Gli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni costano allo Stato 26 milioni di euro di Liana Milella La Repubblica, 26 marzo 2022 Mattarella: “Concentrare gli sforzi su traguardi comuni”. In vista dell’incontro di maggioranza di lunedì per chiudere sulla riforma del Csm si levano venti di guerra dal centrodestra perché la Guardasigilli boccia le richieste come incostituzionali. Costa accusa Cartabia: “La sua riforma è acqua fresca”. Venti di guerra sulla riforma del Csm. Anche se la Guardasigilli Marta Cartabia, in vista del nuovo vertice di maggioranza in programma lunedì pomeriggio, parla di legge “necessaria e improcrastinabile” e di un “lavoro di cesello”. Ma sulle parole della ministra della Giustizia e dello stesso presidente della Repubblica (e del Csm) Sergio Mattarella, che invita tutti “a concentrare gli sforzi sui traguardi comuni da raggiungere”, si fanno sentire pesanti distinguo. Di cui almeno uno - quello del vice segretario di Azione Enrico Costa - sembra preludere addirittura a un voto contrario. Il suo dissenso potrebbe aprire una crepa - anche se numericamente piccola nella maggioranza - che potrebbe influire sulle palesi contrarietà, ribadite ancora ieri, di Forza Italia, che con Pierantonio Zanettin continua a considerare indispensabile il sistema elettorale del sorteggio temperato, proprio come fa la Lega con Giulia Bongiorno. Ma c’è un segnale che ieri mattina, alla Camera, ha turbato più d’uno. Vede Costa come protagonista. E riguarda una materia - gli indennizzi dello Stato in caso di un errore giudiziario o di una detenzione rivelatasi ingiusta - che apparentemente non riguarda la riforma del Csm. Ma che in realtà, con le parole di Costa, la investe in pieno. Soprattutto quando, per ben 16 volte, Costa dice in aula che ci sono altrettanti punti nella riforma del Csm che “non sono coerenti con la Costituzione”. Il responsabile Giustizia di Azione ce l’ha con la Cartabia, cui pure ha espresso piena solidarietà per le accuse contro di lei del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e del consigliere togato del Csm Giuseppe Cascini per via delle norme sulla presunzione d’innocenza e dell’illecito disciplinare previsto nella riforma che punisce quei pm che le violano o quantomeno le aggirano. Ma quando la stessa Cartabia, nell’ultima riunione di maggioranza di giovedì, afferma che alcune richieste del centrodestra, Azione compresa, e del M5S - il sorteggio, la responsabilità civile diretta, il divieto per i parlamentari di diventare componenti laici del Csm - sarebbero incostituzionali, allora secondo Costa non fa i conti con la ventina di norme anticostituzionali che lui invece vede nell’attuale sistema che regola la vita dei magistrati. Ma andiamo con ordine. E partiamo dall’ingiusta detenzione e dagli errori giudiziari per capire come si arriva alle 16 accuse di incostituzionalità. 30mila casi di ingiuste detenzioni - È venerdì mattina, e le nove sono passate da pochi minuti. Del tutto normale quindi che l’aula di Montecitorio non brilli per numero di presenze. E sono in pochi ad ascoltare l’affondo durissimo del deputato Enrico Costa proprio sui dati della ingiusta detenzione e degli errori giudiziari pagati dallo Stato rispetto al 2021. Lui interviene dopo aver presentato un’interpellanza urgente perché a suo dire i dati sono in netto ritardo e arrivano solo perché lui stesso li ha chiesti più volte. Interviene dal banco e accusa il ministero della Giustizia di non essersi dato da fare come avrebbe dovuto per rispettare i tempi. Testualmente Costa dichiara: “Per dimostrare il totale disinteresse sulla questione delle ingiuste detenzioni basta osservare che il ministero della Giustizia chiede al Mef i dati quando già il termine per informare il Parlamento è spirato, perché il termine era il 31 gennaio e il ministero della Giustizia si sveglia e chiama il Mef il 9 febbraio. Il Mef risponde il 16 febbraio, e noi stiamo ancora aspettando questi dati”. Aggiunge un’ulteriore chiosa polemica: “Questo dimostra in modo palese il disinteresse rispetto a un tema che è di civiltà giuridica, perché se una persona è stata arrestata, prelevata alle cinque del mattino, sbattuta in carcere e poi è stata assolta, è giusto che si faccia mente locale sul perché questo si sia verificato; e ciò si verifica migliaia di volte: negli ultimi trent’anni, abbiamo avuto 30mila casi di ingiuste detenzioni”. Il tempo di Costa, nello stretto regime delle interpellanze urgenti, è scaduto. E gli risponde la sottosegretaria del Mef Alessandra Santore che, come vedremo, si limita a illustrare i dati senza scendere dello scontro sulla giustizia. 26 milioni i costi per lo Stato - Ma ecco i numeri: “La riparazione da errore giudiziario ammonta a 1.271.914 e i dati sono relativi a sette ordinanze di Corti di Appello. La riparazione per ingiusta detenzione ammonta a 24.506.190 ed è relativa a 565 ordinanze di Corti di Appello”. Questo porta Costa a dire che ci sono quasi 26 milioni di euro frutto di interventi sbagliati dei giudici che, a questo punto, dovrebbero rispondere degli errori commessi. Tant’è che Costa illustra anche il nuovo illecito disciplinare contro le toghe che vuole far entrare nella riforma del Csm: “Si tratta di una norma di civiltà giuridica. Per chi ha concorso, con negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione dei provvedimenti di restrizione della libertà personale per i quali sia stata disposta la riparazione per ingiusta detenzione”. Per dirla in modo semplice, se si verifica un errore giudiziario - quello che sta costando allo Stato oltre un milione di euro - oppure un caso di ingiusta detenzione - 25 milioni per i 565 casi verificati dalle Corti di Appello - non solo lo Stato paga il malcapitato, ma automaticamente dovrebbe scattare anche un provvedimento disciplinare nei confronti della toga che ha sbagliato. Non è la prima volta che Costa ipotizza una simile idea - lo aveva già fatto due anni fa con una sua proposta di legge - ma adesso di mezzo c’è la riforma del Csm. Contro cui lo stesso Costa si scaglia con i suoi sedici “j’accuse”. A cominciare dal primo: “Chiedo alla ministra Cartabia se sia coerente con il nostro assetto costituzionale, di fronte ai numeri che ci sono stati dati, che nessuno paghi, che paghi solo lo Stato, che non ci sia un magistrato che subisca un’azione disciplinare, visto che il governo è attento alle sfumature sugli emendamenti parlamentari”. E da qui parte una raffica di accuse contro le toghe e contro la legge in discussione che, a detta di Costa, sarebbe “troppo sbilanciata a favore dei magistrati”, mentre proprio dalle toghe e dal Csm, contro la legge arriva l’accusa contraria, e cioè di essere troppo severa e sfavorevole. Naturalmente Costa è per la responsabilità civile diretta, chiesta da lui e da tutto il centrodestra, “perché il sistema attuale, dal 2010 al 2022, ha visto solo otto condanne di fronte a 664 cause intentate e a 154 sentenze definitive”. Gli slogan anti-giudici si susseguono uno dietro l’altro, come le accuse ai magistrati che lavorando presso l’ufficio legislativo di via Arenula e valutano gli emendamenti, magari dichiarandoli incostituzionali. Il che - per Costa - sarebbe un’altra colpa da punire, semplicemente buttando fuori le toghe da via Arenula. Colpevoli naturalmente anche i magistrati che contestano le norme sulla presunzione d’innocenza e sulle conferenze stampa, perché lui vuole il bavaglio integrale per i magistrati. Accuse anche per il Pg della Cassazione che “su 2mila segnalazioni all’anno di illeciti disciplinari ne archivia il 90 per cento”. E alla fine Costa annichilisce la sottosegretaria al Mef, vittima della sua arringa: “Chiedo al governo, e lo chiedo tramite lei, di avere il coraggio di evitare di mettere la fiducia in questa riforma, di evitare di trovare pretesti di costituzionalità, di lasciare lavorare il Parlamento, di lasciare votare il Parlamento, di fare una riforma che non sia timida, ma che sia coraggiosa, perché quello che sta venendo fuori è acqua fresca”. Appuntamento a lunedì in via Arenula. Nel 2021 in Italia 565 innocenti in carcere: 24 milioni di euro il costo di Francesco Grignetti La Stampa, 26 marzo 2022 La battaglia degli avvocati: sanzioni ai giudici che sbagliano. Dal 1992 a oggi 900 milioni di euro alle oltre 30mila persone detenute ingiustamente. Finire in una cella e però essere innocenti. Nel gergo legale, si chiama “ingiusta detenzione”. Capita fin troppo spesso in Italia. Da ieri, grazie alla risposta del ministero dell’Economia a una interrogazione parlamentare, conosciamo i numeri delle “ingiuste detenzioni” relativamente al 2021, anno di pandemia: sono stati 565 gli italiani finiti da innocenti dietro le sbarre. E conosciamo anche quanto questi sbagli giudiziari sono costati allo Stato: circa 24 milioni di euro in risarcimenti. Si arriva a 25.478.105 euro se si sommano alle “ingiuste detenzioni” anche i conclamati “errori giudiziari”. Ovviamente dolore, pena, senso di vergogna, reputazione distrutta qui non sono conteggiati. Quasi un miliardo - Dal 1992 a oggi, sono stati oltre 30 mila gli italiani finiti da innocenti in carcere, per una spesa complessiva dello Stato di quasi 900 milioni di euro. Numeri imponenti. Che peraltro non sono neanche completi, in quanto molti tribunali trovano ogni tipo di scusa per non aggiornare le statistiche della vergogna. Due anni fa, soltanto il 76% dei tribunali aveva risposto al questionario del ministero della Giustizia. Quasi un quarto degli uffici, ben il 24%, mancava all’appello. Se lo Stato è venuto allo scoperto, e ha certificato questi numeri al Parlamento, è per merito dell’onorevole Enrico Costa, vicesegretario di Azione, che si batte per il rispetto delle garanzie in questo Paese. Costa intanto lamenta il sostanziale disinteresse generale per questo problema. “Entro il 31 gennaio di ogni anno - spiega - il governo dovrebbe per legge relazionare alle Camere sul numero di arresti nell’anno precedente, sull’esito dei processi con arresti, sulle ingiuste detenzioni, sulle azioni disciplinari nei confronti di chi ha sbagliato. Tuttavia è ormai prassi del ministero della Giustizia presentare la relazione con notevole ritardo, non prima del mese di aprile”. Ovviamente, se una persona è stata arrestata e poi viene assolta, magari perché il fatto non costituisce reato, dice Costa che sarebbe “giusto” chiarire. Invece non succede quasi mai. “Il problema nel nostro Paese è che quando accadono queste vicende, lo Stato si volta dall’altro lato senza comprendere le vere ragioni, senza verificare le motivazioni dietro quegli errori e senza sanzionare chi sbaglia”. Scontro con le toghe - Costa rilancia nell’occasione la sua battaglia, condivisa con l’Unione degli avvocati penalisti, per un maggiore rigore sui magistrati nell’ambito della riforma del Csm. Vorrebbe una specifica sanzione disciplinare “per chi ha concorso, con negligenza o superficialità, all’adozione dei provvedimenti di restrizione della libertà personale”, qualora siano poi bocciati e venga disposto il risarcimento per ingiusta detenzione. Di contro, i magistrati vedono con enorme fastidio ogni avvicinamento degli avvocati negli ingranaggi della magistratura. Ad esempio, con il voto sulle carriere dei togati. “Non si tratta di dare le pagelle ai magistrati, ma di offrire loro elementi di riflessione aggiuntivi, provenienti da chi osserva l’operare del giudice da un diverso punto di vista”, insiste la ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Errori giudiziari e ingiuste detenzioni: soldi (e vite) buttati di Valentina Stella Il Dubbio, 26 marzo 2022 Costa (Azione): “Lo Stato ha speso 25 milioni di euro in risarcimenti e i dati vengono forniti con regolare ritardo”. Nel 2021 lo Stato ha speso per riparazione da errore giudiziario 1.271.914,90 euro, relativamente a sette ordinanze di Corti d’appello; mentre quelli relativi alla riparazione per ingiusta detenzione sono stati ben 24.506.190,41 euro e riguardano 565 ordinanze di Corti d’appello. In totale più di 25 milioni. Lo ha comunicato ieri nell’Aula della Camera la sottosegretaria al Ministero dell’Economia e delle Finanze, Alessandra Sartore, rispondendo ad una interpellanza urgente dell’onorevole di Azione Enrico Costa. Tuttavia la questione che forse fa più discutere è un’altra: sempre la sottosegretaria Sartore ha puntualizzato che “per l’anno 2021, si evidenzia che il Ministero della Giustizia ha chiesto i dati al Ministero dell’Economia e delle finanze in data 9 febbraio 2022 e gli stessi sono stati forniti in data 16 febbraio 2022”. In pratica, il Ministero della Giustizia avrebbe dovuto rendere noti i numeri sull’esito dei processi con arresti, sulle ingiuste detenzioni, sulle azioni disciplinari a chi ha sbagliato attraverso una Relazione al Parlamento da presentare entro il 31 gennaio di quest’anno, come prevede la legge, ma incredibilmente solo il 9 febbraio, quindi quando i termini erano già scaduti, si è preoccupato di chiedere i dati al Mef. Per il vicesegretario di Azione, ciò dimostra “il totale disinteresse da parte del Ministero della Giustizia rispetto a un tema che è di civiltà giuridica. Se una persona è stata arrestata e poi assolta, è giusto che si chiarisca perché ciò è accaduto. Il problema nel nostro Paese è che quando accadono queste vicende, lo Stato si volta dall’altro lato senza comprendere le vere ragioni, senza verificare le motivazioni dietro quegli errori e senza sanzionare chi sbaglia”. Costa poi si è soffermato anche sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Ieri vi avevamo raccontato che il suo emendamento per la responsabilità civile diretta dei magistrati avrebbe profili di incostituzionalità e quindi sarebbe da bandire. Ma lui non ci sta e in Aula attacca: “Allora, colgo l’occasione per chiedere al Governo, che è stato così attento ai profili e alle sfumature di costituzionalità, se sia coerente con il nostro assetto costituzionale, di fronte ai numeri che ci sono stati dati (565 persone arrestate ingiustamente e lo Stato che paga 24.206.000 euro per indennizzi), che nessuno paghi, che paghi solo lo Stato, che non ci sia un magistrato che subisca un’azione disciplinare, visto che il Governo è attento alle sfumature sugli emendamenti parlamentari. E chiedo ancora al Governo: è coerente con la Costituzione che il 99 per cento delle valutazioni di professionalità abbia un esito positivo? È coerente con questi numeri, che sono stati appena resi, un 99 per cento di magistrati che sono bravi, bravissimi? È coerente con la Costituzione un correntismo strabordante, in cui c’è una giustizia domestica, in cui i magistrati si giudicano fra di loro e nessuno sanziona nessuno? È coerente con la Costituzione un sistema che, in dodici anni, dal 2010 al 2022, ha visto otto condanne - otto! - per responsabilità civile, di fronte a 664 cause intentate e a 154 sentenze definitive? 664 cause e otto condanne! Nell’ultimo anno, 25 sentenze definitive, zero condanne! Io lo chiedo al Governo: è coerente con la Costituzione?”. E conclude: “L’auspicio è che nel quadro della riforma al Csm venga finalmente approvata la mia proposta di sanzione disciplinare - una norma di civiltà giuridica - per chi ha concorso, con negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione dei provvedimenti di restrizione della libertà personale per i quali sia stata disposta la riparazione per ingiusta detenzione”. Caro Verini e cara sinistra, davvero pensate che un mafioso non possa cambiare? di Alessandro Barbano Il Dubbio, 26 marzo 2022 Nella sua replica al mio articolo dell’altro ieri, Walter Verini sostiene che la riforma dell’ergastolo ostativo è valida in quanto sostenuta dalla maggior parte delle forze politiche, e pertanto chi la critica, come il sottoscritto, è come colui che imbocchi contromano l’autostrada imprecando perché tutti viaggiano contromano. Il dubbio che Verini invoca come una virtù dovrebbe indurlo a interrogarsi se la politica, sulle questioni di mafia, non ceda a un conformismo adesivo alle tesi di una retorica egemone, di cui una certa magistratura si fa interprete. Si chiede, Verini, come mai uno dei più autorevoli, rigorosi ed equilibrati studiosi di diritto penale e processuale penale, Giovanni Fiandaca, censuri senza mezze misure la riforma con gli stessi argomenti da me usati? Anche lui viaggia contromano in autostrada, o piuttosto prova quanto è grande la distanza che si è aperta tra la politica e i saperi? Verini cade in una superficialità talvolta addebitata a un certo modo di fare giornalismo: il dubbio che a me suscita la sua replica è che maneggi la complessità della materia con l’atteggiamento di chi vuol far capire agli altri ciò che lui stesso non penetra fino in fondo. Dice per esempio: i tanti ergastolani ostativi che non sono boss di mafia non dovrebbero avere difficoltà a soddisfare le condizioni poste dalla riforma, non avendo avuto e non avendo legami con la criminalità mafiosa. Non sa, l’onorevole, che non tutti i condannati per mafia sono boss? Ci sono nelle carceri italiani quasi mille, dei mille duecento cinquanta condannati all’ergastolo ostativo, che non sono né Riina, né Provenzano, ma detenuti che hanno commesso gravissimi reati di mafia. Il dubbio, che ancora Verini invoca, gli imporrebbe di chiedersi se nei confronti di queste persone valga il principio di rieducazione della pena oppure no. Lui si risponde con un luogo comune della retorica sciorinata dall’ex procuratore Gian Carlo Caselli nella sua audizione in commissione giustizia: il vincolo con l’organizzazione mafiosa scrive Verini - viene meno solo con la morte. Si rende conto, il guardasigilli ombra del Pd, che questo teorema contiene l’idea per cui il mafioso sarà sempre tale, e così pure i figli e i nipoti dei mafiosi? Si chiede se questa idea sia compatibile con le ragioni di un riscatto sociale che da sempre la sinistra s’intesta, o piuttosto con quelle di un cupo determinismo che cristallizza l’emergenza, per giustificarla oltre il suo tempo? Si rende conto, ancora, che cade nel ridicolo quando, arrampicandosi sugli specchi, cede alla tentazione, propria della stessa retorica, di ricordare che “lo diceva anche Falcone”? Onorevole Verini, la smettiamo di tirare per la giacchetta i simboli, fuori tempo e fuori contesto? Se i mafiosi cessano di essere tali solo con la morte, vuol dire che l’articolo 27 della Costituzione, che Verini pure sostiene di promuovere, non vale per tutti. Il mio dubbio è che la riforma sia esattamente questo: una deroga al principio di rieducazione della pena. Lo conferma l’onorevole Verini quando difende l’obbligo per il detenuto di provare “l’esclusione attuale di collegamenti, e del pericolo di ripristino, con la criminalità organizzata e con il contesto nel quale il reato è stato commesso”. È quella che io chiamo una prova diabolica. “In cambio della libertà - scrive Verini -, non sarà impossibile dimostrare che gli antichi sodali- complici non ci sono più, perché a loro volta detenuti o morti o pentiti, perché l’organizzazione è stata smantellata, e così via”. E se invece, i sodali-complici non sono né morti né pentiti, se l’organizzazione non è stata smantellata, che accade al detenuto dopo trent’anni di carcere? Purtroppo, onorevole Verini, accade quello che vogliono i suoi riferimenti nella magistratura: il fine pena mai, perché la mafia non muore mai. Perché, come dice ancora Caselli, il mafioso non taglierà mai il cordone ombelicale con il suo contesto. Se pure si redime e ha una buona condotta in carcere, sta fingendo. Per questo lo stesso procuratore pretende, e lei conviene, che a decidere della sorte dell’ergastolano non sia il magistrato di sorveglianza ma l’Antimafia, che nulla sa del percorso individuale di redenzione del condannato. Ma che potrà certificare che, siccome la mafia è viva e vegeta nel suo contesto, sarà bene che lui resti in carcere finché morte non giunga. Onorevole Verini, lei scrive di aver visitato gli istituti di pena. Deduco che lei abbia incontrato alcuni ergastolani in regime ostativo. Se lo ha fatto, sa bene che alcuni di loro sono rimasti sì mafiosi, altri, la maggior parte, hanno compiuto un percorso di vita che li ha portati a essere persone del tutto diverse da quelle che commisero trent’anni prima il reato per cui sono dentro. Nessuna storia è uguale a un’altra. Perciò dire che un mafioso non cambia mai è una bugia che disonora l’intelligenza umana. Un magistrato non dovrebbe mai pronunciarla. Meno che mai un uomo di sinistra. Anche chi scrive stima Federico Cafiero de Raho, e gli altri magistrati dai lei citati, per il servizio che hanno reso al Paese. Ma non consegnerebbe mai ai pm una delega surrettizia della funzione legislativa, come una politica debole, di cui lei è espressione, sta facendo in questo momento. Le auguro di avere coraggio. Lettere dal carcere via internet. Ora è possibile con il progetto “Zeromail” di Riccardo Maccioni Avvenire, 26 marzo 2022 Obiettivo aiutare i detenuti a comunicare con il mondo fuori. Zerografica è una cooperativa sociale nata nell’istituto penitenziario di Bollate. Il mondo “di dentro” guarda a quello di fuori. E se il legame tra le due condizioni si fa saldo, o quantomeno non si allenta troppo, sarà più facile per chi oggi è dentro, rientrare nella normalità del fuori domani. Al di là delle metafore, chi vive e conosce la realtà del carcere sa quanto sia importante evitare l’isolamento dei detenuti, e utilizzare il periodo della pena per coltivarne i talenti, da far fruttare una volta riacquisita la libertà: ogni gesto, ogni opportunità al servizio della rieducazione sociale ha un suo significato. E il digitale può svolgere un servizio importante. Vale l’esempio della posta elettronica, che poco per volta sta entrando nel mondo della detenzione. A introdurla, il progetto “zeromail”, nuovo ma in grande crescita. “L’iniziativa è nata a Rebibbia e si sta diffondendo pur con qualche difficoltà burocratica - spiega Gualtiero Leoni, vicepresidente di Zerografica la cooperativa cui si deve l’idea -. Al Nord invece siamo partiti da Milano Bollate e oggi siamo presenti, tra gli altri, a Torino, Ivrea, Fossano, Cuneo, Saluzzo. Si tratta di un servizio informatico che permette ai detenuti di comunicare in giornata, con i parenti, gli amici, o i propri legali. Questo, oltre a facilitare le relazioni, permette un notevole risparmio economico”. Il servizio è naturalmente vincolato al rispetto dell’articolo 18 ter dell’Ordinamento penitenziario, là dove stabilisce vincoli e “limitazioni nella ricezione della stampa”. Per esempio, come si sa, ai carcerati è proibito avere il telefonino e accedere a internet. “Zeromail è un servizio sostitutivo della corrispondenza epistolare - osserva Agata Rota, impiegata amministrativa di Zerografica. I detenuti scrivono le loro lettere, che vengono imbucate in apposite caselle e poi portate nei nostri uffici dove sono scansionate e inviate. Sono mail a tutti gli effetti che però non partono direttamente dalla casella del detenuto ma utilizzano un appoggio esterno”. Una volta scansionate, le lettere vengono distrutte e Zerografica ogni mese invia un report all’amministrazione penitenziaria. “Per questo servizio - aggiunge Rota - è previsto un abbonamento, sottoscritto dal singolo detenuto in base alle proprie esigenze e possibilità”. Nella logica di chi l’ha avviato, il progetto, oltre a evitare l’isolamento del detenuto, lo rende più tranquillo, perché permette contatti con i i familiari nettamente più frequenti rispetto ai dieci minuti settimanali di telefonata o videochiamata novità permessa a seguito della pandemia. “Inizialmente - continua Leoni - il servizio mail era limitato alle case di reclusione cioè a persone già condannate. Adesso ne usufruiscono anche gli istituti circondariali: chi entra in carcere può avere contatti con i propri cari subito, mentre prima doveva aspettare magari un mese”. Naturalmente Zerografica non garantisce solo il servizio mail. “Siamo una cooperativa sociale - spiega Leoni - nata nel 2013 nel carcere di Bollate per favorire il reinserimento dei detenuti attraverso l’insegnamento della stampa”. L’importanza di imparare un mestiere è riassunta dai numeri. Nel 2016 la percentuale di chi recidiva un reato dopo aver scontato la pena era in Italia del 74% mentre tra gli ex detenuti a Bollate, fucina di iniziative per il reinserimento, crollava al 17%. “Lavorando, le persone ritrovano fiducia e guardano al mondo esterno in maniera diversa”. Nata come piccola esperienza, nel corso degli anni Zerografica è cresciuta. Oggi la stampante lavora in digitale, garantendo prodotti professionali a costi limitati. “Serviamo anche associazioni esterne, tra cui Emergency, Medici senza frontiere, Coopi - continua Leoni -, stampiamo magliette, abbiamo avviato una collaborazione con la Carioca spa celebre marchio di pennarelli e siamo soci fondatori del Consorzio “Viale dei mille” dove si vendono prodotti, dal cibo ai vestiti, realizzati dalle cooperative che lavorano in carcere”. Si cerca di migliorare la vita di oggi, dunque, per prepararsi al domani. “La nostra esperienza - conclude Rota - dimostra che con la serietà e la qualità si possono superare pregiudizi e sospetti che spesso accompagnano chi lavora in carcere”. Perché il mondo di dentro e quello di fuori sono più vicini di quanto sembri. Anzi, sono lo stesso mondo. Laurearsi in carcere sarà più facile di Valeria Pantani lasvolta.it, 26 marzo 2022 In Italia non esiste ancora una normativa che garantisca sempre l’educazione universitaria penitenziaria. Tra gli ostacoli, la mancata disponibilità di strutture e docent?. Ma un nuovo protocollo del Ministero della Giustizia fa ben sperare. Nelle carceri l’istruzione può impattare molto sulla vita de? detenut?, rappresentando per loro un’occasione di crescita, riflessione e riscatto: questa, infatti, è fondamentale per il loro re-inserimento nella società una volta terminato il periodo di detenzione. Anche nella Costituzione italiana se ne fa riferimento: “Le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato”, recita l’articolo 27. Gli ultimi dati del Ministero della Giustizia contano 1.246 detenut? iscritt? a corsi di studi universitari per l’anno accademico 2021-2022, di cui 1.201 uomini e solo 45 donne. In Italia esistono già accordi per fornire un’istruzione universitaria nelle carceri, ma nessuna normativa è mai stata vincolante. Nonostante ciò, in questi anni un numero crescente di atenei si è impegnato a garantire il diritto allo studio: sono 28 le università italiane che dal 2018 hanno aderito alla Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari (Cnupp), che rappresenta la formalizzazione del Coordinamento dei responsabili di attività di formazione universitaria in carcere. Ma l’impegno delle singole università nell’istruzione penitenziaria dipende da diversi fattori, quali la disponibilità delle strutture didattiche, de? docent? e delle carceri stesse. Altro fattore, non meno importante, è che non sempre ? detenut? sono già in possesso del diploma. Tra le agevolazioni che solitamente vengono garantite (tramite accordi tra le autorità penitenziarie e gli atenei), c’è la possibilità di conseguire la laurea studiando in spazi comuni con altr? detenut? e di tenere con sé materiale didattico. Una speranza in più è arrivata questa settimana, con la firma di un protocollo tra il Ministero della Giustizia e la Cnupp. Organizzare giornate di orientamento, affiancare ? detenut? nello studio e permettere loro di accedere ai corsi di laurea senza dover pagare le tasse: sono tutti provvedimenti già esistenti ma che, con questo nuovo accordo, si spera di incrementare. “Con la firma di questo protocollo doniamo un’occasione per immaginare una nuova vita fuori. E questo grazie allo studio universitario - ha commentato la ministra della Giustizia, Marta Cartabia - [Si vuole] infondere fiducia e svegliare la loro forza di volontà, primo fondamentale motore di ogni cambiamento”. Nella speranza che questo accordo possa garantire un futuro migliore per tutt? ? detenut?. La riforma del Csm (non) s’ha da fare di Giulia Merlo Il Domani, 26 marzo 2022 La riforma dell’ordinamento giudiziario, che sembrava aver superato le maggiori resistenze con l’approvazione in consiglio dei ministri dell’emendamento ministeriale, invece è di nuovo bloccata e il suo approdo in aula alla Camera è slittato l’11 aprile. La riforma doveva arrivare in aula a Montecitorio il 28 di marzo ma il presidente della commissione, Mario Perantoni, ha indicato la nuova data: l’11 aprile. Impossibile, prima di allora, recepire il parere del governo sui subemendamenti presentati, che anche dopo il taglio sono rimstati 250. Il tempo, però, è sempre più stretto: la riforma va approvata entro metà maggio, in modo da rispettare la richiesta del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di eleggere con la nuova legge il prossimo Csm. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha aperto a ragionare su tutta la riforma, ma con tre paletti su emendamenti che “sollevano dubbi costituzionali”: il sorteggio temperato per eleggere il Csm, la responsabilità civile diretta dei magistrati e il divieto dei parlamentari di diventare membri togati del Csm. Il Csm si spacca sulla riforma - A rendere ancora più problematica l’approvazione della riforma dell’ordinamento giudiziario, arriva anche il parere del Csm. Il testo, molto critico sulla riforma, è stato approvato in commissione all’unanimità ma ha spaccato il plenum, che ha rinviato due volte il voto. Alla fine, il Csm ha votato per parti separate il parere, approvando ogni capitolo ma la divisione interna è stata netta. In particolare, quella tra la componente laica e togata, con i laici che hanno votato contro o sisono astenuti su diversi capitoli. La sintesi delle critiche è quella che il ddl, per come è formulato, “mette in discussione l’indipendenza della magistratura”: in particolare con le norme disciplinari sui rapporti tra pm e stampa e la norma che affida al ministro della Giustizia la definizione dei collegi per l’elezione del Csm. Inoltre, il Csm chiude alla presenza dell’avvocatura, con il voto dei laici nei consigli giudiziari sulle valutazioni di professionalità dei magistrati, da cui dipendono gli avanzamenti di carriera. Contrarietà anche per le cosiddette “pagelle”, cioè un sistema di valutazione del lavoro graduato in discreto, buono, ottimo, perché “potrebbe finire per stimolare quel carrierismo che la riforma vorrebbe invece eliminare”. Visto il testa a testa nei voti del plenum, è stato sottolineato come anche il vicepresidente David Ermini si sia espresso, votando a favore della relazione critica nel voto decisivo in merito al sistema elettorale per eleggere il Csm: il suo voto è stato decisivo nello stallo con 13 voti favorevoli e 13 contrari. La democrazia strangolata dalle toghe di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 26 marzo 2022 Sulla riforma della giustizia si tratta con Anm e Csm, l’ultima parola è la loro. La politica teme il potere giudiziario, si è da decenni consegnata ad esso, consentendo l’affermarsi del principio per il quale le riforme della giustizia che una maggioranza politica democraticamente eletta, quale che essa sia, intendesse varare, devono avere il placet della magistratura italiana. In Parlamento ci sono forze politiche, di peso rilevantissimo, che danno corpo a questa assurda anomalia. È il desolante quadro istituzionale nel quale è intrappolata la politica della giustizia nel nostro Paese. Una politica sottratta alle ordinarie dinamiche democratiche, e strangolata dal potere strabordante ed illegittimo di una magistratura a cui abbiamo irresponsabilmente consegnato le chiavi di ogni possibile riforma. Lo spettacolo “di arte varia” che sta offrendo il percorso di riforma dell’ordinamento giudiziario basta da solo a spiegare, per chi sappia e voglia leggere la realtà senza infingimenti, a quale livello di degrado istituzionale sia giunto il nostro Paese. Abbiamo già avuto modo di ribadire in ogni sede il nostro giudizio radicalmente negativo sul merito della riforma. Gli interventi proposti sono blandi, non colgono le reali criticità del potere giudiziario e del suo esercizio, non interpretano le ragioni più profonde della grave crisi nella quale è precipitata la magistratura italiana. L’attenzione ipertrofica riservata al tema del sistema elettorale del CSM, nella illusione che la sua riforma possa assurgere a panacea di tutti i mali, costituisce l’indicatore più eclatante dell’equivoco fatale che sta sin dall’inizio fiaccando il pur generoso impegno della Ministra Cartabia. Il confronto politico nasce dunque fuori centro, smarrito come è a rincorrere alchimie elettorali, sorteggi funambolici, sofisticate dinamiche del voto preferenziale, in nome di un’assai generica (ed anche un po’ demagogica) guerra al “correntismo”. E così appare distratto sui temi invece centrali: valutazioni di professionalità del magistrato, e commistioni inconcepibili tra poteri dello Stato. Le prime, si sa, oggi semplicemente non esistono, visto che sono sempre positive al 99 e passa per cento; con le conseguenze catastrofiche che tutti possiamo constatare. Non solo il livellamento in basso della qualità professionale del magistrato, che avanza automaticamente in carriera (e stipendio) senza nessun vaglio minimamente significativo; ma soprattutto, ed innanzitutto, la sua totale deresponsabilizzazione. Inutile inseguire impraticabili responsabilità civili, se non comprendiamo che ciò che conta è invece la responsabilità professionale del magistrato, dunque un sistema che sappia premiare la qualità e sanzionare una acclarata propensione all’insuccesso delle proprie iniziative giudiziarie. È il tema centrale della crisi di credibilità della magistratura italiana: nessun magistrato risponde dei propri errori, in nessuna sede, garantito come egli è della sua comunque automatica progressione in carriera. Di fronte a questa catastrofica realtà, la riforma immagina di rispondere inserendo un voto intermedio in pagella, ed una timida, macchinosa, prudentissima introduzione della voce dell’avvocatura in quelle valutazioni. L’altra grande anomalia italica, cioè la sistematica esondazione del potere giudiziario verso quelli esecutivo e legislativo, viene appena sfiorata. Le misure volte a fermare le c.d. “porte girevoli” fanno la voce grossa su carriere politiche che, alla fine della fiera, riguardano qualche decina di magistrati in totale tra Parlamento e assessorati vari; mentre dedica assai inadeguate contromisure al vero scandalo, cioè il distacco di centinaia di magistrati verso i gangli vitali del potere esecutivo, innanzitutto in quel Ministero dal quale più di ogni altro dovrebbero rimanere lontani le mille miglia, cioè il Ministero di Giustizia, il luogo dove si decide la politica giudiziaria del Paese. Ma il cuore della questione sta nella ragione che determina questa lontananza della riforma dagli snodi reali della crisi sulla quale pretenderebbe di intervenire: la sudditanza della politica rispetto al potere giudiziario. La Politica teme il potere giudiziario, si è da decenni consegnata ad esso, consentendo l’affermarsi del principio per il quale le riforme della giustizia che una maggioranza politica democraticamente eletta, quale che essa sia, intendesse varare, devono avere il placet della magistratura italiana, e cioè della sua rappresentanza politica e del suo organo di autogoverno. Questo è il tema, inutile girarci intorno. In Parlamento ci sono forze politiche, di peso rilevantissimo, che esprimono e danno corpo a questa assurda anomalia, facendosi sottomessi portavoce del potere giudiziario, spacciando questa debacle per difesa dei valori della “Giustizia”. Il risultato è che i temi della giustizia (penale, soprattutto, com’è ovvio) sono intesi come temi rispetto ai quali la magistratura assolve compiti quasi sindacali. I temi della riforma diventano oggetto di “trattativa” con ANM e CSM, intesi come depositari, come dire, di categoria, dell’ultima parola sui temi della giustizia e dell’ordinamento giudiziario, al pari dei metalmeccanici rispetto al siderurgico. E quindi pareri, veti, trattative ad oltranza. Questo è il desolante quadro istituzionale nel quale è intrappolata la politica della giustizia nel nostro Paese. Una politica cioè sottratta alle ordinarie dinamiche democratiche, e strangolata dal potere strabordante ed illegittimo di una magistratura a cui abbiamo irresponsabilmente consegnato le chiavi di ogni possibile riforma che un qualsivoglia governo democraticamente eletto avesse la legittima ed insindacabile intenzione di proporre. Un potere che, anche nel momento della sua massima crisi, è riuscito -con il decisivo contributo di intere forze politiche e di un formidabile esercito mediatico- a scaricare sul povero Luca Palamara ogni sua magagna, esorcizzandola; ed ora, più ringalluzzita che mai, pone veti, ringhia se ti azzardi ad immaginare che l’avvocatura possa dire mezza parola sulla qualità dei magistrati con i quali si trova quotidianamente ad operare, grida querula alla “crisi di insicurezza psicologica” che colpirebbe i magistrati ove sottoposti a valutazioni professionali più stringenti; accusa minacciosa, in nome dell’antimafia, la Ministra Cartabia di avere osato almeno un po’ regolamentare gli sproloqui trionfalistici sulle “magnifiche sorti e progressive” di questa o quella retata. Tanto si sa, se qualcuno prova ad alzare la testa, ci sarà sempre qualche Procura pronta a fargli cambiare idea. Pace e giustizia devono essere rinnovate ogni giorno di Marta Cartabia Il Dubbio, 26 marzo 2022 La relazione integrale pronunciata all’inaugurazione dell’anno giudiziario del Cnf dalla ministra della Giustizia. Bellezza e Giustizia sono un binomio consolidato da tempo nell’esperienza dei popoli, ben espressa nel concetto greco Kalokagathia, la simbiosi del bello e del giusto due aspirazioni profondamente umane che procedono unite di pari passo: dove c’è giustizia, c’è armonia e quindi bellezza e dove non c’è giustizia, l’ingiusto genera orrore, offende e deturpa. Come vediamo accadere oggi clamorosamente sul teatro del conflitto in Ucraina, anche noi operatori del diritto, nell’inaugurazione di un anno giudiziario, non possiamo non farci interrogare dal contesto dallo scenario di guerra che ci coinvolge così da vicino perché è proprio quando siamo assordati dal fragore delle armi che riflettiamo di più e comprendiamo forse di più il significato profondo della voce del diritto e della Giustizia. La storia e i conflitti del passato ci hanno insegnato l’importanza di poter disporre di istituzioni giudiziarie adeguate anche ai grandi conflitti dei tempi della guerra. In questo, rispetto alle aggressioni del passato, la vicenda Ucraina non ci ha colti così impreparati: le istituzioni giudiziarie ci sono e sono già al lavoro. Ieri ci siamo riuniti con altri ministri della Giustizia all’Aja anche alla presenza del ministro della giustizia ucraino Denys Maliuska, proprio per mettere in campo già da ora tutti gli strumenti giuridici che abbiamo a disposizione per contribuire ad affrontare questo conflitto anche attraverso il diritto e la giustizia. E così nelle settimane precedenti, lo scorso 4 marzo, nell’ambito del consiglio giustizia e affari interni dell’Unione Europea, abbiamo rinnovato l’impegno e rafforzato l’impegno a cooperare anche riferimento al conflitto ucraino nell’ambito di eurojust, a cui fa anche riferimento l’Ucraina stessa e ieri lo abbiamo visitato all’Aja. La scorsa settimana, il 16 marzo, una riunione del G7 ha riunito ministri delle Finanze della giustizia per mettere in campo sul piano giuridico anche l’uso delle sanzioni economiche e finanziarie nei confronti della Russia degli oligarchi dei loro proxies e di nuovo lunedì saremo a Bruxelles con la medesima agenda. L’Italia insieme agli altri paesi dell’Unione Europea è accanto all’Ucraina con una pluralità di azioni che si muovono su diversi fronti, con gli aiuti materiali, con l’azione della diplomazia, con la pressione delle sanzioni economiche finanziarie, con l’accoglienza dei profughi e altre forme di solidarietà e sono contenta che l’avvocatura sia in prima linea soprattutto su quest’ultimo aspetto. Ma siamo accanto al Ucraina anche attraverso l’azione del diritto internazionale e della Giustizia internazionale che ne sono certa si rivelerà decisiva nel tempo. L’Italia è stata tra i primi paesi, ora sono 41, di cui tutti quelli dell’Unione Europea coinvolti, a chiedere l’intervento della Corte penale internazionale che attraverso il suo procuratore si sta già attivando per coinvolgere e per svolgere le indagini raccogliendo le prove sui crimini commessi in Ucraina. Per questo e per dare sostegno anche attraverso iniziative concrete all’azione della corte penale internazionale ieri eravamo all’Aja, città internazionale della Pace e della Giustizia. Pace e giustizia che erano e sono gli obiettivi fondativi dell’Europa unita, nata proprio dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale. Pace e Giustizia, come tutte le grandi conquiste di civiltà, non possono mai essere considerate acquisite una volta per tutte, ma devono essere rinnovate col lavoro di ogni giorno, riconquistate ogni giorno. Chissà quante volte abbiamo detto queste frasi retoricamente, un po’ per inerzia. Oggi quando diciamo che pace e Giustizia sono da riconquistare giorno per giorno lo ripetiamo con più autenticità, con più gravità. La Corte penale internazionale è nata a Roma, il suo statuto, lo Statuto di Roma, è stato approvato qui nel 1998 e per l’Italia è un motivo di orgoglio che un accordo così importante che ha segnato la storia del diritto internazionale porti il nome della nostra capitale. Tuttavia quell’accordo, a 24 anni di distanza, aspetta ancora di poter essere pienamente operativo anche nel nostro paese. Per questo, qualche giorno fa, abbiamo istituito una commissione ministeriale incaricata di elaborare un codice dei crimini internazionali, cioè dei crimini di guerra contro l’umanità, di genocidio, di aggressione. Anche questa crisi ci riporta alla necessità di non smettere mai di rafforzare le strutture giuridiche, sul piano internazionale come sul piano interno, ed è quello che da un anno a questa parte stiamo facendo insieme con il grande cantiere che si è aperto al Ministero della Giustizia, seguendo innanzitutto il filo rosso e il Pnrr e gli impegni sottoscritti con l’Europa. Permettetemi di cogliere questa solenne occasione per ringraziare sentitamente l’avvocatura, tutta l’avvocatura, che sta offrendo un apporto importante al lavoro che si svolge al Ministero, con contributi di riflessione pacati e costruttivi, a tutto il dibattito sui temi che ci riguardano. Ringrazio la presidente Masi con la quale davvero c’è un dialogo costante e attraverso di lei la disponibilità di tutti gli avvocati a comprendere, discutere, lavorare insieme anche in questa occasione. Poco fa, nel suo discorso, abbiamo visto come ci ha offerto spunti concreti, praticabili, suggerimenti e vie percorribili da esplorare, da valutare insieme per poter migliorare l’ambiente giudiziario, l’ambiente del lavoro di tutti noi, di tutti gli operatori della Giustizia. Grazie davvero. L’impegno fondamentale, lo sappiamo, è quello di arrivare un sistema di giustizia capace di offrire risposte più efficaci e più tempestive ai cittadini, a coloro che voi difendete col vostro lavoro quotidiano. La qualità della nostra giustizia passa anche attraverso un sistema più efficiente. Proprio qualche giorno fa la Corte Costituzionale lo ha scritto in una sentenza, la numero 74 del 2022, che riguarda il tema della magistratura di sorveglianza, ma con affermazioni che si possono estendere a tutti i tipi di procedimento di processo. E cito le sue parole: “discipline che mirino ad assicurare una sollecita definizione dei contenziosi lungi da rispondere a una logica di efficientismo giudiziario che privilegia in chiave statistica la quantità a scapito della qualità, costituiscono attuazione di un preciso dovere costituzionale”. La ragionevole durata del processo è un connotato identitario della Giustizia e del processo. Faccio mie queste parole della corte costituzionale che sfatano il luogo comune che si ritrova talora nel dibattito e che vorrebbe contrapposta l’efficienza alla qualità della Giustizia. Parte della qualità è anche la sua risposta efficiente. Il Parlamento ha provato numerose leggi: sono già state ricordate le deleghe del processo penale, del processo civile, la riforma della crisi d’impresa e dell’insolvenza e tante altre dovranno essere elaborate nei prossimi mesi. Qualche giorno fa è giunto a termine anche l’iter di approvazione del decreto per le piante organiche flessibili, che permetterà ai singoli uffici giudiziari di poter contare anche per risorse aggiuntive su ulteriori 179 magistrati. In quanto alle riforme, si stanno scrivendo i decreti delegati, i vari gruppi di lavoro per il processo penale presenteranno entro il 10 maggio uno schema di decreti legislativi ed entro il 15 maggio si concluderanno i lavori per l’attuazione della delega civile. Ringrazio tutti gli avvocati che stanno dedicando il loro prezioso tempo all’interno dei gruppi di lavoro accanto a magistrati e professori e non mancheremo di sollecitare eventuali ulteriori audizioni per sentire il vostro parere prima della elaborazione definitiva degli schemi da sottoporre al parlamento. Come ci siamo detti ancora qualche giorno fa in un confronto con la presidente Masi sulla riforma che oggi impegna il Parlamento, quella sull’ordinamento giudiziario e del Csm, la giurisdizione deve sempre parlare attraverso tutte le sue componenti, essere espressione di questa cultura comune, di questa formazione comune che sta a cuore a tutti noi. Come sapete, per la la riforma dell’ordinamento giudiziario il testo è già stato approvato in Consiglio dei ministri e ora siamo ancora impegnati come governo in un’opera di cesello attraverso un confronto serrato con le forze politiche per arrivare a un accordo su un testo condiviso il prima possibile. I tempi sono stretti in vista del rinnovo del prossimo Consiglio Superiore della Magistratura ma abbiamo già un’agenda fitta di incontri nelle prossime settimane per sciogliere i nodi ancora presenti. È una riforma necessaria e improcrastinabile, lo abbiamo ribadito emblematicamente tutti con un lungo e scrosciante applauso in Parlamento quando il Presidente della Repubblica nel discorso di insediamento rivolto alle camere si è soffermato su questo punto e ha sollecitato l’urgenza proprio di questa riforma. L’impegno a portare a termine questa riforma è volto a rafforzare la credibilità e l’autorevolezza anzitutto di un organo costituzionale, il cui volto è stato sfregiato da alcuni scandali che hanno contribuito a far perdere la fiducia dei cittadini verso la giustizia e verso la magistratura. Il legislatore è a fianco alla magistratura e consapevole della necessità di un percorso di rinnovamento, di autorigenerazione. Il rinnovamento e cambiamento che evocava anche la presidente Masi è proprio di tutti gli organismi viventi, per rimanere se stessi, per tornare a essere se stessi, e c’è una corposa parte della magistratura che vuole iniziare a scrivere una nuova pagina della storia della giustizia in Italia. Le riforme e le nuove infrastrutture normative intendono facilitare questo rinnovamento dovuto, doveroso, anche per riportare alla luce il volto migliore della nostra magistratura, quello dei tantissimi magistrati che ogni giorno operano in modo riservato, con passione e dedizione accanto a voi avvocati in tanti laboriosi uffici giudiziari, al riparo dai venti degli scandali. Permettetemi di cogliere anche questa occasione per rivolgere a ciascuno di loro, i principali alleati vostri che operate nel restituire giustizia a chi ha subito torti e violazioni, un pensiero di sincera stima e riconoscenza. Nelle proposte del governo sulla riforma dell’ordinamento è stato previsto un maggiore coinvolgimento della classe Forense, ad esempio nei consigli giudiziari, dove attualmente i componenti non togati partecipano esclusivamente alle decisioni relative alle tabelle di composizione degli uffici e alle funzioni di vigilanza. Il disegno di legge delega affida al governo ha il compito di intervenire sulla disciplina degli uffici giudiziari, del consiglio direttivo della Corte di Cassazione, per consentire ai membri laici non solo di partecipare alle discussioni e assistere alle deliberazioni relative alla formulazione dei pareri per la valutazione di professionalità dei magistrati, ma anche per consentire alla componente degli avvocati di esprimere un voto unitario in sede di deliberazione sulla valutazione di professionalità, nel caso in cui il consiglio dell’ordine abbia effettuato una segnalazione sui magistrati in verifica. Non si tratta di dare pagelle ai magistrati, ma di offrire loro elementi di riflessione aggiuntivi provenienti da chi osserva l’operare del giudice da un diverso punto di vista. Anche in questo magistrati e avvocati potranno collaborare più intensamente nei consigli giudiziari Come del resto già avviene nell’ambito del Consiglio Superiore della Magistratura. Nell’anno appena trascorso ci siamo occupati dell’avvocatura anche sotto altri profili e abbiamo avviato proficui dialoghi a cominciare dall’esame per l’abilitazione alla professione forense. La sperimentazione che abbiamo avviato con una nuova formula in pandemia sta dando buoni risultati ed è stata prorogata anche per il prossimo anno. Credo davvero che sia giunto il momento per aprire una riflessione sulle sperimentazioni effettuate in tempo di pandemia e decidere cosa fare a regime per il futuro. Vogliamo guardare oltre, questo tempo è stato anche un laboratorio di nuove ipotesi, di nuove riforme, ma vogliamo anche capire cosa trattenere, cosa lasciare e come si suggeriva abbandonare le misure non più strettamente necessarie per affrontare l’emergenza. Sempre a proposito dell’esame di abilitazione, io credo che l’avvocatura debba andare fiera di una piccola novità che però è significativa della sensibilità dell’avvocatura verso le persone più deboli, più vulnerabili. Abbiamo introdotto in per questa sessione importanti novità per i candidati con disabilità e disturbi specifici di apprendimento. Da più di 10 anni il nostro ordinamento riconosce disturbi come la dislessia, la disgrafia, la discalculia proprio come disturbi specifici dell’apprendimento che possono rappresentare ostacoli e gli ostacoli da rimuovere secondo l’articolo 3 secondo comma della Costituzione per la vita quotidiana e professionale di tanti giovani. In collaborazione anche con la ministra per le disabilità finalmente ci siamo fatti carico proprio a partire da voi, dalla abilitazione alla professione forense, di questi problemi, che peraltro si diffondono nella nostra società in misura crescente. Sappiate che siamo sempre al fianco dell’avvocatura per quanto di nostra competenza. Il ministero, come previsto dalla Costituzione, ha una funzione di servizio al sistema giustizia e vogliamo assolverlo in pieno, accompagnando ogni articolazione del mondo della Giustizia di cui è parte a pieno titolo da protagonista l’avvocatura. Così rafforziamo le nostre istituzioni, così rafforziamo la voce del diritto e della Giustizia. In questo tempo così sconvolgente occorre riaffermare la forza della legge come strumento per prevenire, prima ancora che per risolvere, i conflitti. Mai come oggi risuonano pertinenti le antiche parole di Sant’Agostino: se non è rispettata la giustizia, se non c’è il diritto, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri? Quando la giustizia si indebolisce e il diritto è oltraggiato resta solo la legge del più forte. Proprio in questo tempo segnato così profondamente da uno scenario di guerra e di conflitto brutale, rinnoviamo insieme il nostro impegno per ridare forza alla convivenza civile, attraverso il diritto e la Giustizia. “Ora un’alleanza per la giustizia”. Il futuro disegnato da Masi e Cartabia di Errico Novi Il Dubbio, 26 marzo 2022 Ieri l’inaugurazione dell’anno giudiziario del Cnf, con la presidente degli avvocati e la ministra a reclamare una vera intesa fra avvocati e giudici. Forse bisogna partire dalle parole di Sergio Mattarella. Il presidente della Repubblica, nel discorso pronunciato alla Camera in occasione del reinsediamento, aveva avvertito che non solo “la magistratura” ma anche “l’avvocatura” dovrà “assicurare che il processo riformatore si realizzi”. Il riconoscimento di un peso non solo tecnico ma anche ordinamentale. Ecco, ieri l’inaugurazione dell’anno giudiziario del Consiglio nazionale forense, celebrata al Maxxi di Roma, ha impresso un ulteriore sigillo alla prospettiva evocata dal Capo dello Stato. Lo ha fatto con le parole di due figure che ridefiniscono al femminile, come mai era avvenuto in passato, il sistema giustizia: la guardasigilli Marta Cartabia e la presidente del Cnf Maria Masi. È la prima a ricordare che la giustizia “deve parlare “anche attraverso la voce degli avvocati”. E perciò va considerata utile ai magistrati, affinché possano contare su “elementi di riflessione aggiuntivi offerti da chi osserva l’operato del giudice da un altro punto di vista”, la norma, prevista nel ddl sul Csm, che riconosce al Foro la facoltà di “esprimere” nei Consigli giudiziari “anche un voto sulle valutazioni di professionalità dei magistrati”. E Cartabia non fa altro che dare piena legittimazione alla prospettiva di Masi, disegnata con orgoglio dalla presidente degli avvocati nella propria relazione inaugurale: “Serve un grande sforzo che veda il Foro e i magistrati impegnati insieme nella valorizzazione di una rinnovata cultura ed etica della giurisdizione”, spiega il vertice del Cnf. Masi non ricorre mai a toni da rivendicazione sindacale. Propone la necessità di “vasi comunicanti tra magistratura e avvocatura” non come riscatto della classe forense, ma nell’interesse della giustizia e della “democrazia”. Con dignità e orgoglio, e con un discorso che si potrebbe definire “da statista”, non da rappresentante di categoria. E così come era in parte prevedibile, l’inaugurazione del Cnf diventa preludio alla nuova giustizia. Contribuiscono a renderla tale le nuove parole che il presidente della Repubblica affida a Masi nel messaggio inviato per la cerimonia: “Siamo nella fase in cui troveranno piena applicazione le riforme, e l’avvocatura è chiamata a svolgere un ruolo centrale”. Contribuiscono, con argomenti forti, convinzione e tono accorato, a legittimare il coprotagonismo del Foro nella giurisdizione anche gli altri quattro relatori: il vicepresidente del Csm David Ermini, il vertice della Cassazione Pietro Curzio, il presidente di sezione del Consiglio di Stato Michele Corradino e il numero uno della Corte dei Conti Guido Carlino. È un coro, una polifonia arricchita dalle diversità ma perfettamente armonica: “Si punti alla collaborazione fra magistrati e avvocati”. Lo dicono tutti, con parole pressoché identiche. È il senso di un futuro da costruire, ma nel quale si deve avere il coraggio di inoltrarsi. Logica che ispira fino in fondo il discorso di Maria Masi, anche nell’appello finale in cui parla non più alla politica e alla magistratura ma direttamente ai colleghi: “Vorrei inaugurare non solo l’anno giudiziario del Cnf ma anche il necessario nuovo corso dell’avvocatura”. La quale dovrà saper “garantire” alla propria funzione “libertà e indipendenza” anche nel rivolgersi a “nuovi e possibili profili professionali”. Guardare avanti: è uno sforzo che devono compiere certamente i magistrati, con la rinuncia alle “riserve corporative” evocate con grande schiettezza proprio dal vertice del Csm Ermini. Ma quel coraggio e quella disponibilità a camminare uniti innanzitutto all’interno dell’universo forense deve riguardare appunto anche i singoli avvocati, ricorda Masi. Che guarda al futuro, dunque, senza pretendere che i magistrati debbano compiere da soli il primo passo. Ed è molto importante che sia l’unico “magistrato ordinario” intervenuto alla cerimonia, Pietro Curzio, cioè il “primo giudice d’Italia”, a dire, con il suo inconfondibile appassionato richiamo al cuore dei colleghi, che magistrati e avvocati sono entrambi “indispensabili alla giurisdizione” e che “svolgono professioni diverse ma legate in modo indissolubile fra loro”. E alla Suprema corte, aggiunge, “abbiamo improntato il nostro assetto organizzativo proprio alla collaborazione fra giudici e avvocati”. Naturalmente non mancano le antitesi dialettiche, come in ogni “logos” che intenda affermare idee forti: Masi ringrazia Cartabia per la norma che riconosce al Foro il diritto di voto sulle carriere dei giudici, ma dice anche che proprio “non si condividono” le ragioni del dissenso “manifestato dalla componente associativa della magistratura”, vale a dire dall’Anm; e Cartabia è per certi aspetti persino più sferzante, perché (come ricordato anche in altro servizio del giornale. ndr) tiene molto a evocare, davanti alla platea degli avvocati (che annovera gli altri consiglieri del Cnf ma anche Ordini e associazioni forensi) quei “tantissimi magistrati che ogni giorno operano in modo riservato, con passione, dedizione, accanto a voi: sono loro i vostri principali alleati, il volto migliore della nostra magistratura”. Quasi a voler suggerire che oggi, forse, le polemiche un po’ corporative agitate dalle istituzioni delle toghe non rappresentano quel cuore nobile dell’ordine giudiziario. Resta il fatto che Masi e Cartabia, come gli altri relatori, sono perfettamente intonate nel trattare le resistenze come un precipitato residuale, e nell’indicare il futuro in termini di sinergia, di alleanza. Ne parlano agli avvocati ma anche al cospetto di tanti magistrati presenti a seguire la cerimonia, dal pg di Cassazione Giovanni Salvi al procuratore di Roma Franco Lo Voi. Il messaggio è chiaro: cambiare si può. Insieme, e con uno sforzo di coraggio che dovrà coinvolgere tutti. Giachetti (Iv): “La procura di Catanzaro vuol forse intimidire i deputati della Repubblica?” di Valentina Stella Il Dubbio, 26 marzo 2022 “Incomprensibile, grave e ingiustificata”: così l’onorevole di Italia Viva Roberto Giachetti descrive una iniziativa di Nicola Gratteri, resa nota due giorni fa in Aula dallo stesso parlamentare: “La procura della Repubblica di Catanzaro, Direzione distrettuale Antimafia, nel presentare ricorso nei confronti della concessione degli arresti domiciliari all’ex deputato Giancarlo Pittelli ha allegato tra gli atti anche due interrogazioni parlamentari”. Una a prima firma Riccardo Magi (+ Europa) con la dem Bruno Bossio e lo stesso Giachetti e un’altra depositata al Senato da Emma Bonino e da Matteo Richetti di Azione. “I deputati - ha spiegato Giachetti - hanno il diritto, nella loro attività, attraverso le interrogazioni, di stigmatizzare delle cose che non vanno. Io ho presentato decine e decine di interrogazioni, anche grazie alle segnalazioni di Rita Bernardini, sul carcere, il 41 bis, e questioni anche più gravi. Nel caso specifico si tratta di cose che personalmente ho appreso dai giornali”. Ma cosa dice la famosa interpellanza del 14 febbraio? Ricorda l’arresto di Pittelli, la misura cautelare in isolamento, la negazione di un interrogatorio per mesi, lo sciopero della fame intrapreso per chiederne la scarcerazione, la continua fuga di notizie sul caso, la abnorme durata della carcerazione preventiva che a febbraio 2022 ha raggiunto i 26 mesi, la tutela di diritti dell’imputato e del detenuto, la diffusione degli atti istruttori, peraltro irrilevanti ai fini processuali e riguardanti la vita privata dell’imputato, la revoca dei domiciliari per aver inviato una lettera alla Ministra Carfagna, anomalie sulle trascrizioni delle intercettazioni contenuti dell’ordinanza di custodia cautelare, il fatto che “il dottor Otello Lupacchini, già procuratore generale presso la corte d’appello di Catanzaro, ha rivelato di aver ricevuto, nel gennaio 2020, una lettera da Pittelli che conteneva denunce circostanziate nei confronti di un magistrato di Catanzaro e di aver trasmesso tale documento alla procura della Repubblica di Salerno; all’esposto non ha fatto seguito né l’avvio di indagini nei confronti del magistrato accusato, né un eventuale procedimento per calunnia verso lo stesso Pittelli’. Per tutto questo gli interroganti hanno chiesto alla Ministra Cartabia ‘ se non ritenga che i fatti in premessa, qualora confermati, siano meritevoli di un accurato approfondimento tramite una ispezione presso gli uffici giudiziari di Catanzaro coinvolti”. Al momento nessuna risposta all’atto di sindacato ispettivo ma intanto è finito tra gli allegati della Procura di Catanzaro. Quali potrebbero essere le ragioni di questa iniziativa? Ci dice Giachetti: “è una forma di intimidazione, un tentativo di gettare un’ombra su di noi e la nostra attività parlamentare, il sospetto di una regia organizzata inserendola in un contesto di criminalità organizzata?” Pittelli - ricordiamo - è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. “L’articolo 68 della Costituzione - prosegue Giachetti - difende la libertà dei parlamentari rispetto agli altri poteri. E allora perché viene messa agli atti una precipua, specifica e dovuta attività di un parlamentare, in un procedimento in cui quella roba non c’entra nulla?”. Giachetti ci annuncia che presenterà un’interrogazione alla Cartabia ma inoltre “credo sia dovere del Presidente della Camera chiedere spiegazioni al CSM: e voglio proprio sapere se il Consiglio si assumerà la responsabilità di dire che una cosa del genere è accettabile’. I precedenti non fanno ben sperare. Ricordiamo che per alcuni articoli critici nei confronti della Procura di Catanzaro sempre in merito a Pittelli, la corrente di Area ha chiesto al Csm di aprire una pratica a tutela nei confronti di Gratteri e colleghi e che lo stesso Csm qualche settimana fa ha archiviato senza fornire una spiegazione l’esposto dell’Unione delle Camere Penali contro Gratteri per una sua intervista al Corriere della Sera dove alluse a pericolose collusioni dei giudici di Catanzaro visto che non avallavano le sue inchieste. Comunque conclude Giachetti: “Se qualcuno pensa che, allegando delle interrogazioni che sono figlie del mio dovere di parlamentare nei confronti di persone che sono sicuramente fragili, in custodia cautelare e che, spesso e volentieri, proprio a Catanzaro finiscono assolte, otterrà il mio silenzio, sbaglia: io ho il dovere di difendere la mia dignità, e penso che il Presidente della Camera abbia il dovere di tutelare la dignità e le prerogative dei parlamentari”. Anche per l’onorevole Riccardo Magi si tratta di una iniziativa “gravissima, intimidatoria”. Magi aggiunge che “come ha spiegato in Aula il presidente di turno Andrea Mandelli, dopo essersi consultato con gli uffici, non ci si ricorda di precedenti del genere. Noi in quella interrogazione abbiamo raccolto degli elementi di cronaca, pubblicati sui giornali, in particolare sul Riformista, dopo un accurato vaglio dei nostri uffici molto attenti all’indicazione delle fonti”. Pertanto “è assolutamente necessario che il Presidente della Camera Fico chieda un chiarimento direttamente alla Procura per capire qual è la finalità, quale l’intento di questa iniziativa del Procuratore Gratteri. Sono in gioco le prerogative parlamentari, l’insindacabilità degli atti compiuti dai parlamentari nell’esercizio delle loro funzioni. Quindi, poiché questa questione ha una rilevanza costituzionale, io invito tutti i colleghi a sottoscrivere quella interpellanza”. A Voghera ora vogliono processare la vittima di Giuliano Santoro Il Manifesto, 26 marzo 2022 Youns El Boussettaoui, ucciso dall’assessore leghista Massimo Adriatici, è stato convocato dal giudice per un reato minore. È solo l’ultima delle molte anomalie attorno al caso. Forse il nuovo procuratore farà chiarezza. L’evento aggiunge una nota paradossale ad una vicenda che di contraddizioni e cortocircuiti ne ha accumulati già parecchi. Perché l’ultimo (per adesso) atto a finire nel faldone che riguarda Youns El Boussettaoui, cittadino marocchino senza fissa dimora ucciso a pistolettate a Voghera dall’assessore alla sicurezza Massimo Adriatici, è un decreto di citazione a giudizio davanti al giudice di pace a suo carico: a carico della vittima. I fatti risalgono al 10 maggio dell’anno scorso, quaranta giorni prima che El Boussettaoui finisse ucciso. L’uomo era stato fermato per un controllo dagli agenti di polizia che lo trovarono senza documenti. Di qui la denuncia, che con solerzia surreale è stata notificata all’avvocata Debora Piazza, che era il legale di fiducia di El Boussettaoi e che adesso continua a curare gli interessi della vittima. La cosa è ancora più assurda perché questa efficienza pare a senso unico. Infatti, proprio una mancata notifica a Piazza ha dato origine alla catena di anomalie sospette che caratterizza questo caso. Accadde infatti che l’autopsia sul corpo dell’uomo venne fatta in tutta fretta, senza avvisare né la famiglia né i legali, come se fosse per scontato che una persona che viveva per strada fosse solo al mondo e privo delle basilari garanzie giuridiche. Di passaggi poco chiari e quantomeno controversi, in questi mesi ce ne sono stati tanti, tra telecamere per strada poco funzionanti e filmati spariti, pallottole a esplosione (illegali) trovate nella pistola di Adriatici, il procuratore aggiunto che ha coordinato le indagini Mario Venditti avvistato a un incontro elettorale della Lega (stesso partito di Adriatici) e soprattutto l’incongruenza del capo d’imputazione. Ad Adriatici, viene al momento contestato l’eccesso di legittima difesa invece che l’omicidio colposo. Ciò gli ha consentito di tornare libero dagli arresti domiciliari per decorrenza termini (trattandosi di reato minore è scattata dopo novanta giorni dall’accaduto) e tornare a esercitare la sua professione di avvocato. “Speriamo che sia l’ultimo capitolo della vecchia gestione”, dicono i legali della famiglia El Boussettaoui. Da qualche settimana, infatti, a Pavia c’è un nuovo procuratore. Si tratta di Fabio Napoleone, che in passato si è occupato anche di corruzione e terrorismo neofascista. Il nuovo capo dell’ufficio giudiziario ha disposto la proroga delle indagini. Finalmente, gli avvocati della famiglia della vittima hanno potuto depositare le memorie con tutti i punti oscuri e con il contenuto delle indagini difensive che hanno condotto in questi lunghi mesi in cui temevano che il tribunale di Pavia diventasse un porto delle nebbie. Insomma, dopo mesi di muri di gomma e controversie estenuanti sembra esserci un clima nuovo attorno al caso. Sono stati fatti nuovi sopralluoghi in piazza Meardi, il luogo in cui è avvenuto il delitto. I legali e i familiari di El Boussettaoiu sono più fiduciosi. A cominciare dal fatto che si arrivi alla richiesta di rinvio a giudizio con un diverso capo d’imputazione. Foggia. Antigone pensa ai detenuti e chiama la politica: “Manca il contatto con il territorio” foggiatoday.it, 26 marzo 2022 Cala il numero dei reclusi rispetto alla visita di due anni fa, ma sono molti gli ospiti con patologie psichiatriche. “Gli agenti non sono pochi”, affermano le osservatrici, “ma il loro ruolo deve essere valorizzato anche a livello economico”. “Superata l’emergenza Covid, è tempo di ripartire e dare più opportunità a questo carcere”. A dirlo sono Maria Pia Scarciglia e Francesca Pastore, entrate oggi nell’istituto di pena di Foggia, in qualità di osservatrici di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Hanno incontrato la direttrice della casa circondariale, Giulia Magliulo, e il comandante, commissario capo Giovanni De Candia, che le ha accompagnate per tutto il corso della visita. “Abbiamo trovato un carcere con un minor numero di ospiti rispetto all’ultima visita del 2020 - afferma Maria Pia Scarciglia - una struttura che ha bisogno di manutenzione ordinaria, di interventi importanti che sono stati effettuati solo sul nuovo padiglione. Abbiamo trovato numerosi ospiti con patologie psichiatriche, anche molti tossicodipendenti. Crediamo, però, che la questione dirimente per questo carcere sia il contatto con il territorio. Probabilmente, il territorio, la politica prima di tutto, dovrebbe cercare di attenzionare maggiormente questo luogo, perché il carcere è un pezzo di città. Pochi sono gli inserimenti sul territorio al livello lavorativo, i detenuti lavoranti operano tutti per l’amministrazione penitenziaria”. “Tre educatori sono pochi per una presa in carico efficace”, aggiunge l’osservatrice Francesca Pastore. Ma secondo l’associazione non sono pochi gli agenti di polizia penitenziaria, protagonisti di protesta all’ordine del giorno. “Certamente lavorare in contesti come questo è particolarmente difficile, noi lo diciamo sempre, è un ruolo che andrebbe valorizzato al meglio - afferma Maria Pia Scarciglia - la pianta organica del carcere di Foggia prevede 261 agenti e noi ne abbiamo trovati presenti 255. Più che un problema numerico, è un problema legato magari anche all’anzianità degli agenti rispetto al carico stressante di lavoro che richiede forse anche una maggiore considerazione a livello economico”. Sinistra Italia Foggia ha dato una mano dal punto di vista logistico alle osservatrici arrivate a Foggia e “appoggia pienamente Antigone nel suo lavoro di denuncia delle condizioni dei e delle detenute”, che continuano ad essere non idonee secondo il segretario provinciale Mario Nobile e, “a volte, come nel caso dei detenuti con problemi psichiatrici ed affetti da tossicodipendenze, offensive della dignità umana”. Giudica particolarmente significativa la denuncia in relazione alla carenza di percorsi di reinserimento sociale e lavorativo, “circostanza che non solo tradisce la funzione rieducativa della pena, ma soprattutto non consente a coloro che hanno commesso dei reati per motivi economici di uscire dalla trappola della povertà e, quindi, di liberarsi dal giogo della criminalità, spesso di quella organizzata”. È il segretario di Sinistra Italiana a mostrare una piccola struttura proprio di fronte al carcere che dovrebbe essere destinata a sala di attesa dei familiari e che, invece, “si trova in totale stato di degrado, piena di rifiuti e con panche divelte”. La struttura, ripresa nel video, probabilmente, non dipende dal ministero della Giustizia. Nobile segnala anche un focolaio Covid nell’ala femminile ed evidenza la presenza di una grande area verde che potrebbe essere utile per le visite estive, purtroppo totalmente inutilizzata. “Il territorio, le istituzioni e gran parte di forze politiche e sociali continuano ad essere lontane anni luce dal carcere, percependolo come un luogo staccato dal mondo esterno, ignorato - afferma - noi di Sinistra Italiana Foggia la pensiamo diversamente e per questo continueremo, anche grazie allo straordinario lavoro dell’associazione Antigone, a tenere alta l’attenzione sulla condizione della popolazione carceraria”. Eboli (Sa). Lavori di pubblica utilità per tre detenuti dell’Icatt salernotoday.it, 26 marzo 2022 Un protocollo d’intesa è stato sottoscritto dalla Direzione del carcere nella persona della Dottoressa Concetta Felaco, dalla Presidente del tribunale di sorveglianza di Salerno, la dottoressa Monica Amirante, dal garante campano dei detenuti, professor Samuele Ciambriello, e dal Presidente dell’associazione “Sophis” dottor Marco Botta Nella giornata di ieri presso l’Istituto a custodia attenuata di Eboli è stato sottoscritto un protocollo d’intesa per avviare un progetto di lavori di pubblica utilità, destinato a 3 detenuti, presso il complesso museale di Sant’Antonio sede del M.O.A ubicato nel cuore del centro antico di Eboli. Il documento è stato sottoscritto dalla Direzione del carcere nella persona della Dottoressa Concetta Felaco, dalla Presidente del tribunale di sorveglianza di Salerno, la dottoressa Monica Amirante, dal garante campano dei detenuti, professor Samuele Ciambriello, e dal Presidente dell’associazione “Sophis” dottor Marco Botta. La Direttrice del carcere Concetta Felaco ha ricordato che: “Già all’interno dell’istituto abbiamo progetti come l’orto sociale, l’istituzione di corsi professionalizzanti e laboratoriali che aiutano il detenuto quando esce a reinserirsi nella società. Ringrazio il garante che pur essendo lavori di pubblica utilità gratuiti, ha voluto offrire ad ogni singolo detenuto una borsa lavoro”. Per la Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Salerno Monica Amirante: “Questi sono semi di speranza. Ho dato parere favorevole all’avvio di questa progettualità perchè sono segnali di un mondo esterno che non deve dimenticare l’esistenza dei detenuti”. Erano 34 oggi i detenuti presenti in questo istituto per ex tossicodipendenti, che hanno offerto un pranzo agli ospiti accogliendoli con delle pizze, primo piatto e torta, molto graditi dai commensali. Il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello nel salutarli ha così commentato: “I percorsi formativi in questo istituto, l’habitat, le relazioni umane che si sono instaurate, la progettualità di questi lavori all’esterno, applicano correttamente il dettato costituzionale che recita che le pene servono a rieducare, promuovo in tante carceri campane lavori di pubblica utilità perché sono segnali di una mano tesa, di un ponte che aiuta queste persone a passare dalla reclusione alla inclusione. Ringrazio il presidente dell’associazione “Sophis” che a anni è presente in questo carcere, per la sensibilità che ha avuto perché il mondo delle belle arti e della cultura possa aprirsi anche per queste persone”. Il museo, così come ha ricordato il dottor Botta, è di 1000 metri quadrati, ed è un luogo dove i 3 detenuti lavorano per tutto il giorno e si preparano a prossime iniziative culturali. Milano. A Bollate riapre il teatro dietro le sbarre: la libertà di tornare sul palco di Roberta Rampini Il Giorno, 26 marzo 2022 Dopo due anni di stop per il Covid i detenuti di Bollate hanno portato in scena: “Ci avete rotto il caos”. Alza il sipario e riapre al pubblico esterno il teatro della II casa di reclusione di Milano-Bollate. Giovedì e venerdì sera, dopo due anni di grandi difficoltà dovute all’emergenza sanitaria da Covid 19, i detenuti hanno portato in scena lo spettacolo “Ci avete rotto il caos”, lo stesso che avevano presentato al Piccolo Teatro di Milano nel 2018. Riparte senza Michelina Capato, attrice e regista che per prima aveva intuito il potere del teatro in carcere, per ridare vita e dignità ai detenuti, morta per un infarto lo scorso novembre. Era stata lei con la Cooperativa Estia a portare il teatro dietro le sbarre nel lontano 2003. Oggi al suo posto ci sono Serena Andreani e Beatrice Masi della Società Cooperativa “Le Crisalidi” che ha prodotto lo spettacolo e dal 2020 opera all’interno del carcere con laboratori e attività teatrali per detenuti. Eredi di quella scommessa che si è rivelata vincente, Serena e Beatrice si sono conosciute “dietro le sbarre” perché hanno svolto la loro tesi di laurea in carcere, la prima in Fashion Styling and Communication allo Ied di Milano, la seconda in terapeutica artistica all’Accademia di Belle Arti di Brera. Entrambe le tesi erano focalizzate sul teatro e sul progetto della Cooperativa Estia fondata dalla Capato. “Due percorsi formativi solo apparentemente diversi che, senza saperlo, ci avrebbero portato sulla stessa strada”, raccontano. E così nel 2017 hanno fondato la cooperativa, nel 2020 siamo rientrate ufficialmente nel carcere di Bollate che gli ha affidato le attività e i laboratori teatrali. “Abbiamo ripreso le attività a settembre 2021 quando l’emergenza sanitaria ce lo ha consentito, abbiamo formato un nuovo gruppo di detenuti e con loro iniziato alcuni laboratori teatrali - raccontano Serena e Beatrice - siamo tornati in scena con “Ci avete rotto il caos”. Abbiamo voluto ripartire da qui. Intanto abbiamo vinto il Bando della Fondazione di Comunità Milano che sostiene il nostro lavoro a partire da gennaio 2022 e stiamo scrivendo il nuovo spettacolo che andrà in scena a settembre-ottobre”. Un segno di ripresa per il carcere all’avanguardia nel trattamento dei detenuti che in questi due anni ha dovuto sospendere molti progetti, “i due spettacoli sono stati un segno di vitalità ed energia, la rinascita di Bollate nella sua vera natura di istituto legata alla comunità e che vive con la comunità”, dichiara il direttore Giorgio Leggieri. Milano. Una colletta straordinaria: anche noi “cattivi” aiutiamo gli ucraini di Alessandro Cozzi* ilsussidiario.net, 26 marzo 2022 Anche i carcerati hanno un cuore e lo stanno dimostrando con una raccolta di generi alimentari per chi fugge dall’Ucraina in guerra. C’è la guerra in Europa. Così vicina a casa: chi lo avrebbe detto, chi lo avrebbe pensato, qui e ora, la guerra. Anche ammettendo che non si estenda oltre l’Ucraina - non è affatto detto che non possa succedere - non è lontana. Ci coinvolge al di là del fiume di immagini che ci insegue dalle televisioni, con scene raccapriccianti di tristezza indicibile. Arriva fin dentro il carcere, dove se ne fa materia di discorsi e di commenti, anche di giudizi. Perché persino chi il giudizio l’ha subìto, alla prima occasione si mette a giudicare e spesso senza appello: i russi, Putin, ma gli ucraini, la Nato, l’Unione Europea, i politici. Però non succede solo questo. Tutti quei profughi, quelle donne in fuga con i bambini, quelle famiglie sradicate e disperse, quegli anziani, le code di gente in attesa per comprare cibo o per andarsene scappando, per entrare in un ospedale o in un rifugio, hanno fatto breccia: non siamo ancora assuefatti, evidentemente, a simili “spettacoli” ed è una cosa buona. Così, con alcuni compagni di strada ci siamo chiesti in che modo potessimo dare una mano. Ci era venuta l’idea di una raccolta di soldi per donarli poi a uno dei molti enti che si stanno dedicando all’assistenza dei rifugiati. Ma la gestione del denaro in un ambiente come il carcere è difficoltosa per tante ragioni organizzative. Non ci siamo fermati. Noi, che siamo i “cattivi”, parola che nelle sue origini significa proprio “prigionieri” e che da quel significato è poi approdata al senso di “malvagi”, in verità abbiamo e coltiviamo assai di più di quanto l’etichetta possa far pensare. “Dobbiamo fare qualcosa!”, si sentiva non raramente nei primi giorni di guerra. “Ma cosa?”. “Ci hanno già detto no”, “non possiamo fregarcene”, “ma cosa vuoi che gliene importi?”, “eppure bisogna muoversi”. Ne parlavamo tanto e a ben guardare già questo è un piccolo miracolo: chi sta in galera tutto sommato è tagliato fuori. Dicono: forse, non è così. L’idea è arrivata lentamente: provare a fare una raccolta di cibo, come è stato prima di Natale. Occorreva chiamare il Banco Alimentare e coinvolgerli in questa “colletta straordinaria”, come abbiamo cominciato a chiamarla tra noi. Ci siamo rivolti ai volontari di Incontro&Presenza con la nostra proposta, forse stravagante. Non sapevamo se sarebbe stato possibile, nemmeno se fosse il caso di chiederlo: chissà in che cosa era impegnato il Banco, chissà se avrebbe avuto il tempo e le forze per ricevere il nostro piccolo contributo. Ed ecco, il secondo miracolo in pochissimi giorni: il Banco Alimentare si è fatto sotto, “quelli” di Incontro & Presenza si sono dati da fare, la direzione ha accolto l’iniziativa, proprio vedendo che era una richiesta che partiva dall’interno e l’ha approvata. “Dobbiamo fare meglio che a Natale”, pare abbia detto il direttore incoraggiandoci a essere generosi. In un attimo gli uffici dell’Istituto si sono attrezzati e hanno distribuito i moduli ad hoc su cui noi, detenuti forse non così “cattivi”, doneremo generi alimentari per i profughi che dall’Ucraina arriveranno in Italia. Mentre scrivo, non sappiamo quanto riusciremo a concretizzare, speriamo che sia tanto perché ci piacerebbe sostenere gli sforzi che si stanno compiendo altrove. Ma fosse anche poco, per noi sarà molto: qui dentro il dolore ha trovato orecchie capaci di ascoltare. Quei rifugiati hanno amici anche qui e noi li guardiamo allo stesso modo, sono fratelli tutti. Non sarà mai poco. *Detenuto nel carcere di Milano Opera Rai2: “Sulla Via di Damasco” racconta storie di catene spezzate askanews.it, 26 marzo 2022 Confessioni dal carcere. Rinascita, fiducia in sé stessi e riscoperta della dignità, sono le parole che riecheggiano nei racconti della prossima puntata di “Sulla Via di Damasco”, in onda domenica 27 marzo alle 8.40, su Rai 2. Una serie di confessioni dal carcere, commentate da Eva Crosetta, in compagnia di Giorgio Pieri, diacono e membro della Comunità Papa Giovanni XXIII, che vedrà come protagonisti donne e uomini che hanno avuto la possibilità di un riscatto morale, civile e spirituale, grazie a programmi di comunità e a un sistema di misure alternative alla detenzione, nel segno della fraternità. Persone a cui è stata offerta una ragione di speranza, come l’occasione di un colloquio o come una possibilità di lavoro, nello stile “di famiglia”, tipico dell’Associazione di Don Oreste Benzi, che si fanno racconto attraverso le voci raccolte a Casa Betania, a Casa Madre Del Perdono e nella Fattoria Sociale San Facondino, luoghi della vita nuova e del recupero della dignità perduta, dove la pena è espiata con l’amore e senza giudizio. Il programma di Vito Sidoti chiude con le parole di Papa Francesco, quando, rivolgendosi ai detenuti, ha detto: “Io vi dico che ogni volta che entro in carcere mi domando: perché loro e non io? Tutti abbiamo la possibilità di sbagliare”. Regia di Alessandro Rosati. La giustizia sociale e climatica si costruisce nelle scuole di Barbara Floridia* La Repubblica, 26 marzo 2022 Oggi è il giorno dello sciopero globale per il clima. “Senza giustizia sociale e climatica non può esserci pace” è uno degli slogan rilanciato nelle piazze italiane e mondiali, dove ragazze e ragazzi si ritrovano per chiedere che i leader mondiali intraprendano azioni concrete per la salvaguardia del clima. I giovani italiani e di tutto il mondo ci ricordano quanto il conflitto in Ucraina non solo non deve farci perdere di vista i grandi obiettivi legati alla transizione ecologica, ma anche che le questioni di politica energetica e la transizione verso fonti rinnovabili mettano in gioco non solo il nostro portafoglio ma la nostra stessa libertà. Ebbene il governo, e il ministero dell’Istruzione in particolare, è al fianco di questi ragazzi. La scuola è da sempre il principale strumento per abbattere le diseguaglianze sociali, economiche, culturali. Ed ambientali. Su questo fronte è operativo e sta entrando a regime il piano RiGenerazione Scuola, il primo piano sistemico in Europa attuativo degli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU pensato per accompagnare le scuole nella transizione ecologica e culturale e nell’attuazione dei percorsi di educazione allo sviluppo sostenibile previsti dall’insegnamento dell’educazione civica. La scuola ha il compito di educare le studentesse e gli studenti ad abitare il mondo in modo nuovo e sostenibile e di renderli protagonisti del cambiamento. I giovani, a scuola, devono diventare consapevoli dei propri diritti ecologici per poterli esercitare. Con il termine “rigenerazione” superiamo il concetto di “resilienza”; infatti, non si tratta più di adattarci o resistere ai cambiamenti climatici, ma è tempo di generare un nuovo modo di abitare che guardi “lontano” nel tempo e nello spazio. Il Piano mira a stringere un legame di lungo periodo fra le diverse generazioni per insegnare che lo sviluppo è sostenibile se risponde ai bisogni delle generazioni presenti, ma non compromette quelle future. Mercoledì scorso insieme al ministro Bianchi abbiamo presentato il Piano ai rappresentanti degli Stati membri del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Siamo di fronte a uno scenario che non può tollerare ritardi o distrazioni. Il conflitto in Europa e la crisi energetica, economica ed ambientale, rischiano di trasformarsi in una crisi strutturale, le cui conseguenze ricadranno proprio sui più giovani. Abbiamo il dovere di scongiurare un futuro in cui intere generazioni siano condannate all’emarginazione sociale e all’esclusione culturale. Il Piano RiGenerazione Scuola nasce per educare i giovani ad un modello abitativo nuovo, dove la cittadinanza possa essere diversa, rigenerata appunto. L’obiettivo è rigenerare i comportamenti di tutta la comunità scolastica, rigenerare le scelte da compiere, modificare l’alfabeto. Vogliamo affrontare il tema della sostenibilità in chiave sistemica. Vale a dire nella completezza delle diverse componenti dell’abitare la scuola che riguardano non solo i saperi e le conoscenze, ma anche i comportamenti che si acquisiscono all’interno degli ambienti scolastici, la qualità degli edifici e degli spazi che i nostri giovani vivono e infine anche rispetto alle opportunità che il nuovo modello abitativo porta con sé. Per questo il Piano si poggia su quattro pilastri: la rigenerazione dei saperi, dei comportamenti, delle infrastrutture e delle opportunità. I giovani possono, grazie ai Piano Rigenerazione, finalmente acquisire nuove competenze green, per poter essere protagonisti nel mondo del lavoro. Il Piano mette a disposizione risorse economiche e scientifiche, dà la possibilità alle scuole di poter già avere a disposizione esperti di temi ambientali. Inoltre importate è la messa a disposizione di una green community: una comunità di amministrazioni pubbliche, istituzioni culturali, scientifiche, di ricerca, organizzazioni no profit e profit, anche di rilievo internazionale che sono a disposizione delle Istituzioni scolastiche per aiutarle a promuovere ed a realizzare iniziative sull’educazione alla sostenibilità coerenti con almeno uno dei quattro pilastri del Piano RiGenerazione Scuola. La scuola deve essere protagonista assoluta della transizione ecologica e il pilastro più forte su cui costruire la giustizia sociale, ambientale e climatica. Oggi più che mai non sono parole, ma fatti e progetti concreti da sviluppare insieme. *Sottosegretario Ministero Istruzione Se una sentenza toglie la mamma a un bambino di Carlo Rimini* Corriere della Sera, 26 marzo 2022 È inaccettabile che il tribunale dichiari la madre decaduta dalla responsabilità genitoriale senza neppure avere ascoltato il minore. Il caso Massaro e la decisione della Cassazione che ha annullato la sentenza dei giudici. L’ordinanza della Cassazione sul caso Massaro contiene un fermo richiamo ai giudici minorili. Partiamo dai fatti. Un bambino rifiuta sistematicamente di vedere il padre che vive separato dalla madre. Il tribunale ha disposto una serie di perizie e gli psicologi hanno concluso che questo comportamento è la conseguenza del fatto che la madre ostacola il rapporto fra il figlio e il padre, come purtroppo talora avviene. In questa situazione, i giudici di primo e di secondo grado avevano deciso, senza neppure avere ascoltato il minore, che l’unica soluzione fosse dichiarare la madre decaduta dalla responsabilità genitoriale e avevano ordinato che il bambino fosse trasferito in una casa-famiglia. La Cassazione ieri ha annullato questa decisione. La madre ha dichiarato che è come se i giudici della Cassazione avessero rimesso al mondo suo figlio. Dal suo punto di vista, la sentenza è una vittoria. Dal punto di vista del bambino, però, la vicenda nel suo complesso è una grande sconfitta. Possiamo ricavarne qualche riflessione di ordine generale. Non si può togliere un bambino a una madre per punirla per il suo comportamento: qualunque sia la sua responsabilità, la decisione deve avere come unico riferimento l’interesse del bambino ad avere una relazione con entrambi i genitori. Non si può neppure immaginare di strappare un bambino alla mamma con la forza per metterlo in una comunità. Non è concepibile dichiarare decaduta una madre dalla responsabilità genitoriale senza che i giudici abbiano ascoltato personalmente il minore. Non si può allontanare un bambino solo sulla base di relazioni di psicologi che abbiano rilevato la tendenza della madre a ostacolare i rapporti fra il bambino e il padre. Non bastano “teorie pseudoscientifiche”, ma occorre la prova dei fatti e questa deve essere raccolta dal giudice nel processo e non affidata a indagini psicologiche. *Ordinario di diritto privato nell’Università di Milano Alienazione genitoriale (Pas) e caso Massaro: dalla parte dei bambini di Elisabetta Camussi La Repubblica, 26 marzo 2022 La sentenza della Cassazione rimette al centro la volontà del figlio dodicenne, che con la madre voleva rimanere a vivere, non esistendo rischio alcuno, e che non è stato chiamato in audizione, nonostante l’età e le condizioni lo permettessero. Diceva Donald Winnicott, pediatra e psicoterapeuta inglese scomparso negli anni ‘70, che l’unico tipo di madre che serve ai bambini e alle bambine per crescere bene è una madre “sufficientemente buona”, ossia il contrario di una madre perfetta: una donna con normali risorse e limiti, preoccupazioni e incertezze. Perché, secondo Winnicott, solo una madre con queste caratteristiche sa vedere il proprio figlio o figlia non come mero prolungamento di sé stessa, ma come un individuo reale e separato. E lo può accompagnare nei suoi bisogni e passaggi di crescita senza la necessità di dirsi perfetta, usando le proprie capacità, riconoscendo le fatiche, chiedendo aiuto per quel che serve, sopportando nel quotidiano gli errori e i possibili fallimenti: come fanno la quasi totalità delle madri. Niente a che vedere dunque con lo stereotipo della madre sacrificale, accudente e accogliente oltre ogni ragionevole limite, la cui esistenza finisce per dipendere dalla relazione di cura, incapace di porsi come soggetto altro. E tantomeno niente a che vedere con l’altro classico stereotipo della madre manipolatrice, che plagia i figli perché dipendano da lei e siano di conseguenza ostili al padre. Circa un decennio dopo, in ambito di salute mentale, è comparsa la Parental Alienation Syndrome (Pas). Una pseudo teoria mai riconosciuta dall’Oms, ma non per questo meno applicata, che qualifica come patologia conclamata, ma senza riscontri scientifici, la situazione nella quale un genitore manipolerebbe i figli, spingendoli a temere e rifiutare l’altro genitore, per poterne ottenere l’affidamento esclusivo. Nonostante l’infondatezza scientifica, tale pseudo-teoria viene spesso utilizzata per sottrarre i figli al presunto genitore manipolatore, e affidarli proprio a colui di cui i minori dicono di avere paura. Nel suo nascere come sindrome potenzialmente applicabile a madri e padri, è in realtà divenuta strumento sistematico di discriminazione contro le donne e di violazione dei diritti dei minori. Si verifica in particolare nei casi di separazione dove le donne segnalano maltrattamenti e violenze da parte dei partner/padri, e questi ricorrono alla Pas per ottenere comunque l’affidamento condiviso, quando non esclusivo, dei figli. Su questo fenomeno esistono dati raccolti a livello internazionale dalla Cedaw (Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women), dal Grevio (Group of Experts on Action against Violence against Women and Domestic Violence) e in Italia dalla Commissione parlamentare sul Femminicidio presieduta da Valeria Valente. In questa lettura distorta della realtà si inserisce la vicenda di Laura Massaro, che ha trovato finalmente corretto compimento il 24 marzo 2022, con una sentenza storica della Corte di Cassazione. La sentenza ha impresso infatti una svolta definitiva, sostenendo l’impossibilità in uno Stato di Diritto dell’esecuzione coattiva di un provvedimento di allontanamento del figlio dodicenne dalla madre, quale conseguenza, sulla base di una inesistente Pas, della sospensione della responsabilità genitoriale. E rimettendo al centro la volontà del dodicenne, che con la madre voleva rimanere a vivere non esistendo rischio alcuno, e che non è stato chiamato in audizione, nonostante l’età e le condizioni lo permettessero. Al di là dell’importanza della sentenza, che segnala anche la capacità dei giudici di superare visioni stereotipate e infondate, resta da chiedersi come affrontare un rischio nel quale una parte dei professionisti - siano essi psicologi, magistrati, consulenti, avvocati, assistenti sociali ecc. - può incorrere. Perché quando una storia riguarda una donna e un uomo, i figli contesi, le violenze domestiche, la nostra visione del mondo e gli stereotipi con cui siamo cresciuti diventano un fattore di rischio, data la scarsa consapevolezza che abbiamo dell’influenza che esercitano sul nostro giudizio. A questo si pone rimedio attraverso percorsi formativi di contrasto agli stereotipi rivolti agli adulti, protocolli operativi condivisi, strumenti tecnici scientificamente validati che supportino i professionisti nei loro ruoli e nel lavoro d’equipe. Perché la Pas, ma anche le altre presunte patologie e disfunzioni che utilizziamo per leggere la realtà dei generi, spesso ci piacciono e ci confortano proprio perché ben si attagliano alla nostra rappresentazione del mondo: al punto che finiamo per forzare la realtà stessa dentro le nostre aspettative, perdendola di vista. Amnesty accusa: I Centri per i migranti finiti nelle mani dei colossi privati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 marzo 2022 I Centri di permanenza e rimpatrio (Cpr), una detenzione di fatto per migranti che non hanno commesso reati, sono in mano a privati che hanno l’obiettivo di guadagnare dalla reclusione dei migranti. Questo avviene a differenza delle carceri italiane, dove il nostro ordinamento vieta la loro privatizzazione. I Cpr, di fatto, sono un sistema di detenzione, ma a differenza delle patrie galere vivono in una specie di limbo giuridico dove esistono meno garanzie per i trattenuti e dove, appunto, i privati possono gestirli e trarne il massimo profitto. Per comprendere tutto ciò, bisogna leggere il rapporto “Buchi neri” della Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) a firma degli avvocati Federica Borlizzi e Gennaro Santoro dove vengono non solo sviscerati i problemi dal punto di vista giuridico e sanitario, ma anche economico. Basti pensare che dal 2018 a oggi lo Stato italiano ha speso 44 milioni di euro per la gestione dei dieci Centri presenti sul territorio. Sempre dal rapporto della Cild, emerge che egli ultimi anni il mercato della detenzione ha attirato le mire di vere e proprie multinazionali del settore. Come Gepsa e Ors, che gestiscono i Cpr di Torino, Macomer e a breve anche quello Ponte Galeria, ma nel corso degli anni hanno avuto appalti anche per Cara, Cas ed ex Cie in diverse regioni italiane. Le loro società madri, Engie Francia e Gruppo Ors con sedi rispettivamente in Francia e Svizzera, sono affermate a livello europeo: la prima fornisce servizi ausiliari in 22 strutture penitenziarie transalpine, la seconda è titolare di centri di accoglienza e trattenimento in Svizzera, Germania, Austria e Italia. Il Cpr romano di Ponte Galeria in mano al gruppo Ors - Per comprendere il fenomeno, bisogna analizzare il caso singolo. Ovvero il cpr romano di Ponte Galeria. La Colazione Italiana Libertà e Diritti civili (Cild), questo mese ha pubblicato un rapporto specifico dove rivela che, a dicembre scorso, ad aggiudicarsi la gara d’appalto è Ors Italia srl, ma non è dato sapere il ribasso proposto sul prezzo a base dell’asta (7 milioni di euro), non essendo stata la relativa offerta pubblicata sul sito della Prefettura. Ma la Cild spiega che si sa per certo chi sia questa nuova società che ha preso la gestione del Centro. Infatti, il Gruppo ORS è una società, con sede a Zurigo, attiva da più di 30 anni nei settori dell’accoglienza e della detenzione amministrativa dei migranti in tutta Europa. Secondo l’ultima relazione aziendale del 2020, il Gruppo ORS, che conta 1.300 dipendenti, gestisce strutture di accoglienza e trattenimento in 4 Paesi europei: Svizzera, Germania, Austria, Italia. Ma pesa il fatto che Il Gruppo è stato al centro di inchieste giornalistiche che hanno tentato di comprendere chi vi fosse dietro la società: ORS Holding risulta, come si legge nel rapporto di Cild, infatti, “partecipata per intero dalla OXZ Holding (OX Group) di Zurigo. Il gruppo è stato acquisito nel 2013 da un fondo di private equity controllato dalla londinese “Equistone Partners”, uno spin- off della banca Barclays, attivo dal 2011”. La denuncia di Amnesty - Sempre la Cild, rivela che nel 2015 ORS è stata oggetto di un Rapporto di Amnesty International che ha denunciato le condizioni inumane di accoglienza dei migranti nel Centro austriaco di Traiskirchen: “Progettato per 1.800 persone, era arrivato a ospitare 4.600. La logica, in quel centro come in tutte le strutture gestite da ORS, sembra essere sempre la stessa: taglio dei costi e massimizzazione del profitto con “risparmi” su visite sanitarie, corsi di formazione, penuria di cibo, qualità degli alloggi”. Non solo. Nel 2018 l’Ong “Droit de Rester” denuncia la cattiva gestione da parte di ORS delle strutture di accoglienza di Friburgo. Come già detto, In Italia ORS è attiva dal 22 agosto 2018. Dopo un periodo di inattività, nel 2019 si è aggiudicata diversi appalti per la gestione di Centri di accoglienza in Friuli Venezia Giulia e Sardegna. Rispetto all’isola sarda, ORS Italia ottiene, dal gennaio 2020, la gestione del CPR di Macomer e, nel marzo dello stesso anno, anche l’affidamento del controverso CAS di Monastir. A riguardo, il deputato Erasmo Palazzotto, in una interrogazione al Ministro dell’Interno, aveva evidenziato come “si pone il grande dubbio di come sia possibile, per una società a responsabilità limitata sostanzialmente inattiva, superare i requisiti di concreta esperienza ed essere ritenuta idonea alla gestione di grandi centri di accoglienza. Il timore dell’interrogante è che ci si trovi di fronte a una società che si avvarrebbe solo e totalmente della casa madre svizzera senza possedere mezzi e personale proprio con le qualifiche e l’esperienza richieste dai relativi bandi, consentendo che sul futuro di tali centri possano mettere le mani delle realtà discutibili interessate solo al profitto a discapito di migranti e contribuenti”. Oramai il Gruppo ORS, sembra essere entrato a pieno titolo nel business della detenzione amministrativa italiana. Non a caso, nell’arco di pochi mesi, si è aggiudicato non solo la gestione del Centro di Roma- Ponte Galeria ma anche, nel febbraio 2022, quella del CPR di Torino, peraltro con un ribasso rispetto al prezzo d’asta addirittura dell’11%. La questione delle sezioni femminili - Ma la Cild denuncia che le novità della nuova gestione del Cpr di Ponte Galeria non sono finite. Infatti, con la nuova gara d’appalto del 2021: da un lato, si riduce drasticamente la capienza massima del Centro, che passa da 250 a 120 posti; dall’altra sembra non essere più presente la sezione “femminile” nel Cpr di Ponte Galeria. Si tratta di una eventualità che, se fosse confermata, comporterebbe il fatto che, in Italia, nessuna donna potrebbe essere trattenuta nei Cpr, essendo quello di Ponte Galeria l’unico con la sezione femminile attiva. Notizia che - secondo la Cild - sarebbe da accogliere con favore se ciò significasse che nessuna straniera sia più soggetta a rimpatrio. In caso contrario, il rischio che si pone è che le cittadine straniere siano, in attesa dell’espulsione, trattenute nelle controverse “strutture idonee presso la disponibilità dell’Autorità di Pubblica Sicurezza” e/ o in “locali idonei presso gli Uffici di frontiera” (art. 13, comma 5 bis del TUI, come modificato dal d. l. n. 113/ 2018). Il report denuncia che si tratta di una prospettiva pericolosissima posto che, come evidenziato dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, la normativa non stabilisce le condizioni di trattenimento presso tali “locali idonei” e non è dato sapere neanche l’esatta ubicazione di tali strutture. La Cild sottolinea che “la triste storia della detenzione amministrativa delle donne nei Centri di trattenimento ci parla di privazioni della libertà spesso illegittime, avvenute a danno di cittadine straniere vittime di tratta e di violenza”. Storie che, spesso, hanno preso una direzione diversa dal rimpatrio solo grazie all’attività delle associazioni della società civile, tra tutte la Cooperativa “Be Free” che, per anni, ha prestato assistenza nel Cpr di Ponte Galeria. Il Viminale: 622 beni confiscati alle mafie per l’accoglienza dei profughi di Edoardo Izzo La Stampa, 26 marzo 2022 Lamorgese: “È un’iniziativa che intende ampliare il numero degli immobili disponibili per i profughi ucraini, prevedendo anche la possibilità di finanziare rapidamente, gli interventi necessari per adeguarli alle nuove esigenze”. Sono 622 i beni confiscati alle mafie disponibili per dare ospitalità ai profughi ucraini arrivati in Italia. Lo fa sapere il Viminale. Si tratta di 234 tra strutture abitative e ricettive che l’Agenzia nazionale per i beni confiscati alla criminalità organizzata assegnerà in comodato gratuito e temporaneo alla prefettura del luogo in cui si trovano per l’esclusivo scopo di accoglienza dei profughi. In più ci sono altri 388 immobili confiscati già trasferiti agli enti locali e non ancora utilizzati, individuati dalle prefetture e dagli stessi comuni, potenzialmente fruibili per le finalità di accoglienza, che l’Agenzia metterà a disposizione. Questa mattina, infatti, è stato sottoscritto il protocollo d’intesa per l’utilizzo dei beni confiscati alla criminalità organizzata ai fini dell’accoglienza dei profughi provenienti dall’Ucraina. L’obiettivo, fa sapere il Viminale sul suo sito, è quello di mettere a disposizione di prefetture e Comuni, in via temporanea e straordinaria, le strutture non ancora destinate e nella diretta gestione della Agenzia per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata e quelle già trasferite agli enti locali e non ancora utilizzate. “Si tratta di una iniziativa - ha dichiarato il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese - che intende ampliare il numero degli immobili disponibili per i profughi ucraini, prevedendo anche la possibilità di finanziare rapidamente, nell’ambito dei progetti europei Pon/Poc Legalità e Fami, gli interventi necessari per adeguarli alle nuove esigenze. È massimo l’impegno del ministero dell’Interno per dare risposte concrete alle persone più fragili, come donne e bambini”, ha aggiunto la titolare del Viminale, sottolineando come “il ricorso ai beni confiscati assuma anche un forte valore simbolico in quanto patrimoni sottratti al circuito criminale saranno destinati a chi sfugge dal teatro di guerra, valorizzando le finalità sociali proprie del loro riutilizzo”. Il protocollo assegna al Dipartimento per le libertà civili e per l’immigrazione del ministero dell’Interno il raccordo con le prefetture interessate dall’attuazione dell’intesa attraverso l’adozione di specifiche linee guida. L’Agenzia nazionale svolgerà un duplice compito. Da un lato, provvederà all’assegnazione dei beni in gestione in comodato gratuito e temporaneo alla prefettura del luogo in cui si trovano per l’esclusivo scopo di accoglienza dei profughi ucraini. Dall’altro, metterà a disposizione l’elenco degli immobili confiscati già trasferiti agli enti locali e non ancora utilizzati, individuati dalle prefetture e dagli stessi comuni, potenzialmente fruibili per le finalità di accoglienza dei profughi ucraini anche nell’ambito delle forme di accoglienza diffusa. L’Autorità di gestione del Pon/Poc ‘Legalità’ e l’Autorità responsabile del Fami (Fondo asilo migrazione e integrazione) metteranno a disposizione risorse per la realizzazione degli interventi sugli immobili per rendere possibile la loro destinazione all’accoglienza dei profughi. Fondamentale, sottolinea il Viminale, “il ruolo dell’Anci che svolgerà una attività di impulso ed informazione nei riguardi dei comuni interessati anche sulla possibilità accedere ai suddetti finanziamenti per far fronte alle eventuali esigenze di allestimento ed efficientamento dei beni”. Crimini di guerra e Corte penale, la doppia morale dei diritti umani di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 26 marzo 2022 Le grandi potenze l’hanno paralizzata. Russia e la Cina se ne sono tenute ben lontane. Peggio gli Usa: non hanno aderito e con accordi bilaterali hanno “salvato” i loro militari. Sui diritti umani governa la doppia morale, che a volte si fa persino tripla. Era il 17 luglio del 1998 quando a Roma, in forma solenne, veniva firmato lo Statuto della Corte Penale Internazionale, di cui tanto si parla in questi giorni a proposito di Putin. Quella data concludeva un percorso lungo cinquant’anni durante il quale si era stratificato, consolidandosi, il diritto internazionale dei diritti umani. Il 10 dicembre del 1948, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, veniva firmata la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Quella Dichiarazione aveva l’ambizione di essere la Grundnorm messa a fondamento di un ordinamento giuridico internazionale che avrebbe dovuto porre limiti alla voracità belligena degli Stati. Da un lato gli Stati sovrani, anche quelli democratici, legittimavano sulla base della propria intangibile sovranità segregazioni razziali, torture di Stato, internamenti di massa, disuguaglianze giuridiche e sociali, guerre ai poveri, ai migranti e aggressioni ad altri paesi. Dall’altro si andava fortunatamente formando, seppur in modo frammentato, un ordinamento giuridico sovranazionale, con l’obiettivo di porre limiti all’infinita e violenta sovranità degli Stati. Il passaggio dal simbolico al materiale nella protezione dei diritti umani si concretizzò nel 1998 quando venne aperto alla firma degli Stati lo Statuto istitutivo della Corte Penale Internazionale. Si ruppe il tabù dell’impunità dei criminali di guerra, dando vita a una Corte internazionale - che a differenza delle precedenti Corti ad hoc, nate dopo i fatti che dovevano giudicare, per i crimini di guerra in ex Jugoslavia e Rwanda - avrebbe potuto perseguire gli autori di crimini contro l’umanità, genocidio, tortura, crimini di guerra o di aggressione nel rispetto del principio di legalità. Nel mentre stesso stava avvenendo un fatto giuridico epocale di rilevanza straordinaria, purtroppo già si assaporava un altro clima che pian piano avrebbe condotto alla rivincita degli Stati sovrani i quali non hanno inteso cedere irrimediabilmente i propri spazi alla giurisdizione universale dei diritti umani. Hanno temuto che la persecuzione penale sovra-nazionale delle massicce e più gravi violazioni dei diritti umani potesse mettere in discussione il fondamento belligeno dello Stato moderno ossia la sovranità. La sovranità è un problema. Lo affermava Kelsen. Lo scrivevano Freud ed Einstein in un meraviglioso carteggio contro la guerra del 1932. La Corte Penale Internazionale nasce pertanto a seguito di un Trattato internazionale. Vincola i Paesi che lo firmano e ratificano. Può operare solo per fatti commessi nei territori di paesi parte della Convenzione o nei casi di responsabilità dello Stato firmatario. L’Italia aderì alla Corte pochi anni dopo, anche se ci metterà più tempo per adeguare i propri codici. Come detto, però, la giustizia penale è sempre stata considerata questione attinente alla sovranità intangibile degli Stati. Le grandi potenze negli anni successivi, parzialmente riuscendoci, hanno cercato di paralizzare la Corte Penale Internazionale. Lo hanno fatto esplicitamente, senza vergognarsene. La Russia e la Cina se ne sono tenute ben lontane. Myanmar, Egitto, Corea del Nord si sono sottratte a priori al giudizio non firmando lo Statuto. Tra i 123 Stati non c’è L’Ucraina che però ha firmato lo Statuto e chiesto l’attivazione della Corte per crimini commessi durante la guerra del 2014. Gli Stati Uniti non solo non hanno aderito ma hanno fatto qualcosa in più, palesemente destabilizzante: hanno promosso accordi bilaterali con alcuni Stati alleati per neutralizzarne l’impatto ed evitare conseguenze per i loro militari impegnati nelle missioni internazionali. L’amministrazione Trump giunse ad emettere un proprio ordine esecutivo - poi revocato da Biden - che prevedeva il divieto di ingresso negli Stati Uniti nonchè sanzioni economiche per il personale giudiziario della Corte. Obiettivo polemico era in particolare la giudice del Gambia Fatou Bensouda che si era permessa di indagare sulle denunce di crimini commessi da soldati statunitensi in Afghanistan dal 2003. Le prove c’erano, la collaborazione giudiziaria americana no. Trattasi della stessa procuratrice che stava indagando sulle torture e i crimini commessi in Crimea. Se oggi la Corte è depotenziata nella sua azione di giustizia, lo si deve anche alle responsabilità di chi non ha voluto farla funzionare. Fino ad oggi la Corte penale internazionale si è occupata di trenta casi e ha emesso trentacinque ordini di arresto che hanno portato alla detenzione di diciassette persone. Tra i tredici latitanti, dal 2009, vi è Omar Hassan Ahmad Al Bashir, per decenni presidente e dittatore del Sudan. e ancora in attesa di essere consegnato dalle autorità sudanesi. *L’autore è presidente di Antigone Contro la catastrofe, i doveri della comunità internazionale di Luigi Ferrajoli Il Manifesto, 26 marzo 2022 Crisi ucraina. Il vero aiuto ai civili ucraini bombardati non è l’invio di armi - prolunga il conflitto e le stragi - ma la partecipazione alla trattativa Kiev-Mosca delle potenze occidentali a cominciare dagli Stati Uniti. C’è una grande ipocrisia alla base delle politiche del nostro governo e degli altri governi europei e del dibattito pubblico sulla guerra di aggressione della Russia e sulla solidarietà all’Ucraina. Tutti sanno, ma tutti fanno finta di non sapere che dietro questa guerra, della quale l’Ucraina è soltanto una vittima, il vero scontro è tra la Russia di Vladimir Putin e i Paesi della Nato. Sono perciò gli Stati Uniti e le potenze europee che dovrebbero trattare la pace, o quanto meno affiancare l’Ucraina nelle trattative, anziché lasciarla a trattare da sola con il suo aggressore. Sarebbe questo il vero atto di solidarietà dell’Occidente nei confronti del popolo ucraino. Il vero aiuto alla popolazione ucraina, bombardata e massacrata ormai da un mese, non è l’invio di armi, che ha il solo effetto di prolungare il conflitto e le stragi, bensì la partecipazione alla trattativa delle grandi potenze occidentali a cominciare dagli Stati Uniti. Sarebbe questo il vero sostegno all’Ucraina: il raggiungimento dell’immediata cessazione dell’aggressione e, a tal fine, un negoziato con la Russia che veda, a fianco dell’Ucraina, i Paesi membri dell’Alleanza atlantica, dotati di ben altra forza e di ben maggiore capacità di pressione. A questi fini non servono gli insulti a Putin, che rischiano solo di rendere ancora più difficile il negoziato o peggio, trattandosi di un autocrate irresponsabile, di provocarlo e di indurlo ad allargare il conflitto, fino a farlo precipitare in una terza guerra mondiale nucleare. Ancora meno serve - anzi è benzina sul fuoco - la corsa alle armi degli Stati europei, dal riarmo della Germania all’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil deciso dall’Italia e da altri Stati europei: “pazzi”, li ha chiamati papa Francesco, dichiarando di essersi per loro “vergognato”. Serve, al contrario, che le maggiori potenze - Stati Uniti ed Unione europea in peimo luogo - affrontino il pericolo di un allargamento incontrollato della guerra e si assumano la responsabilità di fare di tutto per ristabilire quanto prima la pace. Per questo la sede appropriata della trattativa dovrebbe essere non già una sconosciuta località della Bielorussia, ma l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Per due ragioni. In primo luogo perché le Nazioni Unite sono l’organizzazione la cui finalità istituzionale, come dice l’articolo 1 del suo statuto, è mantenere la pace e conseguire con mezzi pacifici la soluzione delle controversie internazionali. In secondo luogo perché nel Consiglio di Sicurezza siedono, come membri permanenti, tutti i Paesi dotati di armamenti nucleari, esattamente le potenze che hanno la forza e il potere per trattare la pace: la Russia, gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna e la Cina. La trattativa si svolgerebbe così sotto gli occhi dell’intera umanità, all’interno di un’istituzione che ha per ragione sociale il conseguimento della pace e i cui organi, a tal fine, ben potrebbero essere convocati in seduta permanente fino a quando non riusciranno a porre termine alla guerra. Potrebbe uscirne non solo la fine dell’aggressione all’Ucraina, ma anche una seria riflessione sul pericolo, mai così grave, dell’olocausto nucleare che sta correndo il genere umano e quindi la decisione razionale di riprendere il progressivo disarmo atomico del mondo pattuito nel 1987 da Gorbaciov e Reagan e interrotto da Trump nel 2019. L’alternativa è l’escalation della guerra, con il rischio sempre maggiore della sua deflagrazione in una guerra nucleare. Ma anche al di là di questa terrificante prospettiva, la continuazione di questa guerra, oltre a produrre massacri e devastazioni nella povera Ucraina, non potrà che far crescere e stabilizzare la logica bellica dell’amico/nemico. La decisione quasi unanime del nostro Parlamento di aumentare quasi del doppio le spese militari, la terribile decisione tedesca di finanziare con 100 miliardi di euro il proprio riarmo, il progetto di dar vita in modo più che precipitoso a un esercito europeo, l’opzione del presidente statunitense Joe Biden per il rafforzamento militare della Nato anziché per il confronto diplomatico, il compiacimento generale per la “compattezza” dell’Occidente in armi raggiunta in questa logica di guerra, la crescita dell’odio verso il popolo russo e l’informazione urlata e settaria sono tutti segni e passi di una corsa folle verso la catastrofe. È il trionfo della demagogia e dell’irresponsabilità, il cui costo è pagato oggi dal popolo ucraino e domani, se la corsa non si fermerà, dall’intera umanità e in particolare dall’Europa. È un’ingenua illusione pacifista sperare ancora in un risveglio della ragione delle potenze occidentali, animato da una vera volontà di fermare, nell’interesse di tutti, la follia di questa guerra? Stati Uniti. Biglietti d’auguri dalla cella, vite oltre il braccio della morte di Dale S. Recinella vaticannews.va, 26 marzo 2022 Sui media vaticani, uno dei racconti di Dale Recinella, ex avvocato della finanza di Wall Street che oggi, insieme alla moglie Susan, assiste i detenuti in Florida. A partire dal 1999, tra i miei rituali di ogni anno ci sono i pellegrinaggi, in febbraio, aprile e maggio, nei grandi discount sparsi nella campagna centro-settentrionale della Florida, da Jacksonville a Lake City, a Gainsville, a Starke. Ogni anno mi occorrono circa 1.400 biglietti augurali di San Valentino, circa 900 biglietti per la Festa della Mamma e circa 700 per la Festa del Papà. Devo darli tutti ai condannati a morte quando vado a visitarli di cella in cella. Il regolamento carcerario è rigidissimo riguardo ai biglietti augurali che i detenuti sono autorizzati a spedire. Niente materiale luccicante. Niente nastrini o altri ornamenti frivoli. Niente inserti pop-up tridimensionali o incollati. Niente plastica. Niente metallo. Niente stagnola. Niente legno. E nessun tipo di busta che non sia bianca, giallina o celestina. Il timbro a inchiostro rosso, che il Dipartimento Correzionale della Florida imprime su ogni busta che lascia il carcere per posta, deve essere molto ben visibile. Nessun biglietto a contenuto sguaiato o allusivo al sesso. Nessun biglietto con soggetti alcolici o legati al bere. Nessun biglietto con immagini di bambini piccoli. Nessun biglietto eccessivamente romantico. Ogni anno diventa sempre più difficile trovare biglietti che rispondano alle limitazioni del carcere, persino per la Festa della Mamma. E quindi, ogni anno, io vado avidamente a caccia di centinaia di biglietti augurali da mezzo dollaro nei cestoni dei supermercati economici, che scovo lungo le strade meno trafficate nelle campagne settentrionali della Florida. Tutto sta nel tempismo. Se ci si presenta solo un giorno o due dopo che i biglietti sono stati messi in vendita sugli scaffali di un particolare grande magazzino, è possibile trovarne anche otto o dodici o persino ventiquattro dello stesso tipo. È ancora vivido in me il ricordo di un momento imbarazzante, con un amico che mi accompagnava in questo pellegrinaggio da un grande magazzino all’altro. Inaspettatamente ebbi un colpo di fortuna nel reparto dei biglietti augurali di un negozio isolato. Mentre riempivo allegramente il mio cestino con decine di confezioni, ognuna da 12 biglietti, tutti adatti ai requisiti del carcere per la Festa di San Valentino, dovevo apparire un po’ come il pirata Barbanera che arraffa monete d’oro. Il mio accompagnatore mi guarda amorevolmente e mi chiede, preoccupato: “Fratello Dale, sei sicuro che tutto ciò sia spiritualmente appropriato?” Sia come sia, nulla eguaglia l’esperienza di arrivare alla cassa di un supermercato di campagna con centinaia di biglietti di auguri. “Quante madri ha?” è tra i commenti più gentili che ho ricevuto da cassieri contrariati, che devono scannerizzare il codice a barre sul retro di ciascun biglietto da mezzo dollaro. Immancabilmente, colgo questa occasione per dire che i biglietti sono per i condannati a morte della Florida, che così possono spedirli ai loro cari. Di sicuro, questo interrompe la conversazione per qualche secondo. Poi la faccenda si fa proprio interessante, e molti dei clienti abituali del supermercato si avvicinano per ascoltare. “Quindi lei è contro le vittime e a favore dei criminali!” “No.” Guardo sempre il mio interlocutore negli occhi e parlo gentilmente. “Di fatto, mi sono reso conto che tra le vittime invisibili di questi crimini orrendi ci sono spesso i familiari di chi li ha commessi. I biglietti augurali sono quindi per loro: i figli, le madri, i padri, i fratelli e le sorelle, le mogli. La maggior parte di queste persone non hanno fatto niente di male”. “In che senso sono vittime?” “Nessuno arriva in carcere da solo. Tutti portano sempre con sé i loro familiari. E quando un uomo viene condannato alla pena capitale, porta i suoi familiari nel braccio della morte”. “Però la vittima del suo crimine non potrà mandare biglietti d’auguri alla sua mamma o al suo bambino o a suo marito! Che mi dice di questo?”. “Ha ragione. E non posso porvi rimedio. Quindi, faccio il poco che posso cercando di alleviare le sofferenze delle altre vittime innocenti, quelle della famiglia del condannato”. Alcuni dipendenti mostrano indifferenza. Altri dicono semplicemente che non approvano ciò che faccio, ma che devono ugualmente accettare il mio pagamento perché hanno bisogno di lavorare. Qualche commessa mi ha gettato addosso i biglietti e si è rifiutata di farmi uscire con gli acquisti. Una volta una dipendente lasciò la cassa, dopo aver detto al direttore che o io me ne andavo subito o se ne andava lei. Non ho dubbi che reazioni emotive così forti affondino le radici nell’orrenda perdita di una persona cara a causa di un crimine violento. La nostra società non ci prova nemmeno a imparare come confortare coloro che hanno subito una perdita così terribile. Ci sono dipendenti che si stupiscono all’idea che i condannati a morte abbiano dei familiari e delle persone care. Sembrano scossi da questa idea, e poi accettano di buon grado di scannerizzare i biglietti di auguri. Molte volte ogni anno, mentre esco dal supermercato trasportando le mie borse fino al parcheggio, qualcuno mi si avvicina alle spalle. Un uomo, una signora anziana, una coppia di coniugi. Parlano sempre a voce bassa e con cautela, come se far uscire le parole costasse loro un grande sforzo. Nostro figlio è in prigione… Il mio papà è in prigione… Mio fratello è in prigione… Mio nonno è in prigione… Mia madre è in prigione… Nostra figlia è in prigione… Nostro nipote è in prigione… segue un sospiro che viene dal cuore: “Grazie”. In Florida è permesso dal febbraio 1999, ai volontari che assistono pastoralmente i detenuti, distribuire ai condannati a morte i biglietti per San Valentino, per la Festa della Mamma e per la Festa del Papà. Dobbiamo superare i controlli mostrandoli nei nostri sacchetti di plastica trasparente. Se anche un solo biglietto si rivelerà contenente materiale non autorizzato, la guardia che ci ha lasciato passare dovrà cercarsi un altro lavoro il giorno stesso. Ogni esame dei biglietti è molto accurato e spesso capita che i contenitori di plastica con i biglietti vengano perquisiti più volte: al cancello d’ingresso del carcere, alla cappella, all’ingresso dell’edificio con il braccio della morte, all’ingresso dei singoli corridoi, e in qualsiasi posto tra uno e l’altro di questi ingressi. Il primo anno in cui portai i biglietti per San Valentino ai condannati a morte, avevo scelto biglietti di forma diversa con buste di misure diverse, e tutto era ben suddiviso in ordine nei miei contenitori. Quando arrivai all’edificio del braccio della morte per iniziare la distribuzione passando davanti a ogni cella, il contenuto dei miei sacchetti era stato mescolato e rivoltato. Molti detenuti si lamentarono che il biglietto ricevuto non entrava nella busta o che la busta era troppo grande per il biglietto. Quando tornai due mesi dopo con i biglietti per la Festa della Mamma, tutti i biglietti e le buste erano della stessa misura. Per sopravvivere in carcere bisogna adattarsi, perché il carcere non si adatta a noi. Tra i miei compiti, in qualità di cappellano cattolico nel braccio della morte in Florida, c’è quello di rendermi disponibile per incontri pastorali individuali con i condannati. Non sono mai io ad avviare questi incontri. Solitamente iniziano su richiesta del detenuto. In casi rari, può anche essere richiesto dalle guardie e dal personale che cercano onestamente di migliorare le condizioni di un particolare detenuto. Ad esempio, in un’occasione, le guardie sono molto preoccupate per un prigioniero che ha sofferto da poco per la morte di alcuni cari amici e di alcuni familiari. Il personale teme che possa essere depresso al punto di tentare il suicidio. Le guardie hanno l’incarico di stare alla sua porta (definizione carceraria per indicare la sorveglianza anti-suicidio). Ad ogni cambio di turno del personale, la nuova guardia incaricata siede al posto della precedente su una sedia pieghevole davanti alla cella. Mi chiedono di avere con lui un incontro pastorale. Accetto, a condizione che il detenuto venga di sua volontà. Lui è d’accordo. Le guardie lo scortano, in catene e ammanettato, dalla cella fino alla stanza dei colloqui e lì ci rinchiudono insieme. Il detenuto e io stiamo seduti tranquillamente ai lati opposti del tavolo mentre lui mi squadra. Mi conosce perché faccio il giro davanti a tutte le celle e sa che da anni gli porto i biglietti augurali da inviare a sua mamma e a sua sorella. “Grazie per tutti i biglietti natalizi e per San valentino e per la Festa della Mamma che mi hai portato in questi anni.” “Non c’è di che. Spero che abbiano procurato un sorriso a tua mamma e a tua sorella.” Lui liquida la mia risposta formale e va al sodo. “Guarda che non sono uno del tuo gregge!”, il suo tono è irritato e sdegnoso. “Lo so.” Annuisco sorridendo. “E allora cosa cavolo vuoi da me?” “Ci sono molte persone qui che si preoccupano per te. Mi hanno chiesto di incontrarti.” “Ok, questo è il motivo per cui facciamo questo incontro, ma tu non hai risposto alla mia domanda. Cosa vuoi tu da me?” “Voglio convincerti che la tua vita è un dono di Dio, e che persino qui dentro la tua vita è un dono di grande valore.” “Cosa?” mi lancia un’occhiataccia roteando gli occhi. “Scu—u—u—u—u—sa? Credevo che fossi un cristiano, ma devo essermi sbagliato!”. “No, nessun errore. Sono un cristiano cattolico.” “Voi cristiani siete quelli che vogliono uccidermi!” Le manette producono un tonfo monotono mentre le sue mani colpiscono il tavolo, a puntualizzare le sue parole. “Voi cristiani siete quelli che insistono a volere la pena di morte! E tu hai il coraggio di venire qui a dirmi che la mia vita è un dono? Che genere di ipocrita cristiano sei?” “Tocca a me adesso?” gli chiedo dopo aver lasciato sbollire la carica di energia negativa della sua tirata. “Dai, sentiamo”, sbuffa sprezzante. “Sono proprio curioso!” “Non tutti i cristiani sono favorevoli alla pena di morte. Di fatto la stragrande maggioranza non lo è. Ma siamo in un paese, e in una particolare area del paese, dove molti cristiani credono erroneamente che questa pratica sia voluta da Dio”. “Questo sarebbe lo stesso Dio di cui tu vorresti parlarmi?”, dice, mentre finge di allungare lo sguardo verso il corridoio, come se volesse che le guardie ponessero fine a questo incontro inutile. “Questo Dio di cui vuoi parlarmi pensa che la mia vita sia un dono?” “Non posso parlare per gli altri”. Scrollo le spalle cercando di mostrare tutta l’innocenza che posso, considerate le circostanze. “Posso solo parlarti del Dio che io conosco. E il Dio che io conosco è compassionevole all’ennesima potenza. Lui considera la tua vita preziosa, e non vuole la morte di un peccatore”. “Ah, allora adesso sono un peccatore, vero?” Non riesco a capire se la sua irritazione è reale o simulata. Finge di nuovo di cercare liberazione e salvezza dalle guardie nel corridoio, ma questa volta sta sorridendo, certo per provocarmi un po’. “Non preoccuparti”, mi metto a ridere. “Benvenuto nel club. Anch’io sono un peccatore.” “E allora, cappellano peccatore, taglia corto e parla chiaro. Cosa vuoi tu da me?” “Voglio convincerti che la tua vita è un dono di Dio, e che persino qui dentro la tua vita è un dono di grande valore”. Scrolla il capo e lo abbassa sul piano del tavolo come se fosse disperato, come se stessimo sprecando il tempo. “Quindi questa è la tua storia e non ti ci smuovi, eh?”. “Di fatto, questa è la storia di Dio, e Lui non la cambia”. “Di questo Dio che tu conosci”. La sua enfasi è molto sarcastica. “Sì, del Dio che io conosco”. “Beh, non sperarci troppo. Non intendo pregare con te, e non intendo leggere il tuo stupido libro che tutti voi cristiani citate per uccidermi.” “Vuoi dire che ‘alcuni cristiani’ citano per ucciderti, vero?”. “Certo, se lo dici tu”. “Quindi questo significa che ti piacerebbe incontrarmi con regolarità?”. “Non direi che mi piacerebbe. Ma va bene”. Nel corso dei tre anni successivi, quest’uomo è stato battezzato (io e mia moglie siamo stati suoi padrino e madrina), e ha ricevuto la Comunione regolarmente. È morto da poco per cause naturali nell’ospedale del carcere, dopo aver ricevuto l’unzione degli infermi dal sacerdote che assiste i condannati a morte.