Dap, insediamento del nuovo capo Renoldi gnewsonline.it, 24 marzo 2022 Si è insediato questa mattina, il nuovo capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), Carlo Renoldi. Prima di raggiungere la sede dipartimentale, Renoldi si è recato al Ministero della Giustizia per un breve incontro con la ministra Marta Cartabia e per la presa di possesso dell’incarico. A Largo Daga il nuovo vertice dell’Amministrazione Penitenziaria ha ricevuto gli onori del picchetto della Polizia Penitenziaria schierato nel piazzale antistante. Accolto dal vice capo, Roberto Tartaglia, ha salutato i direttori generali del Personale e delle risorse, Massimo Parisi, dei Detenuti e del trattamento, Gianfranco De Gesu, della Formazione, Riccardo Turrini Vita, e il personale della sua segreteria. Il nuovo Capo Dap è stato poi accompagnato nel suo ufficio dove si è trattenuto con il vice capo e con i direttori generali per una prima riunione operativa. Renoldi è stato nominato al vertice del Dap dal Consiglio dei ministri che ha approvato all’unanimità la proposta della ministra della Giustizia. Originario di Cagliari, 53 anni, è stato magistrato penale e poi di sorveglianza nella sua città. Prima della nomina a capo dell’Amministrazione Penitenziaria è stato consigliere di Cassazione, nella prima sezione penale, con competenza nella materia penitenziaria e dell’esecuzione penale. Di esecuzione penale in carcere si è occupato anche da magistrato nell’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia nel 2013, ai tempi della condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani (Cedu) di Strasburgo per il sovraffollamento degli istituti. Renoldi ha fatto parte del Comitato scientifico del Consiglio superiore della magistratura ed è stato componente della ‘Commissione Giostra’ per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Docente presso la Scuola di perfezionamento in materie giuridiche della Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari, ha insegnato anche nelle Scuola di formazione della Polizia penitenziaria di Monastir e nel master ‘Diritto penitenziario e Costituzione’. Succede a Dino Petralia che ha lasciato l’incarico il 1° marzo del 2022. Fermenti lattici vivi e richieste di liberazione anticipata rigettate di Michele Passione* Il Dubbio, 24 marzo 2022 Quando i motivi dei provvedimenti non trovano una ragion d’essere. La chiamano magistratura di prossimità, perché vicina al luogo (e soprattutto alla persona) dove la pena si esegue. Spetta infatti al magistrato di sorveglianza del posto ove il detenuto è ristretto (tra l’altro) “esercitare la vigilanza diretta ad assicurare che l’esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti” (art. 69/ o. p.). Lo sappiamo, e da sempre lo diciamo; non è possibile per chi fa quel mestiere difficile (un numero ristretto di giudici senza risorse, schiacciati da mille incombenze e travolti da mille richieste) assolvere puntualmente a tutte le funzioni previste nella norma citata. Succede però che qualcuno (un po’ originale, direbbe Faber) pensa di poter provvedere in materia di liberazione anticipata (provvedimento di competenza del magistrato monocratico, di concessione di eventuale detrazione di quarantacinque giorni di reclusione per ogni semestre di pena scontato “quale riconoscimento della partecipazione all’opera di rieducazione e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società”) rigettando la richiesta avanzata per motivi che non trovano una ragion d’essere. Carcere del Sud, detenuto straniero, fine pena ancora lontano; richiesta per cinque semestri. Nulla quaestio per quattro (vi era stato un richiamo per non meglio indicata intimidazione/ sopraffazioni dei compagni, nel semestre di interesse per quel che qui rileva, ma pare poco più che un inciso); infatti, le vere “ragioni” son quelle che seguono. Si legge che “veniva rinvenuta nella camera di pernottamento… una maglietta arrotolata attaccata ad un cestino, dalla quale gocciolava un liquido giallastro. I detenuti (tre occupanti la cella) affermavano che tale sistema servisse per preparare yogurt artigianale. La Polizia Penitenziaria constatava che effettivamente nella maglietta ci fosse del latte coagulato e che ci fosse totale mancanza di igiene. L’episodio, anche se isolato, denota una mancanza di partecipazione all’opera rieducativa del prevenuto nel semestre x”. Fa quasi sorridere, pensare alla relazione di servizio che annota la presenza del latte coagulato. Noi non sappiamo se quel detenuto fosse “in condizioni fisiche o psichiche che consentissero di provvedere direttamente alla pulizia della camera detentiva e del relativo servizio igienico” (art. 6/ 5 del DPR n. 230/ 2000), né se gli fossero “stati messi a disposizione mezzi adeguati”. Sappiamo con certezza che ovunque (in tutte le galere italiane) i cessi sono in cella (altro che camere), alla turca, e che l’igiene è una chimera (non certo per sola responsabilità dei ristretti, ché le ragioni di fondo sono endemiche). Sappiamo che lo yogurt si consuma, e si acquista al sopravvitto. Sappiamo che non è vero che “il vitto è consumato di regola in locali all’uopo destinati” e che “il regolamento interno stabilisce le modalità con le quali, a turno, i detenuti e gli internati sono ammessi a cucinare in locali attrezzati a tal fine” (art. 13/3 Dpr n. 230/2000), perché praticamente ovunque mancano i locali (e i regolamenti). Sappiamo che si cucina e si mangia in cella (comma 4) e che sempre ci si arrangia (i detenuti, di norma, cucinano benissimo). Sappiamo che lo yogurt fa bene, noi lo mangiamo a colazione; in galera non si può. Come il sesso, come appendere foto con cornici fuori misura (al 41 bis), come tentare di ammazzarsi: incredibile, ma anche questo è sanzionato. Carcere del centro Italia. Una detenuta si impicca, ci prova; si legge “considerato che il tentativo di togliersi la vita mediante impiccagione è incompatibile con il presupposto della liberazione anticipata che è la partecipazione all’opera rieducativa, rigetta l’istanza relativa al semestre”. Non possiamo sapere quali fossero le ragioni (c’è mai una ragione, una sola?). Per quel che qui rileva, valgono i dati, che evidenziano come i casi di suicidi in carcere siano 10 volte in più rispetto alla popolazione libera. E tuttavia, la Passione contemporanea (D. Fassin) di punire si è spinta fino a questo. Per fortuna il Tribunale ha riformato quel provvedimento, dimentico della pietas, prima ancora che del diritto; ci auguriamo che anche per lo yogurt (che ha una scadenza, come la pena di quel detenuto) il Tribunale del Sud faccia lo stesso. Fermenti lattici vivi. Sipario. *Avvocato Taser agli agenti penitenziari. Prove di tortura dietro le sbarre di Giorgio Iusti La Notizia, 24 marzo 2022 La Guardasigilli Marta Cartabia non lo esclude. E presto il taser, l’arma che secondo le Nazioni Unite equivale ad uno strumento di tortura, potrebbe essere fornito in via sperimentale alla Polizia penitenziaria. Equiparato dall’Onu a una forma di tortura, il taser fa capolino anche nelle carceri. L’arma che tanto piace ai leghisti, ma che secondo alcuni studi espone maggiormente gli agenti alle aggressioni, potrebbe infatti essere assegnata alla polizia penitenziaria. Ad aprire a tale ipotesi, rispondendo alla Camera in sede di question time a un quesito posto proprio dal Carroccio, è stata la ministra della giustizia Marta Cartabia. Un particolare che porta a ipotizzare ulteriori difficoltà nella già difficile gestione dell’amministrazione penitenziaria, su cui da tempo piovono critiche. Rispondendo a un’interrogazione del leghista Luca Paolini, la ministra Cartabia ha sostenuto che i fatti di Pesaro sono indubbiamente gravi e le aggressioni alle donne e agli uomini della polizia penitenziaria sono ormai troppe. Ha specificato che le tensioni negli istituti penitenziari sono cresciute dall’inizio della pandemia, complici la paura per il contagio, il fermo dei colloqui, dei trasferimenti e di tutte le attività, che hanno reso il carcere negli ultimi due anni un ambiente più opprimente e più difficile il lavoro degli agenti. “L’amministrazione penitenziaria - ha evidenziato la guardasigilli - è ben consapevole di questa difficoltà ed è costantemente impegnata nel consolidamento delle migliori soluzioni per prevenire e contrastare in carcere queste aggressioni. Su questo aspetto io stessa ho avuto plurime interlocuzioni con i sindacati della polizia che hanno chiesto anzitutto di potenziare gli strumenti di videosorveglianza e di bodycam. E giustamente l’Amministrazione si è attivata per garantirne la piena diffusione e stiamo seguendo questo fronte”. Per quanto riguarda l’eventuale sperimentazione anche per la polizia penitenziaria dello storditore elettrico, la guardasigilli ha sostenuto che deve “sottostare alle stesse regole e alle stesse limitazioni già previste per l’impiego di ogni altro armamento speciale di reparto, proprio a garanzia della sicurezza”, aggiungendo che “eventuali sperimentazioni” possono avvenire in tale ambito. “Le condizioni di sicurezza all’interno di un carcere - ha aggiunto - sono peculiari rispetto a quelle che si possono immaginare nella società esterna. La polizia penitenziaria, come tutti gli altri corpi di polizia, ha il compito di essere presidio della sicurezza, ma opera in un sistema chiuso, e questo richiede regole speciali e uno speciale addestramento. Per questo non si possono proiettare automaticamente all’interno degli istituti gli esiti acquisiti dalla sperimentazione curata dal Ministero dell’Interno, anche in relazione ai possibili effetti deterrenti derivanti dall’uso delle armi ad impulsi elettrici”. Un limite, ma senza alcuna chiusura all’ipotesi di far entrare anche il taser nelle carceri. Intanto il leghista Nicola Molteni, sottosegretario agli interni, gongola per il via libera all’uso dello storditore elettrico anche a Torino, nell’ambito dello sgombero della ex Gondrand. “La pistola a impulsi elettrici, in dotazione alla Polizia di Torino da lunedì scorso - ha detto - al suo primo utilizzo nel capoluogo piemontese ha immediatamente prodotto effetti positivi, dimostrandosi ancora una volta utile e efficace”. E la prossima settimana lo strumento su cui tanto ha puntato Matteo Salvini quando era ministro dell’interno entrerà in funzione anche a Catania, Caserta, Messina, Cagliari e Genova. Caro Verini, come puoi obbedire ai pm militanti sull’ergastolo ostativo? di Alessandro Barbano Il Dubbio, 24 marzo 2022 Il principio di rieducazione della pena e il fine-pena-mai possono stare nello stesso pantheon di valori? È una singolare coincidenza degli opposti, che farebbe rizzare il naso perfino al suo inventore, Nicola Cusano. Se il filosofo neoplatonico la colloca nell’infinità di Dio, Walter Verini la cerca nella giustizia terrena, professando al tempo stesso un carcere che redime e uno che annienta. Nell’ambigua subalternità ai Cinquestelle e al partito dell’antimafia, il deputato del Pd compie il miracolo degli estremi che si toccano. In un’intervista al Dubbio plaude contemporaneamente a una detenzione finalizzata al reinserimento, e a un ergastolo ostativo che diventa, con la riforma dai lui benedetta, un’enorme fossa comune dove gettare senza pietà un popolo di morti viventi. Verini è il simbolo del fariseismo di partiti capaci di qualunque torsione. Anche di quella che presenta come un giusto compromesso una capitolazione all’egemonia forcaiola. Perché non c’è da dubitare che il guardasigilli ombra del Pd sappia bene quanto degradante, inumano e contrario alla Costituzione sia un regime carcerario che coincida con una pena di morte a lenta esecuzione. E sappia altresì che questa sorte in Italia non è riservata, come una vulgata menzognera vorrebbe far credere, solo ai capi mafiosi, che sono meno di trecento. Ma a 1250 detenuti sui circa 1800 ergastolani, cioè due su tre. Il detenuto all’ergastolo ostativo non vedrà mai la luce del sole perché, al momento dell’arresto, non si è pentito e non ha fornito delazioni che il pm ritenesse, a suo insindacabile giudizio, utili alle indagini. Poco conta che si sia dissociato dai vincoli criminali, che abbia tenuto una buona condotta in carcere, che abbia compiuto un percorso sincero di redenzione, che magari abbia preso a studiare e che abbia rifondato il suo universo morale. Poco conta che sia un uomo del tutto diverso da quello che si è macchiato del crimine per cui è stato condannato. Se ha scelto di non accusare nessuno, magari per non esporre la propria famiglia a una vendetta trasversale, non avrà scampo. La Consulta ha dato un anno di tempo al Parlamento per modificare questo insano istituto, salvaguardando le esigenze della sicurezza. Altrimenti, ha detto, intervengo io. E la politica è riuscita nell’impresa di cambiare l’ergastolo per renderlo più ultimativo, più irredimibile, più inumano, piegandosi alle pressioni di quella corporativa concrezione di poteri che è diventata l’Antimafia. Nella cui commissione parlamentare si è svolto, senza che nessuno ne avesse chiesto un parere, un esame della legge parallelo a quello che si teneva in commissione Giustizia. Dal pulpito delle loro audizioni, in perfetta consonanza, alcuni procuratori militanti hanno lanciato il loro anatema al sistema politico, avvisandolo che dismettere l’ergastolo ostativo avrebbe significato fare il gioco della mafia. Capite che quest’ultimo avvertimento avrebbe messo chiunque con le spalle al muro. L’ex procuratore Giancarlo Caselli l’ha mosso perfino alla Corte Costituzionale, criticata per aver chiesto alla politica di abolire l’automatismo per cui chi non collabora con il pm muore dietro le sbarre. E l’ha mosso al Parlamento, a cui ha chiesto di non arretrare di un centimetro rispetto al rigore di questa norma. Sapete che ha fatto il Parlamento? Anziché arretrare, è avanzato. La sintesi a cui sono approdati i partiti è una controriforma. Che per prima cosa porta da ventisei a trent’anni il termine per beneficiare della liberazione condizionale. È una misura di pura propaganda, del tutto inutile per limitare la scarcerazione degli ergastolani mafiosi, la maggior parte dei quali ha già superato i tre decenni di carcere. In secondo luogo cancella la cosiddetta collaborazione inesigibile, che la Consulta aveva indicato quale condizione per accedere alla liberazione anticipata. Chi non può collaborare con la giustizia, perché i fatti e le responsabilità sono stati tutti accertati, o perché ha avuto un ruolo marginale nell’organizzazione criminale, viene considerato al pari di colui che sceglie di non collaborare. A entrambi viene richiesta una prova diabolica: dimostrare, contro il parere delle Procure, l’esclusione di collegamenti attuali con la criminalità organizzata e con il contesto nel quale il reato è stato commesso. Alla lettera vuol dire che, quand’anche il detenuto riuscisse a convincere il tribunale di sorveglianza, la cui decisione diventa collegiale, che non esiste nessun pericolo di recidiva, sarà per lui impossibile godere della scarcerazione e, prima ancora, dei permessi premio nei territori di provenienza. Ma non finisce qui. La norma impone all’ergastolano che voglia ottenere i benefici di aver adempiuto agli obblighi civili e di riparazione pecuniaria, favorendo in tal modo chi è dotato di risorse materiali che nulla hanno a che fare con il percorso di rieducazione. Qui la legge impropriamente richiama la giustizia riparativa, per la quale la rinuncia delle vittime del reato ad accettare la riparazione comporterebbe il rifiuto del tribunale alla scarcerazione o ai permessi premio per il detenuto. Il radicalismo antimafioso sembra vagheggiare una costituzione tutta sua, che però contrasta con il costituzionalismo italiano ed europeo, ammonisce uno dei più autorevoli studiosi del diritto penale in Italia, Giovanni Fiandaca. Ma nessuna tra le forze politiche dimostra di preoccuparsene. Per compiacenza, per indifferenza, o per paura. Così la battaglia dei magistrati militanti assume la forma di una crociata, e come tutte le guerre di religione è condotta con ogni mezzo. Il pm Nino Di Matteo lancia una fatwa contro il nuovo capo del Dap, Carlo Renoldi, un magistrato di sorveglianza che considera il carcere un luogo di rieducazione e non di tortura. I Cinquestelle e la stampa di complemento gli vanno dietro con una campagna di denigrazione. Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, attacca in tv e nelle piazze la guardasigilli, accusandola di disarmare la lotta alla mafia e definendo “devastante” la sua riforma. Con l’inasprimento dell’ergastolo ostativo la rivoluzione costituente diventa una sfida aperta alla Consulta. Si compie trasformando la pena rieducativa in una pena di morte mascherata. Con la foglia di fico di una norma transitoria, osteggiata peraltro dai Cinquestelle, che dovrebbe tutelare i diritti acquisiti dai detenuti, ma che in realtà è un tentativo di sottrarre la legge al prevedibile giudizio di censura costituzionale. È singolare che su quest’esito, pronto ad approdare in aula dopo il prevedibile sì in commissione, convergano tutti i partiti, compresi Italia Viva e Forza Italia, cioè le forze politiche più sensibili alla difesa dei diritti e delle garanzie. Con due sole eccezioni, rappresentate dalla deputata del Pd Enza Bruno Bossio, che ha conosciuto sulla sua pelle la spregiudicatezza della magistratura calabrese, salvo poi essere prosciolta dalle accuse di corruzione, e la deputata di Italia Viva Lucia Annibali, vittima di una brutale aggressione con l’acido che non le ha tolto l’umanità e il senso della misura. Lo Stato di diritto sta nelle mani di queste due donne illuminate e coraggiose, che combattono da sole contro un esercito di giustizialisti. Compiaciuti, come chi getta volentieri la Costituzione insieme con le chiavi della cella. Inconsapevoli, come chi ignora gli usi e i soprusi che, in nome della lotta alla mafia, possono compiere i professionisti del bene. Intermittenti, come chi vede la violenza della giustizia solo quando tocca la politica. Subalterni, come chi fa buon viso a cattivo gioco, per un interesse di parte. È quest’ultimo il caso di Verini e del suo Pd, pronti a barattare la solidarietà per un pugno di voti. E a infliggere a un ragazzo - tra gli ergastolani non mancano condannati ancora diciottenni una pena perpetua, fingendo di ignorare quali condizionamenti ambientali e quali tragiche disuguaglianze incidano sulle traiettorie devianti della gioventù. Chissà se Verini ha pensato che per questi condannati è una fortuna che l’aspettativa di vita dietro le sbarre sia più breve rispetto al mondo dei liberi, perché altrimenti il sollievo della morte del corpo arriverà dopo cinquanta o sessanta anni. O se invece ha ceduto alla dissimulazione di un pensiero securitario: fare del carcere il luogo dove simbolicamente confiniamo tutto il male del mondo, per non vederlo più. Case famiglia per mamme detenute, i fondi ci sono ma restano sulla carta di Viviana Lanza Il Riformista, 24 marzo 2022 L’audizione in Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza. Si era deciso, circa un anno fa, che ogni anno per tre anni la Campania avrebbe avuto fondi per 240mila euro da destinare alla realizzazione di case famiglia protette dove ospitare donne detenute con figli minorenni al seguito. Il Governo lo aveva stabilito come primo passo per togliere dal carcere bambini innocenti, la Campania è al terzo posto dopo Sicilia e Lombardia per entità del finanziamento. Ma la novità è che non ci sono novità, che tutto è fermo, che nessuno di quei soldi è servito a realizzare una casa famiglia per il momento. Lo ha ribadito il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, nel corso della sua audizione nella Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza. “A me fa piacere che il Parlamento abbia approvato in bilancio il finanziamento di case famiglie protette per detenute con figli che devono scontare tre anni di pena, ma ad oggi non è partito niente e siamo ancora fermi a un riparto dei fondi che ritengo sia stato fatto un po’ male, perché con il criterio adottato si rischia una dispersione dei fondi - spiega Ciambriello - sarebbe meglio invece individuare tre o quattro luoghi per tutto il territorio nazionale e concentrare lì strutture di accoglienza e case famiglia protette. In Campania, poi, si consideri che c’è il 50% delle mamme detenute”. Numeri a parte, ci sono anche molti paradossi. “Far vivere in carcere la maternità, la tutela degli affetti, l’educazione dei figli è incompatibile con il carcere stesso e il paradosso - aggiunge Ciambriello parlando alla Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza di Palazzo San Macuto - è che servizi e assistenza vengono offerti alle donne ai loro bambini quando sono in carcere e non quando sono fuori, non prima che finiscano in carcere”. In Campania, ormai da anni, le donne detenute con bambini al seguito sono recluse nell’Icam di Lauro, nell’Avellinese. L’Icam è un istituto a custodia attenuata, cioè prevede restrizioni come un carcere ma non ha le sembianze di un carcere vero e proprio. Le sezioni si chiamano lati: c’è quello azzurro e quello arancione. Le celle sono bilocali con zona letto e angolo cottura, gli agenti non indossano la divisa e gestiscono la sicurezza soprattutto attraverso il sistema di videosorveglianza. Il cortile esterno è una sorta di piazzetta con panchine e parco giochi e dentro la vita somiglia un po’ di meno a quella di una galera e un po’ di più a quella fuori, libera, che ogni bambino dovrebbe vivere. I bambini dell’Icam che frequentano la scuola dell’infanzia o la primaria sono i primi a salire sul pulmino comunale e gli ultimi ascendere, così nessuno rischia l’imbarazzo di uscire e rientrare nel grande cubo che è l’Icam di Lauro. “Nel corso del tempo abbiamo avuto una presenza costante - spiega Paolo Pastena, il direttore dell’Icam di Lauro - tanto che non siamo mai scesi al di sotto delle sei mamme, toccando anche punte di sedici madri in un determinato periodo con altrettanti figli. La struttura di Lauro nasce da un’idea elaborata dal provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria con l’università Federico II di Napoli per costruire ambienti che ricordassero poco un istituto penitenziario e molto più una civile abitazione. Per le attività educative ci sono i volontari. Abbiamo due psicologi, un pediatra di libera scelta, un’infermiera. Due bambini autistici hanno cominciato nella struttura il trattamento e lo scorso anno due madri hanno partorito durante la detenzione”. Insomma, l’istituto funziona. Ma è pur sempre una struttura detentiva con tutte le criticità che questo comporta. “Una mamma detenuta dovrebbe stare in istituto pochi giorni, ci sono state mamme che sono rimaste tre o quattro anni - racconta il direttore Pastena - La permanenza in un Icam non dovrebbe durare a lungo, dovrebbe subito esserci un’evoluzione successiva”. Ordinamento giudiziario, rinvio di 15 giorni e il Csm boccia la riforma di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2022 Slitta di due settimane l’approdo in Aula alla Camera della riforma di Csm e ordinamento giudiziario. Ora è calendarizzata per l’11 aprile. Questo l’esito della riunione di ieri tra la ministra della Giustizia Marta Cartabia e le forze di maggioranza. Oggi pomeriggio alle 14 nuovo round, questa volta per entrare nel merito delle parti più divisive, quelle sulle quali un po’ tutti i partiti si sono esercitati nel presentare proposte di correzione. Centrali sono così i temi del sistema elettorale, sul quale resta forte la spinta per l’introduzione di forme di sorteggio, integrale oppure parziale, per evitare rischi di incostituzionalità (è comunque assai possibile che su questo punto sarà lo stesso ministero a esporsi togliendolo dal tavolo proprio per la dubbia tenuta costituzionale); i rapporti tra politica e magistratura, con la definizione dei magistrati interessati dal blocco alle “porte girevoli”; la separazione definitiva, se non delle carriere, almeno delle funzioni, punto sul quale la Corte costituzionale ha dichiarato ammissibile il quesito referendario, le valutazioni di professionalità dei magistrati. Tutti elementi sui quali non è stata possibile sinora una sintesi e sui quali oggi si proverà a trovare un’intesa. Tenendo conto oltretutto, aspetto emerso ieri con una certa evidenza, che, se è necessario arrivare a un’approvazione definitiva della riforma in tempo utile per poterla applicare alle prossime consultazioni per il rinnovo del Consiglio superiore, considerando anche le disposizioni applicative che saranno comunque necessarie, allora una forma di coinvolgimento del Senato già in questa fase andrebbe individuata. Ed è quindi assai probabile che già dai prossimi incontri tecnici potranno essere coinvolti i capigruppo della commissione Giustizia di Palazzo Madama. Intanto un Csm spaccato boccia la legge elettorale per il rinnovo della componente togata dello stesso Consiglio. Alla fine di una maratona iniziata la scorsa settimana, il plenum ha approvato il parere sulle proposte avanzate dalla ministra Cartabia e approvate all’unanimità in Consiglio dei ministri poche settimane fa. Numerosi i punti critici individuati, a partire proprio dal sistema misto, maggioritario con correttivo proporzionale, individuato negli emendamenti del governo. Con il voto decisivo del vicepresidente David Ermini che, in caso di pareggio tra i consiglieri, vale doppio, è passata la proposta che considera “del tutto inidoneo” a raggiungere l’obiettivo di “limitare la capacità di determinare gli esiti elettorali” da parte delle correnti e “consentire invece l’elezione anche di candidati non appoggiati dai gruppi stessi”. Ma a spaccare i consiglieri è stato soprattutto l’emendamento che era stato presentato dai consiglieri di Area che chiede di estendere a tutti i 13 seggi destinati alla categoria giudici il sistema del riparto proporzionale previsto per i 5 seggi da assegnare su base nazionale. In generale in alcuni passaggi del parere emerge la preoccupazione, soprattutto da parte dei componenti togati, per l’autonomia e indipendenza della magistratura, con toni più forti per l’illecito disciplinare in caso di violazione della nuova disciplina della presunzione d’innocenza, con i limiti alla comunicazione dei pubblici ministri, e la prerogativa ministeriale nel disegnare i collegi elettorali. Ma a non piacere sono stati anche altri aspetti. È il caso dei giudizi sui magistrati che potrebbero fare da volano al carrierismo oppure del diritto di voto riconosciuto agli avvocati nelle valutazioni di professionalità, perché i medesimi legali continuerebbero a esercitare la professione nel medesimo distretto della toga oggetto di esame, o ancora di alcuni modalità di rientro dei magistrati dopo l’esperienza politica. Csm, la riforma slitta ancora di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 24 marzo 2022 Alla Camera prima riunione tra la ministra Cartabia e la maggioranza. Posizioni distanti: la legge è urgente ma arriverà in aula con due settimane di ritardo e proprio a pasqua. Intanto il Consiglio superiore approva un parere assai critico, chiede una legge elettorale proporzionale per le toghe ma i spacca a metà. Due settimane in più. Ma non è detto che bastino. La commissione giustizia della camera non comincerà oggi a votare i 250 emendamenti e sub emendamenti (i sopravvissuti, solo un terzo di quelli presentati) alla riforma del Csm e dell’ordinamento penale. Di conseguenza il presidente della commissione, il 5 Stelle Perantoni, ha chiesto al presidente della camera di spostare l’arrivo in aula del provvedimento all’11 aprile, la settimana (corta) prima di pasqua. Ieri pomeriggio a Montecitorio un vertice tra la ministra Cartabia e i capigruppo di maggioranza in commissione ha potuto solo prendere atto delle distanze tra le richieste dei partiti. E stabilire un rinvio. Nel frattempo proprio il Consiglio superiore della magistratura, al termine di un lungo lavoro sul testo alla ricerca di un accordo tra i consiglieri, ha approvato un articolato parere critico sulla riforma Cartabia. Spaccandosi però a metà, soprattutto sul punto della riforma della legge elettorale per la componente togata del Csm. Il parere critico sulla proposta della ministra - un sistema maggioritario con una quota di correzione proporzionale - contiene adesso un’esplicita preferenza per il sistema proporzionale (peraltro sostenuta dalla maggioranza dei magistrati in un recente referendum consultivo dell’Anm) grazie all’approvazione di un emendamento proposto da Area, la corrente di sinistra delle toghe. Ma questo parere è stato approvato per il rotto della cuffia, la votazione essendosi conclusa 13 sì contro 13 no. Tra i sì quello del vicepresidente del Csm Ermini, il cui voto in caso di pareggio vale doppio. I no sono arrivati dai rappresentanti della corrente di destra Magistratura indipendente, favorevole al maggioritario, e dai pro sorteggio Di Matteo e Ardita. Oltre che dai consiglieri laici, che hanno votato contro (o si sono astenuti) anche su tutti gli altri punti del parere critico (rientro in magistratura dopo gli incarichi politici, organizzazione degli uffici, accesso alla magistratura e illeciti disciplinari) approvati però con un margine maggiore. Ministra e rappresentanti dei partiti si rivedranno di nuovo oggi pomeriggio per cercare di trovare un compromesso sui diversi punti che dividono la maggioranza. Che non sono molti, ma sono tutti decisivi e soprattutto vedono le forze politiche partire da richieste agli antipodi. Ad esempio il centrodestra e Italia viva costituirebbero con l’appoggio esterno di Fratelli d’Italia una teorica maggioranza alternativa favore del sorteggio “temperato” per la scelta dei consiglieri togati del Csm. Analogo discorso per la separazione radicale e definitiva delle funzioni di pm e giudici, prossimo oggetto peraltro di un referendum. Mentre per alzare un muro invalicabile tra un’esperienza di collaborazione con la politica (nei gabinetti dei ministeri) e il ritorno in magistratura premono, con il centrodestra, anche i 5 Stelle, mentre il Pd è contrario. Dunque i tempi si allungano, ma la scadenza elettorale del nuovo Csm si avvicina (luglio). E già traballa l’annuncio del governo di rinunciare alla fiducia, per lo meno al senato (infatti nella ricerca del compromesso si è deciso di ascoltare anche le proposte dei senatori). Stavolta la maggioranza fa quadrato su Cartabia. Ma per la riforma c’è l’ennesimo rinvio di Errico Novi Il Dubbio, 24 marzo 2022 Dal vertice di maggioranza con la ministra arriva l’ennesimo rinvio della riforma sui magistrati (in Aula l’11 aprile), “ma non ci sarà un dietrofront”. Oggi altro round. Ancora in alto mare sul testo del ddl, è vero, ma compatti nel chiarire un punto: il cannoneggiamento contro Marta Cartabia non è tollerabile, e non può essere assecondato. Dalla riunione, affollata e lunga, che ieri la maggioranza si è concessa sulla riforma del Csm, esce un altro rinvio dell’approdo in Aula, all’11 aprile, ma anche una parola di chiarezza sul futuro. Nonostante si sia certificata l’impossibilità di rispettare la data del 28 marzo, come il presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni aveva previsto, si è compiuto un doppio passo avanti politico. Innanzitutto, il conclave dei capigruppo con la ministra e il sottosegretario Francesco Paolo Sisto si è aperto con ripetute espressioni di solidarietà nei confronti di Cartabia “per gli attacchi e le critiche arrivati da Csm, Anm ma anche da singole figure del mondo giudiziario”, a cominciare da Nicola Gratteri. Il primo a esprimersi con toni di sostegno per la guardasigilli è stato Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione. Lo hanno seguito a ruota praticamente tutti i delegati di maggioranza, dal dem Alfredo Bazoli all’azzurro Pierantonio Zanettin, a Federico Conte di Leu. Ed è chiaro che un’espressione di fiducia così ampia è anche la risposta all’anatema contro la riforma pronunciato ieri quasi in contemporanea dal Csm. Che l’unità d’intenti annusata al vertice allontani l’ipotesi di ripensamenti sul ddl, lo dimostra anche un dettaglio: proprio Cartabia ha voluto respingere le critiche rivoltele in plenum dal togato Giuseppe Cascini sulla presunzione d’innocenza. “Si contestano le sanzioni previste nel mio maxiemendamento in relazione alle norme sui rapporti coi media”, ha detto la titolare della Giustizia, “ma si tratta di illeciti in gran parte già sanciti da una legge del 2006”. L’altro segno evolutivo è nello sforzo intravisto per arrivare a dama. “Ci rivediamo domani (oggi per chi legge, ndr) in modo da chiarire i punti divisivi della riforma”, spiega un capogruppo presente al vertice. “Lo faremo fra di noi, senza la ministra, con l’obiettivo di tornare presto in commissione e votare gli emendamenti”. Dire che basti ad approvare il ddl sul Csm in tempi ragionevoli sarebbe da ingenui. Ma dai report dei partecipanti filtra una comune volontà di riscatto rispetto all’ennesimo altolà pronunciato dalla magistratura. Ieri ci si è riuniti nella Sala Tatarella del “Palazzo dei gruppi” adiacente a Montecitorio. Oggi ci si rivede alle 14.30 per sfrondare ancora le proposte di modifica al maxiemendamento del governo. Si cercherà una difficile sintesi. Resta per esempio esplicita la richiesta di FI e Lega per il “sorteggio temperato” dei togati, “unico antidoto al correntismo altrimenti impossibile da sradicare, qualunque fosse il sistema di voto”. Costa ha messo sul tavolo la sua proposta di trasferire nella riforma la responsabilità diretta dei magistrati prevista da uno dei referendum di radicali e Lega, poi dichiarato inammissibile dalla Consulta. Il deputato di Azione paventa “una legge timida: l’asse Pd- M5S punta a un impianto conservativo che non avrebbe il nostro sostegno”. I Cinquestelle, rappresentati da Perantoni ma anche dal capogruppo in commissione Eugemio Saitta, hanno rilanciato l’idea di impedire l’elezione al Csm dei parlamentari in carica. Poi c’è il dilemma porte girevoli: il Pd vuole distinguere i capi di gabinetto da chi viene eletto, con minori penalizzazioni per i primi. È uno dei passaggi sui quali l’alleanza giallorossa si divide, perché i pentastellati vogliono invece che il divieto di reindossare la toga sia definitivo per tutti i giudici “macchiati” dall’esperienza politica. Italia Viva fa da ponte: propone emendamenti che rendono omogeneo il quadro, col divieto definitivo di rientro nella giurisdizione esteso a tutti o, in alternativa, tempo di latenza uguale per tutti. È ancora grande la confusione sotto il cielo. “Ma una cosa è certa”, spiega un altro delegato di maggioranza, “chi si aspettava una clamorosa inversione a U resterà deluso: si prova a implementare il ddl, ma nel suo binario. Non si può stravolgere l’impianto disegnato da Cartabia”. Si rassegni il Csm: stavolta per dirottare la riforma non basterà un anatema. Giustizia, Cartabia tratta per un’intesa con i partiti. Ipotesi fiducia sulla riforma di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 marzo 2022 Quando il premier Mario Draghi, a proposito della riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario approvata dal governo, disse “niente tentativi di porre la fiducia”, per non strozzare il lavoro del Parlamento e perché “ci vuole un accordo e condivisione”, aggiunse anche: “C’è stato l’impegno corale di tutti i ministri a sostenere la riforma con i propri partiti”. Ora che sul testo elaborato dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia sono piovuti centinaia di emendamenti dagli stessi partiti, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico Vinca ricorda: nel Consiglio dei ministri fu detto che in caso di impasse si sarebbe potuto ricorrere anche al voto di fiducia. Lo ha fatto ieri, nella riunione con la Guardasigilli e con i capigruppo delle forze politiche che sostengono il governo, e Cartabia ha confermato. Ribadendo però che l’obiettivo è trovare un accordo senza scavalcare il ruolo di deputati e senatori. Tuttavia il tempo stringe: le modifiche alla legge elettorale del Csm vanno approvate entra la metà di maggio, in modo che le prossime consultazioni possano svolgersi con il nuovo sistema come più volte auspicato dal capo dello Stato (che è pure presidente del Csm, e ha ricordato questa esigenza nel discorso di reinsediamento suscitando l’applauso dei parlamentari). Proprio per avvicinare il traguardo, la ministra ha accolto con favore l’idea di coinvolgere i senatori nei contatti e nelle reattive per le modifiche da approvare alla Camera, in modo che il successivo passaggio a Palazzo Madama non rubi altro tempo. L’esame in aula a Montecitorio è slittato di due settimane, la nuova data è l’11 aprile, e dunque resterà poco più di un mese (settimana di Pasqua compresa) per l’approvazione della riforma. Già oggi si terrà un nuovo incontro per andare avanti sui punti dove l’intesa sembra più facile, e provare ad avvicinare le posizioni su quelli più divisivi. Tra i quali resta il metodo per eleggere l’organo di autogoverno dei giudici. I partiti di centrodestra (spalleggiati da Italia viva) insistono per il sorteggio “temperato”, ma Cartabia ha già spiegato che secondo lei sarebbe una modifica incostituzionale. E ieri ha ribadito che in alcuni emendamenti proposti dai partiti ha notato “profili” di dubbia costituzionalità, che una ex presidente della Consulta non può sottoscrivere. Oltre al sorteggio, il riferimento è all’intenzione dei grillini di impedire l’elezione dei parlamentari al Csm e l’introduzione della responsabilità civile diretta dei magistrati, sui cui insiste Azione con Enrico Costa. Ora la partita si gioca sulla disponibilità dei partiti a rinunciare a ciò che la ministra considera inammissibile (a cominciare proprio dal sistema elettorale) e a cercare intese fra loro che consentano di non rompere il fronte della maggioranza. Perché se l’asse di destra più Iv insiste sul Csm, il Pd propone norme meno severe sul rientro in magistratura delle toghe chiamate a dare supporto tecnico nel governo o negli enti locali, che invece i Cinque stelle vogliono mantenere rigidissime o addirittura inasprire. Ieri sulla riforma è arrivato anche il parere del Csm che - con voti che hanno visto spesso contrapposti togati e laici - boccia nel complesso il progetto, considerandolo pericoloso per l’indipendenza della magistratura. La riforma Cartabia ora è a rischio di Claudio Cerasa Il Foglio, 24 marzo 2022 I partiti restano distanti, il Csm boccia il testo (ma si spacca). Guai. Come ampiamente previsto, è slittato di due settimane (dal 29 marzo all’11 aprile) l’approdo in Aula alla Camera della riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura, elaborata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. La decisione è emersa in seguito alla riunione tra la Guardasigilli e i capigruppo di maggioranza in commissione Giustizia della Camera. Nonostante sia più volte stata richiamata, anche dal capo dello stato Sergio Mattarella, l’urgenza di approvare la riforma il prima possibile, nei giorni scorsi il provvedimento è stato inondato di oltre 700 emendamenti, che hanno reso impraticabile il passaggio in Aula del testo secondo i tempi previsti. L’appello al senso di responsabilità non sembra essere stato accolto dai partiti, che rimangono molto distanti su alcuni punti centrali della riforma. Nel frattempo, proprio il plenum del Csm ha approvato a maggioranza un parere fortemente critico nei confronti della proposta di riforma Cartabia. Nel testo si esprimono critiche sul sistema elettorale delineato dalla riforma (maggioritario con correttivo proporzionale), sulle norme proposte in tema di porte girevoli, sulle “pagelle” per le valutazioni delle toghe e sulle norme disciplinari sui rapporti tra pm e stampa. Il parere è stato votato per parti separate, ma proprio sul capitolo relativo al sistema elettorale si è registrata una clamorosa spaccatura all’interno del Csm. La parte di parere che boccia le modifiche al sistema elettorale è infatti stata approvata con 13 voti a favore e altrettanti contrari, ed è passata soltanto grazie al “sì” del vicepresidente David Ermini, che in caso di parità vale doppio. I consiglieri laici e una parte dei togati si sono opposti all’inserimento di un emendamento che prevede di estendere il numero dei consiglieri in quota giudici da eleggere con il sistema proporzionale, sottolineando che non tocca al Csm fare proposte sul sistema elettorale. Un tentativo vano. Il Csm, nonostante gli scandali, continua a strabordare dal proprio ambito di competenza. Ricorso del Csm alla Consulta: “La Camera viola la Costituzione” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 24 marzo 2022 Conflitto tra poteri sulle intercettazioni Ferri-Palamara. “Il Parlamento nega l’utilizzo e ripristina un privilegio”. “La sezione disciplinare ritiene che la Camera dei deputati abbia esercitato in maniera non corretta le proprie attribuzioni e abbia illegittimamente interferito sull’esercizio delle funzioni giurisdizionali di questa sezione disciplinare. Di qui la decisione di sollevare conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato nei confronti della Camera”. Csm contro Parlamento, dunque, in un conflitto tra poteri al massimo livello, sollevato davanti alla Corte costituzionale con argomenti molto duri, che comprendono l’accusa di aver ripristinato sotto mentite spoglie “il privilegio” dell’immunità parlamentare. La posta in gioco è la possibilità di processare Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa e deputato di Italia Viva, per la sua partecipazione all’incontro notturno dell’hotel Champagne l’8 maggio 2019, in cui discuteva delle nomine giudiziarie con Luca Palamara (all’epoca pm della Procura di Roma), Luca Lotti (deputato del Pd, in cui all’epoca militava anche Ferri) e cinque magistrati in quel momento membri del Consiglio superiore della magistratura (eletti nelle correnti di Ferri e Palamara, Magistratura Indipendente e Unicost), dimessisi dopo lo scoppio dello scandalo. Il dopocena nella hall dell’albergo si inseriva in una guerra politico-giudiziaria in corso da mesi per il controllo di alcune Procure. In primis quella di Roma, a cascata Perugia e Firenze. Palamara era interessato a diventare procuratore aggiunto a Roma ed era indagato a Perugia per corruzione; Lotti era imputato a Roma per il caso Consip e indagato a Firenze per la fondazione Open. Ferri non aveva un interesse personale, ma uno strategico ruolo politico-giudiziario derivante dalla doppia veste di capocorrente di magistrati e uomo politico vicino all’ex premier Matteo Renzi (inputato a Firenze, mentre il padre lo è per diverse ragioni a Roma e Firenze). Il trio mirava alla nomina a Roma di Marcello Viola, procuratore generale di Firenze. A un procuratore compiacente a Perugia, per gestire l’indagine su Palamara e aprirne una sul procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, che indagava su Lotti (“Serviva uno che mi facesse nero”, ha dichiarato testimoniando recentemente a Perugia). A un nuovo procuratore a Firenze, non ancora identificato ma certamente “amico” (così è scritto in un appunto dell’avvocato renziano Alberto Bianchi), agevolando la dipartita di Giuseppe Creazzo, che indagava sul “giglio magico”. Per quella vicenda, stigmatizzata più volte dal presidente della Repubblica come sintomo di “modestia etica”, si sono già svolti diversi processi disciplinari. Palamara è stato radiato dalla magistratura con sentenza del Csm confermata dalla Cassazione. I cinque membri del Csm convenuti all’hotel Champagne sono stati condannati alla sospensione da funzioni e stipendio per un tempo lungo, da 9 a 18 mesi (sanzione massima dopo la radiazione). Altri processi, una ventina circa, si sono conclusi con condanne o sono in corso a carico di altri magistrati in vario modo coinvolti nelle manovre sulle nomine. In relazione alla riunione dell’hotel Champagne, a Ferri sono contestati due capi di incolpazione di “violazione dei doveri di correttezza ed equilibrio per aver tenuto un comportamento gravemente scorretto sia nei confronti del Csm, idoneo a influenzarne l’attività in modo occulto, sia nei confronti dei candidati alla Procura di Roma, avendo precostituito e concordato fin nei dettagli la strategia per la nomina di Viola, enfatizzandone il profilo professionale”. Un terzo capo di incolpazione riguarda “l’uso strumentale della propria qualità e posizione per condizionare le funzioni costituzionali del Csm”. Si tratta di contestazioni analoghe a quelle di Palamara e degli altri cinque ex consiglieri. Il processo disciplinare a Ferri (su cui non risultano indagini penali) è stato rallentato da una caterva di ricusazioni di giudici della sezione disciplinare e di eccezioni preliminari presentate dal suo avvocato, Luigi Panella. Poi è venuto al pettine il nodo intercettazioni, essendo il processo basato in modo pressoché esclusivo sulle conversazioni intercettate dal telefono di Palamara, su cui la Procura di Perugia aveva inoculato il captatore informatico chiamato trojan. Procura, giudice dell’udienza preliminare, Csm e Cassazione hanno finora respinto tutte le obiezioni sull’utilizzo delle intercettazioni in sede penale e disciplinare. La questione per Ferri ha una particolare delicatezza, trattandosi di un parlamentare, a cui la Costituzione garantisce una riservatezza rafforzata. Il Csm ha ritenuto che Ferri sia stato intercettato casualmente, in quanto conversava con Palamara, dunque in modo non illegittimo. E ha chiesto alla Camera di poter utilizzare quattro conversazioni (notturne) del maggio 2019. Ferri ha obiettato che le intercettazioni erano in realtà non casuali, perché egli era nel mirino della Procura di Perugia che lo pedinava e ascoltava abusivamente da mesi, utilizzando Palamara come “cavallo di troia”. La Camera ha accolto la sua tesi, negando al Csm l’uso delle intercettazioni. A quel punto il Csm si è trovato di fronte a tre opzioni: continuare il processo senza intercettazioni (strada impervia, i possibili testimoni della riunione dell’hotel Champagne sono i presunti complici di Ferri); dichiarare chiuso il processo, come richiesto da Ferri; contestare la decisione della Camera davanti alla Corte costituzionale, come richiesto dalla Procura generale della Cassazione. Ha scelto la terza strada. L’ordinanza è firmata dal presidente-relatore della sezione disciplinare, il costituzionalista fiorentino Filippo Donati. Secondo il Csm, le intercettazioni erano fortuite, quindi legittime e utilizzabili. E la Camera si è arrogata un potere di valutazione processuale che non le compete, strumentalizzando il richiamo alle garanzie costituzionali per fornire a un suo membro un’immunità non prevista dalla Carta. Diversi gli argomenti. Primo: “Ferri non è mai stato inserito nel perimetro dell’attività investigativa della Procura di Perugia, circostanza di estrema rilevanza irragionevolmente trascurata dalla Camera”. Secondo: “Tutti i provvedimenti giurisdizionali, di cui la Camera non ha tenuto conto, hanno escluso che le captazioni fossero volte ad accedere nella sfera di comunicazioni di Ferri”. Terzo: “Tenuto conto di tipologia e scarsità (16 in due mesi), i contatti e le frequentazioni tra Ferri e Palamara non sono indice dell’orientamento mirato dell’indagine”. Quarto: le conversazioni in cui si organizzava la riunione dell’hotel Champagne, con la partecipazione di Ferri, fu ascoltata dal Gico della Guardia di Finanza il giorno dopo, quando l’incontro era già avvenuto e quindi troppo tardi per poter spegnere il trojan. Quinto: “La ricorrenza del nome Cosimo quale abituale interlocutore di Palamara non è sufficiente a dimostrare l’intento degli investigatori di captare le conversazioni di Ferri”. Piuttosto, il Csm censura che la Camera si sia occupata di aspetti tecnici delle intercettazioni, “su cui non le compete alcuna valutazione, essendo irrilevanti” ai fini della decisione sulla casualità. “Considerazioni del genere sembrano volte a mettere in discussione la legittimità dell’indagine svolta sotto profili, che però non compete alla Camera valutare”. Così facendo, il Parlamento “esorbita dalle proprie attribuzioni, trasformando di fatto la garanzia posta dalla Costituzione in un privilegio di status, con evidente eccedenza rispetto alla previsione costituzionale e travalicando il perimetro della valutazione a essa spettante”. Per salvare Ferri, dunque, la Camera avrebbe sostanzialmente “processato” la Procura di Perugia, attribuendole gravi violazioni processuali, se non il reato di aver surrettiziamente indagato su un parlamentare. Il processo viene sospeso in attesa della pronuncia della Corte costituzionale. Che nei prossimi mesi dovrà pronunciarsi anche sul diverso, ma parallelo, conflitto di attribuzione sollevato dal Senato contro la Procura di Firenze, su sollecitazione di Renzi. Il tema, anche in quel caso, è l’asserita violazione delle garanzie parlamentari, per alcune comunicazioni scritte di Renzi acquisite dalla Procura su computer e telefoni di altre persone perquisite nell’indagine sulla fondazione Open. A distanza di tre anni, il fantasma dell’hotel Champagne aleggia ancora sul Csm. La vicenda è stata ripetutamente evocata nella discussione del parere sulla riforma Cartabia, con toni anche ruvidi, come quando Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto a Roma e consigliere di Area, ha parlato della presenza di “cappucci”. Giustizia al Senato, la commissione che congela i provvedimenti di Giulia Merlo Il Domani, 24 marzo 2022 La commissione Giustizia al Senato è particolarmente problematica, con una maggioranza “mobile” che spesso oscilla per un solo voto e un presidente - il leghista Andrea Ostellari - confermato con quello che da Pd e Movimento 5 Stelle è stato definito “un colpo di stato”. Per questo è considerata un congelatore di disegni di legge: quello che qui arriva tende ad andare a rilento, con un ostruzionismo che nei casi di bassa conflittualità è silenzioso, in altri - come è stato il caso del ddl Zan - diventa lampante. Viene convocata normalmente, ma con ordini del giorno lunghissimi e in cui i provvedimenti si intersecano. In questo modo non si svolgono i lavori in modo organico, senza che sia possibile intuire la fine dell’esame dei singoli ddl. Una strategia che si riverbera nei numeri, con appena 11 ddl di natura parlamentare approvati dall’inizio della legislatura e 6 conversioni di decreto legge. Esiste una tendenza, in parlamento: far passare i disegni di legge alla Camera, così che il Senato diventi un luogo quasi esclusivamente di ratifica e senza possibilità di cambiamento dei testi. E’ così per ragioni numeriche e vale oggi per la maggioranza spuria del governo Draghi ma è stato così anche prima, negli esecutivi dai numeri risicati come il Conte II: quella di Montecitorio è l’aula più controllabile. Quindi il lavoro di commissione corre più agevole, il testo viene modificato e votato. Poi, una volta arrivato a palazzo Madama, il Senato non può fare altro che licenziarlo così com’è: soprattutto in tempo di Pnrr, infatti, modificarlo significherebbe rispedirlo alla Camera e quindi allungare i tempi in modo inaccettabile. Questo è vero soprattutto per la commissione Giustizia al Senato: una commissione particolarmente problematica, con una maggioranza “mobile” che spesso oscilla per un solo voto e un presidente - il leghista Andrea Ostellari - confermato con quello che da Pd e Movimento 5 Stelle è stato definito “un colpo di stato”. Per questo, il lavoro in commissione è lento e soprattutto è molto scarso. Pur essendo la giustizia un capitolo nevralgico delle riforme, tra quelle di prima importanza in Senato è stato incardinato solo il ddl di riforma del civile: tra tutti il meno politicamente impegnativo. Un decretificio - Del resto, il Senato “è un decretificio. La camera dove si lavora di meno e si approvano principalmente i decreti del governo, con poco spazio per i disegni di legge di iniziativa parlamentare”, spiega un senatore della commissione Giustizia, dove questa prassi vale ancora di più, rispetto alle altre commissioni. La commissione, infatti, è considerata un congelatore di disegni di legge: quello che qui arriva tende ad andare a rilento, con un ostruzionismo che nei casi di bassa conflittualità è silenzioso, in altri - come è stato il caso del ddl Zan - diventa lampante. La ragione di questa anomalia è legata alle vicende politiche della commissione nel corso di questa legislatura, rispetto al susseguirsi dei tre governi. Nel governo Conte 1 a maggioranza Movimento 5 Stelle e Lega, la commissione Giustizia al Senato era stata affidata al leghista Andrea Ostellari. Allo scadere dei due anni e con il cambio di governo con nuova maggioranza M5S e Pd, doveva cambiare anche la presidenza. La nuova alleanza aveva previsto di nominare presidente Piero Grasso di Leu, ma è rimasta tradita dal voto segreto e al vertice della commissione è rimasto ancora Ostellari. Il problema politico nel corso del Conte 2 però, almeno sulla carta, doveva essere superato grazie alla presenza della Lega nella maggioranza del governo Draghi. Invece, come era del resto immaginabile, le distanze tra le forze politiche sono rimaste inalterate e la presidenza leghista ha pesato nel rendere la commissione un luogo di ostruzionismo e trappole. Esattamente quello che è successo con il ddl Zan, quando Ostellari ha utilizzato tutte le sue prerogative di presidente per dilatare i lavori, tra rinvii, slittamenti e audizioni. Del resto, il presidente della commissione ha il potere di scegliere a cosa dare precedenza nei lavori e questo permette di accelerarli o rallentarli fino quasi a fermare alcuni provvedimenti. Un caso di scuola è quello del senatore del Pdl ed ex ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma, presidente della commissione nel 2013. Per diversi mesi all’ordine del giorno dei lavori della sua commissione veniva riportato un lungo elenco di provvedimenti, senza indicare una vera e propria priorità. Col risultato che i membri erano costretti a girare per i corridoi portandosi dietro diversi fascicoli così da essere pronti a trattare qualsiasi provvedimento venisse annunciato all’inizio della seduta. Ostellari utilizza una tecnica non troppo diversa. Definito “persona gentile e dai modi civili” anche dai suoi avversari politici, sta però nel governo Draghi “come ci stanno i leghisti: su molte questioni la sua linea si discosta da quella decisa in maggioranza”. In concreto, la commissione viene convocata normalmente, ma con ordini del giorno lunghissimi e in cui i provvedimenti si intersecano. In questo modo non si svolgono i lavori in modo organico, senza che sia possibile intuire la fine dell’esame dei singoli ddl. Una strategia che si riverbera nei numeri, con appena 11 ddl di natura parlamentare approvati dall’inizio della legislatura e 6 conversioni di decreto legge. La strategia rischia di inasprirsi nei prossimi mesi come è stato per il ddl Zan: a breve arriveranno dalla Camera l’ergastolo ostativo e il suicidio assistito, di cui è appena stata chiesta la calendarizzazione. Poi, sarà il momento anche della riforma dell’ordinamento giudiziario. Tutte questioni su cui la maggioranza di governo è spaccata e su cui la commissione Giustizia al Senato potrebbe premere il freno. Spigarelli: “Quel riflesso proprietario dei magistrati nei confronti della giustizia” di Valentina Stella Il Dubbio, 24 marzo 2022 n merito agli attacchi subiti in questi ultimi giorni dalla ministra Cartabia a causa del progetto governativo di riforma, abbiamo raccolto l’opinione dell’avvocato Valerio Spigarelli, past president dell’Unione Camere Penali Italiane. Avvocato, per Gratteri è inaccettabile che gli avvocati possano votare nel Consigli giudiziari. Per lui questa previsione ha quasi l’odore della punizione. Come replicare? Gratteri non è il solo a pensarla così. La contrarietà al diritto di voto è corale da parte della magistratura, fatta eccezione - ahimè - per magistrati che non sono più in servizio come Spataro e Canzio. Si tratta di un riflesso corporativo. Secondo loro il solo fatto che gli avvocati possano, all’interno del Consigli giudiziari, esprimere delle valutazioni sulla professionalità dei magistrati è un insulto. Si giustificano dicendo che un avvocato potrebbe vendicarsi per aver perso una causa o al contrario potrebbe sostenere il magistrato per ingraziarlo. Sono stupefatto dal tenore degli argomenti, che sottendono un’idea dell’avvocatura del tutto patologica, senza poter fornire alcun elemento concreto a sostegno. Ma loro respingono anche l’idea di intermediazione del Coa. Secondo Michele Ciambellini (Unicost), il rischio di correntismo esiste anche all’interno dei Coa... Dovrebbero evitare di dire certe cose. Il problema che ormai è noto a tutti è che proprio sulle valutazioni professionali dei magistrati sono intervenute le correnti interne alla magistratura, al di là del merito dei singoli magistrati. È davvero stupefacente addurre certe argomentazioni, dimenticandosi di quello che è successo fino a ieri. Tutto ciò si iscrive in una idea della magistratura come proprietaria della macchina giudiziaria, per cui gli estranei non sono ammessi; e all’interno di una visione degradante anche della figura sociale e professionale degli avvocati. Ed è ancora più sorprendente che certe valutazioni vengano estese persino all’istituzione pubblica che è il Coa. Eppure una recente sentenza della Corte Costituzionale in merito alla corrispondenza tra detenuti al 41 bis e avvocati ha stabilito che la presunzione di illegalità a carico dell’avvocato è inaccettabile. Cos’altro ci dice tutto questo? Che siamo in presenza di una ulteriore dimostrazione di quel riflesso proprietario che la magistratura italiana ha nei confronti dell’ordinamento giudiziario. Oggi (ieri, ndr) sempre Gratteri diceva che la magistratura è uno dei tre poteri dello Stato e che se un altro potere cerca di sopraffare l’altro ci perde la democrazia. Innanzitutto, semmai la magistratura è un ordine che amministra il potere giudiziario. Ma poi per troppi decenni siamo stati abituati all’idea che le riforme che riguardavano la magistratura avrebbero dovuto avere l’assenso della magistratura stessa. Ma non è affatto così. Semmai devono avere l’assenso della Corte Costituzionale una volta che sono state elaborate e qualcuno le ritenga contrarie alla Costituzione. Qualche giorno fa ha fatto notizia, ma forse non troppo, la frase del Consigliere Cascini in merito agli illeciti disciplinari per i pm che violano la presunzione di innocenza. Ha parlato di “fucile sparato sui pm”. Che ne pensa? Criticano la riforma perché metterebbe il bavaglio alle Procure. Proprio Cascini ha detto che i magistrati addetti alla procura di Milano non avrebbero potuto parlare di Mani Pulite se a quel tempo fosse stata in vigore la norma. Magari, dico io. Perché quella fu davvero una distorsione che è proseguita nel tempo: ossia il processo parallelo in cui le ragioni dell’accusa trovavano eco sulla stampa e avevano l’effetto primario di stritolare la figura dell’indagato. Su tutto questo ci sono state tante riflessioni, anche da parte dei magistrati, in numerosi convegni, in questi trent’anni, e molti ammettevano che il sistema, proprio sulla presunzione di innocenza era fuori dei binari costituzionali. Poi però quando, senza interpellare l’Anm, si prende carta e penna per costruire una norma che eviti, ad esempio, che l’indagato venga esibito come un trofeo di caccia durante una conferenza stampa, allora si aprono le cateratte del cielo e si invoca il diritto di informare da parte delle Procure. Ma il lavoro delle Procure è quello di indagare chi non rispetta la legge, non è mica quello di informare, a meno che non ci sia un pericoloso latitante in fuga o un farmaco che provoca deformazioni. In generale sembra che la magistratura si stia mostrando molto conservativa rispetto alle proposte di riforma. Gli scandali sono stati già superati? Non vedo nulla di diverso rispetto al passato, anche se l’immagine della magistratura è stata seriamente compromessa dai recenti scandali che vengono edulcorati da Anm che addossa la colpa a Palamara, o qualche altra eventuale “mela marcia”. Nel 2006, persino dinanzi ad una riforma straedulcorata come quella Castelli, si diceva che era scandalosa perché, mettendo mano all’ordinamento giudiziario, si ledevano l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Al di là del merito della riforma di cui si sta discutendo in queste ore - io per esempio non condivido il sorteggio come sistema elettorale del Csm - la magistratura dà sempre la stessa risposta: se il legislatore mette mano al nostro statuto - e da questo punto di vista la contrarietà alla separazione delle funzioni è significativo - noi ci opponiamo perché siamo noi che al massimo ci autoriformiamo. Questa riforma non piace né alla magistratura né all’avvocatura e la politica è divisa. Allora perché la stiamo facendo? L’esperienza passata, a partire dalle riforme abortite come la bicamerale o la riforma Castelli, ci dice che, al di là del naturale riflesso del legislatore che dinanzi a queste levate di scudi della magistratura è sempre pronto a genuflettersi, ci consiglierebbe di adottare strumenti più incisivi. Se noi vogliamo porre al centro il problema non soltanto della selezione della qualità della magistratura ma anche quello dell’architettura dell’ordinamento giudiziario dovremmo fare una riforma costituzionale, che è quello che ci si rifiuta di fare da anni e anni. A partire dalla separazione delle carriere? Certo ma non solo: riflettere anche sulla giustizia domestica dei magistrati, immaginare un’Alta Corte di Giustizia, prevedere un reclutamento laterale per concorso di avvocati e accademici. Insomma iniziare un percorso virtuoso che tenda ad eliminare proprio quel riflesso proprietario di cui sopra. Ci vorrebbe un alto investimento politico... Se non mette in campo una riforma di questo genere un Governo come questo, ossia con persone di altissimo profilo e con grande autonomia rispetto alle dinamiche politiche, finiremo nuovamente per ritrovarci con una politica “nana” o intimorita che non la farà mai. Gratteri all’antimafia: parte la campagna elettorale di Tiziana Maiolo Il Riformista, 24 marzo 2022 Il capo della procura di Catanzaro punta in alto e lo fa con l’aiuto di Travaglio, il vero leader dei manettari. Ma per fare bingo ha bisogno di rispedire l’avvocato in galera. E per questo usa gli articoli del Riformista. Diventare Procuratore Nazionale Antimafia e rimandare in galera l’avvocato Giancarlo Pittelli. Se il dottor Nicola Gratteri riuscisse a raggiungere questi due risultati, avrebbe fatto Bingo. Per raggiungere il primo obiettivo, che è dichiarato, visto che il procuratore di Catanzaro ha presentato domanda al Csm, ha già trovato un’eccellente stampella politica, quella del vero leader dei grillini, Marco Travaglio. Ed essendo il direttore del Fatto anche il capo dei forcaioli militanti, chissà che non possa dargli una mano anche a raggiungere il secondo traguardo, ancora un po’ di galera, possibilmente in un carcere di alta sicurezza, per Giancarlo Pittelli. Il che rappresenta il secondo obiettivo dichiarato del procuratore capo di Catanzaro, visto che lo ha chiesto ufficialmente ai giudici, che devono decidere nei prossimi giorni, e dopo essersi posto di traverso rispetto all’ordinanza che disponeva la detenzione domiciliare dell’avvocato calabrese. La carezzevole intervista concessa (a fatica, immaginiamo) dal procuratore Gratteri al direttore del Fatto quotidiano pare fatta apposta per tranquillizzare tutti i magistrati reazionari e controriformatori (cioè il 90 per cento dei pm, quasi tutti quelli del Csm e qualche giudice) e quasi chiamarli alla lotta contro i provvedimenti della ministra Cartabia. Non è un caso che l’abile Travaglio abbia messo all’intervista un titolo che pare uno squillo di tromba contro la guardasigilli, perché la sua riforma “... è un’offesa per i pm: così vogliono punirci”. Il non scritto è: votate per me, amici del Csm, e poi penserò io a punire “Lei”, quella lei che Travaglio, la cui misoginia ha raggiunto il diapason nei confronti della ministra, aveva definito “Nostra Signora dell’Impunità”, dopo aver chiamato i suoi provvedimenti “salvaladri” e “schiforma”. La pena di morte per Pittelli rientra perfettamente in questo quadro di progetti e alleanze. Perché deve essere chiaro che qui stiamo parlando di torture e di una sorta di “fine pena mai” senza processo e senza condanna. L’ordinanza firmata dalle giudici Gilda Danila Romano, Germana Radice e Francesca Loffredo aveva mandato ai domiciliari un Pittelli che non era più quello che il procuratore Gratteri aveva fatto spedire nel carcere speciale di Badu ‘e Carros due anni e mezzo prima, nel dicembre 2019. E sarebbe utile ogni tanto che qualche magistrato assaggiasse un pezzettino di quel che lui fa provare ad altri. Per esempio il pendolo tra prigione e poi casa e poi ancora prigione e ancora casa e il procuratore che ancora chiede carcere. Basterà uno psichiatra a definire la patologia di chi lo subisce, ma anche di chi lo commina? Il detenuto Pittelli che i giudici avevano voluto incarcerare (per la terza volta) nell’istituto di massima sicurezza di Melfi, in punizione per aver scritto una lettera non consentita, era una persona che aveva deciso di smettere di vivere, aveva messo in atto uno sciopero della fame assoluto, era diventato uno che ormai ingurgitava più psicofarmaci che cibo. Una persona allo stremo, uno che solo la completa libertà potrebbe (forse) far rivivere, anche se non ricondurlo a quello che era, brillante avvocato e abile politico, due anni e mezzo prima. Ora succede che il procuratore Gratteri non abbia considerato sufficienti gli argomenti (tra cui il trascorrere inesorabile del tempo) con cui le tre giudici di Vibo Valentia hanno ritenuto fossero cessate le esigenze cautelari in carcere. E ha immediatamente presentato ricorso: Pittelli deve stare in galera. Ma perché? Come può pretendere, dottor Gratteri, che non parliamo di persecuzione? Reiterata fino al grottesco, se ci permette. Intanto c’è il sospetto che lei goda di qualche privilegio, dalle parti del tribunale di Catanzaro, visto che tutti gli avvocati calabresi (e italiani) in coro dicono che perché sia fissata l’udienza per questo tipo di ricorsi in genere passano almeno sei mesi. In questo caso è stata fissata l’udienza a tamburo battente, una ventina di giorni. E, come se ciò non bastasse, alla vigilia del 22 marzo, mentre i difensori di Pittelli, Stajano e Contestabile, erano pronti e agguerriti a controbattere le sue argomentazioni, hanno cozzato contro un muro di scartoffie che lei e i suoi colleghi avevate depositato il giorno prima. Documenti e anche video che dovrebbero dimostrare che tipaccio sia questo Pittelli. E anche che tipacci siano alcuni parlamentari e giornalisti che chiedono per lui giustizia e anche che gli si impedisca di porre termine alla propria vita. È chiaro che la procura di Catanzaro sia infastidita dal fatto che l’imputato non sia isolato, nudo e crudo nelle sue mani. Guai se ha degli amici, come quelli che hanno raccolto tremila firme contro la custodia cautelare. Guai se di lui si parla su qualche giornale oppure - Dio ce ne scampi - in Parlamento. Così, tra i documenti depositati dal procuratore Gratteri come “aggravanti” della posizione dell’imputato Pittelli Giancarlo, spiccano due fogli di carta giallina, quella degli atti parlamentari. Sono due interrogazioni, con cui alla Camera i deputati Riccardo Magi, Enza Bruno Bossio e Roberto Giachetti, e al Senato Emma Bonino e Matteo Richetti interrogavano il ministro sulle condizioni dell’avvocato calabrese. Ecco la prova della pericolosità del soggetto, lo stesso che scritto una lettera alla ministra Cartabia! E guai a quei politici che si immischieranno ancora nelle questioni di giustizia! Pittelli è mio e lo gestisco io, dice tra le righe la procura di Catanzaro. Ce ne è anche per Vittorio Sgarbi, il primo parlamentare che era andato a trovare il detenuto nel carcere di Badu ‘e Carros. Oggi reo di aver parlato di Pittelli sulla sua pagina di Facebook e in alcune interviste. Tra parentesi - non ci stancheremo mai di ricordarlo - tutto ciò non ha nulla a che vedere con l’articolo 274 del codice di procedura penale e il rischio di comportamenti che giustifichino il ricorso alla custodia cautelare in carcere. A che cosa servono quindi questa settanta pagine di documenti? Quale messaggio intende mandare la magistratura requirente di Catanzaro? Non si capisce il senso, per esempio, di veder depositate alcune pagine del Riformista (ci fa piacere che anche qualche toga lo legga), tra cui l’appello del direttore Sansonetti, “Per favore liberate il detenuto Pittelli”. Il quale ha poi inviato proprio a Piero una lettera disperata di addio: “Mi lascio morire contro questa ingiustizia mostruosa”. Poi c’è una prima pagina bellissima, che qualifica il nostro giornale come un unicum. Quella che mostra la prima con l’editoriale del direttore “Dopo l’allarme di Mattarella: aboliamo il carcere per i non condannati”, e di spalla l’appello “Ministra Cartabia vuole che faccia la fine di Gabriele Cagliari?”. La foto di Giancarlo PIttelli posta a simbolo di quell’allarme del Presidente della repubblica e di quella standing ovation che gli aveva tributato l’intero Parlamento, quando aveva parlato di giustizia e delle ingiustizie. Che importa se una mattina alle nove, mentre il prigioniero Pittelli dormiva con i suoi psicofarmaci e la moglie era andata a fare la spesa, i poliziotti hanno suonato invano alla sua porta e nessuno ha aperto? Lui c’era ed era pronto sull’uscio quando gli agenti sono tornati alle 11. Non era scappato e non c’è pericolo che lo faccia, dottor Gratteri. Ed è così rilevante il fatto che dopo averli scambiati per agenti in borghese, lui abbia risposto a due domandine che con un piccolo agguato, gli hanno posto due giornalisti? È per queste inezie che Giancarlo Pittelli deve “marcire in galera” dopo che lei avrà “buttato la chiave”? Dia retta, procuratore Gratteri, lasci perdere, e all’udienza del 5 aprile dica che ha cambiato idea. Anzi liberi del tutto il prigioniero e lo lasci andare al processo senza manette né braccialetti elettronici. Si concentri sulla sua candidatura alla Procura Nazionale Antimafia, magari ce la fa. Ne ha tutti i titoli, e anche l’investitura di Travaglio. Giornata vittime delle mafie: per combatterle davvero diamo lavoro e dignità ai nostri giovani di Antonio Marfella* Il Fatto Quotidiano, 24 marzo 2022 Mentre in Piazza del Plebiscito venivano scanditi uno per uno i nomi degli innocenti uccisi dalle mafie in Italia negli ultimi anni, in piazza del Municipio - a poche centinaia di metri - si svolgeva, distinta e purtroppo distante dalle tante “autorità” che si facevano i selfie e rilasciavano interviste, la manifestazione dei “precari” della ricerca sul cancro a Napoli: i nostri cosiddetti “piramidati” che, dopo decenni di lavoro e di ricerca sul cancro ad altissimo livello, sia pure in gran parte a vantaggio delle ditte farmaceutiche private, non solo sono già certi che non avranno una pensione degna di tal nome ma, soprattutto, dopo decenni di ottimo lavoro di ricerca precario non sono neanche sicuri dello stipendio a fine mese. Ogni mese. Come ho già anticipato su questo blog non è un problema di cui devono invece preoccuparsi i giovani che - lontani da Piazza del Plebiscito e dai selfie dei politici “responsabili”, pagati sedicimila euro al mese e lauta pensione assicurata dopo pochi anni - si sono lasciati “sedurre” dalle sirene delle mafie e della camorra. Infatti le mafie - utilizzando il brevetto infinito rilasciato loro dal proibizionismo dello Stato con pochi prodotti farmaceutici fuori brevetto e psicoattivi, le cosiddette “droghe” - danno non solo un lavoro certo, ben retribuito ed esentasse con numerosi benefit (cellulari, armi e moto), ma anche oggi perfino una previdenza assicurata che i nostri migliori ex-giovani ricercatori in medicina resteranno a sognare. Mercoledì ci sarà una audizione della Commissione Antimafia con Padre Maurizio Patriciello e il colonnello Biagio Chiariello nella Chiesa del Parco Verde di Caivano, dove verranno ascoltati nel dettaglio i racconti ormai pubblici di questi nostri ultimi “eroi” campani della lotta alla camorra. Cosa ha già raccontato in pubblico Padre Maurizio? Che il locale “boss” del Parco Verde, in un velocissimo quanto ultimativo discorso, lo ha invitato da tempo a “farsi i fatti suoi” e di “fare solo il prete” per non turbare le ordinarie attività di “lavoro” di spaccio sul territorio, garantendogli, in cambio, il massimo della tranquillità, per sé e per i suoi. Padre Maurizio non potrà certo dire, non avendone i dati, che si trovava al cospetto di un boss che, considerando il livello del lavoro di spaccio di una “piazza” importante come quella del Parco Verde di Caivano, era e parlava come un tranquillo e grande “imprenditore”, titolare di un guadagno medio annuo di circa un milione di euro al giorno, rispetto ai circa 30 euro al giorno dello stipendio di un prete campano. Questo “imprenditore” deve però garantire nel solo Parco Verde lavoro “sereno” e tranquillo a migliaia di persone in quella piazza, i cui stipendi variano da un minimo di 60mila euro all’anno (vedette e muschilli) ai 120mila euro all’anno dei piccoli spacciatori locali, sino alla vetta della “piramide” mafiosa che può arrivare per i boss a non meno di un milione di euro al giorno: cash ed esentasse. Queste considerazioni possono essere dedotte dai macrodati ormai noti ripartiti per numero di affiliati e fiancheggiatori ma che non vengono resi noti abbastanza, non solo a chi si trova a combattere sul campo mafie e camorra, ma soprattutto ai giovani che vogliamo correttamente indirizzare per il loro futuro: combattendo o affiliandosi alle mafie? Il macrodato infatti ci dice che, da sole, le principali quattro “famiglie” italiane - camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita e mafia siciliana - hanno un incasso complessivo annuo esentasse non inferiore ai cento miliardi di euro, non lontano all’incirca quindi dai 110 con i quali lo Stato italiano finanzia l’intero Sistema Sanitario Nazionale. La sola camorra campana viene stimata avere una potenzialità di incasso lordo annuale esentasse non inferiore ai 36 miliardi di euro l’anno, cioè la cifra che deve ancora raggiungere l’intero esercito italiano se passeranno le richieste appena presentate in Parlamento, dal momento che oggi il finanziamento dell’intero Esercito italiano non arriva a 27 miliardi l’anno. E ormai da tempo - senza alcuna precarietà nel lavoro, anzi, pretendendo filiazione assoluta ed indissolubile - le mafie e la camorra assicurano pure la previdenza mentre lo Stato costringe persino i suoi giovani migliori, i ricercatori “piramidati”, a scendere in Piazza per chiedere lavoro e dignità, neanche più la previdenza, mentre nella piazza adiacente nello stesso giorno si snocciolano i nomi dei tanti innocenti uccisi come “incidenti sul lavoro” dai mafiosi! Mi spiegate come veramente vogliamo pensare di combattere le mafie e la camorra con questa schizofrenia di comportamenti dello Stato e come possono i nostri giovani veramente credere che quella organizzata oggi non sia stata solo l’ennesima scusa per fare “filone” a scuola finalizzata a dare visibilità e selfie ai “professionisti dell’antimafia” - che poi, tranne i pochi eroi che la combattono davvero e rischiano la vita ogni giorno, non fanno nulla per combatterla? Come? Dando dignità e lavoro certo, sicuro, con previdenza e secondo meritocrazia ai nostri giovani. Con quali risorse? Con le risorse economiche infinite che vanno sottratte quanto più presto possibile a tutte le mafie: oggi sono al primo posto i farmaci generici psicoattivi e al secondo posto l’industria non del rifiuto tossico ma del riciclo. Le prime due attività oggi saldamente e senza contrasto alcuno in mano alle mafie e alla camorra, che, da sola, incassa ogni anno esentasse più dell’intero Esercito Italiano! Altrimenti, sono e resteranno soltanto chiacchiere e selfie del primo giorno di primavera di questo anno 2022 che è iniziato non già con la fine di una pandemia ma pure con l’inizio di una guerra forse mondiale. *Presidente medici per l’ambiente, Napoli Spazzacorrotti, inapplicabili i divieti di misure alternative per reati precedenti l’entrata in vigore di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2022 Sì all’equo indennizzo per il carcere “sofferto” a seguito dell’illegittimo diniego di affidamento in prova o di domiciliari. Va riconosciuto l’equo indennizzo per la detenzione (ingiusta) se al condannato è stata negata la misura alternativa al carcere, in applicazione della legge spazzacorrotti, che non era però ancora in vigore al momento della commissione del reato contro la pubblica amministrazione. La Cassazione, con la sentenza n. 9721/2022 ha perciò accolto il ricorso contro la decisione della Corte di appello che negava l’equo indennizzo perché - pur riconoscendo l’inapplicabilità dei divieti posti dalla legge 3/2019 - non riteneva che costituisse un caso di ingiusta detenzione il mancato ottenimento della misura alternativa al carcere. Il ricorrente, condannato per peculato alla pena detentiva di tre anni, aveva richiesto l’affidamento in prova al servizio sociale o in alternativa i domiciliari. Il giudice aveva ritenuto ostativo alle richieste misure alternative il tipo di reato per cui vi era stata condanna. Il diniego era fondato appunto sulla nuova normativa “spazzacorrotti” intervenuta dopo la commissione del reato ostativo e dopo la relativa condanna. La condanna, essendo intervenuta prima del 1° gennaio 2020 - data di entrata in vigore della legge - non escludeva il diritto alla richiesta dei benefici anche per i reati contro la Pa. Il giudice che aveva dato esecuzione alla pena detentiva l’aveva sospesa a seguito della richiesta del condannato, ma le aveva poi dato esecuzione in base al diniego che aveva ritenuto applicabile il divieto della spazzacorrotti già entrata in vigore nella fase di esecuzione della condanna. I principi applicati - L’interpretazione della Cassazione verte esplicitamente su due pronunce - del 1996 e del 2020 - della Corte costituzionale. In primis, la Cassazione chiarisce che anche le norme relative all’esecuzione della pena sono inapplicabili retroattivamente se stabiliscono un trattamento sfavorevole rispetto al momento precedente la loro adozione. E ciò per il principio del favor libertatis, che si atteggia al pari del principio del favor rei, per cui la norma penale non si applica retroattivamente quando è di sfavore all’imputato. Scatta quindi anche in materia di esecuzione della pena, stabilita con condanna definitiva, il divieto di interpretazione in malam partem. La sentenza n. 310/96 della Consulta aveva infatti ampliato la riparazione per l’ingiusta detenzione anche al caso dell’erroneo ordine di esecuzione della pena in carcere (al pari quindi dell’illegittima detenzione cautelare subita). Il secondo punto è quello dell’inapplicabilità dei divieti della legge 3/2019 alla concessione dei benefici penitenziari, quando i reati contro la pubblica amministrazione sono stati commessi prima del 1° gennaio 2020. Lo ha affermato la Consulta con la sentenza n. 32/2020. La limitazione temporale non è superabile dal ragionamento espresso da alcuni interpreti, secondo cui anche prima della nuova normativa era remota la possibilità di ottenere tali benefici. Assunto che, tra l’altro, appare contrastato proprio dalla casistica. Infatti, l’irretroattività della legge 3/2019, che esclude in radice tali benefici, discende dalla probabilità di poterli ottenere sotto la vigenza della precedente disciplina. Determinando così il carattere di “sfavore” delle nuove regole: anche tenuto conto della mancata definizione di quale sia, in concreto, la collaborazione con la giustizia che - secondo la spazzacorroti - riapre l’ipotesi di ottenere il beneficio penitenziario. Sardegna. Salute detenuti. Negli ospedali mancano reparti detentivi di Elisabetta Caredda quotidianosanita.it, 24 marzo 2022 Il ricovero dei detenuti avviene ora in stanze condivise con altri pazienti, con le conseguenze che ne derivano. Cossa fa appello al governatore Solinas e l’assessore Nieddu chiedendo un intervento sulla consegna immediata del reparto detentivo presente presso l’ospedale Santissima Trinità a Cagliari, ora utilizzato come deposito, e un intervento presso tutte le ASL al fine di far prevedere in tempi brevi l’attivazione di reparti ospedalieri detentivi dedicati. Nel contesto della riforma sanitaria e territoriale viene messo in luce dal Consiglio regionale un altro importante problema: si parla della “mancata realizzazione dei reparti ospedalieri detentivi negli ospedali di riferimento delle carceri della Sardegna”. Ad evidenziarlo a Quotidiano Sanità è il vice capogruppo dei Riformatori Michele Cossa. “Il diritto alla salute - spiega Cossa - si realizza garantendo a tutti l’accesso alle cure e terapie, senza distinzioni e senza creare situazioni di svantaggio o di pericolo per i pazienti. Attualmente l’assistenza sanitaria penitenziaria è a carico del SSR e questa deve poter esser essere realizzata anche attraverso l’istituzione di appositi reparti detentivi all’interno dei presidi ospedalieri che hanno sede nei comuni sardi dove sono presenti le carceri”. “A tal proposito - prosegue il consigliere - si rileva che negli ospedali che fanno da riferimento delle maggiori strutture penitenziarie sarde non vi siano reparti detentivi, ad eccezione di quello attrezzato presso l’Ospedale Santissima Trinità di Cagliari, che è però al momento ancora destinato ad uso di magazzino/deposito. Il ricovero dei detenuti avviene infatti ora in stanze in condivisione con altri pazienti, che si sentono conseguentemente esposti a pesanti disagi e a condizioni di rischio, nonché è significativo l’oneroso impiego di risorse umane ed economiche sia della polizia penitenziaria che della sanità pubblica che vengono impegnati ovviamente a seguire questi casi”. “Vi è da tener conto - sottolinea Cossa - che le degenze ospedaliere, alle quali si somma il numero crescente di detenuti psichiatrici, comportano di seguito un utilizzo di sottufficiali e agenti di Polizia penitenziaria tale da determinare un conseguente aumento delle criticità che inevitabilmente derivano dalle carenze di organico che interessano anche tutti i settori del personale penitenziario, oltre che di quello ben noto nel campo medico e sanitario”. Il vice Capogruppo dei Riformatori si fa portavoce del problema in aiuto concreto ai sindacati della Polizia penitenziaria che hanno più volte segnalato le criticità operative. “Tra queste - evidenzia il consigliere - ricordo le difficoltà riscontrate dal personale di Polizia penitenziaria durante il servizio di piantonamento in ospedale nel contenere tentativi di evasione o di aggressione da parte di detenuti particolarmente pericolosi nei confronti degli Agenti o degli operatori, e dei casi che hanno causato ingenti danni alle strutture ed alle attrezzature dell’ospedale. Peraltro, proprio questo contesto di ‘precaria sicurezza’ si può dire abbia concorso a creare anche le condizioni favorevoli al suicidio di un detenuto”. La situazione descritta per gli ospedali non è molto diversa da quella che si presenta negli aeroporti dell’isola. “Tra le gravi problematiche evidenziate - rileva il vice Capogruppo - c’è inoltre l’assenza di appositi presidi fissi presso gli aeroporti: all’aeroporto di Elmas la Polizia penitenziaria è ospitata in un indecoroso container arrugginito, situazione offensiva della dignità del Corpo e delle persone che lì transitano”. Cossa fa appello dunque alla Regione. “Le motivazioni spiegate sono la chiara raffigurazione di una situazione non più tollerabile. Richiamo perciò a riguardo l’attenzione del governatore Christian Solinas e dell’assessore alla Sanità, Mario Nieddu, perché intervengano immediatamente sulla consegna perlomeno del reparto detentivo ospedaliero realizzato presso l’ospedale Santissima Trinità a Cagliari, consegna non più rimandabile. Al tempo stesso, è necessario un intervento anche presso le competenti ASL al fine di far prevedere in tempi brevi e comunque ragionevoli, l’attivazione di reparti ospedalieri detentivi in grado di accogliere i detenuti che hanno necessità di cure ospedaliere senza mettere a repentaglio la sicurezza degli altri pazienti e del personale sanitario e penitenziario coinvolto. Infine, chiedo che si faccia luce su quali siano le cause della mancata realizzazione delle camere di sicurezza presso gli scali aeroportuali dell’Isola, perché la situazione oggi esistente possa trovare miglioramenti”. Lombardia. Via ai corsi di formazione Oss per i detenuti di Simona Buscaglia La Stampa, 24 marzo 2022 Permetteranno di ottenere la qualifica di Ausiliario Socio Assistenziale o di Operatore Socio Sanitario. Priorità a chi ha aiutato nelle infermerie delle carceri durante la pandemia. Un finanziamento di 120mila euro per la formazione professionale in carcere, che permetterà ai detenuti di ottenere la qualifica di Ausiliario Socio Assistenziale (ASA) o di Operatore Socio Sanitario (OSS). Questo il contenuto di una delibera della giunta lombarda, che parte da un emendamento al bilancio approvato all’unanimità in consiglio regionale e promosso dal consigliere di +Europa, Michele Usuelli. Un iter lungo quasi un anno e mezzo, che però adesso arriva all’atto pratico: grazie al provvedimento si garantirà la partecipazione al corso a oltre quaranta detenuti, con un accesso prioritario a quelli che hanno lavorato nei reparti Covid e nelle infermerie degli istituti di detenzione lombardi nel periodo della pandemia. Durante l’emergenza sanitaria, per aiutare il personale sanitario nel contrasto allo sviluppo di focolai interni alle carceri, diversi detenuti hanno prestato servizio lavorativo nei reparti Covid e nelle infermerie degli istituti di reclusione. Il consigliere Usuelli racconta che il testo proposto nell’aula del Parlamento lombardo è nato in seguito a una visita al carcere di San Vittore a Milano: “Mi era stata spiegata l’importanza di queste figure dentro ai reparti per gestire il virus nelle carceri. In quel momento abbiamo pensato alla possibilità di creare una vera opportunità per queste persone, in un ambito per il quale avevano anche dimostrato particolare dedizione”. I percorsi di formazione dovranno essere realizzati da enti accreditati alla formazione professionale. “Non solo queste professioni sono molto ricercate oggi nel mercato del lavoro, ma viene così promosso il reinserimento e la rieducazione di questi detenuti, per un vero riscatto sociale, con un mestiere spendibile anche una volta scontata la pena - aggiunge il consigliere di +Europa - i fondi stanziati sono quindi un investimento molto efficace”. Usuelli spera poi che altri consigli regionali in Italia seguano il percorso avviato dalla Lombardia: “Queste iniziative possono essere bipartisan, e infatti a Palazzo Pirelli è stato così: un emendamento di un consigliere di opposizione è stato approvato anche dalla maggioranza” Roma. “Al San Camillo pazienti psichiatrici particolarmente fragili sistemati nei corridoi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 marzo 2022 Bisogna mettere fine alla prassi di ricoverare persone particolarmente fragili o in situazioni di acuzie utilizzando, in mancanza di altre sistemazioni disponibili, posti letto sistemati in un corridoio e di praticare la contenzione ai pazienti in questo luogo di passaggio, senza alcuna riservatezza. Così osserva il Garante nazionale delle persone private della libertà nel suo rapporto, appena reso pubblico, riguardante il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) dell’Azienda Ospedaliera San Camillo- Forlanini, visitato il 30 dicembre 2021, indirizzata il 23 febbraio scorso all’Assessore alla Sanità della Regione Lazio, ai Direttori generale e sanitario della ASL Roma 3 e al Direttore sanitario dello stesso Ospedale. Nel Rapporto, che riguarda lo stesso Spdc dove nel novembre 2021 è stato contenuto per tutto il tempo del suo ricovero e poi è deceduto il giovane Wissem Ben Abdelatif, proveniente dal Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, il Garante nazionale stigmatizza la prassi di ricoverare persone particolarmente fragili o in situazioni di acuzie utilizzando, in mancanza di altre sistemazioni disponibili, posti letto sistemati in un corridoio e di praticare la contenzione ai pazienti in questo luogo di passaggio, senza alcuna riservatezza. Il Garante nazionale ha inoltre sottolineato come i locali dell’Spdc non siano adeguati alle esigenze dei pazienti, come nel Reparto non vengano utilizzati appositi registri per i Trattamenti sanitari obbligatori e per la contenzione e come, a dispetto di quanto sia previsto dall’organico, siano del tutto assenti assistenti sociali e terapisti per la riabilitazione. Oltre al Rapporto, il Garante nazionale ha pubblicato le risposte pervenute dalle Amministrazioni competenti, che si sono adoperate anche per stabilire rapporti più diretti con questa Autorità di Garanzia. A questo proposito, il Garante nazionale prende positivamente atto della rapidità con la quale specifici provvedimenti sono stati adottati e ne verificherà nel prossimo futuro la corrispondenza con quanto raccomandato. Si legge nel rapporto, che al momento della visita nel Servizio erano presenti 12 pazienti (cinque uomini e sette donne) su 15 posti letto disponibili, tutti formalmente in trattamento sanitaria volontario (Tsv). Altri pazienti erano in arrivo, essendo stati temporaneamente dislocati in altre strutture, nei giorni precedenti, nel rispetto del Protocollo per Ia prevenzione della diffusione del Covid- 19, a seguito della positività di un degente. Tuttavia, secondo quanto riferito e riscontrato dalla documentazione, non è raro che nel Servizio siano ricoverate delle persone in sovrannumero, aggiungendo letti (fino a cinque) in corridoio. Tale criticità è legata - secondo quanto riportato - alla combinazione della non previsione da parte del Pronto Soccorso di sistemazioni in aree per persone in attesa della disponibilità del posto letto con l’impossibilita da parte del Servizio di rifiutare pazienti inviati dal Pronto soccorso stesso. II Garante ha espresso perplessità per tale situazione che comporta il ricovero di persone particolarmente fragili e talvolta in situazione di acuzie in un corridoio, senza alcuna riservatezza. Tra le altre criticità, il Garante stigmatizza diverse condizioni materiali di particolare degrado. Pavia. Pestaggi in carcere, interrogati i detenuti: “Noi non protestavamo” di Nicoletta Pisanu Il Giorno, 24 marzo 2022 Proseguono le indagini per i presunti pestaggi del marzo 2020 nel carcere di Torre del Gallo a Pavia. L’inchiesta era partita in seguito alle denunce presentate contro ignoti da alcuni detenuti all’autorità giudiziaria, querele in cui si raccontava che sarebbero stati picchiati e umiliati da un gruppo di agenti di polizia penitenziaria il 9 marzo di due anni fa, all’indomani di una rivolta scoppiata nella casa circondariale pavese. All’epoca infatti era cresciuto il malcontento in numerosi carceri italiani, tra cui quello di Pavia, in seguito alle restrizioni imposte alle visite per cercare di contenere la pandemia di coronavirus che in quelle settimane aveva iniziato a diffondersi nel nostro Paese e che aveva condotto ad adottare, tra gli altri provvedimenti, proprio in quei giorni il primo lockdown nazionale. A Pavia durante la protesta erano stati appiccati incendi nella struttura e un agente era stato aggredito. Diversi detenuti erano anche saliti sul tetto del carcere. Tra loro c’era anche un 50enne italiano, ora non più soggetto alla custodia in carcere in quanto ha finito di scontare la pena, che ieri è stato sentito dagli inquirenti come testimone poiché tra le persone che hanno denunciato i presunti maltrattamenti. Il suo esposto infatti riportava come l’uomo fosse salito sul tetto per paura del fuoco, non per protestare, e che il giorno seguente, secondo la sua versione dei fatti, alcuni agenti avrebbero picchiato lui e altri detenuti. L’indagine inizialmente era stata archiviata dal Giudice di pace, ma i legali dei detenuti che avevano presentato le denunce, in collaborazione anche con l’associazione Antigone, avevano fatto opposizione all’archiviazione. Il Gip di Pavia a maggio 2021 aveva accolto l’opposizione e disposto la riapertura delle indagini per approfondire le accuse, ora gli accertamenti stanno proseguendo: “I miei assistiti hanno espresso apprezzamento per il proseguimento delle indagini - ha commentato l’avvocato Pierluigi Vittadini. Abbiamo piena fiducia nel lavoro della Procura e siamo certi che la verità dei fatti sarà accertata in tutti i suoi particolari”. Non è escluso che possano essere sentite altre persone. Modena. Rivolta in carcere, un percorso per aiutare il personale a superare il trauma modenatoday.it, 24 marzo 2022 Diverse figure professionali coinvolte in un progetto rivolto sa agli agenti che alle altre persone che con diverse mansioni operano nella Casa circondariale teatro degli scontri e della strage dell’8 marzo 2020. “Un’utile strategia di uscita dal trauma che ha provocato la rivolta”, così il Garante regionale delle persone private della libertà personale, Roberto Cavalieri, ha commentato l’iniziativa attivata all’interno della Casa circondariale di Modena, struttura, assieme ad altre, al centro delle rivolte del marzo 2020. “Un’iniziativa importante in tema di ‘relazioni fiduciarie’ rivolta al personale del carcere -ha poi sottolineato Cavalieri- orientata a offrire uno spazio di ascolto e strumenti adeguati alla gestione della quotidianità detentiva nella prospettiva di ‘un’assunzione comune della responsabilità’”. Voluto dal Provveditorato regionale Emilia-Romagna e Marche, organizzato dalla cooperativa Dike (cooperativa per la mediazione dei conflitti), e indirizzato al personale della struttura (polizia penitenziaria, funzionari giuridico-pedagogici, sanitari, cappellano, esperti ex articolo 80 ordinamento penitenziario, volontari), il percorso è stato inaugurato ieri con la proiezione del film ‘Aria ferma’, alla presenza del registra Leonardo Di Costanzo (al termine della proiezione c’è stato un momento di confronto coordinato da Adolfo Ceretti, professore ordinario di criminologia e mediazione reo-vittima e mediazione sociale dell’Università di Milano Bicocca). Sono quindi intervenuti la direttrice del carcere, Anna Albano, l’assessora alle politiche sociali del Comune di Modena, Roberta Pinelli, e lo stesso Garante Cavalieri. Il Garante regionale si è poi trattenuto in carcere per le udienze di dieci persone recluse, fra cui diverse donne, e ha interloquito con la direzione e con il comandante sul tema della detenzione femminile, in particolare rispetto ai progetti di tipo lavorativo (in particolare in ambito agricolo) che la struttura rivolge alle detenute. Frosinone. Detenuto morto in carcere nel 2019, ordinata la riesumazione del corpo direttasicilia.it, 24 marzo 2022 Potrebbe non essere stata una morte per cause naturali quella di Salvatore Lupo, monrealese di 31 anni, condannato per mafia nel 2018 e ritrovato senza vita nella sua cella del carcere di Frosinone il 16 dicembre del 2019. Ora il giallo della sua morte si infittisce di nuovi elementi. Il Gip ordina nuovi esami sul suo corpo e ordina di riesumare la salma. “Allo stato, la richiesta di archiviazione del processo relativo al decesso di Lupo Salvatore, avanzata nuovamente dalla Procura della Repubblica di Frosinone, non appare accoglibile ed infatti si rende necessaria una nuova consulenza collegiale tossicologica e cardiologica con nuovi e diversi consulenti al fine di procedere ad accertamenti medico legali attraverso la riesumazione della salma di Lupo Salvatore”. È il contenuto del provvedimento adottato dal Gip presso il Tribunale di Frosinone, Fiammetta Palmieri, che ha respinto per la seconda volta la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura della Repubblica, accogliendo il contenuto dell’atto di opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dai difensori Salvino Caputo, Valentina Castellucci, Mauro Torti e dalla Dr.ssa Giada Caputo che assistono i familiari di Salvatore Lupo. Il giovane, di Monreale, stava scontando una condanna per associazione mafiosa ma morì nel carcere di Frosinone per cause non ancora note. I difensori in sede di opposizione alla Procura, hanno evidenziato le lacune della perizia medico legale redatta dal Consulente della Procura della Repubblica in quanto non aveva svolto alcun accertamento di natura tossicologica in riferimento ai farmaci somministrati a Lupo dalla direzione sanitaria del carcere di Frosinone. Il compagno di cella, infatti, in sede di esame testimoniale aveva dichiarato che la sera prima del decesso avvenuto in data 16 dicembre 2019, l’uomo era stato visitato dal medico di turno che aveva modificato la precedente terapia farmacologica e aveva prescritto nuovi farmaci. Lupo, infatti era rientrato in cella, dalla infermeria con alcuni medicinali. Subito dopo il decesso, il medico del carcere stava cercando di impossessarsi delle medicine, senza riuscirvi in quanto bloccato dall’intervento di alcuni detenuti. Le pillole furono prese in consegna dal comandante della Polizia penitenziaria. Farmaci che non furono più trovati, nonostante rinchiusi nella cassaforte del Carcere. Inoltre i campioni di sangue, urine e bile lasciati nella camera frigo della sala autoptica di Frosinone. subito dopo la autopsia non risultarono essere più disponibili. Da qui la richiesta del Giudice per le Indagini preliminari di Frosinone che ha disposto nuovo esame autoptico con medici legali diversi da quelli nominati dalla Procura, attraverso la riesumazione della salma di Salvatore Lupo in atto deposta presso il cimitero di Monreale. Il Giudice ha disposto un rinvio di 4 mesi per la consegna degli esami tossicologici e cardiologici. “Sin dall’inizio della drammatica vicenda - hanno dichiarato i legali - avevamo denunciato l’impossibilità di archiviare come morte naturale il decesso di un ragazzo di 30 anni, di corporatura robusta ed atletica ben abituato a lavori pesanti. Era evidente che siamo di fronte ad un clamoroso caso di colpa medica in quanto il Lupo è stato sottoposto ad una terapia farmacologica inappropriata, senza preventivi esami di laboratorio. Sorprende inoltre che siano spariti dalla cassaforte della casa circondariale le medicine somministrate e nonostante il pubblico ministero abbia disposto un esame tossicologico, siano scomparsi i liquidi corporei indispensabili per accertare le vere cause del decesso. Adesso vigileremo con i nostri consulenti di parte sui nuovi accertamenti tossicologici e cardiologici”. Intanto i familiari di Lupo Salvatore hanno presentato una articolata denuncia contro ignoti, sia per la sparizione delle medicine che sui liquidi corporei prelevati dal corpo di Lupo Salvatore. “Siamo convinti il decesso di Lupo Salvatore - hanno concluso i difensori - sia stato causato dalle medicine prescritte e la ulteriore attività di indagine scientifica disposta dal Giudice ed affidata a nuovi periti certamente contribuirà a stabilire la verità”. Napoli. Lavoro a ex detenuti, possibili finanziamenti alle cooperative sociali con fondi Pnrr ansa.it, 24 marzo 2022 In commissione Affari Sociali il punto con l’assessore Marciani. Il lavoro per gli ex detenuti come opportunità concreta di reinserimento sociale: la commissione Politiche sociali del Comune di Napoli, presieduta da Massimo Cilenti, ha affrontato il tema incontrando l’assessora al Lavoro, Chiara Marciani, Dario Vicedomini, commissario coordinatore delle cooperative “25 giugno” e “Primavera III” e il Garante dei detenuti Pietro Ioia. La cooperativa “25 giugno” opera in convenzione con il Comune per progetti finanziati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri attraverso il ministero dell’Interno. Nate a metà degli anni Ottanta le cooperative, costituite inizialmente da ex detenuti, nel corso degli anni hanno assorbito anche lavoratori socialmente utili. Il finanziamento dei progetti è garantito fino alla sopravvivenza delle cooperative. Qui sta il punto, ha spiegato il coordinatore Vicedomini: man mano che queste si svuotano, per i pensionamenti, i soci cooperatori non possono essere rimpiazzati, a differenza di quanto avviene in altre realtà, ad esempio in Sicilia, dove le cooperative hanno un regime diverso. All’assessora Chiara Marciani la commissione - nel corso della quale sono intervenuti anche i consiglieri Gennaro Esposito (Manfredi Sindaco), Rosario Andreozzi (Napoli Solidale Europa Verde) e Gennaro Demetrio Paipais (Movimento 5 stelle) - ha chiesto di valutare con il Governo la possibilità che queste esperienze possano continuare. L’assessora Marciani si è detta disponibile, aggiungendo che per quanto siano a tempo, i finanziamenti del PNRR potrebbero accompagnare nella fase iniziale la costituzione di cooperative, offrendo così uno sbocco lavorativo agli ex detenuti. Un impegno della commissione Massimo Cilenti lo ha assunto anche con il Garante comunale dei detenuti, Pietro Ioia, innanzitutto a far sì che, a due anni e mezzo dalla nomina, gli sia garantito un ufficio dal quale operare nel delicato compito. Dal Garante è venuta la denuncia delle condizioni disumane vissute dai detenuti nel carcere di Poggioreale: a fronte di una capienza di 1.600 persone, Poggioreale ne ospita oggi 2.300. Complicatissimo, in queste condizioni, il lavoro per sostenere i detenuti nella ricerca di un lavoro una volta usciti dal carcere. Se gli affidamenti ai servizi sociali, grazie alle associazioni, sono frequenti nel corso della detenzione, la collocazione presso un’azienda, dopo, è veramente sporadica anche se, nei casi in cui riesce, è una garanzia per non tornare a delinquere Catania. Gli amputano gamba mentre era in carcere, assolto e liberato ora chiede una protesi ansa.it, 24 marzo 2022 Detenuto in carcere da innocente per 3 anni Famous Williams, 26enne nigeriano, è stato scarcerato il 19 gennaio di quest’anno dopo la sentenza di assoluzione emessa dalla Corte d’Appello di Catania. Il giovane era stato arrestato insieme ad altri connazionali all’interno del Cara di Mineo perché considerato un esponente della mafia nigeriana ma lui, ha spiegato, si univa ai componenti del clan ospiti del centro perché erano della sua stessa nazione e trovava più naturale stare con qualcuno che parlava la sua stessa lingua e proveniva dalla stessa cultura. Tanto che dopo 3 anni di carcere è stato assolto dal reato di associazione mafiosa con formula piena. All’epoca della permanenza nel centro di accoglienza del Catanese si era anche ferito il piede con un pezzo di ferro acuminato. L’infezione al piede, nei giorni di permanenza in carcere sarebbe peggiorata di giorno in giorno tanto che, alla fine, era stato portato all’ospedale “Cannizzaro” di Catania dove ha subito l’amputazione della gamba. E adesso che è tornato in libertà chiede solo di avere la sua protesi per poter vivere come tutti gli altri giovani della sua età. “La protesi per lui è fondamentale per poter riprendere la sua vita in maniera quasi normale - spiega Roberta Butera, dipendente della cooperativa Etnos di Caltanissetta - ed è già pronta così come ci è stato detto dal centro di Caltanissetta che si occupa della realizzazione ma aspettano l’autorizzazione dall’Asp di Caltagirone. Noi non siamo riusciti a metterci in contatto ma ci hanno spiegato che il medico del carcere deve inviare la documentazione riguardante Famous all’Asp di Caltagirone. È un passaggio brevissimo, qualcosa che si potrebbe avere nel giro di nulla, ma come sempre la burocrazia è quella che rallenta i processi. Voglio quindi sollecitare il carcere a inviare tutto perché la protesi ridarebbe la gioia di vivere”. Reggio Calabria. Sanità nelle carceri, l’allarme della Garante dei detenuti reggiotoday.it, 24 marzo 2022 Giovanna Russo chiede interventi per migliorare i livelli di assistenza all’interno dell’istituto carcerario di Arghillà. La situazione sanitaria dell’istituto di Reggio Calabria-Plesso Arghillà è fragilissima. “Grazie al notevole impegno del personale infermieristico e del medico di guardia, il focolaio Covid, attualmente presente in istituto - spiega - sembra essere sotto controllo. Non sono state riscontrate gravi condizioni cliniche e la popolazione detenuta ha risposto in maniera matura e collaborativa, nonostante i forti disagi legati all’isolamento”. Il microcosmo carcerario, con le sue note peculiarità assistenziali, necessita di un’assistenza sanitaria particolare e adeguata, conforme al rispetto della dignità delle persone detenute, così come cristallizzata dal dettato costituzionale e non è più tollerabile la permanenza di un costante stato di “emergenza” lavorativa che a sua volta determina criticità in relazione al diritto alla salute delle persone detenute. L’istituto di Arghillà può contare su un solo medico di turno. La gran parte del personale infermieristico e l’operatrice sociale hanno con contratti a tempo determinato ed a brevissima scadenza. È fondamentale che siano attivate tutte le procedure utili per la definizione stabile, e non emergenziale, del personale; non può essere ritenuta sufficiente l’ipotesi di un breve rinnovo dei contratti. “L’istituto di Arghillà - prosegue - seppure circondato da un alto muro di cinta, non può essere considerato un’isola, né territoriale, né sanitaria. Così come la popolazione carceraria insiste territorialmente sul Comune di Reggio Calabria, i servizi sanitari che vi afferiscono dipendono dalle responsabilità del sistema sanitario chiamato a garantire i livelli essenziali di sssistenza come al resto della popolazione residente. Ai lavoratori della sanità penitenziaria competono gli stessi diritti degli altri lavoratori della sanità. Migliorare la governance penitenziaria influisce nettamente sul miglioramento dello standard qualitativo di vita delle persone detenute, e di tutto il pianeta carcere”. L’ufficio del garante intende collaborare in maniera strettissima con i vertici aziendali sanitari e i rappresentanti politici regionali e locali al fine di ottenere, nel più breve tempo possibile, le risposte utili a garantire, ed a mantenere elevati, i livelli dell’assistenza sanitaria. L’auspicata collaborazione istituzionale oggi rappresenta l’unica vera soluzione percorribile. Per tale motivo, il garante ha inviato un accorato appello a tutte le istituzioni interessate e competenti, nell’ottica di fornire una chiara risposta alla tutela dei diritti fondamentali delle persone detenute ed ha convocato un tavolo tecnico finalizzato a realizzare una commissione di monitoraggio delle procedure per dare nuovo impulso al sistema sanitario penitenziario. Lamezia Terme. Sabato prossimo convegno regionale dei cappellani e operatori pastorali lameziainforma.it, 24 marzo 2022 In preparazione del IV Convegno Nazionale dei Cappellani e degli Operatori per la Pastorale penitenziaria, che si terrà ad Assisi a maggio. Si terrà sabato alle 9, presso l’oasi Bartolomea di Lamezia Terme, il convegno regionale dei cappellani e operatori pastorali dal titolo “Cercatori instancabili di ciò che è perduto”. In preparazione del IV Convegno Nazionale dei Cappellani e degli Operatori per la Pastorale penitenziaria, che si terrà ad Assisi nel prossimo mese di maggio, i cappellani insieme agli operatori penitenziari della Regione Calabria vivranno sabato un convegno in preparazione e di raccolta di spunti che saranno condivisi insieme nella seduta del Convegno Nazionale. Il Convegno, dopo la preghiera iniziale e la riflessione guidata da fra Umile, aprirà i lavori con i saluti di Giuseppe Schillaci, Vescovo di Lamezia Terme, e di Don Maurizio Macrì, Delegato Regionale dei Cappellani. Seguiranno i saluti e le relazioni di Don Raffaele Grimaldi, Ispettore Generale dei Cappellani delle Carceri Italiane, Guerriero Liberato, Provveditore Regione Calabria, Francesco Savino, Vescovo di Cassano allo Jonio, Massimo Niutta, Psicologo del Carcere di Castrovillari. Modererà l’incontro Don Francesco Faillace Cappellano del Carcere di Castrovillari. Al convegno oltre i cappellani degli undici Istituti di pena della regione Calabria saranno presenti i direttori e i responsabili delle aree educative, le religiose e i religiosi insieme a tutti i volontari che ogni giorno si fanno prossimi verso i tanti fratelli e sorelle recluse. “Sarà una vera gioia ritrovarsi - scrive Don Maurizio Macri delegato regionale e Cappellano della Casa Circondariale di Vibo - dopo alcuni anni che hanno visto cambiare il mondo anche carcerario, con la pandemia che ha creato non pochi problemi all’interno delle strutture penitenziarie. Ma vorrà essere anche un importante momento di approfondimento per come poter insieme aiutare coloro che per vari motivi si trovano a dover scontare una pena. Il nostro intento è quello di non arrenderci dinanzi all’uomo che si sente ormai “Perduto”, ma come cercatori instancabili aiutarlo a riscoprirsi Uomo amato”. Il diritto smarrito di Sabino Cassese Corriere della Sera, 24 marzo 2022 È necessario rivedere la rete dei poteri internazionali e ristabilire un equilibrio tra sovranità nazionale e sovranità della comunità internazionale, che non può essere fermata da una nazione con potere di veto, se si vuole che il diritto internazionale sia efficace. Settantasette anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, una nuova guerra è scoppiata in Europa. Chi è nato prima della metà del secolo scorso ricorda le notti trascorse nei rifugi e la vita da sfollati. Dunque, quell’esperienza non ha insegnato nulla? La tanto elogiata globalizzazione non ha eroso il potere degli Stati e sono ancora questi ultimi a dettare legge? La rete di poteri ultrastatali costruita faticosamente in tutti questi anni è inefficace? Dopo un mese di guerra il diritto e le corti non hanno nulla da dire, perché conta solo la forza degli eserciti? La decisione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa del 25 febbraio di sospendere temporaneamente la Russia, seguita dalla espulsione del 16 marzo, e la severa condanna dell’azione dei russi da parte dell’Assemblea delle Nazioni Unite, il 2 marzo, sono solo latrati di cani che non mordono, a differenza delle decisioni dei governi di venti Paesi che hanno introdotto sanzioni a carico di circa 3.600 persone fisiche e giuridiche russe? Se - come disse un famoso costituente americano, riferendosi alle corti nazionali - il potere giudiziario è quello meno pericoloso perché non comanda né i soldi né la spada, dobbiamo concludere che la voce dei giudici è completamente inascoltata quando parla una delle centinaia di corti operanti a livello internazionale? Quarantuno Stati si sono rivolti alla Corte penale internazionale, chiedendo una condanna dell’aggressione russa. La procura della Corte ha aperto il 2 marzo una inchiesta. Più avanti è andata la Corte di giustizia internazionale, organo dell’Onu, alla quale si è rivolta la stessa Repubblica Ucraina, sulla base della Convenzione del 1948 sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio. L’Ucraina, assistita da valenti studiosi di diritto internazionale, tra cui l’americano Harold Koh, ha sostenuto che nel Donbass non vi è stato genocidio nei confronti del popolo russo, come lamentato dal presidente Putin, e che quindi l’invasione, fondata su una falsa affermazione, va fermata e i danni prodotti risarciti. La Russia si è limitata a mettere agli atti del processo il discorso alla nazione di Putin del 24 febbraio, in cui il presidente russo ha messo sotto accusa l’intero sistema di relazioni internazionali prodottosi sul finire degli anni 80, affermando che l’aggressione è stata motivata dalla necessità di difendersi e sostenendo che la Corte di giustizia non ha giurisdizione. La Corte internazionale di giustizia, con una ordinanza presa il 16 marzo, con tredici voti contro due, ha dato ragione all’Ucraina perché non si può usare la forza nel territorio di un altro Stato, con lo scopo di prevenire o punire un genocidio solo supposto. Ha quindi ordinato alla Russia, in via provvisoria ed urgente, di sospendere le operazioni militari in Ucraina. La Russia, però, ha continuato le operazioni belliche. La Carta delle Nazioni unite prevede che, in caso di inottemperanza alle decisioni della Corte internazionale di giustizia, la questione possa essere deferita al Consiglio di sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni unite, che può prendere misure per rendere efficace la decisione giudiziaria. Ma ben pochi casi sono stati deferiti, in passato, al Consiglio di sicurezza, perché molti riguardavano, come quello attuale, un membro permanente del Consiglio, che in quell’organo ha potere di veto. Quindi, si crea un circolo vizioso perché, nell’organo che dovrebbe rendere efficace una decisione giudiziaria non eseguita, lo Stato interessato - in questo caso la Federazione russa - ha un potere di veto. In altri settori, quando l’inottemperanza non dipende da politiche aggressive così fortemente sostenute da poteri nazionali autocratici, la comunità internazionale ha sperimentato altre formule per dare esecuzione a decisioni giudiziarie. Per esempio, il monitoraggio e la pubblicizzazione, per ottenere l’appoggio di altri Stati o l’intervento di giudici nazionali (dove questi sono indipendenti dal potere esecutivo). Oppure il collegamento tra ordini giuridici diversi (se non rispetti l’ambiente per produrre un bene, questo non può essere commercializzato in un altro Paese). Oppure il ricorso a ritorsioni (cioè la possibilità di prendere misure altrimenti non consentite, a danno di chi non rispetta la decisione giudiziaria). Ma tutto questo è ben poco efficace quando scendono in campo gli eserciti; è da qui che bisogna partire per rivedere la rete dei poteri internazionali e ristabilire un equilibrio tra sovranità nazionale e sovranità della comunità internazionale: quest’ultima non può essere fermata da una nazione con potere di veto, se si vuole che il diritto internazionale sia davvero efficace. Fine vita: ancora una volta la giustizia colma le lacune della politica? di Valter Vecellio lindro.it, 24 marzo 2022 L’umanità di un magistrato riesce ad arrivare dove la politica non sa e non vuole: per timori, titubanze, o che altro, il Parlamento non riesce, non sa ancora trovare soluzioni da tempo invocate, richieste, ‘sentite’ dalla pubblica opinione; è impastoiato e paralizzato da mille ‘se’ e ‘ma’. “Ci sarà pure un giudice a Berlino”, ogni tanto capita di sentire. Questa storia del giudice, la si deve allo storico Franz Kugler, che ha “codificato” una leggenda che affonda le sue radici su un episodio storico realmente accaduto. C’è un potente imperatore, Federico II il Grande che non sopporta il rumore, per lui fastidiosissimo, provocato dalle pale di un mulino. L’imperatore convoca il mugnaio, e pensa di risolvere la questione proponendogli di acquistare il mulino. Ne ottiene un rifiuto. L’imperatore minaccia: “Ma lo sai che posso prendermi il mulino senza sborsare alcun soldo?”. Non meno puntuta la risposta: “Sì, se non fosse per la Corte Suprema di Berlino”. Leggenda o verità che sia, la storiella vuol far capire che in un paese mediamente civile, perfino l’imperatore deve sottostare al diritto; e un umile mugnaio può trovare un giudice che gli dà ragione, quando ragione ce l’ha. Senza dover andare in Germania, un giudice talvolta accade di trovarlo anche in Italia; accade di imbattersi in una Giustizia che mostra un volto umano e comprensivo, in luogo di quello arcigno, tetragono, alla Senah Lively: il giudice immortalato nella sua “Spon River” da Edgar Lee Master: che si vendica delle sue frustrazioni a suon di durissime condanne. Uno di questi giudici dal volto umano, capaci di coniugare giustizia a diritto, abita a Feltre. Grazie a questo giudice, Samantha D’Incà ha potuto mettere la parola fine a un penoso calvario che non le lasciava scampo; la sua famiglia ora può trovare se non pace, una briciola di consolazione: la sofferenza senza scopo e ragione della figliola è finita. Samantha: una ragazza di 30 anni precipitata nel gorgo dello stato vegetativo, dopo un incidente avvenuto nel novembre 2020. Sabato scorso alla giovane donna sono state interrotte le cure che la tenevano in vita. Lo si è potuto fare perché il giudice tutelare ha nominato il padre Giorgio amministratore di sostegno della figlia. In questo modo (e si può ben immaginare quanto gli deve essere costato) il padre ha potuto chiedere che le cure venissero interrotte, e “liberare” Samanthadall’atroce condizione in cui era prigioniera. Una decisione assunta sulla base di una attenta ricostruzione della volontà della ragazza: concordanti testimonianze di genitori, fratelli, amici, che hanno garantito che “Sammy non avrebbe mai voluto una vita così, senza coscienza, dipendente da tutti e da tutto, lo diceva sempre durante la battaglia di Beppino Englaro per la figlia Eluana, e poi per Dj Fabo. La sua vita in quel letto, tra dolori e sofferenze non è vita, non è dignità, è solamente patimento”. Lascia l’amaro in bocca constatare, ancora una volta, che l’umanità di un magistrato riesce ad arrivare dove la politica non sa e non vuole; che per timori, titubanze, o che altro, il Parlamento non riesca, non sappia ancora trovare soluzioni da tempo invocate, richieste, “sentite” dalla pubblica opinione; sia impastoiato e paralizzato da mille “se” e “ma”. Faticosamente la Camera ha approvato un testo, che è un passo nella giusta direzione, ma presenta mille lacune e incongruenze. Soprattutto deve superare le secche del Senato, e non è detto che ce la faccia. La volontà impone ottimismo, che però la ragione non autorizza. Pensare che era il settembre del 2006 quando l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano risponde a un accorato appello di Piergiorgio Welby: “Penso che tra le mie responsabilità vi sia quella di ascoltare con la più grande attenzione quanti esprimano sentimenti e pongano problemi che non trovano risposta in decisioni del governo, del Parlamento, delle altre autorità cui esse competono. E quindi raccolgo il suo messaggio di tragica sofferenza con sincera comprensione e solidarietà. Esso può rappresentare un’occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi, di particolare complessità sul piano etico, che richiedono un confronto sensibile e approfondito, qualunque possa essere in definitiva la conclusione approvata dai più. Mi auguro che un tale confronto ci sia, nelle sedi più idonee, perché il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento”. Poi un “salto”: il 23 dicembre 2019 arriva una sentenza di assoluzione “attesa”: i giudici della Corte d’assise di Milano assolvono il tesoriere dell’associazione Coscioni Marco Cappato, imputato per aiuto al suicidio per aver accompagnato dj Fabo, in una clinica svizzera a morire: “il fatto non sussiste”. La Corte realizza pienamente il significato dell’articolo due della Costituzione che mette l’uomo al centro della vita sociale e non anche lo Stato. C’era stato già un precedente: una analoga vicenda, risolta allo stesso modo (ma con molto minor clamore), nel gennaio 2014. È il caso di una signora, Oriella Cazzarello; e di un signore, Angelo Tedde, che l’ha condotta in Svizzera, consapevole che anche quello sarebbe stato un viaggio di sola andata. “Il Corriere Veneto” del 14 ottobre 2015 riassume così la storia: Vicenza. Assolto perché il fatto non sussiste. Così ha sentenziato il giudice nei confronti di AngeloTedde, 60enne ligure di Chiavari, che era finito a processo per aver portato a morire l’amica Oriella Cazzanello, 85enne di Arzignano, per averla accompagnata - nel gennaio 2014 - in una clinica in Svizzera, in cui le era stata praticata l’eutanasia. Il pubblico ministero aveva chiesto tre anni e quattro mesi per l’ex portiere d’albergo accusato di aver istigato al suicidio la benestante vicentina, che gli ha lasciato una bella fetta dell’eredità, circa 800 mila euro. “Oriella era convinta, non ha voluto sentire ragione, non c’era modo di farla rinunciare all’eutanasia, ci ho provato fino all’ultimo” ha sempre sostenuto Angelo Tedde, che l’aveva già fatta desistere una volta. Oggi, al termine del processo con rito abbreviato, dopo circa due ore di camera di consiglio, il giudice ha pronunciato la sentenza di assoluzione piena dell’uomo...”. C’è poi il caso di Marina Ripa di Meana. Quale che sia il giudizio che si può dare sulle sue stravaganze, bizzarrie, “eccessi”, e “follie”, merita rispetto per come ha saputo uscire di scena: una grande dignità e lezione di stile. Malata senza più speranza, anche lei preda di sofferenze diventate insopportabili, affida un ultimo messaggio all’amica Maria Antonietta Farina Coscioni, che lo legge in sua vece, un audio-video dove compaiono insieme, trasmesso da “Radio Radicale”. “Le mie condizioni di salute sono precipitate”, dice Marina. “Il respiro, la parola, il mangiare, alzarmi: tutto, ormai, mi è difficile, mi procura dolore insopportabile: il tumore ormai si è impossessato del mio corpo. Ma non della mia mente, della mia coscienza. Ho chiamato Maria Antonietta Farina Coscioni, persona di cui mi fido e stimo per la sua storia personale, per comunicarle che il momento della fine è davvero giunto. Le ho chiesto di parlarle, lei è venuta. Le ho manifestato l’idea del suicidio assistito in Svizzera. Lei mi ha detto che potevo percorrere la via italiana delle cure palliatine con la sedazione profonda. Io che ho viaggiato con la mente e con il corpo per tutta la mia vita, non sapevo, non conoscevo questa via. Ora so che non devo andare in Svizzera. Vorrei dirlo a quanti pensano che per liberarsi per sempre dal male si sia costretti ad andare in Svizzera, come io credevo di dover fare”. Poi il passaggio chiave del testo: “Non sapevo, non conoscevo questa via…”; che si può “percorrere la via italiana delle cure palliative con la sedazione profonda…Vorrei dirlo a quanti pensano che per liberarsi per sempre dal male si sia costretti ad andare in Svizzera. Voglio lanciare questo messaggio, questo mio ultimo tratto: per dire che anche a casa propria, o in un ospedale, con un tumore, una persona deve sapere che può scegliere di tornare alla terra senza ulteriori e inutili sofferenze… fatelo sapere”. Un appello, un richiamo a tutti perché si faccia sapere, conoscere. Quante altre storie si potrebbero ancora raccontare, tutte simili: caratterizzate dalla comune sofferenza del malato, e dal dolore e dallo strazio di congiunti impotenti; dalle mille burocrazie che si frappongono a ragionevoli scelte di umanità; e una classe politica di destra, centro, sinistra imbambolata: presa da mille irrilevanti questioni, nelle loro inaccessibili torri d’avorio. Possibile che nessuno di quei parlamentari abbiano un parente, degli amici nelle condizioni in cui si sono venuti a trovare i Welby, i Dj Fabo, le Eluane, le Marine, le Samanthe? A cosa si deve la loro cinica indifferenza, la loro violenta inerzia? Non si rendono conto, nei “palazzi” della politica e del “potere”, che anche di questo, e per questo, saranno giudicati e condannati, e anzi: già lo sono? Nei Paesi poveri si vede la carestia di Danilo Taino Corriere della Sera, 24 marzo 2022 Nello scenario estremo - nel quale l’export si blocca sia in Russia sia in Ucraina - il frumento immesso sui mercati globali calerebbe del 13%, il granoturco di poco meno del 10% e gli altri cereali del 7,5%. Mentre gli occhi di mezzo mondo sono puntati sull’Ucraina, un altro pezzo di pianeta è di fronte a una catastrofe diversa. Già in azione prima dell’invasione decisa da Vladimir Putin ma ora in straordinaria accelerazione. Una catastrofe alimentare. Russia e Ucraina sono grandi esportatori di prodotti agricoli: le distruzioni della guerra e le sanzioni contro Mosca rendono ora difficile - vedremo se impossibile - farli arrivare a chi li acquista. Un destino pesantissimo per i Paesi poveri. Al 2020, la Russia forniva il 21% delle esportazioni globali di grano e l’Ucraina il 9% (dato Ocse). Il mais esportato era per il 2% russo ma per il 12% ucraino. I fertilizzanti prodotti in Russia coprivano quasi il 23% del totale di quelli esportati nel mondo. Negli scorsi cinque anni, i due Paesi hanno esportato in media il 75% dell’olio di semi di girasole mondiale e il 32% dell’orzo. Sempre l’Ocse ha tracciato due scenari per immaginare le conseguenze dell’invasione dell’Ucraina sul commercio dei cereali. In quello meno drammatico - recessione in Russia e Ucraina e il 20% in meno di aree coltivate - l’export mondiale di grano calerebbe del 7%, quello di mais del 3% e quello degli altri cereali di oltre il 5%. Nello scenario estremo - nel quale l’export si blocca in entrambi i Paesi - il frumento immesso sui mercati globali calerebbe del 13%, il granoturco di poco meno del 10% e gli altri cereali del 7,5%. Difficile stabilire quale scenario sia più realistico: le Nazioni Unite stimano che fino al 30% dell’area coltivabile ucraina stia diventando zona di guerra. Dal momento dell’invasione dell’Ucraina, il 24 febbraio, il prezzo del grano nel mondo è aumentato di oltre il 20%, quello dell’orzo del 33% e quello di alcuni fertilizzanti di quasi il 40%. Le forniture erano già care a causa della pandemia e la siccità aveva già costretto molti Paesi poveri a importare generi alimentari più del solito: ora, con l’aumento dei prezzi e con la penuria di merci disponibili sui mercati, le carestie diventano una realtà. Il risultato del tutto è l’allarme delle Nazioni Unite: ritengono che si tratti di una crisi senza precedenti dalla Seconda guerra mondiale. Il disastro è già ai massimi livelli in Paesi come Somalia, Etiopia, Yemen, Siria, Sud Sudan, Afghanistan. Fra non molto, anche altre Nazioni entreranno probabilmente nel cono oscuro della carestia. Iraq, impunità per le violenze contro le persone Lgbt La Repubblica, 24 marzo 2022 Il rapporto di Human Rights Watch di 86 pagine, “Tutti mi vogliono morto’“ documenta casi di tentato omicidio di persone da parte di gruppi armati. L’impotenza del governo. Gruppi armati in Iraq rapiscono, stuprano, torturano e uccidono impunemente persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender (Lgbt). Lo afferma un nuovo rapporto di Human Rights Watch (Hrw) in un rapporto pubblicato oggi con IraQueer, un’ONG irachena con sede in Svezia, che sostiene i diritti Lgbt in Iraq, fondata nel 2015 e impegnata sul fronte dell’istruzione, del patrocinio e dei servizi diretti, spesso nel mirino delle violenze da parte della polizia. Il rapporto: “Tutti mi vogliono morto”. Il rapporto di 86 pagine, “‘Tutti mi vogliono morto’: uccisioni, rapimenti, torture e violenze sessuali contro le persone LGBT da parte di gruppi armati in Iraq”, documenta casi di tentato omicidio di persone LGBT da parte di gruppi armati principalmente all’interno delle Forze di mobilitazione popolare (PMF), che sono nominalmente sotto l’autorità del primo ministro. Human Rights Watch ha anche documentato casi di rapimenti, esecuzioni extragiudiziali, violenze sessuali e attacchi online a persone LGBT da parte della polizia e dei gruppi armati. Il governo iracheno è responsabile della protezione dei diritti delle persone LGBT alla vita e alla sicurezza, ma non è riuscito a ritenere responsabili i responsabili delle violenze, ha rilevato sempre Hrw. “Gli iracheni LGBT vivono nella costante paura di essere braccati e uccisi dai gruppi armati impunemente - dice Rasha Younes, ricercatrice sui diritti LGBT di Hrw - così come l’arresto e la violenza da parte della polizia irachena, rendendo le loro vite invivibili. Il governo iracheno - ha concluso - non ha fatto nulla per fermare la violenza o ritenere responsabili gli aggressori”. Le 54 interviste indiciviali e alle organizzazioni. Human Rights Watch e IraQueer hanno intervistato 54 iracheni LGBT che hanno subito violenze da parte di gruppi armati e polizia. sono stati ascoltati anche rappresentanti di nove organizzazioni per i diritti umani e agenzie internazionali, e sette rappresentanti di missioni straniere in Iraq e difensori dei diritti LGBT. Gli intervistati avevano subito abusi a Baghdad e in altre città dell’Iraq e nella regione del Kurdistan. Hrw ha anche esaminato la documentazione online degli attacchi contro le persone LGBT, inclusi video, immagini e minacce digitali. Mancano sistemi di denuncia affidabili. I gruppi hanno scoperto che la capacità e la volontà delle persone LGBT di denunciare gli abusi che affrontano alla polizia o di presentare denunce contro gli agenti delle forze dell’ordine sono ostacolate da una combinazione di clausole di “moralità” vagamente definite nel codice penale iracheno e dall’assenza di sistemi di denuncia affidabili e di una legislazione che li protegga dalla discriminazione. Ciò ha creato un ambiente in cui gli attori governativi armati, compresa la polizia, possono abusare impunemente delle persone LGBT, hanno scoperto i gruppi. I racconti di transgendere e gay. Una donna transgender irachena di 31 anni ha detto che stava tornando a casa dal lavoro nel febbraio 2021 quando sei uomini in un Hummer con finestre oscurate l’hanno fermata vicino a una discarica a Baghdad. Hanno tirato fuori una lama di rasoio e un cacciavite e mi hanno colpito e tagliato dappertutto, specialmente il mio, il cavallo e le cosce, ha detto a Human Rights Watch e IraQueer. “Mi hanno affettato e versato circa cinque litri di benzina su tutto il corpo e sul viso e mi hanno dato fuoco”. Un uomo gay di 27 anni di Baghdad ha descritto come il suo ragazzo sia stato torturato da quattro membri di un gruppo armato di fronte a lui nel maggio 2020. “Poi gli hanno sparato cinque volte”, ha detto. Presi di mira anche ragazzini di 15 anni. In otto casi, gli abusi da parte di gruppi armati e polizia, tra cui arresti arbitrari e molestie sessuali, sono stati contro bambini di 15 anni. Molti degli attaccati sono stati in grado di identificare il gruppo armato responsabile. I gruppi implicati negli abusi più gravi sono Asa’ib Ahl al-Haqq, Atabat Mobilization, Badr Organization, Kata’ib Hezbollah, Raba Allah Group e Saraya al-Salam. Le persone intervistate hanno descritto arresti e violenze di routine da parte di funzionari della sicurezza, che li aggrediscono verbalmente e fisicamente, e li arrestano e li detengono arbitrariamente, spesso senza una base legale. Abusi sui detenuti e il reato di “pubblica indecenza”. Le persone LGBT hanno denunciato abusi durante la detenzione, tra cui la negazione di cibo e acqua, o il diritto di contattare un avvocato o familiari o ottenere cure mediche. Hanno detto che la polizia li ha aggrediti sessualmente e li ha abusati fisicamente e li ha costretti a firmare impegni affermando che non erano stati abusati. Nel giugno 2021, la polizia della regione del Kurdistan iracheno (KRI) ha emesso mandati di arresto basati sull’articolo 401 del codice penale che criminalizza la “pubblica indecenza” contro 11 attivisti per i diritti LGBT che sono attuali o ex dipendenti dell’Organizzazione Rasan, un gruppo per i diritti umani con sede a Sulaymaniyah (leggi il reportage di Mondo Solidale da Sulymanyah nel Kurdistan iracheno). A partire da marzo 2022, il caso è rimasto aperto in attesa di indagini, anche se le autorità non avevano arrestato gli attivisti. Chiusi in una stanza senza cibo e acqua. La maggior parte degli intervistati ha anche dichiarato di aver subito violenze estreme almeno una volta da parte di parenti maschi per il loro orientamento sessuale o identità ed espressione di genere. Tale violenza includeva l’essere chiusi in una stanza per lunghi periodi; essere negati cibo e acqua; essere bruciati, picchiati, violentati, sottoposti a scosse elettriche, attaccati sotto la minaccia delle armi e sottoposti a pratiche di conversione e terapia ormonale forzata; essere sottoposti a matrimoni forzati; ed essere costretti a lavorare per lunghe ore senza compenso. Ciò che dovrebbero fare i Paesi stranieri. “L’Iraq dovrebbe introdurre e applicare una legislazione antidiscriminazione, anche sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere”, si legge nel rapporto di Hrw. I paesi che forniscono assistenza militare, di sicurezza e di intelligence all’Iraq - compresi gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania e la Francia - “dovrebbero esortare le autorità irachene a indagare sulle accuse di abusi da parte di gruppi armati e sul ruolo della propria assistenza in queste presunte violazioni - esorta anche il documento diffuso - questi Paesi, insomma, dovrebbero sospendere l’assistenza militare, di sicurezza e di intelligence alle unità coinvolte in queste violazioni e spiegare pubblicamente qualsiasi sospensione o fine di tale assistenza. Il capitolo a parte del rapporto con le donne. Sempre in Iraq, secondo altre organizzazioni umanitarie in difesa dei diritti umani, le azioni illegali contro le donne sono drammaticamente aumentate nel 2021: sono state 148.236, rispetto alle 115.063 del 2020: un incremento davvero impressionante, come sottolinea l’articolo di un giornale pubblicato dal Consiglio Supremo della magistratura iracheno e rilanciato dalla giornalista irachena Zuhair al Jezairy a sua volta riportato da Internazionale. Nella maggior parte dei casi, si tratta di divorzi, con diverse motivazioni - si legge nell’articolo - le più frequenti sono i matrimoni precoci e la condivisione dell’abitazione con la famiglia del marito. Nel 2020 le cause per ottenere la possibilità di risposarsi erano state 5.710, e sono salite a 7.022 nel 2021. Il quadro politico-istituzionale nel quale succede tutto ciò. L’Iraq ha iniziato quest’anno cimentandosi con fatica per formare il nuovo governo, dopo le elezioni del 10 ottobre 2021. Ci sono stati mesi di contestazioni sui risultati elettorali, ma poi il 27 dicembre scorso finalmente la Corte suprema federale irachena ha reso ufficiali i risultati della consultazione. La nuova Assemblea dei rappresentanti abbia avviato la sua prima seduta il 9 gennaio scorso, il percorso per la formazione del nuovo governo appare assai impervio e lungo. Si scommette che possa durare “molti mesi” ancora. Ancora più complicato sarà poi la formazione del nuovo gabinetto di governo. Sullo sfondo c’è però l’urgenza di riforme economiche, una nuova campagna vaccinale, senza contare l’ancora ingombrante presenza dell’esercito statunitense. La geografia politica dopo le elezioni. Dalle urne dell’ottobre 2021 è di nuovo uscito un quadro politico parcellizzato che di sicuro non renderà facile e veloce la formazione del governo. La geografia dei blocchi di potere rimane comunque formata da quattro schieramenti: il movimento sadrista, guidato dal capo sciita Moqtada al-Sadr, che resta la prima forza in Parlamento; l’altro grande blocco è il “Quadro di coordinamento” delle forze sciite, animato da partiti sciiti in opposizione di al-Sadr. Ci sono poi altri partiti, come la coalizione sunnita Takaddum, guidata dal ri-eletto presidente del parlamento iracheno, Mohamed al-Halbousi e il Partito democratico curdo (Kdp) di Masoud Barzani. Nel complesso, le forze più direttamente legate all’Iran sembrano aver diminuito numericamente la loro presenza in Parlamento. Che sia affidabile o no il risultato emerso, è comunque un fatto che il risultato elettorale ha finora provocato grandi proteste di piazza e oltre 1400 ricorsi all’Alta Commissione elettorale indipendente, che comunque sono stati finora in massima parte respinti. I talebani vietano le scuole a tutte le bambine afghane di Luisa Loi Il Dubbio, 24 marzo 2022 La promessa tradita - Con una decisione improvvisa ma niente affatto sorprendente, la leadership dei talebani che dall’agosto dello scorso anno guida l’Afghanistan ha deciso di non aprire le scuole alle ragazze oltre le elementari. Ad annunciarlo è stato il ministero dell’Educazione del governo non riconosciuto dell’Afghanistan in occasione del primo giorno del nuovo anno scolastico che avrebbe dovuto vedere proprio il ritorno delle ragazze a scuola. La decisione di posticipare il ritorno delle ragazze che frequentano la scuola ai livelli superiori sembra essere una concessione alla parte di popolazione rurale e profondamente conservatrice che è riluttante a inviare le proprie figlie a scuola. Le ragazze sono state bandite dalla scuola oltre la sesta elementare nella maggior parte del Paese da quando i talebani sono tornati al potere a metà agosto. Le università sono state aperte all’inizio di quest’anno in gran parte del Paese, ma da quando hanno preso il potere i talebani la maggior parte degli istituti sono stati vietati a ragazze e donne. La leadership talebana non ha ancora deciso quando o come consentire alle ragazze di tornare a scuola. Sebbene i talebani abbiano accettato che i centri urbani siano per lo più favorevoli all’istruzione femminile, gran parte dell’Afghanistan rurale si oppone, in particolare nelle regioni tribali pashtun. La maggior parte dei talebani sono di etnia pashtun. La “Decisione dei talebani di chiudere le scuole secondarie femminili conferma il loro incrollabile oscurantismo misogino. Il diritto paritario all’educazione deve rimanere un punto dirimente di qualsiasi trattativa”, commenta su Twitter il segretario di Più Europa e sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova. Qualche giorno fa, inoltre, la relazione annuale dell’Intelligence relativa all’anno 2021 descriveva una una gravissima crisi economica, alimentare, climatica e sanitaria dovuta alla mancanza dell’afflusso dei fondi esteri: aNegli ultimi 20 anni l’economia afghana si è retta sugli aiuti internazionali, al punto che nel 2020 il 42,9 per cento del Pil e il 75 per cento della spesa pubblica provenivano da donatori stranieri”. Afghanistan. La scuola è maschile singolare di Giuliano Battiston Il Manifesto, 24 marzo 2022 Dopo mesi di assenza, bambine e ragazze afghane tornano tra i banchi. Ma all’arrivo trovano le porte chiuse: ordine dell’Emirato islamico. L’istruzione delle donne fa paura. Kabul in difficoltà, governo smentito dalla leadership. E la società civile si allontana sempre di più. Una bambina piange, le mani a coprirsi gli occhi. Un’altra è incredula: zaino sulle spalle, velo bianco sul capo, si guarda intorno cercando di capire cosa stia succedendo. Sono entrambe di fronte alla loro scuola, la Sayed ul-Shuhada, a Dasht-e-Barchi, quartiere della minoranza sciita degli hazara a Kabul. Sono sopravvissute al triplice attentato non rivendicato che l’8 maggio 2021 ha causato 90 vittime tra le loro compagne. Ieri ci sono andate fiduciose, convinte di poter tornare sui banchi, dopo quasi 190 giorni di assenza forzata. I Talebani lo avevano annunciato ufficialmente. A dirlo, pochi giorni fa, erano stati gli esponenti di quell’Emirato islamico che opera come se fosse legittimo ma che nessuno Stato straniero ha riconosciuto: il 23 marzo, dopo la pausa invernale, tutti e tutte a scuola, anche le studentesse delle scuole superiori femminili, costrette a casa dalla metà di settembre 2021. Ma la scuola, per loro e per centinaia di migliaia di altre, è ancora chiusa. Contrordine dei Talebani. All’ultimo momento, hanno deciso di rimandare. Ancora una volta “in attesa di un piano che permetta il rientro in accordo con i principi islamici”. La decisione ha raggiunto le scuole superiori del Paese pian piano, attraverso i dipartimenti provinciali dell’educazione. A volte la notizia è arrivata quando le studentesse erano già in classe: sono state invitate a lasciare gli istituti. Ad altre è stato impedito di entrare. In molti casi, i cancelli sono rimasti chiusi. Costrette a casa per mesi, illuse che potessero ritrovare parte della normalità perduta, infine disilluse, punite. Difficile immaginare i sentimenti delle giovani studentesse afghane, in queste ore. Le immagini che arrivano dal Paese mostrano le lacrime e, insieme, la determinazione. Una studentessa di Kabul, intervistata dalla rete locale Tolonews, chiede: “Perché ci prendono in giro? È forse un peccato studiare? È un nostro diritto”. Gruppi di ragazze hanno organizzato proteste di fronte ai cancelli, presto interrotte dai militanti Talebani. Sui social sono stati diffusi video di protesta, lamentele, prese di posizione. Tra le foto più emblematiche quella di un padre e di una figlia. Sul petto di lui, giacca grigia e barba ben curata, la testa della figlia. Entrambi affranti. Le reazioni sono state immediate: dichiarazioni di incredulità e condanna sono arrivate dai rappresentanti del governo statunitense, di molti Paesi europei, delle principali agenzie dell’Onu. Thomas West, il rappresentante speciale degli Usa che ha sostituito Zalmay Khalilzad, artefice dell’accordo di Doha del febbraio 2020 che ha facilitato il ritorno al potere dei Talebani, si è unito “allo choc e al disappunto di milioni di afghani”. Ha parlato di “un tradimento degli impegni pubblici verso la popolazione afghana e verso la comunità internazionale”. Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, parla di “un danno per tutto l’Afghanistan” e sollecita con urgenza “le autorità di fatto ad aprire le scuole per tutti gli studenti senza altri ritardi”. Reazioni prevedibili, per i Talebani, che contano ancora una volta sull’opacità dei meccanismi decisionali, sulla libertà di non dover rendere conto. Suhail Shaheen, uomo-simbolo dei Talebani a Doha, designato come rappresentante permanente alle Nazioni unite (non riconosciuto), sostiene che non ci sia alcun bando verso le studentesse. Si tratterebbe soltanto di un problema tecnico, relativo alle loro uniformi scolastiche. Ma è un modo per tagliar corto e nascondere ragioni più profonde. Conta senz’altro la misoginia del movimento, ben radicata, anche e soprattutto tra i “kandahari”, i membri della vecchia guardia, aperta al compromesso diplomatico con gli stranieri, meno a quello sociale in chiave domestica. Conta il timore della potenza emancipatrice dello studio, soprattutto se a studiare sono le ragazze e le donne. Contano le divisioni interne, più facili da nascondere quando il movimento era di sola guerriglia armata: non è la prima volta che gli annunci del ministero dell’Istruzione vengono contraddetti dalle decisioni della leadership, al cui interno c’è chi pensa che permettere alle ragazze di uscire di casa per studiare sia un incentivo alla promiscuità. In difficoltà, il portavoce del ministero, Aziz-ur-Rahman Rayan, diviso tra annunci e smentite. Concentrati sulla coesione interna, nel pieno di una transizione che potrebbe consolidare il loro potere istituzionale o far deflagrare il movimento sotto la spinta centrifuga delle varie componenti regionali, divisi tra pragmatisti e ortodossi, i Talebani rischiano di compromettere ulteriormente il rapporto con due interlocutori centrali: la società afghana e la comunità internazionale. Dal rapporto con la prima dipende il loro consenso interno, fin qui scarso e per ora riconducibile solo a un fattore: la fine del conflitto militare. Ma la “sicurezza”, intesa come fine dei bombardamenti, della guerra guerreggiata, come riduzione delle vittime civili, non basta, senza libertà. La società afghana, le donne in prima linea, rivendicano spazi di partecipazione e diritti. Che i talebani siano disposti a concederli, è tutto da vedere. Che la società sia disposta a rinunciarvi, sembra escluso, ci dicono le manifestazioni di questi primi mesi, pur represse. Quello del diritto allo studio delle ragazze, e più in generale della partecipazione delle donne alla vita pubblica del Paese, oltre i settori “garantiti” dalle autorità di fatto (sanità e insegnamento), sarà sempre più un banco di prova per i Talebani. D’altronde, ricorda un recente articolo dell’Afghanistan Analysts Network, anche una parte dei Talebani “semplici”, i militanti di medio livello, manda a scuola le figlie, perché così ormai si fa nei quartieri in cui vivono, nelle comunità di riferimento, nelle aree urbane e rurali. Dal rapporto con la comunità internazionale dipende invece parte della stabilità economica futura e il contenimento dei danni della crisi umanitaria in corso. Isabelle Moussard Carlsen, a capo di Ocha, l’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari, lo ha detto chiaramente: “Ci sono poche speranze che in Afghanistan ci sia una pace duratura e stabilità fino a quando i diritti delle ragazze e delle donne non saranno rispettati”. Prima dell’agosto 2021, dai donatori stranieri dipendeva il 75% della spesa pubblica afghana, il 49% di quella per l’istruzione. Lo stipendio degli e delle insegnanti dipende dunque dai donatori internazionali. Sconfitti militarmente, gli stranieri hanno deciso di usare l’ultima leva rimasta, quella finanziaria, congelando i fondi della Banca centrale afghana e interrompendo gli aiuti umanitari e allo sviluppo. L’Onu a gennaio ha lanciato un appello per 4,4 miliardi di euro per la crisi umanitaria, più 660 milioni circa per la crisi migratoria. Il prossimo 31 marzo è prevista una conferenza promossa dalle Nazioni unite e co-gestita dal Regno unito per drenare risorse. La decisione dei Talebani di ieri rischia di scoraggiare anche i donatori più generosi, già orientati verso altri fronti di emergenza, a partire da quella ucraina.