La vergogna italiana dei bambini in carcere di Pietro Mecarozzi L’Espresso, 27 marzo 2022 Sono 16 i piccoli reclusi con le madri e solo la pandemia ha ridotto il numero. Uno scandalo che il Parlamento non riesce a cancellare. “Quando vedi tuo figlio aggrapparsi alle sbarre di una cella, piangere a ogni perquisizione, ti senti morire come madre”. Nadia ha cinque anni, occhi vivaci e carnagione olivastra. I primi tre anni della sua vita li ha passati dentro una cella di un carcere italiano, dove ha pronunciato le prime parole e mosso i primi passi. Sua madre, Luisa (nome di fantasia), è stata arrestata durante un furto in una abitazione, e per un cumulo di reati è stata condannata a 7 anni di carcere. La recidiva, come spesso accade, ha escluso misure detentive alternative, e nonostante la gravidanza avanzata il giudice ha scelto di collocarla nel carcere femminile di Rebibbia e poi, una volta nata la bambina, nella sezione nido. “I miei figli hanno pagato un prezzo troppo alto per errori che non hanno commesso”, confessa la donna. “Quando vedi un bambino aggrapparsi alle sbarre di una cella, piangere e tremare a ogni perquisizione a sorpresa, ti senti morire come madre”. Nadia non è da sola: ha un fratello più grande di due anni, che ha vissuto le sue stesse esperienze, e come lei sono ancora troppi i bambini che in Italia continuano a nascere e crescere dietro le sbarre di una cella. Al momento nel Paese sono 15 le madri (5 italiane e 10 straniere) e 16 i bambini detenuti in carcere, distribuiti tra le sezioni nido - se presenti - all’interno dei penitenziari, gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) e le case famiglia protette. “Sono numeri relativamente bassi (nel 2018 erano più di 60, ndr), frutto anche delle misure alternative e delle minori carcerazioni avvenute nel periodo pandemico per evitare focolai interni”, sottolinea Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti. “Anche se rimangono comunque situazioni incomprensibili, come nel caso della Liguria: dove non è presente un Icam, ma è detenuta una madre con due bambini, soggetti alla solitudine e al regime penitenziario ordinario. Non è pensabile che un bambino non veda mai, o quasi mai, un filo d’erba, una strada, un paesaggio abitato”, continua Palma. “Nella Casa di Leda sono ospitate le donne con bambini che hanno commesso reati minori, come scippi, furti in appartamento, prostituzione. Si tratta di donne prive di risorse alloggiative, economiche e relazionali che in regime di espiazione di pena possono accedere ai benefici previsti dalle leggi Finocchiaro e Simeone del 2001”, spiega il responsabile della struttura, Lillo di Mauro. La casa famiglia protetta risponde alle linee della legge 62 del 21 aprile 2011, che prevede l’istituzione di strutture residenziali - di cui fanno parte anche gli Icam - destinate all’accoglienza di soggetti per i quali non vengano ravvisate esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. “Si tratta in sostanza di domiciliari: ogni donna ha a disposizione una camera per lei e per i figli, è presente un’assistenza sanitaria e una consulenza psicologica costante. Una situazione familiare in cui le madri recuperano il rapporto con i figli: cucinano per loro e li portano a scuola”, continua Di Mauro. Le donne della Casa di Leda seguono corsi di formazione e possono uscire per lavorare. I bambini vengono seguiti da specialisti e possono godere di tante attività ludiche e ricreative grazie ad esperti e volontari. Un circolo virtuoso, che tuttavia si scontra con un problema logistico: sono solo due le strutture così. Per le altre donne c’è il carcere o la detenzione negli Icam. “La sezione nido di Rebibbia è sufficientemente adeguata, anche se è pur sempre una stanza all’interno di un carcere. Ci sono alcune strutture dove invece esistono solo “celle nido”, come nel carcere di Salerno. Che in fondo altro non sono che delle celle con bambini dentro”, sottolinea Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone. Ma qual è la vera differenza degli Icam con il carcere? Siamo entrati in quelli di Milano e Torino. Il primo si trova al di fuori del perimetro carcerario di San Vittore, mentre il secondo è distante pochi metri dalla casa circondariale Lorusso e Cutugno. Le stanze delle madri, di fianco a quelle degli ammessi al lavoro esterno e dei semiliberi, si affacciano comunque sulle celle. È presente personale carcerario, ma non è in divisa; l’ambiente risulta complessivamente più neutro. C’è un limite di ospiti, la presenza di volontari, di operatori e operatrici e l’ambiente in sé aiuta i bambini a non sentirsi reclusi, anche se le regole restano le stesse in vigore nel penitenziario. Il coinvolgimento della madre è maggiore e la vita dei piccoli scorre in modo più regolare, non essendo cadenzata dal regime carcerario, dove c’è l’ora del pasto, del sonno, dell’uscita all’aria della madre, del colloquio con i familiari, della passeggiata con i volontari (sospesa in tempo di Covid-19). Sia a Milano che a Torino i bambini che vanno a scuola, per farlo devono attraversare i cancelli. Sanno di essere in prigione. E i più grandi sanno anche che la colpa è della madre. Nei due Icam sono in tutto quattro le detenute presenti, con altrettanti figli al seguito. Si tratta di donne straniere, e nei loro racconti c’è tutto quello che un carcere fa a bambini così piccoli. Ricordano rumori, odori e paure dei loro figli. E dopo quell’incubo cercano di trovare la forza per risollevarsi. Milano è l’unica città che vanta i tre livelli di custodia detentiva, e le madri detenute possono passare dalla sezione nido all’Icam e successivamente alla casa famiglia protetta. Un percorso, ci suggerisce una responsabile dell’Istituto, che le stimola a migliorare e inserisce i bambini in un contesto ricco di attività e di interazione con l’esterno. Un percorso, però, che cozza con un buco nero normativo: “Diverse ospiti non hanno documenti. Senza residenza e senza lavoro non possono averli. Ma senza documenti non trovano lavoro e una volta fuori per lo Stato italiano spariscono”. Di poca libertà hanno potuto godere anche due bambini, nati il settembre scorso nell’ospedale di Nola e in quello di Avellino, che in poco tempo sono passati dalla sala parto all’Icam di Lauro. Una delle donne che ha partorito è reclusa per furto e il neonato vive con lei in una cella arredata come un piccolo monolocale. “Gli istituti penitenziari sono istituzioni chiuse, quindi i bambini soffrono la mancanza di libertà e di stimoli, la mancanza di una figura paterna e la mancanza di una frequentazione continua con il mondo esterno. Situazione che si è aggravata con l’arrivo del Covid-19”, commenta la dottoressa Flaminia Bolzan, psicologa e criminologa. Senza contare l’impatto che un ambiente carcerario può avere sullo sviluppo cognitivo del bambino. “Nella fascia di età tra i 3 e i 6 anni è fondamentale per il bambino la socializzazione e, venendo a mancare, in questi luoghi si perde anche la formazione del carattere e l’apprendimento sociale”, continua Bolzan. Non a caso una delle madri ci confessa che suo figlio ha riportato un trauma profondo dopo il periodo passato nella sezione nido: parla con difficoltà ed è seguito da un logopedista e da un neuropsicomotricista. “Non ci sono attività all’interno del carcere, le celle si chiudono alle otto anche per i bambini, ed è frustrante vederli aggrappati alle sbarre e implorare gli assistenti sociali o gli operatori per un poco di tempo in più”, dice la madre. “Apri. Ti prego, apri. È la prima parola che imparano i bambini in carcere. È stato uno dei momenti più difficili della mia vita, dopo quello in cui lo me lo hanno tolto perché aveva superato il limite di età”. La legge 62 del 2011, nata con l’intenzione di far uscire i bambini dagli Icam, prevede infatti che i più piccoli possano stare in queste strutture fino a sei anni d’età (alcuni fino ai dieci), contro i tre previsti in precedenza. Mentre nelle sezioni nido delle carceri, il limite massimo è tre anni. “Quando vengono tolti alla madre vengono dati ai familiari più vicini, oppure a volontari o ai servizi sociali che si impegnano a mantener vivo il rapporto del bambino con la madre”, spiega Marietti. “È un momento devastante, perché viene alterato il rapporto affettivo madre-bambino, che purtroppo non sempre viene poi recuperato”. Come nel caso di Maria e della figlia Elisa (nomi di fantasia), che una volta a casa con i parenti ha cominciato a non voler più partecipare ai colloqui: “Si nascondeva sotto il tavolo, aveva paura che la tenessi con me”. Storia analoga quella di Lorenzo, che dopo essere uscito dalla sezione nido e tornato dalla madre in un Icam non ha mai nascosto la necessità di una vita sociale normale: “Mi chiedeva perché non poteva andare al parco? Perché non poteva restare a casa di un amico di scuola? Molte delle mie compagne i bambini non li mandavano neanche fuori con i volontari, perché poi non volevano tornare, urlavano, avevano crisi isteriche”, racconta la madre. La reclusione coatta in una cella induce quindi gravi effetti collaterali, anche nelle madri. Il caso più sconcertante della pressione cui sono sottoposte queste donne, è quello che si è consumato nel 2018 a Rebibbia, quando una detenuta tedesca di 33 anni ha gettato dalle scale della prigione i suoi figli: una bambina di 6 mesi e un bambino di 1 anno e 7 mesi, entrambi deceduti. “Bisogna ragionare anche su un potenziamento della rete di supporto e sostegno, perché molto spesso si parla di donne che arrivano da ambienti deprivati e devianti”, dice Bolzan. Sempre a Rebibbia, lo scorso settembre, una donna, costretta a rimanere in carcere al termine della gravidanza, ha partorito in cella senza un’ostetrica. Amra, 23 anni, italiana di origine bosniaca, ex residente nel campo rom di Castel Romano, arrestata per un furto alla fine di luglio, era già in uno stato avanzato di gravidanza e ancora in attesa del processo, ma il giudice della IV sezione penale del tribunale di Roma le ha imposto il carcere. “Senza un medico, senza nessuno in grado di fornirle l’assistenza sanitaria alla quale aveva pieno diritto. È un fatto che non sarebbe dovuto accadere”, spiega Palma. Anche perché una soluzione alla detenzione in un carcere c’è, come dimostra la proposta di legge del deputato Pd Paolo Siani. “Il testo propone case famiglia protette, individuate dal ministero, come strutture dove ospitare donne detenute con figli al seguito, e prevede il divieto di applicare la custodia cautelare in carcere per donne incinte o madri di bambini di età non superiore a 6 anni con lei conviventi”, puntualizza Siani. Solo come extrema ratio, in caso di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, il giudice potrebbe disporre la custodia cautelare in un istituto a custodia attenuata per detenute madri, quindi un Icam. “La proposta va nel senso di salvaguardare l’integrità psicofisica dei bambini in un momento significativo della loro crescita”, aggiunge Siani. Oggi però è il contrario. Oggi sono la prigione o l’Icam la prima scelta. Da oltre un anno, infatti, l’iter per trasformare in legge la proposta è fermo. Nonostante l’entusiasmo con cui l’iniziativa di Siani è stata accolta anche dal governo, che aveva previsto dei fondi da destinare alle Regioni per la realizzazione di nuove case protette - approvati nell’ultima manovra di Bilancio - per un totale di 4,5 milioni di euro. Per la Campania, ad esempio, erano stati previsti 240 mila euro all’anno per i prossimi tre anni, ma al momento non è stata avviata alcuna casa famiglia. Tutto bloccato. Eppure qualche mese fa la ministra della Giustizia Marta Cartabia aveva detto: “Mai più bambini in carcere”, affermando che “anche solo un bambino ristretto è di troppo”. Mentre l’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede ha confidato - anni dopo - di aver pianto quel giorno del 2018 quando la giovane detenuta gettò i suoi due figli dalle scale della sezione nido del carcere di Rebibbia. I politici di tutti i colori si sono interessati, per qualche settimana, delle condizioni dei bambini piccoli. Adesso però c’è bisogno di fatti concreti, oltre che di promesse. Bambini in carcere. Chiudere una ferita intollerabile di Franco Corleone L’Espresso, 27 marzo 2022 Lo scandalo continua. È di moda denunciare a proposito e a sproposito detenzioni sine titulo, ma su quella dei bambini piccoli non vi è dubbio alcuno. È ingiusta e disumana e si protrae da troppo tempo incomprensibilmente. Il Parlamento iniziò ad occuparsene un quarto di secolo fa, con scarso impegno e varie tergiversazioni, e con il rischio che la proposta di legge morisse con la fine della legislatura. Proprio per questo sentii l’esigenza di iniziare un digiuno per costringere all’attenzione verso un provvedimento di carattere fortemente simbolico come la liberazione dal carcere dei bambini e delle loro madri detenute. Al tempo ero sottosegretario alla Giustizia e l’iniziativa fece scalpore (Il Foglio la definì “Il paradosso del giusto”). Nel 2001, la legge Finocchiaro fu approvata. Non a caso fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale l’8 marzo e consegnai il testo a San Vittore con una vera festa. Allora i bambini minori di tre anni in carcere erano 83, il picco più alto, le madri erano ben 79. Negli anni successi la media delle presenze si è consolidata intorno alle 50 unità con oscillazioni verso l’alto o il basso. Perché il fenomeno non si azzerò? Il titolo della legge era assai eloquente “Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori”. Nonostante le norme penali e penitenziarie prevedessero la preferenza per una esecuzione della pena fuori dal carcere, la presenza dell’inciso “salve le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza” e, per le definitive, il richiamo ai reati ostativi dell’art. 4bis dell’Ordinamento Penitenziario, ha vanificato l’aspirazione della legge. Anche le condizioni di fatto, come la considerazione di un domicilio adeguato (un campo nomadi, nell’ipotesi di donne rom, in alcuni casi non è stato ritenuto tale) blocca la concessione della misura alternativa. Invece di monitorare le ragioni della disapplicazione, il Parlamento approvò nel 2011 una nuova legge, la n. 62, che oltre ad alzare l’età di possibile permanenza in carcere dei bambini fino a sei anni, prevedeva dei luoghi specifici, gli Istituti a custodia attenuata (ICAM). Così si realizzava una forma di paternalismo compassionevole, che manteneva donne e bambini in detenzione, seppur “attenuata”. Erano anche previste “case-famiglia protette”, ma senza oneri per la finanza pubblica: solo nella legge di bilancio 2021 sono state inserite risorse per realizzare queste strutture. Al 28 febbraio 2022 le detenute “con figli al seguito” (dizione usata nella tabella statistica del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), sono 15 e i bambini 16. L’emergenza della pandemia ha prodotto un miracolo, spingendo ad applicare la legge in modo più aperto. Che fare ora? La soluzione limpida è l’abbandono delle norme speciali, per imboccare la via maestra di una riforma del carcere secondo i principi della Costituzione. Le donne in carcere sono solo 2248 sul totale di 54.372 (circa il 4%) e la maggior parte per reati minori. Fanno parte di quella montagna di “detenzione sociale”, come la definiva Sandro Margara, che affolla le nostre carceri (pressoché tutta la detenzione, se si eccettuano 10.000 carcerati nel circuito dell’alta sicurezza e 741 nel 41bis). E che richiede di superare le pulsioni punitive e correzionaliste per immaginare invece percorsi di sperimentazione sociale fondati sui diritti e la soggettività. Una questione di piccoli numeri ma di illuminante qualità, come quella delle donne “con figli a seguito”, può aprire nuovi scenari. Liberiamo subito tutti i bambini. È possibile. Non sono numeri, sono persone. O devo iniziare un nuovo digiuno? La mamma o la libertà. Il ricatto ai baby galeotti di Viola Ardore L’Espresso, 27 marzo 2022 Che cos’è casa, che cos’è vita, che cos’è mondo? Potrebbero essere queste le domande dei bambini che vivono in carcere. Sono i “bambini galeotti”, come sono stati definiti con uno stridente ossimoro da Luigi Manconi, ex senatore e presidente dell’associazione A buon diritto. Minori piccoli e piccolissimi che condividono con le loro madri un destino di reclusione di cui non sono responsabili, ma che hanno ereditato insieme al latte materno, come condizione quotidiana del loro vivere. I bambini reclusi in Italia si trovano attualmente in due tipologie diverse di strutture: nei reparti ordinari delle carceri e negli Icam, “Istituti a custodia attenuata”, creati in via sperimentale a Milano e a Venezia nel 2006 per permettere alle detenute madri che non possono beneficiare di alternative al carcere, di tenere con sé i figli fino all’età di sei anni. Gli Icam hanno certamente un aspetto meno inquietante del carcere, ma di fatto lo sono: non permettono libere uscite e hanno sbarre alle finestre. Per i bambini che ci abitano, casa, vita e mondo sono una prigione. Casa è un luogo che non appartiene, vita è la routine carceraria, mondo è un perimetro chiuso che comunica con l’esterno solo per approssimazione. Un fuori che è a portata di mano, ma che è praticamente inattingibile. Perché se casa è carcere, il confine tra dentro e fuori è una porta blindata. Il confine è anche una parola, un termine che non appartiene al loro vocabolario. Si chiama libertà. C’è pure un’altra parola e quella sì che fa parte del loro lessico, ed è maternità. A tutti i bambini che vivono nelle carceri italiane viene chiesto ogni giorno di barattare la libertà con la maternità. Alle loro madri viene imposto di scegliere tra due condizioni: quella di tenere con sé un piccolo galeotto o di privarsene fino a fine pena. Così, se la condanna della madre è quella di rinunciare al figlio, la pena del figlio è di non sapere che al di là di quella porta blindata c’è un’altra idea di casa, di vita, di mondo. Quali sono le domande dei bambini che vivono in carcere? Saranno le stesse dei loro coetanei che non hanno mai avuto la necessità di mettere in discussione la parola “casa”? Oppure - e sarebbe questa la prospettiva più triste - di domande non ne hanno affatto perché non possono immaginare altra vita, altro mondo, altra casa che quella in cui loro malgrado sono costretti? La situazione di questi bambini, ne sono convinta, è un dilemma atroce anche per il legislatore, che per mestiere sì trova a decidere per gli altri e che, quando si tratta di minori, ha tra le mani una materia fragile e preziosa, che si sciupa in un niente. E proprio per questo vanno immaginate altre soluzioni, per fare in modo che nessun bambino debba più essere privato della propria libertà. Una di quelle che sembrano più idonee a salvaguardare la vita del bambino e la relazione con la madre è quella delle Case-famiglia protette, veri e propri appartamenti, inseriti nel tessuto urbano senza sbarre né cancelli ma comunque controllate, da cui le madri possono uscire per accompagnare a scuola i figli e assisterli nel quotidiano. Un esperimento che, se esteso a diverse realtà italiane, potrebbe sollevare le madri dal dover scegliere per i loro figli tra due mali: la lontananza e la prigionia. Perché il non dover scegliere, in qualche caso, è la vera libertà. “Servono case-famiglia protette per non obbligare a scegliere tra la mamma e la libertà” di Viola Ardone L’Espresso, 27 marzo 2022 Veri e propri appartamenti senza sbarre né cancelli. Ma comunque controllati. Un esperimento per salvaguardare i bambini e la relazione con la madre. Che cos’è casa, che cos’è vita, che cos’è mondo? Potrebbero essere queste le domande dei bambini che vivono in carcere. Sono i “bambini galeotti”, come sono stati definiti con uno stridente ossimoro da Luigi Manconi, ex senatore e presidente dell’associazione A buon diritto. Minori piccoli e piccolissimi che condividono con le loro madri un destino di reclusione di cui non sono responsabili, ma che hanno ereditato insieme al latte materno, come condizione quotidiana del loro vivere. I bambini reclusi in Italia si trovano attualmente in due tipologie diverse di strutture: nei reparti ordinari delle carceri e negli Icam, “Istituti a custodia attenuata”, creati in via sperimentale a Milano e a Venezia nel 2006 per permettere alle detenute madri che non possono beneficiare di alternative al carcere, di tenere con sé i figli fino all’età di sei anni. Gli Icam hanno certamente un aspetto meno inquietante del carcere, ma di fatto lo sono: non permettono libere uscite e hanno sbarre alle finestre. Per i bambini che ci abitano, casa, vita e mondo sono una prigione. Casa è un luogo che non appartiene, vita è la routine carceraria, mondo è un perimetro chiuso che comunica con l’esterno solo per approssimazione. Un fuori che è lì a portata di mano, ma che è praticamente inattingibile. Perché se casa è carcere, il confine tra dentro e fuori è una porta blindata. Il confine è anche una parola, un termine che non appartiene al loro vocabolario. Si chiama libertà. C’è pure un’altra parola e quella sì che fa parte del loro lessico, ed è maternità. A tutti i bambini che vivono nelle carceri italiane viene chiesto ogni giorno di barattare la libertà con la maternità. Alle loro madri viene imposto di scegliere tra due condizioni: quella di tenere con sé un piccolo galeotto o di privarsene fino a fine pena. Così, se la condanna della madre è quella di rinunciare al figlio, la pena del figlio è di non sapere che al di là di quella porta blindata c’è un’altra idea di casa, di vita, di mondo. Quali sono le domande dei bambini che vivono in carcere? Saranno le stesse dei loro coetanei che non hanno mai avuto la necessità di mettere in discussione la parola “casa”? Oppure - e sarebbe questa la prospettiva più triste - di domande non ne hanno affatto perché non possono immaginare altra vita, altro mondo, altra casa che quella in cui loro malgrado sono costretti? La situazione di questi bambini, ne sono convinta, è un dilemma atroce anche per il legislatore, che per mestiere si trova a decidere per gli altri e che, quando si tratta di minori, ha tra le mani una materia fragile e preziosa, che si sciupa in un niente. E proprio per questo vanno immaginate altre soluzioni, per fare in modo che nessun bambino debba più essere privato della propria libertà. Una di quelle che sembrano più idonee a salvaguardare la vita del bambino e la relazione con la madre è quella delle Case-famiglia protette, veri e propri appartamenti, inseriti nel tessuto urbano senza sbarre né cancelli ma comunque controllate, da cui le madri possono uscire per accompagnare a scuola i figli e assisterli nel quotidiano. Un esperimento che, se esteso a diverse realtà italiane, potrebbe sollevare le madri dal dover scegliere per i loro figli tra due mali: la lontananza e la prigionia. Perché il non dover scegliere, in qualche caso, è la vera libertà. L’Anm ribadisce: riforma della giustizia contraria a necessità askanews.it, 27 marzo 2022 “Visione efficientistica e burocratica del lavoro dei magistrati”. In tutte le occasioni di incontri con la ministra della Giustizia Marta Cartabia e nelle commissioni parlamentari la Giunta esecutiva centrale dell’Associazione nazionale magistrati ha esposto le criticità contenute della riforma della giustizia, una riforma concepita addirittura in senso contrario di quanto necessario. In una nota viene spiegato che la Giunta esecutiva centrale dell’Anm “ha esposto i molteplici rilievi critici al testo normativo, sì come arricchito dagli emendamenti governativi da ultimo depositati, ponendo in evidenza che per molti aspetti il disegno riformatore si muove lungo una direttrice contraria a quella che tutti unanimemente sostengono, perseguendo piuttosto, consapevolmente o meno poco importa, una restaurazione gerarchica dell’assetto anche della magistratura giudicante, contesto in cui prevarranno, ove approvato detto disegno, le spinte al deprecato carrierismo”. “In più punti - viene sottolineato - la riforma appare, poi, sorretta da una visione efficientistica e burocratica del lavoro dei magistrati, mirando ad aumentare la sola quantità della risposta giudiziaria, a scapito della qualità”. I punti critici della riforma “sono stati individuati dal Comitato direttivo centrale, una prima volta, nella seduta del 18 dicembre 2021, in cui si è espresso senza conoscere il testo degli emendamenti governativi, perché non messo a disposizione dell’ANM, e solo sulla base delle notizie che di quei contenuti la Ministra della Giustizia prima e il suo staff tecnico dopo, in una seconda occasione di incontro con la Giunta esecutiva centrale, avevano verbalmente e giocoforza sommariamente esposto. Successivamente - ha continuato la nota - il Comitato direttivo centrale si è espresso nella seduta del 12 e 13 marzo scorsi, questa volta con piena conoscenza degli emendamenti governativi, elencando numerose criticità, come esposte nel documento in quella seduta approvato e che ora si richiamano per argomento. Ha in quella sede espresso la forte preoccupazione che il complessivo impianto della riforma rischia di stravolgere il modello costituzionale del magistrato”. Questi i temi critici individuati dal Comitato direttivo centrale “in continuità con quanto già rilevato nella seduta del dicembre scorso. 1. Verticalizzazione degli uffici e riduzione dei semidirettivi; 2. Soppressione dei “carichi esigibili”, e introduzione dei risultati attesi dall’attività dei singoli magistrati e delle sezioni, determinati da ciascun dirigente in assenza di parametri determinati; 3. Tendenza iper-produttivistica e risvolti disciplinari; 4. Modifica della norma sulla incompatibilità funzionale o ambientale, con eliminazione del riferimento alle condotte incolpevoli; 5. Partecipazione e voto degli avvocati nei Consigli Giudiziari in occasione delle delibere sulla valutazione di professionalità dei magistrati, con il rischio che non sia garantita una equidistanza del giudice dalle parti in causa; 6. Separazione delle funzioni; 7. Valutazioni di professionalità con la introduzione delle cd. pagelle; 8. Disciplina sulle “porte girevoli”; 9. Composizione dell’Ufficio studi del Csm; 10. Sistema elettorale per il Csm, di cui si sono evidenziate le forti criticità, soprattutto perché in grado di marginalizzare, fino quasi ad eliminare, la possibilità di essere eletti per candidati indipendenti o rappresentativi di gruppi minori”. La Ministra della Giustizia, è stato rilevato, “ha invitato la Giunta esecutiva centrale per discutere della riforma anche alla luce dei numerosi subemendamenti nel frattempo presentati in Commissione giustizia. L’incontro si è svolto il 21 marzo 2022 e ancora una volta la Gec ha esposto alla Ministra e al suo staff tecnico, con articolati argomenti critici, le ragioni di forte preoccupazione, evidenziando che i subemendamenti non fanno che acuire, in modo del tutto irragionevole, le numerose criticità del testo del disegno di legge, che sono state richiamate e illustrate nel corso dell’incontro”. Gratteri mette nel mirino pure i parlamentari che in Aula “tifano” per i domiciliari a Pittelli di Felice Manti Il Giornale, 27 marzo 2022 Dda contro le interrogazioni sull’ex deputato. Giachetti invoca Fico e Csm. Quando si vive dentro un bunker è difficile distinguere le mille sfumature della politica da un attacco personale. È quello che sta succedendo al coraggioso procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, purtroppo non nuovo a certe entrate in tackle. Vedi l’attacco al Guardasigilli Marta Cartabia e alla sua riforma che, per dirla con delicatezza, “non scoraggia i criminali”. Chi conosce il preparatissimo pm sa che ha un caratteraccio. Il suo collega Emilio Sirianni di Md in un’intercettazione legata all’inchiesta sull’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano lo definisce “un fascista di mer... mediocre e ignorante” ma chi ci lavora da una vita sa che non è così, anzi. Gratteri è convinto che il processo nato dalle indagini Rinascita-Scott sia cruciale per sconfiggere la ‘ndrangheta. L’imputato chiave del processo è l’ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, già sfiorato dieci anni fa dalle indagini Why not di Luigi de Magistris, finito ai domiciliari nonostante la gravità delle accuse (essere il riferimento delle cosche calabresi e il garante dell’aggiustamento di alcuni processi). In ogni caso Gratteri sa che una sconfitta processuale, financo un ridimensionamento dell’impianto accusatorio, sarebbe una tegola. Sia per la sua carriera (è in corsa per guidare la Direzione nazionale antimafia) sia per la sua credibilità, attesa “l’ombra di evanescenze lunatiche” - per dirla con le parole dell’ex Pg di Catanzaro Otello Lupacchini, cacciato dalla Calabria in un amen dal Csm solo per aver leso la maestà di Gratteri - che si allungherebbe ulteriormente sulle sue indagini. Perché darebbe benzina a chi sostiene che gratta gratta certe sue indagini alla ‘ndrangheta non fanno un baffo. Pittelli, si sa, è un gran chiacchierone. Una sua frase sul caso David Rossi (“Se si sa chi l’ha ammazzato scoppia un casino”) captata da Gratteri è al setaccio dei pm che indagano sulla morte del manager Mps. Qualche giorno fa è finito incautamente intervistato sul pianerottolo di casa da Alessio Fusco, che con Klaus Davi ha curato degli speciali di Studio Aperto. Ma un conto è volerlo legittimamente imbavagliare per evitare che possa mandare pizzini o messaggi in codice, un altro è accostare maliziosamente alle ‘ndrine i parlamentari che ne difendono le garanzie costituzionali e che si sono battuti per fargli addolcire la pena preventiva. Come il renziano Roberto Giachetti, mite parlamentare con la tessera di Italia Viva a destra e il cuore radicale a sinistra, che in Parlamento ha affrontato la questione della sua detenzione dopo il caso della missiva che Pittelli ha mandato alla ex collega azzurra Mara Carfagna e che Gratteri ha preso a pretesto per giustificare ancor di più la morsa detentiva. “So che nel ricorso contro i domiciliari la Dda ha allegato interrogazioni anche mie. È una forma di intimidazione o un tentativo di gettare ombra sull’attività dei parlamentari?”, si è chiesto Giachetti, che ha chiamato in causa il Csm e il presidente della Camera Roberto Fico per tutelare “la dignità e le prerogative che la Costituzione attribuisce ai parlamentari”. Inimicarsi governo e Parlamento non è il modo migliore per fare la guerra alla ‘ndrangheta, anzi. Quando i buoni litigano, i cattivi se la ridono. Stupefacenti, legittimo lasciare il lavoro di pubblica utilità per entrare in comunità di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2022 La Cassazione, sentenza n. 10944 del 25 marzo 2022, ha accolto il ricorso di un uomo condannato per traffico di stupefacenti: “Il giudice dell’esecuzione ha totalmente omesso di valutare i motivi che avrebbero portato il condannato a interrompere senza colpa lo svolgimento del L.p.u.”. Carceri affollate e impennata dei risarcimenti per ingiusta detenzione. Non c’è da stupirsi di fronte a un caso come quello affrontato oggi dalla Cassazione. Un uomo condannato per traffico illecito di stupefacenti si è visto revocare dal Gip del Tribunale di Larino (in funzione di giudice dell’esecuzione) la disposta sostituzione del carcere con il lavoro di pubblica utilità. Qual è stata la colpa del reo? Secondo il Tribunale l’aver svolto soltanto 126 giorni di sanzione sostitutiva rispetto ai 326 totali da scontare. Tutto corretto, dunque, se non fosse che, come rilevato dal ricorrente, egli aveva dovuto “obbligatoriamente” interrompere il lavoro esterno “per la sottoposizione al programma di recupero terapeutico Residenziale”. Proposto ricorso, la Suprema corte, sentenza n. 10944 del 25 marzo 2022, lo ha accolto. Scrive la Prima sezione penale: “Il giudice dell’esecuzione ha totalmente omesso di valutare l’esistenza dei dedotti motivi che avrebbero portato il condannato, alla luce del prospettato inserimento in una comunità terapeutica, a interrompere senza colpa lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità”. E poi spiega: “Il ripristino dell’originaria pena detentiva, infatti, richiede di verificare che il condannato non sia stato incolpevolmente impossibilitato ad adempiere”. Non solo, la pena detentiva “originariamente irrogata” era stata “integralmente ripristinata” senza dunque tener conto che egli aveva comunque svolto una parte del lavoro di pubblica utilità, con la conseguenza che la pena doveva, in ogni caso, essere proporzionalmente ridotta. “Fermo restando il doveroso indicato accertamento di merito che deve compiere il giudice dell’esecuzione per disporre la revoca della sanzione sostitutiva - chiarisce ancora la Cassazione - è, altresì, necessario verificare il periodo di eventuale regolare espiazione della sanzione sostitutiva al fine di rideterminare la pena detentiva da espiare, tenuto conto della sanzione sostitutiva svolta”. Secondo il costante orientamento di legittimità infatti “in tema di stupefacenti, la revoca della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, disposta per mancata osservanza delle prescrizioni, comporta il ripristino della sola pena residua, calcolata sulla base del criterio speciale di corrispondenza indicato dall’art. 73, co. 5-bis, Dpr 9 ottobre 1990, n. 309 sottraendo dalla durata della pena inflitta la durata del lavoro di pubblica utilità regolarmente scontato”. Il giudice dell’esecuzione, in sede di rinvio, dovrà ora procederà ad accertare “anzitutto, la fondatezza delle asserite ragioni della sospensione del lavoro di pubblica utilità”. Ma anche in caso di esito negativo, non potrà semplicemente ripristinare la pena iniziale, dovendo comunque verificare “con specifico riferimento all’attività svolta, se e in quale misura detta attività possa considerarsi regolarmente svolta, procedendo, quindi, a determinare la parte di sanzione sostitutiva che andrà detratta, operato il ragguaglio, dalla pena originariamente inflitta”. Busto Arsizio. Detenuti in rivolta: fiamme alle celle. Intossicati 15 poliziotti, uno è grave di Andrea Camurani Corriere della Sera, 27 marzo 2022 Distrutte sette celle della sezione che ospita persone con problemi di natura psichica. Uno dei poliziotti intervenuti ha dovuto essere sottoposto a ventilazione con ossigeno. Notte di fiamme e fumo nel carcere di Busto Arsizio in provincia di Varese con i Vigili del fuoco che hanno dovuto lavorare per un’ora e mezza a causa di un incendio appiccato in due diversi momenti da alcuni detenuti maghrebini al pianterreno della struttura carceraria di via per Cassano Magnago. Il bilancio della serata, cominciata attorno alle 22 di venerdì e terminata a tarda notte è di una quindicina di agenti di polizia penitenziaria finiti all’ospedale, per tre di loro c’è una prognosi di dieci giorni, uno dei poliziotti ha dovuto essere sottoposto a ventilazione con ossigeno. La rivolta - Tutto ha avuto inizio attorno alle 10 di sera quando un primo detenuto, apparentemente senza alcun motivo, ha appiccato le fiamme ad alcuni oggetti nella sua cella, fiamme subito domate con gli estintori da parte del personale di polizia in servizio al carcere. Poco dopo un’ora però, altri due detenuti che avevano manifestato nervosismo e intemperanze durante la giornata di venerdì hanno di nuovo acceso altri fuochi servendosi dei materassi: si tratta di prodotti ignifughi che hanno provocato un fumo tale da obbligare l’intervento dei vigili del fuoco arrivati con una “autopompa serbatoio” e un’autobotte attorno alle 23.30 con un intervento durato fino all’una e mezza. “Gli agenti hanno gestito la situazione con grande professionalità”, ha spiegato Orazio Sorrentini, direttore del carcere che ha spiegato in che condizioni versa la sezione interessata dall’incendio: “Le fiamme hanno completamente distrutto tre celle e reso inagibili le altre fino ad arrivare a un numero di sette. Si tratta di una sezione che ospita persone con problemi di natura psichica”. La protesta del sindacato - Sul punto una nota del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria a firma del segretario regionale per la Lombardia Alfonso Greco specifica che “i responsabili di questo folle incendio sono detenuti rei di azioni simili, e questo è ancora più grave. I poliziotti sono stati eroici e non hanno temuto fiamme e intossicazione pur di scongiurare una strage”. Sempre secondo il sindacato, “molti dei detenuti appartenenti alla sezione incendiata hanno però partecipato al caos. Spente le fiamme, i detenuti sono stati fatti rientrare tutti nelle proprie celle, ma la sezione da cui è partito tutto è stata dichiarata, dai Vigili del fuoco, inagibile, per cui i detenuti che vi erano presenti sono stati spostati nella Sezione “quarantena”, unico reparto con posti disponibili”. Il carcere di Busto Arsizio, dal quale il personale della polizia penitenziaria aveva sventato un tentativo di evasione non più tardi di qualche settimana fa conta circa 400 detenuti e 170 agenti. Verbania. La Banda Biscotti, il marchio dei “buoni dentro” di Antonella Barone gnewsonline.it, 27 marzo 2022 Si inizia nella Banda Biscotti e poi si finisce in Gatta Buia. Per entrare nella prima occorre passione per la pasticceria, competenza tecnica e determinazione nel voler cambiare vita. Se il percorso interessa, si può poi lavorare nel Ristorante Sociale Gattabuia, nel cuore di Verbania, o nel bar di quartiere Casa Ceretti. È il percorso-tipo offerto dalla cooperativa Il Sogno di Domodossola (VB) a detenuti in articolo 21 e soggetti in misura alternativa. Il laboratorio dolciario produce, oltre a fantasiose varianti di baci di dama, cookie e polentine - con un ritmo produttivo di 200 Kg a turno - anche pasticceria fresca e bomboniere solidali. Nato all’interno del carcere di Verbania, il laboratorio è stato in seguito spostato nell’adiacente Scuola di Formazione della Polizia Penitenziaria, grazie a una convenzione tra le due strutture. “La scelta di collocare l’area operativa in una zona esterna al carcere ma pur sempre “penitenziaria” -spiega Alice Brignone, responsabile del laboratorio - ha consentito di continuare a far lavorare i dipendenti anche una volta terminata la pena, e di rendere più fluide le operazioni di carico e scarico merce”. Il locale, che occupa oggi un’area di circa 300mq, si è arricchito di macchinari e attrezzature più moderni acquistati grazie al contributo della Compagnia di San Paolo, della Fondazione Comunitaria del Vco e della Cassa delle Ammende del Ministero della Giustizia. Per quanto riguarda le assunzioni dei detenuti la prassi è ormai consolidata e trasparente: “Inviamo una richiesta di fabbisogno all’area educativa - continua la responsabile del laboratorio - che, dopo aver fatto valutazioni giuridiche e pedagogiche, ci propone dei candidati. Il nostro personale poi effettua colloqui per conoscere anche attitudini e formazione pregressa”. Segue la fase di formazione, in cui oltre alle tecniche di cucina, gli aspiranti pasticcieri devono apprendere la normativa sulla sicurezza alimentare, sulla qualità delle materie prime e degli ingredienti, tutti di origine biologica certificata o provenienti dal commercio equo e solidale. Anche la commercializzazione dei prodotti avviene attraverso botteghe, negozi e con reti di economia solidale. “Il primo periodo della pandemia abbiamo incontrato molte difficoltà per mantenere la produzione, perché i nostri lavoranti detenuti erano trattenuti in carcere. Poi sono state concesse misure alternative che ci hanno consentito di riprendere a lavorare con il consueto ritmo. Per contrastare gli altri disagi dell’emergenza, abbiamo rafforzato le collaborazioni per la vendita con le realtà online anche di e-commerce penitenziarie”. Oggi sono circa 12 le persone in esecuzione penale occupate nel laboratorio e nelle altre due strutture, il ristorante e il bar di quartiere. “Cerchiamo di costruire un percorso a step in base alle potenzialità di ogni persona - conclude Alice Brignone - abbiamo un dipendente che in libertà faceva il panettiere al quale abbiamo offerto l’opportunità di continuare a svolgere il suo lavoro. E abbiamo un’altra persona, straniera, che all’inizio non conosceva né la lingua né la cucina italiana ma che ha aveva una gran voglia d’imparare. Ora è secondo di cucina nel ristorante Gattabuia, step successivo a quello del laboratorio, una realtà a contatto con il pubblico in cui inseriamo persone al termine della pena, per consentire loro di costruire relazioni in un contesto lontano da quello carcerario”. Pozzuoli (Na). Lazzarelle, il caffè che libera di Salvatore D’Angelo insiemenews.it, 27 marzo 2022 Nel carcere femminile di Pozzuoli operano dal 2010 le prime mastre torrefattrici italiane. Sono detenute ed ex detenute che hanno riscattato la loro vita grazie ad un progetto sociale ideato da altre donne entrate nell’istituto di pena per motivi di studio e professionali. “Ah, che bell’ ‘o café. Pure in carcere ‘o sanno fa”, cantava Fabrizio De Andrè. Lui si riferiva alla bevanda. Noi alla miscela. La dimostrazione è la torrefazione in rosa della cooperativa Lazzarelle, una realtà nata nella casa circondariale femminile di Pozzuoli, uno dei quattro istituti di pena per detenute presenti in Italia. Il progetto muove i primi passi nel 2010, per volontà di alcune donne che per motivi di studio entrano in contatto con la realtà carceraria puteolana. “Parlando con le detenute - spiega Imma Carpiniello, presidente della cooperativa Lazzarelle - abbiamo capito che a loro mancava un lavoro. Cominciammo ad immaginare qualcosa che potesse darle questa occasione. Per evitare di pensare ad un progetto sociale che avesse una data di inizio e una data di scadenza, immaginammo di mettere su una realtà produttiva con connotazioni particolari”. Perché il caffè? “Ci piace vincere facile. Siamo di Napoli! Pensammo di fare qualcosa di tipico della nostra città. Immaginammo di mettere insieme due elementi deboli del mercato: i piccoli produttori e le donne che sono un elemento vulnerabile sul mercato del lavoro, a maggior ragione se detenute. Il carcere è cambiato molto in questi anni, ma quando siamo entrate c’erano attività molto stereotipate: perline, decoupage. Tutte cose belle, ma che non davano una formazione e la possibilità di lavorare. Il caffè, poi, è stato sempre un elemento di lavoro maschile, si parla di mastro torrefattore. Noi abbiamo cercato di ribaltare questa logica inventando la figura della mastra torrefattrice che non esisteva”. Perché Lazzarelle? “Viene fuori da un processo partecipativo tra noi operatrici e le prime 15 donne che avevano fatto il corso di formazione”. Avete trovato resistenze? “All’inizio tra le detenute. Erano abituate a progetti a scadenza. Temevano che finissero i soldi e saremmo andate via. Noi cercavamo di spiegare che volevamo fare un’impresa per rimanere. Infatti, reinvestiamo sempre all’interno della cooperativa quanto guadagniamo: in attrezzature, materie prime, contratti. Dopo 10 anni abbiamo vinto anche queste resistenze”. Quante donne sono passate? “Circa una settantina. Abbiamo un turnover molto alto”. Perché è una casa circondariale, quindi, con pene non troppo lunghe? “Esatto. Noi, poi, lavoriamo all’interno del carcere, ma non siamo nell’area detentiva. Quindi le donne che vengono da noi hanno già espiato metà della pena e poi possono accedere al lavoro esterno. Adesso, però, con il progetto del Bistrot in galleria Principe anche quando possono accedere al lavoro esterno continuano a lavorare con noi e in questo modo si completa il percorso detentivo”. Ed hanno un contratto, cosa che prima era un miraggio... “Sostanzialmente sì. Lavoriamo con i contratti collettivi della cooperazione sociale. È stata una scelta sin dall’inizio. Chiediamo puntualità, professionalità. Il nostro è un lavoro duro. Quindi, noi dobbiamo dare per questo impegno. Il turnover ci crea difficoltà burocratiche. Tuttavia, abbiamo preferito contrattualizzare una donna in meno, ma dando tutti i diritti e le garanzie. Probabilmente non hanno mai visto un contratto, soltanto conoscendo quali sono i loro diritti quando usciranno potranno reclamarne altri”. Donne “protagoniste attive del loro cambiamento”, si legge sul vostro sito internet. Arrivare a questa consapevolezza richiede un grande lavoro? “Quando si parla di povertà educativa e di dispersione scolastica il risultato sono le carceri, sia maschili che femminili. Abbiamo donne che non hanno frequentato la scuola o l’hanno lasciata presto. Diventano un’appendice familiare, spesso del loro compagno che le coinvolge in attività criminali. Attraverso il nostro caffè avviamo un processo di capacitazione: si rendono conto di essere capaci di fare qualcosa. La nostra torrefazione è una fabbrica a tutti gli effetti. Il chicco arriva verde e lo consegniamo imbustato. Si rendono conto che quella cosa l’hanno fatta loro. Attraverso il lavoro quotidiano, il parlare, il mettersi in discussione, dagli argomenti di cronaca ai programmi televisivi, si arriva a demolire determinati stereotipi, pregiudizi e schemi nei quali sono ingabbiate. Credono che il loro destino sia ineluttabile, che non possono avere di meglio. Noi tendiamo a insinuare il dubbio che non sia così e parte il cambiamento”. Qual è la storia simbolo delle Lazzarelle? “Ogni storia ha lasciato un pezzo importante dentro di noi. Tanti sono gli elementi che ci fanno riflettere, anche i più banali. Nel periodo dell’emergenza rifiuti abbiamo stressato tutte sulla raccolta differenziata. Una detenuta di ritorno da un permesso mi ha raccontato che era stata 20 minuti con un fazzolettino in mano perché non sapeva dove cestinarlo e le dispiaceva buttarlo nell’indifferenziato. Mi disse: “A casa mia nun sanno campa’”. Questa è la cifra del cambiamento che si può attivare”. Ci sono stati anche dei fallimenti, delle delusioni? “I fallimenti sono all’ordine del giorno, nella progettazione sociale vanno tenuti in conto. Delusioni sì. Magari fai un lavoro enorme e poi ti accorgi che dopo essere ritornate nel loro ambiente, aver incontrato i loro compagni, c’è quella coazione a ripetere gli stessi schemi, gli stessi errori. Tuttavia poche sono rientrate in carcere”. La pandemia è stata una tagliola per tutti. Come avete affrontato questo periodo? “In questi due anni molte hanno avuto delle difficoltà. Inoltre, c’è stato un aumento di ingressi in carcere. Ma noi abbiamo anche aperto il Bistrot nel luglio del 2020”. Una scelta coraggiosa? “Sì, ma dovevamo farlo. Era tutto pronto. È venuta a lavorare una donna dopo il percorso in carcere. È stata la prima ad uscire. Prima di Natale 2020 c’è stata una seconda chiusura. Lei ha ricevuto gli arresti domiciliari. È tornata quando abbiamo riaperto a marzo 2021: ci siamo rese conto che tutto il lavoro fatto era andato in pezzi. Con la chiusura del Bistrot e il rientro nel proprio contesto c’era stata una regressione enorme. Se devo indicare un fallimento, il Covid lo è stato. Oltre ad aver riportato alcune donne che lavoravano con noi e vivevano in una zona grigia, le ha costrette in difficoltà economiche e sociali”. Qual è il prodotto che più vi rappresenta? “La nostra miscela classica di caffè. Quella con la quale abbiamo cominciato”. Lazzarelle lancia un messaggio di apertura, tolleranza, non discriminazione, inclusione. Un esempio concreto di cui abbiamo tanto bisogno nel nostro Paese. Non trova? “Penso che siamo ancora in una situazione in cui il patriarcato è molto forte. Non so quanto possiamo essere da modello o da esempio. Penso sia necessario un cambiamento culturale. Non possiamo immaginare un mondo in cui i due generi non siano sullo stesso piano. Noi ci vantiamo di essere un’impresa femminile, abbiamo un consiglio di amministrazione femminile, lavoriamo con le donne, però questo non basta se non facciamo questo scatto. Se questo lavoro non cominciamo a farlo dalle giovani generazioni avremo ancora tante Lazzarelle. Io, invece, non vorrei avere più donne da impiegare. Vorrei che non fossimo necessarie”. Il nostro augurio è che si possa passare presto dai versi di De Andrè a quelli altrettanti famosi di Domenico Modugno. Non “pure in carcere ‘o sanno fa”, ma “sulo a Napule ‘o ssanno fa’” e con la miscela Lazzarelle in tutto il mondo. Massa Carrara. La Via Crucis raccontata dai detenuti di Alfredo Marchetti La Nazione, 27 marzo 2022 Le riflessioni sulle 12 tappe della passione di Cristo raccolte dalla Diocesi provinciale. Don Maurizio: “Storie di dolore e speranza”. Tito scende dalla croce e racconta la sua passione. Il ladrone, come nella famosa canzone di Fabrizio De Andrè (Il testamento di Tito), si ferma a riflettere e confessa tutto il suo stato d’animo da recluso. Sbagli, rimorsi, paura e voglia di rinascere: perché il dolore degli altri non sia un dolore a metà. Stiamo parlando delle persone in regime di reclusione nella casa circondariale di Massa. Grazie all’iniziativa di don Maurizio Manganelli della Pastorale giovanile diocesana, otto detenutii hanno riflettuto sulle 12 tappe della Via Crucis, lasciando un loro pensiero frutto di meditazione dopo rabbia, non accettazione, dolore. Riflessione letta poi ieri pomeriggio all’interno delle mura nella cerimonia avvenuta all’interno della casa circondariale. Ad entrare oltre le sbarre con don Maurizio un gruppo di giovani volontari dello stesso carcere e altri delle parrocchie di tutta la provincia. Evento organizzato con la Caritas, la cappellania San Giuseppe Cafasso, Azione Cattolica e Progetto Policoro. “Andiamo in carcere per portare una speranza a questi uomini - ha detto don Maurizio -. Cerchiamo di creare una una sorta di ponte tra loro e la società civile perché crediamo che siano uomini come noi. Ci sono molte altre iniziative in programma, come quella del corso di Iconografia al quale partecipano 9 detenuti. Nel corso delle nostre lezioni a scuola viene spesso fuori il tema del carcere, vedo che i ragazzi sono molto attenti e interessati a capire questo mondo, che per molti è sconosciuto. Per quanto riguarda l’iniziativa che andremo a fare nel pomeriggio, abbiamo voluto coinvolgere i detenuti: toccanti le loro riflessioni sulle 12 tappe della Via Crucis. Abbiamo anche Antonio che ha disegnato la copertira del libricino che abbiamo poi consegnato nelle parrocchie della provincia. Un impegno davvero importante da parte di questi uomini”. Viene affidata a Marco (nome inventato) la riflessione sulla seconda stazione della passione di Cristo, Gesù che porta la croce al Calvario, dove vengono toccati temi come l’empatia e il rispetto dell’altro, della sua storia: “Quanti di noi si sentono umiliati e giudicati per aver pronunciato parole fuori luogo? Il linguaggio che utiliziamo e il nostro comportamento possono fare tanto bene, ma anche tanto male al nostro interlocutore che, la maggior parte delle volte, ‘sta trasportando la sua croce’ di cui non siamo a conoscenza” Un’altra toccante testimonianza viene rivelata da Matteo, nella nona stazione, ovvero quando Gesù cade sotto la croce per la terza volta: “Quante volte - scrive nell’opuscolo il detenuto - Gesù è caduto sotto il pesante peso della croce. Ha sopportato tutto questo per amore, per il grande amore che ha per ogni uomo. SI è affidato con umiltà al Padre, che non ha mai abbandonato neanche nella prova più difficile. Le cadute di Gesù parlano alle nostre cadute. Anche quando tutto sembra crollarci addosso e non ci sentiamo abbastanza forti per portarne il peso, esiste sempre un’occasione che permette a quella storia di trasformarsi in storia d’amore, di ripartenza, di salvezza. E i segni delle nostre cadute diventano poi testimonianze di incontri, di riscoperta di sé stessi e di Dio, che nella nostra vita apre strade nuove e inaspettate” Pisa. I detenuti del Don Bosco inscenano la tragicommedia della “pandemia” La Nazione, 27 marzo 2022 In occasione della Giornata Mondiale del Teatro in Carcere, le detenute e i detenuti della casa circondariale tornano ad esibirsi dopo due anni di stop pandemico inscenando “Il gioco dell’epidemia” di Ionesco. L’occasione è speciale: il 27 marzo sarà la Giornata Mondiale del Teatro in Carcere, un momento di festa e di riflessione promosso dall’Unesco sulla diffusione delle pratiche performative negli Istituti di pena, sul loro carattere educativo e sulla loro capacità di sorprendere artisticamente e socialmente. L’oggetto dello spettacolo dei 15 allievi detenuti/detenute, ha il sapore di un ironico esorcismo: la performance infatti, è liberamente tratta da “Il gioco dell’epidemia” di Eugene Ionesco e racconta, attraverso quadri separati, lo scatenarsi di un’epidemia in una città e in un’epoca non definite. Ne scaturisce l’affresco di un’umanità provata, in bilico tra tragico e comico: un’umanità che, impreparata, si trova ad affrontare il grande tema della precarietà dell’esistenza proprio così come lo strascico pandemico ha lasciato. Reduci dal successo di Radio Dante - il progetto radiofonico per il Settecentenario dantesco, nato in collaborazione con Punto Radio di Cascina e ora disponibile in podcast - gli attori del “Don Bosco”, tornano finalmente in “scena” il 31 marzo, coordinati da Francesca Censi, Gabriele Carli, Letizia Giuliani, Carla Buscemi e Davide Barbafiera. La scuola di Teatro Don Bosco, realizzata dalla compagnia Sacchi di Sabbia, grazie al contributo della Regione Toscana e della Fondazione Pisa è ormai un punto di riferimento stabile all’interno delle attività della Casa Circondariale Don Bosco e questi spettacoli, aperti agli altri detenuti e al personale, rappresentato un momento di condivisione di rara profondità. Le lezioni della Scuola di Teatro Don Bosco proseguiranno fino a giugno e avranno nuovi inaspettati sviluppi, anche grazie ad una nascente collaborazione con l’Internet Festival di Pisa: a potenziare l’offerta formativa, verrà infatti introdotta una nuova disciplina, legata al video-teatro e alla video-arte. Gli attori realizzeranno così delle piccole opere video, libere di circolare per festival e rassegne, così da garantire una maggior visibilità a questo lavoro così prezioso. Giornata nazionale teatro in carcere, dai detenuti un messaggio di pace di Antonella Barone gnewsonline.it, 27 marzo 2022 “Celebriamo quest’anno la IX Giornata Nazionale del Teatro in Carcere e la 60ª Giornata Mondiale del Teatro, con un particolare pensiero per il dramma bellico che si sta consumando in Ucraina e che speriamo possa presto lasciare spazio alle forme del dialogo non violento e della comunicazione artistica”. Inizia così il messaggio inviato da Vito Minoia, presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, in occasione dell’evento organizzato dal 2014 in concomitanza con il World Theatre Day 2022, promosso dall’ITI Worldwide-Unesco (International Theatre Institute). Come nelle precedenti edizioni, per celebrare la Giornata, dal 27 marzo al 30 aprile i vari contesti del circuito per la Giustizia minorile e di comunità, le direzioni penitenziarie assieme ad associazioni, compagnie teatrali, singoli operatori, enti e organismi presenti negli Istituti, potranno promuovere spettacoli, eventi e performance di vario genere, dibattiti e confronti tanto all’interno quanto all’esterno delle strutture carcerarie. Vito Minoia ha anche ricordato come l’ITI sia nato, nel 1948, “per lanciare un messaggio di pace e di speranza subito dopo il Secondo conflitto mondiale”. Un significato esaltato anche dal tradizionale messaggio di un protagonista della scena teatrale internazionale, quest’anno affidato allo statunitense Peter Sellars, regista teatrale e di opera lirica, interprete eclettico e trasgressivo dei classici di fama mondiale. Sellars, le cui parole sono lette all’inizio di ogni evento dedicato alla Giornata, ha richiamato la necessità - di fronte alla violenza che sta divampando - di nuovi rituali e di un nuovo linguaggio del teatro. La Giornata Nazionale del Teatro in Carcere rientra in un più ampio programma di collaborazione previsto dal Protocollo di Intesa sottoscritto nel 2013 e rinnovato il 5 giugno 2019 dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e da quello per la Giustizia minorile e di comunità del Ministero della Giustizia e dall’Università Roma Tre. Il cartellone degli spettacoli aggiornato con le nuove adesioni è disponibile sullo sito www.teatrocarcere.it Spese militari, perché la censura delle parole di Papa Francesco è un fatto politico di Marco Politi* Il Fatto Quotidiano, 27 marzo 2022 “Vaticanista” è una definizione tipica unicamente del giornalismo italiano. In altri paesi i media hanno esperti di problemi religiosi. In Italia, invece, la parola indica l’importanza politica del Vaticano, della Chiesa, del mondo cattolico, ragion per cui i media grandi e piccoli hanno il loro osservatore privilegiato che controlla ogni mossa del pontefice e della sua comunità. Di conseguenza sui media italiani è anche maggiore - rispetto all’estero - lo spazio dedicato ai gesti, alle parole, ai documenti, persino ai silenzi del Papa. Giovedì 24 marzo è successo qualcosa fuori dall’ordinario. Biden era in Europa e ha partecipato al vertice Nato, al G7, al Consiglio europeo. Esattamente in quel momento papa Francesco, nell’incontro con il Centro femminile italiano, ha definito una “pazzia!” l’aumento delle spese militari sino al 2 per cento del bilancio. Rispetto alla guerra in Ucraina, ha dichiarato, la risposta “non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato… un modo diverso di impostare le relazioni internazionali”. Il punto esclamativo che accompagna la parola “pazzia” fa parte del testo ufficiale vaticano. Il Papa ha aggiunto di essersi “vergognato” apprendendo la decisione e ha concluso con una indicazione specificamente politica: il modo giusto di rispondere alla crisi in atto “non (è) facendo vedere i denti, come adesso”. Un intervento di estrema attualità, che chiamava in causa direttamente le scelte o non scelte del governo Draghi e anche i governi europei. Ed è successo un miracolo. Nelle edizioni internet dei media mainstream è calato il silenzio. Soltanto La Stampa gli ha dedicato correttamente la terza posizione. Il giorno dopo (oggi) nell’edizione cartacea La Stampa continua a dedicare alla vicenda un titolo a tutta pagina. Il Corriere e la Repubblica riservano all’intervento due minuscoli riquadratini, “francobolli” in gergo giornalistico. Avesse parlato dei gatti, che molti curano più degli esseri umani, Francesco avrebbe avuto più spazio. La vicenda è interessante dal punto di vista politico. Mentre nel mondo anglosassone americano - nutrito di libertà protestante e della vivacità del pensiero ebraico dove si afferma che “due maestri fanno tre opinioni” - il dibattito delle opinioni discostanti costituisce il sale del dibattito quotidiano, in Italia è scattato con l’invasione dell’Ucraina l’antico riflesso dell’Inquisizione. Chi espone un pensiero disallineato è un nemico della fede. Sicché sono esplosi gli epiteti-anatema di “filopuntiniani”, “equidistanti”, fautori del “Partito della resa” (posizione totalmente estranee alla vasta massa degli italiani, che simpatizzano per l’Ucraina aggredita). Come ogni Inquisizione pretende, è vietato porre domande. Ad esempio: esiste la dottrina Monroe, come fu affrontata la crisi dei missili a Cuba nel 1962, aveva senso l’allargamento verso Est della Nato? Soprattutto l’analisi delle radici del conflitto provoca reazioni incontrollate da parte degli inquisitori. Dunque adesso il bavaglio è stato imposto al Papa. La cosa non sconvolge il pontefice argentino, che ha la scorza resistente. Francesco ha denunciato con parole durissime la brutalità dell’aggressione di Putin e ritiene naturalmente giustificato - come ha detto il suo Segretario di Stato cardiale Parolin - il diritto alla resistenza all’invasore. Ora le sue parole pongono questioni politiche e umane con la stessa nettezza con cui Giovanni Paolo II si oppose all’invasione dell’Iraq (del tutto illegale) condotta in prima battuta da Stati Uniti, Gran Bretagna, inclusa la Polonia. Sono questioni basilari e concrete. Quanto ha senso una corsa alla spesa per gli armamenti, frammentata per i singoli stati europei mentre è in arrivo una formidabile recessione? Come mai non si investe in una difesa europea, che farebbe risparmiare somme ingenti? Che significa quella ridicola forza armata europea di 5.000 soldati? Quanto peserà sulla gente comune la distorsione del bilancio a sfavore degli investimenti sociali, cominciando da sanità, istruzione, sostegno alle famiglie? Con l’inflazione che cresce, è possibile dimenticare d’un tratto che la priorità nr.1 dovrebbe essere il contrasto mondiale alla povertà e il superamento delle disuguaglianze che la peste del Covid ha incrementato? Francesco è una “testa politica”, lo dicevano già i suoi intimi a Buenos Aires. Il punto su cui il Vaticano si sforza di attirare l’attenzione è che la crisi in Ucraina rimanda ad una crisi degli equilibri mondiali a cui si può porre rimedio soltanto con una nuova architettura dei rapporti fra le aree di potere economico e politico del pianeta. Ci vuole un patto Helsinki per il XXI secolo. È questo il senso dell’ammonimento che non serve “far vedere i denti”. È questo il nocciolo dell’esortazione a uscire dall’ottica dei blocchi politico-militari, lavorando per un “modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato, un modo diverso di impostare le relazioni internazionali”. È realismo quello di Francesco, non un modo pietistico di affrontare i problemi. Lo spazio culturale cattolico in questa stagione politica è praticamente uno dei pochissimi in Italia in cui - lasciando da parte la militarizzazione del pensiero - questi temi cruciali vengono sviscerati. Avvenire, il giornale della Cei, batte e ribatte sul tasto che le democrazie devono saper trovare un sistema di relazioni con quella vasta parte del mondo che (scrive il sociologo Mauro Magatti) “non accetta il modello liberale occidentale”. Se la logica violenta di Putin è inadeguata, tocca all’Occidente costruire regole del gioco che coinvolgere anche gli “altri”. Marco Tarquinio, il direttore, scrive che in un mondo che non riesce a vaccinare, curare e alleviare la povertà di tutti gli uomini e le donne del pianeta e alleviare la loro povertà, suscita indignazione la “protervia riarmista di molti”. Con il procedere delle settimane e le grandi difficoltà incontrate dalla macchina militare russa risulta chiaro che evocare l’allarme di un effetto domino, “dopo l’Ucraina Mosca vuole ingoiare i paesi baltici e la Polonia”, è un discorso totalmente fuori dalla realtà. Se, come diceva il generale Clausewitz, la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, il duro intervento papale pone una domanda di fondo sulla politica dell’Occidente adesso. Si vuole fermare l’aggressione di Putin o Washington preferisce che la Russia si dissangui facendo proseguire il conflitto per qualche mese ancora? E in tal caso è realistico che la Cina aiuti l’America a sottomettere la Russia per poi vedere Washington con suoi alleati aprire la guerra economico-politica contro Pechino? *Scrittore e giornalista Il riarmo indecente svuoterà il solito granaio di Giacinto Botti e Maurizio Brotini* Il Manifesto, 27 marzo 2022 Se non sapremo dare continuità alla mobilitazione sindacale messa in campo con il giusto sciopero generale del 16 dicembre, questi costi da economia di guerra svuoteranno il solito granaio, e saranno scaricati, nel modo più classista e tradizionale, sui ceti popolari e sul mondo del lavoro. Sulla guerra nei mezzi di informazione ormai debordano menzogne, retorica e ipocrisia. Siamo al pensiero unico che rimuove la memoria storica per far leva sugli aspetti emozionali, con riferimenti improvvidi e strumentali al passato e a un’idea di democrazia e di etica occidentale mistificante. Nel paese cattolico per eccellenza viene rimossa da certa stampa asservita al potere e alle lobby delle armi persino la forte denuncia del Papa, il suo vergognarsi dinanzi all’aumento delle spese militari. Che la guerra, per sua natura, non possa avere regole né limiti l’aveva ben capito Albert Einstein. È lo strumento della guerra ad essere un crimine contro l’umanità. La si può abolire solo con un salto di qualità della coscienza civile, con l’affermazione della cultura della pace, della convivenza civile e di una diversa visione del mondo. Invece siamo ormai alla cultura e a un’economia di guerra, in dispregio della nostra Costituzione che la “ripudia” e in contrasto con l’esortazione del Presidente partigiano Sandro Pertini di “svuotare gli arsenali e riempire i granai”. Se vuoi ripudiare e abolire la guerra e costruire la pace non puoi aumentare le spese militari. Anche questa guerra cruenta in Europa, che poteva e doveva essere evitata, non è più grande, più mostruosa, più violenta e inutile di tante altre, è solo più vicina a noi. I profughi che scappano dall’Ucraina bombardata non sono diversi dagli altri, solo che non provengono da paesi lontani, non sono vittime delle nostre bombe democratiche, civili e “intelligenti”, e hanno la pelle del nostro stesso colore. Volere pure costruire un esercito europeo quando non abbiamo mai realizzato un’Europa dei popoli, politica e sociale e una qualsiasi politica estera condivisa è da irresponsabili. Il rischio di un’escalation internazionale è reale. Fermare la guerra e preparare la pace dovrebbe essere la base di riferimento culturale, etico e politico del governo italiano. Invece il governo ha scelto l’invio di armi e un indecente, criminale riarmo destinando, come richiesto dalla Nato, il 2% del Pil italiano. Tradotto, in un’Italia ancora immersa in una crisi di sistema, sanitaria, sociale ed economica, segnata dalla disoccupazione e dalla precarietà di lavoro e di vita, aumentiamo la spesa militare dagli attuali 25 miliardi l’anno a 39: 104 milioni di euro al giorno. Ma non basta. Il ministro, ormai più della guerra che della difesa, su mandato del governo italiano, divenuto ormai un’utile comparsa, si vanta di aver raggiunto un accordo militare Roma-Budapest con il nazionalista ungherese Viktor Orbán, per incrementare la cooperazione strutturata in ambito militare, rafforzare l’interoperabilità tra le forze armate, l’addestramento delle truppe e la collaborazione industriale. Un accordo con il razzista che ha eretto un muro di filo spinato lungo i confini con la Serbia e la Croazia per respingere disumanamente le migliaia di migranti, di profughi richiedenti asilo, in fuga dalla guerra in Siria. Lo stesso Pd, prima, dichiarava che quel regime non avrebbe dovuto far parte della Ue. Restiamo allibiti dalle motivazioni di questa politica di guerra: il riarmo come fattore di deterrenza e di difesa della “patria”. Una tesi insopportabile, demagogica e medievale, nell’era della atomica e in un mondo pieno di strumenti di morte e di distruzione della civiltà, dove la sofferenza, la povertà e le morti per fame e sete riguardano metà della popolazione mondiale. La realpolitik in guerra produce ipocrisia e chiude le menti, offusca la coscienza e rimuove la memoria storica. La Cgil, in coerenza con le sue nette posizioni a sostegno del popolo ucraino, contro la violenta aggressione della Russia putiniana, contro la guerra e contro l’invio delle armi in Ucraina, dovrebbe oggi far sentire ancor più forte la sua voce contro l’aumento delle spese militari, contro il riarmo e l’aumento della fabbricazione e la vendita delle armi, rimettendo al centro del confronto con il governo le conseguenze sociali ed economiche della guerra e non solo. Concretamente, se non sapremo dare continuità alla mobilitazione sindacale messa in campo con il giusto sciopero generale del 16 dicembre, questi costi da economia di guerra svuoteranno il solito granaio, e saranno scaricati, nel modo più classista e tradizionale, sui ceti popolari e sul mondo del lavoro con il taglio dello stato sociale e degli investimenti pubblici. Nel mondo interdipendente le conseguenze di una guerra, di tutte le guerre in corso, come delle sanzioni estreme si riverbereranno globalmente, per questo si debbono accompagnare gli aiuti umanitari ai profughi, tutti, con nuove politiche economiche e sociali europee e del governo italiano, di sostegno alla popolazione, al sistema Paese, per evitare ulteriori diseguaglianze, crisi sociali, economiche, industriali, energetiche e alimentari. E ambientali. Occorre ripensare, costruire un possibile mondo di Pace multipolare e multiculturale. Se vuoi fermare la guerra e affermare la Pace devi armare le coscienze, avere una visione di futuro, investire nel progresso sociale, nell’eguaglianza dei diritti e delle possibilità. Una strada lunga ma obbligata. *Gli autori fanno parte del direttivo nazionale Cgil In Europa la difesa ora costa di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 27 marzo 2022 Con il costo di un bombardiere potremmo costruire trenta nuovi edifici scolastici oppure tre quartieri residenziali per 8.000 persone. Il presidente americano Eisenhower fece questi esempi in un discorso del 1953, dopo l’armistizio fra le due Coree. Aggiungendo però che “la nube minacciosa della guerra tiene l’umanità appesa a una croce di ferro”, impedendole di rinunciare alle armi. Con il crollo dell’impero sovietico nel 1991 e la fine della guerra fredda, molti speravano che l’odioso dilemma fra “burro e cannoni” sarebbe stato definitivamente superato, ma non è andata così. Il cielo dell’Ucraina è stato invaso da bombardieri russi che scaricano bombe. E questa volta il dilemma sulle priorità di spesa riguarda direttamente noi europei: ad essere in gioco è la nostra sicurezza. Dopo il fallimento della Comunità europea di difesa (bocciata dal Parlamento francese nel lontano 1956), abbiamo praticamente delegato la protezione militare all’unico membro della Nato che poteva garantirla, gli Stati Uniti. L’Unione europea si è dedicata all’integrazione dei mercati e a incassare due dividendi: quello della pace e quello della crescente prosperità. Abbiamo trascurato i cannoni e investito così tanto nel burro — in senso letterale, grazie ai sussidi Ue all’agricoltura — da non sapere come usarlo (negli anni Ottanta mandavamo le eccedenze al macero o le vendevamo sottocosto). Fra il 1960 e il 2015, la spesa pubblica per la difesa è calata dal 4% all’1,3% in media Ue; nello stesso periodo la spesa per la protezione sociale è salita dal 10% al 25%. Anche negli Usa la spesa è diminuita, ma assorbe a tutt’oggi più del 3% del Pil. Otto decenni di pace e prosperità hanno inciso profondamente sulla cultura degli europei, in particolare quelli nati negli anni 50 e 60, i cosiddetti baby boomers. Qualcuno li ha definiti “generazione egoista”, principalmente interessata al proprio tornaconto. Un giudizio forse impietoso: la prosperità non è caduta dal cielo, è stata costruita attraverso il lavoro e l’impegno di quei giovani. Resta però un fatto che l’espansione del welfare (compresi i sostanziosi trasferimenti ai baby boomers, ora pensionati) è stata in buona parte finanziata a debito, soprattutto in Italia, scaricando i costi sulle generazioni future e riducendo i margini fiscali per altre priorità di bilancio. Nel 2014, in un vertice Nato i leader europei s’impegnarono a riportare la spesa per la difesa al 2% del Pil entro un decennio: ad oggi, manca all’appello almeno mezzo punto di PIL. In Italia il divario da colmare è intorno ai dodici miliardi. Una grande somma, ma inferiore a quanto è costata “quota cento”, il provvedimento che ha mandato in pensione anticipata circa 350.000 lavoratori. Certo, per rafforzare la difesa europea non basta spendere di più, ciascuno per sé. È necessario uno sforzo imponente di razionalizzazione e integrazione fra i ventisette sistemi nazionali, riconoscendo che siamo esposti a minacce comuni e che dunque è ragionevole condividere i rischi, anche dal punto di vista finanziario. Siamo riusciti a farlo di fronte alla pandemia con il programma Next Generation Eu, ora dobbiamo seguire la stessa strada sul fronte dell’energia e della sicurezza militare. Molti europei vedono oggi nelle armi il male assoluto: andrebbero abolite e basta, la pace va costruita con le parole della diplomazia. Dopo due anni di lockdown e limitazioni, nessuno poi vuole sentir parlare di sacrifici, anche solo se si trattasse di due gradi in meno di riscaldamento o di limiti di velocità più bassi in autostrada per risparmiare energia. I soldi della Ue per finanziare ripresa e resilienza ci hanno dato l’illusione di essere entrati in una fase di “vacche grasse”, senza più vincoli di bilancio. Vediamo in televisione le immagini della guerra e ci vengono i brividi. Ma facciamo fatica a collegare i vari fili in un quadro unitario. Non riusciamo così a riscoprire la dimensione fondativa della nostra sicurezza: una concreta capacità di difesa da chi potrebbe minacciarci, come è avvenuto in Ucraina. Molti Paesi Ue hanno subito, è vero, attacchi terroristici. Però la guerra è un’altra cosa e non la percepiamo come un pericolo che possa riguardarci direttamente. Il frastagliato e litigioso panorama politico del nostro Paese non aiuta certo gli italiani a capire la nuova situazione. Tutti ci auguriamo che le armi tacciano il più presto possibile in Ucraina: ma di che pace si tratterà? Cosa succederà in Russia, con o senza Putin? Di fronte ad alternative astratte come quelle esemplificate dal presidente Eisenhower, nessuno avrebbe dubbi: fra scuole, case e cacciabombardieri solo un folle sceglierebbe questi ultimi. Ma se visualizziamo la cupa nuvola della guerra all’orizzonte, qualche dubbio sorge. Nessuna scelta è obbligata: su temi delicati come la difesa è giusto interrogarsi e discutere. Purché lo si faccia con responsabilità e contezza di causa, senza dogmi manichei né meschini calcoli elettorali. La sicurezza è diventata un problema serio, non possiamo più nasconderlo sotto il tappeto, o aspettarci che altri lo risolvano per noi. Tre passi per fermare la guerra prima che sia troppo tardi di Mario Giro* Il Domani, 27 marzo 2022 Per negoziare occorre lucidità e mente fredda. L’avventurismo di Putin ha messo la Russia in un vicolo cieco. Adesso va offerto alla Russia un quadro negoziale che indichi una via di uscita prima di scelte inconsulte, questo è il momento per trattare prima che tutta l’Ucraina sia ridotta in cenere. Visto che gli americani non paiono per ora intenzionati a promuovere una tregua, è necessario che l’Europa prenda la leadership del negoziato. Le parole al consiglio della Nato, a quello europeo e al G7 sono state forti. In questa situazione esacerbata ogni parola e ogni gesto vanno calibrati con attenzione. Ci sono leader occidentali e media famosi che sembrano non avere paura di una guerra generalizzata. Soffiare sul fuoco è da irresponsabili: occorre smettere di ragionare unilateralmente e cessare tifoserie inutili. È evidente che leadership russa è colpevole di aver scatenato un gravissimo conflitto. Tutti gli europei sono convintamente dalla parte degli ucraini. Ora la vera leadership di cui necessitiamo deve ideare un piano per uscire dalla guerra in modo politicamente lucido. Gli errori di Putin - È sempre più chiaro che Vladimir Putin ha preso una decisione avventurista senza senso oltre che scellerata: da ogni punto di vista questa guerra l’ha già persa o quanto meno ci guadagnerà solo pezzi di territorio vuoto e bruciato dal suo stesso esercito. Se si aggiungono a tale evidenza anche le difficoltà apparenti dell’armata rossa, il quadro è decisamente negativo. La Russia non è riuscita a dividere l’occidente; ha rafforzato il nazionalismo ucraino; ha resuscitato la Nato e il G7; ha perso la battaglia mediatica e propagandistica; si è auto-isolata economicamente e si è attirata lo sdegno generale. Tuttavia ciò non deve esaltare gli occidentali ma renderli più saggi e prudenti perché una Russia così mal pilotata può fare ancora molto male. Gli errori dell’occidente - Prima di tutto c’è da considerare che molti paesi non si sono schierati: non solo la Cina ma l’India e tanta parte di Africa e di Asia ecc. Questo avviene perché l’occidente in questi ultimi trent’anni si è alienato molte simpatie: ha commesso errori, ha condotto guerre inutili e dannose (non sempre rispettando le regole internazionali), si è occupato essenzialmente di sé stesso e non è stato particolarmente solidale con il resto del pianeta. Ad esempio l’astensione all’assemblea generale dell’Onu di molti paesi africani sulla risoluzione di condanna della Russia si deve, più che a un moto di vicinanza a Mosca, a un segnale di irritazione per la guerra di Libia: quella malaugurata scelta euro-americana che ha gettato nel caos numerosi stati dell’Africa occidentale, oggi abbandonati a sé stessi. In sintesi: non è perché la Russia ha commesso l’errore più grande che i nostri sono cancellati. Gli altri continenti non dimenticano. Rischio gesti estremi - In secondo luogo occorre tenere conto che è proprio quando viene messo con le spalle al muro che il sistema russo può compiere scelte più azzardate. I riferimenti fatti da Mosca sul possibile utilizzo dell’arma nucleare devono essere presi assolutamente sul serio. Non si tratta di un bluff ma può diventare una scelta reale. La delusione per non essere stati accolti dagli ucraini orientali (russofoni) come dei liberatori, è fonte di grande frustrazione per Mosca e può condurre a gesti estremi, anche se localizzati. In terzo luogo va evitata un’escalation delle parole e delle decisioni da parte europea: è più saggio non schierarsi con i più scalmanati tra noi. I grandi stati membri dell’Unione europea, in particolare i fondatori, devono riprendere il controllo per arrestare il crescendo di bellicismo che risulta anch’esso avventurista e irresponsabile. Gli obiettivi - Infine è necessario elaborare ora un piano di uscita dalla crisi. Gli obiettivi su cui lavorare sono tre: ottenere una tregua, indicando alla Russia di Vladimir Putin la via di uscita per un vero negoziato; stabilire le nuove regole di sicurezza e cooperazione in Europa; elaborare un piano per la gestione delle relazioni con la Russia. Visto che gli americani non paiono per ora intenzionati a promuoverlo, sul primo obiettivo è necessario che l’Europa prenda la leadership del negoziato (anche con il supporto turco se utile), abbassando i toni e tenendo a bada i propri estremisti interni. Germania, Francia e Italia dovrebbero ingaggiare la Russia seriamente nella cessazione delle ostilità e nella costituzione di un vero tavolo negoziale. Fermare le armi - Ciò non significa rinunciare al proprio giudizio sulla scellerata guerra ma ridare priorità alla politica. Servirà per questo fare pressioni sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky e diminuire (per poi cessare) la consegna di armi agli ucraini (facendolo diventare un tema negoziale). Qualcuno dirà che occorre continuare ad armarli perché la loro vittoria è possibile: è proprio un giudizio così poco lucido che può far precipitare le cose. L’Ucraina con coraggio sorprendente si sta difendendo, nessuna grande città è ancora caduta, i russi hanno subìto gravi perdite: è questo il momento per andare al negoziato a testa alta, prima che il paese sia ridotto in cenere. La parte più difficile non è tanto il cessate il fuoco (si ottenne anche nel 2014) ma sfidare i russi su un vero negoziato che includa non solo i vecchi temi (Crimea, Donbass, neutralità) ma anche nuovi contenuti che introducono alla seconda tappa. Si potrebbe dire che senza gli Usa non si può fare nulla ma la situazione sul terreno è talmente insabbiata che c’è da scommettere che Mosca coglierebbe l’occasione. Temere la democrazia - Il secondo punto è una nuova conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Qui Mosca accusa la Nato di essersi allargata forzando: l’occidente avrebbe mentito. Su tale tema a gennaio i russi avevano consegnato agli americani una bozza di nuovo trattato, sdegnosamente respinto. Qual è il nodo? All’epoca di Helsinki non si pose il problema della democrazia in sé ma si decise che i due sistemi potevano convivere a patto di mettersi d’accordo su alcune regole comuni, rispettando le rispettive sfere. Oggi la Russia di Putin invece contesta la democrazia stessa. La diffidenza è reciproca. Ciò che spaventa il sistema russo è il “contagio democratico” (con l’appoggio della Cina di Xi Jinping): malgrado i leader dei due colossi ripetano continuamente che i loro sistemi sono migliori e più efficienti della democrazia occidentale, in realtà ne sono ossessionati. Dall’altra parte gli occidentali, pur continuando ad autocommiserarsi parlando di declino, sfruttano tutto il loro soft power in termini culturali e di abitudini umane, non fosse che per ragioni commerciali. In cerca del compromesso - Non bastano dei russi o dei cinesi occidentalizzati per farne dei democratici ma pare che i loro leader lo temano notevolmente. Si tratta cioè di una questione di potere mascherata da modello politico-culturale, ammantata cioè da culturalismo identitario che manipola anche la religione. Ecco perché una nuova Helsinki sarebbe diversa dalla prima: il “terzo cesto” (la parte sui diritti umani) diverrebbe il primo. Una nuova conferenza andrebbe ripensata: gli occidentali non cedono sul fatto che ogni paese sia libero di scegliere il proprio sistema e con chi stare, mentre per i russi vale ancora la vecchia regola delle sfere di influenza. Esiste un compromesso possibile tra le due visioni? Prima che sia troppo tardi - Un’altra questione cruciale è riprendere i colloqui sui trattati di disarmo, progressivamente abbandonati da russi e americani. La questione è centrale: più ci si riarma e più si creano le condizioni per un’altra guerra. I processi di riarmo in corso - fortemente contestati da Papa Francesco - vanno arrestati al più presto e si deve ricominciare a disarmare. La terza fase riguarda il recupero di una relazione ragionevole con la Russia. È impensabile un’Europa senza rapporti con Mosca: la Russia non scompare ma lo sciovinismo russo va contenuto. Il confronto tra Russia ed Europa è sempre stato difficile. In ogni caso i russi non vanno regalati a Putin. Visto che già 8mila coraggiosi accademici e ricercatori russi hanno firmato il manifesto contro la guerra, ripartiamo dalla cultura e dalla ricerca per un nuovo viaggio comune. Recidere anche questi legami in nome delle sanzioni non è saggia politica. Infine è bene rammentare che la guerra sta creando gravi problemi al sud del mondo: penuria di grano e di fertilizzanti il che si traduce in fame e rivolte. Fermare presto questa guerra significa fermare la maturazione di altri conflitti che potrebbero derivare dal caos attuale. Facciamolo prima che sia troppo tardi. *Politologo Russia. Stop a diritti e media: “È tornata la legge marziale” di Rosalba Castelletti La Repubblica, 27 marzo 2022 Nell’ultimo mese tagliate le libertà di parola, movimento e proprietà. E ieri nessuno ha potuto ascoltare Biden rivolgersi proprio alla popolazione. “Permettetemi di dirvi, se siete in grado di sentirmi: voi, popolo russo, non siete il nostro nemico”, ha detto ieri il presidente Usa Joe Biden. “Vladimir Putin vi ha tagliato fuori dal mondo”. È così vero che in Russia quasi nessuno ha potuto ascoltare le sue parole. Il Cremlino non avrà decretato ufficialmente la legge marziale come si temeva a inizio marzo, ma diritti e libertà fondamentali si sono ristretti al punto tale che è come se lo avesse fatto. “In un mese i diritti costituzionali fondamentali e le libertà di riunione, parola, movimento e proprietà privata sono stati estremamente limitati”, scrivono due avvocati e attivisti per i diritti umani - Pavel Chikov, presidente di Agora, e Damir Gajnutdinov, direttore di Net Freedoms Project - in un rapporto diffuso a un mese dall’inizio dell’offensiva in Ucraina. “In Russia la legge marziale è stata di fatto introdotta”. Parallelamente alla “operazione militare speciale” in Ucraina, Putin sta combattendo una “guerra” in patria. Per controllare la narrazione e reprimere il dissenso. Tanto che, del discorso di Biden, Pervyj Kanal (Primo Canale) ha mandato in onda solo uno stralcio di pochi secondi, “l’economia russa è un disastro”, per smentirlo. La libertà di riunione - In Russia non c’è manifestazione che venga autorizzata: vengono respinte con il pretesto di “restrizioni anti-coronavirus”. Il 24 febbraio almeno 1.800 persone sono state detenute in 68 città perché protestavano per l’Ucraina. Nello stesso giorno sono stati denunciati 113 casi di uso della forza da parte della polizia in almeno 11 regioni. Oggi, dopo oltre 15mila arresti in tutto il Paese, non ci sono più cortei. Solo picchetti solitari che vengono subito repressi. Si finisce in carcere anche per un foglio bianco. La “censura militare” - Il 4 marzo sono stati approvati una serie di emendamenti che, secondo Chikov e Gajnutdinov, equivalgono a una “legge sulla censura militare”. È vietato diffondere “notizie false” o “diffamatorie” sulle forze armate, nonché chiamare per nome quello che accade in Ucraina. Pena una multa la prima volta e il carcere fino a 15 anni in caso di reiterazione. Sono già stati aperti 213 procedimenti e oltre 10 casi penali, di cui 4 contro giornalisti. Ma i manifestanti sono stati perseguiti anche per capi d’accusa come teppismo o estremismo. La libertà di parola - Le poche testate indipendenti sopravvissute alla stretta del 2021 sono state prese di mira dopo il lancio dell’offensiva in Ucraina. Il 26 febbraio l’agenzia Roskomnadzor ha intimato a varie testate di rimuovere gli articoli non basati su fonti ufficiali russe. Da allora ha oscurato almeno 811 siti, bloccato Twitter, Facebook e Instagram e spento radio Ekho Moskvy. Di fronte alle restrizioni diversi media hanno deciso di cessare le attività e molti corrispondenti stranieri hanno lasciato il Paese. Da tempo la Russia si prepara inoltre a lanciare una Runet isolata dalla Rete globale. La libertà di movimento - Undici aeroporti nel Sud del Paese sono chiusi fino al 1° aprile. Molti Stati - tra cui Usa e Paesi Ue - hanno chiuso lo spazio aereo alle compagnie aeree russe e Mosca ha risposto specularmente. I confini terrestri sono chiusi già dal marzo 2020 a causa del coronavirus. Attualmente, via terra, si può andare solo in Bielorussia. Da ieri la Finlandia ha sospeso il treno Allegro Helsinki-San Pietroburgo. E si allunga anche la lista dei moderni “refusenik”. Molti si vedono negato, o ritardato, il rilascio del passaporto, o respinto l’accesso agli scali. La stretta del 2021 - Se è bastato appena un mese per blindare i diritti, le autorità - osservano i due autori - avevano preparato il terreno da tempo. “La neutralizzazione dello spazio politico e mediatico nel 2021 è stata preparatoria alla fase militare”, concludono Chikov e Gajnutdinov. “Tuttavia, solo dopo l’invasione dell’Ucraina, è diventata chiara la logica e i presupposti della pressione totale delle autorità sull’opposizione politica e sui media che ha accompagnato tutto il 2021”. Di recente Ivan Zhdanov, collaboratore di Navalnyj in esilio, ha commentato: “O la Russia cambia ora o diventerà un’altra Corea del Nord”. Finora la repressione ha avuto la meglio. Stati Uniti. Una legge per “proteggere” la pena di morte in Idaho di Marina Catucci Il Manifesto, 27 marzo 2022 Firmata dal governatore Gop, impone la segretezza sui farmaci usati per le iniezioni letali. Il governatore repubblicano dell’Idaho Brad Little ha firmato un disegno di legge per aumentare notevolmente il muro di segretezza che circonda i farmaci per la pena di morte in uso nello Stato. La firma del governatore èarrivata dopo i voti positivi al Senato e alla Camera, rispettivamente 21-14 e 38-30, seguendo le linee di partito. Nessun democratico ha votato per far passare la legge così come nessun repubblicano si è discostato dalla posizione favorevole del Gop. La nuova legge si spinge anche oltre alla segretezza sui medicinali, e arriva a proibire ai funzionari dell’Idaho di rivelare dove ottengono i farmaci utilizzati per le iniezioni letali, anche se gli venisse ordinato dai tribunali. A livello nazionale la legge dell’Idaho ha attirato critiche da entrambi i lati della navata politica, con gli oppositori del disegno di legge che affermano che i funzionari statali dovrebbero aumentare la trasparenza sulle esecuzioni piuttosto che cercare di avvolgerle nel mistero. Il senatore repubblicano Todd Lakey, a cui si deve il disegno di legge, ha affermato che gli attivisti che si battono contro la pena di morte hanno utilizzato una serie di “campagne organizzate ed aggressive” mascherate da “giustizia sociale”, al fine di fare pressioni e influenzare i produttori dei farmaci per le iniezioni letali per poter così porre fine alle esecuzioni nello Stato. Durante una conferenza stampa Lakey ha affermato che questo disegno di legge, invece, aiuterà a risolvere il problema: “Abbiamo bisogno di questa legge per mantenere la pena di morte in Idaho - ha detto Lakey - Francamente, la loro guerra per la giustizia sociale è stata efficace, noi dobbiamo difenderci”. Lakey ha respinto le critiche rivolte alla segretezza sui farmaci usati, affermando che i saranno comunque ancora adeguatamente testati prima di essere utilizzati in un’esecuzione, e ha osservato che il Dipartimento di correzione dell’Idaho prende sul serio i procedimenti relativi alla pena di morte, e che altri Stati hanno già approvato leggi simili negli ultimi decenni. La Georgia ha approvato il Lethal Injection Secrecy Act quasi 10 anni fa, e recentemente ha aggiunto una serie di nuove protezioni di segretezza sui farmaci per le iniezioni letali, rendendo segreti di stato i nomi di coloro che prescrivono i farmaci e le aziende che li producono. Anche i nomi del personale carcerario che effettuano le esecuzioni sono stati resi segreti di stato. La linea di difesa della pena di morte sta diventando sempre più dura negli stati repubblicani, quegli stessi stati che si battono strenuamente per limitare il diritto all’aborto, e la notizia che arriva dall’Idaho si affianca a quella di un altro allineamento, quello della Carolina del Sud con altri tre stati - Mississippi, Oklahoma e Utah - per consentire l’applicazione della pena di morte tramite plotone di esecuzione. Il South Carolina, però, ha aggiunto un tocco personale alla procedura: spetta ai condannati scegliere quale modalità di esecuzione preferiscono. La legge è stata scritta lo scorso anno dopo che non si vedevano condanne a morte in Carolina del Sud da 10 anni, principalmente perché lo Stato non poteva procurarsi i farmaci per l’iniezione letale, il metodo più comune per le esecuzioni negli Stati uniti, anche se in questo Stato prevalevano le esecuzioni tramite sedia elettrica. Le aziende farmaceutiche sono sempre più riluttanti a fornire i farmaci per le esecuzioni letali, e questo costringe gli Stati a escogitare altre opzioni. Alcuni optano per la segretezza, altri per metodi abbandonati da tempo. Afghanistan. Le donne sfidano i talebani: “Vogliamo andare a scuola” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 27 marzo 2022 Almeno una ventina di manifestanti, principalmente donne, si sono radunati questa mattina nei pressi del ministero dell’Istruzione a Kabul chiedendo la riapertura delle scuole secondarie femminili. Lo scrive la Bbc precisando che le manifestanti hanno gridato: “L’istruzione è un nostro diritto!”. Tra loro anche diverse docenti. Una di loro ha detto alla Bbc: “Quando si tratta di battersi per la libertà delle ragazze sono disposta a morire”. “Voglio che la nostra generazione possa sia libera e possa fiorire, non rimanere a casa a piangere” ha detto una ragazza. I talebani hanno in passato disperso le manifestazioni e arrestato le persone coinvolte, ma in questa occasione la protesta è stata autorizzata a continuare. Al potere in Afghanistan dall’agosto del 2021, i talebani hanno revocato mercoledì scorso la loro stessa decisione di consentire alle ragazze di studiare nelle scuole medie e superiori. Un annuncio inaspettato, che ha suscitato numerose condanne, tra cui quelle dell’Onu, dell’Unesco e di sei Paesi occidentali, tra cui Stati Uniti e Unione Europea, che hanno chiesto agli islamisti fondamentalisti di tornare immediatamente sui propri passi. Ma, al contrario, la situazione delle donne nel Paese va peggiorando di giorno in giorno. Giovedì scorso i Talebani hanno dato istruzioni a tutte le compagnie aeree che operano in Afghanistan - dallo scorso agosto di nuovo sotto il loro controllo - di vietare i voli alle donne non accompagnate da un “tutore”. Stando a un documento ottenuto dall’agenzia Dpa, la decisione è stata presa durante un incontro al comando della polizia di frontiera dei Talebani all’aeroporto internazionale di Kabul. Due dipendenti dell’Ariana Afghan Airlines, la più grande compagnia aerea afghana, hanno confermato l’autenticità del documento. “È stato deciso che nessuna donna può viaggiare su nessun volo senza un Mahram”, un accompagnatore di sesso maschile, ha detto un funzionario coperto da anonimato. E ieri a decine di viaggiatrici è stato impedito l’imbarco, come confermato da altri due funzionari del settore. Interpellato dalla Dpa il portavoce del ministero dei Trasporti e dell’aviazione civile del governo talebano, Imamuddin Ahmad, ha detto che”si stava cercando una soluzione”.