Trattamento disumano: non è solo una questione di metri quadrati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 marzo 2022 Anno 2019. Mentre l’allora Dap guidato da Basentini parlava di “sovraffollamento virtuale” delle carceri - tesi sostenuta da articoli di alcuni giornali come Il Fatto Quotidiano - con una ordinanza il tribunale di sorveglianza de l’Aquila ha riconosciuto un risarcimento al detenuto Cosimo Commisso di 4.568 euro per le condizioni disumane e degradanti per il sovraffollamento subito. Nel 2020, il ministero della Giustizia ha fatto ricorso in Cassazione, che, con la sentenza numero 6551, l’ha ritenuto infondato. Ripercorriamo gli eventi. Con ordinanza del 2 aprile 2019 il tribunale di Sorveglianza de L’Aquila ha rigettato il reclamo proposto dal ministero della Giustizia avverso al provvedimento del magistrato di Sorveglianza di L’Aquila che, in parziale accoglimento dell’istanza presentata da Cosimo Commisso, aveva liquidato in suo favore la somma di 4.568 euro. Il magistrato di Sorveglianza aveva riconosciuto che la detenzione di Commisso nelle Case Circondariali di Pianosa, Palmi, Reggio Calabria, Carinola, Napoli Poggioreale e Larino, per un periodo di 4.571 giorni, si era svolta in condizioni tali da violare l’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali come interpretata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Quando lo spazio riservato al detenuto è inferiore a tre metri quadrati - Il ministero della Giustizia, richiamando la sentenza della Cedu, GC, 20/ 10/ 2016, Muri e c. Croazia, aveva censurato l’ordinanza per l’adozione di un erroneo criterio di calcolo della superficie detentiva media goduta dal detenuto, che era stata determinata al netto dello spazio occupato dagli arredi, mentre avrebbe dovuto esserlo al lordo; il diverso metodo di calcolo avrebbe dovuto indurre il magistrato di Sorveglianza a respingere l’istanza con riferimento ad alcuni periodi di detenzione trascorsi nelle Case Circondariali di Palmi e Carinola. Il tribunale di Sorveglianza, ricordando che le condizioni di eccessivo sovraffollamento carcerario integrano una forma di detenzione inumana, ha richiamato il principio affermato dalla sentenza della Cedu, 16/ 07/ 2009, Sulejmanovic c. Italia, in base al quale sussiste una presunzione di violazione dell’art. 3 della Cedu, quando lo spazio personale riservato al detenuto è inferiore a tre metri quadrati, con la conseguenza che non è necessario prendere in considerazione altri aspetti della condizione detentiva. Secondo il Tribunale di sorveglianza gli arredi non vanno calcolati - Secondo l’ordinanza, poiché la superficie di tre metri quadrati costituisce uno spazio destinato a permettere il movimento della persona, gli arredi fissi presenti nella cella devono essere scomputati dal calcolo, costituendo un ingombro che lo impedisce; in particolare, deve essere detratto dal calcolo l’ingombro dei letti (singoli o a castello), mentre gli arredi non fissi, quali sgabelli e tavolini, non devono essere considerati. Applicando questi principi alle condizioni di detenzione di Commisso nelle Case Circondariali di Palmi e Carinola, il Tribunale di Sorveglianza ha ritenuto che la superficie pro capite delle celle fosse inferiore a tre metri quadrati. Per la Cassazione la detenzione non deve eccedere l’inevitabile sofferenza - Ed ecco che il ministero della Giustizia ricorre per Cassazione, deducendo una violazione di legge e non corretta interpretazione degli articoli 35 e seguenti dell’ordinamento penitenziario, anche con riferimento alle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In sostanza, secondo il ricorrente, l’interpretazione adottata dal tribunale di Sorveglianza è difforme dall’insegnamento della Cedu che, ai sensi dell’art. 35 ter dell’ordinamento, è vincolante per il giudice nazionale. Il ministero, quindi, ha chiesto l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata. I giudici della Cassazione ci tengono ad imporre una doverosa premessa. Ovvero che la condizione di detenzione non comporta per il soggetto ristretto la perdita delle garanzie dei diritti affermati dalla Convenzione che, al contrario, assumono specifica rilevanza proprio a causa della situazione di particolare vulnerabilità in cui si trova la persona. Viene sottolineato che, secondo la consolidata giurisprudenza della Cedu, l’art. 3 della Convenzione, una pena, pur legalmente inflitta, può tradursi in una violazione della Convenzione qualora comporti una compressione dei diritti convenzionali non giustificata dalle condizioni di restrizione. In altri termini, le modalità di esecuzione della restrizione in carcere non devono provocare all’interessato un’afflizione di intensità tale da eccedere l’inevitabile sofferenza legata alla detenzione. Ciò coerentemente con il criterio della cosiddetta soglia minima di gravità, costantemente utilizzato dalla Cedu per selezionare le condotte messe al bando ai sensi dell’art. 3 della Convenzione. Ricordati i tre metri effettivi della sentenza Torreggiani - Viene anche ricordata la sentenza Torreggiani, la quale ha affermato che, in presenza di una situazione di sovraffollamento carcerario, uno spazio inferiore a 3 metri quadrati effettivi, detratti gli arredi fissi dal computo dello spazio disponibile, può costituire l’elemento centrale da prendere in considerazione per valutare la violazione dell’articolo 3 della Cedu. I giudici, osservando anche altre sentenze della Corte europea, sottolineano che per i detenuti all’interno di una cella, mentre il tavolino, le sedie, i letti singoli possono essere spostati da un punto all’altro della camera (sono, quindi, ‘ mobili’), non altrettanto può dirsi per gli armadi o i letti a castello, sia a causa della loro pesantezza o del loro ancoraggio al suolo o alle pareti, che dalla difficoltà di loro trasporto al di fuori della cella. Quindi, per il calcolo dei metri quadrati, bisogna escludere lo spazio occupato dagli arredi fissi. Non solo. Altro elemento da prendere in considerazione, è che se esistano o meno i ‘ fattori compensativi’, ovvero la possibilità di compensare il disagio dello spazio troppo stretto con la libertà di movimento fuori dalla cella o la breve durata della detenzione. Anche altri elementi incidono sulla valutazione del magistrato - Per valutare l’esistenza del trattamento disumano o degradante, non basta solo il discorso dello spazio, il magistrato di sorveglianza deve anche esprimere una valutazione globale delle condizioni di detenzione tenendo conto di tutti i fattori, positivi e negativi, così come richiesto dalla Cedu. Tali fattori sono indicati nella mancanza di accesso al cortile o all’aria e alla luce naturale, nella cattiva areazione, in una temperatura insufficiente o troppo elevata nei locali, nell’assenza di riservatezza nelle toilette, nelle cattive condizioni sanitarie e igieniche. Da sottolineare che, nella prospettiva della violazione dell’art. 3 Cedu, non è richiesta la contestuale presenza di tutti i fattori negativi. Infatti, nell’istanza presentata ai sensi dell’art. 35- ter ordinamento penitenziario, il detenuto può porre a fondamento della domanda risarcitoria, oltre alla detenzione in celle collettive con uno spazio individuale inferiore a quattro metri quadrati, anche alcuni dei fattori negativi sopra indicati. Ecco perché il ricorso del ministero della Giustizia viene rigettato. Non solo perché è fondato su una diversa modalità di computo dello spazio minimo individuale. Ma anche perché, viene rimarcato dai giudici della Cassazione, la violazione di diversa natura riscontrata in un istituto (mancanza di riservatezza rispetto ai servizi igienici) non viene contestata dal ricorrente e, quindi, non può formare oggetto di valutazione. Continua la discussione sulla riforma dell’ergastolo ostativo di Vincenzo Musacchio huffingtonpost.it, 22 marzo 2022 In Commissione Giustizia della Camera. Non possiamo dire cosa accadrà, riteniamo tuttavia che l’elaborato sia ancora migliorabile ed emendabile. Da quello che abbiamo potuto leggere, questo è il contenuto del testo approvato in Commissione Giustizia: “I benefici sono concessi ai detenuti e agli internati per i delitti ivi previsti, anche in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell’articolo 58-ter o dell’articolo 323-bis del codice penale, purché gli stessi dimostrino l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento e alleghino elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile”. “Al fine della concessione dei benefici, il giudice di sorveglianza accerta altresì la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie sia in quelle della giustizia riparativa”. Al comma 2 sono aggiunti, infine, i seguenti periodi: “Nei casi di cui al comma 1-bis, il giudice, prima di decidere sull’istanza, chiede altresì il parere del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado o, se si tratta di condanne per i delitti indicati dall’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale, del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di primo grado e del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, acquisisce informazioni dalla direzione dell’istituto ove l’istante è detenuto o internato e dispone, nei confronti del medesimo, degli appartenenti al suo nucleo familiare e delle persone ad esso collegate, accertamenti in ordine alle condizioni reddituali e patrimoniali, al tenore di vita, alle attività economiche eventualmente svolte e alla pendenza o definitività di misure di prevenzione personali o patrimoniali. I pareri, le informazioni e gli esiti degli accertamenti di cui al quarto periodo sono trasmessi entro trenta giorni dalla richiesta. Il termine può essere prorogato di ulteriori trenta giorni in ragione della complessità degli accertamenti. Decorso il termine, il giudice decide anche in assenza dei pareri, delle informazioni e degli esiti degli accertamenti richiesti. Quando dall’istruttoria svolta emergono indizi dell’attuale sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica ed eversiva o con il contesto nel quale il reato è stato commesso, ovvero del pericolo di ripristino di tali collegamenti, è onere del condannato fornire, entro un congruo termine, idonei elementi di prova contraria. In ogni caso, nel provvedimento con cui decide sull’istanza di concessione dei benefìci il giudice indica specificamente le ragioni dell’accoglimento o del rigetto dell’istanza medesima, tenuto conto dei pareri acquisiti ai sensi del quarto periodo”. Analizziamo i punti, a nostro parere, ancora emendabili. L’aspetto risarcitorio - È giusto che il giudice di sorveglianza tenga conto delle iniziative del condannato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie, sia in quelle della giustizia riparativa. Se parliamo di boss di primo livello l’aspetto risarcitorio, però, è di ardua interpretazione ed applicazione. Chi ha interrotto i rapporti con la mafia solitamente non ha la possibilità economica di risarcire. Chi non ha interrotto i rapporti con la mafia invece risarcirà facilmente perché avrà la possibilità economica di farlo. Il giudice come valuterà queste due circostanze nella concessione del beneficio richiesto? Aspetto questo di non poco conto soprattutto dal punto di vista fattuale. La previsione dei pareri delle Dda e della Dna - I pareri dei pubblici ministeri delle Direzioni distrettuali antimafia e della Direzione nazionale antimafia dovrebbero essere vincolanti poiché sono gli unici organi giudiziari che conoscono approfonditamente la realtà di origine degli ergastolani e la loro storia giudiziaria. Non sarebbe sconveniente far relazionare anche i direttori delle carceri dove hanno scontato la pena inflitta. Il trattamento e il percorso rieducativo intramurario sono da valutare con massima attenzione. La decisione sui benefici attribuita ai tribunali di sorveglianza - Non mi convince la decisione di dare la competenza ai tribunali di sorveglianza distrettuali. Avrei preferito un tribunale di sorveglianza unico a Roma che, di fatto, potrebbe agevolmente decidere sui benefici così come è già previsto in materia di 41 bis. La distrettualità rischia di produrre disparità di trattamento poiché sarebbe possibile che su un medesimo clan mafioso possano giudicare più tribunali di sorveglianza, essendo i detenuti reclusi in carceri diverse. Questo potrebbe produrre disuguaglianze certamente non auspicabili. L’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata - Il sottoposto al regime di ergastolo ostativo ha l’onere di indicare la prospettazione di massima delle circostanze suffraganti la sua richiesta, spettando poi al tribunale la decisione finale, alla stregua dell’esame della documentazione e degli atti prodotti. Il pericolo è invece frutto di un giudizio prognostico (cioè un giudizio che, pur svolgendosi dopo la commissione del fatto, ha bisogno di poter analizzare anche il momento precedente al compimento della condotta) - spettante al giudice - su cui la parte può incidere in modo solo relativo, manifestando la correttezza del percorso rieducativo. La norma parla di un onere della prova. Chi dovrà fornirla al tribunale di sorveglianza, il condannato o il pubblico ministero? L’effettivo ravvedimento - Si parla di “effettivo ravvedimento” dell’interessato, accertato dal giudice di sorveglianza. Il carattere dell’effettività, implica l’evidenza e la valutazione in concreto. Siamo di fronte a un “pentimento” del soggetto che ha commesso il reato, il quale riconosce la gravità delle sue azioni. A dimostrare tale ravvedimento deve concorrere anche il progressivo percorso trattamentale di rieducazione e di recupero, la convinta revisione critica delle precedenti scelte criminali in termini di “certezza” o di elevata e qualificata “probabilità” confinante con la certezza. Per avere i benefici inoltre non dovrebbe valere la dissociazione. Il giudice dovrà esperire un serio, affidabile e ragionevole giudizio prognostico di pragmatico adeguamento della futura condotta di vita del condannato all’osservanza delle leggi, in precedenza violate con la commissione dei reati per i quali quest’ultimo ebbe a subire la sanzione penale. Fra i predetti comportamenti ben possono ricomprendersi quelli solidaristici, che testimoniano l’adesione del condannato a principi e valori della società nella quale egli dovrebbe reinserirsi. Per il giudice quindi diventa requisito imprescindibile per l’accesso del condannato non collaborante al beneficio richiesto? A nostro giudizio, sì. Il contributo fornito dal condannato alla realizzazione del diritto alla verità - Questa formula va giustamente posta a tutela della dignità delle vittime che non dimentichiamolo, hanno sacrificato la loro vita per la salvaguardia di quei diritti lesi dai delitti mafiosi. Il concetto di diritto alla verità va riferito a tutto quanto blocca, come scelta consapevole, le indagini sui fatti nel merito. Il contributo alla realizzazione della verità non è una “collaborazione nascosta” bensì l’esigenza insopprimibile di offrire alle vittime di gravi crimini mafiosi un diritto non solo all’individuazione del colpevole, ma al compimento di indagini effettive e alla riparazione completa del pregiudizio patito, per raggiungere la quale occorre perseguire in tutti i modi possibili l’esigenza di verità. Siamo di fronte a un raffronto forte fra la verità processuale che è dovuta alle vittime e la verità storica che reclama la società nel suo complesso. Eliminare l’ancoraggio alla collaborazione richiederà ogni volta indagini nuove, non semplici da fare ma neanche impossibili da realizzare. Le dettagliate informazioni di cui deve disporre il giudice - Bene la previsione di informazione del procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove ha sede il tribunale che ha emesso la sentenza e del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Al posto del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente riguardo al luogo dove il detenuto risiede, si doveva preferire il comitato provinciale competente in relazione al luogo di detenzione del condannato. Avrei anche in questa circostanza ricompreso le informazioni assunte dal direttore dell’istituto penitenziario in cui il condannato è detenuto. Questo insieme di dati comporterebbe sicuramente un giudizio maggiormente completo. Gli obblighi e i divieti imposti - Possono essere previsti una serie di obblighi o divieti che possono essere determinati all’atto della concessione dei benefici. L’obbligo o il divieto di permanenza in uno o più Comuni o in un determinato territorio; il divieto di svolgere determinate attività o di avere rapporti personali che possono occasionare il compimento di altri reati o ripristinare rapporti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva; l’obbligo di adoperarsi in iniziative di contrasto alla criminalità organizzata. Tali imposizioni appaiono logiche poiché la pericolosità sociale di chi è stato ad esempio a capo di un sodalizio mafioso ben può rivelarsi in concreto assai più intensa di quella espressa da un affiliato o da chi abbia semplicemente manifestato la propria adesione morale al sodalizio stesso. La Lega mette subito alla prova Renoldi: “Il Ministero dia i taser agli agenti penitenziari” di Valentina Stella Il Dubbio, 22 marzo 2022 Caro Renoldi, vediamo subito da che parte stai: con i detenuti o con gli agenti penitenziari? Sembra poter essere questa la domanda sottesa all’interrogazione parlamentare per chiedere l’introduzione dei taser in carcere presentata dai deputati della Lega Silvia Covolo, Germano Racchella ed Erik Pretto alla ministra della Giustizia Marta Cartabia. A pochissimi giorni dal vaglio unanime in Cdm per Renoldi a capo del Dap, subito il partito, che fin dall’inizio si è mostrato contrario a questa nomina, torna così ad incalzare via Arenula: “Il sistema carcerario è al collasso - scrivono in una nota i parlamentari. Ogni giorno la cronaca riporta di continue aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria, risse tra detenuti e condizioni di vita tra le sbarre fuori da una logica civile. L’ultima in ordine di tempo riguarda il carcere San Pio X a Vicenza con l’aggressione a due agenti. Probabilmente l’utilizzo del taser avrebbe limitato i danni sia agli operatori coinvolti nella colluttazione, sia all’aggressore stesso. Per questo motivo la Lega ha deciso di presentare una interrogazione al ministro Cartabia, per sapere se intende dotare la polizia penitenziaria di strumenti adeguati tra cui il Taser. Strumenti che funzionano anche da deterrente per evitare di arrivare alle conseguenze più severe”. Come sappiamo, dal 14 marzo, 4482 taser sono in dotazione alle forze di polizia di 18 città italiane, esclusa però la penitenziaria. Al momento la ministra si è sempre espressa a favore della manutenzione e del completamento dei sistemi di videosorveglianza e il Dap ha deciso di riprendere l’iniziativa dell’introduzione dei dispositivi body cam. Cambieranno idea? Crediamo di no. Il Garante nazionale dei detenuti: 4 Regioni nominino subito i Garanti regionali askanews.it, 22 marzo 2022 Si tratta di Liguria, Basilicata, Sardegna e Calabria. Nella giornata di ieri, Emilia Rossi, Componente del Collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà, ha partecipato a un incontro con i rappresentanti delle Conferenze regionali volontariato giustizia di Liguria, Basilicata e Sardegna. Il Garante nazionale ha convenuto con i rappresentanti delle Associazioni territoriali di volontariato su quanto sia particolarmente urgente che le Regioni Liguria, Basilicata, Sardegna e Calabria diano applicazione alle proprie Leggi, nominando i Garanti regionali dei diritti delle persone private della libertà. Queste quattro Regioni, infatti, sono le uniche in Italia a non poter contare su tali figure di garanzia a livello regionale. La situazione è particolarmente grave per la Liguria e la Basilicata, che sono completamente prive di Garanti locali, presenti invece in Sardegna e in Calabria (Regione nella quale, peraltro, un Garante regionale era stato nominato in passato). Il Garante nazionale sollecita pertanto le Autorità competenti di queste quattro Regioni a intervenire con tempestività affinché tali organi di garanzia non rimangano vacanti, a danno non soltanto dei diritti delle persone private della libertà in tali Regioni ma anche della completezza della rete dei Garanti territoriali, significativo presidio di cultura democratica ed importante fattore di collaborazione con il Meccanismo nazionale di prevenzione, rappresentato dal Garante nazionale. Giustizia, riforma a ostacoli. Consulto nella maggioranza di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2022 Oggi riunione (forse anche con Cartabia) per tentare un accordo sui 250 emendamenti ma l’approdo in Aula la settimana prossima è difficile. Tempi più lunghi per la riforma di Csm e ordinamento giudiziario. Appare ormai inverosimile che il testo possa arrivare in aula alla Camera tra una settimana. Solo domani si terrà infatti una riunione di maggioranza convocata dal ministero per i rapporti con il Parlamento Federico D’Incà e non è esclusa la partecipazione della ministra della Giustizia Marta Cartabia. Sul tavolo i circa 25o emendamenti alla bozza di legge delega, presentata nell’estate 2020 dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, poi sottoposta alle modifiche cristallizzate negli emendamenti approvati poche settimane fa all’unanimità dal Consiglio dei ministri su proposta di Cartabia. La mole di nuove proposte di modifica, presentate dalla gran parte delle forze politiche, anche di maggioranza, e i temi che ne sono oggetto, peraltro, fanno registrare una netta presa di distanza da quanto approvato dal Governo. E la decisione del premier Mario Draghi di non mettere la fiducia, a differenza di quanto avvenuto sulle altre due riforme chiave, determinanti nel contesto del Pnrr, quella del processo civile e quella del processo penale, è suonata un po’ come la messa in libertà per molti. A complicare un percorso già abbastanza impervio c’è poi la variabile referendum che insiste su materie oggetto della riforma, ad alto tasso divisivo, come la separazione delle funzioni o delle carriere che dir si voglia. Dal ministero della Giustizia si fa sapere di non volere forzare la situazione e che in Parlamento i diversi partiti devono adesso dimostrare con i fatti di essere conseguenti all’apprezzamento espresso al discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella fatto alle Camere in occasione dell’insediamento per il secondo mandato. La riforma di Csm e ordinamento venne definita da Mattarella tra gli interventi ineludibili e snodo cruciale, seppure non esclusivo, nel recupero di credibilità cui è chiamata tutta la magistratura. E tuttavia il ministero è chiamato a esprimere un parere sui diversi subemendamenti e in quella sede, in assenza di un accordo, dovrà prendere posizione e comunque si andrebbe alla conta in commissione. Con esito tutt’altro che scontato, visto che potrebbe saldarsi un fronte di centrodestra, magari supportato da Italia Viva e, su alcuni punti anche dai 5 Stelle, per arrivare a modifiche anche profonde dell’impianto indicato dal Governo. Nel merito, tra i punti più critici, la legge elettorale per il Csm, la disciplina per le toghe che si candidano in politica, ma anche per quelle che occupano incarichi tecnici in organismi politici, le valutazioni di professionalità dei magistrati. E proprio il Consiglio superiore della magistratura voterà oggi il parere sugli emendamenti Cartabia. Anche qui le oltre 90 proposte di ulteriori correzioni rispetto al testo approvato in commissione ha condotto al dilatarsi dei tempi. Ieri sono stati approvati alcuni aggiustamenti significativi, come quello che boccia in maniera netta l’ipotesi del sorteggio, anche temperato, per il rinnovo della componente togata del Csm. No del Csm al divieto per i pm di parlare con la stampa di Liana Milella La Repubblica, 22 marzo 2022 “Un divieto amplissimo, che coinvolge qualsiasi dichiarazione e su qualsiasi procedimento, anche quelli già definiti e anche quelli non trattati dal magistrato, palesemente irrazionale e in contrasto con il diritto di manifestazione del pensiero dei magistrati”. È con queste parole che il Csm boccia il nuovo illecito disciplinare contenuto nella riforma Cartabia sullo stesso Consiglio superiore. È un emendamento della sinistra di Area - già anticipato giovedì scorso dal capogruppo ed ex pm di Roma Giuseppe Cascini - a contestare il nuovo illecito che, secondo via Arenula, traduce in pratica la nuova legge sulla presunzione di innocenza. Entrata in vigore lo scorso autunno, la legge “importa” nel nostro ordinamento, come più volte ha detto la stessa Cartabia - la direttiva europea del 2016. Ma adesso c’è un passo in più, ed è quello contestato dal Csm, e cioè un illecito disciplinare che può colpire il pubblico ministero che parla della sua o di un’altra inchiesta condotta da un collega. L’emendamento di Area passa a maggioranza, con 15 voti a favore, tra cui quello del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Sono contrari i laici indicati da Forza Italia Cerabona e Lanzi, e Basile della Lega. In sei si astengono, tra cui i quattro togati di Magistratura indipendente. Ma il testo dell’emendamento fa chiarezza sui rischi del futuro illecito disciplinare quando dice che “con tali disposizioni si rischia, da un lato, di impedire qualsiasi comunicazione o informazione sui procedimenti penali, non solo quelli in corso, ma anche quelli già definiti, e dall’altro, si attribuisce ai titolari dell’azione disciplinare un potere di controllo e di condizionamento amplissimo sui procuratori della Repubblica e su tutti i magistrati del pubblico ministero”. Anche il Pg della Cassazione Salvi vota a favore dell’emendamento. “Il rischio maggiore che si vuole scongiurare con la nuova disciplina - dice in plenum - è quello che la comunicazione del pm sia irriguardosa della persona sottoposta a indagini e anche della dignità della persona offesa”. Ma, aggiunge, che qui “non si tratta di tutelare l’interesse del pm a rendere dichiarazioni, ma di tutelare il diritto dei cittadini e dell’opinione pubblica a essere correttamente informati”. Dice ancora Salvi: “Il mio ufficio ha interloquito con il ministero sulla base dell’analisi di 15 anni di tipizzazione degli illeciti disciplinari, da cui si evince che va perseguita non la violazione formale, ma solo la violazione effettiva del principio di offensività”. E ancora: “La tipizzazione stretta rischia di precludere la comunicazione al pm. Il rischio è che i processi si trasformino in processi sulla stampa dove possono parlare solo le parti e non la pubblica accusa”. Ed è questo il punto che l’emendamento approvato vuole garantire, e che Cascini aveva ampiamente illustrato nel dibattito della settimana scorsa. Il Csm finirà di votare solo mercoledì i 90 emendamenti al parere su tutta la riforma, che conterrà anche la bocciatura - anche questa passata a maggioranza (19 sì, 5 contrari) sulla proposta di Carmelo Celentano di Unicost - del sorteggio come sistema elettorale. Del quale l’ex pm di palermo Nino Di Matteo continua a dire che “è l’unico sistema che oggi può scompaginare i piani del correntismo”. Il destino della riforma - Ma nel frattempo che succede alla riforma? Una “prima” riunione di maggioranza si terrà solo questo mercoledì. La definisce così il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà nel messaggio whatsapp con cui ha convocato l’incontro. E quindi c’è una data - quella di lunedì 28 marzo - destinata inevitabilmente a saltare. Avrebbe dovuto essere il giorno in cui far partire nell’aula di Montecitorio il dibattito sulla futura legge destinata a cambiare le regole interne del Csm - dopo l’ormai lontano caso Palamara e le tante sollecitazioni del presidente Mattarella - a partire dalle nomine e dalle misure disciplinari, per passare al sistema elettorale per i togati, ma anche alla stretta sulle “porte girevoli”. Ma è evidente che se solo mercoledì si terrà la “prima” riunione di maggioranza, non ci potranno essere i tempi tecnici per consentire alla commissione Giustizia della Camera di affrontare gli emendamenti. Richieste di modifica già “potate”, perché da circa 700 sono state ridotte a 250, in quanto il presidente Mario Perantoni del M5S ha chiesto ai singoli gruppi, pur tra i mugugni, di segnalare solo “le modifiche principali”. Tornando al messaggio di D’Incà, il whatsapp è stato spedito nel fine settimana. di Federico D’Incà è arrivato nel fine settimana. Il ministro propone una “riunione di maggioranza” tra le forze politiche allargata anche “ai relator, al presidente della commissione Giustizia Perantoni, ai sottosegretari alla Giustizia Macina e Sisto, e alla ministra Cartabia”. L’obiettivo politico è evidente, mettere d’accordo le forze di governo che - come risulta proprio dagli emendamenti presentati e poi segnalati - non sono affatto d’accordo sul testo della riforma presenta dalla Guardasigilli Marta Cartabia. Che, a sua volta, si manifesta sotto forma di emendamenti all’originaria riforma dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Un vero guazzabuglio tecnico e politico, riassumibile così per chi dovesse aver perso qualche puntata di questa story. Bonafede porta in consiglio dei ministri il suo progetto di riforma durante il governo giallorosso Conte Due. Una legge delega che ottiene il via libera il 7 agosto 2020. Siamo già a un anno di distanza dall’esplosione del caso Palamara, anche se le ben note chat sono uscite tre mesi prima, a maggio 2020. Ma a febbraio 2021, proprio sulla giustizia, l’esecutivo Conte Due cade e nasce il governo Draghi con la Cartabia Guardasigilli. Che da quel momento lavora agli emendamenti per le tre riforme - penale, civile e del Csm - “ereditate” dal suo predecessore. Le prime due, che facevano parte del Pnrr, sono state approvate a settembre 2021 e sono nella fase di elaborazione dei decreti delegati. Adesso tocca a quella del Csm che deve fare i conti con una scadenza ravvicinata, l’elezione dei componenti togati del nuovo Consiglio, che aumentano anche di numero, da 16 a 20 i togati, da 8 a 10 i laici eletti dal Parlamento. Ma proprio sul sistema elettorale i partiti della maggioranza sono divisi. Mentre Cartabia ha proposto un maggioritario binominale, con uno spruzzo di proporzionale, con il consenso del Pd, tutto il centrodestra - Lega, Forza Italia, FdI - si batte per il sorteggio temperato, l’unico sistema adatto, secondo loro, a terremotare le correnti, che appena la settimana scorsa ha visto anche l’adesione del togato del Csm Nino Di Matteo, mentre Area chiede il proporzionale. Proprio oggi il Csm discute il suo parere sulla riforma, che è fortemente critico, e conta di approvarlo domani perché anche in quel caso ci sono quasi cento emendamenti al testo della commissione. E non basta. Perché c’è anche il nodo delle “porte girevoli”, le nuove regole per i magistrati che si candidano in politica. Anche questa un’antica querelle, esplosa con il caso Maresca, l’ex pm di Napoli e poi sostituto procuratore generale non eletto sindaco, ma oggi consigliere comunale d’opposizione e al contempo nominato dal Csm, in base alla legge attuale, giudice a Campobasso in Corte di Appello. Qui è il M5S a chiedere di ripristinare la riforma Bonafede, che impediva a chi scende in politica, anche non eletto, di tornare indietro. Stesso sistema anche per i magistrati fuori ruolo con funzioni di governo (i capi di gabinetto, per intenderci). Mentre, al contrario, il Pd sta con Cartabia, e chiede che proprio per i capi di gabinetto cada il divieto di rimettersi la toga e tornare operativi in magistratura. Politicamente, una situazione che, senza un accordo preventivo, non può che finire con una pericolosa conta in commissione - dove peraltro il centrodestra ha i numeri per vincere - e poi in aula. Di qui la mossa di D’Incà e il vertice di maggioranza. Anche se il prezzo da pagare è quello inevitabile del rinvio dell’aula del 28 marzo. Ma il premier Mario Draghi, quando l’11 febbraio sono stati approvati gli emendamenti di Cartabia a palazzo Chigi pur con molti dissensi, ha promesso a Forza Italia e Lega che non sarà messa la fiducia. Una promessa che da molti giorni ormai sembra proprio vacillare. Sorteggio, il Csm dice no: “Democrazia a rischio” di Simona Musco Il Dubbio, 22 marzo 2022 Di Matteo e Ardita contro i colleghi: “È l’unico antidoto al correntismo”. E il laico Cavanna striglia i togati per le posizioni dure sull’avvocatura. Il sorteggio come primo passo verso la riduzione della democrazia. È con questa motivazione che ieri il plenum ha approvato - con 19 voti a favore e 5 contrari - l’emendamento al parere sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm che boccia il sorteggio come possibile metodo di elezione dei componenti togati di Palazzo dei Marescialli. Un voto che si concluderà domani, con il parere su tutti gli emendamenti al documento elaborato dalla Sesta Commissione, che verrà poi consegnato alla ministra Marta Cartabia. Che ieri ha incontrato i vertici di avvocatura e magistratura per discutere della riforma, ora ferma in Commissione Giustizia alla Camera. Ma intanto, a Palazzo dei Marescialli è emerso il disappunto di chi vede in quella riforma un modo per zittire e punire le toghe, reduci dai tre anni peggiori della storia della magistratura. “Nell’assetto costituzionale - ha sottolineato il togato Carmelo Celentano, relatore del parere e firmatario dell’emendamento - l’elezione dei magistrati è non soltanto espressione del generale principio democratico ma costituisce una vera e propria responsabilità che ogni singolo magistrato ha di esprimere il proprio organo di garanzia”. Parere col quale hanno manifestato disaccordo i togati Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo, nonché i laici Stefano Cavanna, Emanuele Basile e Alessio Lanzi. “Oggi, col sistema dell’elezione così come finora congegnata, troppo spesso quella elezione si riduce ad una finzione - ha sottolineato Di Matteo -. Quante volte abbiamo avuto un numero di candidati pari a quello degli eletti o a un rito scontato, per il quale sono stati i gruppi nel tempo a preparare e a rendere scontato l’esito delle elezioni? Il sorteggio è l’unico sistema elettorale che oggi può scompaginare i piani del correntismo”. Ma tale sistema, secondo il togato di Area, Giuseppe Cascini, rappresenterebbe una manifestazione di sfiducia nei confronti degli elettori e una riduzione “del ruolo di rappresentanza del Consiglio” che “significa anche riduzione del suo ruolo di tutela e garanzia dell’ordine giudiziario”, trasformandosi così in mero organo “di amministrazione del personale”. Non è la sorte, ha aggiunto, “che può decidere quale opzione valoriale su temi fondamentali può essere prevalente. Ci sono ragioni di tutela che impongono di scegliere la strada compatibile con la Costituzione”. Una prospettiva che non ha convinto il consigliere laico Alessio Lanzi, contrario all’idea secondo cui il sorteggio sarebbe di per sé contrario alla Costituzione. “Le correnti sono ineliminabili, nella misura in cui rappresentano aggregazioni culturali di comune sensibilità - ha evidenziato -. Altro problema è il correntismo, alla cui base c’è l’elezione, perché comporta un vincolo di rappresentanza. Il tema non è metterlo in contrasto con la democrazia, perché tutti siamo convinti che sia ottimale, ma una democrazia determina il Parlamento, che è diviso per partiti: se vogliamo che il Csm non sia diviso per partiti e correnti bisogna eliminare l’elezione”. La soluzione per seguire il dettato costituzionale, secondo Lanzi, consisterebbe proprio nel sorteggio temperato, che non abolisce “il totem elezione”. Ma per il laico Alberto Maria Benedetti, “ridurre le elezioni ad un rito e in un secondo momento sopprimere o limitare il diritto di associarsi” rappresenta il primo passo verso un regime non democratico. Il plenum si è anche espresso contrariamente al divieto per i pm di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie alla stampa, divieto “palesemente irrazionale e in contrasto con il diritto di manifestazione del pensiero dei magistrati”. Nel mirino del Consiglio il nuovo illecito disciplinare introdotto dalla riforma sulla presunzione di innocenza, che “rischia da un lato di impedire qualsiasi comunicazione o informazione sui procedimenti penali, non solo quelli in corso, ma anche quelli già definiti, e dall’altro si attribuisce ai titolari dell’azione disciplinare un potere di controllo e condizionamento amplissimo sui procuratori della Repubblica e su tutti i magistrati del pm”, affermano i consiglieri. L’emendamento è stato proposto dai consiglieri di Area e approvato con 15 voti a favore, 3 contrari e 6 astenuti. “Non si tratta di tutelare l’interesse del pm a rendere dichiarazioni - ha sottolineato il procuratore generale Giovanni Salvi -, ma di tutelare il diritto dei cittadini e dell’opinione pubblica ad essere correttamente informati. Sono, pertanto, effettivamente necessarie nuove ipotesi di illecito che assicurino il rispetto delle norme sulla presunzione di innocenza, garantendo però il rispetto del principio costituzionale di offensività dell’illecito disciplinare”. La prima parte della discussione di ieri ha anche riguardato la sfiducia manifestata nei confronti del mondo dell’avvocatura. E ad evidenziarla è stato, in particolare, il laico Cavanna, che ha presentato un emendamento sul voto unitario degli avvocati nei consigli giudiziari. Secondo la Sesta Commissione, infatti, il parere dei Coa su direttivi e semidirettivi rischierebbe di introdurre una ricerca del consenso. “Mi fa specie un’enfasi di questo tipo - ha evidenziato -. Vuol dire che o gli avvocati vanno alla ricerca di appoggi in magistratura per vincere le cause, oppure, per converso, che a cercare il consenso sono i magistrati. Capisco che ci sia una preoccupazione, ma espressa in questo modo mi lascia perplesso: è come dare agli avvocati dei corruttori e ai magistrati dei corruttibili. È una brutta immagine”. Ma i pm non pagano mai gli errori? di Claudio Cerasa Il Foglio, 22 marzo 2022 Genchi condannato, De Magistris, per cui Genchi lavorava, no. È il paradosso. La seconda sezione civile della Corte d’appello di Roma ha condannato Gioacchino Genchi, nella sua qualità di consulente tecnico di Luigi de Magistris, quando quest’ultimo era pubblico ministero a Catanzaro e titolare dell’indagine “Why Not”, a risarcire con 70 mila euro ciascuno (oltre alle spese legali) l’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella, l’ex senatore Francesco Rutelli e l’ex deputato Sandro Gozi (oggi europarlamentare) per aver acquisito, elaborato e trattato illecitamente i tabulati telefonici relativi alle loro utenze telefoniche, senza chiedere l’autorizzazione del Parlamento. I tre erano stati indagati, e poi archiviati, nell’ambito dell’indagine avviata nel 2006 da De Magistris e che giunse a toccare persino l’allora premier Romano Prodi (poi archiviato anche lui). Nel 2014, in sede penale sia Genchi sia De Magistris - nel frattempo catapultato in politica grazie alla notorietà dovuta all’inchiesta (finita con una marea di assoluzioni) - erano stati condannati in primo grado per abuso d’ufficio proprio per aver utilizzato i tabulati telefonici di diversi parlamentari senza autorizzazioni. I due erano poi stati assolti in Appello e la Cassazione aveva a sua volta riformato la decisione per un dubbio sull’elemento soggettivo del reato. Essendosi il reato prescritto, il procedimento era stato rimesso alla Corte d’appello di Roma ai soli fini civili, per la valutazione delle domande di risarcimento dei danni. In sede civile il colpo di scena: Genchi è stato condannato a pagare, De Magistris (per il quale Genchi svolse l’attività investigativa) no. Come spiegato dai legali degli intercettati in maniera abusiva, in particolare gli avvocati Bruno Tassone e Gianfranco Passalacqua, la richiesta di risarcimento nei confronti dell’ex pm è infatti stata dichiarata inammissibile in base a “una applicazione assai restrittiva della normativa sulla responsabilità civile dei magistrati”. Il verdetto è paradossale e i legali valutano un ricorso. La domanda, intanto, sorge spontanea: ma i magistrati non pagano mai i propri errori? Giornata della memoria. A Napoli in 100mila sfilano contro le mafie e le guerre di Adriana Pollice Il Manifesto, 22 marzo 2022 Don Luigi Ciotti: “L’80% dei familiari delle vittime non conosce la verità, senza verità non si può costruire giustizia”. I 1.055 nomi delle vittime innocenti delle mafie sono stati scanditi ieri mattina da Milano a Palermo, nella Giornata della memoria organizzata da Libera con Avviso Pubblico. La manifestazione principale a Napoli, presenti i familiari di chi ha perso la vita sotto i colpi dei clan. A sfilare da piazza Garibaldi a piazza del Plebiscito c’era Natalia Gullì, il padre era il farmacista di Montebello Ionico e consigliere provinciale di Reggio Calabria per la Dc. Nel 1980 venne rapito, si era rifiutato di cedere alla ndrangheta un appezzamento di terreno. Il suo corpo non è mai stato ritrovato. C’era Pasquale Scherillo: il fratello Dario lavorava in un’agenzia di pratiche automobilistiche a Casavatore, alle porte di Napoli. Nel 2004 venne ucciso perché i sicari lo scambiarono per un pusher rivale: aveva lo scooter dello stesso colore e modello. Era la faida di Scampia tra Di Lauro e Scissionisti e bastava poco per finire sotto il fuoco dei sicari. I killer di Scherillo non sono mai stati individuati. Sono stati condannati, invece, mandanti ed esecutori del raid nel circolo del Lotto O di Ponticelli che costò la vita a Ciro Colonna nel 2016. Clan dell’area est contro clan della Sanità, l’obiettivo era Raffaele Cepparulo, Ciro era nel circolo solo per giocare a biliardino. Tentò di fuggire ma si chinò per raccogliere gli occhiali e venne freddato. A ricordare la sua storia, ieri, il papà Enrico. In corte anche Anna Motta madre di Mario Paciolla, il cooperante italiano trovato senza mentre era in missione in Colombia: “Vogliamo la verità dall’Onu” ha ripetuto. Tra le bandiere arcobaleno e la folla di ragazzi (oltre 100mila per gli organizzatori) il parroco di Caivano don Maurizio Patriciello e il comandante della polizia municipale di Arzano Biagio Chiariello, entrambi vittime di intimidazioni da parte della camorra dell’area nord di Napoli. In piazza Municipio si sono uniti al corteo il sindaco Manfredi, il presidente della Camera Fico e il leader 5S Conte. Tra i manifestanti gli ex parlamentari Peppe De Cristofaro e Arturo Scotto, il senatore Sandro Ruotolo. Dal palco don Luigi Ciotti, presidente di Libera, ha tirato le somme: “L’80% dei familiari delle vittime innocenti delle mafie non conosce la verità, senza verità non si può costruire giustizia. Delle stragi avvenute in Italia nel dopoguerra di nessuna si conosce la verità. Le persone ammazzate prima del 1961 non sono riconosciute come vittime di mafia, una stortura da sanare. Le mafie sono tornate forti, sparano di meno, usano altre tecnologie per riciclare il denaro, la presenza maggiore è al nord dove ci sono finanza e ricchezza. Lotta alla mafia vuol dire lavoro, cultura, politiche sociali altrimenti quei vuoti li riempiono altri”. sul conflitto in Ucraina: “Abbiamo una guerra alle porte, è giusto essere vicini a chi sta soffrendo. Ma non abbiamo parlato delle altre 33 guerre che ci sono nel mondo. Bene l’accoglienza dei profughi che fuggono dalle bombe ma se hanno la pelle nera i percorsi sono molto complicati. Il Mediterraneo continua a essere un cimitero. L’aumento al 2% del Pil per spese militari è immorale. Un bagno di sangue economico per l’incapacità di dire basta ai bagni di sangue umani”. Dalla Calabria il procuratore di Catanzaro Gratteri: “Questo governo non ci sta aiutando nel contrasto alle mafie. Si sono fatti e si stanno facendo provvedimenti devastanti”. A Torino c’era Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso nel 1992 a Capaci: “Giovanni diceva che la mafia cambia a seconda delle esigenze, ma resta sempre uguale”. E il presidente Mattarella: “Memoria è il richiamo contro l’indifferenza. Combattere le mafie significa adempiere alla promessa di libertà su cui si fonda la repubblica”. Grazie a Falcone e Borsellino l’Italia ha fatto scuola sulle leggi contro la mafia di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 22 marzo 2022 Gli effetti delle stragi e la Giornata della memoria. Questo è l’anno del trentesimo anniversario delle stragi di mafia del 1992. “Colpire Falcone e Borsellino è stato - per il nostro Paese - qualcosa come l’abbattimento delle Twin Towers in Usa” (Andrea Camilleri). C’era il rischio concreto - con le stragi del ‘92 - che la nostra democrazia crollasse. Una forte reazione corale (forze dell’ordine, magistratura, società civile, politica una volta tanto unita), ci ha invece salvato dall’abisso producendo importanti risultati: uno per tutti, 65 condanne all’ergastolo di mafiosi, oltre a una sequela di anni di reclusione. Così si è potuta riprendere la strada tracciata da Falcone e Borsellino con il maxi processo per contrastare efficacemente Cosa nostra. Mentre l’organizzazione criminale - per parte sua - ha dapprima insistito nella rabbiosa strategia stragista con gli attentati di Roma, Firenze e Milano, per poi inabissarsi in modo da uscire dai “riflettori”, rimarginare le ferite e riprendere sotto traccia le “consuete” attività di accumulazione illecita di capitali. Dunque, la mafia ha subìto duri colpi ma ancora ci appesta. Tuttavia, se il nostro rimane un Paese con problemi di mafia, possiamo anche rivendicare orgogliosamente di essere il Paese dell’antimafia. Siamo il Paese dell’antimafia perché l’Italia è all’avanguardia sul piano della legislazione e dell’organizzazione del contrasto. Lo prova il fatto che la Conferenza dell’Onu contro la criminalità organizzata transnazionale (Palermo 2000) ha prodotto una Convenzione ché ha recepito una lunga serie di misure mutuate dall’esperienza investigativo-giudiziaria maturata proprio nel nostro Paese, che le ha “pensate” calibrandole sulla concreta realtà della criminalità mafiosa. Una specie di Little Italy antimafia. Siamo il Paese dell’antimafia anche in virtù della legge 109/96, che destina i beni confiscati ai mafiosi ad attività socialmente utili, restituendoli alla collettività cui la mafia li ha rapinati. Il significato profondo della legge è fare dell’antimafia, recuperando il “mal-tolto”, una legalità che conviene: non più questione soltanto di guardie e ladri, ma in grado di coinvolgere la società civile. Un “capolavoro” ideato da Luigi Ciotti e da Libera: sia predisponendo un progetto di legge di iniziativa popolare; sia raccogliendo un milione di firme per sostenerlo. Una pressione irresistibile, tant’è che la legge fu approvata all’unanimità (ma senza estenderla ai corrotti come stava scritto nel progetto), dando così vita all’antimafia sociale e dei diritti che è un nostro fiore all’occhiello, ovunque studiato e imitato. Siamo ancora il Paese dell’antimafia per il prezzo altissimo che l’Italia ha pagato subendo un’infinità di vittime innocenti. Operando come hanno operato in vita e sacrificandosi fino alla morte, esse hanno lasciato - parafrasando lo storico Salvatore Lupo - un’eredità “rivoluzionaria”: restituire lo Stato alle persone, dando un senso alle parole “lo Stato siamo noi”. Poi siamo il Paese dell’antimafia grazie ai familiari delle vittime, che vivono un continuo, immenso dolore dell’anima che non lascia respiro. Lo sopportano con dignità e coraggio. Chiedono giustizia e non vendetta. Nei loro confronti abbiamo tutti un debito enorme: la loro ferma testimonianza è un richiamo a non dimenticare e un punto di riferimento morale. Ogni 21 marzo si svolge (quest’anno a Napoli) la giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime di mafia, organizzata da Libera. Il momento più significativo e commovente è la lettura dell’interminabile elenco delle vittime innocenti, oltre millecento, nel silenzio assoluto delle decine di migliaia di persone presenti, soprattutto giovani. Numerosi ogni volta sono i familiari delle vittime. Alcuni di loro mostrano cartelli con la fotografia della persona cara uccisa e la data (spesso ormai lontana) dell’omicidio. Sarebbe utile se a queste iniziative si affacciassero pure quelli che parlano di antimafia militante arroccata nel culto dei martiri e nel richiamo esclusivo al sangue versato. O quelli che addirittura proclamano la necessità di una “rieducazione delle vittime”, per rintuzzare il pericolo che i familiari finiscano per sbilanciare, accentrandola su di sé, la trattazione dei problemi di mafia. Gratteri contro Cartabia: “Il governo non ci aiuta nella lotta alle mafie” di Davide Varì Il Dubbio, 22 marzo 2022 “Si sono fatti e si stanno facendo provvedimenti pensati e diretti dalla ministra Cartabia che sono devastanti e saranno devastanti per i prossimi decenni”. “In Calabria c’è la ‘ndrangheta, c’è la corruzione. Purtroppo il fenomeno riguarda tutto il mondo occidentale, negli ultimi 20 anni c’è stato un forte abbassamento della morale e dell’etica e la corruzione ha investito appieno il mondo occidentale, in particolare l’Italia e in particolare il Sud e i posti ad alta densità mafiosa. Ma noi purtroppo non abbiamo avuto dei governi che hanno voluto investire in sicurezza, che hanno voluto investire contro le mafie”. Lo ha detto il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, intervenendo in collegamento con l’evento del “Calabria Day” in corso al Padiglione Italia dell’Expo 2020, a Dubai. “Purtroppo - ha proseguito Gratteri - la storia ci insegna, già dalla fine dell’800, che il potere, la classe dirigente ha bisogno di mafie per contrastare altri centri di potere e altri poteri concorrenti. Purtroppo devo dire che questo governo non ci sta aiutando nel contrasto alle mafie, con scelte apparentemente che c’entrano poco con la mafia, ci sta aiutando pochissimo. Si sono fatti e si stanno facendo provvedimenti pensati e diretti dalla ministra Cartabia che sono devastanti e saranno devastanti per i prossimi decenni. Il problema - ha sostenuto il procuratore di Catanzaro - non è l’immediato, il problema è che nella testa della gente entra il tarlo che tutto si aggiusta, c’è una sistemazione. Non è sostanzialmente un deterrente”. “Io - ha rimarcato il procuratore della Repubblica di Catanzaro - ho bisogno di un sistema giudiziario nel rispetto della Costituzione, c’è bisogno di fare tali e tante modifiche in modo che diventi non conveniente delinquere. Quindi non un approccio morale ed etico, ma un rapporto di convenienza, dimostriamo sul piano sostanziale che non è conveniente delinquere. Temo che con questo governo, da questo punto di vista, sul piano della sicurezza e sul piano del centrato alle mafie non si andrà da nessuna parte, se non si arriverà alle prossime elezioni sperando in un governo che abbia una visione sulla sicurezza e soprattutto sulla trasformazione delle mafie, che non sparano, non uccidono ma che - ha concluso Gratteri - comprano tutto ciò che è in vendita e soprattutto comprano l’animo delle persone”. Cassazione, la Pg fuori legge fa intercettare l’avvocato di Otello Lupacchini Il Riformista, 22 marzo 2022 Negli atti di un procedimento disciplinare le telefonate tra legale e assistiti. Una lesione del diritto di difesa. In quasi cinquant’anni, ho visto scorrere tanta acqua torbida o nera sotto i ponti dell’amministrazione della giustizia, ma non m’era mai capitato d’imbattermi in una vicenda in cui l’abuso è talmente spudorato da far supporre una consegna o intese sotto banco. Una vicenda vieppiù intrigante, perché vittima, detto col disagio che l’antipatico pronome suscita nei lettori delle Pensée, c’est moi. Non la sola, naturalmente, e non la principale. Si tratta di vicenda condotta a emersione da una questione preliminare spiegata dall’avvocato I.I., difensore dell’incolpato, nel corso della prima udienza, davanti alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, nel procedimento a carico del dottor E.F.. Questo l’incipit della perorazione difensiva (cito dalla registrazione del 18 febbraio 2022, reperibile in Radio radicale): “Ci sono alcune questioni, signor Presidente e signori Consiglieri, e non (…) so (…) se sarò più imbarazzato io nel rappresentarle oppure (se maggiore sarà l’imbarazzo per) la procura generale (della Cassazione) e anche (per) il Consiglio (…). (Quello di cui parlerò) riguarda, infatti, una prerogativa dello Stato al rispetto del principio di legalità: ho partecipato a un interrogatorio del dottor E.F. davanti alla procura generale (della Cassazione) senza conoscere gli atti; una volta, tuttavia, che questi sono stati versati (nel presente procedimento disciplinare), è stato sorprendente quello che da essi si è potuto apprendere”. E il riferimento è alle intercettazioni: “Agli atti del fascicolo ci sono una infinità di telefonate tra me e i miei assistiti, il dottor E.F. e il dottor Lupacchini”. Inspiegabile, continua il difensore, come mai la procura di Salerno e la procura generale della Cassazione abbiano ritenuto di calare una sonda tanto invasiva nelle sue conversazioni difensive con i propri assistiti. Di qui lo sfogo critico, in cui è involuta una denuncia: “A me non interessa che qualcuno dica si tratti di captazioni inutilizzabili: esse sono illegali! Tant’è che direi alla procura generale (della Cassazione) che (…) deve procedere contro sé stessa per illeciti disciplinari oppure (…) contro Salerno. È un fatto grave, perché qui non c’è la tutela del diritto di difesa, che è diritto inviolabile secondo la Costituzione per la persona fisica e una prerogativa dello Stato alla legalità”. Quindi, un ulteriore affondo: “(…) in alcune (di tali conversazioni) c’è addirittura scritto “da valutare” (…): ma come, da valutare? Ma perché deve essere valutata una conversazione (…) tra un difensore e il suo assistito? E da chi deve essere valutata? Chi è che ha il diritto di farlo? La procura generale (della Cassazione)? Forse, la procura di Salerno? Riflettiamo anche su questi aspetti. (…), a me serve capire perché è stato fatto questo; perché la procura di Salerno avesse necessità di sapere in anticipo (il contenuto delle) mie conversazioni difensive; perché ha così invasivamente (fatto irruzione) nella vita difensiva di un (mio) assistito”. Sarebbe molto grave, e mi rifiuto di crederlo, se gli investiganti salernitani avessero voluto conoscere in anticipo le strategie difensive degli assistiti dell’avvocato I.I., per meglio e più utilmente calibrare le performances accusatorie. Ancor più grave sarebbe qualsiasi altra spiegazione, ma non è nel mio stile avventurarmi a formulare ipotesi fantasiose. Resto, invece, ai fatti. L’articolo 103 comma 5 del codice di rito penale vieta le intercettazioni telefoniche, nel caso comunichino difensori, consulenti tecnici o ausiliari degli stessi; oppure uno dei predetti e l’assistito, sia esso l’imputato, il sottoposto alle indagini, una parte eventuale, l’offeso. Certo, non si può pretendere che a tutti questi soggetti sia garantita l’assoluta segretezza di qualsiasi emissione o ricezione, con chiunque interloquiscano e su ogni argomento: fosse così, l’establishment criminale acquisterebbe a buon mercato basi-santuario da cui tessere indisturbato le sue tele; garantiti dalla segretezza assoluta sono, dunque, soltanto i discorsi relativi a difese o consulenze, anche se diretti al terzo o da lui emessi, come, ad esempio, fra difensore e testimonio; ovvio, peraltro, che le operazioni difensive non devono essere malaffare delinquentesco. Ebbene, che le conversazioni intercorse tra l’avvocato I.I. e i suoi assistiti attenessero sempre ed esclusivamente alla difesa e fossero contenute nel penalmente lecito, ben lo sapeva chi materialmente captava i messaggi, ma era certamente circostanza che non poteva sfuggire neppure a chi, inquirenti salernitani e procuratore generale della Cassazione, ha disposto la trascrizione e il versamento in atti di quel materiale illegalmente raccolto, dunque non valutabile ad alcun fine processuale. È forse temerario, allora, pensare che anche questi ultimi abbiano condiviso tacitamente, salvo un non meno inquietante “non aver compreso il fatto”, nell’illegale acquisizione, nel procedimento disciplinare? Il Consiglio superiore della magistratura, come le stelle del romanzo di Archibald Joseph Cronin, The Stars Look Down, sembra sia rimasto e voglia rimanere, purtroppo, soltanto a guardare. Donne e giustizia, il tetto di cristallo del Csm e della magistratura di Ettore Maria Colombo La Nazione, 22 marzo 2022 Alla Camera il convegno organizzato da Aitra “Giustizia e rappresentanza di genere”. La giurista Florinda Scicolone: “Fino a quando non ci sarà un riequilibro non ci sarà un vero beneficio per la democrazia stessa”. “Giustizia e rappresentanza di genere”. Sembra apparire un tema ‘laterale’, mentre la guerra infuria e donne e bambine scappano dall’Ucraina, ma non lo è affatto. Se ne parla in un convegno organizzato ieri pomeriggio, nella sede della nuova Aula dei gruppi parlamentari della Camera, dall’Aitra (Associazione italiana trasparenza e corruzione), con molti ospiti, tutti qualificati. A partire dall’on. Cristina Rossello (Forza Italia, ligure, di professione avvocato), prima firmataria di un progetto di legge su riequilibrio delle quote di genere dentro il Csm. Introduceva i lavori Florinda Scicolone, responsabile relazioni istituzionali di Aitra, e giurista d’impresa, e moderava la tavola rotonda seguente Paola Balducci, professoressa di Procedura Penale alla Luiss e già membro laico del Csm. A concludere i lavori c’era Francesco Paolo Sisto, sottosegretario di Stato alla giustizia nel governo Draghi. Il 2022 è un anno importante per la giustizia italiana, quella della riforma dell’ordinamento giudiziario portata avanti dal ministro Marta Cartabia e, proprio in questi mesi, all’esame del Parlamento. L’Unione europea, e i fondi del Pnrr, chiedono una giustizia più veloce e più affidabile, di riformare un sistema lento, vecchio, inadeguato. Il Csm, nel frattempo, è stato travolto e squassato da scandali violenti (l’inchiesta sul ‘sistema’ di Palamara, il libro di Sallusti, le inchieste sulla procura di Milano e di Roma, etc.) che hanno fatto esplodere una questione morale mai vista finora, nel Csm e ai vertici della magistratura, strigliati più volte anche dallo stesso Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Aitra ha voluto questo momento di confronto per parlare di un aspetto specifico come la questione della rappresentanza e dell’equilibrio di genere, tassello importante in questo contesto. “Fino a quando non ci sarà un riequilibrio di genere non ci sarà un vero beneficio per la democrazia stessa” ammonisce la Scicolone. Giorgio Martellino, presidente di Aitra, parla di una “sinergia del mondo del pubblico e del privato che Aitra persegue dalla sua nascita, legandolo alla sostenibilità e alla governance perché la trasparenza è fondamentale per entrambi i mondi. La corruzione può essere fermata anche con la parità di genere”. Maria Masi, prima donna mai eletta a presidente del Consiglio nazionale forense, mette l’accento sulla disparità di genere tra avvocatura e magistratura: tra gli avvocati già dal 2012 è stato stabilito l’equilibrio di genere per le elezioni di secondo grado con l’introduzione della doppia preferenza nei distretti e a livello nazionale con numeri che vedono, ormai, la presenza femminile superiore a quella maschile, dentro l’avvocatura. La Masi si augura “che anche il Csm proceda a questa riforma”. La legge di riferimento è quella delle quote rosa della legge Golfo-Mosca per i cda che la Scicolone porta come esempio di buona pratica. Riequilibrio di genere nel Csm, la proposta dell’on. Rossello - Qui si innesta la proposta di legge dell’on. Rossello che, presentata già a inizio legislatura, riprende proprio la filosofia della legge Golfo-Mosca sul ruolo e la funzione della governance femminile e si propone un riequilibrio di genere anche dentro il Csm dove, nelle ultime quattro tornate elettorali, sono state elette solo otto donne mentre la popolazione delle magistrate è di netto superiore ai colleghi uomini, sfiorando il 54%, un trend in crescita. La Rossello ricorda che anche nella proposta di riforma della legge elettorale del Csm, oggi in Parlamento, ci sono due articoli (l’art. 28 della riforma sulla eleggibilità dei membri laici per la pareticità delle opportunità e l’art. 31 sulla convocazione delle elezioni che rispicchi l’equilibrio di genere) che fanno, pur se blandamente, riferimento alla rappresentanza di genere con il sorteggio temperato, ma si rischia che le nuove elezioni del Csm, che si terranno a luglio, avvengano sempre con le stesse regole. L’on Rossello spiega che “di fronte agli scandali non si può far finta di nulla. I magistrati devono essere al di sopra di ogni sospetto. La mia pdl non ha solo la mia firma, è aperta a modifiche, ho lavorato con tutti i gruppi politici, la parità di genere si può imporre, dentro la magistratura, solo partendo dall’introduzione delle quote di genere. Significa più democrazia e trasparenza”. In Italia più di un magistrato su due è donna - Ma è utile anche fornire qualche dato, per capire meglio l’importanza e la portata della questione. Nonostante, oggi, in Italia, il 53,8% dei magistrati italiani siano donne (5308 su un totale di 9787) e gli uomini solo una minoranza, il 46% (4479) - un dato peraltro rilevante e in controtendenza rispetto ad altri ambiti lavorativi, economici e politici, dove le donne sono largamente sotto rappresentate, la disparità di genere non emerge tanto dalla presenza complessiva delle donne, quanto dalla loro esclusione dalle posizioni di rilievo, che è altissima. Dai dati raccolti da Openpolis (risalenti al 2021) è evidente che se le donne sono, paradossalmente, sovra-rappresentate tra i magistrati ordinari (56,7%) la loro presenza diminuisce man mano che si considerano incarichi di maggiore rilevanza, da quelli semi-direttivi a quelli direttivi. Negli incarichi semi-direttivi su dieci uomini ci sono meno di cinque donne e negli incarichi direttivi solo uno su quattro sono donne e tre su quattro sono uomini. Tra i togati del Csm solo il 28,6% è donna - Peggiore ancora il divario di genere dentro il Csm, l’organo di autogoverno della magistratura italiana che ne stabilisce tutti gli incarichi. Tra gli attuali membri togati del Csm, solo il 28,6% (6) sono donne. Sempre nella consiliatura in corso, va notato che tutte e sei le donne presente sono state elette dai magistrati (nessuna dai laici) e che se la quota di donne tra i togati è la più alta dal 1994 a oggi (28,6%), ma le donne, nel Csm, non sono mai state più del 25%. La disparità di genere tra i membri eletti del Csm riguarda sia i “togati” che i “laici”, in misura solo lievemente diversa. Se si considerano tutte le consiliature dal 1963 a oggi, le donne elette dal Parlamento come membri del Consiglio superiore della magistratura sono state complessivamente solo 10, mentre quelle elette dai magistrati 18 per un totale di appena 28 elette in cinquant’anni. Il Csm, meglio ricordarlo, è composto da 27 membri, di cui 24 sono eletti e tre sono di diritto. Le donne vi sono entrate a far parte dal 1981. Tra i membri eletti, 16 vengono detti ‘togati’ (votati da tutti i magistrati ordinari) e otto i ‘laici’ (eletti dal Parlamento). I tre membri ‘di diritto’ sono invece il Presidente della Repubblica, che presiede il Csm, il Primo Presidente della Corte di Cassazione e il Procuratore Generale della stessa Corte. Ebbene, nessuna donna è mai stata membro di diritto del Csm come dei suoi vertici. Un ‘tetto di cristallo’ ancora tutto da sfondare. La Cassazione sul delitto di tortura nell’aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere giurisprudenzapenale.com, 22 marzo 2022 Cassazione Penale, Sez. V, 16 marzo 2022 (ud. 9 novembre 2021), n. 8973. La Corte di Cassazione, si è pronunciata in sede cautelare sui fatti avvenuti nell’aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha affermato che “il delitto di tortura è stato configurato dal legislatore come reato eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell’incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Ai fini dell’integrazione del delitto di tortura di cui all’art. 613-bis c. 1 c.p. - prosegue la sentenza - “la locuzione “mediante più condotte” va riferita non solo ad una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico”. Quanto al dolo - si conclude - “in tema di tortura, anche quando il reato assuma forma abituale, per l’integrazione dell’elemento soggettivo non è richiesto un dolo unitario, consistente nella rappresentazione e deliberazione iniziali del complesso delle condotte da realizzare, ma è sufficiente la coscienza e volontà, di volta in volta, delle singole condotte”. Lazio. Giustizia riparative e assistenza alle vittime di reato: pubblicato l’avviso dell’Irasp ilfaroonline.it, 22 marzo 2022 La Regione Lazio e l’Irasp (Istituti Riuniti Azienda di Servizi alla Persona) avviano il programma regionale di interventi per la giustizia riparativa per adulti con la ricognizione e la mappatura dei progetti e dei servizi realizzati nell’ambito dell’assistenza generale alle vittime di reato, della mediazione penale e altre prassi riparative, con l’obiettivo di costruire una rete territoriale dedicata. A tal fine l’Irasp, in qualità di soggetto attuatore principale del programma, ha pubblicato l’avviso, rivolto ad organismi sia pubblici che privati, per identificare e garantire le buone prassi esistenti e valorizzarne di nuove puntando all’omogeneità degli interventi su scala regionale. Possono partecipare all’avviso organismi pubblici, privati ed Enti del Terzo Settore aventi pregressa esperienza nella gestione di servizi di supporto alle vittime di reato e di mediazione penale e/o qualificati in attività di formazione, informazione e sensibilizzazione, inerenti la diffusione del paradigma della giustizia riparativa. “Il presente atto rientra nell’ambito della proposta progettuale che vedrà l’imminente avvio di un Centro regionale, con sede a Roma, per le vittime di reato, dedicato alla mediazione penale, all’ascolto, all’assistenza di chi ha subito un danno fisico o psicologico - spiega l’Assessore alle Politiche Sociali Welfare, Beni Comuni e ASP Alessandra Troncarelli - Qui il cittadino potrà avvalersi del supporto di personale multi-professionale specializzato e ricevere anche assistenza legale e psicologica e accompagnamento alla rete dei servizi. Un intervento, realizzato con la collaborazione di Irasp, Uepe e Prap, per cui la Regione Lazio ha stanziato 1,3 milioni di euro e che include l’attivazione, in ciascuna delle altre città capoluogo del Distretto della Corte di Appello di Roma, di una rete di sportelli destinati all’accoglienza, all’informazione e all’assistenza psicologica, andando anche a potenziare quelli già operanti sul territorio”. “Si tratta di un primo passo verso la diffusione capillare di un nuovo paradigma culturale che include pratiche di accoglienza e presa in carico delle persone, delle relazioni, delle comunità violate a causa di un crimine, nella prospettiva di lenire la sofferenza individuale, risanare i legami interpersonali e ricomporre le fratture del tessuto sociale cagionate dall’offesa subita, mediante un perdono responsabile ed una giustizia che non punisce, ma cura - dichiara il Presidente di Irasp Mario Marazziti. L’Irasp, che eredita il patrimonio storico di umanizzazione della grande tradizione cristiana e laica di Roma e del Paese, come attuatore principale del programma, affianca la Regione Lazio e gli altri partner istituzionali in questa azione di preliminare conoscenza dei territori, ritenuta di fondamentale importanza al fine garantire l’ottimizzazione di risorse, la condivisione delle esperienze e l’attivazione di nuove sinergie di rete tra buone prassi esistenti. È un inizio verso una giustizia che ha per obiettivo la riparazione, almeno parziale, del danno subito dalle vittime, la comprensione dei reati commessi e l’accompagnamento al reinserimento sociale utile alla comunità, anche di chi è sottoposto a provvedimento penale. Un percorso di ricostruzione anticipata del tessuto sociale, di cui abbiamo un grande bisogno”. I soggetti che vogliono manifestare il proprio interesse e disponibilità alla partecipazione dovranno rispettare i requisiti specificati nell’avviso, mediante anche la compilazione degli allegati, e inviare la documentazione, in unico file pdf, entro 30 giorni dalla pubblicazione dello stesso, all’indirizzo irasp@pec.it. Questa ricognizione dei servizi e delle buone prassi sul territorio regionale si inserisce nell’ampio ventaglio di azioni previste dalla Regione Lazio al fine di costituire un sistema di raccordo a regia centrale in grado di assicurare un’efficace cooperazione tra le istituzioni pubbliche e il privato sociale attivo nel settore della giustizia riparativa e del supporto alle vittime di reato. Torino. Carcere delle Vallette, verso il processo: “Torture coperte da omertà” di Federica Cravero La Repubblica, 22 marzo 2022 Il pm chiede il giudizio per 22 imputati. Tre indagati scelgono l’abbreviato: tra loro l’ex direttore Minervini. “Nel carcere di Torino c’era un clima di omertà simile a quello che si trova in un contesto criminale”. È uno dei punti su cui ha insistito il pm Francesco Pelosi alla riapertura dell’udienza preliminare per le presunte violenze e torture dentro il carcere Lorusso e Cutugno, per cui sono alla sbarra 25 imputati, tra cui l’ex direttore Domenico Minervini e l’ex comandante della Penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza, accusati di aver ignorato le segnalazioni di violenze, fisiche e psicologiche commesse dal 2017 al 2019 da parte di agenti nei confronti dei detenuti. Vittime erano in particolare i cosiddetti sex offender, accusati di violenze sessuali e reati di pedopornografia, che erano reclusi nel padiglione C per essere isolati e protetti dagli altri detenuti e che invece sono stati presi di mira da chi li avrebbe dovuti tutelare. “Tranne un paio di agenti - ha continuato il magistrato nella sua discussione - tutti gli altri imputati hanno detto di non aver mai visto né sentito di violenze ai danni dei detenuti, nonostante le indagini avessero dimostrato un quadro diverso ed è quindi evidente che mentano su questo punto. E anche coloro che hanno rotto il silenzio e hanno ammesso di essere a conoscenza dei fatti, hanno detto di avere paura”. Tre degli imputati - Minervini, Alberotanza e un agente - hanno scelto il rito abbreviato e per loro il processo continuerà nell’udienza del 31 maggio. Gli altri invece attenderanno la decisione del gup Maria Francesca Abenavoli, che dovrà valutare il loro rinvio a giudizio. Parte della discussione è stata dedicata alla qualificazione giuridica del reato di tortura commessa da un pubblico ufficiale. L’inchiesta di Torino infatti è stata una delle prime in Italia in cui veniva contestato questo reato, introdotto pochi anni fa dopo il rimprovero della Corte europea dei diritti umani. “È particolarmente grave - ha detto in aula Pelosi - quando la violenza viene dallo Stato. È una questione di rapporti di forza squilibrati nei confronti di chi è privato della libertà, non si può difendere e dovrebbe essere tutelato da parte di chi indossa una divisa”. L’applicazione del reato di tortura ai fatti del Lorusso e Cutugno ha avuto in verità un andamento altalenante. Nella fase delle indagini, infatti, alcune misure erano state revocate dal tribunale del riesame, che aveva sostenuto che per contestare il 613 bis del codice penale si dovessero riconoscere più condotte in momenti temporali diversi. La Cassazione in quel momento non si era ancora pronunciata perché non aveva ancora avuto occasione di imbattersi nella nuova materia. E quando i giudici della Suprema corte hanno dovuto esprimersi sulla materia, hanno detto in modo chiaro che sono sufficienti plurime condotte anche in un unico periodo cronologico. Sulla scia della nuova giurisprudenza, il pm Pelosi ha sostenuto in aula la tesi della tortura anche per le tre posizioni per cui durante la fase delle indagini era stata annullata la contestazione. Verona. Primo giorno di primavera alla Casa circondariale di Montorio di Paola Tacchella* Ristretti Orizzonti, 22 marzo 2022 Oggi, primo giorno di primavera, sono state riaperte le porte del carcere alla partecipazione dal territorio dopo un interminabile periodo di separazione il cui inizio tutti gli italiani ricordano. E ora, come si aprono le case all’aria fresca primaverile anche alla casa circondariale arriva una boccata di ossigeno, quello dell’arricchimento reciproco nella partecipazione a momenti collettivi. Sui ritmi di tante musiche di varie parti del mondo si sono intervallati gli ascolti di scritture degli studenti detenuti, dei corsi del Cpia, alfabetizzazione e scuola media, dell’istituto alberghiero e del corso per odontotecnici. Autori e lettori dei loro stessi scritti, emozionati per l’ascolto del pubblico composto di circa quaranta studenti dell’istituto Copernico-Pasoli e del Sanmicheli, dei dirigenti scolastici del Fermi e del Berti, di autorità scolastiche e istituzionali, hanno apportato un contributo all’incontro “Esistenze diverse in dialogo attraverso la musica”. Essere protagonisti esprimendo una riflessione, una testimonianza o una poesia, è una riappropriazione di identità positiva, condividendo con altri studenti “liberi” uno stesso momento pieno di emozioni. Tra gli invitati, Nicoletta Morbioli, ora Provveditore agli Studi di Vicenza, già dirigente scolastica del Cpia che ha competenza anche della scuola nel carcere, ha portato un saluto ai suoi studenti detenuti presentando loro il nuovo dirigente scolastico, Paolo Beltrame. È stata anche l’occasione per la consegna del premio allo studente in carcere vincitore dell’ultima edizione della Borsa di Studio intitolata a Nicola Tommasoli. Di Nicoletta Morbioli è stato letto un racconto con le voci prestate da studenti di dentro e fuori del carcere, una anticipazione di una sua prossima pubblicazione. L’iniziativa promossa dall’Ist. Copernico-Pasoli in collaborazione con la Direzione del Carcere, la Rete Stei (Scuola e Territorio: Educare Insieme), con il Cpia, l’IC Vigasio e l’associazione Prospettiva Famiglia, rientra nell’ambito dei progetti di Educazione Civica. A partire da questa nuova stagione potremo scrivere un nuovo capitolo di rinascita, di rivitalizzazione, di recupero delle relazioni, di scambio e di collaborazione per far crescere ancor più comunità, per un senso di appartenenza e per la partecipazione alla collettività, obiettivi non solo per il carcere, ma ancor prima per tutta la cittadinanza di cui tutti siamo parte. Stamattina il gruppo Mosaika ha acceso la stanza di note e ritmi che hanno coinvolto tutti i partecipanti, anche cantando insieme, perché la musica abbatte le barriere e avvicina gli uomini, sintonizza i battiti e i respiri in una stessa melodia, in una stessa onda vitale. *Docente della scuola nella Casa circondariale di Montorio Caltanissetta. I pupi siciliani in carcere a servizio della legalità di Roberta Barbi vaticannews.va, 22 marzo 2022 In occasione della Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, la Marionettistica popolare siciliana meglio nota come “I pupi antimafia” mette in scena “Storia di Rosario Livatino. Un giudice perbene” all’Istituto di pena minorile di Caltanissetta. È già qualche anno che il 21 marzo non è più solo il primo giorno di primavera, ma è un giorno in cui si ricorda il male per costruire il bene: la Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie è stata istituita nel 2017 anche per questo, affinché il passato, un certo passato, non si ripeta mai più. Lo sa bene Angelo Sicilia, maestro puparo che da sempre tira i fili degli splendidi pupi che realizza in proprio - quelli della tradizione palermitana, alti circa 90 cm - e a un certo punto ha deciso di metterli a servizio della legalità per dire basta alla mafia e alla cultura mafiosa che inquina ancora la sua isola e in particolare la sua meravigliosa città: Palermo. “Mi sono detto: cosa può fare di più questa forma di teatro popolare per la nostra gente, oltre a divertirla come ha fatto finora?”. La risposta Angelo Sicilia se la dà nel 2003 quando fonda l’Associazione Marionettistica popolare siciliana, riempiendo la tradizione dei pupi di contenuti nuovi, tratti dalla memoria della storia recente: “Il teatro popolare piace a tutti, contadini, pescatori, operai - spiega - perciò i messaggi che veicolano hanno una forza narrativa e un’efficacia indiscutibile”. È così che ha creato il ciclo degli spettacoli antimafia con protagonisti i pupi dei giudici Falcone e Borsellino, di Peppino Impastato e di padre Puglisi, eroi e martiri di oggi il cui sangue ha irrigato la terra di Palermo. In questo modo si capovolge il linguaggio tipico del teatro dei pupi che passa così dal raccontare le storie dei briganti a raccontare le storie di quelli che i briganti li catturano. “Muoviamo i fili: i pupi antimafia” sbarcano in carcere - L’idea del maestro piace, poi i pupi siciliani nel 2001 erano stati inseriti dall’Unesco nel patrimonio immateriale dell’umanità a conferma che la loro tradizione è importante e da tramandare alle generazioni future anche rinnovandola, così arriva la collaborazione con il Centro per la giustizia minorile della Sicilia e da lì mettere piede negli istituti di pena minorile il passo è breve. “In carcere sono entrato in punta di piedi - ricorda Sicilia - la prima volta, come ancora oggi, le difficoltà che incontro con questi ragazzi sono le stesse: molti si sono macchiati di reati connessi con la criminalità organizzata o comunque vengono da contesti intrisi di cultura mafiosa che è proprio quella che cerchiamo di scardinare, coinvolgendoli dapprima nel racconto delle loro storie attraverso i pupi, senza pronunciare mai la parola proibita, ‘mafia’, per non farli chiudere, per non farli allontanare”. I laboratori in carcere si svolgono in due fasi distinte: prima si costruiscono i pupi e le scene, poi si pensa alle storie: “Negli anni abbiamo affrontato tante tematiche ‘collaterali’ come quelle dell’immigrazione, del razzismo, dell’intolleranza, perché anche questo è mafia. Ciò ci dà la possibilità di mettere in scena spettacoli sempre diversi perché dentro c’è un po’ di ognuno dei nostri ragazzi”. Dai cattivi maestri ai buoni maestri - L’obiettivo è chiaro: smantellare dall’interno la cultura mafiosa e tutti i falsi miti che porta con sé: “A volte capitano delle scene tragicomiche - racconta ancora il maestro puparo - ci sono ragazzi, ad esempio, che già durante le prove si rifiutano di manovrare i fili dei pupi che rappresentano i carabinieri o le forze dell’ordine in generale… è la difficoltà di far accettare il fatto che la realtà mafiosa non porta a nulla se non alla violenza e al male”. Ecco, dunque, che entrano in gioco gli esempi positivi con tutta la loro forza: “Capita spesso ai giovani che hanno lavorato con me su storie che non conoscevano, come quelle delle vittime di mafia appunto, che crolli nel loro immaginario il mito del capo-mafia con cui erano cresciuti e lo sostituiscano magari con quello di chi ha sacrificato la propria vita per il bene comune. Sono cose che danno speranza”. Rosario Livatino: storia di un giudice perbene - Papa Francesco lo ha definito “martire della giustizia e della fede, esempio di legalità per tutti”, tanto che la Chiesa lo ha beatificato il 9 maggio di un anno fa. Per questo Angelo e i suoi ragazzi hanno scelto di rappresentare la storia di Rosario Livatino in questa Giornata per le vittime di mafia 2022: “La storia del piccolo giudice ucciso dalla stidda agrigentina nel 1990, quando aveva solo 38 anni, ha colpito molto i ragazzi - è la sua testimonianza - nell’istituto di pena di Caltanissetta ce ne sono molti che vengono da Agrigento, vista la vicinanza tra le due città, perciò mi sembrava la scelta migliore”. Un modello buono da esportare al nord - Ma i pupi della legalità non si fermano alla Sicilia: la potenza del loro messaggio ha travalicato i confini dell’isola ed è arrivata fino al nord, quel nord dove purtroppo la mafia ha già costituito un cattivo modello da esportare. Ma ora arriva anche l’antidoto: “A fine mese inizieremo un laboratorio nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, in provincia di Udine - conclude Sicilia - è emozionante pensare che un progetto nato a Palermo arrivi fino lì ed è ancora più emozionante andarci con alcuni dei miei ragazzi che nel frattempo sono usciti dal carcere perché hanno scontato la pena, ma continuano a collaborare con il teatro dei pupi antimafia. Anche grazie a loro metteremo in scena un nuovo spettacolo in un’importante kermesse culturale che si svolgerà a Udine a maggio”. La Spezia. Baracca & Burattini torna con l’album “Parole liberate” e i testi dei detenuti di Benedetto Marchese cittadellaspezia.com, 22 marzo 2022 La casa discografica sarzanese di Paolo Bedini pubblicherà il 1 aprile il lavoro realizzato con l’associazione di Ceparana e artisti come Yo Yo Mundi, Petra Magoni e Gianni Maroccolo. Al progetto hanno partecipato anche gli spezzini Nuovo Normale. È stato presentato nei giorni scorsi nella sala stampa della Camera dei deputati il progetto musicale “Parole liberate”, un disco prodotto dalla storica etichetta sarzanese Baracca & Burattini di Paolo Bedini, con quattordici brani scritti da detenuti di diversi carceri italiani. Tutto è nato due anni fa con l’associazione di promozione sociale “Parole liberate: oltre il muro del carcere” di Beverino che tra le varie iniziative proponeva proprio ai detenuti la scrittura di un testo che sarebbe poi stato interpretato da esponenti della canzone d’autore. Fra questi hanno aderito Andrea Chimenti & Gianni Maroccolo, Petra Magoni & Finaz, Yo Yo Mundi, Ambrogio Sparagna e gli esordienti spezzini Nuovo Normale con il brano “Sbagliato”. Singolo accompagnato da un video realizzato da Andrea Imberciadori e dedicato al Professor Bad Trip Gianluca Lerici che traccia una sorta di “caccia al tesoro” ambientata alla Spezia, fra luoghi iconici, noti o insoliti, dalla Stazione Centrale fino alle carceri di Via Fontevivo, dove il protagonista incontrerà finalmente la misteriosa “K” che ha lasciato gli indizi, per accompagnarla verso la libertà. L’album sarà disponibile dal 1 aprile, sia in formato digitale che fisico, con un’immagine di copertina di Oliviero Toscani il cui studio ha curato anche l’aspetto grafico. “Si tratta di un progetto musicale, culturale e politico presentato in un luogo per me inusuale” ha detto Paolo Bedini, storico organizzatore di eventi e scopritore fra gli altri dei Baustelle, che con la sua Baracca e Burattini torna così sulle scene anticipando una serie di nuove uscite fra cui quella degli stessi Nuovo Normale. Il prison drama come metafora delle paure d’Italia di Peppe Fiore Corriere del Mezzogiorno, 22 marzo 2022 La droga spacciata nelle carceri? Può accadere, come avvenuto nella realtà al carcere di Secondigliano. E come racconta, in una storia invece tutta di fantasia, “Il Re”, la nuova serie “prison drama” appena iniziata su Sky la scorsa settimana. E se al centro della fiction c’è il ruolo del controverso direttore Bruno Testori, interpretato da Luca Zingaretti, nella cronaca di ieri il direttore non c’entra assolutamente nulla. I magistrati accusano alcuni rappresentanti del corpo delle guardie carcerarie. Anche sul piccolo schermo entra così il fenomeno della vendita di stupefacenti fra detenuti. E fra le protagoniste degli otto episodi diretti da Giuseppe Gagliardi c’è Anna Bonaiuto, l’attrice friulano-partenopea famosa per film come “Morte di un matematico napoletano”, “L’amore molesto” o “Napoli velata”, qui nel ruolo del Pubblico Ministero Laura Lombardo, impegnata strenuamente a far luce sui tanti crimini presenti nel carcere San Michele. E se la trama della fiction è costruita sulle invenzioni degli sceneggiatori, i temi trattati risultano quanto mai attuali. “Non conosco i dettagli del caso di Secondigliano e quindi non posso entrare nel merito - spiega Anna Bonaiuto - ma questo ennesimo evento è la dimostrazione che la nostra è una finzione che coglie nel segno ispirandosi alla reale vita dei luoghi di detenzione. Pensate, avevamo girato scene di violenza sui detenuti ben prima che le immagini di Santa Maria Capua Vetere circolassero raccontandoci la verità, che il più delle volte, in tante altre carceri rimane assolutamente nascosta”. Ora tocca invece alla droga e al commercio che se ne fa a Secondigliano. “Sì, naturalmente la fiction ha una sua trama fantasiosa e dei personaggi inventati di sana pianta, ma ci meravigliamo forse del fatto che i luoghi di detenzione siano permeabili? C’è stato talvolta un passaggio di cose e informazioni fra chi è dentro e chi è fuori, anche nei regimi di maggiore restrizione come il 41 bis. E considerando che la sceneggiatura de “Il re” è stata scritta con grande attenzione da Stefano Bises, Peppe Fiore, Bernardo Pellegrini e Davide Serino, ecco che quanto si vede in tv finisce spesso col corrispondere evidentemente con la situazione effettiva delle carceri”. E per il suo ruolo c’è un magistrato in particolare a cui si è ispirata? “No, conosco tanti piemme integerrimi che fanno della propria attività il centro della loro vita, a ogni costo. Diciamo quindi che ci sono un po’ tutti loro in Laura Lombardo, una donna intelligente, cinica, scaltra, principale antagonista di Bruno, sempre aiutata dal suo secondo, l’Ispettore Pellegrini”. Ma la droga come esce fuori? “La serie è appena iniziata e non voglio spoilerare niente - conclude Anna Bonaiuto. Guardatela e scoprirete tutto, magari mettendo a confronto la cronaca con il nostro racconto”. Un team che ha riunito, oltre al sottoscritto che l’ha coordinato, Bernardo Pellegrini e Davide Serino, in una prima fase anche Massimo Reale, con la supervisione del guru della serialità nostrana Stefano Bises. Parlare di carcere in Italia significa confrontarsi con una ferita perennemente aperta, che tale è rimasta in tutte le fasi topiche della nostra storia recente. Dal terrorismo, alla guerra stato-mafia, all’emergenza pandemica: ogni movimento significativo della storia del paese ha avuto il suo precipitato carcerario. Sempre in chiave emergenziale. La prigione è un territorio ai margini del diritto, spesso confinato in una zona d’ombra dei poteri dello stato, difficilmente penetrabile, come dimostrano ogni anno con puntualità i rapporti Antigone. E se in quest’epoca storica di disintermediazione lo stato di salute di una democrazia si misura prima di tutto con lo stato di salute dei diritti umani, il carcere, dal suo cono d’ombra, ci racconta di noi molto più di quello che siamo disposti a vedere. Per queste ragioni quando, alla fine del 2017, Luca Zingaretti e Lorenzo Mieli ci hanno affidato la trasformazione di un’idea di Luca - un prison drama con un protagonista scisso, fatto più di ombre che di luce - in una serie articolata, la responsabilità era duplice: da una parte rendere appetibile per il pubblico televisivo un mondo tendenzialmente cupo e claustrofobico, dall’altra trattare con rispetto, cercando di storicizzare, un’arena così sensibile. Sapevamo di fare una serie tv, non un documentario, non un film di denuncia. In quel senso sapevamo di dover attingere a una serie di dispositivi di genere che, nelle lunghe fasi di scrittura, riscrittura e di messa a punto del soggetto, si sono andate precisando sempre di più verso il thriller e la spy story. Sapevamo pure di avere a disposizione una quantità di materiale narrativo reale, dirompente e rappresentativo del paese: vicende prese dalla cronaca, dalle testimonianze, dai testi di approfondimento - tutte potenziali portatori di conflitto e quindi di storia. Nella storia recente delle carceri non c’è solo Santa Maria Capua Vetere, non c’è solo la famigerata “cella zero” di Poggioreale (a cui pure ci siamo ispirati), non c’è solo lo spaccio tollerato - che ovviamente non nasce adesso Secondigliano. Ci sono le intersezioni con l’intelligence: il carcere come strumento di controllo delle faglie di conflitto carsiche della società. E c’è in vitro il conflitto che più di tutti ci identifica nel globalismo, quello dello scontro di civiltà. Proprio su questo aspetto abbiamo deciso di concentrarci per storicizzare il nostro S. Michele. Ci siamo ispirati alle Sezioni di Alta Sicurezza 2 (AS2), dove convergono i detenuti reclusi per reati di matrice islamica. Perché ci sembrava efficace per raccontare, attraverso la metafora della prigione, la paura che più di tutte anima noi occidentali: quella dell’altro, dell’estraneo, dello straniero. E perché, sul piano del racconto, ci offriva la possibilità di una battaglia millenaristica. Quella tra un uomo, Bruno Testori, che ha istituito tutta la sua vita sulla sua personale idea di giustizia. E che si trova per la prima volta a confronto con l’unica legge che può mettere in discussione la sua: la legge di Dio. Il Re è una riflessione sul potere e sull’ossessione. Sulla paura, che delle ossessioni si nutre. Da quando abbiamo iniziato quest’avventura lunghissima, cinque anni fa, il mondo è cambiato: abbiamo attraversato una pandemia che non si è ancora esaurita, e una guerra europea in corso. Crediamo che i temi e i conflitti di fondo che reggono questo racconto siano più che mai attuali. Adesso, la parola al pubblico. Non tutto è mercato: quando la Costituzione sta col terzo settore di Luca Gori ilsussidiario.net, 22 marzo 2022 Con una sentenza tanto importante quanto ignorata dai media, la Corte costituzionale è tornata nuovamente ad esprimersi sul Terzo settore. La Corte costituzionale è tornata nuovamente ad esprimersi sul Terzo settore, offrendone un inquadramento costituzionale. La sentenza n. 72/2022 (relatore Antonini) ha deciso la questione della legittimità costituzionale sulla limitazione alle sole organizzazioni di volontariato (Odv) di un contributo per l’acquisto di autoambulanze, autoveicoli per attività sanitarie e beni strumentali. A giudizio della Corte, la limitazione alle sole Odv è costituzionalmente legittima poiché essa costituisce una forma di supporto per quegli enti che si avvalgono prevalentemente dell’attività di volontari associati, operano a fronte del mero rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate e, in definitiva, rappresentano importanti attori della promozione dell’attività di volontariato. Afferma la Corte, infatti, che “(…) risulterebbe paradossale penalizzare proprio gli enti che strutturalmente sono caratterizzati in misura prevalente da volontari (…)”. Al di là del caso concreto, però, la sentenza, che ripercorre la giurisprudenza degli ultimi anni, dipinge un affresco estremamente interessante di quel “territorio di mezzo”, fra Stato e mercato, che oggi, in Italia, è definito dalla legge “settore”. Questo territorio, che è abitato da enti che perseguono finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale senza scopo di lucro e che svolgono attività di interesse generale, affonda le proprie radice direttamente in Costituzione. Non è una creazione estemporanea del legislatore. Scrive, infatti, la Corte che il Terzo settore è radicato in “una dimensione che attiene ai principi fondamentali della nostra Costituzione, in quanto espressione di un pluralismo sociale rivolto a perseguire la solidarietà che l’art. 2 Cost. pone ‘tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico’ (sentenza n. 75 del 1992) e a concorrere all’’eguaglianza sostanziale’ che consente lo sviluppo della personalità, cui si riferisce il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione (sentenza n. 500 del 1993)”. Quindi, la presenza storica del Terzo settore - che risale a ben prima della Carta fondamentale - è parte essenziale della forma di Stato, in quanto esprime un aspetto decisivo del nostro “vivere insieme” così per come la Costituzione lo ha immaginato e le nostre comunità lo hanno incarnato nel corso del tempo. Il principio di sussidiarietà rappresenta uno dei modi in cui la solidarietà si realizza: non tanto attraverso un intervento pubblico, verticale e direttivo, ma grazie all’esercizio libero della responsabilità, individuale e collettiva, di farsi carico, almeno in parte, di quel grandioso programma di trasformazione dell’esistente (la “rivoluzione promessa”, citando Calamandrei). Ecco, però, che lo sguardo si alza subito verso l’orizzonte europeo ove è in corso un significativo dibattito grazie alla pubblicazione dell’Action Plan sull’economia sociale. Sul piano nazionale, il patrimonio costituzionale rappresentato dall’esperienza del Terzo settore costituisce per la Corte un tratto identitario forte e, come tale, determina una sorta di “limite” costituzionale all’allargamento ed affermazione di una certa idea di concorrenzialità ad oltranza per e nel mercato anche per il Terzo settore al fine di poter “contrattare” con la Pa. È una idea che in Europa ha avuto qualche successo (anche se, per la verità, oggi è stata avviata una riflessione critica). Almeno negli ultimi due decenni, questa idea di “competizione” ha creato forti disagi al Terzo settore - più o meno percepiti, ma dagli effetti evidenti - che è stato schiacciato fra la vocazione all’innovazione ed alla collaborazione, da una parte, e l’irrigidimento delle norme sulla contrattualistica pubblica, dall’altro. La sentenza utilizza parole chiare, da questo punto di vista, riconoscendo che gli enti del Terzo settore, anche quelli imprenditoriali (come, ad es., le imprese sociali), devono considerati “di un ‘mercato qualificato’, quello della welfare society, distinto da quello che invece risponde al fine di lucro”. Ciò indica una traiettoria di policy molto importante, che punta a valorizzare la specificità di questi enti, contestandone - almeno così pare - la loro totale assimilazione a qualsiasi altro operatore di mercato. È evidente che, per altro verso, questo richiama gli enti del Terzo settore ad assumere sempre più pienamente la consapevolezza della delicatezza del loro ruolo: non semplici operatori di mercato o fornitori di servizi, appunto, ma collaboratori del pubblico nella tutela dei diritti delle persone nel sistema del welfare. All’interno di questo contesto, la sentenza segnala un altro dato, destinato a connotare la “lettura costituzionale” del Terzo settore ed a diventare la “cifra” di questa pronuncia: l’accento sul valore specifico del volontariato e sulle misure promozionali per quest’ultimo. Inserendosi nella scia della precedente giurisprudenza, la Corte ricorda che il volontario è persona “chiamata ad agire non per calcolo utilitaristico o per imposizione di un’autorità, ma per libera e spontanea espressione della profonda socialità che caratterizza la persona stessa”. Ma non si ferma qui: il volontariato non è un fenomeno individuale, privatistico, ma intrinsecamente relazionale (“all’origine dell’azione volontaria vi sia l’emergere della natura relazionale della persona umana che, nella ricerca di senso alla propria esistenza, si compie nell’apertura al bisogno dell’altro”) e, ancora di più, atto politico, poiché “il volontariato costituisce una modalità fondamentale di partecipazione civica e di formazione del capitale sociale delle istituzioni democratiche”. Pare quest’ultima una direttrice fondamentale, che valorizza la proiezione del Terzo settore e del volontariato verso la politica e le istituzioni del Terzo settore. La Corte intende richiamare le trasformazioni positive che si determinano, grazie all’attivismo civico, sulla rappresentanza politica, sulla funzione amministrativa, sulla fiscalità, ecc. Già nella sentenza n. 131/2020 si poteva leggere che gli enti di Terzo settore “costituiscono sul territorio una rete capillare di vicinanza e solidarietà, sensibile in tempo reale alle esigenze che provengono dal tessuto sociale, e sono quindi in grado di mettere a disposizione dell’ente pubblico sia preziosi dati informativi (…), sia un’importante capacità organizzativa e di intervento”. Una lezione importante quella che viene dalla Corte costituzionale, da tenere ben presente per il futuro del Paese, che corre spesso il rischio di affidare le proprie sorti ad un rigurgito statalista. A Buon Diritto: “L’emergenza ucraina sia occasione per rivedere le politiche d’accoglienza” di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 marzo 2022 Parla la direttrice Valentina Calderone. Sabato al Maxxi di Roma un evento per ripercorrere i vent’anni dell’associazione. “Nel 2010 abbiamo attivato lo sportello rivolto a richiedenti asilo e rifugiati e negli anni “A Buon Diritto Onlus” ha assistito oltre 5 mila persone provenienti da diverse aree del mondo”. Valentina Calderone, direttrice dell’Associazione “A Buon diritto”, in queste ore di grande attivismo per i profughi ucraini ricorda il lavoro svolto a favore di tutti i fuggiaschi da guerre, carestie e persecuzioni dall’organizzazione che sabato prossimo al Museo Maxxi di Roma festeggerà i suoi primi venti anni con un evento cui prenderanno parte artisti e personalità del mondo della cultura, attivisti e rappresentanti delle istituzioni. Il presidente Mattarella, quello della Camera Fico e la senatrice Liliana Segre parteciperanno con un messaggio scritto, mentre sul palco si alterneranno personalità come Valerio Mastandrea e Valentina Carnelutti, Jorit, Cinzia Leone, Makkox, Alessandro Bergonzoni, Sergio Staino, Ascanio Celestini e tanti altri che “daranno voce alle storie che hanno segnato il percorso dell’associazione fondata da Luigi Manconi”. Altri messaggi arriveranno “da Lucia Uva, sorella di Giuseppe Uva - deceduto in seguito a violenze e tortura da parte dei carabinieri che lo avevano arrestato - e Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi - diciottenne ucciso durante un controllo di polizia”. “Venti di diritti” è il titolo dell’happening che offrirà una carrellata sulle storie di uomini e donne i cui diritti sono stati violati, “nella convinzione che partendo dalle singole vite sia possibile dare voce ai diritti fondamentali dell’intera comunità”. “Nella maggior parte dei casi il supporto che forniamo - spiega ancora Valentina Calderone - riguarda la regolarità del soggiorno e l’accesso ai servizi sul territorio. Dal periodo dei grandi sbarchi alla relocation europea; dal decreto sicurezza - che ha abolito la protezione umanitaria - alla sanatoria del 2020: abbiamo monitorato per 12 anni le politiche di immigrazione del nostro Paese attraverso il nostro lavoro direttamente sul campo. In un periodo in cui si parla di rifugiati senza spaccature e contrapposizioni, pensiamo sia ancora più importante farsi portavoce di un ragionamento complessivo che riguardi chi scappa dal proprio Paese per trovare rifugio altrove”. “L’emergenza - conclude la direttrice di “A Buon Diritto” - che stiamo vivendo deve essere l’occasione per ripensare le politiche di accoglienza e il governo del fenomeno migratorio facendo sì che la vicinanza emotiva che sentiamo in questo momento si trasformi in pratica effettiva e strutturale nel nostro Paese e in Europa”. Luigi Manconi: “La sovranità è costitutiva dei diritti umani” di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 marzo 2022 “A Buon diritto” compie 20 anni. Parla il suo fondatore, Luigi Manconi: “La sinistra deve sempre avere il punto di vista delle vittime”. “Ci sono due forme di pacifismo. Quello profetico di Capitini e Balducci, e quello politico. Quando è necessario, il pacifista - di cui mi fido - interviene come sa e può per rendere inoffensivo l’aggressore”. “Come Alex Langer, credo nel sogno di un’Europa grande e accogliente che ponga come unica condizione per farne parte la condivisione delle idee e dei valori fondanti”. I venti anni di “A buon diritto”, l’associazione fondata da Luigi Manconi, cadono mentre si combatte un’altra guerra: il baratro di tutti i diritti civili, sociali e umani. Manconi, voi che avete sempre denunciato la violazione dei diritti in Russia, vi aspettavate un epilogo come questo? No, non l’invasione dell’Ucraina. Perché? Pensavate che la “democrazia incompiuta” russa non prevedesse anche guerre espansionistiche? Non credo si possa parlare di democrazia incompiuta, in Russia, ma di un regime dispotico retto da un autocrate dove il sistema politico non è ispirato a criteri democratici, perché non c’è divisione dei poteri, non c’è indipendenza della magistratura e soprattutto non c’è una rappresentanza politica libera e riconosciuta. Ma immaginavo - sbagliando, come quasi tutti - che l’equilibro dei rapporti di forza, le relazioni internazionali e la situazione di quella regione non portassero ad una precipitazione di tipo imperialista. Luigi Manconi Lei è stato tra i primi sostenitori dell’Europa, il cui sogno fondativo era quello di comprendere Paesi molto diversi proprio per evitare una nuova guerra nel cuore del continente. Col senno di poi, l’Europa avrebbe dovuto comprendere anche la Russia, o perlomeno allacciare più stretti rapporti con quella potenza, come sostiene su La Stampa Massimo Cacciari? Ho avuto la fortuna di essere amico personale di Alex Langer che univa a una visione profetica una straordinaria concretezza. Era un militante politico molto pragmatico e allo stesso tempo un visionario. Questa idea di un’Europa grande e accogliente l’ho imparata da lui. E sono sempre stato anche molto interessato alle idee di Emma Bonino su questo punto, anche quando mi sembravano irrealizzabili: l’ingresso in Europa della Turchia, di Israele e dell’ex Impero sovietico. Perché credo che sia il modo giusto di porre questo problema: indicare le condizioni attraverso le quali si può entrare a far parte dell’Unione europea, cioè in virtù dei principi dello stato di diritto, delle regole della democrazia e quindi attraverso una condivisione delle idee e dei valori fondanti dell’Europa. È stata l’occasione persa ai tempi di Gorbaciov ma in quei Paesi le condizioni non si sono realizzate e oggi prevalgono tendenze che allontanano dall’Europa. Lei è stato anche candidato presidente della Repubblica di Sinistra italiana, ma in alcuni suoi recenti articoli ha invece lamentato di non aver trovato al vostro fianco nelle battaglie per i diritti individuali e civili, una certa “sinistra autoritaria” che oggi si schiera contro l’invio delle armi agli ucraini. È crisi tra lei e la sinistra? No. Intanto io mi riferivo a tutti tranne che al manifesto che mi è stato compagno in quasi tutte le battaglie fatte. E in questi giorni ascolto Nicola Fratoianni usare parole molto mature. Registro invece un sentimento molto diffuso - e non solo sui social - che si esprime nella concentrazione sulla dimensione tutta geopolitica di questa vicenda, nella massima attenzione per l’ideologia delle zone di influenza, per la logica di potenza, e una ossessiva ricostruzione delle cause e delle concause degli accadimenti attuali. E in questo atteggiamento si tralascia ciò che per me è centrale: il punto di vista delle vittime, le quali rischiano di scomparire. Non solo vengono soverchiate dalla geopolitica ma a loro si chiede di arrendersi. E sono richieste che vengono da più soggetti e da più culture della sinistra. Ecco: questi due processi portano a un rovesciamento di ciò che chiama l’ermeneutica della sinistra. Che a mio avviso dovrebbe essere sempre il punto di vista delle vittime. Malgrado sia alla base dei diritti umani, civili, sociali, dell’autodeterminazione e della democrazia, quanto è dimenticata oggi la parola “libertà”? Molto. Per questo dico che chi combatte per mantenere la propria libertà e per la democrazia, sia pure da costruire, è un partigiano. Quella è resistenza. Il presidente ucraino Zelensky davanti al parlamento italiano molto probabilmente evocherà la nostra Resistenza. Sollevando critiche, come è accaduto in Israele quando ha parlato alla Knesset di “soluzione finale” messa in atto sul suo popolo. Siccome è vero che l’Olocausto non è solo lo sterminio di un popolo, non crede che sia sbagliato anche il paragone con la Resistenza? No, è un errore questo. Mi limito alle inequivocabili parole di Carlo Smuraglia: “Chi resiste all’invasione è un resistente”. Anche chi dice che in Ucraina non c’è la guerra civile e che gli alleati lì non sono formalmente in guerra, è in errore. La Resistenza in Europa ha avuto forme diverse: la resistenza dei greci contro le truppe italiane e tedesche e quella degli spagnoli contro il colpo di Stato di Franco. L’epopea letteraria della Spagna anti franchista si chiama non a caso “Romancero della resistenza”. Autodeterminazione, democrazia, libertà come si coniugano con quel tipo di pacifismo che prende le distanze sia da Putin che dall’Ucraina di Zelensky? Ci sono due forme di pacifismo. Uno profetico di cui tutti abbiamo bisogno, come quello di Aldo Capitini o quello descritto nel 1991 da padre Ernesto Balducci che in un confronto pubblico con me sosteneva “Siamo solo alla vigilia del pacifismo”, in costruzione come prospettiva di lungo periodo. Il pacifismo politico lo seguo e marcio con esso quando assiste le vittime delle guerre, aiuta i profughi, protegge le case, cura i feriti, si impegna nelle trattative, crea occasioni di comunicazione tra le due parti in conflitto. Ma poi quando l’aggressore punta il fucile su quel profugo, su quella donna o su quell’anziano, il pacifista sul quale ripongo la mia fiducia interviene come sa e come può per rendere inoffensivo l’aggressore. Con le armi ai combattenti? Si può anche mandare la polizia… Certo, allora mandiamo la polizia internazionale, che però deve essere armata. Attenzione però: rispetto chi dice che non se la sente di usare la violenza. Ma la pace a volte pretende l’uso della forza per fermare la guerra. Comunque ho sempre creduto che la resistenza con le armi debba sempre marciare insieme la resistenza nonviolenta. Il teologo Vito Mancuso ha paragonato l’autodeterminazione di chi decide di morire rifiutando una vita non più dignitosa per sé con l’autodeterminazione di chi decide di morire piuttosto che rinunciare alla libertà. Cosa ne pensa? Sono totalmente d’accordo. Il principio dell’autodeterminazione è costitutivo dell’intero sistema dei diritti, civili, sociali e politici. Diritti che nascono da un processo di auto consapevolezza e si esprimono come sovranità dell’individuo sul proprio corpo e della comunità sulle proprie scelte di autogoverno. È questa sovranità che fonda l’insieme dei diritti umani. Il Papa corregge Parolin: “La spesa per le armi è scandalosa, terribile” di Luca Kocci Il Manifesto, 22 marzo 2022 Papa Francesco torna a denunciare lo “scandalo” delle “spese per le armi”: è una scelta che “riporta tutto e tutti indietro”. Sono le parole che il pontefice ha pronunciato ieri, ricevendo in Vaticano i rappresentanti dell’organizzazione di volontariato “Ho avuto sete”. “Certe scelte non sono neutrali”, ha detto Bergoglio. “Destinare gran parte della spesa alle armi, vuol dire toglierla ad altro”, cioè “toglierla ancora una volta a chi manca del necessario”. A pochi giorni dall’approvazione a larga maggioranza da parte della Camera (contrari Alternativa, Europa Verde e Sinistra italiana) dell’odg proposto dalla Lega che impegna il governo a portare dall’1,5% al 2% del Pil le spese militari entro il 2024 (cioè da 25 a 38 miliardi di euro l’anno), il discorso del papa sembra rivolto anche ai parlamentari italiani. “Quanto si spende per le armi, terribile! - ha aggiunto Francesco, integrando il testo scritto -. Non so quale percentuale del Pil, non mi viene la cifra esatta, ma un’alta percentuale. Si spende nelle armi per fare le guerre, non solo questa, che è gravissima, che stiamo vivendo adesso, e noi la sentiamo di più perché è più vicina, ma in Africa, in Medio Oriente, in Asia, le guerre, continue”. Invece “bisogna creare la coscienza che continuare a spendere in armi sporca l’anima, sporca il cuore, sporca l’umanità. A che serve impegnarci tutti insieme, solennemente, a livello internazionale, nelle campagne contro la povertà, contro la fame, contro il degrado del pianeta, se poi ricadiamo nel vecchio vizio della guerra, nella vecchia strategia della potenza degli armamenti, che riporta tutto e tutti all’indietro? Sempre una guerra ti riporta all’indietro, sempre”. Dalle affermazioni di Bergoglio - peraltro non nuove - sembra differenziarsi quanto dichiarato pochi giorni fa dal segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, in un’intervista al settimanale cattolico spagnolo Vida Nueva. “Il diritto a difendere la propria vita, il proprio popolo e il proprio Paese comporta talvolta anche il triste ricorso alle armi”, ha detto Parolin, rispondendo a una domanda sull’invio di armi all’Ucraina da parte dell’Europa. “L’uso delle armi non è mai qualcosa di desiderabile, perché comporta sempre un rischio molto alto di togliere la vita alle persone o causare lesioni gravi e terribili danni materiali”, ha aggiunto il segretario di Stato vaticano, che quindi si è attestato sulle tradizionali posizioni della “guerra giusta” e del “diritto umanitario internazionale”, raccomandando a “entrambe le parti” di “astenersi dall’uso di armi proibite” e di “proteggere i civili”. Tuttavia, ha concluso, “sebbene gli aiuti militari all’Ucraina possano essere comprensibili, la ricerca di una soluzione negoziata, che metta a tacere le armi e prevenga un’escalation nucleare, resta una priorità”. Una piccola deviazione vaticana dalla linea del papa, finora attestata senza incertezze sul no alle armi. La Ue accelera sulla difesa comune, nel solco della Nato di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 22 marzo 2022 La “bussola strategia”. Il testo discusso ieri a Bruxelles dai ministri della Difesa e degli Esteri Ue dovrà essere approvata al Consiglio europeo di giovedì e venerdì, che si tiene dopo un vertice Nato, con la presenza di Joe Biden. Sul tavolo anche un nuovo pacchetto di sanzioni alla Russia, ma su petrolio e gas ci sono molte reticenze. Il ritorno della guerra in Europa spinge la Ue ad approvare una “bussola strategica” più determinata di quanto previsto, che “cambia paradigma” sugli orientamenti di sicurezza e di difesa della Ue di qui al 2030, “una parte della risposta” all’aggressione russa, per Mr.Pesc, Josep Borrel. Una quinta versione, dopo una prima stesura che risale al novembre 2021, è stata discussa ieri a Bruxelles dai ministri della Difesa e degli Esteri Ue: dovrà essere approvata al Consiglio europeo di giovedì e venerdì, che si tiene dopo un G7 e un vertice Nato, con la presenza di Joe Biden. I Ministri degli Esteri hanno anche discusso del nuovo pacchetto di sanzioni alla Russia, si allungherà la lista delle personalità russe colpite (ora sono 877), ma sul tavolo, anche se permangono molte reticenze, c’è anche l’embargo al petrolio di Mosca - la Commissione ha parlato di una riduzione di due terzi dell’import entro fine anno - che sarà esteso al gas, in caso di attacco con armi chimiche o di bombardamento su Kyiv. Inoltre, oggi la Commissione presenta una road map sulla strategia alimentare, con la costituzione di una “riserva di crisi” di 450 milioni per la stabilità dei prezzi, un “accordo-quadro” per permettere aiuti supplementari degli stati agli agricoltori e un approccio più flessibile, rispetto alla riforma della Pac (politica agricola comune) che dovrebbe entrare in vigore nel 2023, sui campi a riposo: in caso di crisi, potrebbe saltare l’obbligo per le aziende con più di 10 ettari, di mettere a riposo il 4% dei campi per favorire la biodiversità. “La guerra comporta rischi di carestia”, ha messo in guardia il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, che potrebbe in primo luogo travolgere i paesi del Nord Africa. La “bussola strategica” è stata rafforzata, per “difendere vigorosamente gli interessi” della Ue sulla scena mondiale, in particolare verso la Russia, che “minaccia direttamente e a lungo termine” la sicurezza Ue (sono citate la Georgia nel 2008, la Crimea nel 2014, il Donbass, e “altri teatri”, come Libia, Siria, Repubblica centrafricana, Mali, dove la Russia “si espande” ricorrendo ai mercenari di Wagner). La Ue deve investire “di più e meglio” in mezzi militari, dice il testo. L’Europa occidentale appoggia un sostegno accresciuto ai paesi dell’est. Alla riunione a Bruxelles, è intervenuto in video il ministro della Difesa ucraino, Oleksii Reznikov, a cui è stato assicurato che “di fronte all’aggressione militare russa, diamo prova di determinazione senza precedenti per ristabilire la pace in Europa, con i nostri partner e alleati”. Con Usa e Nato, ci sarà una “cooperazione più stretta e mutualmente benefica” e una “complementarietà”. Il testo della “Bussola strategica” estende esplicitamente l’impegno dell’articolo 42.7 dei Trattati Ue, sulla “solidarietà” e la “mutua assistenza” in caso di attacco (simile all’art.5 della Nato), anche ai paesi neutrali della Ue, Austria, Cipro, Malta, Finlandia, Irlanda, Svezia. Ieri sera, Emmanuel Macron ha incontrato il presidente finlandese, Sauli Niinistö, “riconosciuto per la sua conoscenza della Russia e per il suo ruolo nel mantenimento di un canale di dialogo con Mosca”, precisa l’Eliseo. Nel pomeriggio, c’è stato un Quint video (Usa, Gran Bretagna, Germania, Italia, Francia). La nuova versione della “Bussola” precisa la lotta agli attacchi cyber, alla disinformazione, alle strumentalizzazioni del dramma dei migranti. Il “cambiamento di paradigma” prevede “l’urgente necessità” di migliorare la “mobilità militare delle nostre forze armate all’interno e all’esterno della Ue” e di “rafforzare le infrastrutture di trasporto”. Non è stato invece ancora approvato il raddoppio del finanziamento all’Ucraina per l’acquisto di armi, da 500 milioni a un miliardo, di cui i 27 hanno parlato al vertice straordinario di Versailles, il 10-11 marzo (in Germania il parlamento deve approvare le decisioni importanti nel campo della difesa). Il 5 aprile ci sarà a Berlino una “conferenza dei donatori” per la Moldavia, il ministro degli Esteri Nicu Popescu ha partecipato al vertice a Bruxelles. La Francia stanzia altri 2,4 milioni di aiuti di emergenza all’Ucraina. L’est preme per maggiori sanzioni. La Polonia propone un “blocco commerciale” dei porti e degli scambi terrestri, la Lituania per la fine dell’import di petrolio, l’Irlanda appoggia. Per la ministra tedesca, Annalena Baerbock, “andiamo gradualmente, a velocità accelerata, verso la liberazione dalla dipendenza dalla Russia per le energie fossili”. E parla di 8-10 milioni di rifugiati da accogliere. Guerra in Ucraina, l’Onu: “Gli sfollati sono già 10 milioni”. Un terzo in Europa di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 22 marzo 2022 In fuga soprattutto donne e bambini. Berlino: “Potrebbero raddoppiare”. Il futuro sta abbandonando l’Ucraina in treno o in macchina, attraversa campi profughi e rifugi per gli sfollati, trova riparo da parenti in Germania, in Moldavia, in Polonia. La guerra di Putin ha già costretto dieci milioni di ucraini ad abbandonare le loro case, una crisi “senza precedenti” secondo l’Unchr: quasi un quarto della popolazione. Ma la percentuale ancora più sconvolgente, sempre secondo l’agenzia dell’Onu, è che il 90% sono donne e bambini. L’Ucraina rischia di restare senza un orizzonte, scippata del suo futuro. Reduce dal campo di accoglienza di Stalowa Wola, alla frontiera tra Polonia e Ucraina, il fondatore di Telefono Azzurro Ernesto Caffo è convinto che quella ucraina sia “la tragedia della parte più vulnerabile della società”. La Polonia ha già assorbito due dei 3,5 milioni di profughi che hanno lasciato il Paese pe entrare in Europa. Ma se la guerra continua, secondo la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock, i rifugiati nella Ue potrebbero diventare otto milioni. E Caffo puntualizza che sono “soprattutto bambini piccoli quelli che stanno scappando: hanno cinque, sei, dieci anni. Con le madri ma anche senza. Mentre gli adolescenti restano più spesso indietro, con i padri”. Caffo avverte che “miriadi di bambini sono in fuga da soli - e non solo perché sono rimasti orfani. Molti genitori li portano a Leopoli o in Polonia e poi tornano in Ucraina a combattere, a resistere”. E tanti minori sono “traumatizzati, non riescono neanche a giocare, hanno lo sguardo perso nel vuoto. L’Europa deve impegnarsi seriamente a sostenerli, anche psicologicamente”. Ieri la Commissaria Ue Yilva Johansson ha lanciato anche l’allarme sul rischio che le donne e i bambini in fuga finiscano vittime di sfruttamento e “traffico di esseri umani”. Un allarme analogo è arrivato dall’Unhcr. E in Germania la polizia ha intensificato nelle settimane scorse i controlli alle stazioni e nei centri di accoglienza dopo che erano emersi numerosi casi di donne avvicinate da criminali che volevano trascinarle in giri di prostituzione. Ma di quei dieci milioni di sfollati registrati dall’Unhcr, sei milioni e mezzo non hanno ancora lasciato il Paese. E chi li incontra tutti i giorni sa che in tanti sperano di non dover mai varcare la frontiera. “Molte donne e bambini fuggono soprattutto dalle zone al sud e a est, quelle più bombardate, quando non vedono altra possibilità. Ma cercano di resistere il più possibile. Anche perché lasciano indietro i loro mariti, i loro padri. E quando si spostano, restano per un po’ nella parte orientale dell’Ucraina, come a Leopoli, nella speranza di tornare a casa” ci racconta Richard Weir di Human Rights Watch. Weir è arrivato il 23 febbraio a Kiev e da allora è incessantemente in giro l’Ucraina per monitorare i flussi degli sfollati. Uno di essi, uno dei rari uomini scappati insieme al grande esodo di donne e bambini, è Petro Poltariev, un elegante signore in capotto grigio che incontriamo a un centro di accoglienza di Leopoli. “Sono un musicista e ho dovuto chiudere la mia scuola di jazz di Kiev. Adesso è diventato un rifugio anti-bomba. Ma quando la guerra finirà, tornerò a casa. I miei studenti mi aspettano”. Tuttavia, c’è un’altra mina pronta a esplodere. La scorsa settimana l’Unhcr aveva fatto sapere che circa dodici milioni di ucraini si trovano ancora nelle zone più bombardate dai russi, e che in queste aree il bisogno di aiuti umanitari “sta crescendo esponenzialmente”. In altre parole, altri milioni di ucraini sono ancora intrappolati nelle città e regioni presidiate dalle truppe di Putin, e “incapaci di garantirsi necessità minime come cibo, acqua e medicine”, secondo l’agenzia Onu. Anche loro potrebbero ingrossare i flussi dei rifugiati. C’è una differenza essenziale, però, rispetto alla crisi dei profughi del 2015, quando in Europa arrivarono soprattutto uomini, avanguardie di un movimento migratorio che, fuggendo dalle guerre in Medio Oriente, vedeva il suo futuro altrove. La crisi dell’Ucraina, al contrario, è una crisi di famiglie spezzate, di uomini che non possono lasciare il Paese. E delle loro donne e ai loro figli costretti a abbandonarli, a lasciare le loro case, e che hanno dunque la ferma intenzione di tornarci. Anche Evgenia Basalajeva si considera “temporaneamente” a Leopoli. “Io amo Kiev, voglio tornarci appena possibile”, ci racconta. Basalajeva è una pianista e insegna al conservatorio di Kiev. Ed è innamorata dell’Italia. Anche per motivi patriottici. “Il giorno che vinsi un concorso di musica da camera a Caltanissetta, nel 1991, l’Ucraina divenne uno Stato indipendente. Come faccio ad abbandonarlo?”. Russia. Navalny colpevole di “frode su vasta scala”: rischia fino a 13 anni di carcere di Ida Artiaco fanpage.it, 22 marzo 2022 Alexey Navalny, uno dei principali oppositori di Putin, è stato dichiarato colpevole in Russia per frode su vasta scala. La condanna non è ancora stata annunciata ma rischia fino a 13 anni di reclusione. Alexey Navalny colpevole per frode su vasta scala in Russia. La condanna a uno dei principali oppositori di Putin, e a uno dei più attivi oppositori della guerra della Russia contro l’Ucraina, non è ancora stata annunciata, ma rischia fino a 13 anni di carcere. L’udienza si è tenuta nel carcere di Pokrov, a pochi chilometri da Mosca, dove l’uomo è detenuto da circa un anno. Navalny stava già scontando una condanna a due anni e mezzo per violazione della libertà vigilata relative ad accuse che secondo lui sono state inventate per contrastare le sue ambizioni politiche. “Navalny ha commesso una appropriazione indebita, ovvero il furto di proprietà altrui da parte di un gruppo organizzato”, ha detto il giudice Margarita Kotova, secondo quanto riporta una giornalista dell’agenzia di stampa Afp presente sul posto. Ma, si legge in un tweet ricondiviso dallo stesso Navalny, “è difficile distinguere le sue parole non solo perché legge molto velocemente, ma anche per la qualità della trasmissione. Lo stesso Navalny, non ascoltando il giudice, legge alcuni giornali”. Solo ieri, il team che lavora con Navalny, che in passato era stato anche oggetto di un avvelenamento da parte dei servizi segreti russi, aveva annunciato la conclusione di una inchiesta giornalistica sulle proprietà di Putin, nel corso della quale si è stabilito, tra l’altro, che uno yacht attualmente a Marina di Carrara, lo Scheherazade, dal valore di 700 milioni di euro appartiene al presidente russo. L’imbarcazione attualmente è intestata alla compagnia Bielot Asset Ltd, con sede alle isole Marshall. Ma un video pubblicato su Youtube da Marina Pevchikh e Georgi Alburov, due stretti collaboratori di Navalny, mette una serie di indizi che portano tutti allo zar. Turchia. La Corte conferma la detenzione di Osman Kavala La Repubblica, 22 marzo 2022 L’attivista per i diritti umani rimane in carcere accusato di essere la mente dietro le proteste di Gezi Park e di aver avuto un ruolo nel tentato golpe del 2016. Si è conclusa con un niente di fatto la quinta udienza del processo per le proteste di Gezi Park, una corte di Istanbul ha infatti confermato la detenzione del filantropo Osman Kavala, in carcere da 1.604 giorni. Kavala, 64 anni, è accusato di tentata eversione dell’ordine costituzionale per gli scontri avvenuti al Gezi Park di Istanbul nel 2013 e rischia l’ergastolo. Lo scorso 10 dicembre la stessa Corte aveva respinto il ricorso presentato dagli avvocati di Kavala, che chiedevano la liberazione del filantropo, in ottemperanza a una sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo. La Corte con sede a Strasburgo il 2 dicembre scorso aveva a sua volta avviato una procedura di infrazione a carico della Turchia, dopo che Ankara per un anno non ha rispettato l’ordine di scarcerazione emesso dalla stessa Corte. L’“affaire Kavala” ha rischiato di creare una crisi internazionale quando il filantropo turco ha ricevuto il sostegno degli ambasciatori di Stati Uniti, Francia, Germania, Olanda, Canada, Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca e Nuova Zelanda che avevano lanciato un appello congiunto per far valere la sentenza della Corte europea dei diritti umani che dichiarava l’“illegittimità” della misura detentiva. La risposta del presidente Erdogan all’appello è stata una dichiarazione di “persona non grata” rivolta ai diplomatici, che è suonata come possibile anticamera di una probabile espulsione. La crisi è rientrata solo dopo che gli ambasciatori hanno garantito di non voler interferire negli affari interni della Turchia. L’attivista per i diritti umani è incarcerato da quattro anni, dopo essere stato arrestato all’aeroporto di Istanbul al ritorno da un viaggio nel sudest a maggioranza curda della Turchia, dove curava progetti legati alla difesa delle minoranze e dei diritti umani. La prossima udienza del processo è fissata il prossimo 22 aprile, fino ad allora Kavala dovrà restare in carcere. Dal 2017 si trova nella prigione di Silivri, in provincia di Istanbul, con una doppia accusa: quella di aver finanziato proteste antigovernative nel 2013 a Gezi Park (Istanbul) e anche quella di aver avuto un ruolo nel tentato golpe del 2016. Kavala ha sempre negato le accuse che se confermate comporterebbero l’ergastolo, senza possibilità di libertà condizionale. Uomo d’affari e attivista Osman Kavala è considerato da Amnesty International un perseguitato politico. Nato a Parigi nel 1957, Kavala è promotore di importanti progetti culturali e attivista per i diritti umani. Tra le numerose attività, è fondatore e presidente del consiglio di amministrazione di Anadolu Kültür, organizzazione culturale e artistica senza scopo di lucro con sede a Istanbul. Il suo impegno ha radici negli studi giovanili, tra Ankara, dove ha studiato management, e Manchester, nel Regno Unito, dove si è specializzato in economia. Ha mosso i suoi primi passi nel mondo dell’editoria: ha fondato diverse case editrici, tra cui Ana Publishing con Nazar Büyüm ve Selahattin Beyazit. Il suo attivismo nella società civile inizia a metà degli anni Ottanta, interessandosi di ambiente, e va avanti negli anni Novanta con la creazione di diverse Ong. Erdogan gli rimprovera, tra l’altro la vicinanza a George Soros, perché Kavala era stato tra i fondatori in Turchia della Open Society Foundation, una rete internazionale di donazione creata dal miliardario ungherese-americano. Iran. Nazanin Zaghari-Ratcliffe, rilasciata: troppi 6 anni per la libertà rainews.it, 22 marzo 2022 La cittadina con nazionalità britannica e iraniana detenuta in Iran dal 2016 critica il governo Gb e chiede il rilascio di tutti coloro che sono “ingiustamente detenuti” in Iran. Nazanin Zaghari-Ratcliffe, la cittadina irano-britannica rilasciata dopo 6 anni di detenzione a Teheran, rimpatriata la settimana scorsa nel Regno Unito con un connazionale e infine riunitasi al marito Richard e alla figlioletta, ha accusato oggi i governi Tory di Londra succedutisi in questo periodo di aver lasciato passare troppo tempo per ottenere la sua liberazione. “Quanti ministri degli Esteri ci sono voluti?”, si è chiesta nella prima conferenza stampa dopo il ritorno, aggiungendo che la questione si sarebbe dovuta chiudere “sei anni fa” o comunque prima. Zahgari-Ratcliffe, con al fianco il marito Richard e la deputata laburista Tulip Siddiq, eletta nel suo collegio e sempre al fianco della famiglia in questi anni, ha poi rivolto un appello per il ritorno a casa anche di chi ancora “è ingiustamente detenuto” in Iran, mentre ha ringraziato i media britannici per aver tenuta viva l’attenzione sulla sua odissea; ma soprattutto Richard per essere stato “uno straordinario, meraviglioso marito” e aver condotto una campagna “senza risparmio” per la sua liberazione; e la figlia Gabriella, 7anni, per essere stati “tanto paziente nell’aspettare la mamma”. Nel 2016 Zaghari-Ratcliffe, che all’epoca lavorava per una ong impegnata a formare giornalisti e blogger in Iran, era stata condannata a cinque anni di carcere con l’accusa di aver “cospirato contro il governo iraniano”. Nel marzo del 2021 aveva finito di scontare la pena agli arresti domiciliari ma, una settimana dopo la rimozione del braccialetto elettronico era stata nuovamente convocata da un tribunale iraniano con l’accusa di aver preso parte a una protesta antigovernativa 12 anni prima. Per questo motivo era stata condannata a un altro anno di carcere. Negli ultimi giorni una delegazione britannica si era recata in Iran per discutere della liberazione di Zaghari-Ratcliffe, e domenica le era stato restituito il passaporto, circostanza che aveva fatto pensare che la sua liberazione fosse imminente. Al momento non è chiaro se la liberazione sia avvenuta per la scadenza dei termini della pena o se in seguito a un accordo tra Regno Unito e Iran.