non permettono di trovare la giusta modalità per mettere in campo un’azione veloce ed efficace, mentre la criminalità si muove e prospera con enorme rapidità”. Secondo Mininni è infatti “fondamentale non abbassare la guardia, in particolare in questa difficile congiuntura economica determinata dalla pandemia, perché quest’ultima non diventi ulteriore elemento di giustificazione per perpetrare illeciti e sfruttare i lavoratori. Chi paga i vaccini per i paesi poveri? Al Wto c’è una prima bozza di accordo di Maurizio Ricci La Repubblica, 28 marzo 2022 Europa, Usa e i governi che ospitano grandi cause farmaceutiche si sono finora opposti alla sospensione dei brevetti. Ora qualcosa, lentamente, si muove. Ma basta un voto negativo, su 164, per fermare tutto. Mezzo miliardo di persone nel mondo hanno avuto il Covid, sei milioni sono morte. Da quando è apparsa la variante Omicron, ci sono stati tre milioni di decessi. Negli ultimi 15 giorni si sono registrati oltre 23 milioni di contagi. La contabilità della pandemia fa paura e fa paura anche il futuro. Per bloccare un virus, infatti, occorre bloccare la sua possibilità di replicarsi e le sue chances di mutazione. È la logica delle vaccinazioni di massa con cui i paesi più ricchi hanno immunizzato, spesso anche con tre dosi, percentuali fino al 90 per cento della popolazione. Ma il virus non conosce frontiere e quel 90 per cento di vaccinati vale poco se, al di là dei confini, ci sono i paesi poveri dove solo il 4 per cento ha ricevuto almeno due dosi di vaccino. Tutto questo è stranoto fin dall’inizio della pandemia, 26 mesi fa. Ma sono 18 mesi che, al Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, si discute di una sospensione dei brevetti che consenta a giganti del generico, come l’israeliana Teva e la Big Pharma indiana, di sfruttare i loro impianti per produrre le centinaia di milioni di dosi di vaccino che consentano di estendere a livello globale la copertura di massa dei vaccini. A bloccare, in tutti questi mesi, la liberalizzazione, soprattutto i governi di paesi che ospitano grandi aziende farmaceutiche, come Gran Bretagna, Svizzera e, in blocco, l’Unione europea. Tesi comune: i brevetti salvaguardano l’innovazione, meglio pensare, per moltiplicare la produzione di vaccini, ad accordi bilaterali di parnership fra aziende. Di queste partnership, però, finora se ne sono viste poche e, alla fine, il muro a difesa dei brevetti ha cominciato a mostrare qualche crepa. Da qualche giorno circola il testo di un compromesso - fra Usa, Ue (i paesi dei brevetti), India e Sudafrica (i primi a proporre la sospensione della proprietà intellettuale) - che apre la strada ad una diffusione a livello mondiale della produzione di vaccini anti-Covid. Non è ancora un accordo, solo una bozza. E, prima che diventi operativo, occorre comunque che lo approvino non solo i quattro firmatari, ma gli altri 160 paesi che fanno parte del Wto: basta un voto contrario per far saltare tutto. Almeno, però, la strada si intravede. Il testo dice che “si possono usare brevetti per produrre e distribuire vaccini Covid, senza il consenso del titolare del brevetto, nella misura necessaria ad affrontare la pandemia”. La sospensione vale non solo per il vaccino vero e proprio, ma anche per gli ingredienti e i processi tecnicamente necessari alla produzione, una precisazione importante, in particolare per vaccini complessi come quelli che, nei vaccini a Rna messaggero (Pfizer e Moderna), coinvolgono la genetica. Nel testo, ci sono una limitazione e una omissione. La limitazione specifica che di questa sospensione possono beneficiare solo paesi che, nel 2021, hanno esportato meno del 10 per cento delle esportazioni globali di vaccini Covid. In parole semplici, non potrebbe approfittarne la Cina. L’omissione riguarda, invece, i brevetti sui test di contagio e sui farmaci anti-Covid. Di una sospensione anche di questi brevetti si parlerà solo sei mesi dopo un eventuale varo della sospensione per i vaccini. L’omissione di test e farmaci per curare i già malati è la critica più aspra al compromesso da parte di chi da tempo denuncia, nel comportamento dei paesi ricchi (in questo caso l’aggettivo non è generico: sono quelli che si possono permettere di pagare le dosi), una “apartheid dei vaccini”. Ma l’accordo, dicono anche molti scienziati, si limita ad impedire a Pfizer, Moderna o Novavax di far causa a chi produce i vaccini, ma non rende pubblici processi produttivi e tecnologie. In realtà, questo, probabilmente, non impedisce a giganti sofisticati del generico, come le aziende indiane o israeliane, di riprodurre i vaccini. Il punto chiave - e lo stimolo economico - del compromesso, infatti, è la possibilità, per chi fruisce della sospensione dei brevetti, di esportare, a sua volta, i vaccini. Un’occasione commerciale importante che spiega l’opposizione di Big Pharma all’accordo: a che serve, dicono Pfizer, Moderna e gli altri? Nel 2022, produrremo 20 miliardi di dosi. Ce n’è per tutti. Ma chi le pagherà? Il tira e molla, purtroppo, pare destinato a continuare, a dispetto del progredire della pandemia.