Carcere: tortura anche per un unico atto lesivo “inumano” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2022 La Cassazione, sentenza n. 8973 del 2022, ricostruisce i fatti di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile 2020 e conferma la misura cautelare per il comandante. Resta ai domiciliari, in via cautelare, il Comandante della Polizia Penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere, accusato di lesioni aggravate e tortura, nonché di calunnia, falso e di depistaggio ai danni dei detenuti. Lo ha deciso la Corte di cassazione con una articolata decisone, la n. 8973 del 2022, che ricostruisce nel dettaglio i fatti avvenuti il 6 aprile 2020 dopo che, il giorno precedente, i reclusi si erano barricati all’interno nel reparto Nilo chiedendo garanzie per la propria salute a fronte della pandemia. Ma la decisione si segnala anche per alcuni rilevanti passaggi giuridici. Secondo la Quinta Sezione penale, infatti, il ricorso del comandante è da bocciare anche laddove contesta la qualificazione dei fatti, in quanto l’evento sarebbe stato comunque circoscritto ad un evento singolo ed eccezionale, privo del requisito della abitualità. Ebbene per la Cassazione il delitto di tortura è stato configurato dal legislatore come reato “eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell’incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Secondo quanto accertato sulla base delle immagini acquisite dal sistema di videosorveglianza del carcere, nonché dalle chat tra gli agenti e dalle dichiarazioni dei detenuti, si legge nella decisione, il pomeriggio del 6 aprile 2020, tra le 15.30 e le 19.30, all’interno del reparto Nilo del carcere circa 200 agenti - giunti anche dalle carceri di Secondigliano e di Avellino - “hanno esercitato una violenza cieca ai danni di detenuti che, in piccoli gruppi o singolarmente, si muovevano in esecuzione degli ordini di spostarsi, di inginocchiarsi, di mettersi con la faccia al muro”. I detenuti erano costretti ad attraversare il cosiddetto ‘corridoio umano’ (la fila di agenti che impone ai detenuti il passaggio e nel contempo li picchia), venendo “colpiti violentemente con i manganelli, o con calci, schiaffi e pugni; violenza che veniva esercitata addirittura su uomini immobilizzati, o affetti da patologie ed aiutati negli spostamenti da altri detenuti, e addirittura non deambulanti, e perciò costretti su una sedia a rotelle”. Oltre alle violenze, prosegue la sentenza, venivano imposte umiliazioni degradanti - far bere l’acqua prelevata dal water, sputi, ecc. -, che inducevano nei detenuti “reazioni emotive particolarmente intense, come il pianto, il tremore, lo svenimento, l’incontinenza urinaria”. Dopo le quattro ore di ‘mattanza’, le sofferenze fisiche e psicologiche venivano perpetrate anche nei giorni immediatamente successivi, in particolare nei confronti dei quattordici detenuti trasferiti dal reparto Nilo al reparto Danubio - perché ritenuti ispiratori della protesta del 5 aprile -, costretti senza cibo, e, per 5 giorni, “senza biancheria da letto e da bagno, senza ricambio di biancheria personale, senza possibilità di fare colloqui con i familiari; tant’è che alcuni detenuti indossavano ancora la maglietta sporca di sangue, e, per il freddo patito di notte, per la mancanza di coperte e di indumenti, erano stati costretti a dormire abbracciati”. Il ricorso - Il ricorrente sostiene che egli aveva sì presenziato alla riunione organizzativa che aveva deciso la legittima “perquisizione straordinaria” ma che poi non vi aveva partecipato in prima persona essendo dunque non responsabile dei metodi illegali con in quali era stata condotta. Inoltre, un ordine di servizio superiore avrebbe “interrotto la catena di comando”, attribuendo ad altri la direzione delle operazioni. La motivazione - Una ricostruzione che è stata tuttavia bocciata dalla Suprema corte secondo cui, come accertato dai giudici del merito cautelare, una serie di significativi elementi confermano “la piena e consapevole partecipazione” del comandante alle operazioni “sfociate in vere e proprie torture, alle successive vessazioni riservate, anche nei giorni successivi, in particolare ai detenuti trasferiti nel reparto Danubio, ed alle operazioni di falsificazione di atti pubblici, calunnia e depistaggio”. Elementi, continua la Corte, qualificati dal Tribunale in termini di “concorso omissivo, ai sensi dell’art. 40, comma 2, cod. pen., sul rilievo che il Comandante della Polizia penitenziaria del carcere di SMCV avesse il dovere di garantire il rispetto della legalità, e l’obbligo giuridico di impedire gli eventi poi verificatisi”. Ma la Cassazione fa un passo in più ed afferma che tale ricostruzione è “parziale”, in quanto il concorso materiale “non può essere limitato - come sembrerebbe dedursi dalla qualificazione del Tribunale - al solo autore, cioè a colui che compie gli atti esecutivi del reato (nella fattispecie, gli atti di vessazione fisica e psicologica), ma è, evidentemente, esteso anche al c.d. ausiliatore (o complice), cioè colui che si limita ad apportare un qualsiasi aiuto materiale nella preparazione o nella esecuzione del reato; ulteriore rilievo assume, peraltro, il determinatore - che fa sorgere in altri un proposito criminoso prima inesistente -, e l’istigatore - che si limita a rafforzare o eccitare in altri un proposito criminoso già esistente - che integrano la fattispecie del concorso morale”. Tanto premesso, prosegue la Corte, “va evidenziato che la mera assenza del comandante dal reparto Nilo, e la sua mancata partecipazione agli atti esecutivi di tortura, non priva di rilevanza, sotto il profilo materiale, ma anche morale (di istigazione), il contributo fornito prima (e anche dopo, per occultare il reato) dell’inizio delle operazioni di pestaggio, allorquando: ha chiesto l’intervento del Gruppo di supporto comandato dal …; ha autorizzato l’ingresso nel carcere di oltre 200 agenti provenienti da altri istituti penitenziari armati di scudi e manganelli; ha comunicato l’uso di scudi e manganelli al … (provveditore ndr); ha partecipato e diretto la riunione preliminare organizzativa che ha preceduto l’inizio della ‘perquisizione straordinaria’, impartendo indicazioni ai propri subordinati, rassicurandoli che gli ‘uomini’ di … “sanno cosa fare”, lasciando il comando dei ‘suoi uomini’ (gli agenti del carcere di SMCV) all’ispettrice …, e consentendo al personale del gruppo di supporto guidato dal … di operare senza freni”. Non solo, già nel corso della riunione preliminare, egli aveva individuato i 14 detenuti da trasferire nel reparto Danubio. Il reato di tortura - Tornando infine al delitto di tortura (articolo 613-bis, comma 1, cp), per la Cassazione la locuzione “mediante più condotte” va riferita “non solo ad una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico”. Peraltro, le condotte di tortura “risultano proseguite, con ulteriori vessazioni, anche nei giorni successivi”. Quanto al dolo, premesso che, in tema di tortura, anche quando il reato assuma forma abituale, per l’integrazione dell’elemento soggettivo non è richiesto un dolo unitario, “consistente nella rappresentazione e deliberazione iniziali del complesso delle condotte da realizzare, ma è sufficiente la coscienza e volontà, di volta in volta, delle singole condotte, gli elementi già evidenziati sono esaustivi della piena consapevolezza, …, della finalità e dei metodi dell’operazione di pestaggio e vessazione che era stata programmata, ed eseguita mentre lui si tratteneva nel proprio ufficio”. Esigenze cautelari - Infine, sul pericolo di recidiva, alla base della misura cautelare, la Suprema corte ricorda che “il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie non va inteso come pericolo di reiterazione dello stesso fatto reato, atteso che l’oggetto del “periculum” è la reiterazione di astratti reati della stessa specie e non del concreto fatto reato oggetto di contestazione”. Fatta questa premessa, l’ordinanza impugnata ha, ha desunto l’attuale e concreto pericolo di reiterazione di reati della stessa specie dall’esistenza di un vero e proprio ‘sistema’ (denominato ‘sistema Poggioreale’), che priva i fatti del carattere di episodicità ed eccezionalità. Ma anche dall’organizzazione, non improvvisata, ma ben rodata, ed attestata dalle chat di gruppo degli agenti, della ‘chiamata alle armi’ di tutti gli agenti di Polizia Penitenziaria, provenienti anche da altre carceri, convocati per ‘abbattere i vitelli’, dare “tante di quelle mazzate”; dalla perpetrazione di violenti pestaggi e degradanti umiliazioni nei confronti di circa 350 detenuti, “passati e ripassati” con ‘divertimento’ dagli agenti di Polizia penitenziaria, e con cinica soddisfazione per il lavoro “di altissimo livello” fatto, proprio nei confronti di persone che sono affidate alla custodia degli autori. Ed anche dalla personalità del ricorrente, evidenziata anche dall’indifferenza verso la formulazione delle accuse calunniose a carico dei 14 detenuti trasferiti nel reparto Danubio. In ultimo, non gioca a favore del ricorrente neppure la sospensione disciplinare dal proprio ruolo. Essa, infatti, conclude la sentenza, “non può ritenersi idonea ad elidere il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie, innanzitutto per l’interinalità del provvedimento amministrativo, ma altresì per la diversa finalità che ne sottende l’adozione, che, nel caso della sospensione disciplinare da parte dell’autorità amministrativa, è diretta alla salvaguardia di interessi pubblici concernenti il rapporto di servizio con l’amministrazione, mentre nel caso della misura cautelare processuale oggetto di impugnazione concerne la tutela della collettività, con finalità di prevenzione generale. Del resto, l’inidoneità della sospensione cautelare disciplinare ad elidere l’attualità del pericolo di recidiva è legata alla già evidenziata “erroneità dell’impostazione che confonde il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie, con il pericolo di reiterazione dello stesso fatto-reato, poiché dal tenore dell’art. 274, lett. c), c.p.p., emerge in maniera evidente che l’oggetto del periculum è la reiterazione di astratti reati della stessa specie, non del concreto fatto-reato oggetto di contestazione, che, talvolta, non potrebbe neppure essere naturalisticamente reiterato (come nell’ipotesi di più grave aggressione al bene vita dell’omicidio)”. Santa Maria Capua Vetere, Cassazione: si configura il reato di tortura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 marzo 2022 Il delitto di tortura, reato di cui sono accusati gli agenti della Polizia Penitenziaria coinvolti nella mattanza avvenuta nei confronti de detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, è configurato anche se c’è “un unico atto lesivo dell’incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Inoltre, “la locuzione “mediante più condotte” va riferita non solo a una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche a una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico”. Questi sono uno dei passaggi delle motivazioni, appena depositate, della sentenza con cui la Corte di Cassazione si è pronunciata in sede cautelare per gli episodi nell’istituto sammaritano. Gli agenti sono accusati a vario titolo di tortura, lesioni, reati di falso - Ricordiamo che hanno retto anche davanti alla Cassazione le accuse a carico degli agenti della Polizia Penitenziaria coinvolti nell’indagine sulle violenze ai danni di detenuti avvenute il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Per gli agenti le accuse sono a vario titolo di tortura, lesioni, reati di falso. Al vaglio della suprema Corte sono state le posizioni di alcuni agenti ancora sottoposti a misure di restrizione della libertà personale, come gli arresti domiciliari, ma la Cassazione ha dichiarato inammissibili tre ricorsi rigettando gli altri nel merito. Nella sentenza in questione, la numero 8973, si entra in punta di diritto la questione che riguarda un comandante penitenziario del carcere sammaritano, al quale gli era stata applicata la misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione a numerosi delitti di lesione aggravate e tortura, nonché per reati di calunnia, falso e depistaggio. L’agente ha presentato un ricorso avverso all’ordinanza, sostenendo che l’operazione del 6 aprile 2020, seguita alla situazione del giorno precedente, allorquando i detenuti del reparto “Nilo” si erano barricati all’interno dello stesso, fu nella sostanza gestita dalle forze coordinate dal dottor Colucci. Mentre lo stesso comandante, pur intervenendo alla riunione preliminare di natura organizzativa, non si occupò di seguire le operazioni e non organizzò le attività all’interno dei reparti; la catena di comando era nelle mani dei corpi speciali che erano arrivati presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere in tenuta antisommossa. In sostanza, la tesi del ricorso in Cassazione è che il comandante, era sì consapevole della perquisizione straordinaria, ma non certo che l’operazione sarebbe stata eseguita in maniera violenta o illecita. Le torture sono proseguite anche nei giorni successivi - Non solo. Il ricorso entra nel merito del reato di tortura. In sostanza, viene sottolineato che la condotta materiale posta in essere appare orientata non certo alla mortificazione della persona o a porre in essere trattamenti lesivi della persona, essendo invece le operazioni tese al contenimento dei gravi episodi verificatisi; inoltre, tali atti non appaiono avere il carattere di abitualità, essendosi limitati a un arco temporale ristretto e circostanziato. La Cassazione rigetta tali argomentazioni. Prendiamo in esame la configurazione del reato di tortura. I giudici della Suprema corte, sottolineano: “È sufficiente rammentare che il delitto di tortura è stato configurato dal legislatore come reato eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell’incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”, e ai fini dell’integrazione del delitto di tortura di cui all’art. 613- bis, comma primo, cod. pen., la locuzione “mediante più condotte’ va riferita non solo ad una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche “ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico”. Infatti, le condotte di tortura risultano non essersi fermate a quelle inflitte il pomeriggio del 6 aprile, essendo proseguite, con ulteriori vessazioni (in particolare nei confronti dei 14 detenuti trasferiti nel reparto Danubio), ma anche nei giorni successivi. Per quanto riguarda il dolo, la Cassazione sottolinea che in tema di tortura, anche quando il reato assuma forma abituale, per l’integrazione dell’elemento soggettivo non è richiesto un dolo unitario, consistente nella rappresentazione e deliberazione iniziali del complesso delle condotte da realizzare, ma è sufficiente la coscienza e volontà, di volta in volta, delle singole condotte. E aggiunge: “Sono esaustivi della piena consapevolezza, da parte del comandante, della finalità e dei metodi dell’operazione di pestaggio e vessazione che era stata programmata, ed eseguita mentre lui si tratteneva nel proprio ufficio”. Una “mattanza” di quattro ore tra violenze e umiliazioni - Per ricordare cosa accadde, la Cassazione sintetizza anche le brutali azioni condotte dagli agenti. Secondo quanto accertato sulla base delle immagini acquisite dal sistema di videosorveglianza del carcere, nonché dalle chat tra gli agenti di polizia penitenziaria e dalle dichiarazioni dei detenuti, il pomeriggio del 6 aprile 2020, tra ore 15.30 e le 19.30, all’interno del reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere, numerosi agenti di Polizia penitenziaria - giunti anche dalle carceri di Secondigliano e di Avellino hanno esercitato una violenza cieca ai danni di detenuti che, in piccoli gruppi o singolarmente, si muovevano in esecuzione degli ordini di spostarsi, di inginocchiarsi, di mettersi con la faccia al muro; i detenuti, costretti ad attraversare il cosiddetto corridoio umano (la fila di agenti che impone ai detenuti il passaggio e nel contempo li picchia), venivano colpiti violentemente con i manganelli, o con calci, schiaffi e pugni; violenza che veniva esercitata addirittura su uomini immobilizzati, o affetti da patologie ed aiutati negli spostamenti da altri detenuti, e addirittura non deambulanti, e perciò costretti su una sedia a rotelle. Oltre alle violenze, venivano imposte umiliazioni degradanti - far bere l’acqua prelevata dal water, sputi, ecc. -, che inducevano nei detenuti reazioni emotive particolarmente intense, come il pianto, il tremore, lo svenimento, l’incontinenza urinaria. Dopo le quattro ore di “mattanza”, le sofferenze fisiche e psicologiche venivano perpetrate anche nei giorni immediatamente successivi, in particolare nei confronti dei quattordici detenuti trasferiti dal reparto Nilo al reparto Danubio - perché ritenuti ispiratori della protesta del 5 aprile -, costretti senza cibo, e, per 5 giorni, senza biancheria da letto e da bagno, senza ricambio di biancheria personale, senza possibilità di fare colloqui con i familiari; tant’è che alcuni detenuti indossavano ancora la maglietta sporca di sangue, e, per il freddo patito di notte, per la mancanza di coperte e di indumenti, erano stati costretti a dormire abbracciati; anche ai detenuti rimasti al reparto Nilo veniva riservato un trattamento degradante, addirittura con l’imposizione, volutamente mortificante della capacità di autodeterminazione, del taglio della barba, secondo quanto orgogliosamente rivendicato in uno dei messaggi inviati sulla chat del gruppo di agenti di Polizia penitenziaria. La pena è lieve se la sconti curando l’orto di Paola D’Amico Corriere della Sera, 23 marzo 2022 In tutta Italia le iniziative coordinate dai Csv sul tema della giustizia riparativa. Il caso di Isola di Capo Rizzuto, dove chi ha una condanna sotto i 4 anni lavora la terra In Abruzzo, Lazio e Molise siglato un protocollo con l’Ufficio di esecuzione penale Dalla Lombardia il libro “Facce da copertina” con le testimonianze dei protagonisti. Era una piana incolta, una delle tante nella contrada Ovile Spinoso, nel comune Isola Capo Rizzuto (Kr), in Calabria. Un terreno in disuso da più di vent’anni. I volontari della associazione “I giovani della carità” (www.igiovanidellacarita.it) l’hanno ricevuto in comodato d’uso, hanno dissodato la terra, piantato ulivi e vigneti. È utilizzato un moderno impianto a goccia per l’irrigazione. L’anno scorso hanno avuto il primo raccolto di olive: non sufficienti per farne olio ma abbastanza per mettere i frutti in salamoia. Intanto, in attesa delle prossime stagioni, si preparano piccole colture bio di pomodori e peperoni. Formazione e non solo. Nei campi, insieme con i volontari, lavorano anche persone inviate dall’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) di Crotone. Luigi Ventura, 55 anni, sposato e padre di due figli, che ha fondato l’associazione nel 2011, racconta come tutto è cominciato: “Per i ragazzi di strada, per occupare i giovanissimi in attività sociali”. E la mission - fatta di accoglienza, ascolto, supporto a 360 gradi, a cominciare dalla formazione - ha avuto un tale risultato che due anni dopo è arrivata la firma del protocollo con l’Ufficio di Servizio Sociale per Minorenni (Ussm) di Catanzaro. Da allora l’associazione che ha sede in un bene confiscato alla mafia è diventata riferimento per una cinquantina di minori in messa alla prova. Ognuno viene accolto con un programma di lavoro ritagliato come un abito su misura. L’associazione è supportata dal Csv Calabria centro (www.csvcalabriacentro.it). E ampliare il raggio d’azione agli adulti è stato un seguito naturale. “C’è un deficit sul territorio di luoghi per chi deve scontare una pena sotto i quattro anni, misure di comunità come l’affidamento in prova ai servizi sociali, la semilibertà, la liberazione anticipata, la detenzione domiciliare. Così abbiamo firmato un protocollo con l’Uepe di Crotone. Sono un umile imbianchino - ricorda Ventura - e non saremmo arrivati a questo senza la mano di chi sta lassù”. Da Crotone ci spostiamo all’Avis di Guidonia (Roma) dove un uomo sta scontando la sua pena in affidamento e ha una prescrizione che gli richiede, oltreché di lavorare, di svolgere volontariato tre volte a settimana presso una associazione. Questo, spiegano gli assistenti sociali, sta dando i suoi frutti “perché l’affidato presta con impegno la sua opera nell’accompagnamento di persone disabili a visite mediche e altre incombenze e i responsabili sono molto soddisfatti del suo aiuto”. E ancora a Palestrina (Roma) dove un altro affidato svolge volontariato presso la Comunità terapeutica in cui è inserito e gli operatori hanno tanto apprezzato il suo contributo da chiedergli di diventare un operatore, essendo ormai quasi alla fine del suo percorso in Comunità. Tre Regioni insieme Ora perché il volontariato possa svolgere un ruolo da protagonista nell’ambito della giustizia riparativa è stato firmato un protocollo tra l’Ufficio Interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna (Uiepe) per il Lazio, Abruzzo e Molise, il Centro di Giustizia Minorile (Cgm) e i Centri di Servizi per il Volontariato delle tre regioni (volontariatolazio.it; csvmolise.it; csvabruzzo.it). E per diffondere la cultura che favorisce l’inclusione sociale di minori, giovani ed adulti sottoposti a procedimenti penali, che possono così accedere a misure alternative, riparative e riconciliative in alternativa alle sanzioni penali e amministrative previste, prende il via una formazione per gli Enti del Terzo settore. “Non si tratta solo di scontare una pena a seguito di un reato, ma di poter riparare ai danni provocati dai propri comportamenti, sia nei confronti delle persone lese - spiega Mario De Luca, del Csv Lazio - sia nei confronti delle proprie comunità”. Infine il Csv Lombardia Sud ha realizzato un libro, Facce da copertina: testimonianze dirette di giustizia riparativa, raccogliendo 21 testimonianze. Sono storie di chi si ripara e di chi aiuta a ripararsi e intanto cresce, come persona, come Ente, come relazione. Sono storie di azioni compiute, di vissuti, di percepiti, di sentiti (www.csvlombardia.it). Giustizia, alla Camera il ddl annaspa: altro vertice dopo due anni di rinvii di Valentina Stella Il Dubbio, 23 marzo 2022 Conte e i 5S: “Porte girevoli, lo stop valga per tutti”. Un tira e molla che pare infinito. La riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario sarebbe dovuta approdare nell’Aula della Camera lunedì 28 marzo, ma molto probabilmente non sarà così. Solo oggi infatti ci sarà l’attesa riunione di maggioranza, convocata dal ministro per i Rapporti con il Parlamento D’Incà, alla quale parteciperà, tra gli altri, il presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni e molto probabilmente la stessa guardasigilli Marta Cartabia. L’obiettivo è mettere d’accordo le forze di maggioranza: permangono divisioni su alcuni temi. Molti subemendamenti, inoltre, si discostano parecchio dall’impianto proposto dal governo. È vero che le proposte di modifica sono state dimezzate, in uno spirito di collaborazione richiesto proprio da Perantoni, ma sarà difficile far mollare la presa sui punti che vengono pensati come linee Maginot. Intanto ieri Conte ha incontrato i suoi deputati della commissione: no per tutti alle porte girevoli, no alla separazione delle funzioni, no alle norme sulla presunzione d’innocenza portate avanti dal centrodestra. Dato questo scenario è dunque impossibile che in soli due giorni il governo esprima un parere e si voti in commissione per poi arrivare in Aula. Ma come si è arrivati a questa compressione e compromissione del dibattito? Questa forse è la riforma più importante: dovrebbe risanare l’immagine della magistratura dopo il caso dell’hotel Champagne e le degenerazioni del correntismo. Eppure si teme che la montagna partorirà un topolino, un testo debole che si limiti a procurare un nuovo sistema di voto per il prossimo Csm. Se le responsabilità siano da addebitare al governo, ai partiti o a entrambi, è difficile da capire. Noi proviamo a riannodare il nastro. La riforma è stata più volte evocata dal presidente Mattarella, già dal 2019: la riconquista di credibilità, indipendenza e totale autonomia dell’ordine giudiziario “confido che avverrà - disse - anzitutto sul piano, basilare e decisivo, dei comportamenti” ma anche con “modifiche normative”. E poi? La riforma è stata approvata in Cdm nell’agosto 2020, durante il governo Conte 2, Ministro della Giustizia era Bonafede. Il disegno di legge AC 2681 è stato poi presentato alla Camera il 28 settembre 2020. L’esame in commissione Giustizia è partito il 14 ottobre. Solo il 21 aprile 2021 il ddl Bonafede venne adottato come testo base. Intanto si era già insediato il governo Draghi e un mese prima la guardasigilli aveva tenuto il suo discorso alla Camera. Era stata chiara: “Le note, non commendevoli, vicende che hanno riguardato la magistratura rendono improcrastinabile anche un intervento di riforma di alcuni profili del Csm e dell’ordinamento giudiziario, anche per rispondere alle giuste attese dei cittadini verso un ordine giudiziario che recuperi prestigio e credibilità”. Il termine ‘ improcrastinabile’ non lascia dubbi interpretativi, eppure questo stesso governo ha depositato i propri emendamenti quasi un anno dopo, il 25 febbraio 2022. In tutti questi mesi a cosa abbiamo assistito? A fine maggio 2021 si sono conclusi i lavori della Commissione ministeriale presieduta da Massimo Luciani, a cui seguì il 4 giugno un incontro della ministra con i capigruppo di maggioranza in commissione Giustizia per spiegarne i punti principali. La relazione non fu accolta molto bene a partire dal voto singolo trasferibile fino alla permanenza delle porte girevoli. Intanto il 9 e il 15 giugno la commissione Giustizia della Camera si riunì: in attesa dell’emendamento del governo al testo base, vennero presentati 400 emendamenti di partito. Nel frattempo vengono approvate durante l’estate le riforme del processo penale e civile. La successiva riunione sul Csm arriva solo il 2 dicembre, su input di Zanettin (FI) e Costa (Azione). Tutto si era fermato in attesa del governo. In quella occasione proprio Zanettin fece notare che “si sono svolti finora solo due incontri presso il ministero della Giustizia, nel corso dei quali è stato appena affrontato il tema del sistema elettorale che, per quanto spinoso, non è certamente l’unico importante”. Altri quattro giorni ed è la stessa ministra, dopo averne discusso anche con il premier Draghi, a rassicurare: la riforma del Csm è “imminente”. Il 9 dicembre Cartabia incontra nuovamente i partiti, ma da quello che ci raccontano le delegazioni si tratta di un altro summit interlocutorio in cui la guardasigilli ascolta le proposte e illustra verbalmente la sua idea di riforma. Sul tavolo nessun testo. Quest’ultimo, annunciato durante le festività natalizie, è poi slittato: tutto congelato in attesa dell’elezione del Capo dello Stato. Il perché non è mai stato chiarito: alcuni sono arrivati a supporre che abbia pesato la possibile elezione di Cartabia al Colle, per altri una riforma divisiva avrebbe reso ancora più complessa la trattativa quirinalesca. Sta di fatto che solo l’11 febbraio il testo del governo verrà approvato in Cdm, ma giungerà in commissione il 25, perché bloccato dalla Ragioneria di Stato. Inizia la corsa dei partiti ai subemendamenti. Altro scoglio: sono troppi, bisogna tagliare altrimenti la riforma è a rischio. Su tutto pesano le parole di Draghi che aveva detto di non voler porre la fiducia. Ma se si andrà avanti di questo passo si corre davvero il rischio, ipotizzato dall’onorevole Enrico Costa, che per l’ennesima volta si metterà in campo “il classico schema per dribblare il Parlamento”. Pm contro Cartabia ma lei miete successi di Tiziana Maiolo Il Riformista, 23 marzo 2022 Ma la Cassazione dà ragione alla Guardasigilli. La sentenza numero 1684 della quarta sezione penale stabilisce che il silenzio dell’indagato non è più ostativo alla riparazione per ingiusta detenzione. Loro sparano parole come pallottole, lei porta a casa i risultati. Le riforme della ministra Marta Cartabia non piacciono a qualche procuratore né a una certa magistratura, quella associata e quella che siede nel Csm, ma stanno cominciando a produrre una giurisprudenza che profuma molto di Stato di diritto. Come quella sentenza di cassazione che riconosce il diritto al silenzio per la riparazione dopo l’ingiusta detenzione. Il procuratore Gratteri non è l’unico a preoccuparsi per le proprie conferenze stampa, quelle in cui all’indomani dei suoi blitz indicava già come colpevoli gli arrestati: l’avvocato Pittelli, per esempio. Loro sparano parole come pallottole, lei porta a casa i risultati. Le riforme della ministra Marta Cartabia non piacciono a qualche procuratore né a una certa magistratura, quella associata e quella che siede nel Csm, ma stanno cominciando a produrre una giurisprudenza che profuma molto di Stato di diritto. Come quella sentenza di cassazione che riconosce il diritto al silenzio per la riparazione dopo l’ingiusta detenzione. Il percorso delle riforme della giustizia, quelle richieste dall’Europa anche per l’erogazione dei fondi previsti dal Pnrr, è come uno slalom tra paletti irti di spine o ardenti di fuoco cui è facile scottarsi. Se poi ci si mette quel procuratore Nicola di Calabria, il più antimafia di tutti, a recriminare contro “questo governo” che non si unisce sufficientemente a Lui nella lotta alle cosche (e lui spera nel prossimo, anche se manca più di un anno alle elezioni), la ministra guardasigilli pare proprio un san Sebastiano con mille frecce addosso. Il procuratore Gratteri è uno di quelli sempre con l’arco teso a mirare la ministra. L’ultima: “Si stanno facendo provvedimenti pensati e diretti dalla ministra Cartabia, che saranno devastanti per i prossimi decenni”. Non è difficile capire che non di mafia, sta parlando, ma di quella bestia nera che è la presunzione di non colpevolezza, specie quando il principio previsto dalla Costituzione all’articolo 27 debba essere accompagnato dalla discrezione e dalla riservatezza dei pubblici ministeri. Rara avis, negli ultimi trent’anni. Dagli anni in cui si sviluppavano Tangentopoli al nord e Mafiopoli al sud. Ma il procuratore Gratteri non è l’unico a preoccuparsi per le proprie conferenze stampa, quelle in cui all’indomani dei suoi blitz indicava già come colpevoli gli arrestati: l’avvocato Pittelli, per esempio, tacciato da subito di essere l’anello di congiunzione tra la mafia, la massoneria e la società civile, fin dal primo incontro del procuratore con la stampa del 20 dicembre 2019. E’ in buona compagnia, il dottor Gratteri, mentre il Parlamento è un po’ impantanato sulla riforma del Csm (con le toghe divise sul sorteggio elettorale) e dell’ordinamento giudiziario, per la spinosa questione della valutazione di professionalità e delle porte girevoli dei magistrati in politica o in ruoli tecnici in organismi come i ministeri. Di stare un po’ zitti, composti e riservati, i magistrati non vogliono proprio saperne. Soprattutto i pubblici ministeri. E temono tantissimo di dover rispondere di illecito disciplinare. Quindi, come sempre, chiamano in causa concetti altisonanti come l’indipendenza e addirittura la libertà. E’ accaduto due giorni fa al Csm, chiamato a dare pareri e proporre emendamenti sulla riforma Cartabia. Addirittura il plenum dell’organo di autogoverno (con solo 3 contrari e 6 astenuti) si è scagliato contro “il bavaglio” che la norma sulla presunzione di innocenza, con cui l’Italia con anni di ritardo si sta allineando all’Europa, vorrebbe imporre ai procuratori. E che sarebbe “palesemente irrazionale e in contrasto con la manifestazione del pensiero dei magistrati”. A proposito di irrazionalità: il pm deve quindi essere libero di violare i principi costituzionali? Indicando l’indagato o l’arrestato come colpevole? Se poi vogliamo andare nel grottesco, basta ricordare che l’emendamento votato e proposto dalla corrente di Area (chissà perché sono sempre quelli di sinistra i più corporativi), addirittura se la prende con i titolari dell’azione disciplinare, cioè il ministro guardasigilli, ma anche il procuratore generale presso la cassazione, cui sarebbe attribuito il “potere di controllo sul pm”. Ed ecco l’altra bestia nera della magistratura, il timore di dover rispondere, prima o poi, a qualcuno delle proprie azioni. Anche a costo di mancare di rispetto ai diritti dei cittadini, tra cui quelli fondamentali previsti dall’articolo 27 della Costituzione. Si dice sempre che non tutti i magistrati italiani hanno le stesse sembianze di quelli più appariscenti, o perché hanno incarichi nel sindacato (Anm), o perché diventano famosi con i blitz, o spesso perché vengono citati negli articoli di cronisti compiacenti cui qualche manina ha passato le notizie secretate sottobanco. Si dice, ed è vero, che esistono anche le toghe “normali”. Quelle che non solo rispettano, ma anche applicano la legge e le riforme. Anche quelle decisamente innovative rispetto alla propria tradizionale giurisprudenza. È capitato nei giorni scorsi alla quarta sezione penale della cassazione. Che, proprio in riferimento alla nuova disciplina sulla presunzione di innocenza, ha sancito che il silenzio dell’imputato non impedisce il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. Quanti avvocati si sono visti respingere la richiesta di ristoro perché i loro assistiti, dopo aver scontato giorni e mesi di detenzione da innocenti, venivano accusati di mancata collaborazione con il rappresentante dell’accusa? E sempre l’istanza veniva respinta a tutti coloro che per esempio si erano avvalsi della facoltà di non rispondere. Giurisprudenza consolidata, anche della cassazione, sulla base non di una legge ma di un orientamento. Oggi la sentenza numero 1684 della quarta sezione penale della cassazione stabilisce che il silenzio dell’indagato non è più ostativo alla riparazione per ingiusta detenzione, proprio sulla base del decreto legislativo 188 del 14 dicembre scorso sulla presunzione di innocenza. La causa riguarda un provvedimento della corte d’appello dell’Aquila che aveva rigettato la richiesta di riparazione di un indagato il quale “per ben due volte in sede di interrogatorio, a fronte degli elementi emersi dalle indagini, non aveva offerto oggettivi e riscontrabili elementi di contrasto alla ricostruzione dei fatti in chiave accusatoria”. In pratica, con il suo comportamento “ostativo”, l’indagato non aveva aiutato il pm e il giudice a valutare la realtà dei fatti. Anzi in un certo senso aveva messo il bastone tra le ruote per l’accertamento della verità e l’innocenza o colpevolezza delle persone arrestate. In particolare, nel caso in questione, l’indagato accusato di complicità in una rapina, con il suo silenzio non ha aiutato nella ricostruzione dell’evento, cosa che avrebbe potuto fare, avevano detto i giudici della corte d’appello, invece di rinchiudersi nel suo mutismo. Ma a quei giudici la cassazione dà anche un bel pizzicotto. E si chiede anche se il rifiuto a rispondere da parte dell’indagato sia stato il solo elemento alla base dell’ordinanza di custodia cautelare, o se invece non sussistessero altri comportamenti che ne avessero giustificato la detenzione. Cosa che la corte d’appello, prima di decidere se concedere o meno il risarcimento, si è ben guardata dall’indagare. In ogni caso è anche vero, si ricorda però nella sentenza, che l’intera giurisprudenza precedente della cassazione dava ragione a quel rigetto della richiesta da parte della corte d’appello. Perché c’è oggi un fatto nuovo, in quanto il provvedimento proposto dalla ministra Cartabia sulla presunzione di innocenza ha fatto, sulla facoltà di non rispondere alle domande del magistrato, un preciso riferimento al codice di procedura penale, esplicitando che “l’esercizio da parte dell’imputato della facoltà di cui all’articolo 64 comma 3 lettera b) non incide sul diritto alla riparazione…”. Una bella ventata di aria fresca, nel Paese dove dal 1992 ben 30.000 detenuti innocenti sono stati risarciti con 800 milioni di euro. Ma sappiamo che erano molti di più quelli che lo avrebbero meritato e che erano stati puniti per mancato collaborazionismo. Mentre i magistrati che sbagliano non pagano mai. E hanno il coraggio di lamentarsi perché non potranno più mettere alla gogna pubblicamente gli arrestati, compresi quelli innocenti. “La riforma Cartabia è un’offesa per i pm: così vogliono punirci” di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 23 marzo 2022 Intervista a Nicola Gratteri, Procuratore di Catanzaro. Procuratore Gratteri, alla manifestazione di Libera per le vittime delle mafie ha parlato di “riforme devastanti” della ministra Cartabia. Si riferiva anche all’Ordinamento giudiziario, all’esame della commissione Giustizia della Camera per passare al voto dell’aula a fine marzo? Ne ho letto alcune parti e purtroppo mi trovo ancora una volta in disaccordo su molti punti. Alcune proposte sono dannose per il sistema giudiziario, altre sono quasi una offesa per noi magistrati e non porteranno alcun effetto positivo. Per esempio? Si prevede un controllo “esterno” sul lavoro dei magistrati nelle valutazioni di professionalità, riconoscendo un diritto di voto ai ‘membri laici’, cioè agli avvocati nei Consigli giudiziari (le filiali locali del Csm, ndr). Inaccettabile: non si vede perché a valutarci debba essere chi non fa parte della nostra categoria, infatti non accade per nessun’altra, inclusi gli avvocati; e soprattutto così si intacca l’autonomia e la terzietà del magistrato, visto che gli avvocati nei Consigli giudiziari dovrebbero giudicare magistrati che lavorano nel loro stesso distretto e coi quali si trovano quotidianamente a interloquire. Questa previsione che - chiarisco subito a scanso di equivoci - in termini concreti non mi riguarda, ha quasi l’odore della punizione. La riforma prevede che si possa passare solo due volte dalla funzione di pm a quella di giudice e viceversa. Un antipasto della separazione delle carriere prevista dal referendum di Lega e radicali? Sono fermamente contrario. Ridurre i passaggi da una funzione all’altra non comporta alcun vantaggio, né di efficienza né di produttività, ma soprattutto mortifica quello che “a parole” dovrebbe essere tra gli obiettivi del nuovo ordinamento giudiziario: di migliorare la qualità del nostro lavoro. Il passaggio di funzione andrebbe incentivato, non limitato, perché è un arricchimento professionale e consente al magistrato di sviluppare una visione globale del processo. È innegabile, ma pare che non interessi a nessuno. Nella mia Procura vorrei dei pm che hanno fatto i giudici e che il nostro lavoro fosse valutato da giudici che hanno fatto i pm. Peraltro oggi, per cambiare funzione, il magistrato deve quantomeno cambiare provincia, e già questa è una forte limitazione. La riforma prevede che i magistrati che hanno ricoperto cariche elettive, di qualunque tipo, al termine del mandato non possano più svolgere alcuna funzione giurisdizionale e siano collocati fuori ruolo. Prevede anche il divieto di esercitare funzioni di giudice o pm mentre si ricoprono incarichi elettivi e governativi, anche se in un territorio diverso... Sono totalmente d’accordo sui divieti, ma non sul fatto che chi ha ricoperto incarichi elettivi o ministeriali venga poi automaticamente collocato presso il ministero di appartenenza. E soprattutto non trovo corretto che la stessa disciplina sia applicata ai magistrati che si sono candidati, ma non sono stati eletti. È accettabile che un qualunque magistrato che si candidi e non venga eletto venga premiato mandandolo al ministero? Praticamente, se ti stanchi del tuo lavoro, basta che ti candidi e dopo, automaticamente, passi al ministero! Io vorrei una riforma ancora più rigorosa: se ti candidi a una carica elettiva, eletto o bocciato, esci dall’ordine giudiziario senza ricoprire incarichi ministeriali. In certe parti la riforma anticipa i referendum, come se fossero già stati approvati dal popolo italiano... Sì, per almeno due quesiti: magistrati giudicati anche dagli avvocati e separazione delle carriere. Per me è tutto inconcepibile. Si dice una cosa e se ne fa un’altra. Si parla di difesa dell’autonomia, indipendenza e terzietà della magistratura e poi si introduce un sistema che intacca in maniera evidente questi principi costituzionali. Si dice che si vuole raggiungere una cultura della giurisdizione e si vieta ai giudici di diventare pm, che è invece l’unico modo per garantirla. Si dice che si vuole premiare i tanti magistrati che lavorano in silenzio e poi non li si ascolta neppure. Come si spiega queste scelte che ignorano il parere dei magistrati e del Csm? Non me le spiego. La magistratura attraversa un momento di forte debolezza, ma nessuno dovrebbe dimenticare che è uno dei tre poteri dello Stato. E non esiste una gerarchia: i tre poteri - legislativo, esecutivo e giudiziario - devono coesistere in posizione paritaria. Se uno cerca di sopraffare l’altro, ci perde la democrazia, quindi la collettività. Non i magistrati. La Cartabia ha appena nominato a capo del Dap il giudice Carlo Renoldi, avversario del 41-bis e dell’ergastolo ostativo, nonché dell’”antimafia militante arroccata nel culto dei martiri”. Che ne pensa? Sulla persona, nulla perché non conosco il collega. Quanto alle sue opinioni sul 41-bis e l’ergastolo ostativo, almeno quelle diffuse dagli organi di stampa, non le comprendo. O meglio, non condivido il preconcetto che solo chi concede “permessi premio” e “aperture” può ritenersi a favore di un “carcere costituzionalmente compatibile”. Non è così. E francamente queste affermazioni di una parte della magistratura che etichetta di anti-costituzionalità chi non la pensa come lei mi hanno un po’ stancato. Renoldi, su Repubblica del 27 febbraio, ha affermato che “la mafia è un problema sociale gravissimo, ma un giudice non può essere anti qualcosa, anche un mafioso ha diritto a un processo giusto”. Ma quale magistrato ha mai affermato che i mafiosi non hanno diritto a un processo giusto? Non ne conosco neanche uno. Quel che so bene è che un mafioso, dopo un processo giusto, viene condannato all’ergastolo solo se ha commesso omicidi, normalmente più omicidi, e solo i capi di associazioni di stampo mafioso sono detenuti in regime 41 bis e solo dopo accurate indagini. Forse si deve rispetto anche alle vittime di questi reati. Quanto alla sua critica all’”antimafia militante”, non so a cosa a chi si riferisca. Ma ricordo che l’altro giorno si è celebrata la giornata nazionale delle vittime delle mafie. E, se devo scegliere, io sceglierò sempre le vittime. Se vuol dire far parte dell’antimafia militante, bene: ne sono contento. Ma vorrei aggiungere una cosa. Quale? Sento ripetere che si lavora “per spezzare il sistema delle correnti”. Mah, attendiamo fiduciosi. Per ora anche le nomine fiduciarie al ministero hanno privilegiato militanti in correnti della magistratura. Cosa spera, in questo quadro per lei “devastante”? Che la magistratura faccia sentire la sua voce unita e compatta e che riacquisti la credibilità che merita. Spero che il governo attivi una reale e costruttiva interlocuzione con noi magistrati. E spero che una volta per tutte si capisca che, se il sistema giustizia non funziona, i danneggiati non siamo noi magistrati, ma l’intera collettività. Spazza-corrotti, inapplicabili divieti di misure alternative per reati precedenti l’entrata in vigore di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2022 Sì all’equo indennizzo per il carcere “sofferto” a seguito dell’illegittimo diniego di affidamento in prova o di domiciliari. Va riconosciuto l’equo indennizzo per la detenzione (ingiusta) se al condannato è stata negata la misura alternativa al carcere, in applicazione della legge spazza-corrotti, che non era però ancora in vigore al momento della commissione del reato contro la pubblica amministrazione. La Cassazione, con la sentenza n. 9721/2022 ha perciò accolto il ricorso contro la decisione della Corte di appello che negava l’equo indennizzo perché - pur riconoscendo l’inapplicabilità dei divieti posti dalla legge 3/2019 - non riteneva che costituisse un caso di ingiusta detenzione il mancato ottenimento della misura alternativa al carcere. Il ricorrente, condannato per peculato alla pena detentiva di tre anni, aveva richiesto l’affidamento in prova al servizio sociale o in alternativa i domiciliari. Il giudice aveva ritenuto ostativo alle richieste misure alternative il tipo di reato per cui vi era stata condanna. Il diniego era fondato appunto sulla nuova normativa “spazza-corrotti” intervenuta dopo la commissione del reato ostativo e dopo la relativa condanna. La condanna, essendo intervenuta prima del 1° gennaio 2020 - data di entrata in vigore della legge - non escludeva il diritto alla richiesta dei benefici anche per i reati contro la Pa. Il giudice che aveva dato esecuzione alla pena detentiva l’aveva sospesa a seguito della richiesta del condannato, ma le aveva poi dato esecuzione in base al diniego che aveva ritenuto applicabile il divieto della spazza-corrotti già entrata in vigore nella fase di esecuzione della condanna. I principi applicati - L’interpretazione della Cassazione verte esplicitamente su due pronunce - del 1996 e del 2020 - della Corte costituzionale. In primis, la Cassazione chiarisce che anche le norme relative all’esecuzione della pena sono inapplicabili retroattivamente se stabiliscono un trattamento sfavorevole rispetto al momento precedente la loro adozione. E ciò per il principio del favor libertatis, che si atteggia al pari del principio del favor rei, per cui la norma penale non si applica retroattivamente quando è di sfavore all’imputato. Scatta quindi anche in materia di esecuzione della pena, stabilita con condanna definitiva, il divieto di interpretazione in malam partem. La sentenza n. 310/96 della Consulta aveva infatti ampliato la riparazione per l’ingiusta detenzione anche al caso dell’erroneo ordine di esecuzione della pena in carcere (al pari quindi dell’illegittima detenzione cautelare subita). Il secondo punto è quello dell’inapplicabilità dei divieti della legge 3/2019 alla concessione dei benefici penitenziari, quando i reati contro la pubblica amministrazione sono stati commessi prima del 1° gennaio 2020. Lo ha affermato la Consulta con la sentenza n. 32/2020. La limitazione temporale non è superabile dal ragionamento espresso da alcuni interpreti, secondo cui anche prima della nuova normativa era remota la possibilità di ottenere tali benefici. Assunto che, tra l’altro, appare contrastato proprio dalla casistica. Infatti, l’irretroattività della legge 3/2019, che esclude in radice tali benefici, discende dalla probabilità di poterli ottenere sotto la vigenza della precedente disciplina. Determinando così il carattere di “sfavore” delle nuove regole: anche tenuto conto della mancata definizione di quale sia, in concreto, la collaborazione con la giustizia che - secondo la spazza-corrotti - riapre l’ipotesi di ottenere il beneficio penitenziario. Roma. Il Garante dei detenuti: al reparto psichiatrico del San Camillo pazienti legati nei corridoi di Giansandro Merli Il Manifesto, 23 marzo 2022 Contenzione. Lì lo scorso novembre è morto Wissem Ben Abdel Latif. Rilevate carenze strutturali, documentali e di personale. Ieri pubblicato il rapporto dell’autorità di garanzia, con le risposte e gli adeguamenti delle direzioni generale e sanitaria dell’ospedale. Persone affette da problemi psichiatrici contenute nei corridoi, locali non adeguati alle esigenze dei pazienti, registri di Tso e contenzioni mancanti. È la fotografia del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) dell’ospedale romano San Camillo-Forlanini scattata dal Garante nazionale delle persone private della libertà personale. Lo ha fatto con un rapporto pubblicato ieri in seguito a un’ispezione del 30 dicembre 2021 nel reparto dove cinque settimane prima era morto Wissem Ben Abdel Latif. Il 26enne tunisino ci arrivò dal pronto soccorso del Grassi, a Ostia, dove era stato trasferito dal Cpr di Ponte Galeria. Secondo l’avvocato Francesco Romeo, che difende la famiglia, il ragazzo è rimasto legato 43 ore nella prima struttura e 60 nel corridoio dell’Spdc del San Camillo-Forlanini. Gli elementi della ricostruzione del legale, sostenuto dal “Comitato verità e giustizia per Abdel Latif”, coincidono in buona parte con quelli rilevati dal Garante. Nel rapporto si legge che l’uso dei corridoi per i pazienti in soprannumero non è episodico. E questo viola la riservatezza personale, soprattutto nei casi di contenzione. Tra i problemi dei locali colpisce quello relativo alle finestre perennemente chiuse per problemi derivanti dalla scarsa manutenzione. Per questo la luce artificiale resta sempre accesa. Grave anche la mancanza del registro dei Tso e delle schede di contenzione, che sono richieste dai protocolli sanitari adottati dalla stessa struttura. Il Garante ha anche rilevato l’assenza di alcune figure professionali, come assistenti sociali e terapisti. Nessuno poi ha saputo spiegare perché il 25 novembre scorso Abdel Latif è stato trasferito dal Grassi proprio lì, visto che il reparto era pieno e lui sarebbe finito in corridoio. Le amministrazioni competenti hanno risposto al Garante con l’adozione di alcuni provvedimenti correttivi affinché eventi critici siano “occasione di azioni di miglioramento e trasformazione organizzativa”. Intanto, però, Abdel Latif ha perso la vita. I pm indagano per omicidio colposo, mentre la difesa ha comunicato che chiederà di ipotizzare anche il reato di sequestro di persona. Viterbo: Suicidio in carcere, la famiglia si costituisce parte civile Corriere di Viterbo, 23 marzo 2022 Prosegue l’udienza preliminare che riguarda il fascicolo aperto dalla Procura per omicidio colposo a seguito della morte di Andrea Di Nino, il detenuto romano 36enne che il 21 maggio del 2018 si tolse la vita impiccandosi nella cella di isolamento del carcere di Mammagialla. Dei 4 indagati, appartenenti ai vertici della casa circondariale, al personale sanitario e alla polizia penitenziaria, solo uno avrebbe scelto e ottenuto il rito abbreviato. I pm Michele Adragna e Stefano D’Arma hanno formulato diversi profili di colpa per ogni indagato. Diversi parenti che ieri davanti al gip sono state ammessi come parti civili. Andrea Di Nino fu rinvenuto privo di vita intorno alle 22 del 21 maggio di 4 anni fa. Il 36enne, che morendo lasciò la moglie e i 5 figli, era recluso nell’istituto di pena sulla Teverina da 2 anni per possesso di sostanze stupefacenti e lo avrebbe lasciato di lì a un anno. Pochi mesi prima del tragico gesto, il 13 dicembre 2017. Di Nino, insieme ad altri tre detenuti, nel corso di alcuni disordini scoppiati all’interno dell’infermeria, avrebbe minacciato un assistente capo della polizia penitenziaria, aggredendolo verbalmente e pertanto avrebbe dovuto rispondere delle accuse di minacce e oltraggio a pubblico ufficiale, in concorso con gli altri 3 carcerati, reato che fu dichiarato estinto con la morte del 36enne a ottobre 2019, quando cominciò il processo che vide imputati un 34enne e un 44enne romani, e un 47enne marocchino, implicati nell’episodio. Il dibattimento a loro carico si concluse con due condanne a 6 mesi. Modena. “Ipotesi di una sezione 41 bis al Sant’Anna” di Serena Arbizzi Gazzetta di Modena, 23 marzo 2022 L’idea di nuovo sul tavolo. La Lega dice no e interroga sindaco e giunta. Il Sappe: “Servono garanzie per i poliziotti”. Nel carcere di Modena potrebbe nascere presto una sezione per ospitare detenuti in regime di 41 bis, il cosiddetto carcere duro. Il gruppo Lega Modena presenterà un’interrogazione urgente per chiedere al sindaco e alla giunta se è vera l’esistenza di un progetto in stadio avanzato che vedrebbe l’apertura di una nuova sezione detentiva presso il carcere di Sant’Anna per ospitare proprio soggetti detenuti in regime di 41 bis. “Tale notizia, se confermata, vedrebbe la ferma opposizione della Lega Modena”. È la presa di posizione di Alberto Bosi, capogruppo in Consiglio, di Valentina Mazzacurati, responsabile giustizia, Barbara Moretti, consigliera e Mario Mirabelli, responsabile sicurezza. Ci sono più punti toccati nell’analisi delle possibili conseguenze dell’arrivo dei detenuti sottoposti al carcere duro a Modena. Prima, “riproporrebbe sul nostro territorio il rischio di insediamenti di famiglie con radici criminali - spiegano gli esponenti leghisti - Secondo, il carcere di Modena per potere ospitare in sicurezza tali detenuti dovrebbe fare delle importanti ristrutturazioni che al momento mancano. In passato c’era già stato un tentativo di formare una sezione detentiva dedicata al carcere duro e allora, come speriamo anche oggi, le forze politiche di diversi orientamenti si opposero a tale ipotesi che avrebbe portato solamente disagi al nostro territorio”. La Lega rivolge, dunque, un appello al sindaco e alla giunta: “Riferiscano in consiglio comunale su tale progetto”, con la richiesta di “opporsi fermamente a tale ipotesi che, se realizzata, peggiorerebbe la sicurezza a Modena. Ad oggi le strutture non possono ospitare detenuti a regime di sicurezza 41 bis, soprattutto dopo i fatti del 2020”. Chiedono garanzie anche gli agenti del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria. “Il Sant’Anna è stato uno dei teatri in cui sono avvenute alcune delle rivolte più drammatiche - afferma Francesco Campobasso, segretario del Sappe - Ci sono stati morti, feriti e danni ingentissimi in seguito a quelle situazioni. Per destinare una sezione in grado di ospitare soggetti di tale regime non ci devono essere rischi. Se una nuova iniziativa viene attuata, vogliamo che i poliziotti siano messi in grado di poter svolgere bene il loro servizio”. Di introdurre una sezione per il 41 bis a Modena si parlò già nel 2017, quando venne effettuato un sopralluogo da parte del dipartimento di polizia penitenziaria. In particolare sarebbe stato il vecchio padiglione l’ala interessata ad eventuali approfondimenti. Ma poi, da quel momento, non se ne è più saputo nulla. Fino alle indiscrezioni di queste ore. Salerno. La Madonna che viene dal Mare al carcere di Fuorni salernotoday.it, 23 marzo 2022 Circa 70 i detenuti presenti, tra uomini e donne, questa mattina, durante l’iniziativa voluta dalla Caritas Parrocchiale dell’Unità Pastorale del Centro Storico, con il diacono don Vincenzo Salsano. A presiedere don Felice Moliterno, con la con celebrazione di don Rosario Petrone, cappellano del carcere La “Madonna che viene dal Mare” al carcere di Salerno, per un messaggio di fede e speranza rivolto a tutti i detenuti. Circa 70 quelli presenti, tra uomini e donne, questa mattina, durante l’iniziativa voluta dalla Caritas Parrocchiale dell’Unità Pastorale del Centro Storico, con il diacono don Vincenzo Salsano. A presiedere don Felice Moliterno, con la celebrazione di don Rosario Petrone, cappellano del carcere. L’iniziativa - “Un dono enorme per il carcere, l’iniziativa rappresenta un messaggio di fede e di speranza per tutti i detenuti. È motivo di orgoglio e di conversione per tutti i presenti” ha detto don Rosario Petrone. La Caritas si è recata presso la casa circondariale di Salerno per celebrare l’Eucarestia, portando l’effige della Madonna. A corredo dell’iniziativa, una raccolta di beni, nello scorso weekend, presso le Ancelle del Sacro Cuore, chiesa del Crocifisso in Salerno poi portati a Brignano. Don Felice Moliterno, nel ricordare le parole del Vangelo si è ricollegato al tema della misericordia: “C’è la possibilità di perdonare tutto a tutti. Per perdonare e saper perdonare bisogna essere stati perdonati. Sperimentare la grazia del perdono in modo poi da poterla dare anche agli altri. E il perdono è quella cosa che fa vivere a schiena dritta e con lo sguardo verso il futuro affinché non si commettano più gli errori fatti nel passato”. L’icona della Madonna resterà in carcere fino a quando tutti i detenuti non avranno beneficiato dell’indulgenza plenaria speciale per l’anno giubilare. Soddisfazione è stata manifestata anche dalla direttrice della casa circondariale, che ha sottolineato come quel luogo sia soprattutto luogo di misericordia, dove tutte le attenzioni per il detenuto sono prioritarie. In prima fila per l’emergenza di Vanessa Pallucchi* Corriere della Sera, 23 marzo 2022 Accoglienza e integrazione, riconosciuto il ruolo del Terzo settore Gli Enti avranno affidamenti diretti per gestire gli arrivi e i servizi Prossimo passaggio, un dialogo costante con le istituzioni dei territori Il tema dei minori non accompagnati: vigilare per evitare il “mercato”. Sin dai primi giorni dell’invasione dell’Ucraina il Terzo settore italiano si è mobilitato per l’emergenza umanitaria determinata dal conflitto. Sono moltissime le organizzazioni che hanno portato aiuti e hanno risposto ai bisogni della popolazione, non solo attraverso la raccolta di materiali e beni di prima necessità o assistenza sanitaria e sostegno psicologico, ma anche organizzando la prima accoglienza al confine o quella in Italia. La prima preoccupazione del Forum del Terzo settore è stata quella di mettere in rete le diverse organizzazioni, perché bisogno e disponibilità di accoglienza riuscissero a incontrarsi più velocemente, e le associazioni attivassero relazioni integrate fra di loro in modo da risultare ancora più incisive, efficienti ed efficaci. La sfida che abbiamo di fronte è quella di mettere in piedi un sistema di accoglienza e di integrazione di queste persone, un sistema che sia davvero all’altezza della grande emergenza umanitaria che stiamo vivendo. Questo richiede azioni urgenti da intraprendere. Dobbiamo dare risposte tempestive a chi è nei territori dove è in atto il conflitto e nelle zone limitrofe, e dobbiamo organizzare al meglio l’accoglienza diffusa qui in Italia. Ci sono bambini e famiglie, minorenni non accompagnati, persone fragili, con disabilità, malati da ospedalizzare, anziani, tutti da proteggere: dunque, per tutti loro vanno definite chiare e precise linee guida e cornici giuridiche nelle quali potersi muovere per garantire il rispetto dei diritti e la tutela della dignità in ogni servizio garantito. L’emergenza più grande è probabilmente quella dei minori non accompagnati, tanto che il ministero dell’Interno, con la Protezione civile, ha deciso di nominare solo per loro un commissario delegato, il prefetto Francesca Ferrandino. Questi minori arrivano in Italia con un tutore, non possono essere dati in adozione, e non devono essere separati dai loro compagni: i bambini di uno stesso orfanotrofio devono poter rimanere insieme. Dobbiamo quindi pensare a una deroga alle attuali norme sulla capacità di accoglienza delle comunità per minori, e a realizzare nuovi posti per l’accoglienza. In generale, è necessario attivare convenzioni dirette con le nostre reti, avere indicazioni e protocolli ben definiti e condivisi da tutti, a garanzia di interventi che siano trasparenti e di qualità. Quindi, assicurare il coordinamento e la messa a sistema delle iniziative in corso, garantendo una forte connessione tra le istituzioni a vario livello. Riconoscere il Forum del Terzo settore e le altre reti nazionali impegnate sul tema quali parti integranti di questo sistema di accoglienza e integrazione ci permette di valorizzare tutti gli interventi e metterli al servizio dell’interesse generale. Rientra in questa ottica l’attivazione dell’atteso tavolo di concertazione con il Ministero del Lavoro e con la Protezione Civile, e ora il conferimento agli Enti del Terzo settore di un ruolo di intermediazione per l’accoglienza diffusa nelle famiglie, in virtù della loro presenza capillare sui territori e delle loro competenze. Per poter svolgere nel modo migliore questo compito gli Enti hanno bisogno di procedure chiare e risorse certe a disposizione. Soprattutto, il Terzo settore chiede l’avvio di un dialogo costante con le istituzioni sui territori: un dialogo che passa, a nostro giudizio, dall’attivazione di tavoli di coprogrammazione e coprogettazione, con l’obiettivo di modulare nel tempo, secondo gli effettivi bisogni che emergeranno, gli interventi necessari al compimento del percorso di accoglienza e integrazione. Riteniamo infatti che il tema della corretta integrazione di chi arriva sia decisivo. In un Paese come il nostro, provato non dalla guerra ma da due anni di emergenza sanitaria e dalle sue conseguenze economiche e sociali, salvaguardare la coesione sociale è imprescindibile. Dobbiamo dunque dare dignità e sostegno a chi arriva, dai bambini che dovranno avere un modello di facilitazione linguistica per potersi inserire nelle scuole all’attivazione di servizi di vario tipo e le coperture sanitarie. Non possiamo dimenticare, infatti, che ci troviamo ancora in una situazione complessa dal punto di vista sanitario, sebbene lo stato di emergenza Covid si stia avviando a conclusione. *Portavoce Forum Terzo settore I nostri ragazzi per la prima volta di fronte alla guerra di Gianmario Verona Corriere della Sera, 23 marzo 2022 Per i ventenni che si battono per i diritti e l’inclusione un conflitto è la cosa più incoerente e anacronistica possibile. La guerra no. Se c’è una cosa che la Generazione Zeta non avrebbe mai immaginato, quando dal 2018 andava in piazza combattiva, ma sorridente, per protestare per un pianeta migliore e una salvaguardia ambientale che i politici hanno in tutti questi anni ignorato, era la guerra. La guerra che con carri armati e missili rade al suolo città nel cuore dell’Europa, facendoci ripiombare improvvisamente nella prima metà del “secolo breve”. La parola guerra non esiste nel vocabolario di chi ci osserva attonito dai banchi di scuola e dalle aule dell’università di tutto il mondo. La guerra, nella testa di chi combatte per i valori fondamentali di inclusione, per i diritti Lgbtq+, contro le discriminazioni di ogni genere, è la cosa più incoerente e anacronistica che possa esistere. Ed è l’ennesima dimostrazione di uno scollamento totale tra il presente e il futuro delle ragazze e dei ragazzi di oggi e la politica, che non è evidentemente più in grado di rappresentarli. E questa è una novità nella storia di Sapiens. Le nuove generazioni sono da sempre portatrici di innovazione e sono sempre state riottose nei comportamenti e nei modi rispetto alla conservazione dei loro padri e dei loro nonni. Si nasce incendiari e si muore pompieri, si dice. Ma, ad esempio, i giovani di allora - la Generazione Silente dei nostri bisnonni e nonni - è andata in guerra per difendere i valori identitari della propria nazione che la politica in cui loro si identificavano rappresentava. Negli anni Sessanta e Settanta i giovani di allora - i Boomer e la Generazione X - hanno protestato e combattuto per ideali, giusti o sbagliati che fossero, che la politica proponeva. Oggi no. Oggi si sta verificando uno scollamento totale. Oggi si va in guerra mentre, come capita in Bocconi, una studentessa russa condivide il banco con una ucraina, senza capire cosa sta accadendo. Loro, che sono native digitali, che sono portatrici di valori globali. Che hanno voluto una istruzione europea, internazionale e condividono la classe con trentacinque altre nazionalità di quattro continenti. Che vogliono salvare il pianeta e credono nella diversità e nell’inclusione. Che guardano serie tv in coreano, ascoltano musica trap americana con suoni latino-americani, e parlano oltre alla loro lingua madre, l’inglese e la lingua dei computer, quella dei social che li rende uniti dalla mattina alla sera dall’Australia all’Alaska. Cosa fa la politica per questa generazione? Fa la politica del populismo, che, senza soluzioni concrete, si riempie di promesse illogiche e controproducenti. Fa la Brexit, che promette di far tornare il lavoro e che sta invece progressivamente isolando il Regno Unito e ha definitivamente messo in ginocchio i lavori soprattutto del ceto medio che per la Brexit aveva votato. Fa la “America first” di Trump, che anziché unire all’interno, esacerba le differenze al suo interno e amplifica le diversità tra Stati blu e rossi, culminando nell’assalto surreale al Campidoglio. Ora fa anche la guerra militare nel cuore dell’Europa, in coda a una guerra storica ancora non vinta contro una pandemia globale. E nonostante le grida assordanti dei social ucraini e i silenzi altrettanto assordanti della maggioranza di social russi, non sa come intervenire per paura di un terzo conflitto mondiale, quello che Einstein non sapeva immaginare come sarebbe stato combattuto, certo che l’eventuale quarto ci avrebbe fatto tornare all’età della pietra. Che spettacolo disarmante agli occhi delle ragazze e dei ragazzi che protestavano per salvare il pianeta e per i diritti Lgbtq+. Bravo Fabri Fibra, che conosce la generazione Zeta e le spiega che la politica “fa mille promesse (...) ha una risposta a ogni tua domanda (...)”, ma è appunto solo “propaganda”. Bravo Sting che ripropone la sua struggente “Russians”, figlia della guerra fredda ma tornata moderna per la guerra vera. E bravo Terminator-Schwarzenegger che con la sua popolarità, invidiabile per Putin, parla diretto al cuore dei russi. Ma il punto è proprio questo: in un mondo oggettivamente sempre più complesso e interconnesso occorre una leadership politica non solo più competente, ma allineata ai valori del futuro. Dopo una ondata di populismo dilagante sembravamo tornati a parlare di cose concrete, almeno in Europa continentale. Del resto la forza del progetto Next Gen Eu è proprio questa: pensare al futuro delle ragazze e dei ragazzi per dar loro un mondo migliore. Questa la sola prospettiva concreta da adottare per affrontare i problemi crescenti di un mondo sempre più complesso. Profughi, guerre e poca memoria di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 23 marzo 2022 Secondo Matteo Salvini quelli che “scappano davvero dalla guerra vanno trattati con i guanti bianchi”, ma non la pensava così per gli eritrei della nave “Diciotti”. “L’Italia ha il dovere di spalancare le porte a chi scappa. Mentre spesso si parla di guerre finte, questi profughi sono veri e scappano da guerre vere”. È passato un mese da quando Matteo Salvini disse quelle parole sugli ucraini in fuga. Tesi più volte ripetuta: “Questa è una guerra vera, che vede scappare profughi veri, non sono barchini o barconi di cui conosciamo bene traffici e provenienze”. E l’insistenza sul tema, peraltro contraddetta ieri col distinguo polemico contro l’ipotesi citata da Draghi di fornire all’Ucraina altre armi, conferma non solo la sua rapidità nel voltar gabbana al primo fiuto del vento (“darei due Mattarella per mezzo Putin”, diceva prima) ma anche la sua disinvoltura nel dimenticare le scelte muscolari del passato. Basti ricordare, fra i casi che riguardavano persone in fuga da Siria, Somalia e Afghanistan in guerra da anni sotto la furia del terrorismo islamico, il caso del blocco nel porto di Catania, a metà agosto 2018, della nave “Diciotti”. Solo due mesi prima, l’allora responsabile del Viminale aveva detto che quelli che “scappano davvero dalla guerra vanno trattati con i guanti bianchi”. Rileggiamo: “guanti bianchi”. Eppure... Gli uomini, le donne e i ragazzini che erano sulla “Diciotti”, compresi 26 dei 27 “scheletrini” (definizione di un inorridito soccorritore) fatti scendere dopo giorni e giorni d’attesa per essere finalmente ricoverati in ospedale, erano in larghissima maggioranza eritrei. Luigi Patronaggio, il magistrato che seguì il caso, prese nota: su 198 persone raccolte in mare dalla nave militare c’erano un somalo, due siriani e 168 eritrei. Più altri 11 eritrei sbarcati per primi (motivi sanitari) a Lampedusa. Profughi in senso pieno, come gli ucraini di oggi, costretti a fuggire allora dal dittatore Isaias Afewerki, al potere ad Asmara dal ‘91, capo dello Stato dal ‘93, presidente del Consiglio, del Parlamento, dell’unico partito e di un mucchio di altre cose, accusato da Amnesty International di praticare sistematicamente la tortura, condannato dall’Onu per crimini contro l’umanità, classificato da molti anni da Reporters Sans Frontieres al 180° posto (su 180, salvo isolati sorpassi della Corea del Nord) tra i Paesi meno liberi del mondo. Nessuno, forse, aveva più diritto di loro all’asilo politico. Nessuno. Ma quando in 41 chiesero i danni Salvini rise: “Al massimo gli mando un bacio Perugina”. I diritti traditi dei rifugiati di Karima Moual La Stampa, 23 marzo 2022 Per il conflitto in Ucraina, in meno di un mese, hanno lasciato il loro Paese con poche cose al seguito 3,3 milioni di persone. Stiamo parlando del 7% della popolazione totale dell’Ucraina. Sono invece 6,5 milioni, spiega l’Oim, gli sfollati interni. Le immagini che ci arrivano delle interminabili file alla frontiera dei paesi confinanti sono soprattutto quelle di donne e bambini, esattamente come quelli in carne ed ossa arrivati anche nel nostro paese e che con generosità, empatia e umanità abbiamo accolto nei centri, oltre che nelle case e nelle scuole. Quel 7%, è come se in tre settimane scomparisse l’intera popolazione del Piemonte, ha spiegato Matteo Villa dell’Ispi. Una vera catastrofe nel cuore dell’Europa, alla quale fortunatamente, si sta rispondendo con celerità oltre che con strumenti che dovrebbero facilitare l’accesso a una vita più sicura lontani dai teatri di guerra lasciati alle spalle. Eppure, tutte queste iniziative lodevoli, non possono sfuggire all’analisi di un fenomeno drammatico, complesso ma globale che riguarda tante vite umane in diversi angoli del mondo, legate al filo della speranza di sopravvivere anche grazie a come noi rispondiamo, e mettiamo in atto ciò che dichiariamo come società civile. Quel che sta accadendo in Ucraina e la risposta umanitaria è encomiabile anche perché per la prima volta gli Stati si sono messi d’accordo per dividersi il dramma dei rifugiati. Non è stato facile, c’è chi dice che non durerà a lungo ma intanto, intorno ad un tavolo si è presa una decisione. Storica è stata infatti l’iniziativa europea nella quale si è tirato fuori dal cassetto uno strumento legislativo introdotto nel 2001 (ventuno anni fa) e mai utilizzato. Quello della protezione temporanea che fu introdotto proprio nel 2001, dopo i conflitti nei Balcani, per regolare l’afflusso massiccio di sfollati, e fornire loro protezione. Eppure, in questi anni siamo stati testimoni di crisi, guerre e conflitti in varie aree lontane dai confini europei - si pensi a quella in Tunisia, Siria e Afghanistan solo per fare qualche esempio - ma la direttiva 55/2001 non fu mai tirata fuori, se non ora, e sempre solo ed esclusivamente per i rifugiati ucraini, non sia mai. Ai profughi ucraini in possesso di diploma o laurea come medici e infermieri verrà anche concesso di lavorare in pubblico. E sono tante le altre iniziative lodevoli messe in campo per rendere, giustamente, la loro vita più semplice. Nel seguire tutto questo, ammetto che ho paura di fare una domanda. Perché per gli ucraini sì, mentre per tutti gli altri no? (Aggiungo che ho ribrezzo per chi tira fuori che vi siano rifugiati veri e quelli falsi, insultando l’intelligenza di chi sul fenomeno ci lavora e ha responsabilità alte). Ho paura di questa domanda perché la verità è che la risposta l’abbiamo, e in più occasioni anche in queste settimane abbiamo avuto la certezza che purtroppo, la solidarietà verso i disperati del mondo ha colori diversi, e lo scandalo dalla frontiera polacca con gli immigrati che vivevano in ucraina svegliati dalla guerra anche loro, ma sbattuti letteralmente indietro, è ancora fresco con immagini e storie. Sul New York Times c’è l’ennesimo racconto sul fronte polacco e del trattamento riservato ad un giovane in fuga dalla guerra in Sudan e una giovane donna ucraina che stava scappando dal suo paese lo stesso giorno in cui è scoppiata la guerra. Erano lì con la stessa angoscia, peccato che al sudanese è stato riservato un trattamento diverso. “È stato preso a pugni in faccia, insultato e lasciato nelle mani di una guardia di frontiera che lo ha picchiato brutalmente e sembrava divertirsi a farlo. Katya, la giovane ucraina, si sveglia ogni giorno con un frigorifero rifornito e del pane fresco in tavola, grazie a un uomo che lei chiama santo. Le loro esperienze disparate - racconta il giornale - sottolineano le disuguaglianze della crisi dei rifugiati in Europa. Sono vittime di due eventi geopolitici molto diversi, ma perseguono la stessa missione: fuggire dalle devastazioni della guerra. Mentre l’Ucraina presenta all’Europa la più grande ondata di rifugiati degli ultimi decenni, molti conflitti continuano a bruciare in Medio Oriente e in Africa. A seconda della guerra in cui una persona sta fuggendo, l’accoglienza sarà molto diversa. Ora, non che da queste parti si è ingenui, ma non può che essere doloroso toccare con mano anche come il verbo della tragedia umana con donne e bambini acquisisce sfumature di empatia, vicinanza e solidarietà da una parte, mentre dall’altra è totalmente assente. Certo, nessuno è obbligato ad empatizzare, solidarizzare verso chi non sente vicino, ma si può ancora credere nel ruolo universalistico dei diritti? I diritti dei bambini, delle donne e anche di quegli uomini che fuggono dalla morte, possono credere di essere figli di questa umanità, o per esserlo devono nascere solo nel cuore dell’Europa? La direttiva del 2001 fatta rinascere in questi giorni per gli ucraini garantirà agli sfollati una protezione temporanea di un anno, rinnovabile fino a tre, che dovrebbe consentire loro di godere di diritti armonizzati in tutta l’Unione, ottenendo un permesso di soggiorno, la possibilità di esercitare un’attività lavorativa dipendente o autonoma, l’accesso a un alloggio adeguato, l’assistenza sociale necessaria, l’assistenza medica o di altro tipo, e mezzi di sussistenza. Bene, pensate a quanti dibattiti si sono consumati in questi anni su questi diritti ma per altre persone provenienti da altri luoghi che ancora oggi vivono come fantasmi nel nostro territorio. Come si fa a non fare un’analisi su questo anche mentre seguiamo con angoscia quanto sta accadendo in Ucraina? Mentre scriviamo, oggi sono arrivate in Italia più di 50 mila persone tra donne e minori in sole tre settimane dal conflitto. Nel 2021 in un anno intero sono sbarcate in Italia via mare 67mila persone. Mettete bene in fila questi numeri e chiedetevi perché per quest’ultimo numero si è parlato di invasione, di chiudere le frontiere e c’è chi ha avanzato financo il blocco navale. Nella rotta balcanica, si è andato giù di filo spinato, idranti e militari gelidi anche di fronte alle condizioni climatiche che sono costati la vita a intere famiglie che dal Medio Oriente si erano avviate in Europa per chiedere rifugio ma hanno trovato solo una lapide. Il paradosso è che oggi, gli stessi che chiamavano taxi del mare le imbarcazioni che soccorrevano naufraghi nel Mediterraneo, oggi chiamano eroi coloro che provano a portare in salvo le persone al confine con l’Ucraina. Mentre seguiamo un passo dopo l’altro quanto sta accadendo a Nord, abbiamo anche il dovere di non spegnere le luci su quanto sta accadendo a Sud del mondo, a partire dalle nostre coste, dove solo nelle ultime due settimane, 70 migranti sono morti al largo della Libia. Perché l’inferno libico esiste ancora e continua a bruciare vite che fingiamo o meglio non vogliamo vedere. Ha portato via da gennaio ad oggi, 215 persone che hanno perso la vita, sempre per attraversare il Mediterraneo. L’Unhcr ricorda che il dramma dei rifugiati continua a bruciare in diversi fronti come in quello dell’Afghanistan, ma anche in Africa come in Sudan, nella Repubblica democratica del Congo, in Etiopia, Kenya, Uganda. Ma la domanda è: riusciremo, anche avendo vissuto da vicino la drammaticità della guerra ucraina a tenere accesa la fiamma della solidarietà, anche laddove c’è un’umanità lontana da noi, per usi, costumi e lingua? Perché tocca dirselo con onestà: non basta compiacersi per l’abbraccio solidale al nostro vicino di casa, la vera sfida per dirsi pienamente civiltà, è riuscire davvero ad allargare quell’abbraccio a chi è più lontano da noi. Dall’Europa nuovi finanziamenti per l’accoglienza dei profughi di Carlo Lania Il Manifesto, 23 marzo 2022 L’Italia stanzia 500 milioni di euro. La Moldavia chiede aiuto a Onu e Ue. La Commissione europea propone di destinare altri tre miliardi di euro a sostegno dei paesi che accolgono. Il via libera dal Consiglio Ue previsto per domani. Ogni secondo che passa un bambino ucraino entra nell’Unione europea. Spesso accompagnato da un genitore, solitamente la madre, ma sono tanti anche quelli che arrivano da soli lasciandosi alle spalle un paese devastato dalle truppe russe. Dei 3.528.346 rifugiati ucraini arrivati fino a ieri nella Ue (dato Onu) quasi il 90 per cento è rappresentato da donne e minori e proprio questi ultimi sono uno degli aspetti drammaticamente più inediti di questa crisi. “E’ un flusso senza precedenti”, ha spiegato il vicepresidente della Commissione Ue Maros Sefcovic dando conto anche dei tanti bambini che si accalcano alle frontiere. Nel consiglio europeo che si aprirà domani a Bruxelles oltre a ulteriori sanzioni contro la Russia si parlerà anche dello stanziamento di nuovi fondi per fronteggiare l’emergenza e venire incontro alle richieste di aiuto dei paesi che, da soli, non riescono a gestire un numero sempre crescente di persone. E’ il caso della Moldavia che ieri ha chiesto aiuto a Nazioni unite e Unione europea nella gestione dei circa 100 mila profughi ancora presenti nel paese a fronte degli oltre 300 mila arrivati dall’inizio dell’invasione russa. Un primo contributo di quasi due milioni di euro è arrivato ieri dalla Svizzera, ma è chiaro a tutti che le cifre che servono sono ben altre. Non a caso ieri la presidente Ursula von der Leyen ha annunciato che la Commissione proporrà di “stanziare altri 3 miliardi di euro per sostenere i nostri Stati membri che stanno accogliendo i nostri amici bisognosi”. Ma ai governi l’Ue chiede di fare di più predisponendo piani per far fronte al sostegno dei profughi e alle loro necessità nel medio e lungo termine. In Italia sono 61.493 i profughi arrivati dall’inizio del conflitto. Per accoglierli l’ultimo decreto varato dal governo ha stanziato più di mezzo miliardi di euro. “Vogliamo aiutare i rifugiati non solo ad avere una casa, ma anche a trovare un lavoro e a integrarsi nella nostra società come hanno fatto i 236 mila ucraini che già vivono in Italia”, ha detto ieri il premier Mario Draghi parlando alla Camera dopo il collegamento video con il presidente ucraino Volodymir Zelensky. La maggior parte dei soldi, 348 milioni per il 2022, sarà destinata all’accoglienza sia attraverso un contributo per le spese di affitto dei rifugiati che riguarderà 60 mila persone per al massimo 90 giorni, dopo di che dovrà essere rifinanziato, sia l’accoglienza diffusa che riguarderà 15 mila persone ospitate attraverso il terzo settore, istituti religiosi oppure nelle famiglie, alle quali andranno 20-25 euro al giorno per ogni persona ospitata. Atri 7,5 milioni di euro sono invece destinati al ministero dell’Interno per incrementare la dotazione destinata ai centri di accoglienza. Uno “spontaneismo” non privo di rischi per la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, che non a caso ha lanciato l’allarme circa la possibilità di “non avere una situazione chiara sul territorio”. Specie per quanto riguarda i bambini: “Ci vuole la garanzia - ha sottolineato la titolare del Viminale - che i minori non accompagnati ucraini non si disperdano nel territorio. Non dobbiamo correre il rischio di creare sistemi di welfare alternativo”, Speranza vieta le piante. Il tabù contro la cura di Marco Perduca Il Manifesto, 23 marzo 2022 La minaccia del referendum sull’omicidio del consenziente ha resuscitato lo pseudo-argomento delle cure palliative come alternativa alla “terapia eutanasica” che si sarebbe aperta da una vittoria dei Sì. Un dibattito tutto italiano viziato dalla concezione del dolore come elemento necessario alla crescita personale che, come dimostra la recente proibizione della Ayahuasca, antepone ideologie e dogmi al progresso delle ricerche e delle evidenze prodotte dalla scienza. Due anni fa, Thomas Hartle ha fatto la storia del suo paese diventando il primo canadese ad avere accesso legale alla psilocibina per fini medici. Hartle non l’aveva mai assunta prima di allora ma il doversi confrontare quotidianamente con l’ansia di una diagnosi terminale, non migliorata dagli ansiolitici prescrittigli, lo convinse a provare. La psilocibina è una triptammina psichedelica presente in alcuni funghi allucinogeni del genere Psilocybe, Panaeolus, Inocybe, e Stropharia (è anche uno degli ingredienti per l’LSD). Malgrado sia tradizionalmente in uso presso molte popolazioni mesoamericane, e negli anni se ne siano validati alcuni impieghi terapeutici, i “funghi allucinogeni” continuano a esser associati, nella migliore delle ipotesi, alla controcultura degli anni ‘60 e, nella peggiore, alla fusione della corteccia cerebrale. Hartle è il primo caso in cui un malato terminale ha ottenuto un’esenzione dalle restrizioni legali che in Canada penalizzano l’uso della psilocibina. Questa terapia compassionevole è frutto dell’iniziativa di una coalizione chiamata TheraPsil (therapsil.ca), che comprende operatori sanitari, pazienti e chiunque voglia aiutare la causa, che dal 2019 aiuta persone in condizioni di necessità medica ad accedere legalmente alla psilocibina con psicoterapie per affrontare “l’angoscia del fine vita”. Grazie a un’azione legale, TheraPsil è riuscita a creare alcuni precedenti, oltre che mostrare progressi terapeutici tangibili, per consentire l’accesso alla terapia con psilocibina a quattro persone che a causa di malattie terminali vivevano in stato di grave angoscia. Il 4 agosto 2020, Hartle ha ottenuto la prima esenzione ad personam per uso medico di psilocibina da quando questa in Canada fu posta sotto controllo nel 1974. Da allora TheraPsil ha aiutato 27 persone che non vogliono l’eutanasia bensì vivere il tempo che resta loro senza l’angoscia di una morte prematura certa. Là dove viene portata avanti pubblicamente o privatamente la ricerca continua a dimostrare che l’impiego di queste sostanze, sotto controllo medico e all’interno di piani psico-terapeutici, conferma l’intuizione della Convenzione Onu sulle droghe del ‘61 che prevede la necessità di rendere disponibili piante e sostanze psicoattive per usi medico-scientifici. Da 60 anni però quel testo viene usato, come ha fatto la Consulta contro il referendum cannabis, per bloccare riforme per usi non medico-scientifici di quanto previsto nelle tabelle. Il proibizionismo ha frapposto irragionevoli ostacoli anche alla ricerca e alle applicazioni del progresso scientifico nel trattamento di varie condizioni o patologie, per non parlare del male del secolo: la depressione. Nel terzo decennio del Terzo Millennio tocca ancora lottare per evitare che scelte personali contro “il male di vivere” si debbano scontrare con l’illegalità o il carcere. La pandemia non è (ancora?) riuscita a persuadere le istituzioni che la ricerca sulle “terapie stupefacenti” potrebbe portare a giovamenti strutturali della qualità della vita in molte delle sue fasi. È sempre più urgente aprire un dibattito pubblico per promuovere una cultura della ricerca (scientifica) di serenità e tranquillità e, perché no, della felicità. I tempi sono maturi perché il Ministero retto da Speranza e l’Istituto Superiore di Sanità e il Consiglio Superiore di Sanità inizino a occuparsene seriamente. Guerra Russia-Ucraina, gli ex detenuti rumeni ora accolgono i profughi al confine di Stefano Chianese Il Fatto Quotidiano, 23 marzo 2022 Il progetto dell’associazione “Fight for freedom”. Gheorghe Ignat è un ex lottatore rumeno di arti marziali, conosciuto nel Paese come l’”orso dei Carpazi”. Da detenuto si è convertito alla chiesa evangelica e una volta uscito ha fondato un’associazione per il reinserimento nella società degli ex prigionieri: con lo scoppio del conflitto, però, “Fight for freedom” ha riadattato da cima a fondo le proprie attività e strutture per accogliere le famiglie in fuga, fornendo loro cibo e beni di prima necessità. Gheorghe Ignat è alto quasi due metri. Ha una pettorina gialla che lo identifica come volontario. con su impresse le parole in ucraino “siamo qui per aiutare”, e un cappello con la visiera rossa e la scritta “Jesus”. Gheorghe è un ex lottatore di arti marziali, dieci volte campione rumeno di lotta greco-romana: in tutto il Paese è conosciuto come l’”orso dei Carpazi”. Condannato a quattro anni di carcere, da detenuto si è convertito alla chiesa evangelica e una volta uscito ha fondato “Fight for freedom” un’associazione per il reinserimento nella società degli ex prigionieri. “Nel nostro Paese il 75% dei detenuti torna in carcere entro un anno dal rilascio, mentre chi inizia un percorso con noi riesce a reinserirsi nell’80% dei casi”, racconta. Con lo scoppio della guerra in Ucraina, però, Gheorghe e la sua associazione hanno riadattato da cima a fondo le loro attività e strutture per accogliere le famiglie in fuga, e molti ex detenuti si sono trasformati in volontari. “Volevamo restare e combattere. Però dovevamo decidere: rimanere e lottare o proteggere le nostre quattro figlie. Solo per responsabilità nei loro confronti siamo partiti”. A parlare è Olesia, una signora ucraina sui quarant’anni, capelli scuri e voce spezzata dall’emozione. È seduta su un letto a castello in una stanza piccolissima, dove c’è appena lo spazio per muoversi. Nei letti di sopra le due figlie più grandi, Kati e Ika, 12 e 16 anni. Accanto alla madre, Masha, una delle due più piccole sta guardando un cartone animato al cellulare. Dall’altra parte della stanza in piedi c’è Igor, il marito di Olesia, che non parla quasi mai, ma segue il racconto della moglie annuendo ogni tanto. Tutta la famiglia è arrivata ieri a Suceava, capitale dell’omonima regione della Romania, dopo diversi giorni di viaggio da un paese poco distante da Kiev. Stanno riposando prima di riprendere il viaggio verso la Germania. Alloggiano alla “casa dei senzatetto” vicino alla stazione di Suceava, una delle due strutture gestite da “Fight for freedom”: i suoi abitanti, tutti ex detenuti, si sono trasformati in volontari che accolgono i rifugiati in partenza verso Bucarest. Gheorge intanto è all’aeroporto di Suceava in attesa di partire con un convoglio umanitario verso ?ernivci, città ucraina a quaranta chilometri dal confine rumeno. “Ci arrivano informazioni secondo cui in alcune zone dell’Ucraina le persone stanno iniziando a morire di fame, non hanno accesso al cibo anche per quarantotto ore di fila”, racconta, “per questo organizziamo convogli che trasportano beni di prima necessità. Da Siret, al di qua del confine, arrivano a ?ernivci, per poi raggiungere Kiev o Kharkiv”. Dall’inizio della guerra sono più di mezzo milione le persone arrivate in Romania, anche se la maggior parte resta nel Paese solo pochi giorni. L’”orso dei Carpazi” ha organizzato un gruppo di 130 volontari, adattando le proprie strutture all’accoglienza di più di cento profughi: nei prossimi giorni si aggiungeranno altri duecento posti nel quartier generale dell’associazione. Lì i volontari forniscono un letto, un pasto caldo e docce, aiutano i rifugiati a contattare le famiglie e a organizzare il resto del viaggio. A ogni ospite sono foriniti asciugamani, giocattoli per bambini, lenzuola pulite e una Bibbia in ucraino. A cucinare sono sempre loro, gli ex detenuti. Altri volontari vengono dall’estero: Mariya Prykhodko, capelli ricci e sguardo sorridente, è arrivata da Washington insieme ad altri sette. È nata a Kiev, i genitori ucraini sono emigrati negli Stati Uniti quando aveva tre anni. Ora ne ha venti. “A casa mi sentivo inutile, l’unica cosa che potevo fare era pregare. Per questo sono venuta qua: parte della mia famiglia è in Ucraina. Ieri i russi sono entrati in casa di mio zio vicino Kiev, gli hanno portato via i telefoni e noi non abbiamo avuto notizie per tutta la giornata”. Tramite un altro parente ha saputo che stanno bene, però non possono comunicare con l’esterno: “Sono salvi, ma non possono parlare”. Mariya ha voluto essere qui per dare una mano ai connazionali e per rimanere in contatto con la famiglia del padre, morto di cancro l’anno prima. Insieme a lei, in una delle stanze adibite a segreteria c’è Oksena, 42 anni: ucraina, viene da Irpin, una delle città più colpite dai russi. “Ho scelto di diventare volontaria per aiutare, solo tenendomi attiva riesco ad andare avanti. Quando mi fermo inizio a piangere e non riesco a smettere”. Mentre racconta la sua storia mostra una foto ricevuta qualche giorno prima da un amico rimasto in città: è la casa accanto alla sua, distrutta da un missile. Lei è scappata da Irpin la prima notte del conflitto, tra il 23 e il 24 febbraio, portando con sé le due figlie e le fidanzate dei due figli, che invece sono rimasti in Ucraina. “Ci siamo dati un’ora di tempo per fare le valigie. Dopo 15 minuti abbiamo iniziato a sentire i missili cadere e mia figlia è svenuta sotto shock”. Le cinque donne partono a bordo di una piccola utilitaria. “Tutta la notte ho guidato controllando continuamente da dove provenissero il fuoco e il fumo. Dieci ore dopo siamo arrivate al confine rumeno, dove abbiamo atteso in coda per quattro giorni”. Oksena ricorda già quasi incredula la vita prima della guerra: “Quando apro la mia agenda e penso ai progetti che avevo, trattengo le lacrime. Nulla di tutto ciò succederà, è saltato tutto”. Oksena prende parte al convoglio umanitario di “Fight for freedom” per portare beni di prima necessità in Ucraina. Nel parcheggio di un benzinaio a Nord di Suceava quindici furgoni sono in fila, pronti per raggiungere il confine ucraino. Sono le due di pomeriggio e una tempesta di neve copre il cielo e le strade. Prima di partire i volontari si radunano in cerchio e iniziano a pregare ad alta voce in un crescendo d’intensità. Nel giro di poche ore saranno a ?ernivci e Oksena potrà abbracciare il figlio più grande. Russia. Nove anni di carcere, Navalny cancellato dalla scena politica di Luigi De Biase Il Manifesto, 23 marzo 2022 La sentenza contro l’oppositore di Putin, che nell’ultimo intervento aveva citato Marina Ovsyannikova: “Non potete rinchiudere tutti”. Nei cento chilometri per raggiungere Pokrov da Mosca c’è un bel pezzo di Russia concreta e marziale, di periferia industriale, di campagna elettrificata tenuta in piedi sempre di più a forza di pensioni e di sussidi e di interventi dello stato. E in quella cittadina di ventimila abitanti a un paio di ore d’auto dalla capitale la giudice Margarita Kotova ha cancellato ieri pomeriggio Alexei Navalny dalla scena politica con una condanna a nove anni di carcere duro per appropriazione indebita e oltraggio alla corte. “È stata una frode su vasta scala”, ha detto Kotova. Si riferiva ai quattro milioni di euro che secondo l’accusa Navalny avrebbe sottratto al suo stesso partito, un partito che le autorità avevano peraltro già dichiarato fuorilegge. Il processo si è tenuto nella colonia penale numero due, in cui Navalny si trova ormai da un anno. In aula aveva la tuta nera dei detenuti, la testa rasata e il viso scavato. Al suo fianco due legali, che la polizia ha trattenuto brevemente dopo la lettura del verdetto. L’udienza i giornalisti l’hanno seguita in una sala d’aspetto su un televisore appeso a una parete accanto al ritratto del presidente, Vladimir Putin. La decisione era ampiamente attesa dai sostenitori di Navalny, visto che la procura aveva domandato tredici anni, e vista soprattutto l’estrema attenzione che i tribunali russi hanno dedicato negli ultimi anni alle vicende di quello che si può considerare il più popolare e più radicale oppositore del Cremlino. “Putin ha paura della verità”, ha detto lui in serata, “per questo combattere la censura resta il nostro primo obiettivo”. La settimana scorsa, nell’ultimo intervento, aveva citato Marina Ovsyannikova, la giornalista del primo canale che è comparsa in diretta sulla tv pubblica con un cartello contro la guerra e contro la propaganda. “Non potete rinchiudere tutti, non potete spaventare me e quelli come me: la Russia è enorme ed è piena di persone che non tradiranno il loro futuro e quello dei loro figli”. L’intera carriera politica di Navalny è segnata da iniziative controverse, da problemi legali e da pesanti conseguenze sulla sua stessa salute. La prima condanna l’aveva ricevuta nel 2013. Lo scorso febbraio è stato chiamato a scontare in carcere una pena di due anni e otto mesi per avere lasciato il paese quando era in regime di libertà condizionata. Tutti ricordano le circostanze: era stato trasferito in coma in Germania per ricevere cure dopo l’avvelenamento in un albergo nella città di Omsk, in Siberia. Il reato per il quale lo hanno punito ieri è identico a quelli che lui ha raccontato per anni nella cerchia del Cremlino. Dovrebbe rimanere in cella sino al 2032, a meno di clamorosi stravolgimenti nell’ordine politico russo. La sentenza, e lo dimostra il riferimento a Ovsyannikova, incrocia un momento delicato per gli equilibri sociali. La guerra in Ucraina sta diventando più lunga e più pericolosa di quanto i più scettici nella cerchia del Cremlino potessero immaginare. L’ultima volta il ministero della Difesa ha fornito dati sui soldati morti all’inizio del mese. Da allora nessuna nuova comunicazione. Lunedì sul sito internet del quotidiano Pravda è comparso per qualche minuto un articolo secondo il quale i caduti in combattimento sarebbero quasi diecimila e i feriti sedicimila. È un numero elevato. Pari alle perdite che i russi hanno sofferto nelle due guerre combattute in Cecenia prima da Boris Eltsin, negli anni Novanta, e poi da Putin nel decennio successivo. Gli sforzi per tenere sotto controllo l’opinione pubblica sono enormi. La Duma e gli apparati della giustizia stanno assumendo ogni contromisura per rastrellare le informazioni. Una legge punisce i resoconti sulle operazioni in Ucraina diversi da quelli ufficiali con pene sino a quindici anni. Sulla base di questa norma ieri è stata aperta un’inchiesta contro l’ex deputato Alexander Nevzorov, 63 anni, che aveva parlato dell’attacco all’ospedale di Mariupol. Un altro provvedimento impedisce ora di mettere in discussione l’operato del ministero degli Esteri. Altri quindici anni di carcere. In mezzo il tribunale di Mosca ha inserito due social network come Facebook e Instagram nell’elenco delle organizzazioni terroristiche, al pari dei talebani, dello stato islamico, oppure del gruppo di estrema destra ucraino Pravy Sektor. Non è un caso che il pezzo pubblicato lunedì da Pravda sia improvvisamente scomparso dalla rete. Il giornale si è difeso denunciando un “attacco hacker”. Russia. Nove anni a Navalny, i suoi avvocati fermati dalla polizia e interrogati di Giacomo Puletti Il Dubbio, 23 marzo 2022 Dovrà scontarli in regime di massima sicurezza. Aleksei Navalny, oppositore politico del presidente russo Vladimir Putin e attualmente in carcere, è stato giudicato colpevole nel processo a suo carico per “frode e insulti a un giudice”. Il tribunale di Lefortovo a Mosca lo ha condannato a nove anni di carcere contro i 13 chiesti dall’accusa e l’assoluzione chiesta dalla difesa. Inoltre, come riportato da Novaya Gazeta, i suoi avvocati, Olga Mikhailova e Vadim Kobzev, sono stati fermati dalla polizia e interrogati fuori dal carcere dove si è tenuta l’udienza del processo. Navalny ha affidato al suo profilo twitter tutta l’amarezza per condanna, prima con un tweet a caldo e poi con un ragionamento più ampio. “Ebbene, come dicevano i personaggi della mia serie tv preferita “The Wire”, “Fai solo due giorni, il giorno in cui entri e il giorno in cui esci” - ha scritto pochi minuti dopo la pronuncia del verdetto Avevo anche una maglietta con questo slogan, ma le autorità carcerarie me l’hanno confiscata”. Dapprima paragonando la propria vicenda a quella di Interstellar e immaginando di vivere in un mondo dove il tempo scorre più lento, Navalny ha poi rilanciato, aggiornando i simpatizzanti sulle attività che continuano fuori dal usare armi chimiche. Una eventualità che al momento Mosca ha seccamente smentito. Ieri anche altre notizie non verificate hanno contribuito ad attizzare un fuoco che già divampa forte, un funzionario ucraino dell’intelligence ha affermato carcere e continueranno per tutto il periodo della sua detenzione e oltre. “I numeri non contano - ha scritto in un lungo post - gli anni di detenzione sono solo un segno sopra la mia cuccetta e né io né i miei compagni “attenderemo” soltanto”. Per poi spiegare che la sua Fondazione Anticorruzione diventerà un’organizzazione internazionale globale e che la parte in denaro del Premio Sacharov (attribuito a Navalny nel 2021 dal parlamento europeo) sarà il primo contributo a questo fondo. “Continuavano a disturbare la mia “ultima parola” (cioè la sua difesa, ndr) interrompendo la trasmissione - ha aggiunto - È comprensibile, perché le parole hanno potere e Putin ha paura della verità, ma combattere la censura e portare la verità al popolo russo è rimasta la nostra priorità”. L’oppositore del presidente russo ha poi invitato a unirsi al canale “Politica popolare”, lanciato a inizio mese e che ha già un milione di iscritti. “Il miglior supporto per me e per gli altri prigionieri politici non è la simpatia e le parole gentili, ma le azioni - ha concluso Qualsiasi attività contro il regime ingannevole e ladro di Putin e qualsiasi opposizione a questi criminali di guerra: nel 2013, dopo aver ascoltato il mio primo verdetto, scrissi questo e ora lo ripeto: non essere pigro. Questo rospo seduto su un tubo dell’olio non si rovescerà”, che sarebbe imminente un intervento della Bielorussia a fianco dell’esercito russo, si parla di almeno 15mila soldati pronti a fare il loro ingresso in Ucraina. Per la fonte Lukashenko ‘non comanda più’ il suo esercito che ormai sarebbe ‘gestito dalla Russia’. Messico. Uccisa Patricia Rivera, l’avvocata che lottava per i diritti degli indios di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 23 marzo 2022 Un commando l’ha giustiziata mentre era a casa sua. Una vera e propria esecuzione a freddo, spietata e chirurgica. Nella notte tra sabato e domenica scorsa un commando armato, composto probabilmente tre uomini, ha fatto irruzione nella casa di Patricia Susana Rivera Reyes a Terrazas de la Presa, a Tijuana, e ha ucciso con un colpo alla testa l’avvocata 61enne impegnata nella difesa dei diritti degli indigeni della Baja California in Messico. Un omicidio che da qualche giorno ha suscitato un’ondata di dolore e proteste nel paese centroamericano, la sua attività in favore delle comuinità più discriminate infatti era nota in tutto il Messico e la sua uccisione è stata collegata immediatamente ad alcune sue inchieste. Evidentemente il lavoro di Patricia Rivera dava fastidio a qualcuno e molto, in Messico come d’altro canto in altri paesi del Latinoamerica le terre dei nativi sono oggetto di sfruttamento da parte delle multinazionali o dei governi per estrarre materie prime o per far passare impianti che trasportano gas o petrolio così come vengono espropriate per costruire dighe o altre infrastrutture. I terreni sono abitati dalle popolazioni indigene che rappresentano un argine alla devastazione ambientale e ai cambiamenti climatici, le comunità però vengono non di rado escluse da qualsiasi contrattazione e sfrattate brutalmente dai loro territori originari. Eppure nel 2018 è stato firmato l’accordo di Escazu, da molti paesi tra cui Argentina, Messico e Brasile, che è entrato in vigore nell’aprile dello scorso anno. Pochi giorni fa si è unito anche il Cile grazie alla decisione del nuovo presidente, entrato in carica, Gabriel Boric, il quale ha specificato che con l’accordo si mira a contribuire ‘ alla tutela del diritto di ogni persona, delle generazioni presenti e future, a vivere in un ambiente sano e allo sviluppo sostenibile’. In ballo ci sono l’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia, compresa la creazione di meccanismi per proteggere proprio i difensori dell’ambiente. Tutte questioni delle quali, tramite l’appoggio fornito alle comunità della Baja California, si occupava Patricia Rivera. La sua morte, su cui è in corso un’indagine da parte delle autorità, ha gettato nello sgomento le organizzazioni messicane per la difesa dei diritti umani un ambiente nel quale Rivera era amata e apprezzata. Una delle collaboratrici più strette dell’avvocata, Diana Boudica, ha dichiarato di ‘ essere sotto choc’. Mónica González Portillo, leader indigena Cucapah, a nome del Consiglio nazionale per la prevenzione della discriminazione (Conapred) ha definito ‘una grande perdita’ la scomparsa di Rivera Reyes. Identico cordoglio da parte della Commissione statale per i diritti umani in Baja California (Cedhbc). La Commissione ha chiesto però alle autorità di lavorare perchè sia fatta giustizia e individuare i responsabili del vile assassinio. In questo senso il difensore civico della Cedhbc, Miguel Ángel Mora Marrufo, ha richiesto un’istruttoria rapida riguardo l’omicidio sottolineando l’importanza di chiarire l’accaduto “dato che qualsiasi attacco ai difensori dei diritti umani è un affronto alla società”. L’avvocata infatti era anche una stimata accademica dell’Università autonoma della Baja California, la sua è stata una carriera che l’ha candidata a diventare nel corso degli anni una delle massime esperte della materia di cui si occupava. Specializzata in Diritto Internazionale relativamente al rispetto dei Diritti Umani presso l’Università Carlos III, a Madrid, in seguito è stata consigliera dell’ufficio del procuratore del suo stato sempre per quanto riguardava le politiche di protezione umanitaria delle comunità indigene. L’uccisione di Patricia Rivera va ad aggiungersi agli altri 97 omicidi avvenuti da quando è diventato presidente Lopez Obrador, una strage che ha coinvolto diversi attivisti come, recentemente, José Baldenegro, anche lui difensore delle foreste, assassinato a Chihuahua. Ma è tutto il Messico ad essere avvolto da anni in una spirale di violenze delle quali fanno le spese sia attivisti ma anche giornalisti, dallo scorso gennaio infatti sono stati freddati già otto reporter, uno ogni nove giorni. Tra le ultime vittime Marcos Islas, Lourdes Maldonado e Margarito Martinez, Roberto Toledo, Joè Gamboa. Per molti di loro l’esecuzione è stata ordinata da un politico corrotto o dalle organizzazioni criminali preoccupate per le notizie sulle loro attività illegali. Un massacro che proprio a Tijuana raggiunge il suo apice con 350 persone morte per mano di sicari dall’inizio dell’anno. Uganda. Centinaia di persone torturate e poi scomparse nelle strutture di detenzione illegali La Repubblica, 23 marzo 2022 Il rapporto di Human Rights Watch: “Ho solo bisogno di giustizia”. L’infinita carriera politica di Yoweri Kaguta Museveni, al governo del Paese africano dal 1986. Il governo ugandese non è riuscito a chiamare a rispondere i funzionari della sicurezza, che hanno detenuto e torturato illegalmente centinaia di critici del governo, sostenitori dell’opposizione, manifestanti pacifici e altri, riferisce Human Rights Watch (Hrw) in un rapporto pubblicato oggi. Il dossier è di 98 pagine: “‘Ho solo bisogno di giustizia’: detenzione illegale e abuso in luoghi di detenzione non autorizzati in Uganda” è il titolo e documenta sparizioni forzate, arresti arbitrari, detenzione illegale, tortura e altri maltrattamenti da parte della polizia, dell’esercito, dell’intelligence militare e dell’organismo di intelligence nazionale dell’Uganda, l’Organizzazione per la sicurezza interna (ISO), la maggior parte in luoghi illegali di detenzione nel 2018, 2019 e intorno alle elezioni generali del gennaio 2021. Elezioni che videro la sfida tra il presidente Yoweri Kaguta Museveni, a caccia del suo sesto mandato - è in carica dal 1986 - e Bobi Wine, l’ennesima star del pop che provò ad avvicinare i giovani alla politica, in un Paese dove la metà della popolazione ha meno di 15 anni e la speranza di vita è di 59 anni. Museveni, va ricordato infine, prese parte alle ribellioni che rovesciarono i dittatori ugandesi Idi Amin e Milton Obote. Ma poi.... Gli ostacoli per ottenere giustizia. Oggi nel rapporto di Hrw si legge, tra l’altro: “Il governo ugandese ha tollerato gli sfacciati arresti arbitrari, la detenzione illegale e gli abusi sui detenuti da parte dei suoi funzionari”, ha detto Oryem Nyeko, ricercatore ugandese di Human Rights Watch. “Sono necessarie misure urgenti per aiutare le vittime, per chiamare a rispondere gli agenti di sicurezza abusivi e per porre fine a questo spettro di impunità e ingiustizia”. Sebbene le autorità abbiano talvolta riconosciuto questi abusi, hanno fatto poco per porvi fine o per fornire giustizia alle vittime e alle loro famiglie. Le vittime affrontano persistenti problemi fisici, mentali ed economici durante e dopo la loro detenzione, nonché ostacoli per ottenere giustizia. Funzionari che si fanno beffe di procedure penali. Tra aprile 2019 e novembre 2021, Human Rights Watch ha intervistato 51 persone, tra cui 34 ex detenuti, testimoni di rapimenti e arresti, funzionari governativi, membri del parlamento, membri del partito di opposizione, diplomatici, attivisti per i diritti umani e giornalisti nella capitale dell’Uganda, Kampala. Ex detenuti hanno descritto come i funzionari della sicurezza si siano fatti beffe delle procedure penali durante gli arresti e mentre tenevano i detenuti in custodia. Gli agenti di sicurezza hanno avvicinato le vittime nei loro luoghi di lavoro, nelle loro case o per le strade e le hanno costrette, a volte sotto la minaccia delle armi, in veicoli non contrassegnati, di solito furgoni Toyota Hiace, localmente noti come “Droni”. Le detenzioni in luoghi non autorizzati. Le vittime sono state detenute in una varietà di luoghi non autorizzati. In molti casi, sono stati detenuti nelle cosiddette case sicure, destinate a proteggere i testimoni, ma invece utilizzate come centri di detenzione di fortuna gestiti dall’Organizzazione per la sicurezza interna. In alcuni casi, i detenuti sono stati portati su un’isola sul Lago Vittoria, o trattenuti in veicoli, una stanza sotterranea nell’edificio del parlamento e caserme militari. Un uomo che è stato arrestato dalla sicurezza interna in una casa sicura a Kyengera nel 2019 ha dichiarato: “Ho visto tre tende militari e due pick-up della State House e altri tre veicoli, [pieni di] vittime proprio come me, ma non lo sapevo quando stavo entrando lì. Pensavo fosse la casa di qualcuno”. Negato l’accesso in carcere degli avvocati. Nei due mesi precedenti le elezioni generali del gennaio 2021, e per diversi mesi dopo, gli episodi di abuso sono aumentati. A Kampala, e nei suoi distretti circostanti, le forze di sicurezza hanno arrestato arbitrariamente, e talvolta fatto sparire con la forza, critici del governo, leader e sostenitori dell’opposizione e presunti manifestanti. Mentre le autorità hanno rilasciato alcuni detenuti nel corso dell’ultimo anno, la posizione di molti non è stata rivelata. Ex detenuti hanno detto che gli agenti di sicurezza hanno negato loro l’accesso agli avvocati o alla famiglia e li hanno torturati, picchiati e incatenati, e hanno dato loro scosse elettriche e iniezioni di sostanze non identificate. Alcuni detenuti, uomini e donne, hanno subito stupri e torture sessuali durante la loro detenzione. La testimonianza di una donna violentata. Una donna che era stata trattenuta dalla sicurezza interna in una cassaforte ha detto che un funzionario l’ha violentata due volte, e anche altri funzionari l’hanno torturata: “Sono stata legata - l’hanno chiamata ‘Rambo’ - sono stata crocifissa. Soffrivo. Sono rimasto [in quella posizione] per 12 ore. Sono stato rimosso all’1 del .m di notte. [Il mio corpo] si stava gonfiando prima di essere portato dentro”. Gli agenti di sicurezza hanno accusato alcuni detenuti di tentativi di assassinio di funzionari governativi di alto profilo, spionaggio e collusione con i rivali del presidente Yoweri Museveni per estrometterlo dall’incarico. Altri hanno detto di essere stati accusati di crimini come bruciare una scuola o rubare motociclette. In quasi tutti i casi di detenzione illegale documentati, le vittime hanno affermato che gli agenti di sicurezza hanno rubato ed estorto denaro a loro o alle loro famiglie durante gli arresti o come condizione per il loro rilascio. In diverse occasioni, gli agenti di sicurezza hanno ignorato gli ordini del tribunale di rilasciare i detenuti o hanno riarrestato le persone che erano state rilasciate su cauzione. Eppure la Costituzione ugandese... Sia il diritto ugandese che quello internazionale proibiscono, in termini assoluti, la detenzione arbitraria, le sparizioni forzate e la tortura. La Costituzione ugandese del 1995 prevede che una persona arrestata o detenuta debba essere trattenuta in un centro di detenzione legalmente riconosciuto. Il Prevention and Prohibition of Torture Act del 2012 e lo Human Rights (Enforcement) Act del 2019 criminalizzano ulteriormente la tortura e prevedono la responsabilità personale per i funzionari pubblici che commettono violazioni dei diritti umani. Tuttavia, nessuno è stato ancora condannato in base a nessuna di queste leggi. Ciò che andrebbe fatto subito. Le autorità ugandesi dovrebbero chiudere tutti i centri di detenzione illegali e indagare su tutte le segnalazioni di abusi, tra cui sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie, torture, stupri e altre forme di violenza sessuale, e garantire che tutti i responsabili siano chiamati a risponderne, ha detto Human Rights Watch. I partner internazionali dell’Uganda dovrebbero parlare pubblicamente di queste gravi violazioni ed esortare il governo a garantire giustizia alle vittime. “Le autorità ugandesi, con urgenza, devono riformare la polizia e le altre agenzie di sicurezza per smantellare le strutture che hanno permesso a questi orribili abusi di verificarsi e rimanere impuniti”, ha detto Nyeko. “Qualsiasi cosa che non sia una revisione completa non farà che perpetuare la cultura dell’impunità e ostacolare la creazione di servizi di sicurezza responsabili e rispettosi dei diritti”.