Ergastolo ostativo, attenzione all’illusionismo della politica di Carcere Possibile Onlus Il Riformista, 25 marzo 2022 “Se la Corte Costituzionale sostiene che la liberazione condizionale e la rieducazione devono poter essere concesse a tutti, perfino agli ergastolani mafiosi che non collaborano con la giustizia, allora dobbiamo fare in modo che nessuno possa ottenerle”. È il “ragionamento” che è evidentemente prevalso in Commissione giustizia ed in ragione del quale i nostri deputati, invece di risolvere i profili di incostituzionalità della disciplina dell’ergastolo ostativo, riescono, deliberatamente, ad aggravarli. In effetti il concetto di “giustizia” sembra poco chiaro all’omonima Commissione, presieduta da un esponente di quel Movimento 5 stelle che quotidianamente prende pubblicamente le dovute distanze da coloro che si sono distinti per aver assunto posizioni “garantiste”, ergo rigorosamente conformi al dettato costituzionale, al punto da farne motivo di doglianza in occasione della recente nomina di Carlo Renoldi quale capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. A nulla sono valse anche le parole del presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia che, nel corso delle audizioni parlamentari, aveva rappresentato che non si può gravare il detenuto non collaborante, proprio per un profilo costituzionale, dell’onere di provare l’assenza dell’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata... l’onere della prova non grava mai sul soggetto, semmai sull’autorità pubblica, ma non sul privato, sull’indagato, sull’imputato e sul condannato. Il testo di legge proposto al Parlamento prevede esattamente il contrario, ovvero che deve essere l’ergastolano a fornire le prove della mancanza di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. L’obiettivo di impedire agli ergastolani di fuoriuscire dal carcere si introduce nel sistema normativo prevedendo che sia l’ergastolano a doversi “dare da fare”, a compiere, dal carcere e nonostante il carcere, tutti gli accertamenti utili a dimostrare di essersi “scollegato” dal mondo mafioso. Un onere non solo incostituzionale ma evidentemente diabolico: provare che non esiste un fatto (il collegamento con la criminalità organizzata). Un illusionismo! L’ergastolano che non ha collaborato con la giustizia è costretto così ad avventurarsi in una “missione impossibile”: fare “l’investigatore dal carcere”. Certo il tempo per apprendere il nuovo lavoro ed acquisirne le competenze non gli manca: gli vengono infatti concessi ben 30 anni! Eh già, perché il distintivo di detective non viene rilasciato subito. La nuova e “promettente” professione potrà avere inizio solo dopo 30 anni di detenzione. Un’eternità non lunga abbastanza. Un tempo “infinito” per prepararsi ad una sorta di gioco le cui chances di vittoria sono, però, quasi illusorie, (e chi ha inventato il gioco dell’investigatore in carcere lo sa bene); come quelle al Superenalotto dove, però, lo Stato vince, mentre, in questo gioco, lo Stato (quello di diritto) finisce inesorabilmente sconfitto. Una politica che crede fermamente nell’impossibilità dell’essere umano di redimersi è lontana anni luce dalla nostra Costituzione, che pure i nostri politici giurano di osservare lealmente. Non ci resta che confidare che a questo gioco di illusionismo non voglia mai partecipare la Corte Costituzionale che l’11 maggio 2022 non potrà che prendere atto di aver perso un anno per emettere quella sentenza demolitoria che, purtroppo, non emise nell’aprile 2021, risolvendo allora quel “problema strutturale” che la Corte EDU, nella sentenza Viola contro Italia, ha affermato esistere nell’ordinamento italiano. La soluzione non può concedere cedimenti. Passa dalla consapevolezza dell’intangibilità, non solo in diritto ma anche in fatto, dei principi costituzionali posti a tutela della dignità della persona e della finalità rieducativa della pena, che non possono essere disconosciuti a nessuno, neppure all’autore di reati gravissimi. Una consapevolezza che evidentemente non appartiene al nostro attuale Legislatore che, dopo mesi di gestazione, ha partorito non una soluzione ma un’amplificazione del problema (eliminando finanche l’istituto della collaborazione impossibile o inesigibile), pur di perseguire il suo obiettivo: “Se la possibilità di uscire dal carcere devono poterla avere tutti, anche gli ergastolani, allora non dovrà averla nessuno”. No, Barbano: sei tu a bocciare senza appello chi tiene insieme sicurezza e umanità della pena di Walter Verini Il Dubbio, 25 marzo 2022 Invidio molto le certezze granitiche di Alessandro Barbano, le sue sentenze inappellabili e definitive nei confronti delle mie posizioni (del Pd) sul delicato tema dell’ergastolo ostativo. Altro che presunzione di non colpevolezza! Sentenza già scritta. Capi d’accusa? “Fariseismo di partito”, “capitolazione all’egemonia forcaiola”, “barattare la solidarietà per un pugno di voti”. Eppure l’intervento di Barbano è ospitato da un giornale che nella testata reca queste due parole: “Il Dubbio”. Categoria, predisposizione d’animo e di pensiero di cui non c’è traccia, però, nell’articolo. Che qualche risposta e confutazione, naturalmente, merita. Un primo dubbio glielo instillo subito. Scrive Barbano: “È singolare che su quest’esito (riforma dell’ergastolo ostativo, ndr) convergano tutti i partiti, compresi Italia Viva e Forza Italia, cioè le forze politiche (a suo dire, ndr) più sensibili alla difesa dei diritti e delle garanzie”. Ora, è vero che non sempre le maggioranze hanno avuto e hanno ragione, ma il fatto che tutti i gruppi (di diversa e perfino opposta ispirazione) si siano ritrovati su una proposta di sintesi e mediazione non lascia - almeno - il dubbio di essere magari nella condizione di quel signore che si trova ad imboccare contromano l’autostrada imprecando perché tutti gli altri procedono contromano? Nello scritto si distingue tra coloro che stanno all’ergastolo ostativo in quanto boss di mafia e “tanti altri”. Bene: per i “tanti altri” che non sono boss di mafia, non dovrebbe essere un problema soddisfare le condizioni poste dalla riforma, non avendo avuto e non avendo legami con la criminalità mafiosa. Per quanto riguarda i boss mafiosi, è stata la Corte costituzionale stessa con la sua pronuncia a scegliere di non intervenire rimandando al Parlamento. Ciò, proprio rilevando la straordinaria delicatezza della materia in relazione alla mafia e le connessioni tra i diversi istituti che servono a prevenirla e contrastarla. Da parte della Corte, dunque, nessuna sottovalutazione ma ferma conferma della pericolosità del fenomeno. Da qui si può arrivare al punto tenuto fermo dalla Corte medesima e cioè la pericolosità in capo al mafioso che non collabori con la Giustizia. Come valutare l’attenuazione di questa pericolosità senza legarla alla collaborazione con la Giustizia (che, detto per inciso, era per Falcone l’unica condotta oggettiva apprezzabile dallo Stato essendo l’unica pienamente in grado di dimostrare la rottura avvenuta con l’organizzazione criminale)? Come valutarla, dicevamo, considerando che il vincolo con l’organizzazione mafiosa quasi sempre viene meno solo con la morte (basti riflettere sul fatto che Cosa nostra attese la morte di Riina per cercare un nuovo capo, benché Riina abbia trascorso in carcere, senza mai collaborare, gli ultimi 25 anni)? La proposta che arriva all’esame dell’aula, sulla quale ha lavorato un Comitato ristretto in cui per il Pd stava un parlamentare capace come l’Avvocato Miceli, ha individuato una risposta non perfetta, ma che cerca di andare in una direzione equilibrata e coerente con quanto stabilito dalla Corte. Mi riferisco alla prova (a carico del detenuto che chiede l’accesso ai benefici) che proprio quei legami siano venuti meno e che non sia possibile ripristinarli. È davvero una “prova diabolica” come la definisce Barbano? La Commissione, nella sostanziale unanimità, ha ritenuto possa essere una richiesta verificabile e ragionevole che attiene all’universo criminale e sociale dal quale il soggetto proviene. In cambio della libertà, non sarà impossibile dimostrare che gli antichi sodali- complici non ci sono più, perché a loro volta detenuti o morti o pentiti, perché l’organizzazione è stata smantellata e così via. Sarebbe al contrario curioso pensare che la Corte abbia voluto spingere il Legislatore in un’altra direzione: quella di smontare gli argini di un fiume, faticosamente eretti a seguito di una devastante alluvione, con l’argomento che ormai non piove più come una volta. Argomento (ostativo a parte) in sé molto pericoloso: perché le mafie sparano meno, ma penetrano di più. Nelle istituzioni, nella finanza e nell’economia, nei sistemi di welfare che organizzano laddove lo Stato è assente, nelle acquisizioni di proprietà, azionariati di imprese in crisi, riciclando capitali illeciti e così via. Tentando di accaparrarsi lavori pubblici di oggi e di domani. Per questo apro una parentesi: bene semplificare e velocizzare, ma ciò non può avvenire a scapito di trasparenza e legalità. Tutte queste cose devono stare insieme. Non mi pare, inoltre, che la riforma travolga il concetto di collaborazione impossibile introdotto nel 2014, che anzi sopravvive e continua a definire un percorso ulteriore di superamento della ostatività. La riforma, del resto, riguarda coloro che non hanno collaborato e la cui collaborazione non era impossibile. Certo, coltivando io il dubbio, non ho affatto la certezza che questa riforma sia la migliore possibile. Ma dovevamo e dobbiamo tenere insieme due esigenze sociali e costituzionali. Il principio civile del rispetto fondamentale della pena senza trattamenti degradanti e disumani, come recupero e reinserimento, con la sicurezza dei cittadini, della società. Insieme, non in antitesi. Per questo il testo che probabilmente si approverà a breve alla Camera tiene conto di diverse problematiche, comprese quelle legate ad uno stretto rapporto tra magistrati e Tribunali di sorveglianza con le strutture dell’ordinamento giudiziario preposte al contrasto delle mafie. Queste possono contribuire a fornire elementi importanti circa il permanere o meno di legami associativi. Su una cosa sono d’accordo con l’articolo di Barbano: qualsiasi persona, dopo tanti anni, non è la stessa che commise un reato, anche il più grave. Per questo sono un convinto sostenitore di una politica dell’ordinamento penitenziario molto legata all’articolo 27 della Costituzione. Nel mio piccolo cerco anche di praticare questa linea in Parlamento e visitando gli Istituti. Anche con gesti simbolici, come l’ormai pluriennale iscrizione a “Nessuno Tocchi Caino”. O avendo fatto approvare nell’ultimo Milleproroghe un emendamento a mia firma per evitare che i detenuti in semilibertà dai tempi dell’esplosione di Covid nelle carceri tornassero - a fine mese - a dormire in cella dopo la giornata di lavoro esterno. Per questo ho salutato e difeso l’indicazione prima e la nomina poi di Carlo Renoldi a Capo del Dap. Anche quando altre forze sparavano contro. Nelle carceri ci vuole una radicale ventata di cambiamento. Investire in umanità, lo ripeto, significa non solo rispetto della Costituzione ma anche della sicurezza della società. Chi, dopo una pena scontata in carcere, esce rieducato, difficilmente torna a delinquere. Insomma, su questi temi occorrono, a mio giudizio, radicalità di principi e concretezza possibile e realistica delle soluzioni. Personalmente ho votato in Commissione la proposta sull’ostativo del relatore (significativamente diversa dall’originale testo base) per questi motivi e perché convinto dal lavoro dei nostri rappresentanti nel Comitato ristretto. Ma devo dire che al mio convincimento hanno contribuito anche audizioni di personalità di notevole spessore. Anche qualche Procuratore (non tutti) o ex- Procuratori. Barbano li definisce “militanti”. Quelli che conosco io li ho visti militare contro il terrorismo, le mafie, la criminalità organizzata. Non tutto quello che dicono o scrivono si può e si deve condividere. Ma, quelli che conosco io (per quello che vale, ho stimato il lavoro degli Spataro, dei Caselli e stimo quello di Cafiero de Raho) più sono stati o sono autorevoli nel loro lavoro più in genere sono equilibrati e non portatori di posizioni estremizzanti. La violenza non è mai lecita, ecco perché il carcere va abolito di Diego Mazzola Il Riformista, 25 marzo 2022 Nel ventennale della nascita di “A buon diritto”, la benemerita associazione che si occupa di privazione della libertà, di diritti umani e civili, ritorno sulla abolizione del carcere su cui il suo presidente e fondatore, Luigi Manconi, ha scritto anche su questa pagina di Nessuno tocchi Caino parole illuminanti. “Non è una provocazione né un palpito profetico. È, invece, un programma politico e una strategia normativa. Abolire il carcere significa, cioè, lavorare affinché costituisca davvero l’extrema ratio.” Il carcere è il luogo fisico e strutturato nel quale l’individuo e i suoi diritti vengono programmaticamente ignorati e calpestati, nella presunzione che la punizione, la vendetta di Stato e l’annichilimento della personalità siano le cure necessarie affinché il detenuto possa “redimersi” e in qualche modo “espiare” per le sue colpe. Ma possiamo ancora parlare di “extrema ratio”? Noi per primi non dovremmo accettare che una “ratio” ci sia, ancorché estrema, nella violenza di Stato, come in quella di nessuno che faccia parte della società. Non esistono violenze lecite o “democraticamente e liberalmente” procurate a terzi, nemmeno quelle date in base alla Ragion di Stato. Per le tante e quotidiane constatazioni del fallimento del Sistema Penale, non solo nel nostro Paese, l’unica certezza della e nella pena è quella che indusse Altiero Spinelli a dichiarare, già nel 1949 sulla rivista Il ponte: “Più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale”. Le sbarre sono l’elemento comune che connota sia la vita di detenuti per fatti-reato sia quella dei malati di mente più poveri e senza famiglia. Dopo la chiusura dei manicomi giudiziari, detenuti e malati di mente sono stati concentrati nello stesso luogo: il carcere. Una illiberale e violenta filosofia delle sbarre continua a occupare la mente del legislatore, a orientarla sempre e comunque al più spietato livello di segregazione che lo Stato autoritario sia riuscito a ordire nei confronti dei devianti dall’ordine costituito, mentale e sociale. Il 98% dei detenuti sono “poveri cristi” ovvero coloro che - come ci ricordava il Cardinale Martini - noi consideriamo “colpevoli della loro stessa indigenza”. A questo proposito posso solo ricordare i successi delle cosiddette “Borse lavoro” di cui hanno potuto usufruire sia i detenuti che i numerosi malati di mente in alcune regioni che le hanno istituite. L’idea di trasformare i luoghi di segregazione in Centri per l’Impiego potrebbe essere il primo suggerimento da dare al legislatore per ridurre drasticamente il numero dei detenuti. Come pure, devo ricordare che in Paesi come la Spagna, il Portogallo e la Svizzera, nei quali lo “spaccio” è sempre considerato “reato”, con la distribuzione gratuita e sotto rigido controllo medico di eroina e cocaina si sono potuti chiudere non pochi istituti carcerari. E con i “cattivi” come la mettiamo? Posso sommessamente ricordare che i “cattivi” non esistono, come ci dicono la moderna psichiatria e le scienze sociali, e che sono da ricercare in quello scarso 2% delle persone oggi private della libertà: sociopatici violenti e pochi altri pericolosi per sé e per gli altri. Per loro saranno necessari anni di cura del comportamento e di conoscenza delle regole di un vivere civile e nonviolento, che mai potranno essere dati in un luogo nel quale viene soffocata ogni più piccola manifestazione della dignità personale. Sì, perché questo è ciò che il carcere è, così come titanico è il tentativo di voler portare il Diritto nelle carceri. Il solo risultato sarebbe quello di carcerare il Diritto. Ecco perché dobbiamo cominciare a introdurre mattoncini di nonviolenza attiva nella costruzione del Patto Sociale, se vogliamo un mondo migliore, nel quale confidare nella relazione con l’altro. E questo può accadere solo se cominciamo a radere al suolo i luoghi - innanzitutto mentali - della segregazione di Stato e, con una vera Riforma del Codice Rocco, a mandare in soffitta il modello di giudizio retributivo/punitivo. Lo Stato deve difendere il cittadino, ma non lo può “punire”. Sappiamo bene che la legalità non coincide con il Diritto, così come conosciamo i costi di un procedimento giudiziario, la sua straordinaria lentezza. Ma il costo maggiore sta nel vizio di origine di un sistema di giudizio fondato sul paradigma meccanicista di azione e reazione, sulla aberrante logica per cui alla violenza e al dolore del delitto debbano corrispondere una violenza e un dolore eguale e contrario, quello del castigo. Se questo è vero, è dimostrata tutta la necessità di “difenderci dal processo”, visto quanto ci costa e quanto poco risponda alla suprema istanza di umanità nella giustizia. Valgano, ancora una volta, le parole del cardinal Martini: “Qualsiasi pena [afflittiva] ha la distretta della pena di morte e della tortura, e il pensiero di affliggere un altro essere umano è intollerabile e perverso”. Le polemiche su Renoldi? “Stucchevoli, sono contro la retorica e la burocrazia dell’antimafia” di Angela Stella Il Riformista, 25 marzo 2022 Parla Luigi Manconi, fondatore di A Buon Diritto, l’associazione per la tutela dei diritti umani che compie vent’anni e domani li celebra con un evento e una mostra al Maxxi di Roma. A Buon Diritto, la Onlus per i diritti umani fondata da Luigi Manconi e diretta da Valentina Calderone, compie vent’anni e li celebra domani presso il MAXXI di Roma. Ci saranno artisti e personalità del mondo della cultura, attivisti e rappresentanti delle istituzioni: i messaggi di Roberto Fico e Liliana Segre e del presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche italiane Daniele Garrone, e Valerio Mastandrea e Valentina Carnelutti; e poi Jorit, Cinzia Leone, Makkox, Alessandro Bergonzoni, Sergio Staino, Ascanio Celestini e tanti altri e altre. Inoltre il 22 maggio in libreria arriva una nuova edizione di Abolire il carcere, scritto da Manconi con Stefano Anastasia, Federica Resta e la stessa Valentina Calderone. Presidente Manconi, mercoledì sul Riformista abbiamo pubblicato uno stralcio dell’introduzione di Stefano Ceccanti al volume I cristiani e la pace di Emmanuel Mounier, secondo cui “Non esiste diritto che non sia stato plasmato da una forza, che non si sostenga senza una forza”. È d’accordo? Sono incondizionatamente d’accordo. E vorrei introdurre una ulteriore distinzione che è quella tra il pacifismo profetico e quello politico. Chiunque operi nella sfera pubblica, in qualunque ruolo, - sia un giornalista, un parlamentare, un militante politico o un volontario di un’associazione di soccorso - agisce nel mondo e quindi deve tener conto delle contraddizioni che il mondo rivela e che la politica deve ricomporre. In questo senso non ci sono categorie che possano essere interpretate in maniera integralista. Senza tener conto della loro finitezza e del fatto che devono misurarsi con la scarsità delle risorse, con l’asprezza delle condizioni materiali di vita e con la violenza del male. E questo impone mediazioni e compromessi. Poi c’è il pacifismo profetico che annuncia una utopia, un messaggio di largo respiro, una visione. Io ho bisogno di questo pacifismo per ricordarmi i fini della mia azione, che tuttavia sono diversi dalla profezia. L’azione politica non può essere mai indifferente alle conseguenze degli atti che si compiono e di quelli che si omettono. Deve essere sempre responsabile. E allora io pacifista vado in Ucraina: porto aiuti umanitari, soccorro i bambini e gli anziani, assisto le donne, curo i feriti. Fatto questo devo convincere i contendenti a trattare e promuovere occasioni di confronto e di scambio tra i popoli. Compio così il mio dovere di pacifista. Poi, però, arriva un soldato russo che alza la sua spada per colpire quella donna, quel bambino, quel vecchio. E io come reagirò? Credo che, per essere coerente con le premesse, dovrò fare tutto il possibile, come so e come posso, per rendere inoffensivo l’aggressore. Fino a ucciderlo, se non ci sono altre possibilità. Con la vostra associazione vi occupate anche di migranti e richiedenti asilo. In questi giorni qualche commentatore ha sollevato la polemica: “E allora lo Yemen?”, “E allora la Siria?”. Esistono guerre e profughi di serie A e di serie B? L’Ucraina è collocata nel cuore dell’Europa, al centro della sua storia e della sua cultura. E quindi è comprensibile che si avvertano quelle persone come più prossime a noi. Questo è il primo dato. Ovviamente c’è dell’altro: altre guerre e altri milioni di profughi, li sentiamo lontani perché effettivamente lo sono: persone con un colore della pelle diverso e con un’identità estranea e sconosciuta. Se da questo si ricava una teoria e una politica che privilegiano un gruppo etnico a scapito di un altro, siamo di fronte a una manifestazione di xenofobia. A Buon Diritto si occupa, tra le tante cose, del tema carcere. Il capo del Dap Carlo Renoldi si è insediato due giorni fa. Tra poco verrà approvata una legge sull’ergastolo ostativo. Ma la polemica che accomuna questi due eventi è la stessa: chi vuole un carcere più umano è nemico dell’antimafia... Mi sembra una polemica tanto vecchia da risultare stucchevole. Io, per esempio, non sono contro una durissima lotta alla criminalità organizzata, figuriamoci, ma sono contro la retorica dell’antimafia e la burocrazia dell’antimafia, nel senso che tutti i fenomeni, compresi i più nobili, tra cui appunto il contrasto alle mafie, possono produrre escrescenze. Ci sono ottimi magistrati, alcuni dei quali indulgono in quei vizi, altri che pur essendo assai competenti talvolta compiono errori. Ma criticare le responsabilità dei magistrati e alcune tendenze culturali regressive non vuol dire mica delegittimarli. Tra le vostre battaglie ricordiamo quelle contro gli abusi a opera delle forze di polizia. Proprio poco fa si è aperto un processo a carico di un carabiniere accusato di abuso di autorità contro arrestati o detenuti, avendo bendato all’interno della sua caserma uno dei due americani accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Cerciello Rega. Dagli atti sono emerse chat dei colleghi: ‘Ammazzateli di botte - fategli fare la fine di Cucchi”... Intanto il 7 aprile ci sarà la sentenza relativa ai depistaggi per la morte di Stefano Cucchi. Non è la prima volta che il suo nome viene evocato come una minaccia per persone che si trovano in stato di fermo. È un segnale terrificante che all’interno degli apparati dello Stato possa ancora circolare un certo senso comune. Ignoro se riguardi una gran parte dei membri dei corpi di polizia o solo una piccola minoranza, ma è indubbio che quell’umore sia diffuso e si riproduca. Quello che per una parte dell’opinione pubblica è stato l’accertamento della verità su un gravissimo caso di abuso contro un fermato, è vissuto e rivendicato da parte di alcuni militari, come un modello di giustizia esemplare. E ciò perché all’interno dei corpi di polizia, continua a mancare uno spirito costituzionale e una formazione culturale e legale adeguata all’educazione di coloro che sono chiamati tutori dell’ordine e detengono il monopolio legittimo della forza. Ultima domanda: si discute in questi giorni del ritardo dell’approdo in Aula della riforma del Csm. Secondo lei la politica è ancora subalterna alla magistratura o è cambiato qualcosa? È cambiato tantissimo ma temo non abbastanza. Non c’è solo un fattore di subalternità psicologica, ma anche il peso di culture politiche che giocano un ruolo negativo. Culture antigarantiste e illiberali che impediscono una seria riforma dell’ergastolo ostativo, una ulteriore limitazione del ricorso alla custodia cautelare, la separazione delle carriere tra magistratura requirente e magistratura giudicante. Posso aggiungere una cosa? Prego... Tutto quello che ha fatto A Buon Diritto non sarebbe stato possibile senza la direttrice Valentina Calderone. Lavora con me da più di quindici anni, mentre io ne combinavo in giro di tutti i colori (senatore, ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, scrivevo libri e articoli…) lei ostinatamente e pazientemente ha guidato con grande ingegno l’associazione. “Mio marito fu ucciso dieci anni fa: ora in suo nome aiuto i detenuti” di Simona Lorenzetti Sette - Corriere della Sera, 25 marzo 2022 Angelica Musy, madre di quattro figlie, non ha mai capito perché Alberto, professore universitario e politico, sia stato ammazzato: “Vado avanti anche per lui, sono padrona della mia vita”. Primo giorno di primavera del 2012. L’aria è pungente, il sole illumina i tetti e si fa strada attraverso i vetri delle case e le ombre della città. L’orologio segna le 7.50, un uomo cammina nel centro di Torino. Indossa un casco nero da motociclista e un trench scuro, legato al braccio ha un pacco. Il primo avvistamento è in corso Siccardi, poi sembra sparire agli occhi di chi incrocia nella sua inquietante passeggiata. Alla stessa ora Alberto Musy esce di casa, in via Barbaroux 35, per accompagnare le tre figlie a scuola. Alle 8.00 l’uomo con il casco riappare in via Stampatori mentre svolta proprio in via Barbaroux: si ferma al 35. Suona al citofono: “C’è un pacco”. Il portone di quel palazzo storico incastrato in una scacchiera di viuzze dal pavimento in porfido si apre. Tre minuti dopo quel trillo, Musy torna indietro, forse ha dimenticato il tablet. Non si sa, non si saprà mai. Quando entra nell’angusto androne nota qualcuno armeggiare vicino al cancelletto che conduce alle cantine: “Cosa sta facendo?”. L’uomo con il casco si volta e spara con una calibro 38: lo colpisce al braccio destro e alla schiena, di striscio alla testa. L’attentatore si allontana come un fantasma. Angelica Musy è in cucina con la baby-sitter e la bambina di un anno. È ancora in pigiama, sorseggia un caffè e legge i giornali. Le urla dei vicini che soccorrono il marito attirano la sua attenzione. “Fu una mattina strampalata, più volte ci ho pensato. Subito non capii la gravità di quanto accaduto. Sono scesa in cortile: Alberto era cosciente, mi parlava. Disse “Ange, mi hanno sparato”. Angelica affida il marito alle cure di un vicino e va a dare istruzioni alla tata. “Tornai giù con una boccetta di acqua ossigenata. A ripensarci oggi mi rendo conto di quanto fu sproporzionata e ridicola la mia reazione”. Alberto poco dopo perde conoscenza: “Era tutto talmente lontano da noi, che pensai “bene che si riposi”. Non si sveglierà più. E il 22 ottobre 2013 muore, dopo un anno e mezzo di coma. Sono trascorsi dieci anni dall’agguato. Musy era un avvocato, un professore universitario, un politico: aveva una vita specchiata. Le indagini della polizia scandagliano ogni meandro della sua attività professionale e pubblica: screzi, delusioni, piccole gelosie. Fino a quando non affiora la sagoma di un uomo ambiguo. Nel gennaio 2013 viene arrestato Francesco Furchì: un ragioniere nato in provincia di Vibo Valentia 62 anni fa e poi approdato a Torino. Il pm Roberto Furlan lo descrive così: “È un giano bifronte che alterna la spendita di effettive conoscenze con le millanterie più grossolane, sovrapponendo atteggiamenti eleganti i e forbiti a condotte prepotenti e arroganti”. Angelica ha 52 anni e non vive più in quel palazzo: “Era necessario dare un taglio. Era diventato meta di personaggi strani, c’erano persino medium che mi scrivevano. C’è stato un momento in cui ho pensato che sarebbe stato meglio lasciare Torino. Ma questa città dormiente, a volte depressa, in realtà mi ha mostrato molto affetto. Una donna che non conosco mi ha spedito un certificato: aveva piantato un albero nel giardino dei Giusti a Gerusalemme, in nome di mio marito. La sera della sentenza mi arrivò un mazzo di fiori, il mittente era “una nonna”. Schiva e riservata, Angelica è lontana dalla retorica degli anniversari: “Dieci anni... Mi sembra tutto così lontano, eppure è un pensiero sempre vivo. Mi concentro sui bei ricordi, ne abbiamo tanti. Alberto era un uomo sempre positivo che sapeva guardare al futuro con ottimismo. Aveva una visione lucida delle cose, mi confrontavo molto con lui”, racconta. Il gatto Keto struscia la coda contro il divano per poi sparire silenzioso. Un imponente quadro che ritrae un avo della famiglia incombe con sguardo austero. “La vita non è mai semplice. Si può provare a governarla. Ma se un uomo decide di armarsi e di commettere un crimine non posso mettermi al suo posto. Posso però stare vicino alle mie figlie e ricordare mio marito in modo corretto”. Con l’Ufficio Pio di Compagnia di San Paolo ha creato il fondo Angelica e Alberto Musy. “In questo progetto c’è l’essenza dei principi di mio marito. Lui era un visionario, una persona positiva, capace di guardare oltre le difficoltà del momento. Era il mio affaccio sul mondo reale”. In fondo concede borse di studio ai detenuti che frequentano in carcere il polo universitario e quello informatico: ne sono state elargite venticinque. “Chi ne ha goduto non è tornato al crimine. Diamo loro la possibilità di lasciarsi alle spalle un contesto difficile e affrancare la propria vita con lo studio e il lavoro. Ai miei occhi, il vero risarcimento è rimettere in strada una persona recuperata. I detenuti non mi fanno pensare a chi ha aggredito mio marito, ma a persone che, se si mettono in gioco, ce la possono fare. È questo lo scopo che deve ricercare una vittima. Certo non credo succederà con il nostro detenuto”. Furchì sta scontando l’ergastolo. Nei tre processi ha sempre sostenuto di essere “un capro espiatorio” per “appagare la sete di giustizia della città”. Ma per i Tribunali non ci sono dubbi. È lui l’uomo ripreso dalle telecamere di una pizzeria sotto casa della vittima: corrispondono la corporatura e pure il suo incedere claudicante. E poi ci sono le celle telefoniche e lo smartphone rimasto misteriosamente spento per tre ore. Il faccendiere calabrese avrebbe ucciso per odio, rancore e vendetta. Tre volte - dicono le sentenze - si è sentito tradito da Musy, che avrebbe disatteso le sue aspettative: la negata candidatura nel 2011 alla guida della lista Alleanza per la Città, il mancato appoggio per la ricerca di investitori per rilevare la società di trasporto ferroviario Arenaways e, in ultimo, non aver sponsorizzato il figlio di un ex ministro a una cattedra all’Università di Palermo. Lui ha sempre negato ed è questo l’unico tassello che manca alla storia. “Non so se la confessione o le scuse possano cambiare qualcosa. Con il tempo ho smesso di farmi queste domande. La giustizia riparativa fa un gran bene alle vittime e ai colpevoli: penso sempre alle vedove Calabresi e Pinelli che si sono incontrate. Ma per noi questo non è possibile”. Non c’è rancore nella sua voce. “Non lo odio, non odio nessuno. E soprattutto non è una persona come Furchì che decide il mio stato d’animo. Sono una persona estremamente libera e padrona della mia vita. A me piacerebbe fare un percorso, non è l’incontro con lui che conta. Ma non ha mai chiesto il mio perdono. Se lo avesse fatto ci sarebbe stato spazio, ma così non è. Per me è chiaro che ha fatto un errore enorme ed è lui che dovrà portarne il peso”. A maggio un concerto di Vinicio Capossela al Teatro Regio di Torino ricorderà il decennale dell’attentato. “Serve a raccogliere donazioni per il fondo. Non sono la vedova a cui occorre una targa per ricordare il marito. Lui è sempre con noi, con quella sua visione ottimista del mondo che mi ha trasmesso e che voglio far conoscere alle mie figlie”. L’irresistibile ipocrisia (per alcuni) della mancanza di risorse: aspettando i referendum di Desi Bruno * Ristretti Orizzonti, 25 marzo 2022 A fronte del continuo aumento delle morti in carcere pochi si sentono di rifiutare la litania della necessità di aumentare le risorse destinata ai penitenziari, dato di per sé incontestabile ma di certo non sufficiente. È ben vero che qualunque legge, soprattutto se in gran positiva, come l’ordinamento penitenziario vigente, necessità di strumenti efficaci di attuazione. Il ricorso alle misure alternative sconta la carenza di lavoro, di abitazioni, l’irrisolto tema dell’immigrazione, la carenza di organici anche e a volte soprattutto nella magistratura di sorveglianza, nei ruoli degli operatori penitenziari (medici, educatori, agenti). i tempi della giustizia, ecc. Da decenni lo diciamo in tanti. Ma certo è che continua ad imperare l’idea del carcere come strumento necessario di sanzione principale. E così restano le preclusioni normative alle misure alternative, il sovraffollamento, l’inutilità del tempo trascorso nel nulla, almeno ancora per tanti. Aumenta il disagio psichico, dentro i luoghi di reclusione, anche tra gli operatori, come purtroppo anche fuori. E così si susseguono commissioni ad hoc, i cui componenti esprimono il meglio della cultura in ambito penitenziario, ma che devono ripartire dagli Stati generali dell’esecuzione penale del Ministro Orlando, meritevole sforzo di cambiamento normativo quanto infruttuosa operazione di studio e predisposizione di progetti di cambiamento. Il carcere, nonostante i cambiamenti effettuati, anche per gli interventi della Corte Costituzionale, resta lì, attraversato e martoriato anche dalla pandemia, sconosciuto a molti, anche tra i legislatori. La presenza ormai da anni di figure di garanzia di monitoraggio delle condizioni di vita detentive non ha sortito ancora del tutto l’effetto sperato ed è un sistema alla ricerca di una fisionomia che metta insieme autonomia, indipendenza, competenza, uniformità di intervento in sintonia con la figura del garante nazionale. Il grande progetto della ministra della giustizia di inserire davvero la mediazione penale nel nostro sistema sconta l’assenza di un diverso approccio valoriale della comunità. Il carcere come ed extrema ratio, utilizzabile di fronte ad un reale pericolo di reiterazione di condotte violente, efferate, oggi spesso concentrate contro le donne, resta un’utopia. La riduzione della custodia cautelare in fase di indagine, pur in parte avvenuta, ha bisogno di uno sforzo culturale e di coraggio. Ha bisogno di una nuova cultura della giurisdizione e della pena. Vedremo se la stagione dei referendum rilancerà queste battaglie, tra cui da quello della separazione delle carriere, fondamenta di un processo più giusto. Intanto la carenza di organici, a qualunque livello, diventa la panacea di tutte le disfunzioni per chi nulla vuole cambiare, ed un dramma per chi davvero ha a cuore questi temi. *Avvocato, già Garante dei detenuti del Comune di Bologna e della Regione Emilia Romagna Università in carcere: salgono i numeri degli studenti iscritti. Siglato protocollo con il Cnupp gnewsonline.it, 25 marzo 2022 Aumentano gli studenti universitari in carcere. Sono infatti 1.246 gli iscritti in questo anno accademico 2021-2022, esattamente 212 in più rispetto all’anno precedente. Un trend in crescita anche rispetto agli anni prima in cui gli iscritti erano 1034 (AA 2020/21), 920 (AA 2019/20) e 796 (AA 2018/19). Questo secondo i dati del Cnupp (Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari), diffusi in occasione della sottoscrizione del Protocollo di intesa con il Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità (già precedentemente sottoscritto con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria) firmato dalla ministra Marta Cartabia, alla presenza del presidente della Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari, Franco Prina e del capo dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, Gemma Tuccillo. La scelta dei corsi è di tipo triennale (1071 iscritti), subito dopo si collocano gli studi magistrali (150 iscritti) e solo 25 nel post-laurea. L’ambito di studi riguarda quasi esclusivamente materie umanistiche dove su tutte prevale l’area politico/sociale, seguita dal settore artistico letterario e da quello giuridico. Analizzando nel dettaglio il trend, il numero degli iscritti che scontano una pena detentiva è pari a 1.114 di cui in media sicurezza 626 e 449 in alta sicurezza e 33 sottoposti al regime di 41 bis e 6 in IPM (Istituti penali per minorenni). Il numero degli iscritti in misure alternative o in esecuzione penale esterna o a fine pena invece è pari a 132. Sono 91 gli istituti penitenziari coinvolti (9 in più rispetto allo scorso anno) e 34 le Università aderenti al Cnupp a cui se ne aggiungeranno presto ulteriori sette. E grazie al Protocollo sottoscritto con Dgmc (Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità) sarà possibile indirizzare giovani e adulti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria di esecuzione penale esterna ad un corso di laurea. Attraverso Open day, inoltre, sarà possibile entrare in istituti penali minorili per affiancare i ragazzi nella scelta di un corso di laurea, offrendo loro una seconda possibilità. La riforma del Csm slitta, manca la mediazione sul testo di Giulia Merlo Il Domani, 25 marzo 2022 La riforma doveva arrivare in aula a Montecitorio il 28 di marzo ma il presidente della commissione, Mario Perantoni, ha la nuova data: l’11 aprile. Il tempo, però, è sempre più stretto: la riforma va approvata entro metà maggio, in modo da rispettare la richiesta del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di eleggere con la nuova legge il prossimo Csm. Cartabia ha aperto a ragionare su tutta la riforma, ma con tre paletti su emendamenti che “sollevano dubbi costituzionali”: il sorteggio temperato per eleggere il Csm, la responsabilità civile diretta dei magistrati e il divieto dei parlamentari di diventare membri togati del Csm. L’iter di approvazione della riforma dell’ordinamento giudiziario era iniziato in salita e in salita sta continuando. Gli emendamenti del governo in commissione Giustizia alla Camera sono stati sommersi da subemendamenti dei partiti, che pure avevano votato a favore del testo all’unanimità in consiglio dei ministri. L’esito quasi scontato, in seguito a un incontro tra governo e maggioranza, è stato quello di un ulteriore slittamento. La riforma doveva arrivare in aula a Montecitorio il 28 di marzo ma il presidente della commissione, Mario Perantoni, ha la nuova data: l’11 aprile, per dare il tempo al governo di fornire un parere sui 250 sub emendamenti e per prendere in considerazione anche il parere molto critico arrivato dal Consiglio superiore della magistratura, secondo cui la riforma mette a repentaglio l’indipendenza delle toghe. Il tempo, però, è sempre più stretto: la riforma va approvata entro metà maggio, in modo da rispettare la richiesta del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di eleggere con la nuova legge il prossimo Csm. Rispettare l’impegno però non è facile e il governo sta valutando tutte le possibilità. Tra queste, anche quella di ritornare indietro sulla scelta di non mettere la fiducia sul ddl. Il premier, Mario Draghi, aveva spiegato la decisione con il fatto di non voler tarpare iniziative parlamentari su un disegno di legge così rilevante nei rapporti tra poteri dello stato. Tuttavia, aveva anche chiesto la massima collaborazione ai partiti, soprattutto dopo il sì unanime in cdm, anticipando che in caso di impasse la fiducia sarebbe stata necessaria. L’obiettivo della ministra della Giustizia Marta Cartabia è di non arrivare a questo punto di rottura e ha già fissato numerose riunioni. Nella prima, a cui ha preso parte il sottosegretario Francesco Paolo Sisto, si è iniziato a discutere del ruolo dell’avvocatura nei consigli giudiziari e sui giudizi di valutazione per la progressione di carriera dei magistrati, ma il lavoro è iniziato in salita e nessuna sintesi è stata raggiunta. Tutto aggiornato a lunedì, quando sarà presente di persona la ministra e si cercherà una sintesi che sembra difficilissima. L’ipotesi è anche di collaborare già ora anche con la commissione Giustizia del Senato, in modo che anche l’altro ramo del parlamento possa partecipare alla fase emendativa ma in contemporanea con la Camera, in modo da garantire poi un rapido passaggio a palazzo Madama. I tre no del ministero - In quest’ottica, Cartabia ha dato un’apertura di massima a ragionare su tutte le parti della riforma oggetto di critica. Con tre paletti, però, su emendamenti che “sollevano dubbi costituzionali”: il sorteggio temperato per eleggere il Csm (voluto dal centrodestra e da Iv), la responsabilità civile diretta dei magistrati (Azione, con aperture del centrodestra) e il divieto dei parlamentari di diventare membri togati del Csm (M5S). Il tema più delicato su cui difficilmente il centrodestra cederà è quello del sorteggio temperato: la legge elettorale è il punto controverso della riforma, che da subito ha diviso sia la magistratura al suo interno che la politica ed è stata il vero punto controverso che ha ritardato l’arrivo degli emendamenti ministeriali in commissione. L’ennesimo intoppo alla riforma, tuttavia, testimonia come la riforma dell’ordinamento giudiziario - ancor più di riforme sostanziali come quella del penale e del civile - sta toccando corde profonde. Oltre allo scontro parlamentare, infatti, le resistenze maggiori vengono dalla magistratura stessa, che nel parere del Csm ha contestato più parti del testo, in particolare quella in cui si prevede il voto dei componenti laici nella valutazione dei magistrati. L’orientamento sia del ministero che del governo è quello di rispettare l’impegno preso con Mattarella, ma la corsa contro il tempo rischia di provocare un effetto: quello di annacquare la riforma pur di approvarla. Tre altolà del governo sulla riforma del Csm, sì alle funzioni separate di Errico Novi Il Dubbio, 25 marzo 2022 Erano troppi, 700 emendamenti. Troppi per una legge già complicatissima come la riforma del Csm. Ma quell’exploit irrazionale con cui i partiti, nelle scorse settimane, hanno travolto il maxiemendamento Cartabia al teso base, deve fare i conti anche con un altro aspetto: i punti davvero suscettibili di interesse, per i le forze politiche, si contano sulle dita delle mani. Lo si è capito dalla discussione andata avanti ieri alla Camera fra i capigruppo Giustizia della maggioranza. Ora le modifiche andranno definite anche con un’alchimia che lasci un trofeo ciascuno ai gruppi parlamentari presenti in commissione. E poi, la seconda riunione celebrata ieri sulla riforma, a ventiquattr’ore dal summit del giorno prima con Marta Cartabia, ha ridotto le partite del torneo anche in virtù di un chiarimento: il governo non lascerà passare modifiche che tendessero a introdurre la responsabilità diretta dei giudici, il divieto di eleggere al Csm laici provenienti dal Parlamento e il “sorteggio temperato” per scegliere i togati. “Sono tre ipotesi che il ministero considera non condivisibili perché viziate da profili di incostituzionalità”, ha chiarito Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia che ieri ha rappresentato via Arenula, visto che la guardasigilli era a L’Aja per il vertice alla Corte penale. Messaggio chiaro, da incrociare con l’altro consegnato mercoledì, al primo vertice, dal ministro ai Rapporti col Parlamento Federico D’Incà: “Non è escluso che si arrivi alla fiducia”. E non ci vuole molto per capire che l’esecutivo blinderebbe in Aula la riforma del Csm a maggior ragione qualora la commissione Giustizia della Camera approvasse a maggioranza anche una soltanto delle tre modifiche ritenute contrarie alla Carta. D’altronde, sempre mercoledì, Cartabia aveva confermato la minacciosa prospettiva prospettata da D’Incà. Sisto ieri ha precisato il discorso. Quindi, a meno di voler perdere tempo (l’approdo in Aula è ancora slittato, dal 28 marzo all’ 11 aprile), è inevitabile che i tre punti critici vengano esclusi dal tavolo. “È inevitabile perché è chiaro che se la maggioranza si approvasse qualcuna delle modifiche considerate incostituzionali da Cartabia, e divisive per la maggioranza, per esempio il sorteggio, la riforma finirebbe in un naufragio”, spiega al Dubbio il capogruppo Pd in commissione Giustizia Alfredo Bazoli. “Con un risultato paradossale: anziché modificare l’ordinamento giudiziario e rimediare alle sue più gravi distorsioni, finiremmo per perpetuarlo con una mancata riforma”. E però è chiaro pure come, in un quadro simile, non sia semplice contenere il disappunto dei partiti favorevoli alle tre proposte “bandite”. Ad esempio Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione, che vede così seppellita la sua idea di utilizzare il ddl sul Csm per recuperare la responsabilità dei magistrati non ammessa a referendum. Non saranno entusiasti neppure i 5 Stelle, che confidavano di ripristinare il testo Bonafede nella parte in cui sbarrava ai politici le porte di Palazzo dei Marescialli. Resterà delusa Forza Italia, che teneva al sorteggio. Ma proprio considerato che ci sono ancora altre partite aperte sulle quali, ha chiarito Sisto, “il governo non opporrà pregiudiziali alla libera scelta del Parlamento”, almeno qualcuna di quelle opportunità dovrà concretizzarsi. Lo si capirà in dettaglio lunedì, quando il conclave di maggioranza sulla giustizia tornerà a riunirsi, stavolta anche alla presenza di Cartabia. Potrebbe passare, per esempio, la richiesta 5 Stelle di impedire il rientro nella giurisdizione anche alle toghe cooptate come capi di gabinetto nei ministeri. Altrettanto probabile che si intervenga ancora sul sistema delle pagelle, con quei giudizi per i magistrati promossi alle valutazioni di professionalità e articolati in “discreto”, “buono” e “ottimo”. Senza rinunciare alla graduazione, l’azzurro Pierantonio Zanettin propone che per chi riporti un giudizio non positivo si modifichi l’attuale prospettiva di una “dispensa”, cioè del licenziamento, alla seconda bocciatura. Dettaglio che, spiega l’ex laico Csm, è all’origine di quel 99 per cento di promozioni attualmente partorito dal Csm. E c’è, soprattutto, uno spazio aperto sulla separazione delle funzioni. “Culturalmente non la considero un tabù, tutt’altro”, dice lo stesso Bazoli. È un punto caldo su cui il governo non mette paletti, la maggioranza orientata a impedire del tutto i passaggi da giudice a pm già c’è (a prescindere dal Pd): per rendere ecumenica la scelta si potrebbero trovare formule originali. Sempre Sisto ha spiegato ai delegati giustizia la modifica di matrice ministeriale in arrivo sui Consigli giudiziari: “Il voto degli avvocati sarà esplicitamente connotato, nella norma, come espressione dell’intero Ordine forense, e in più potrà essere anche positivo, diversamente da quanto avverrebbe, nei fatti, con la formulazione proposta nell’ultimo testo”. Di sicuro l’apertura al Foro non sarà cancellata, come invece reclamava il parere approvato dal Csm mercoledì scorso. Novità possibili anche su ulteriori limitazioni per i fuori ruolo e sui criteri per nominare i capi degli uffici. “Come ha spiegato il premier Draghi, l’obiettivo è parlamentarizzare l’esame della riforma”, ha ribadito ieri Sisto. C’è uno spazio per portare ancora a casa vittorie politiche. Non sconfinato, ma c’è. Ermini boccia la riforma Cartabia: decisivo il suo voto nel Csm di Paolo Comi Il Riformista, 25 marzo 2022 Nel plenum era finita 13 a 13 tra laici e togati. Il no del vicepresidente vale il doppio. Muro contro muro tra Consiglio superiore della magistratura e governo. Mario Serio: “Non ci sono precedenti”. Il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini (Pd) ha indossato questa settimana la toga da pm ed ha bocciato la proposta di riforma di Marta Cartabia. Il voto sul parere sulla riforma era finito 13 a 13 in Plenum. Ma valendo doppio il voto del vicepresidente, Ermini ha così affossato la tanto attesa riforma della Guardasigilli. “Ognuno ha le proprie posizioni, non entro nel merito ma il Csm è un organo di rilievo costituzionale, non si può sottrarre al principio di leale collaborazione con gli altri organi dello Stato, come il Parlamento. Ognuno ha le sue ragioni, io ho le mie ragioni per votare perché non ci possiamo sottrarre alle responsabilità che le istituzioni ci danno, io alle responsabilità non mi sottraggo”, ha detto Ermini per giustificarsi di aver votato con i pm, da sempre contrari alla riforma Cartabia, e non con i laici. “Non riesco a trovare precedenti di una contrapposizione frontale così accentuata, in materie essenziali, nel Csm”, è stato il commento del professore e avvocato Mario Serio, ex componente di Palazzo dei Marescialli. Ad essere bocciata è stata soprattutto la nuova disciplina in caso di violazioni sulla presunzione di innocenza che prevede limiti alle esternazioni dei pm. Nel frattempo la ministra ha deciso di guadagnare tempo ed ha spostato all’il aprile la presentazione del suo testo in Aula. Considerati i tempi strettissimi è probabile che venga messa la fiducia. Uno smacco, un altro, per il premier Mario Draghi, che aveva detto di volere il dibattito in Parlamento su temi così delicati. Sembra proprio non trovare pace la riforma della magistratura, incardinata dal 2019 in Commissione giustizia a Montecitorio, relatori Water Verini (Pd) ed Eugenio Saitta (M5S). Fra i primi provvedimenti della Guardasigilli vi era stata anche l’istituzione di una Commissione, presieduta dal decano dei costituzionalisti, il professore romano Massimo Luciani, per elaborare un progetto complessivo di riforma del Csm. La commissione aveva consegnato la sua relazione il 31 maggio scorso, concentrandosi in particolare sulle modifiche al sistema elettorale. Archiviato il disegno Luciani, la ministra aveva dato incarico agli uffici legislativi di via Arenula di elaborare un documento che potesse essere votato da tutti. Senza, come si è visto, successo. La riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, la terza gamba del tavolo delle riforme in materia di giustizia, prevede, oltre alla riforma del sistema di elezione dei togati del Csm, modifiche alle valutazioni di professionalità dei magistrati, ai criteri per essere ottenere un incarico direttivo, al rapporto con l’avvocatura, al ruolo della Scuola superiore della magistratura. Eppure era stato l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (M5S) ad annunciare, all’indomani dello scoppio del Palamaragate, che la riforma era pronta e sarebbe stata approvata in pochi giorni. Da allora sono passati quasi tre anni e non è successo nulla. E tutto questo nonostante gli appelli del Capo dello Stato. Ma anche questa riforma della giustizia è strozzata dai veti dell’Anm di Gian Domenico Caiazza Il Dubbio, 25 marzo 2022 In Italia non esiste una politica in grado di ristrutturare liberamente l’ordinamento giudiziario: anche stavolta non si è osato incidere davvero nel timore di suscitare l’ira dei giudici. Lo spettacolo “di arte varia” che sta offrendo il percorso di riforma dell’ordinamento giudiziario basta da solo a spiegare, per chi sappia e voglia leggere la realtà senza infingimenti, a quale livello di degrado istituzionale sia giunto il nostro Paese. Abbiamo già avuto modo di ribadire in ogni sede il nostro giudizio radicalmente negativo sul merito della riforma. Gli interventi proposti sono blandi, non colgono le reali criticità del potere giudiziario e del suo esercizio, non interpretano le ragioni più profonde della grave crisi nella quale è precipitata la magistratura italiana. L’attenzione ipertrofica riservata al tema del sistema elettorale del Csm, nella illusione che la sua riforma possa assurgere a panacea di tutti i mali, costituisce l’indicatore più eclatante dell’equivoco fatale che sta sin dall’inizio fiaccando il pur generoso impegno della Ministra Cartabia. Il confronto politico nasce dunque fuori centro, smarrito come è a rincorrere alchimie elettorali, sorteggi funambolici, sofisticate dinamiche del voto preferenziale, in nome di un’assai generica (ed anche un po’ demagogica) guerra al “correntismo”. E così appare distratto sui temi invece centrali: valutazioni di professionalità del magistrato, e commistioni inconcepibili tra poteri dello Stato. Le prime, si sa, oggi semplicemente non esistono, visto che sono sempre positive al 99 e passa per cento; con le conseguenze catastrofiche che tutti possiamo constatare. Non solo il livellamento in basso della qualità professionale del magistrato, che avanza automaticamente in carriera (e stipendio) senza nessun vaglio minimamente significativo; ma soprattutto, ed innanzitutto, la sua totale deresponsabilizzazione. Inutile inseguire impraticabili responsabilità civili, se non comprendiamo che ciò che conta è invece la responsabilità professionale del magistrato, dunque un sistema che sappia premiare la qualità e sanzionare una acclarata propensione all’insuccesso delle proprie iniziative giudiziarie. È il tema centrale della crisi di credibilità della magistratura italiana: nessun magistrato risponde dei propri errori, in nessuna sede, garantito come egli è della sua comunque automatica progressione in carriera. Di fronte a questa catastrofica realtà, la riforma immagina di rispondere inserendo un voto intermedio in pagella, ed una timida, macchinosa, prudentissima introduzione della voce dell’avvocatura in quelle valutazioni. L’altra grande anomalia italica, cioè la sistematica esondazione del potere giudiziario verso quelli esecutivo e legislativo, viene appena sfiorata. Le misure volte a fermare le c.d. “porte girevoli” fanno la voce grossa su carriere politiche che, alla fine della fiera, riguardano qualche decina di magistrati in totale tra Parlamento e assessorati vari; mentre dedica assai inadeguate contromisure al vero scandalo, cioè il distacco di centinaia di magistrati verso i gangli vitali del potere esecutivo, innanzitutto in quel Ministero dal quale più di ogni altro dovrebbero rimanere lontani le mille miglia, cioè il Ministero di Giustizia, il luogo dove si decide la politica giudiziaria del Paese. Ma il cuore della questione sta nella ragione che determina questa lontananza della riforma dagli snodi reali della crisi sulla quale pretenderebbe di intervenire: la sudditanza della politica rispetto al potere giudiziario. La Politica teme il potere giudiziario, si è da decenni consegnata ad esso, consentendo l’affermarsi del principio per il quale le riforme della giustizia che una maggioranza politica democraticamente eletta, quale che essa sia, intendesse varare, devono avere il placet della magistratura italiana, e cioè della sua rappresentanza politica e del suo organo di autogoverno. Questo è il tema, inutile girarci intorno. In Parlamento ci sono forze politiche, di peso rilevantissimo, che esprimono e danno corpo a questa assurda anomalia, facendosi sottomessi portavoce del potere giudiziario, spacciando questa debacle per difesa dei valori della “Giustizia”. Il risultato è che i temi della giustizia (penale, soprattutto, com’è ovvio) sono intesi come temi rispetto ai quali la magistratura assolve compiti quasi sindacali. I temi della riforma diventano oggetto di “trattativa” con Anm e Csm, intesi come depositari, come dire, di categoria, dell’ultima parola sui temi della giustizia e dell’ordinamento giudiziario, al pari dei metalmeccanici rispetto al siderurgico. E quindi pareri, veti, trattative ad oltranza. Questo è il desolante quadro istituzionale nel quale è intrappolata la politica della giustizia nel nostro Paese. Una politica cioè sottratta alle ordinarie dinamiche democratiche, e strangolata dal potere strabordante ed illegittimo di una magistratura a cui abbiamo irresponsabilmente consegnato le chiavi di ogni possibile riforma che un qualsivoglia governo democraticamente eletto avesse la legittima ed insindacabile intenzione di proporre. Un potere che, anche nel momento della sua massima crisi, è riuscito -con il decisivo contributo di intere forze politiche e di un formidabile esercito mediatico- a scaricare sul povero Luca Palamara ogni sua magagna, esorcizzandola; ed ora, più ringalluzzita che mai, pone veti, ringhia se ti azzardi ad immaginare che l’avvocatura possa dire mezza parola sulla qualità dei magistrati con i quali si trova quotidianamente ad operare, grida querula alla “crisi di insicurezza psicologica” che colpirebbe i magistrati ove sottoposti a valutazioni professionali più stringenti; accusa minacciosa, in nome dell’antimafia, la Ministra Cartabia di avere osato almeno un po’ regolamentare gli sproloqui trionfalistici sulle “magnifiche sorti e progressive” di questa o quella retata. Tanto si sa, se qualcuno prova ad alzare la testa, ci sarà sempre qualche Procura pronta a fargli cambiare idea. Quel manipolo di procure militanti che delegittima anche i giudici di Davide Varì Il Dubbio, 25 marzo 2022 C’è un pezzo di magistratura - una “corrente” piccola ma ancora assai influente - che non si rassegna al cambiamento e vive ogni tentativo di riforma come fosse un delitto di lesa maestà; è tenacemente arroccata a difesa di una sorta di “autarchia giudiziaria” e si serve di ogni strumento per contestare e delegittimare chi faticosamente cerca di traghettare la giustizia italiana nel nuovo millennio e dentro i confini della nostra Carta; confini che più di una volta sono stati oltrepassati in nome di una non meglio precisata lotta per la legalità, la quale, però, diviene abuso se si muove violando diritti, garanzie, leggi. È una corrente trasversale che ha le sue sottosezioni di propaganda sparse tra le redazioni di vari giornali e il cui stato maggiore risiede nella sede del Fatto quotidiano, vera e propria centrale operativa di questo blocco di potere che ha individuato negli avvocati e nella ministra Cartabia i nemici pubblici numero uno. Lo ha detto bene ieri l’ex presidente dei penalisti italiani, Spigarelli: “Tutto ciò - ha spiegato al Dubbio - si iscrive in una idea della magistratura come proprietaria della macchina giudiziaria, per cui gli estranei non sono ammessi; e all’interno di una visione degradante anche della figura sociale e professionale degli avvocati”. E lo ha ribadito il consigliere laico del Csm Alessio Lanzi, che si è ritrovato quasi solo ad arginare la furia delle toghe contro la riforma: “Traspare nel parere una sfiducia, un senso di superiorità nei confronti della classe degli avvocati sia singolarmente considerati che riuniti nell’organo istituzionale di diritto pubblico che è il Coa. Si prevede che allargare agli avvocati le attività dei Consigli giudiziari determinerebbe degli scompensi, delle captatio benevolentiae, sostenendo chissà quali manovre illecite”, ha detto riferendosi al parere negativo sulla piena partecipazione degli avvocati ai Consigli giudiziari. Ma attenzione, c’è una terza categoria che da anni subisce in silenzio la passione per i media coltivata da quel pugno di procure: parliamo dei giudici. Sono proprio loro, i giudici, le “vittime collaterali” di questa guerra fredda combattuta da almeno trent’anni su giornali e tv. La smania di visibilità di alcune toghe e questa continua sbavatura istituzionale colpisce gli indagati e gli imputati, certo, ma anche chi si ritrova a dover giudicare dopo che il “tribunale del popolo” ha già trovato colpevoli e comminato pene a mezzo stampa. E qui chiamiamo in soccorso il procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero de Raho: “L’enfasi con cui certe indagini vengono rappresentate dalla stampa - ha spiegato qualche settimana fa - rischia di diffondere nell’opinione pubblica la patologia del giustizialismo, la sollecitazione a una giustizia sommaria”. E poi, ancora più esplicito: “Ed è vero che si assiste a volte al protagonismo di alcuni circoli mediatici ai quali non sono estranei gli stessi magistrati, che tendono alla costruzione di verità alternative, mediante la propalazione di elementi non sottoposti a valutazione. Non è consentito al pubblico ministero, in prossimità della sentenza, sostenere una tesi che orienti il dispositivo, o che anche indirettamente lo condizioni, preparando la folla a una decisione che, se diversa da quella ipotizzata, venga interpretata come prodotto di timori del giudice o addirittura di condizionamenti”. Insomma, è questo circolo vizioso che va spezzato. E se non volete farlo per amore di ministri riformatori e avvocati, fatelo almeno per i giudici. Grave infermità psichica del detenuto: possibile la detenzione domiciliare ilpenalista.it, 25 marzo 2022 Cass. pen., sez. I, 28 gennaio 2022 (dep. 22 febbraio 2022), n. 6300. Il Tribunale di sorveglianza di Catania rigettava l’istanza di differimento dell’esecuzione della pena per ragioni di salute nell’interesse di D.G.S, il quale stava espiando la pena di 25 anni di reclusione per omicidio e soppressione di cadavere. Secondo il giudice, infatti, sussisteva la compatibilità delle condizioni di salute del detenuto con il regime carcerario. D.G.S. ricorre in Cassazione, denunciando l’inosservanza e l’erronea applicazione degli artt. 147 c.p. e 47-ter, comma 1-ter, ord.penit., nonché la mancanza e manifesta illogicità della motivazione relativamente alla “riconosciuta sussistenza dei presupposti per il differimento facoltativo dell’esecuzione della pena”. Egli, quindi, lamenta che il Tribunale, nonostante l’evidente vulnerabilità, non ha preso in considerazioni le sue condizioni psichiche. Secondo il detenuto, inoltre, il giudice ha ingiustificatamente minimizzato le conclusioni della relazione sanitaria, posta a fondamento della decisione, secondo cui la protrazione della detenzione poteva essere pregiudizievole per le sue condizioni di salute. La doglianza è fondata. Secondo la previsione contenuta nell’art. 147, comma 1, c.p., il differimento facoltativo dell’esecuzione della pena può essere disposto nel caso in cui il condannato risulti affetto da una “grave infermità fisica” e, nella stessa ipotesi, l’art. 47-ter stabilisce che il Tribunale di sorveglianza possa applicare la detenzione domiciliare cd. “umanitaria”, nel caso in cui si debba contenere la pericolosità sociale del soggetto. Al fine di verificare l’incompatibilità tra il regime carcerario e le condizioni di salute del soggetto interessato, è necessario però, in primo luogo, appurare “la compatibilità in astratto, tenendo conto dell’inquadramento nosografico della patologia che affligge il detenuto e della sua obiettiva gravità”. In secondo luogo, bisogna accertare se la patologia possa essere adeguatamente gestita in rapporto alle caratteristiche dell’istituto o se sia possibile assicurare gli interventi diagnostico terapeutici attraverso il ricovero “in luogo esterno di cura”. In ultimo, invece, si deve valutare se il differimento dell’esecuzione possa consentire al condannato di commettere nuovi reati. Un apprezzamento, quello sul rischio di recidiva, “che deve essere a sua volta realizzato tenendo conto di un ulteriore fattore, ovvero della possibilità, contemplata dall’art. 47-ter, comma 1-ter, ord. penit., di far luogo, ricorrendo alle condizioni per il differimento, all’applicazione della detenzione domiciliare speciale”. Secondo la Suprema Corte, però, l’ordinanza impugnata si è limitata a prendere atto di alcune valutazioni espresse nella relazione sanitaria senza confrontarsi con l’intero elaborato che evidenzia alcune criticità legate allo stato di età avanzata del detenuto, elemento di particolare importanza perché considerato dall’ordinamento da solo sufficiente per l’applicazione delle norme derogatorie in tema di detenzione carceraria. Infatti, l’art 47-ter, comma 1, lett. d), ord. penit. estende la possibilità di scontare la pena, non superiore a quattro anni, in regime di detenzione domiciliare ai soggetti di età superiore a sessanta anni anche solo parzialmente inabili, intendendosi per questi ultimi gli ultrasessantenni “in condizioni psico-fisiche di decadimento, non temporaneo tali da incidere sulla concreta possibilità di svolgere le ordinarie azioni della vita quotidiana […]” (Cass. n. 33339/2021). Inoltre, secondo la Suprema Corte sono state ignorate le condizioni psichiche del detenuto, nonostante “siano da sole rilevanti, ove assumano le caratteristiche di “grave infermità psichica”, per disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 dell’art. 47-ter comma 1-ter, ord. penit.” (Corte cost. n. 99/2019). Per questi motivi, la Cassazione accoglie il ricorso. La tutela del diritto al silenzio e il reato di ostacolo alle Autorità Pubbliche di Vigilanza di Fabrizio Ventimiglia e Giorgia Conconi Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2022 Nota a sentenza: Cass. Pen., Sez. V, 1° febbraio 2022, n. 3555. Con la sentenza in commento la Cassazione si è pronunciata in tema di diritto al silenzio e obbligo di collaborazione con le autorità di vigilanza precisando che “la peculiarità della fattispecie esaminata dalla Consulta - rifiuto di rispondere a domande formulate in sede di audizione o per iscritto dalle Autorità di vigilanza - non proietta dubbi sulla legittimità costituzionale dell’art. 2638 c.c., che delinea condotte alternative di omessa comunicazione di informazioni dovute o di ricorso a mezzi fraudolenti, anche quando dalla condotta conforme potrebbero derivare elementi di prova di altro illecito”. Questa in sintesi la vicenda processuale - La Corte d’Appello di Milano riformava parzialmente la decisione di primo grado con la quale erano stati condannati due imputati, in qualità di presidente del CdA l’uno e di concorrente morale nel reato l’altro, per più ipotesi di reato, tra cui la fattispecie di omesse informazioni dovute alle autorità di vigilanza. I predetti presentavano ricorso per Cassazione, lamentando, tra i vari motivi, il vizio di motivazione in relazione al predetto reato, sostenendo che l’impugnata sentenza non avesse correttamente giustificato l’idoneità della condotta omissiva degli imputati a determinare un ostacolo alle funzioni di vigilanza ai sensi dell’art. 2638 c.c. La Suprema Corte rigetta tale motivo di ricorso ritenendolo manifestamente infondato. Nella sentenza in commento viene, infatti, precisato che ai fini della configurabilità della fattispecie di cui all’art. 2638 c.c., in quanto reato d’evento, l’elemento oggettivo può ben consistere anche nella omessa comunicazione delle informazioni dovute, come sancito dal secondo comma del medesimo articolo. Nello specifico, nella vicenda in esame i ricorrenti erano tenuti ad ottemperare all’obbligo di comunicazione alla Consob ai sensi dell’art 114 del TUF (Testo Unico della Finanza) e, disattendendolo, secondo la Corte, avevano impedito o perlomeno rallentato l’esercizio di vigilanza da parte della suddetta autorità. Una volta chiarite le ragioni sottese alla configurabilità nel caso in scrutinio del reato contestato, la Suprema Corte rileva come in relazione alla disposizione di cui all’art. 2638 c.c. non possa applicarsi il principio recentemente espresso dalla Corte Costituzionale per cui l’obbligo informativo nei confronti delle autorità di vigilanza è da ritenersi incompatibile con il diritto al silenzio della persona fisica. Nella sentenza n. 84 del 13 aprile 2021 l’art. 187 quinquiedecies del TUF veniva, infatti, dichiarato illegittimo nella parte in cui “si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Consob risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato”, in quanto in conflitto con il principio “nemo tenetur se detegere”. La citata sentenza si fondava su una decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella quale, a seguito di una questione pregiudiziale posta dalla Consulta, si era affermato che gli Stati membri sono liberi di scegliere di non sanzionare la persona fisica che non fornisca alle autorità competenti le informazioni necessarie per individuare la sussistenza di un illecito amministrativo o un reato alla stessa imputabile. Nel caso di specie, tuttavia, secondo i Giudici di legittimità, non può trovare applicazione il suddetto principio, risultando preminente l’obbligo di dichiarare all’Agenzia delle Entrate eventuali redditi provenienti da attività illecita - e, pertanto, l’obbligo di concorrere alle spese pubbliche di cui all’art. 53 Cost - rispetto all’interesse all’impunità del singolo, non rilevando, di conseguenza, il principio “nemo tenetur se detegere”. La Cassazione statuisce, pertanto, la prevalenza del bene giuridico protetto dalla norma in esame rispetto all’interesse personale del singolo, precisando come la tutela del diritto al silenzio non metta in discussione, nell’ambito del dovere di informazione nei confronti delle autorità di vigilanza, la legittimità dall’art. 2638 c.c. anche qualora la condotta di collaborazione del singolo possa far emergere una responsabilità penale in capo al medesimo. Lombardia. Detenuti Oss? Sarà possibile: un modello da esportare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 marzo 2022 Al via lo stanziamento di un fondo, da parte della regione Lombardia, per finanziare un corso per operatori socio sanitari per formare ben 40 detenuti. Parliamo di una delibera che attua un emendamento al Bilancio lombardo, promosso dal consigliere e medico Michele Usuelli (Più Europa/ Radicali) e approvato all’unanimità dal Consiglio, per finanziare la formazione professionale in carcere, necessaria ai detenuti per conseguire la qualifica. Con il provvedimento avente ad oggetto ‘Approvazione della convenzione tra Regione Lombardia e Dap per il riconoscimento di iniziative volte a finanziare i percorsi Asa e Oss a favore dei detenuti delle carceri lombarde’, la Giunta ha definitivamente stanziato i 120.000 euro che garantiranno l’accesso al corso a circa quaranta detenuti, in via prioritaria a coloro hanno prestato servizio lavorativo nei reparti Covid e nelle infermerie degli istituti di detenzione lombardi, durante la pandemia in corso. “Dall’inizio dell’emergenza sanitaria - spiega il consigliere di + Europa Michele Usuelli, il promotore di questa importante iniziativa- i reparti medici e gli ambulatori penitenziari hanno potuto avvalersi della disponibilità lavorativa dei detenuti che, durante questo periodo, hanno sviluppato competenze di buon livello e dimostrato particolare impegno e dedizione, a detta degli stessi medici penitenziari”. E aggiunge: “Se da un lato l’emendamento risponde al principio di premialità, dall’altro l’ampia richiesta nei servizi sociosanitari pubblici e privati di queste figure professionali lo inquadra come iniziativa atta a promuovere il reinserimento e la rieducazione ex art. 27 della Costituzione. Le professioni di Oss e Asa sono molto ricercate oggi nel mercato del lavoro, perciò i fondi stanziati configurano un investimento di grande efficacia, benché la somma sia contenuta”. Come si legge dalla premessa della delibera del consiglio regionale lombardo, sia l’Operatore socio- sanitario (Oss), sia l’Ausiliario Socio Assistenziale (Asa), sono profili molto richiesti nell’ambito socio sanitario e socio assistenziale della Lombardia, svolgendo attività indirizzate a soddisfare i bisogni primari della persona in contesti sociale e sanitario, al fine di favorirne il benessere e l’autonomia. Le profonde modificazioni nelle realtà organizzative, clinico- assistenziali e sociali che si sono verificate a causa dell’emergenza pandemica da Covid-19, richiedono un rapido inserimento nelle strutture di ulteriori figure di Operatori Socio- Sanitario e Ausiliario Socio Assistenziale al fine di soddisfare le necessità organizzative. Com’è detto, dall’inizio della pandemia, per aiutare il personale sanitario nel contrasto allo sviluppo di focolai interni alle carceri, diversi detenuti hanno prestato servizio lavorativo nei reparti Covid e nelle infermerie degli istituti di reclusione lombardi. Medici e ambulatori penitenziari hanno potuto avvalersi della disponibilità lavorativa dei detenuti che, durante questo periodo, hanno sviluppato, nella maggior parte dei casi, competenze di buon livello e dimostrato particolare impegno e dedizione. Per questo motivo, le carceri lombarde in collaborazione con gli enti accreditati alla formazione intendono realizzare percorsi riconosciuti di Asa e Oss a favore dei detenuti, per un totale di 48 corsisti, 24 per Oss e 24 per Asa. Dalla delibera, si apprende che il costo di una borsa di studio per l’ottenimento della qualifica di Oss ammonta a un massimo di euro 3.000, mentre la spesa per la formazione di Asa ammonta a un massimo di euro 2.000 per un investimento complessivo di 120.000 euro che rappresenta un investimento contenuto ma di grande efficacia dal punto sanitario e sociale. “La delibera della Giunta - spiega sempre il consigliere Uselli - era l’ultimo atto del percorso burocratico che, come per tutte le nostre proposte approvate dal Consiglio regionale, abbiamo seguito dal primo all’ultimo passo. Non è automatico che i provvedimenti approvati, soprattutto se provengono da consiglieri di minoranza, trovino facile attuazione”. Il consigliere di + Europa aggiunge: “Per noi è importante che il Governo della Lombardia porti davvero a compimento le disposizioni del Parlamento e non sconfessi gli impegni votati dall’Aula”. Infine conclude: “Tale iniziativa è ovviamente replicabile in tutti i consigli regionali italiani”. Ed è proprio quest’ultima affermazione che merita grande considerazione. Nel momento in cui lo stesso ministero della giustizia, tramite la sua sponsorizzazione di uno studio sull’importanza del lavoro, intende valorizzare la professionalizzazione per una occupazione utile ad abbattere la recidiva, sarebbe auspicabile che l’iniziativa lombarda venga presa in esame - assieme al ministero della salute - per metterla sui tavoli delle conferenze Stato- regioni. In diversi penitenziari d’Italia, molti detenuti hanno aiutato per far fronte all’emergenza e, di fatto, hanno già svolto un tirocinio propedeutico per diventare operatori socio sanitari. Toscana. Al via un bando per favorire l’inclusione sociale dei detenuti toscana-notizie.it, 25 marzo 2022 I progetti dovranno permettere di fare da ponte tra il detenuto e la società esterna, specie nella fase di pre-dimissione. Favorire l’accesso dei detenuti ai diritti e alle tutele sociali, e supportarli nel percorso di re-inserimento nella società. È questo il duplice obiettivo del bando pubblicato dalla Regione Toscana e per il quale potranno presentare progetti le imprese e le cooperative sociali e i soggetti pubblici e privati che operano nel recupero socio-lavorativo di soggetti svantaggiati. L’intervento, da 1 milione di euro complessivi, è destinato a favorire l’inclusione sociale delle persone detenute in tutte le zone della Toscana in cui sono presenti istituti penitenziari. “Il rapporto con la società esterna - spiega l’assessora regionale alle politiche sociali Serena Spinelli - è sempre molto delicato per le persone detenute: rafforzare questo legame, garantendo al detenuto tutte le tutele sociali di cui ha diritto è un fattore molto importante per favorire il suo graduale ed effettivo reinserimento. Perché un detenuto possa tornare a essere parte integrante di una società, infatti, serve che si attivi una rete di sostegni e di collaborazioni all’interno e soprattutto all’esterno del carcere, anche per coloro che si trovano a fine pena affinché possano essere presi in carico in continuità da parte dei servizi territoriali”. Con questo bando, in scadenza il prossimo 19 aprile, la Regione Toscana intende dare continuità alle azioni di inclusione sociale rivolte alle persone detenute ed ex-detenute già avviate con il finanziamento di precedenti progetti a valere sul POR FSE 2014-2020 e favorirne l’estensione sul territorio regionale. I progetti che dovranno essere presentati in risposta al bando dovranno prevedere due tipologie di servizi: Uno sportello per le tutele sociali, e un servizio ponte di collegamento con i servizi pubblici territoriali. Lo sportello dovrà essere finalizzato alla preparazione delle pratiche necessarie per l’accesso a tutti i benefici sociali di cui le persone detenute hanno diritto: si va dai documenti per l’accesso ai servizi socio-sanitari alle pratiche per la pensione sino alle problematiche relative al permesso di soggiorno e all’accesso al lavoro. Il servizio -ponte dovrà invece diventare un punto di riferimento per i detenuti che stanno concludendo il periodo penale per favorire il reinserimento sociale. L’operatore di questo servizio potrà aiutare il detenuto o l’ex detenuto in tante necessità: per esempio supportarlo nelle problematiche legali o agevolarne il collegamento con i servizi per l’impiego, e comunque assisterlo nelle necessità connesse al reinserimento. Il bando “Servizi di inclusione sociale per persone detenute” sarà al centro di un webinar in programma martedì 29 marzo. Un appuntamento prezioso per tutti coloro che sono interessati a partecipare al bando. A questo appuntamento (inizio ore 14.30), parteciperanno oltre all’assessora Spinelli, Pierpaolo D’Andria, Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Toscane l’Umbria, Simone Gheri, direttore di Anci Toscana e Giuseppe Fanfani, Garante regionale dei diritti dei detenuti. Il bando regionale sarà illustrato da Alessandro Salvi e Lucia Bani del settore Welfare e Innovazione sociale della Regione Toscana. Per registrarsi e ricevere il link di collegamento occorrerà scrivere a: segreteria.spinelli@regione.regione.toscana.it Il testo del bando può essere visionato a questo link: https://www.regione.toscana.it/-/finanziamenti-per-servizi-di-inclusione-sociale-dei-detenuti Firenze. Commissione regionale e Garante dei detenuti in visita di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 25 marzo 2022 Parte da Sollicciano il percorso della commissione Affari istituzionali del Consiglio regionale e del Garante toscano dei detenuti per toccare con mano l’universo delle carceri in Toscana. Dopo l’audizione del provveditore regionale delegato del ministero della Giustizia, provveditore della penitenziaria ToscanaUmbria, Pierpaolo D’Andria, che ha messo in luce le emergenze, Giacomo Bugliani e Giuseppe Fanfani hanno deciso di avviare sopralluoghi e incontrare detenuti e personale. “Abbiamo deciso di visitare per primo Sollicciano, il carcere più grande in Toscana, perché negli anni tante sono state le criticità legate a sovraffollamento e condizioni strutturali. Oggi sembra che qualcosa sia stato risolto, ma occorre continuare ad impegnarsi per migliorare le condizioni di vita di detenuti e personale”, ha dichiarato il presidente della commissione Giacomo Bugliani (Pd) al termine della visita. “Il nostro obiettivo - ha proseguito Bugliani - è quello di arrivare ad una proposta di risoluzione che impegni la Giunta, per quanto di sua competenza, ad attivare interventi su più fronti. E penso al tema della salute psichica e fisica dei detenuti così come la formazione anche per il personale impiegato”. All’uscita dal carcere e incontrando i giornalisti, il garante Giuseppe Fanfani ha parlato di una visita che lascia “impressioni molto positive. Conoscevo già le condizioni di Sollicciano, ma oggi posso affermare che si sono attivati impegni concreti per affrontare criticità e problematiche note”. Il confronto poi con i detenuti è stato “particolarmente istruttivo. Da loro è arrivata forte la richiesta di formazione per un vero reinserimento sociale e su questo la Regione può fare molto”, ha dichiarato ancora Fanfani. Il forte impegno che le istituzioni devono assicurare al sistema carcerario è stato ribadito dal vicepresidente del Consiglio regionale Marco Casucci (Lega), che ha ricordato come “ancora questa notte si sia verificata un’aggressione. Segno evidente che sul fronte sicurezza e vigilanza ci sia ancora molto da fare”. Sui problemi strutturali dell’istituto, “su cui si è cominciato ad intervenire da poco tempo”, Casucci ha rilevato le condizioni delle celle: “Ci sono segni evidenti di infiltrazioni e i disagi manifestati dai detenuti sono stati molti”. “Il sistema va affrontato nella sua interezza, dal punto di vista del personale e di chi è recluso. Continueremo ad impegnarci per offrire formazione, lavoro, assistenza sanitaria, fisica e psicologica”, ha concluso. Si è soffermata invece sul tema delle malattie mentali la vicepresidente segretaria della commissione Valentina Mercanti (Pd): “Le carceri sono uno spaccato della società che non può essere ignorato. Quello della salute mentale è problema che deve essere affrontato e la nostra volontà di trovare soluzioni è forte”. “Le esigenze più materiali dei detenuti, che diventano poi quelle più centrali nella vita in carcere, sono emerse chiaramente e sono al fianco di altrettante esigenze manifestate dal personale interno. Su alcuni di questi aspetti lavoreremo come commissione e Consiglio regionale” ha assicurato il consigliere Massimiliano Pescini (Pd). “Con oggi inizia un percorso che vogliamo sia proficuo e operativo”. Bologna. Dozza, si insedia la nuova direttrice: “Impegno per rapporto tra il carcere e la città” bolognatoday.it, 25 marzo 2022 In ripresa le attività lavorative in carcere, tra i primi impegni nell’agenda della nuova dirigente. Si è insediata da qualche settimana la neo-direttrice del carcere di Bologna, Rosa Alba Casella, che subentra a Claudia Clementi. Come tanti altri istituti di pena, “la Dozza” presenta problemi complessi, come quello annoso del sovraffollamento: “È un incarico molto stimolante - ha detto oggi, durante una seduta di commissione - mi piacerebbe che la casa circondariale potesse diventare il settimo quartiere di Bologna, un’osmosi tra interno ed esterno, un rapporto tra il carcere e la città”. La stessa neo-direttrice cita il sovraffollamento con le difficoltà “acuite nel momento del Covid. In questo momento non ci sono casi, ma è doveroso mantenere ancora alto il livello di attenzione”. A caratterizzare la storia dell’istituto bolognese, la mediazione, visto che la metà dei detenuti alla Dozza è straniero: “C’è un elemento nuovo, dal mese di febbraio abbiamo un mediatore assunto e la mia idea è quella di farlo lavorare insieme ai mediatori del comune per offrire ai detenuti anche ascolto e attenzione, molti detenuti stranieri non riescono a far valere i loro bisogni adeguatamente”. È ancora in via di valutazione da parte della dirigente la questione tossicodipendenti e disagio psichico. Il lavoro “importante per i detenuti” - Al di là delle questioni pandemiche, la direttrice si sofferma sul consumo-abuso di farmaci all’interno del carcere di Bologna: “Tra le tante questioni poste, una mi sembra particolarmente importante ed è la questione del lavoro - osserva Casella gli sforzi fatti negli anni sono encomiabili, ma ci sono alcune difficoltà. Riprenderà tra la fine del mese di maggio e gli inizi di giugno l’attività di lavanderia e speriamo anche di poter aumentare il numero delle assunzioni, va molto bene l’azienda meccanica, anche il Raee sta lavorando, mentre per quanto riguarda il caseificio - anche quello fermo - non sono in grado ancora di dire quale sarà l’evoluzione, posso solo assicurare il mio impegno perché torni a essere attivo”. All’interno della Dozza c’è anche il laboratorio di cucito gestito dall’associazione Gomito a Gomito “che sta ripartendo anche il laboratorio di cucito” mentre non si è mai interrotto il rapporto con polo universitario e ha ripreso l’attività anche la squadra di rugby. Rosa Alba Casella curricolum - Nata a Reggio Calabria nel 1965, è laureata in giurisprudenza. È stata direttrice degli istituti di pena di Rovigo, Imperia, Monza, Forlì, Pesaro, Fossombrone, Modena e dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Parma. Detenuto muore durante il trasferimento: a giudizio il medico del carcere di Christian Donelli parmatoday.it, 25 marzo 2022 Prima udienza del processo che vede imputato per omicidio colposo un sanitario dell’Ausl di Parma: secondo l’accusa non avrebbe disposto le misure necessarie per il 48enne, affetto da gravi patologie respiratorie. È iniziato nella mattinata di ieri, giovedì 24 marzo, al Tribunale di Parma il processo che vede come imputato un medico del carcere di via Burla, accusato di omicidio colposo per la morte di un detenuto di 48 anni, avvenuta il giorno del suo trasferimento dal carcere parmigiano alla casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, il 3 dicembre del 2018. Secondo l’accusa il sanitario, dipendente dell’Ausl di Parma, avrebbe dato il nulla osta al trasferimento nonostante le condizioni di salute dell’uomo, affetto da varie patologie e in particolari da gravi problemi respiratori, non disponendo le misure sanitarie necessarie in quel contesto, come per esempio la presenza di un medico a bordo. Dopo il rinvio a giudizio del medico e l’udienza preliminare stamattina si è svolta la prima udienza dibattimentale. La moglie, la madre e il padre del detenuto si sono costituiti parte civile nel processo. Nel corso dell’udienza l’avvocato Monica Moschioni di Parma, che rappresenta la madre del detenuto ha chiesto la citazione nella loro qualità di responsabili civili, dell’Ausl di Parma e del Ministero della Giustizia. Il Giudice ha accolto la richiesta e ha fissato la nuova udienza del processo per il 7 luglio. Nelle udienze successive verranno sentiti i testimoni di accusa e difesa: il medico del carcere sotto accusa ha scelto il rito ordinario per il giudizio. “La sera prima del trasferimento - sottolinea l’avvocato Monica Moschioni - il detenuto 48enne, poi deceduto, era stato ricoverato d’urgenza proprio per le sue patologie respiratorie. Il Tribunale di Sorveglianza, dopo la mia richiesta, aveva disposto una perizia che avrebbe dovuto stabilire la sua compatibilità con il carcere. La decisione del suo trasferimento dal carcere di Parma al Lorusso Cotugno di Torino è avvenuta proprio mentre aspettavamo di conoscere il responso del Tribunale”. Roma. A Tor Vergata si parla del reinserimento dei detenuti Il Tempo, 25 marzo 2022 I veri protagonisti, i più applauditi da chi ha assistito al dibattito, sono stati loro: gli assenti. Si è svolto ieri nell’aula “Moscati” dell’Università di Roma Tor Vergata il convegno dal titolo: “Detenzione e reinserimento sociale. Diritto allo studio, diritto al lavoro”, coordinato dalla professoressa Marina Formica responsabile del progetto “Università in carcere”. In un tavolo ricco di illustri e competenti partecipanti, a far rumore sono stati soprattutto i detenuti scelti tra chi ha intrapreso un percorso di studio arrivando al traguardo della laurea. Dovevano essere tre a portare la loro testimonianza, ma all’appello ha risposto solo Giovanni Colonia: a Filippo Rigano e Giuseppe Perrone è stato revocato un permesso di partecipazione già accordato in precedenza. Bizzarro che tema principale dell’evento fosse il reinserimento sociale e chi ha intrapreso con successo questo lungo e faticoso percorso, non sia potuto venire a raccontarlo. Colonia ha letto due emozionanti messaggi a firma Rigano e Perrone che hanno voluto salutare i presenti, e ha sottolineato quanto sia necessario che la persona come identità sia posta al centro della prospettiva: “Solo così può funzionare la rieducazione”. Tra i primi a parlare la dottoressa Rosella Santoro direttrice di Rebibbia NC: “Compito nostro è favorire all’interno del carcere, ogni tipo di attività che porti cultura, formazione e reinserimento. - ha sottolineato - È importante che la società esterna entri nei penitenziari e porti il suo contributo”. La direttrice ha voluto poi condividere una sua riflessione personale: “Ho notato che i detenuti che si recano al lavoro fuori dal carcere, quando rientrano sono persone diverse, con una cura del proprio corpo che prima non avevano”. Dopo gli interventi del Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma, del Garante regionale Stefano Anastasia, della consigliera regionale Marta Bonafoni e del magistrato Pier Paolo Filippelli, a entrare nel vivo della discussione ci ha pensato la battagliera Garante comunale Gabriella Stramaccioni: “L’esperienza del Covid lo ha confermato: il carcere da solo non ce la fa. - è partita duro la Garante - Occorre operare in sintonia con la società, ma lo Stato deve dare il suo contributo. Oggi ci sono 2 educatori per 350 detenuti. Si chiudono attività per mancanza di personale, spesso si è costretti anche a rimandare di mesi visite mediche importanti per lo stesso motivo”. Ma non è finito, la Stramaccioni tuona: “Se lo Stato non si presenta in regola nel carcere, è difficile poi chiedere al detenuto altrettanto. Mi riferisco alla vicenda del cibo dove per colazione, pranzo e cena, lo Stato spende 2,39 euro”. A spiegare nel concreto come reinserire i detenuti nella società, ci ha pensato Mauro Pellegrini della Pantacoop che ha assunto nelle sue attività, tra cui il “caffè Galeotto”, decine di detenuti in più di vent’anni: “Ci vuole tempo per raggiungere i risultati, per questo c’è bisogno di progetti che durino molti anni. Solo così si riesce a sostituire la cultura criminale con la cultura della legalità”. A chiudere l’incontro l’attore Cosimo Rega, con un passato fatto di oltre quarant’anni di carcere, che ha trovato la giusta sintesi: “Il detenuto è come la pasta. Se la scoli troppo presto è cruda, se lo fai tardi è scotta. Ci vuole il giusto tempo per il suo reinserimento”. Verbania. Presentata la Pizzeria Galeotta di Roberto Bioglio ecorisveglio.it, 25 marzo 2022 Ad occuparsi dell’iniziativa sono la coop “Il Sogno” e la Fondazione San Zeno. Si chiama “Pizzeria Galeotta” ed è il nuovo progetto presentato giovedì 24 febbraio al ristorante sociale Gattabuia di Verbania dalla cooperativa sociale “Il Sogno” e la Fondazione San Zeno di Verona. Ad illustrare i dettagli Erika Bardi, responsabile degli inserimenti lavorativi dal carcere della coop sociale “Il Sogno”, Marinella Franzetti, vice sindaca e assessora alle Politiche sociali, e Stefania Mussio, direttrice della casa circondariale di Pallanza. Con loro, collegata in videoconferenza, c’era Rita Ruffoli, direttrice della Fondazione San Zeno. “Il nostro progetto - ha spiegato Bardi - è nato durante il primo lockdown, nella primavera 2020, quando abbiamo deciso un restyling del ristorante di Villa Olimpia con l’idea di creare nuove possibilità di inserimento socio lavorative di detenuti e persone con problemi di giustizia. Abbiamo rivisto il target del ristorante e da novembre, grazie alle competenze di Antoine R., Tony, socio lavoratore, che già aveva iniziato con noi un percorso di inserimento dal carcere, è nata l’idea di ripristinare il vecchio forno per le pizze, avviando un’attività di take away e delivery”. Il progetto ha preso forma strada facendo ed è stato scritto da Alice Brignone e da Erica Bardi de “Il sogno”, con l’appoggio della Fondazione San Zeno. “L’obiettivo - spiega Bardi - è ampliare il lavoro di inclusione per persone in condizione di fragilità, in particolare con problemi di giustizia e avere un servizio di pizzeria di alta qualità affiancato da un percorso di formazione professionale. Dopo aver ristrutturato e allestito la pizzeria con nuovi strumenti e attrezzature, ora partirà un corso di 200 ore destinato a quattro persone detenute che hanno la possibilità di accedere all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, e quattro persone con alto svantaggio in carico ai Servizi sociali; accanto ad essi, insieme ai docenti del Formont, ci sarà anche Antoine, con il ruolo di formatore interno”. “La Fondazione San Zeno - ha poi aggiunto Ruffoli - è nata nel 1999 a Verona e ha sostenuto più di 1.500 progetti nel mondo; la nostra filosofia è ascoltare e accompagnare. Sappiamo che il 70% di chi ha sperimentato il lavoro in carcere non ha recidive”. “Io sono da poco qui a Verbania - ha detto la dottoressa Mussio - ma dalla mia esperienza so che molti problemi dei detenuti, dalla tossicodipendenza ai problemi psichiatrici, non si risolvono con il carcere. La difficoltà maggiore è vincere i pregiudizi ma è fondamentale avere queste misure concrete dove le persone possono misurarsi, se lo vogliono, con una nuova realtà e dar vita ad una sorta di “riparazione sociale”. Soddisfazione è stata espressa anche dalla vice sindaca Franzetti: “L’amministrazione è felice di mettere in atto nuovi progetti legati al carcere; Verbania ha fatto da apripista nel 2016 con i progetti di lavoro. Le pizze di Tony sono state un momento di sollievo in città durante il lockdown, quando si è iniziato a parlare di queste specialità molto buone”. Il progetto prevede dal 1º marzo i corsi nella cucina didattica del ristorante; i detenuti parteciperanno ai corsi, fino al 3 maggio, con l’autorizzazione del magistrato di sorveglianza. “L’idea - ha detto Bardi - è ampliare l’attività della pizzeria ed entro due anni arrivare a cinque giorni di apertura a settimana (ora è aperta dal venerdì alla domenica); speriamo di riuscirci magari già in estate”. Roma. Il riscatto passa dalla cucina, con detenuti (e non solo) che imparano dai grandi chef winenews.it, 25 marzo 2022 Il progetto di Fondazione Gambero Rosso e la Comunità di Sant’Egidio, a favore dei detenuti della Casa Circondariale di Regina Coeli di Roma. La cucina, l’artigianato alimentare, la produzione di vino: sono tanti, in Italia, i progetti che vedono il vasto mondo dell’agroalimentare al centro di iniziative di reinserimento nella società di chi, nella vita, ha commesso degli errori da pagare con il percorso carcerario. E, in questo solco, si inserisce il progetto che vede in campo la Fondazione Gambero Rosso e la Comunità di Sant’Egidio, a favore dei detenuti della Casa Circondariale di Regina Coeli di Roma. Un progetto che prevede un percorso formativo rivolto sia agli addetti al servizio mensa del carcere, 13 detenuti, sia ai responsabili della sorveglianza e del coordinamento del servizio dell’istituto carcerario, articolato in 4 incontro con alcuni degli chef più amati di Gambero Rosso Channel. Il primo, andato in scena il 21 marzo, con un maestro della grande cucina come Igles Corelli, sarà seguito da quelli con Giorgio Barchiesi, in arte “Giorgione”, e Laura Marciani, chef della Gambero Rosso Academy da sempre attenta alle tematiche sociali. In tutti gli incontri Mirko Iemma, resident chef di Gambero Rosso Academy Roma, sarà presente per fornire supporto ai partecipanti. “Questa iniziativa, oltre a voler rendere più gustose e saporite le ricette previste nei menu nel rispetto dei limiti imposti dai regolamenti - spiega una nota - avrà sicuramente il beneficio di incentivare i momenti di aggregazione e di recupero dei componenti della comunità carceraria, valorizzando e responsabilizzando gli addetti alla preparazione pasti attraverso un rafforzamento del lavoro di squadra. Al termine del percorso è previsto il conferimento di un attestato di partecipazione che rappresenta un’auspicata prospettiva di reinserimento sia in un contesto lavorativo che sociale. Un primo passo per una maggiore inclusione e per una maggiore solidarietà dei soggetti coinvolti”. “Sono ben lieta di poter dare inizio a questo progetto che da due anni attende di essere realizzato. Credo sia una vera opportunità, non solo per i detenuti coinvolti nella preparazione dei pasti - commenta Claudia Clementi, direttrice Regina Coeli - ma per tutta la popolazione carceraria qui presente, in quanto occasione di apprendimento e di conoscenza specifica del settore della ristorazione. In un’ottica di condivisione e di aggregazione, ritengo, che per i detenuti, possa essere una vera occasione di contatto con il mondo lavorativo esterno, che sia per loro un’occasione per un graduale reinserimento nel contesto sociale”. “Abbiamo sostenuto sin dall’inizio questa iniziativa assieme alla Comunità di Sant’Egidio per favorire la comunità carceraria di Regina Coeli. La Fondazione Gambero Rosso, senza scopo di lucro - aggiunge il vicepresidente esecutivo Fondazione Gambero Rosso, Paolo Cuccia - da anni dà il suo contributo ai temi sociali, formativi, tecnici e scientifici del settore agroalimentare. Supportare questo progetto formativo che fornirà nuove tecniche nuovi strumenti in cucina che i detenuti potranno utilizzare per il loro reinserimento lavorativo e sociale, è stata una naturale conseguenza dell’impegno che quotidianamente mettiamo nel nostro lavoro”. “È un progetto che ha un grande valore e che aiuta a sognare un futuro migliore in un tempo difficile. Insieme, perché nessuno può fare da solo. Sant’Egidio, il Gambero Rosso, l’Istituzione, abbiamo bisogno gli uni degli altri per cambiare la realtà, per parlare alla società civile dei valori costituzionali. Formazione e lavoro, reinserimento e inclusione, dignità e riscatto, per ricominciare, siano un diritto e una possibilità per tutti, nessuno escluso. Infine ricevere un attestato, per presentarsi al mondo e ricominciare”, conclude Stefania Tallei, coordinatrice nazionale del Servizio in Carcere della Comunità di Sant’Egidio. Bergamo. Raccolta solidale per l’Ucraina promossa dai detenuti di Antonella Barone gnewsonline.it, 25 marzo 2022 Sono stati consegnati al Centro raccolta di Curno (Bg) beni di prima necessità, per un valore di 2800 euro, acquistati dai detenuti della Casa Circondariale “Don Fausto Resmini” di Bergamo, grazie all’iniziativa “Spesa straordinaria Pro ucraina”, destinati alla popolazione colpita dal conflitto. La raccolta solidale, che ha visto l’adesione di tutta la popolazione detenuta, è stata realizzata in collaborazione con l’Associazione culturale Zlaghoda, grazie al sostegno di tutto il personale dell’Istituto e della Garante per i diritti dei detenuti. Un gesto di solidarietà che, scrivono gli organizzatori, “testimonia che la particolare situazione di privazione della libertà in cui si trovano i detenuti, non li rende immuni dalla vicinanza e dalla preoccupazione per le popolazioni in difficoltà colpite dalla guerra”. I beni saranno inviati dall’associazione Zlaghoda ai confini del paese in guerra, secondo le indicazioni del Consolato di Milano, e in seguito consegnati a operatori del governo ucraino. Sabato 26 marzo analoga colletta alimentare si terrà nella casa di reclusione di Milano Opera, in collaborazione con l’associazione “Incontro e Presenza” e con la Fondazione Banco alimentare che si occuperà del ritiro dei generi alimentari presso l’Istituto. Associazione A buon diritto Onlus. “I nostri venti anni di battaglie civili” di Valentina Stella Left, 25 marzo 2022 Dal sostegno alle vittime di abusi di potere compiuti dalle forze di polizia all’impegno per il testamento biologico, l’associazione “A buon diritto” dal 2001 si occupa della garanzia e della tutela dei diritti civili, sociali e politici. Parla il fondatore e presidente Luigi Manconi. Nell’ottobre 2001 nasceva A buon diritto Onlus, che si (pre)occupa di garantire e tutelare i diritti civili, sociali e politici e le libertà fondamentali della persona. Ricordiamo tutti le battaglie contro gli abusi a opera delle forze di polizia e degli operatori pubblici in occasione di operazioni di fermo, arresto e trattamento sanitario obbligatorio. Solo per fare alcuni nomi, l’associazione è stata accanto alle famiglie di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Dino Budroni e altri. A vent’anni e qualche mese da quella data il fondatore e presidente Luigi Manconi, sociologo dei fenomeni politici, già presidente della Commissione diritti umani del Senato, ha deciso di celebrare il traguardo con un evento, il 26 marzo, al MAXXI insieme a Alessandro Bergonzoni, Ascanio Celestini, Valentina Carnelutti, Caterina Corbi, Valerio Mastandrea, Andrea Satta, David Riondino, Ilaria Cucchi, Mimmo Lucano, Sergio Staino e molti altri. Luigi Manconi, come e perché nasce A buon diritto? Nel 2001 si è conclusa la mia prima esperienza parlamentare, iniziata nel 1994. Ero stato senatore indipendente tra i Verdi e in maniera imprevedibile ne ero stato eletto portavoce nazionale. Dopo la sconfitta alle Europee nel 1999, mi dimisi da portavoce, ma rimasi nel partito ecologista fino al termine della legislatura. Allora cominciai a pensare che le tematiche alle quali mi dedicavo dovessero ritrovarsi in un contenitore grande, all’interno di una dimensione ampia dell’organizzazione politica. Non avendo, tuttavia, un partito di massa cui far riferimento decisi che quelle questioni avrebbero potuto rappresentare il programma di una associazione. All’inizio pensavo che il nome potesse essere “Battaglie perse” ma giustamente mi fecero notare che era una formula troppo snob e autoironica e non adeguata a un’associazione che voleva perseguire obiettivi e ottenere risultati. E allora la chiamammo A buon diritto - associazione per le libertà, promossa insieme a un gruppo di persone tra le quali Laura Balbo, Luigi Ciotti, Giovanni Conso, Antonio Martino, Eligio Resta e Umberto Veronesi. La declinazione al plurale rappresenta(va) i vari ambiti di intervento dell’associazione, immagino… Esatto. Abbiamo iniziato a operare in quegli ambiti in cui i diritti vengono o non riconosciuti o non applicati. Partivamo da un assunto politico-teorico al quale sono rimasto sempre fedele: l’idea che una delle tragedie della sinistra sia stata, in particolare nell’ultimo mezzo secolo, la contrapposizione tra diritti sociali e diritti individuali. Tale contrapposizione ha una origine storica che ben si comprende. La sinistra, il movimento operaio, le forze del progresso nascono in una situazione dove tutti i bisogni primari erano ancora da soddisfare per le grandi masse: lavoro, abitazione, istruzione. Dunque l’attenzione si concentrava sui diritti sociali, quelli collettivi. Ma già cinquant’anni fa, ossia negli anni 70, che vengono diffamati con il nome di anni di piombo ma che sono infinitamente più complessi e ricchi, quella contrapposizione non aveva più ragion d’essere. Gli anni 70 sono quelli delle grandi riforme. Sono gli anni del divorzio, dell’aborto, del diritto di famiglia, del voto ai diciottenni, dell’obiezione di coscienza, dell’abolizione dei manicomi, dello Statuto dei lavoratori. Garanzie individuali e collettive vennero dunque conseguite nello stesso decennio e attraverso una mobilitazione comune che vedeva le stesse persone battersi per gli uni e per gli altri diritti. Nel frattempo, cosa è cambiato? Quella contrapposizione viene riproposta ancora oggi. Si insiste su una polemica per me incomprensibile, in cui la sinistra viene accusata di perseguire i diritti individuali a scapito di quelli sociali. Ma non è certo a causa di una eccessiva concentrazione sui diritti individuali che oggi i diritti sociali attraversano una fase tanto critica. Tornando al cuore della vostra attività, qual è lo stato di salute dei diritti nel nostro Paese? Da anni presentiamo il Rapporto sullo stato dei diritti in Italia che considera tutti i diversi campi di applicazione o non applicazione dei diritti: dall’abitare alla tutela dei dati sensibili, dai minori alla salute mentale e, poi, autodeterminazione femminile, carcere, migrazione e inclusione, Lghtqi+, persone con disabilità, Rom e Sinti, ambiente, lavoro, istruzione, libertà terapeutica, profughi e richiedenti asilo, pluralismo religioso, libertà di espressione. Un Rapporto fatto di saggi, timeline, grafici e storie. Si tratta di un progetto unico perché nel nostro Paese abbiamo molte analisi dei vari settori, ma non un monitoraggio complessivo di tutte le famiglie di diritti. Tornando alla sua domanda, devo dirle che lo stato dei diritti in Italia è molto deficitario. Negli ultimi anni abbiamo recuperato appena un po’ del tempo perduto. Ci faccia qualche esempio... Ricordo che nel 2017 sono state approvate dal Parlamento due riforme importanti: una che ha introdotto finalmente il reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico, ben 28 anni dopo la ratifica da parte dell’Italia della Convenzione delle Nazioni unite contro la tortura. La legge porta il mio nome ma non la riconosco come mia perché la proposta originaria da me presentata prevedeva la tortura come reato proprio, in quanto sia la Convenzione dell’Onu che le normative di altri Paesi democratici qualificano la tortura come reato che discende dall’abuso di potere. Invece è stato approvato un testo, a mio avviso debole, dove la tortura viene qualificata come violenza all’interno delle relazioni tra i cittadini mentre avrebbe dovuto trovare applicazione a quei trattamenti inumani e degradanti quando effettuati da pubblici ufficiali. Nonostante questo, è stato comunque un passo avanti e già ci sono state alcune condanne di poliziotti penitenziari per la fattispecie penale di tortura. Nello stesso anno è stato poi approvato il provvedimento sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat). Una battaglia quest’ultima condotta insieme all’associazione Luca Coscioni... Sì, insieme, intorno al 2005, abbiamo diffuso un facsimile di modulo in cui poter indicare le proprie volontà anticipate relativamente alle problematiche della malattia e del dolore, dell’accanimento terapeutico e della sospensione delle cure: migliaia e migliaia di “testamenti biologici” sottoscritti da cittadini e consegnati alle più alte cariche istituzionali. Ma io avevo presentato sul tema un disegno di legge già nel 1995 e solo nel 2017 è stata approvata una normativa in materia. Si tratta di un approdo importante perché ha permesso di fare dei passi avanti notevoli su punti controversi come la possibilità di sospendere idratazione e nutrizione artificiali e come l’accesso alla sedazione profonda. Mentre, come tutti sappiamo, la proposta di legge di iniziativa popolare sull’eutanasia non è stata mai discussa. Adesso si dibatte di una legge sull’aiuto al suicidio che è più restrittiva della sentenza della Corte Costituzionale sul caso Dj Fabo. Su questo tema sono affezionato a un ricordo. Durante i funerali di Piergiorgio Welby, davanti alle porte chiuse della chiesa di San Giovanni Bosco, Marco Pannella mi presentò Mina, che mi raccontò come suo marito Piero, negli ultimi tempi, consultasse assiduamente il nostro sito per trovare informazioni e riflessioni. Comunque, su tali temi, il ritardo è grande, le resistenze sono tantissime, le carenze enormi. Si tenga conto che la legge sulla cittadinanza, quindi una questione fondamentale in tema di diritti collettivi, è ancora quella del 1992. Ma in quell’anno gli stranieri in Italia erano meno di 400 mila, oggi invece i soli regolari sono più di 5 milioni. E invece le nostre carceri come stanno? Noi ci impegniamo anche per le più piccole riforme del sistema penitenziario, perché nell’inferno delle carceri anche il cambiamento più modesto è prezioso. Pensi che insieme all’avvocata Maria Brucale abbiamo elaborato il “paradigma-bidet”. Come è possibile che, nell’anno di grazia 2022, nemmeno nelle sezioni femminili delle prigioni italiane vi sia quell’indispensabile apparecchio igienico? Se volessimo immaginare, noi liberi, che cosa sia davvero la reclusione, per bruttura e ignominia, pensiamo a una intera vita “senza bidet” all’interno di un ambiente malsano e patogeno come è la galera. Purtroppo in una buona parte delle celle il cesso è ancora “alla turca” e, in genere, esposto alla vista. Siamo comunque sempre più convinti che il carcere vada abolito. A proposito di questo, il 22 maggio saremo in libreria con una nuova edizione di “Abolire il carcere” (Chiarelettere), scritto con Stefano Anastasia, Federica Resta e la direttrice di A buon diritto, Valentina Calderone. A proposito di Valentina, devo dire che tutto quello che ha fatto A buon diritto non sarebbe stato possibile senza di lei. Valentina è giovane ma lavora con me da più di quindici anni, mentre io ne combinavo in giro di tutti i colori (dal Senato fino all’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali), lei tenacemente e pazientemente ha guidato con grande intelligenza l’onlus, tra mille difficoltà, fino a oggi. La contenzione non è un atto medico di Giovanni Rossi* quotidianosanita.it, 25 marzo 2022 La contenzione meccanica rappresenta un fenomeno esteso che riguarda molte decine di migliaia di persone ogni anno. L’opinione pubblica ogni tanto viene informata della morte di una persona legata mentre è ricoverata. Ma poi le contenzioni continuano. Tanto la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo che il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura sono stati interessati al problema. Finalmente è stato previsto un finanziamento aggiuntivo per i Dipartimenti di salute mentale. Si tratta di 60 milioni di euro, che seppur insoddisfacenti rispetto al fabbisogno globale, rispondono ad obiettivi di grande importanza nella visione di una salute mentale di comunità per tutti. Infatti due dei tre obiettivi cui il finanziamento alle Regioni e Provincie Autonome è vincolato riguardano le persone con problemi di salute mentale particolarmente esposte a subire interventi custodialistici che ne limiterebbero la libertà personale e che nulla hanno a che vedere con le necessità della cura e riabilitazione. Si tratta del superamento delle contenzioni meccaniche in tutti i luoghi di cura della salute mentale e del ridimensionamento del ricorso alle Rems (residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza per infermità mentale) attraverso la qualificazione dei percorsi per la effettiva presa in carico e per il reinserimento sociale dei pazienti con disturbi psichiatrici autori di reato a completamento del processo di attuazione del processo di attuazione della legge n.81/2014. La contenzione meccanica, di cui mi occuperò in questa sede, rappresenta un fenomeno esteso che riguarda molte decine di migliaia di persone ogni anno. L’opinione pubblica ogni tanto viene informata della morte di una persona legata mentre è ricoverata. Ma poi le contenzioni continuano. Tanto la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo che il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura sono stati interessati al problema. Gli episodi di contenzione meccanica avvengono nel corso del ricovero ospedaliero nei Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (SPDC). All’interno della comunità professionale sono largamente condivise due opinioni. La prima. La contenzione meccanica non è un atto medico o sanitario per cui non può essere prescritta come si fa per una terapia. Solo in casi veramente eccezionali la si può decidere ed attuare senza incorrere nel reato di sequestro di persona. (art 54 CP) La seconda. La contenzione meccanica arreca danni anche gravi e anche mortali alla salute psicofisicaS della persona che la subisce. Ed è traumatica anche per chi la esegue. Per questo va evitata il più possibile e nel caso vi si ricorra richiede una costante presenza di operatori accanto alla persona contenuta e deve durare il minimo. Che fare, dunque? Una terza evidenza, che spesso non si vuole vedere, è rappresentata da quei servizi ospedalieri psichiatrici che già oggi riescono a prendersi cura delle persone senza ricorrere alla contenzione meccanica. Sparsi nelle varie Regioni essi dimostrano che esiste una alternativa pratica alle contenzioni meccaniche, come a quelle spaziali e farmacologiche. La conoscenza delle loro esperienze può essere di grande utilità nel momento in cui si vuole estendere a tutti i servizi italiani l’obiettivo del superamento delle contenzioni. Dal marzo del 2021 l’associazione che li riunisce: il Club Spdc No Restraint, conduce un censimento dinamico dei servizi che per un anno consecutivo abbiano evitato il ricorso alla contenzione meccanica. A oggi se ne contano 21. Questa rete è ora a disposizione delle Regioni e Provincie Autonome. Abbiamo appreso dall’esperienza che il cambiamento da servizi restraint a servizi no restraint dipende tra tre ordini di fattori: quelli culturali, quelli organizzativi ed, infine, quelli temporali. La sincronicità e progressività nella implementazione dei fattori culturali e di quelli organizzativi è, infatti, fattore determinante la qualità del cambiamento. Nel convegno nazionale tenutosi a Trieste nel novembre 2021 abbiamo proposto al Governo, alle Regioni ed alle Provincie autonome quattro obiettivi. Ora con le risorse disponibili pensiamo si possano meglio perseguire. Li riassumiamo qui sotto, confermando che il Club degli Spdc No Restraint è pienamente disponibile a partecipare attivamente alla loro realizzazione. Formazione. Chiediamo che i servizi no restraint vengano individuati dalle Regioni e Provincie Autonome in cui si trovano come Centri di riferimento per la formazione al No Restraint. Possono essere coinvolti nella predisposizione e gestioni di programmi formativi, essere sede di scambi peer to peer, attivare consulenze di supervisione ed audit. Il Club No Restraint è inoltre a disposizione delle singole Regioni e Provincie autonome per attività di supporto alla predisposizione, monitoraggio e valutazione dei progetti di cui alla proposta di intesa. Mettiamo a disposizione gli strumenti di prevenzione del rischio contenzione e le tecniche di descalation elaborate e sperimentate dagli spdc no restraint così come i protocolli di integrazione con gli altri servizi sanitari e di gestione della sicurezza. Monitoraggio. Chiediamo a tutte le Regioni e Provincie autonome di adottare in forma vincolante il monitoraggio delle contenzioni meccaniche (numero, persone coinvolte, durata delle stesse) e di darne informazione in tempo reale al Garante Territoriale o Regionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Chiediamo che al termine dei progetti regionali, ovvero al primo gennaio 2023, ogni episodio di contenzione meccanica vengo sottoposto a sorveglianza secondo il protocollo per il monitoraggio degli eventi sentinella elaborato dal Ministero della Salute. Linee guida. Chiediamo di essere coinvolti nella revisione delle linee guida che le Regioni hanno adottato, che non sempre sono chiare nella indicazione dell’obiettivo del superamento delle contenzioni meccaniche. Sistema premiante. A nostro avviso è opportuno che le Regioni e le Provincie Autonome introducano l’obiettivo del superamento della contenzione meccanica tra quelli assegnati ai Direttori Generali. Va fatta attenzione ad introdurre criteri di valutazione che valorizzino chi ha già raggiunto l’obiettivo dell’azzeramento delle contenzioni, mentre per gli altri dovrebbe essere prevista una penalità crescente in relazione al numero crescente delle persone contenute e delle contenzioni attivate. Ovviamente analogo sistema premiante andrà introdotto per gli operatori dei DSM e degli SPDC. È auspicabile, infine, che la messa a fuoco di questo obiettivo consenta di cogliere le opportunità di finanziamento contenute nel PNRR missione 6, componente 2 “Verso un ospedale sicuro e sostenibile”. Molti Spdc hanno necessità di migliorare gli spazi in cui sono allocati, se non addirittura di essere trasferiti in spazi idonei. Anche da questo punto di vista le esperienze condotte negli anni dagli spdc no restraint sono disponibili e riproducibili per organizzare spazi accoglienti, confortevoli, amichevoli e rispettosi delle persone che vi sono accolte per cura o per lavoro. *Psichiatra, Presidente Club Spdc No Restraint Armamenti, affondo del Papa contro l’aumento delle spese militari: “Pazzia” di Luca Kocci Il Manifesto, 25 marzo 2022 L’Alleanza atlantica nel mirino di Bergoglio. La “guerra vergognosa in Ucraina è il frutto della vecchia logica di potere”. “Mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono impegnati a spendere il 2% per cento del Pil nell’acquisto di armi, come risposta a questo che sta succedendo adesso. La pazzia!”. Papa Francesco torna ancora una volta a denunciare gli investimenti per gli armamenti, rivolgendosi direttamente a quei Paesi europei che fanno parte della Nato e che hanno deciso di aumentare fino al 2% del Pil la spesa militare come la Germania e anche l’Italia (Francia e Regno Unito sono già sopra questa soglia). La scorsa settimana, infatti, la Camera dei deputati ha approvato a larghissima maggioranza (contrari Alternativa, Europa Verde e Sinistra italiana) un ordine del giorno proposto dalla Lega che impegna il governo a portare dall’1,5% al 2% del Pil le spese militari entro il 2024 (cioè da 25 a 38 miliardi di euro l’anno). E mercoledì il presidente del Consiglio Mario Draghi lo ha ribadito nelle comunicazioni al Parlamento, alla vigilia degli incontri di ieri a Bruxelles con i vertici Nato, G7 e Consiglio europeo, alla presenza del presidente Usa Joe Biden: “Vogliamo adeguarci all’obiettivo che abbiamo promesso alla Nato”, ovvero il 2% del Pil, ha detto il premier a Montecitorio. “La buona politica non può venire dalla cultura del potere inteso come dominio e sopraffazione, ma solo da una cultura della cura della persona e della sua dignità e della nostra casa comune”, ha detto ieri papa Francesco ricevendo in Vaticano le partecipanti al 31° congresso del Centro femminile italiano. La “guerra vergognosa” che si sta combattendo in Ucraina - ha proseguito “è il frutto della vecchia logica di potere che ancora domina la cosiddetta geopolitica”, come “dimostra la storia degli ultimi settant’anni”: ci sono state diverse “guerre regionali” e ora “questa, che ha una dimensione maggiore e minaccia il mondo intero”. Ma il problema di base è lo stesso, ha aggiunto il pontefice: “si continua a governare il mondo come uno “scacchiere”, dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri”. Invece “la vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato, non facendo vedere i denti come adesso, un modo diverso di impostare le relazioni internazionali. Il modello della cura è già in atto ma purtroppo è ancora sottomesso a quello del potere economico-tecnocratico-militare”. “Papa Francesco ieri ha ripetuto quello che ha detto più volte nelle ultime settimane e che ripete da tempo, come per esempio al convegno sul Mediterraneo frontiera di pace organizzato dalla Cei a Bari tre anni fa: “Nelle convenzioni internazionali tanti Stati parlano di pace e poi vendono le armi ai Paesi in guerra, questa è la grande ipocrisia”, spiega al manifesto don Renato Sacco, consigliere nazionale di Pax Christi. E aggiunge: “Quelli che hanno le mani spellate per i troppi applausi che hanno fatto al papa cosa dicono in questi giorni? Nulla! Sulle spese militari e sul commercio delle armi c’è un silenzio tombale. Verrebbe da pensare che la lobby delle armi sia cosi influente da riuscire a portare tutti dalla propria parte, ma non si può dire perché non ci sono le prove”. Intanto si prepara una “missione di pace” - vera - da parte di alcune organizzazioni nonviolente e pacifiste del mondo cattolico e laico, come Comunità papa Giovanni XXIII, Rete italiana pace e disarmo, Pax Christi, Beati i costruttori di pace, Focsiv e Un ponte per. “Vengono momenti in cui “la pace attende i suoi artefici” e noi non possiamo disattenderla, non vogliamo restare spettatori e sentiamo l’obbligo di esporci in prima persona”, spiegano le associazioni che il primo aprile partiranno per l’Ucraina, “per testimoniare con la nostra presenza sul campo la volontà di pace e per permettere a persone con fragilità, madri sole e soprattutto bambini, di lasciare il loro Paese in guerra e raggiungere l’Italia”. Cartabia e i guardasigilli europei all’Aja per ridare voce al diritto mentre cadono le bombe di Valentina Stella Il Dubbio, 25 marzo 2022 L’incontro dei ministri che sostengono l’iniziativa della Corte penale internazionale. Ieri i ministri della Giustizia dei Paesi che sostengono l’iniziativa della Corte penale internazionale si sono riuniti a L’Aja. Anche la ministra Marta Cartabia era in missione in Olanda. L’obiettivo è quello di dare voce al diritto, mentre cadono le bombe, si legge sul sito di via Arenula. Essere al fianco dell’Ucraina con le azioni diplomatiche, con l’accoglienza dei profughi, con le sanzioni alla Russia, ma anche appoggiando l’azione della Corte penale internazionale. Come è noto, qualche giorno fa il procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia, Karim Khan, si è recato a Leopoli per raccogliere maggiori informazioni nell’ambito dell’indagine che ha aperto il 3 marzo per verificare se sono stati commessi in territorio ucraino crimini di guerra. Khan, recentemente nominato procuratore, ha assicurato che l’indagine sarà condotta ‘ in modo obiettivo e indipendente’ e che mirerà a ‘ individuare responsabilità per i crimini che rientrano nella giurisdizione della CPI’. L’Ucraina non è un membro, ma nel 2014 ha accettato la giurisdizione della corte. Prima di iniziare i lavori, la Guardasigilli ieri ha avuto un colloquio con il suo omologo ucraino, Denys Maliuska. Durante il confronto con i ministri della Giustizia presenti, è stato più volte evocato lo Statuto di Roma: il trattato internazionale istitutivo della Corte penale internazionale, firmato ventiquattro anni fa ed entrato in vigore nel 2002. Mosca ha ritirato la sua firma dallo Statuto di Roma. Nel solco del diritto transfrontaliero, la ministra Cartabia aveva annunciato il 23 marzo la nomina di una commissione di esperti con lo scopo di scrivere un Codice dei crimini internazionali. In particolare, resta da garantire “l’adattamento nel diritto interno della materia dei crimini internazionali”, che richiede “di organizzare e sistematizzare una disciplina complessa, tenendo conto dei criteri generali di legalità e personalità della tutela penale”, come specificato nel decreto ministeriale. La Commissione sarà presieduta da Francesco Palazzo, professore emerito di diritto penale presso l’Università di Firenze, e da Fausto Pocar, professore emerito di diritto internazionale presso l’Università di Milano. Tra i numerosi membri anche l’avvocato Paola Rubini, Vice presidente Unione Camere penali italiane. La seduta di insediamento è fissata il prossimo 31 marzo alle 10.30 al Ministero della Giustizia. La proposta di stesura di un Codice dei crimini internazionali dovrà essere terminata entro il 30 maggio 2022. ‘È un significativo passo avanti per combattere l’impunità per i responsabili dei crimini più efferati, motivo di allarme per l’intera comunità internazionale - si legge in una nota del Partito Radicale - Ringraziamo la Ministra Cartabia per aver sollecitamente dato seguito a quanto emerso nel corso del recente incontro con il Segretario Maurizio Turco, la Tesoriera Irene Testa e l’Ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, Presidente onorario del Partito Radicale. Augura buon lavoro a tutti i componenti della Commissione, tra questi Ezechia Paolo Reale, membro del Partito Radicale’. Crimini di guerra, parla l’ex capo del tribunale dell’Aja di Liana Milella La Repubblica, 25 marzo 2022 “Con l’arrivo del nuovo codice i processi saranno più rapidi”. Intervista al giurista Fausto Pocar, presidente della commissione istituita dalla Guardasigilli Cartabia, che per 17 anni ha guidato la corte per i reati commessi nell’ex Jugoslavia. Oltre sessanta i reati che entreranno nel codice. Iniziativa nata prima dell’attacco della Russia contro l’Ucraina. Fausto Pocar non ha dubbi quando dice che “con il futuro codice sui crimini di guerra incriminazioni e processi potranno essere più facili e rapidi”. La Guardasigilli Marta Cartabia lo ha scelto, assieme a Francesco Palazzo, per presiedere la commissione che scriverà il nuovo codice che dovrà essere pronto per la fine di maggio. “Conterrà oltre sessanta reati” dice Pocar, che all’Aja ha presieduto per 17 anni il Tribunale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia e che in questa intervista a Repubblica - come premette subito - non potrà parlare né di un’eventuale incriminazione di Putin, né di quanto sta avvenendo in Ucraina perché ha il ruolo di giudice della Corte internazionale di giustizia in una causa promossa dalla stessa Ucraina contro la Russia che riguarda fatti avvenuti in Crimea e nel Donbass. A ben 24 anni dagli impegni assunti dall’Italia nella Conferenza dell’Onu del 17 luglio 1998 arriva il nuovo codice sui crimini internazionali. Ci voleva la guerra di Putin contro l’Ucraina per decidersi a farlo? “No, perché in realtà l’iniziativa di nominare la commissione risale all’ottobre scorso. Poi se n’è riparlato in gennaio quando la decisione è stata presa, quindi prima che scoppiasse la guerra in Ucraina che, dunque, non ha rappresentato un’accelerazione. Il codice avrebbe dovuto essere scritto da tempo e finalmente è venuto il momento di farlo. Io privatamente, con una ricerca finanziata dalla Fondazione Cariplo, avevo già preparato un codice dei crimini internazionali, rimasto però finora nel cassetto. Ma ora lo tireremo di nuovo fuori”. Ci spieghi. Questo codice servirà solo per l’Italia o avrà una valenza internazionale? “Il codice è destinato all’Italia, perché attua lo Statuto di Roma che chiedeva di introdurre nelle nostre leggi nazionali i crimini già previsti nello Statuto stesso”. E quali saranno i crimini principali? “Nel codice figurerà tutto il complesso dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità, e ovviamente anche il genocidio. Nel trasformare in una legge italiana le previsioni dello Statuto possiamo fare degli adattamenti che rispettino l’impostazione dello Statuto stesso, ma con l’obiettivo di precisare meglio certi crimini.” Che rapporto ci potrà essere tra questo nuovo codice e la sua applicazione per crimini commessi all’estero? “Questo dipenderà dalle norme di giurisdizione, cioè dalla competenza che attribuiremo ai giudici italiani rispetto ai crimini commessi all’estero”. Quanti potranno essere i crimini previsti dal futuro codice? “Direi che potrebbero essere oltre sessanta”. Fino a oggi come ha fatto l’Italia, senza un codice ad hoc, a punire comunque questi crimini e che vantaggi porterà invece il codice nuovo? “In parte i crimini di guerra già esistono nel codice penale militare. Ma solo in parte, perché lì non ci sono tutti quelli previsti dallo Statuto di Roma. Per i crimini contro l’umanità invece c’è da lavorare di più. Perché il diritto internazionale descrive diversamente una serie di crimini che si possono forse ritrovare nel nostro codice penale, ma con una formulazione diversa rispetto alla legge internazionale. Quindi il nostro codice penale può non essere sufficiente per coprire interamente le fattispecie previste dal diritto internazionale, riuscendo a coprirle solo in parte”. Mi può fare un esempio? “Il crimine di tortura. Come sappiamo l’Italia ha introdotto il reato di tortura solo recentemente nel diritto interno, sottoponendolo ad alcune condizioni. In particolare quello della reiterazione del crimine ai fini della sua punibilità. Ebbene, il diritto internazionale invece non prevede la reiterazione. Quindi, per i crimini di guerra, adesso bisogna adattare il nostro diritto alla dimensione internazionale”. Lei è stato presidente del Tribunale dell’Aja per i crimini della ex Jugoslavia. Dunque la sua è anche un’esperienza sul campo, non solo da professore. In questo momento, quali sono i crimini principali su cui lavorerete di più? “È una domanda prematura perché non ci siamo ancora riuniti. Quando ero all’Aja i crimini più frequenti che abbiamo trattato erano, oltre agli omicidi, gli stupri e le persecuzioni. In Ruanda, dove sono stato giudice di Appello, ovviamente il crimine più contestato era il genocidio”. La sua esperienza all’Aja è stata lunghissima. Non ha l’impressione che alla fine la giustizia internazionale sia troppo lenta? “L’ho sempre avuta e ho cercato di accelerare i processi, ma non è stato sempre possibile. Purtroppo le indagini sono lunghe e i dibattimenti possono essere accelerati, ma non è semplice farlo”. Se ci fosse stato il codice sui crimini di guerra sarebbe stata più facile l’incriminazione di Erich Priebke che nel 1997 fu condannato a 15 anni per omicidio aggravato e continuato commesso contro 335 persone? “Sì, certo, il processo e l’incriminazione avrebbero potuto essere più facili”. Quindi, già di per sé, l’esistenza di un codice semplificherà le imputazioni e i processi? “Ovviamente, ma questo potrà accadere solo per i crimini commessi dopo l’adozione del codice stesso”. L’Ue si interroga su come distribuire i profughi di Carlo Lania Il Manifesto, 25 marzo 2022 Il G7 dei ministri dell’Interno. La Polonia: “Vicini al punto di rottura”. In difficoltà anche Moldavia e Romania. La generosità non basta più. Dopo aver aperto le sue porte ai profughi, l’Europa adesso ha necessità di organizzare meglio la distribuzione di quanti fuggono dall’Ucraina. Anche perché è urgente decongestionate al più presto quei Paesi che da un mese reggono l’impatto di milioni di persone che necessitano di tutto: cibo, vestiti, un posto dove alloggiare, assistenza medica e psicologica. Tomasz Szatowski, ambasciatore di Varsavia alla Nato, ieri l’ha detto chiaramente. La Polonia finora ha accolto due milioni di profughi ma il paese è ormai vicino al “punto di rottura”. “Non respingeremo nessuno tra quanti siano minacciati dalla guerra ma se questo afflusso continuerà immutato nelle settimane a venire - ha avverto il diplomatico - la situazione diverrà difficile per il paese”. Un problema che non riguarda solo la Polonia ma anche la Moldavia con 100 mila profughi a fronte di una popolazione di due milioni di abitanti, la Romania con più di 300 mila profughi e la stessa Germania dove il numero degli ucraini arrivati oscilla ormai tra i 200 e i 300 mila. Numeri più contenuti per l’Italia, dove fino a ieri sera gli arrivi registrati erano 67.885. Non a caso Mario Draghi ha ricordato come la gestione di una simile moltitudine di persone non può riguardare solo l’Europa. “E’ un dramma umanitario che va affrontato a livello mondiale, in sede Onu”, ha detto il premier a margine dei tre vertici - Nato, G7 e Consiglio europeo - che si sono tenuti a Bruxelles. La questione è stata affrontata anche nel G7 dei ministri dell’Interno - che si è tenuto sempre ieri - e sarà sul tavolo del vertice dei ministri dell’Interno dei 27 previsto per lunedì. Va detto che negli ultimi giorni si è registrata una flessione nel numero degli arrivi, dovuta però probabilmente solo alle maggiori difficoltà che chi fugge incontra nel raggiungere le frontiere dell’Unione. Nel corso del G7 il ministro canadese ha reso noto di aver ricevuto già 30 mila richieste di ingresso. Il Canada offre un permesso di soggiorno valido per tre anni con la possibilità di trasformarlo in definitivo e facilitazioni nei ricongiungimenti familiari. Anche dal Giappone è arrivata disponibilità all’accoglienza, sebbene non siano stati fatti numeri, mentre la ministra dell’Interno britannica Priti Patel ha parlato di 30 mila ucraini già presenti nel paese con la previsione di arrivare fino a 100 mila. Per quanto riguarda gli Stati uniti c’è invece la disponibilità ad accogliere fino a 100 mila persone. Per l’Italia la ministra Lamorgese ha spiegato che dei circa 70 mila arrivi “il 90 per cento è rappresentato da donne e minori e ne abbiamo in accoglienza un numero limitatissimo, sotto i 5 mila perché in molti si sono rivolti a parenti o amici ucraini”. Numeri che per quanto importanti, sono ancora del tutto insufficienti a far fronte alla più grande crisi dalla fine della Seconda guerra mondiale. Per questo nel vertice Gai di lunedì la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson presenterà una sorta di mappatura dell’accoglienza nell’Unione che dovrebbe servire a una migliore distribuzione delle persone tra gli Stati membri: “I miei servizi ha spiegato la commissaria - hanno creato un indice per vedere quanti rifugiati ucraini sono ancora in ciascuno Stato”. Il numero verrebbe poi confrontato con le richieste di asilo ricevute dagli stessi Stati l’anno scorso e con le loro dimensioni in modo da capire quali tra questi si trovano oggi in maggior difficoltà. Ne frattempo la Germania ha annunciato per oggi un ponte aereo per il trasferimento degli ucraini che si trovano in Moldavia. C’è poi la questione aiuti economici. Il consiglio europeo darà oggi il via libera alla proposta della Commissione di stanziare ulteriori 3,5 miliardi di euro da destinare ai paesi maggiormente impegnati nell’accoglienza. La nuova accoglienza possibile: profughi senza veti in Europa di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 25 marzo 2022 È necessario rivedere il regolamento di Dublino, che vincola il migrante al Paese d’arrivo. Oggi sono i Paesi del gruppo Visegrad i più esposti al flusso di fuggitivi. Se davvero ogni crisi ha in sé pericoli e opportunità, quella dei rifugiati ucraini ne contiene per noi dosi notevoli in egual misura. È impossibile, infatti, non considerare i rischi connessi a un’ondata di profughi senza precedenti nel nostro continente dalla Seconda guerra mondiale in poi. E, tuttavia, sarebbe miope non intravedere il cambio di passo che questo flusso può generare in un quadro paralizzato dai veti quale è, da anni, la politica europea sulle grandi migrazioni. Di fronte a una simile accelerazione della storia, il Consiglio europeo, che in queste ore ha affrontato lo scenario della guerra di Putin quasi in contemporanea con i vertici del G7 e della Nato, s’è ritrovato, enfatizzata nei dossier, una questione a lungo rimossa, che ha da tempo ricadute dirette sul tasso di coesione delle società occidentali e persino sulla tenuta delle nostre democrazie. Il massacro dei civili, coi bombardamenti su scuole e ospedali, ha portato a fuggire dall’Ucraina fra i tre e i quattro milioni di profughi, con proiezioni Ue che prevedono si giunga ai sette milioni, in stragrande maggioranza donne e bambini: in un mese solo da noi ne sono arrivati sessantamila, un numero pari a tutti gli sbarchi in Italia del 2021 che avevano fatto gridare taluni alla ripresa della “immigrazione incontrollata”. Ma la situazione adesso è assai mutata, la mobilitazione internazionale diffusa e la consapevolezza (forse infine raggiunta) che le prime vittime delle guerre sono i civili hanno fatto sì che le braccia restassero (per ora) spalancate all’accoglienza. La differenza più grande riguarda i Paesi del gruppo Visegrad (Polonia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca), i più orientali dell’Unione, i più esposti al pericolo rappresentato da Putin: e i più soggetti all’immenso flusso di rifugiati. Sarebbero loro i primi a patire gli effetti del regolamento di Dublino, che vincola il migrante al Paese d’arrivo (e alla cui riforma si sono sempre opposti quando noi la invocavamo). Sarebbero loro a trovarsi in condizioni assai peggiori delle nostre durante le crisi generate dalle cosiddette primavere arabe degli anni Dieci, se l’Unione non avesse attivato, per la prima volta dalla sua emanazione, la direttiva 2001/55, creata proprio per affrontare afflussi massicci di cittadini stranieri che non possano rientrare nei loro Paesi, soprattutto a causa di guerre, violenze o violazioni dei diritti umani. Con essa si attribuisce agli ucraini una protezione temporanea (ora di un anno, ma si arriverà a tre) grazie alla quale è possibile muoversi, lavorare, ottenere servizi in tutto il territorio Ue: un provvedimento che di fatto sospende per loro gli effetti del regolamento di Dublino. È dunque il momento, come da risoluzione di maggioranza approvata in queste ore nel Parlamento italiano, per spingere su una riforma radicale e condivisa del Trattato, costringendo i Paesi finora ostili a ragionare sulla ripartizione dei profughi e dei migranti per quote/Paese, sul percorso comune per i rimpatri e il controllo dei flussi, sulla riapertura reale ai permessi di soggiorno per lavoro (bloccati sostanzialmente da anni). Insomma, la crisi contiene una vera opportunità, per noi europei, segnatamente noi europei col Mediterraneo come frontiera: se solo sapremo coglierla. Contiene tuttavia anche un pericolo ulteriore, già alle viste. Proprio per superare le resistenze di Visegrad, il Consiglio ha lasciato agli Stati membri il potere di decidere se applicare la direttiva o le normative nazionali in materia di protezione. E, soprattutto, ha limitato il diritto alla protezione temporanea alle sole persone “stabilmente residenti” in Ucraina. Bloccata sotto le bombe è rimasta una parte consistente dei cinque milioni di stranieri lì presenti (dato Onu 2020), lavoratori, studenti, richiedenti asilo, altri migranti di breve termine. L’allarme è stato dato dall’Istituto di ricerche Idos: si rischia di costituire due categorie di profughi, serie A e serie B. E si segnalano già molti respingimenti sulla base del colore della pelle. Qualche europarlamentare leghista dal pensiero semplice, diciamo così, ha paventato il rischio che l’Ucraina e il suo inferno diventino “un viatico per tutti quelli che scappano dall’Africa” (sic). Del resto, buona parte della destra mette paletti tra “i profughi veri” (gli ucraini) e quelli “finti” (gli africani), dimenticando che in Africa, in questo momento, è aperta una trentina di conflitti di varia intensità (una dozzina solo nell’area subsahariana), sono attivi numerosi tiranni e scappare dalla guerra civile del Tigrè, dagli Shabaab somali o dai lager libici non è poi così diverso dal fuggire dalle bombe di Putin. Soprattutto è nostro interesse nazionale non dividerci sui profughi e far leva così sull’Europa. Certo, sarebbe un’ipocrisia del politicamente corretto negare che gli ucraini, cristiani, europei e spesso legati a decine di migliaia di connazionali già presenti in Italia, appaiano più facili da integrare. Ma la vera scommessa è, come ha scritto un esperto di migrazioni quale Maurizio Ambrosini, estendere infine queste misure a tutti i rifugiati, di tutte le guerre. Ridisegnare da protagonisti mappe e identikit di chi ha diritto a muoversi in Europa è una partita che, quando questa guerra sarà finita, potrà cambiare il nostro futuro. I rifugiati “non bianchi” in fuga dall’Ucraina finiscono nei Centri di detenzione di Giulio Cavalli Left, 25 marzo 2022 Un’indagine di The Independent in collaborazione con Lighthouse Reports lo dice chiaro e tondo: i residenti ucraini di origine africana che hanno attraversato il confine per sfuggire alla guerra sono stati rinchiusi in Centri per l’immigrazione, alcuni di loro si trovano lì da diverse settimane. Almeno quattro studenti fuggiti dall’invasione di Vladimir Putin sono detenuti in una struttura di detenzione a lungo termine di Lesznowola, un villaggio a 40 km dalla capitale polacca Varsavia, con pochi mezzi di comunicazione con il mondo esterno e senza consulenza legale. Uno di loro ha detto di essere stato fermato dai funzionari mentre attraversavano il confine e di non aver avuto “scelta”: ha dovuto di firmare un documento che non comprendeva prima di essere trasferito al campo. Un uomo nigeriano attualmente detenuto ha detto di essere “spaventato” per quello che gli accadrà dopo essere stato trattenuto nella struttura per più di tre settimane. La polizia di frontiera polacca ha confermato che 52 cittadini di Paesi terzi fuggiti dall’Ucraina sono attualmente detenuti in centri di detenzione in Polonia. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ha affermato di essere a conoscenza di altre tre strutture in Polonia dove sono detenute persone non ucraine fuggite dalla guerra. Uno studente nigeriano fuggito dall’invasione russa sarebbe stato detenuto in Estonia dopo essersi recato nel Paese per raggiungere i parenti e ora è minacciato di espulsione. Maria Arena, presidente della commissione per i diritti umani del parlamento Ue, ha dichiarato: “Gli studenti internazionali in Ucraina, così come gli ucraini, sono a rischio e rischiano la vita nel Paese. La detenzione, l’espulsione o qualsiasi altra misura che non garantisca loro protezione non è accettabile”. Jeff Crisp, ex capo della politica, dello sviluppo e della valutazione dell’Unhcr, ha affermato che è “chiaramente insoddisfacente e discriminatorio” che cittadini di Paesi terzi fuggiti dall’Ucraina vengano trattenuti nei centri di detenzione negli Stati dell’Ue. Ha aggiunto: “Dovrebbero essere rilasciati immediatamente e trattati alla pari con tutti gli altri che sono stati costretti a lasciare l’Ucraina”. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati Filippo Grandi ha avvertito questa settimana che, sebbene sia soddisfatto dal sostegno dei Paesi che accolgono i rifugiati ucraini, molte minoranze - spesso stranieri che vi hanno studiato o lavorato - hanno descritto un’esperienza molto diversa. “Abbiamo anche testimoniato una pessima realtà: alcuni neri in fuga dall’Ucraina - e altre guerre e conflitti in tutto il mondo - non hanno ricevuto lo stesso trattamento dei rifugiati ucraini”, ha spiegato. Se ne parla ormai da settimane. Intanto il razzismo continua. Aiutare tutti, ma proprio tutti: questo è il dovere. Nicaragua. Ambasciatore rompe il silenzio e denuncia: “Nel mio Paese c’è la dittatura” di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 25 marzo 2022 Arturo McFields Yescas, ex giornalista di Canal 12 e considerato tra i fedelissimi del presidente Ortega, è intervenuto davanti al Consiglio permanente dell’Organizzazione degli Stati americani a Washington. Daniel Ortega riceve il primo, importante smacco da uno degli uomini di cui più si fidava e che aveva premiato con incarichi istituzionali di prestigio. E che invece ora ha denunciato il regime dittatoriale alla guida del Nicaragua. Si chiama Arturo McFields Yescas. È un ex giornalista di Canal 12, una tv privata locale, che le cronache adesso ricordano per un suo famoso collegamento in diretta dalla casa dei coniugi Ortega una vigilia di Natale. Dopo aver filmato le decorazioni della casa, l’arredamento raffinato e la serie infinita di icone, pupazzi, statue e quadretti che confermavano la fede evangelica della moglie Rosario Murillo, da lei interpretata in modo eclettico e avvolta da misticismo, Yescas si sofferma sulla donna e le chiede cosa significhi per lei il Natale. La moglie di Ortega, da sempre consigliera e figura centrale nell’ascesa politica del marito, risponde compiaciuta della domanda con una delle sue classiche frasi piene di apparente bontà. “Per me significa l’opportunità per far rafforzare in ogni cuore la nascita di Cristo”. La scena è ricordata nell’articolo di El País che, come molti altri quotidiani internazionali, riporta la notizia che ha scosso sia Managua sia l’Organizzazione degli Stati americani (Osa). È indicata perché McFields, dopo quell’intervista piena di buoni propositi dei protagonisti, entrò nelle grazie del presidente-padrone e iniziò una folgorante carriera diplomatica. Ortega lo propose per diversi incarichi e vista l’ottima immagine che l’ex giornalista diffondeva del regime del paese lo nominò ambasciatore permanente del Nicaragua presso l’Osa. Il diplomatico, in tutti questi anni ha evitato di intervenire sulle continue critiche alla deriva autoritaria del suo presidente. Si era limitato a rintuzzare gli attacchi per le stragi commesse dalle squadracce del regime durante le sommosse del 2018. Si era perfino trattenuto dall’esternare il suo disagio davanti agli arresti degli stessi compagni di lotta di Ortega, che lui stesso conosceva, nei giorni scorsi tutti condannati a pene pesanti sulla base di prove false e accuse assurde. Due giorni fa, con l’ennesima sentenza che spediva in carcere anche gli avversari alle ultime elezioni, Yescas è esploso e ha detto quello che pensava da tempo. È intervenuto davanti al Consiglio permanente dell’Organizzazione degli Stati americani a Washington e ha raccontato in modo crudo cosa accade a Managua. “Mi è difficile denunciare la dittatura che affligge il mio Paese, ma mi è impossibile difenderla”. La frase ha colto di sorpresa i delegati ma è stata vista come una liberazione. “La stessa gente che sta nel governo”, ha continuato l’ambasciatore, “è stanca di questa dittatura. In Nicaragua si violano sistematicamente i diritti umani, ci sono centinaia di prigionieri politici in carcere senza prove concrete dell’accusa e spesso senza essere stati ancora processati”. Figlio del poeta nicaraguense David McFields, Arturo da sempre è amico di Rosario Murillo. Assieme, ricorda El País, fondarono negli anni Settanta del secolo scorso il Gruppo Gradas, formato da intellettuali e artisti che si riunivano nella cattedrale di Managua leggendo poesie e libri come forma di protesta contro il nemico di allora, il dittatore Anastacio Somoza. La stessa Murillo finì in carcere per la sua attività considerata sovversiva e riuscì a fuggire in Venezuela dopo essere stata liberata. Entrambi erano legati al mondo cattolico con il quale McFields lavorò a lungo scrivendo per giornali e poi passando a Canal 12, una rete fedele al regime. La presa di coscienza e la successiva denuncia all’Osa sono state accolte con entusiasmo dai pochi dissidenti ancora presenti in Nicaragua e dai tanti costretti all’esilio in Costa Rica. Ha acceso nuove speranze. “La storia ricorderà il suo gesto”, commentavano in tanti, “il popolo nicaraguense gli sarà grato. Speriamo che molti altri seguano il suo esempio”. Arturo McFields Yescas ha probabilmente chiuso la sua carriera. L’ha chiusa con l’unico gesto che gli restava da uomo libero. Raccontare una verità che molti conoscono ma che per interessi economici, commerciali anche geopolitici fanno finta di ignorare.