Renoldi a capo del Dap, la scelta di Cartabia che “scommette” sui detenuti di Corrado Limentani ilsussidiario.net, 21 marzo 2022 Carlo Renoldi, già magistrato di sorveglianza a Cagliari, è stato nominato capo del Dap. Una nomina anomala, che scommette sulla Costituzione e sui detenuti. La scelta operata dal ministro della Giustizia Marta Cartabia è stata fino all’ultimo osteggiata da Lega e 5 Stelle (peraltro, alla fine, anche i due partiti contrari alla nomina, in Consiglio dei ministri, hanno, obtorto collo votato a favore), oltre che da alcuni organi di stampa (Il Fatto Quotidiano) che ritenevano sarebbe stato opportuno nominare a capo dell’ufficio che si occupa delle carceri un pubblico ministero, come quasi sempre accaduto, e possibilmente del pool antimafia, onde favorire il mantenimento dell’ordine e della sicurezza. Le preoccupazioni di chi ha osteggiato questa nomina sono infondate ed erano dettate, come vedremo, solo da un pervicace e ingiustificato spirito giustizialista. Ma procediamo con ordine. Il Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, si occupa, in particolare, della gestione del personale penitenziario, delle risorse materiali (a cominciare dagli istituti di pena) e soprattutto della gestione dei detenuti e dell’esecuzione penale esterna dei detenuti (i condannati ammessi alle misure alternative). Non è vero, come si è detto da parte di qualcuno, che chiunque può essere nominato al vertice del Dap. La legge 15 dicembre 1990 n. 395 prevede che debba essere nominato o un magistrato (con una certa anzianità di servizio) o un dirigente generale della Pubblica amministrazione. Fino ad oggi il Governo aveva quasi sempre nominato la guida del Dap (nove volte su dieci nelle nomine degli ultimi vent’anni) scegliendo tra procuratori della Repubblica (a volte antimafia) o procuratori generali. L’ufficio dei procuratori ha come compito istituzionale quello di svolgere le indagini, individuare gli autori dei reati ed assicurarli alla giustizia, preoccupandosi che scontino le pene loro inflitte. Nominare un pubblico ministero a capo dell’ufficio che si occupa delle carceri ha, quindi, un significato preciso e cioè privilegiare un malinteso intento di garantire la sicurezza, sicurezza sociale e sicurezza nelle carceri. Fino ad oggi i risultati conseguiti non sono stati quelli sperati (certamente non solo per colpa del Dap): sovraffollamento carcerario, sottodimensionamento del numero degli educatori ed assistenti sociali), episodi di protesta anche violenta negli istituti, aumento dei suicidi, i gravi fatti di violenza posti in essere da agenti di polizia penitenziaria a Santa Maria Capua Vetere. Perché invece è illuminata la scelta del ministro della Giustizia di proporre a capo del Dap la nomina non di un pm, ma di un magistrato di sorveglianza (prima di essere applicato alla Corte di Cassazione, Renoldi è stato a lungo al Tribunale di Sorveglianza di Cagliari)? Chi è e di cosa si occupa il magistrato di sorveglianza? Vigila sull’organizzazione degli istituti effettuando ispezioni e colloqui col personale e detenuti, assume informazioni sullo svolgimento dei vari servizi e verifica che l’esecuzione della custodia dei detenuti sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti. Ma il compito più importante riservato a questi giudici è quello di sovrintendere sul percorso rieducativo e riabilitativo dei condannati, decidendo se e quando concedere (e se del caso revocare) i benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, verificando periodicamente, con l’ausilio di assistenti sociali, educatori e criminologi, l’andamento del percorso in atto e regolando la fuoriuscita del condannato dal circuito penitenziario e il suo progressivo rientro nel contesto sociale. Il tutto bilanciando due fondamentali principi: la tutela della sicurezza pubblica e la necessità di garantire ai detenuti la possibilità di redenzione e rientro nel tessuto sociale. Il magistrato di sorveglianza, in sintesi, è quel giudice che sovrintende alla concreta e corretta applicazione dell’art. 27 della Costituzione secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Pertanto la scelta della Guardasigilli di insediare, al vertice del Dap, anziché un pubblico ministero un magistrato di sorveglianza, e cioè un professionista che conosce in profondità e meglio di chiunque altro la realtà carceraria, sembra essere corretta e lungimirante anche perché è stato nominata una personalità di grande esperienza, che per 10 anni è stato a contatto col mondo carcerario e da ultimo era approdato alla Corte di Cassazione, dove si è ancora occupato di delicate questioni giuridiche attinenti proprio l’esatta applicazione dell’ordinamento penitenziario. La speranza è che vengano ora approvate in tempi rapidi anche le norme che aggiornano e migliorano il regolamento penitenziario secondo le proposte avanzate dall’apposita commissione ministeriale che ha da poco terminato i propri lavori. Insomma, le prospettive che finalmente qualcosa possa cambiare nel mondo carcerario sono buone. Il carcere nella società di Franco Mirabelli* francomirabelli.it, 21 marzo 2022 Intervento svolto all’Agorà Democratica “Il carcere nella società. Il ruolo delle istituzioni pubbliche e della società civile per una pena rispettosa della Costituzione” a Torino. Questo è un primo appuntamento. Abbiamo molte questioni da affrontare. Voglio fare alcune riflessioni, a partire dagli auguri di buon lavoro al Dottor Renoldi, nuovo Direttore del DAP, che ha di fronte a sé un incarico molto complicato. Non chiediamo al DAP, alle istituzioni e alla Ministra della Giustizia una gestione ordinaria in questa fase, nella convinzione che il carcere abbia bisogno di cambiamenti molto significativi nelle strutture e in tante delle sue modalità. Credo che il Dottor Renoldi possa svolgere bene quell’incarico: ha la nostra fiducia; la sua attenzione ai principi costituzionali gli consentirà di governare il DAP mettendo al centro gli obiettivi di rieducazione e reinserimento per chi deve espiare la pena. Dobbiamo chiudere definitivamente la fase in cui, nel nostro dibattito sul carcere e sulle pene, hanno avuto la cittadinanza frasi come quelle per cui bisogna buttare via le chiavi quando si finisce in carcere perché si compie un reato. Dopo le polemiche insensate di queste settimane in cui, anche nelle Commissioni parlamentari, si è cercato di contrapporre l’interesse degli agenti a quelli dei detenuti, credo che si debba aprire una fase in cui tutte le istituzioni lavorino per aiutare a risolvere i problemi drammatici che ci sono nel carcere, nel rispetto della Costituzione. È interesse di tutti fare questo sforzo e unire le istituzioni per migliorare la vita nelle carceri. Se migliora la vita nelle carceri, migliora per tutti, sia per chi ci lavora che per i detenuti: non c’è una parte che deve prevalere sull’altra. Non è possibile creare le condizioni per un carcere che svolga la propria funzione in modo migliore se si contrappongono la sicurezza e la necessità di mettere in campo tante forme che garantiscano la rieducazione e l’inserimento. Il tema dell’Agorà è importante, guardando anche a ciò che è successo a Torino e in Campania. Per migliorare il carcere servono molte cose, a partire dal migliorare le strutture. Per questo, credo che sia importante il lavoro che ha fatto Andrea Giorgis, che ha consentito di destinare una parte delle risorse previste dal PNRR al miglioramento e all’ampliamento di alcune strutture carcerarie, non tanto per aumentare i posti di detenzione ma per aumentare in maniera significativa gli spazi per il trattamento, per il lavoro e per la formazione. Sicuramente ci sono da fare molti interventi sul carcere. Credo, però, che ci sia anche nelle vicende negative che ci sono state in questi anni un punto su cui occorre riflettere. Il carcere non può essere isolato dal territorio: dobbiamo guardare al carcere come ad un quartiere delle nostre città e parte dei nostri territori. Questo è un punto decisivo perché può rafforzare il percorso trattamentale, le occasioni di incontro, di formazione e di lavoro ma anche perché può aumentare la percezione positiva del carcere e la sicurezza di tutti. Credo che serva l’impegno di tutte le istituzioni: non può essere delegato tutto alla struttura carceraria e al Dap. Per i problemi che riguardano la salute, soprattutto quella psichiatrica, all’interno del carcere serve una collaborazione diversa rispetto a quella che c’è in molte realtà con le strutture sanitarie del territorio. Ci sono esperienze importanti da questo punto di vista. Siamo ancora dentro ad un’emergenza sanitaria. In questi anni di pandemia abbiamo fatto di tutto per introdurre normative che intervenissero per ridurre la sovrappopolazione carceraria. Avremmo voluto fare di più. In questi anni, la comunicazione con l’esterno si è ridotta anche con i familiari, molti spazi di formazione e di lavoro si sono ridotti o addirittura sono stati annullati e, quindi, c’è da riprendere tutto per uscire da questa situazione emergenziale e per arrivare a fare meglio di come era prima. L’emergenza lascia comunque un segno. Da tempo stiamo lavorando affinché, ai detenuti che sono stati in carcere in questi due anni, si riconosca che hanno vissuto condizioni difficili, senza poter comunicare con l’esterno, avendo pochissime opportunità formative e di lavoro. Credo che almeno per questi due anni, aumentare lo sconto di pena da 45 giorni a 65 giorni per la scarcerazione anticipata, sia un fatto doveroso. Abbiamo presentato un emendamento su questo tema, non siamo riusciti a farlo passare ma insisteremo perché credo che sia un principio fondamentale il riconoscere la fatica che è stata fatta anche dai detenuti. Bisogna anche accelerare l’apertura di una fase nuova, prendendo atto che quell’esperienza che abbiamo messo in campo, come la possibilità per chi aveva i permessi premio di stare fuori o la possibilità per chi ancora ha 18 mesi da scontare di stare agli arresti domiciliari, non ha prodotto nulla di grave ma, anzi, quei provvedimenti hanno dimostrato che, se gestiti in maniera intelligente, possono produrre più sicurezza alle nostre città, non meno, perché gli indici di recidività di chi ha fatto quelle esperienze sono davvero bassissimi. Quella è la strada giusta, dunque. Il carcere non deve essere l’unica ratio, anche perché così com’è, lo abbiamo visto a Torino e a Santa Maria Capua Vetere, può diventare un generatore di violenza e di recidività. Dobbiamo sapere che la strada da percorrere deve essere un’altra: quella della formazione, della socialità, del lavoro. Tutto questo si può fare soltanto se da fuori dal carcere arriva un impegno forte, come in molte realtà c’è ma non possono essere solo realtà episodiche: serve che da queste buone pratiche si parta per modificare la legge e andare in questa direzione. *Senatore del Partito democratico Ingiusta detenzione: numeri drammatici e necessità di plurimi interventi di Carlo Casini* studiocataldi.it, 21 marzo 2022 Oltre 40 milioni di risarcimenti pagati solo nel 2020, si stimano 30.000 innocenti in carcere negli ultimi 30 anni. Con la nota pervenuta dal deputato di Azione Enrico Costa, grazie anche al lavoro dell’associazione errori giudiziari si evince un quadro drammatico relativo all’ingiusta detenzione: circa 46 milioni di euro pagati nel 2020, circa 30.000 innocenti finiti in carcere negli ultimi 30 anni, con oltre 800 milioni di euro pagati dallo Stato italiano. I distretti con il maggior numero di ingiuste carcerazioni rilevate risultano essere Napoli, Reggio Calabria, Roma e Palermo. I tre distretti summenzionati, superano i 15 milioni di euro complessivamente sommati pagati per ingiuste detenzioni. La situazione non può dirsi omogenea in tutto il territorio nazionale esistendo casi di distretti sul punto più virtuosi e altri come quelli riportati sopra che addirittura sono “da record”. A ciò si aggiunga, l’odiosa prassi secondo la quale è necessario attendere molti anni per l’innocente finito ingiustamente in carcere al fine di vedersi definitivamente riconosciuto il diritto al risarcimento. Il periodo medio di attesa si attesta intorno ai dieci anni almeno sulla base dei casi osservati precedentemente alla stesura del presente articolo. Anche volendo disattendere il merito dei dati proposti, il problema esiste, è concreto e deve essere fatto tutto il possibile per risolverlo. Un problema connesso all’ingiusta detenzione e che lo scrivente ha già avuto modo di sottolineare, è quello relativo alla responsabilità dei magistrati, che non pagano dei loro sbagli al pari di qualsiasi altro soggetto del nostro ordinamento ma, al loro posto, in pratica, è lo Stato a pagare. Inoltre, in base all’art. 15 della L. n. 47 del 2015 il Governo è tenuto a presentare ogni anno al Parlamento una relazione contenente dati e informazioni sulle misure cautelare distinte per tipologia, adottate nel corso dell’anno precedente. Con la legge n. 103 del 2017 si è specificato poi che il Governo debba anche comunicare i dati relativi alle sentenze riconoscitive del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione nonché dei dati relativi ai procedimenti disciplinari avviati nei confronti dei magistrati coinvolti nelle ingiuste detenzioni, con, perfino, indicazione dell’esito del procedimento dove concluso. Ebbene, saremmo stati tutti molto curiosi di leggere questa relazione ma, purtroppo non è ancora pervenuta nonostante doveva essere presentata da oltre un mese e mezzo. Sconforta vedere che già l’anno scorso fu depositata a maggio e l’anno prima ad aprile. È ancora più sconfortante questo dato se si valorizza l’eterogeneità delle forze politiche che si sono avvicendate al Governo negli ultimi tre anni. Come si può auspicare una risoluzione del problema se l’impegno profuso e l’attenzione prestata sono, nei fatti, così esigue? Necessario intervenire ma come? A parere di chi scrive è necessario un intervento sulla questione prospettata. Il come è forse il problema più grande, probabilmente, a monte, c’è bisogno di cambiare proprio impostazione filosofica-dogmatica sul carcere. La rieducazione del detenuto oramai rappresenta un mero miraggio, mentre, l’idea retributiva della giustizia ha rappresentato fin dall’origine una tesi fallace. Pertanto, è bene iniziare il percorso di riforma dalle basi: la visione del carcere è necessario che cambi e che si adegui ai tempi che stiamo vivendo. E’ ovvio che è impossibile teorizzare una assolutamente società priva di reclusi ma è giusto anche destinare alla carcerazione solo coloro che commettono reati gravi. Anche lo status di detenuto deve mutare e volgere verso percorsi di concreta rieducazione e lavoro. Inoltre, come già ho avuto modo di scrivere, bisogna anche prendere decisioni importanti sulla responsabilità dei magistrati. Solo alla fine di questo percorso (che se affrontato con serietà e decisione, può richiedere già di per sé molti anni) si potrà procedere alla riforma della carcerazione preventiva. È un cammino tortuoso quello che ci aspetta se vogliamo trovare una soluzione al problema della carcerazione preventiva, ma pure la democrazia, non si è costruita in un giorno. E’ bene comprendere che, talvolta, a grandi obbiettivi corrispondono grandi responsabilità e oneri. Ogni volta che professionalmente mi imbatto in un innocente finito in carcere mi stride l’anima e penso quanto ancora siamo lontani dalla Giustizia. Per carità, lungi da me teorizzare una società giuridica e giudiziaria priva di errori, perché è mera utopia, ma una società che miri a migliorarsi, facendo pagare chi sbaglia (da tutti i lati dell’aula) è quanto di migliore possiamo chiedere al futuro ed augurarci. *Avvocato in Roma Csm, il punto sulla riforma in commissione Giustizia di Valentina Pigliautile publicpolicy.it, 21 marzo 2022 La riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario rimane ferma in commissione Giustizia alla Camera dove, due settimane fa, i deputati hanno depositato 456 subemendamenti all’emendamento del Governo. 60 la Lega, 68 Azione, 52 FI, 45 FdI, 38 M5s, 27 Pd e poco meno di 100 il gruppo Misto. I sub in questione si aggiungevano a quelli presentati per l’originario ddl Bonafede, per un totale di 700 emendamenti. Nel corso dell’ufficio di presidenza di lunedì, il presidente della II commissione Mario Perantoni (M5s) ha sottolineato la necessità di ridurre il numero. Con le segnalazioni da parte dei gruppi, martedì scorso, il numero è dunque sceso a 250. Per questi emendamenti, come spiegato dallo stesso Perantoni, si è seguita una suddivisione che non penalizzasse i gruppi minori o l’opposizione. Ad esempio, nel computo degli emendamenti, Alternativa non è stata inclusa nel Misto, mentre a FdI è stata data la possibilità di indicare altri 13 emendamenti, oltre ai 12 inizialmente previsti. Prima che l’esame del provvedimento entri nel vivo, si attende ora l’arrivo dei pareri del Governo. Perantoni non nasconde che “si tratta di un provvedimento complesso e che molti tra i 250 emendamenti presentati dai gruppi confliggono con il testo licenziato da Palazzo Chigi”; tuttavia, ha ribadito la priorità di valorizzare il dibattito parlamentare, per cui si prenderà “il tempo necessario”. Alcuni parlamentari, come Enrico Costa di Azione, avanzano già la possibilità che i termini per l’approdo in aula del provvedimento possano essere più lunghi del previsto: “Il 28 marzo - afferma Costa - la riforma del Csm dovrebbe essere incardinata nell’aula della Camera. Ci chiediamo come sarà possibile rispettare questa data dopo l’ennesimo slittamento. Pare - ha aggiunto - che il Governo si sia preso un’ulteriore settimana di tempo per esprimere i pareri sui subemendamenti, i cui contenuti giacevano in forma di emendamento da nove mesi in commissione”. I nodi da sciogliere, su cui i deputati hanno presentati i loro emendamenti, riguardano principalmente il sistema elettorale per il Csm, le modalità di accesso agli incarichi direttivi e semidirettivi, le pagelle alle toghe e lo stop alle porte girevoli. In molti casi, si è tornati anche a parlare di sorteggio: FI ha rilanciato, per eleggere il Csm, l’ipotesi del ritorno del sorteggio temperato mentre il M5s, con un emendamento a prima firma Stefania Ascari, per l’accesso agli incarichi direttivi ha chiesto l’indicazione di “una terna di candidati idonei per l’assegnazione dell’incarico in caso di numero di aspiranti sino a 12 e una quaterna di candidati in caso di numero di aspiranti superiore a 12, tra le quali il vincitore sarà prescelto per sorteggio”. Nel frattempo anche dal Csm giungono perplessità sull’emendamento approvato all’unanimità dal Consiglio dei ministri lo scorso 11 febbraio. Nello specifico, nel parere elaborato - e votato all’unanimità- dalla sesta commissione del Csm sono emersi dubbi in merito al sistema elettorale pevisto dalla riforma: “Il sistema elettorale introdotto - si legge nella relazione - pur essendo prevalentemente maggioritario, prevede un correttivo proporzionale che mira ad offrire ai gruppi minori una rappresentanza in Consiglio”: un correttivo “insufficiente” dal momento che “anche con tali modifiche le minoranze potrebbero essere sottorappresentate mentre i gruppi di maggiori dimensioni potrebbero essere sovra-rappresentati”. Critiche sono giunte anche sul fronte delle valutazioni di professionalità: “la previsione di un giudizio ‘ad hoc’, graduato in discreto, buono, ottimo, sulla capacità di organizzare il proprio lavoro, che è già compresa nel parametro della diligenza”, porta “ad una inammissibile classifica tra magistrati dell’ufficio”, rischiando di “stimolare quel carrierismo che la riforma vorrebbe invece eliminare”. Da ultimo, la sesta commissione ha espresso criticità sullo stop alle porte girevoli per via della difficile individuazione di un “tertium genus (rispetto all’attività giudiziaria in ruolo e all’attività non giudiziaria fuori ruolo) di attività esercitabile dai magistrati ordinari”. Il plenum del Consiglio superiore della magistratura si riunirà per esprimere il voto finale sul parere della sesta commissione alle proposte di riforma del Governo oggi alle 15. La ministra Cartabia non escluda il Csm dalla scelta dei reati a cui dare priorità di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 21 marzo 2022 Nel maxiemendamento al ddl sull’ordinamento, si elimina il filtro di Palazzo dei marescialli sui criteri di politica criminale fissati dalle camere: è un rischio. “Il Pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”, così recita l’articolo 112 della Carta costituzionale. Come noto, il nostro ordinamento richiede che l’Ufficio di Procura si attivi ogniqualvolta vi sia una notizia di reato, non potendo - come accade ad esempio nel sistema statunitense - far uso di scelte meramente discrezionali. Non a caso il Codice di rito parla di “richiesta di archiviazione” e non già di “archiviazione”; assetto che rispecchia il dualismo della magistratura: l’inquirente chiede, il giudicante provvede. Siffatta impostazione risponde ad altri principi del dettato costituzionale: l’uguaglianza di fronte alla legge e il principio di legalità. Vi sono poi anche ragioni di opportunità che hanno spinto i Padri costituenti ad adottare tale impostazione, in primis il timore che la magistratura potesse venire influenzata dal potere politico. L’obbligatorietà dell’azione penale è uno dei più controversi e discussi principi. Infatti, se tale impostazione può ritenersi in astratto perfetta, in concreto incontra evidenti limiti. In altre parole, la velleità costituzionale di perseguire ogni notizia di reato che risulti fondata, inevitabilmente si scontra con l’endemica carenza di strutture ed organico che caratterizza gli Uffici giudiziari italiani. Questa evidenza ha fatto sì che già dagli anni 90 talune Procure iniziassero a adottare dei criteri volti a dare priorità a determinate fattispecie di reato. Tale prassi venne poi positivizzata con il d.lgs. 106/2006, il quale ha riorganizzato le Procure e la distribuzione delle loro risorse. La stessa Procura del Foro di chi scrive, Torino, è stata in ciò “maestra”, adottando criteri di priorità volti a dare maggior rilievo alla repressione di determinati reati piuttosto che ad altri e rendendo tale scala delle fattispecie più rilevanti pubblica e visibile. Non si fecero attendere, e non si fanno attendere tutt’ora, le voci di coloro che ritengono simili criteri di priorità di fatto lesivi del principio di uguaglianza dinanzi alla legge, nonché dell’obbligatorietà dell’azione penale. Pur comprendendone la ratio, va rilevato che detti criteri (che oggi trovano concretizzazione nei cosiddetti programmi delle attività annuali che le singole Procure elaborano ai sensi dell’articolo 4 D.L. 240/2006) non impongono che determinati reati non vengano perseguiti, bensì ne postergano la persecuzione per ragioni di economicità. Pertanto, almeno formalmente, il principio ex art. 112 Cost. viene certamente rispettato. Per ordine di completezza va comunque evidenziato che talvolta simile impostazione può, nella sostanza, portare ad eludere l’assetto: infatti, postergare la persecuzione di una fattispecie illecita significa che questa molto probabilmente si estinguerà per l’intervento della prescrizione. Successivamente, intervenne il D.L. 6 luglio 2011, n. 98 - convertito con modificazioni dalla L. 15 luglio 2011, n. 111 - il cui art. 37 è oggetto di modifica nel recente disegno di legge AC 2681 su cui si è ora ulteriormente sovrapposto il maxiemendamento Cartabia. Ma procediamo con ordine. 1) Il disegno di legge a firma del ministro Bonafede, con l’introduzione della lettera b-bis all’art. 37 del succitato decreto, disponeva che - con riferimento al settore penale - i criteri di priorità venissero determinati dal capo dell’Ufficio giudiziario, sentito il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale, e che il Csm redigesse detti criteri, sempre secondo gli indirizzi forniti dal Parlamento ai sensi della Legge 27 settembre 2021, n. 134, art.1, comma 9, lett. i). 2) Il maxiemendamento a firma Cartabia, invece, intende sopprimere la lett. b-bis del citato articolo, di fatto escludendo il Csm da quell’attività di scelta, ovvero apprezzamento ed indirizzo, dei criteri di priorità delle singole Procure. Diverse le voci che criticano aspramente la modifica. Sul punto è meritevole di essere menzionato quanto riportato dal già Procuratore Capo di Torino Armando Spataro, il quale - in un’audizione del 3 marzo in commissione Giustizia - giustamente ravvisa la seguente criticità a cui, il sottoscritto, non può che dare credito. Se si ammette che sia il solo Parlamento a definire gli indirizzi di politica criminale che tutte le Procure debbono perseguire, di fatto, si sta andando a creare una pericolosa commistione tra il potere politico e quello giudiziario. La modifica recentemente paventata non può accogliersi. Si ricorda che il Parlamento che fornisce criteri di indirizzo per le Procure è quello stesso Parlamento che a distanza di due anni o meno depenalizza una norma per poi “ripenalizzarla” per meri scopi propagandistici. Un vaglio del singolo Procuratore della Repubblica, nonché del Csm, nel parere di chi scrive, è un atto essenziale che deve esser mantenuto: il primo in quanto gode della necessaria conoscenza del contesto nel quale opera e può dunque indirizzare le scelte di programma dando attenzione a quei reati che necessitano di una maggiore repressione in ordine a quello specifico territorio, il secondo in quanto è organo di autogoverno che certamente potrebbe fungere da bilancia nei confronti degli indirizzi forniti dal Parlamento. Il tema risulta quanto mai complesso e difficilmente trattabile in ogni suo aspetto se non tramite una profonda analisi dei possibili scenari futuri. Tuttavia, volendo compendiare a chiosa, le modifiche adottate dal maxiemendamento a firma Cartabia, rischiano -senza dubbio alcuno- di creare un, seppur indiretto, controllo sulle Procure da parte del Legislatore, il quale, oltre tutto, nel sistema politico attuale è soggetto ad un controllo sempre più stringente dell’Esecutivo. Questo produrrebbe derive rischiose che sono da evitare. Pertanto, al fine di scongiurare qualsivoglia influenza politica, si auspica che si ripristini la precedente lett. b-bis dell’art. 37 L. 111/2011 oppure che si prevedano dei correttivi a presidio degli equilibri e della terzierà delle Procure. *Avvocato, Direttore Ispeg “La Severino va modificata in Parlamento, ecco perché diciamo no al referendum” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 marzo 2022 Per la responsabile giustizia del Partito Democratico, la senatrice Anna Rossomando, se passasse il quesito referendario, promosso da Partito Radicale e Lega, per l’abolizione della Legge Severino ci sarebbero conseguenze distorsive: “Si cancellerebbe tutta la normativa in materia di incandidabilità, per cui anche i condannati per gravi reati con sentenza irrevocabile potrebbero candidarsi ed essere eletti. E non è accettabile”. Meglio il lavoro parlamentare di modifica dell’abuso d’ufficio. Senatrice perché “no” al quesito sulla Legge Severino? Premettendo che nutro massimo rispetto per lo strumento referendario, tuttavia, entrando nel merito, se il quesito passasse abrogherebbe l’intero impianto della legge, con il rischio di gravi effetti distorsivi. Noi invece siamo favorevoli ad un bilancio sull’applicazione della legge, a dieci anni dalla sua approvazione. Dopo una seria discussione, si può trovare la strada per modificare quelle parti del decreto che anche noi riteniamo di dover modificare. Quali potrebbero essere questi effetti distorsivi? Con il quesito referendario si cancellerebbe tutta la normativa in materia di incandidabilità, per cui anche i condannati per gravi reati con sentenza irrevocabile potrebbero candidarsi ed essere eletti. E non è accettabile. Non dobbiamo dimenticare che questa legge rappresenta una tutela avanzata della legalità e del principio di onorabilità sancito dall’articolo 54 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”, ndr). Su questo punto si è pronunciata non solo la Corte Costituzionale ma recentemente anche la Corte Edu. Quest’ultima, sul piano della proporzionalità, ha escluso la finalità punitiva tanto dell’incandidabilità quanto della decadenza che, viceversa, sono state ritenute funzionali a preservare il buon funzionamento e la trasparenza dell’amministrazione, innestandosi in un contesto più ampio di contrasto alla corruzione e all’infiltrazione della criminalità organizzata nella pubblica amministrazione. Tra l’altro vorrei ricordare che la stessa legge Severino prevede che con la riabilitazione viene meno l’incandidabilità. I promotori motivano il quesito così: “La decadenza automatica di sindaci e amministratori locali condannati ha creato vuoti di potere e la sospensione temporanea dai pubblici uffici di innocenti poi reintegrati al loro posto. Il referendum elimina l’automatismo e restituisce ai giudici la facoltà di decidere se applicare o meno l’interdizione dai pubblici uffici”. Che ne pensa? Il punto è proprio questo: il quesito referendario non si limita ad intervenire solo su una parte della Legge Severino, ad esempio su quella riguardante le sentenze non definitive, ma sull’intero impianto. E questo andrebbe detto chiaramente agli elettori. La stessa ex ministra Severino si è detta favorevole a una rivisitazione di quella parte della norma e noi siamo d’accordo: le questioni poste dai sindaci sono assolutamente meritevoli di attenzione. Ma si deve scongiurare la cancellazione totale della legge per i motivi sopra indicati. Il professor Bartolomeo Romano in una intervista al nostro giornale ha detto che la legge Severino “contrasta con i principi del giusto processo e della presunzione di non colpevolezza e in qualche modo interferisce con la libera scelta dei cittadini verso i loro candidati, investiti da vicende penali ancora non concluse”. Partendo proprio dal principio della presunzione di innocenza, lei è d’accordo con quanto detto da Romano? Sono assolutamente d’accordo con il professor Romano quando nell’intervista dice che corruzione e malaffare, nell’ambito della PA, non si contrastano solo con la repressione penale. Bisogna però, tornando alla sua domanda, distinguere tra le condanne ancora non definitive e quelle passate in giudicato, per le quali il principio della presunzione di non colpevolezza risulterebbe superato. Per quanto riguarda le prime, occorre anche in questo caso fare una attenta valutazione quando si tratta di reati di grave allarme sociale. In questo senso non devono essere sottovalutate le preoccupazioni espresse dal Procuratore Cantone, in una recente intervista a Repubblica (‘Con l’abrogazione del decreto verrebbe meno una serie di norme adottate anche durante le stragi mafiose. Come quella di far decadere personaggi condannati per 416 bis sia pure in primo grado, ndr’). È chiaro che su questo terreno si opera una scelta di campo che ci porta, allo stesso tempo, a dire che su altre fattispecie di reati, tra cui l’abuso di ufficio, invece, bisogna intervenire. Siamo in presenza di condanne non definitive che provocano la sospensione di amministratori eletti dalle loro comunità che poi si concludono spesso con assoluzioni. Qui va modificata la Severino. Oltre che su questo specifico argomento, in Senato è stato depositato un disegno di legge a prima firma del collega Dario Parrini che mira ad intervenire sulla responsabilità per omissione dei sindaci, volto ad escludere quella che oramai rischia di configurarsi come una vera e propria responsabilità oggettiva’. I sindaci del Pd hanno chiesto a Letta la modifica della Legge Severino. Decaro non disdegna neanche la via referendaria. Come risponde il Pd? La via parlamentare di modifica della legge è quella più seria, corretta ed efficace perché si concentra sui reali problemi sollevati dai sindaci. C’è la sostenibilità politica e in che tempi? I tempi ci sono se c’è la volontà politica. Se davvero si vuole dare una risposta al problema e non fare strumentale campagna elettorale si può raggiungere lo scopo. D’altronde in meno di un anno abbiamo approvato le più complesse riforme del processo civile e penale. “Questa norma è stata più dannosa che utile. Sì al referendum che la cancella” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 marzo 2022 Secondo l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, consigliere generale del Partito Radicale e co-responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere Penali, la legge Severino va abrogata tramite il referendum perché è destabilizzante per il nostro assetto democratico. Vediamo bene perché. Perché votare sì al quesito che abolisce la Legge Severino? Un testo di legge adottato in ragione della percezione del fenomeno corruttivo non sempre risponde a esigenze reali, come attestano le più recenti statistiche. Quel vizio d’origine, aggravato dall’onda giustizialista che ne ha accompagnato l’immediata applicazione retroattiva per espellere Berlusconi dal Parlamento, ci porta a dire che forse il decreto Severino è stato più dannoso che utile. Dannoso non solo e non tanto per i numerosi amministratori colpiti dalla sospensione in conseguenza di una sentenza di condanna benché non definitiva e magari ribaltata in appello, quanto per il grave vulnus democratico arrecato alle comunità, private di quegli amministratori che avevano scelto per essere governate. E poi, davvero nutriamo incondizionata fiducia in uno strumento che estromette dalla vita politica un numero elevatissimo di amministratori sebbene assolti in via definitiva? Le statistiche più recenti dicono che su 9 persone condannate per abuso d’ufficio in primo grado, ben 8 vengono assolte nei gradi successivi. E così, su 3 persone per corruzione e peculato almeno 2 sono destinatarie di assoluzione in appello. Una palese violazione del principio costituzionale di non colpevolezza, un colpo devastante per il corpo elettorale sempre più smarrito e sfiduciato. Il procuratore Cantone ha detto: “Con l’abrogazione del decreto verrebbe meno una serie di norme adottate anche durante le stragi mafiose. Come quella di far decadere personaggi condannati per 416 bis sia pure in primo grado’. Secondo Cantone ‘rischieremmo di tornare indietro di molti anni”. È così? Una realtà che appare è sicuramente falsa e non può essere presa per vera. Alla luce della ipertrofica normativa emergenziale di contrasto alle mafie, la situazione ipotizzata dal Procuratore Cantone, per quanto possibile, appare irrealizzabile. Non credo esista un solo Sindaco o amministratore ancora in carica in costanza di un processo penale che lo vede imputato per associazione mafiosa. Figuriamoci al momento della condanna, seppure in primo grado. Si troverebbe già da tempo in carcere, magari in Sardegna, anche perché per il 416 bis il nostro codice prevede, in presenza di gravi indizi, la misura restrittiva più rigorosa. Avremmo senz’altro quel comune già sciolto per mafia, prima ancora che inizi un vero e proprio processo penale. Dal 1991 a oggi ben 359 comuni sono stati sciolti per infiltrazione mafiosa, molti dei quali senza nemmeno un amministratore indagato. Insomma, una norma inapplicabile in concreto è una norma inutile. O meglio, utile a certa propaganda e a certa retorica. Andrea Delmastro, deputato FdI e responsabile nazionale Giustizia per il partito, invece giustifica il no così: “Noi riteniamo che la legge vada cambiata ma non abolita, perché devono restare gli automatismi previsti rispetto alle condizioni di incandidabilità e ineleggibilità. La pena accessoria non può essere a discrezione dei giudici”. Che ne pensa? Anche questa lettura non tiene conto della realtà. Privilegiare gli automatismi astratti piuttosto che pretendere una stretta correlazione tra i fatti eventualmente accertati e la carica pubblica esercitata risponde a esigenze di pura demagogia politica. Come ha scritto la Consulta nella sentenza 56/2022 che ha ritenuto ammissibile il referendum in questione, l’eventuale abrogazione del decreto Severino non cancella comunque il sistema delle sanzioni accessorie e quindi le disposizioni del codice penale in materia di interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici. Il Pd si è opposto a questo quesito con la stessa motivazione di Cantone. In generale si è opposto a tutto il pacchetto referendario dicendo che le riforme si fanno in Parlamento. Come replica? Questo è il Parlamento meno adatto a concepire riforme sulla giustizia costituzionalmente orientate. D’altronde, guardiamo cosa è avvenuto al progetto di legge costituzionale sottoscritto da oltre 70.000 cittadini per la separazione delle carriere dei magistrati, prima portato in aula dopo ben 17 emendamenti che l’avrebbero soppresso, poi rinviato in Commissione a riposare sonni tranquilli. Questo è il Parlamento che, pur sollecitato dalla Corte costituzionale a rivedere non solo l’ergastolo, ma il tema più complessivo delle ostatività, oggi non più compatibili con la Cedu e con la Costituzione, ha risposto approvando “un nuovo ergastolo ostativo”, in barba alle indicazioni delle supreme corti. E poi, chiamare il Parlamento ad agire per far saltare un referendum rischia di essere un raggiro costituzionale. Con la sentenza 68 del 1978, la Corte costituzionale ha stigmatizzato l’intervento legislativo fatto per abrogare un testo oggetto di un quesito soltanto al fine di evitare lo svolgimento della consultazione, sostituendola con altra eguale o comunque simile, al punto da avere imposto la consultazione anche sul nuovo testo. Spero che il Pd, recuperando l’occasione persa della non raccolta delle firme, si impegni per una reale campagna di massima informazione, partecipando, come dicono i suoi sindaci, a una battaglia di avanguardia per il Sì. Educazione alla legalità. Un’esperienza italiana che tanti nel mondo ci invidiano di Nando dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 21 marzo 2022 Sergio Aguayo ha la faccia india. È uno di quei messicani che portano nei secoli l’impronta dei nativi. Da lontano non capisci se dietro gli occhiali sottili stia un capotribù in accigliata meditazione. Poi è una rivelazione vulcanica. L’intellettuale che ho davanti è socievolissimo, ha una grande voglia di parlare e di ascoltare. Chiede racconti e analisi sulla situazione italiana, anche perché ha alle spalle anni di studi a Bologna, certificati dalla scelta di un piatto di tagliatelle. Un tema gli sta soprattutto a cuore, il nostro movimento antimafia. Il Messico conosce in proporzioni gigantesche qualcosa vissuto anche dall’Italia: i contropoteri criminali, la disputa allo Stato dei territori di alcune regioni. Docente al Colegio del México e ad Harvard, Aguayo è in Italia per la giornata di apertura della settimana della legalità dell’Università statale di Milano. È uno degli studiosi più autorevoli dei mercati della droga e in particolare dei movimenti di resistenza ai narcos, ai quali - a Coahuila - ha dedicato cinque anni di lavoro sul campo. E vuole capire come ha fatto l’Italia ad arginare la mafia siciliana, a indebolirla anzi. Capire da dove sono spuntate le leggi che hanno trasformato l’Italia in un esempio per il mondo, dal reato di associazione mafiosa all’uso sociale dei beni confiscati. Così mentre parlo mi rendo conto che quello che per noi è scontato per lui non lo è affatto, anzi è una sorpresa straordinaria, quasi un’illuminazione. Lui e la sua collega Monica Serrano, altra studiosa informatissima del narcotraffico, sgranano gli occhi quando spiego delle grandi manifestazioni tenute negli anni a sostegno della magistratura o per ricordare certi magistrati o anche certi uomini in divisa. Racconto loro di una manifestazione di piazza in ricordo di un giovane carabiniere ucciso dalla camorra vicino a Napoli e commentano che in Messico sarebbe impossibile che dei giovani o dei normali cittadini si mobilitino per un poliziotto. Perché i poliziotti sono considerati un pericolo potenziale, spesso complici dei narcos, e non ci sono legami possibili con i movimenti. Due mondi diversi. Penso allora che abbiamo vissuto un’esperienza davvero originale, grazie a quelle persone in divisa che hanno fatto capire con nettezza e con i fatti da che parte stavano. E magari ne hanno parlato nelle scuole. Ed è proprio qui che avanza nella discussione una seconda ragione di meraviglia: il ruolo della scuola, dalle elementari ai licei, nel resistere alle ondate mafiose, nel contrastare il sangue con l’educazione alla legalità. Studenti e insegnanti. Spiego ad Aguayo delle nostre ricerche proprio sulla storia dell’educazione alle legalità nella scuola italiana. E intuisco di avere rivelato una strategia di contrasto in teoria impensabile. Che cosa possono mai fare i ragazzini contro i trafficanti di droga? Sergio corre con il pensiero. In effetti bisogna educare i bambini, occorre un’altra cultura sin da piccoli. Conseguenza: bisognerebbe fare degli esperimenti pilota anche da noi, dice a Monica. Torno così con la memoria a quegli insegnanti palermitani e napoletani (alcuni non ci sono più) che compresero in un lampo che, davanti alle lapidi che si moltiplicavano nelle vie, toccava anche a loro prendersi sulle spalle la responsabilità della lotta alla mafia, coinvolgere nella rivolta civile alunni e famiglie anche se - o proprio perché - abitanti in quartieri ad alta densità mafiosa. Che storia grandiosa, anche se quasi mai riconosciuta… È come se avessi spianato a Sergio un orizzonte denso di promesse solo ad accennarlo. Visto come cambiano i tempi? Niente illusioni, la lotta sarà ancora dura, più lunga di quanto avessimo sognato. Però non esportiamo più solo mafia. Esportiamo anche antimafia. E questo mi suscita, davanti agli ospiti illustri, un certo indefinibile orgoglio. In piazza per le vittime di mafia. Don Ciotti: “Morte per la libertà” di Grazia Longo La Stampa, 21 marzo 2022 La piazza principale è Napoli, dove sarà presente anche il presidente della Camera Roberto Fico. Ma in tutta Italia oggi saranno migliaia le manifestazioni che si terranno anche in scuole, carceri, associazioni, università, fabbriche, parrocchie, in occasione della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle 1.055 vittime innocenti delle mafie, promossa da Libera e Avviso Pubblico in collaborazione con la Rai. “C’è un’Italia che si ribella all’indifferenza, all’illegalità, alle mafie e alla corruzione che devasta i beni comuni e ruba la speranza. Un’Italia consapevole che la convivenza civile e pacifica si fonda sulla giustizia sociale, sulla dignità e la libertà di ogni persona” commenta Libera, annunciando gli eventi, che non saranno limitati ai nostri confini. Sono previsti appuntamenti anche in America Latina, a Città del Messico, Bogotà, Buenos Aires (nel museo sito della memoria Esma) e Quito. Diverse le iniziative anche in Europa con la lettura dei nomi delle vittime: a Parigi davanti alla Tour Eiffel, a Marsiglia al Vecchio Porto, a Strasburgo davanti alla Corte europea dei diritti umani, e ancora a Berlino, Monaco, Colonia, Lipsia, Madrid, La Valletta. E anche in Africa ci saranno appuntamenti in Uganda e Congo. Con Libera anche il Coni e l’intero mondo dello sport: atleti, federazioni e realtà di promozione sociale hanno vestito in questi giorni una maglia simbolica con la scritta “Lo sport non vi dimentica”. “È una memoria che non si esaurisce con il 21 marzo, tutti i giorni abbiamo una responsabilità e un impegno: non ingabbiare la memoria del passato, ma farla vivere nel presente e trasmetterla alle nuove generazioni - ha detto il presidente di Libera Luigi Ciotti - Il Paese deve scrivere quei nomi nelle proprie coscienze perché sono morti per la democrazia, per la libertà”. I temi di questa 27 edizione sono particolarmente cari alle Acli: la cura della comunità locale, la coltura nella terra e la cultura nelle coscienze. Il Presidente nazionale delle Acli, Emiliano Manfredonia: “Dobbiamo ricordare le persone innocenti che sono state strappate alla vita dall’illegalità. Parleremo di “Terra Mia”, la terra di tutti, una terra che è interconnessa con l’ambiente e con la vita delle persone. Nella manifestazione di Napoli e in tutte le altre città italiane facciamo memoria delle vittime della mafia in un momento storico particolare, segnato dalla guerra in Ucraina. A tutte le forme di violenza, noi rispondiamo con la mitezza del Vangelo e condanniamo con fermezza questa orribile carneficina”. Un percorso della memoria: così il Coisp ricorda le vittime della mafia di Davie Varì Il Dubbio, 21 marzo 2022 Inizia mercoledì prossimo, 23 marzo, a trent’anni da Capaci, una serie di eventi in cui il sindacato di polizia renderà omaggio agli uomini delle forze dell’ordine caduti per mano di Cosa nostra. Figure come Falcione e Borsellino ma, in altri casi, sconosciute ai più, che hanno avuto tutte il merito di battersi oltre ogni limite. “Siamo cadaveri che camminano”. Parole impossibili, che descrivono una situazione contro la logica. Eppure, sono diventate profetiche: una raffigurazione dettagliata di un dramma che ha segnato la storia italiana. A pronunciarle fu il Vice Questore della Polizia di Stato Ninni Cassarà il 30 aprile del 1982, parlando con i giudici Chinnici, Falcone e Borsellino di fronte all’autovettura crivellata di colpi in cui erano stati ritrovati i corpi del sindacalista Pio La Torre e del suo autista Rosario Di Salvo. Vittime, in quell’inizio degli anni 80, di una vera e propria guerra tra la fazione mafiosa dei Corleonesi, guidata da Salvatore Riina, e quella di Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti. Una contesa che solo tra il 1981 e il 1983 ha provocato circa 600 morti, e che allora era solo l’inizio di una strage che ha coinvolto molti uomini delle istituzioni, pronti a sacrificare tutto - nel senso più letterale della parola - per combattere la mafia. Quest’anno ricorre il trentennale delle stragi di Capaci e di Via d’Amelio, gli attentati in cui persero la vita Falcone e Borsellino, e che ormai sono diventati cupi emblemi di una stagione drammatica, le cui propaggini non risparmiano nemmeno i giorni nostri. E questa ricorrenza è un’occasione preziosa per ricordare, traendo forza e ispirazione dall’esempio di chi ha immolato la propria esistenza per sconfiggere Cosa Nostra. Il sindacato di Polizia Coisp, guidato da Domenico Pianese, celebra la memoria di questi eroi attraverso un vero e proprio percorso della memoria che avrà inizio il prossimo 23 marzo durante il Congresso Nazionale del Sindacato e a due mesi esatti dall’anniversario dell’omicidio di Giovanni Falcone, avvenuto il 23 maggio del ‘92. Perché accanto a Falcone e Borsellino i nomi sono tanti, troppi, e non vanno dimenticati: uomini che si sono adoperati con interventi legislativi e con indagini coraggiose, e che hanno pagato con la vita, lasciando tuttavia un segno prezioso e importante. È un percorso che si può articolare in date, come quel 21 luglio del 1979 in cui un killer solitario ha ucciso il Capo della Squadra Mobile di Palermo Boris Giuliano. La sua era stata un’autentica “rivoluzione”: aveva creato una squadra di giovani funzionari che era arrivata, tra l’altro, a individuare i rapporti determinanti tra la mafia siciliana e quella americana. Una traccia preziosa per tutti gli investigatori dopo di lui e arrivata in un momento in cui le indagini erano poche e deboli. In quello stesso anno, il 25 settembre del 1979, a essere assassinati sono il giudice Cesare Terranova e il Maresciallo della Polizia Lenin Mancuso, uomo della sua scorta. Terranova fu il primo a mandare a processo membri della cosca di Corleone e aveva firmato insieme a Pio La Torre ed Emanuele Macaluso quella celebre relazione di minoranza in cui si portavano alla luce i rapporti tra mafia e politica. Sua e di Pio La Torre anche la legge sull’associazione mafiosa e sulla confisca dei beni. Azioni cruciali, che gli sono valse una condanna a morte sotto una pioggia di proiettili mentre percorreva una strada secondaria a bordo della sua Fiat 131. Il 4 maggio del 1980 è la volta del Capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, tra gli investigatori più vicini a Borsellino. Indagando proprio sull’omicidio di Boris Giuliano, aveva arrestato diversi esponenti mafiosi e ricostruito un quadro che portava fino a Totò Riina. È morto all’ospedale di Palermo dopo un proiettile alla schiena, colpito mentre aveva in braccio la figlia di quattro anni. Un mese dopo, il 6 agosto 1980, tre colpi di pistola, anche in questo caso sparati alle spalle da due killer in moto, uccisero il Procuratore Capo di Palermo Gaetano Costa, protagonista di delicate indagini mirate a colpire i patrimoni di una mafia che stava cambiando volto, annidandosi nella pubblica amministrazione. Tra i suoi gesti più coraggiosi figura la convalida dell’arresto di 55 uomini d’onore: un atto che altri suoi colleghi si rifiutavano di firmare. Passano due anni, e arriviamo a quel 30 aprile del 1982 in cui Pio La Torre e Rosario di Salvo vennero crivellati di colpi. È il giorno della già citata “profezia” di Cassarà, che si rivelerà tristemente precisa per tutti i partecipanti a quella conversazione. Prima però, altri persero la vita sotto i colpi della mafia: il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nominato Prefetto di Palermo dopo la sua lotta al banditismo e alle Brigate Rosse. È il 3 settembre del 1982 quando in Via Carini viene ucciso insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’Agente della scorta Domenico Russo. Uno dei primi ad arrivare sul posto, quella notte, è l’Agente Calogero Zucchetto, uomo di Cassarà attivo nella lotta alla mafia al punto da pagare di tasca propria la benzina per perlustrare in moto i vicoli di Palermo in cerca di latitanti. Saranno Pino Greco e Mario Prestifilippo, due killer da lui riconosciuti durante uno dei suoi giri di perlustrazione, a sparagli la sera del 14 novembre 1982, all’uscita di un bar. Il 13 giugno del 1983 viene assassinato il Capitano Mario D’Aleo, insieme all’Appuntato Giuseppe Bommarito e al Carabiniere Pietro Morici. D’Aleo aveva sostituito Emanuele Basile e indagando sulla sua morte era riuscito a far condannare i tre esecutori dell’omicidio individuando Giuseppe Brusca come mandante. Un risultato importante, che però ha pagato con la vita. Il Giudice Rocco Chinnici viene ucciso il 29 luglio del 1983. Tra i primi a comprendere l’importanza della sensibilizzazione sociale e a individuare le pericolose connessioni della mafia con alta finanza, politica e imprenditoria, è l’ideatore del “pool antimafia” che sarà poi attuato dal suo successore, Antonio Caponnetto. Chinnici perse la vita in un’esplosione provocata da 75 kg di tritolo, insieme ai carabinieri Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta. Il Commissario Giuseppe “Beppe” Montana venne ucciso il 28 luglio del 1985. Due killer gli sparano tra la folla, mentre si trova con la fidanzata sul molo di Porticello. Abile investigatore, aveva riportato numerosi successi tra arresti di latitanti e scoperte di depositi di armi e raffinerie di droga. Convinto dell’importanza dell’approccio culturale, aveva fondato il comitato “Lillo Zucchetto”, con cui andava nelle scuole e incontrava gli studenti. Il 6 agosto 1985 è una pioggia di proiettili ad abbattersi proprio su Ninni Cassarà e sulla sua scorta, tra cui c’è l’Agente Roberto Antiochia che muore nel tentativo di proteggerlo. Il 14 gennaio del 1988 un altro membro di quella scorta, Natale Mondo, morirà sempre sotto i colpi della mafia. E il 5 agosto del 1989 viene ucciso anche Agostino Antonino, membro di una struttura di intelligence per la caccia ai latitanti e stretto collaboratore di Falcone. Si arriva così, lungo questa lunga scia di sangue, al 1992. Difficile rimuovere dalla memoria quel 23 maggio e quel 19 luglio: prima Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Poi Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Nomi che sono diventati simboli della lotta alla mafia e del sacrificio di tante persone. Nomi che parlano di dolore, ma anche di speranza: perché se è vero che la tragica previsione di Cassarà si è avverata, è anche vero che i rischi e il sangue non sono mai bastati a scoraggiare questi uomini pronti a tutto pur di non arrendersi alla mafia. “Per questo - sottolinea il Cosip - è importante un percorso della memoria: per non dimenticare chi, col proprio sacrificio, ha fatto la differenza, credendoci ancora e ancora quando tutto sembrava volgere al peggio. Del resto, è stato proprio Falcone a dire “Gli uomini passano, le idee restano. Continuano a camminare sulle gambe di altri uomini”. Breve storia dell’impunità mafiosa. Quando lo Stato legittimava la criminalità organizzata di Isaia Sales, Carlo Bonini e Laura Pertici La Repubblica, 21 marzo 2022 Oggi 21 marzo Napoli celebra la giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia. La manifestazione, indetta da Libera (l’organizzazione di don Luigi Ciotti), si tiene da più di 25 anni ed è nata proprio a seguito di un commovente incontro del prete torinese con la madre di un poliziotto della scorta di Giovanni Falcone che gli aveva fatto notare come il nome del figlio ucciso non venisse mai ricordato. È una giornata, quella napoletana, che ha una caratteristica: la lettura, dal palco, della lunghissima lista di nomi delle vittime innocenti cadute per mano di mafiosi. Più di mille quelle finora accertate. Esistono varie manifestazioni in altri Paesi che ricordano tragici episodi della Storia, ma nessuna di queste riguarda vittime di mafia. L’Italia è uno Stato-nazione caratterizzato da una lunga presenza mafiosa e al tempo stesso dalla reazione di coloro che la contrastano. Che tuttavia non coincidono esclusivamente con gli appartenenti alle istituzioni repressive. La presenza di un vasto movimento d’opinione che affianca l’azione delle polizie e della magistratura segnala una felice anomalia nella storia della lotta ai criminali, ma ciò non è avvertito da tutti come un fatto positivo. Da più parti si ritiene che questa anomala presenza di energie antimafia “non istituzionali” solleciti un eccessivo protagonismo di coloro che per professione sono tenuti ad occuparsene, i quali proprio perché hanno un pubblico “tifoso” sono portati a rompere la discrezione che la loro delicata attività richiede e ad essere meno sereni nel giudizio. Si sostiene, poi, che la magistratura non deve fare guerre contro i criminali ma applicare semplicemente la legge nei loro confronti. Il che è giustissimo. Ma rifacendo la storia d’Italia si può tranquillamente affermare che la base del successo delle mafie sta proprio in un atteggiamento di tolleranza (o addirittura di aperto sostegno) che nel corso del tempo diversi ambienti della magistratura e delle forze dell’ordine hanno riservato ai mafiosi. Fino a poter parlare di vera e propria impunità per un secolo e mezzo, almeno fino al maxi processo di Palermo del 1986, che interruppe quella lunga fase storica di sottrazione alla legge di spietati assassini. La svolta nell’atteggiamento dei magistrati (e delle forze dell’ordine) negli ultimi 40 anni ha dunque modificato radicalmente i termini della questione mafiosa e andrebbe salutata come un fatto importante che ripristina la “normalità” nell’applicazione della legge nei confronti della criminalità più pericolosa e più duratura della storia italiana. Una storia di impunità segnata da alcuni episodi chiave e da alcuni protagonisti spesso dimenticati. Partiamo dall’elogio funebre da parte di Guido Lo Schiavo, altissimo magistrato di Cassazione, che sulla rivista “Processi” così si era espresso sul capo mafia Calogero Vizzini, morto nel 1954: “Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi ed ai fuorilegge ha affiancato addirittura le forze dell’ordine. Oggi si fa il nome di un autorevole successore di Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto alla legge dello Stato e al miglioramento sociale della collettività”. Che dire di queste affermazioni di uno dei massimi esponenti della magistratura italiana di allora, per di più siciliano? Intanto che un magistrato sapeva già chi sarebbe stato il successore di Vizzini alla guida della mafia, cioè Giuseppe Genco Russo, e non lo fa arrestare, anzi lo lusinga (“autorevole successore”), perché non lo considera un fuorilegge. Così come non considera tale Vizzini, né tantomeno pensa che la mafia sia un’associazione di criminali. Ma soprattutto va segnalato che questo articolo non fece scalpore. Il magistrato non fu richiamato, né il suo parere contrastato, né si usò verso di lui alcuna misura disciplinare. Il suo scritto fu considerato “normale” perché tale era la percezione che le classi dirigenti della Sicilia e dell’Italia (compresa la magistratura) avevano della mafia. Il parere di Lo Schiavo era condiviso da un notevole numero di magistrati che non avevano timore di dichiarare pubblicamente che la mafia non solo non era un problema ma addirittura una “forza d’ordine”, un’organizzazione che collaborava con le forze di sicurezza dello Stato, cioè anche con i magistrati. Ripercorrendo all’indietro la storia delle mafie si ritrova lo stesso atteggiamento in diversi magistrati di epoche diverse, atteggiamento che cambia solo dopo gli anni Settanta del Novecento, quando una nuova generazione di magistrati sostituisce quella che in gran parte era stata in sintonia con il comportamento e con il metodo mafioso. Già la prima commissione d’inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia avviata nel 1875 dovette segnalare che i magistrati siciliani erano condizionati da parenti e amici che operavano nei territori di loro giurisdizione, aggiungendo che era “sopra ogni altra cosa deplorevole la lunga durata delle istruzioni e l’esito infelice in cui si cade assai spesso di non trovare il colpevole”. Insomma, i responsabili di delitti violenti non venivano perseguiti e se lo erano venivano assolti in tribunale quasi sempre con l’insufficienza di prove. Il comportamento dei magistrati era stigmatizzato anche da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino nella loro controinchiesta parlamentare del 1876, arrivando addirittura a chiedere che nessun magistrato di origine siciliana operasse nell’isola. E quando un funzionario di polizia Ermanno Sangiorgi (poi questore di Palermo) cercò di avviare un’azione dura contro la mafia, trovò un ostacolo proprio nel procuratore generale Carlo Morena, che riteneva che la mafia non esistesse come organizzazione e che in ogni caso non sussistevano relazioni e contatti tra le varie famiglie. Morena difenderà il sindaco mafioso del comune di Burgio, impedendo al Sangiorgi di arrestarlo, considerando lui e i suoi amici mafiosi “amanti dell’ordine”. All’epoca, del resto, un capo mafia come Antonino Giammona andava regolarmente a caccia con il primo presidente della corte d’appello di Palermo. Va ricordato che il procuratore generale di Palermo, Vincenzo Cosenza, a fine Ottocento ebbe l’ardire di dichiarare al governo che “della mafia non si era mai accorto nell’atto di esercitare la sua attività di magistrato”. E nel 1907 in Parlamento, dopo che il marchese Alfredo Capece Minutolo aveva denunciato l’uso di parte del governo del sostegno della camorra nelle operazioni di pubblica sicurezza, si alzò un parlamentare giolittiano, magistrato napoletano, sostenendo che addirittura la camorra non esisteva, e che era un’“organizzazione fantastica”. E in quel periodo si stava allestendo un grande processo a tutti i capi camorra dopo l’efferato delitto dei coniugi Cuocolo nel 1906. La prima commissione parlamentare antimafia, varata nel 1962, cioè quasi 100 anni dopo quella del 1875, insisterà sulle “ripetute assoluzioni che confermano l’impressione di una permanente impunità per i grossi esponenti mafiosi attraverso un meccanismo che sfugge al controllo della legge, del Parlamento e di tutti gli organi e poteri dello Stato”. Eppure, i nomi dei magistrati che mandavano assolti i mafiosi e che stringevano rapporti cordiali con essi erano conosciuti uno per uno. Due membri della prima commissione parlamentare antimafia, Giovanni Elkan e Mario Assennato, avevano svolto nel 1965 un’approfondita indagine per verificare la causa dei numerosissimi casi in Sicilia di assoluzione per insufficienza di prove e di archiviazione delle denunce anche di fronte a prove schiaccianti, e misero per iscritto che si trattava di qualcosa di abnorme e di ingiustificato. Ma i nomi dei magistrati coinvolti non furono mai pubblicati. In Calabria, nel 1939, nel processo per l’omicidio del boss Paolo Agostino, sono proprio i giudici a tracciare un ritratto di grande ammirazione per l’ucciso. E negli anni Settanta, dopo l’uccisione dell’avvocato generale dello Stato, Francesco Ferlaino, scomparve dallo studio del magistrato che l’aveva redatta la relazione per il Consiglio superiore della magistratura, in cui si parlava apertamente delle collusioni di diversi magistrati con le ‘ndrine. Sebbene un’opinione pubblica allarmata accusasse la magistratura calabrese di non perseguire gli ‘ndranghetisti, Antonio Macrì, per lunghi anni capo indiscusso della ‘ndrangheta, fu più volte assolto per insufficienza di prove. Il tribunale di Locri è stato spesso al centro di indagini del Consiglio superiore della magistratura per numerosi casi di giudici in rapporti con boss della mafia calabrese. Clamorosa la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio del presidente del tribunale, Fortunato Agostino, per avere emesso due provvedimenti giudicati “abnormi” dal Ministro della Giustizia. Agostino, senza consultare gli altri membri del collegio giudicante, aveva concesso gli arresti domiciliari a Pietro Marsiglia, accusato di sequestro di persona, e la libertà provvisoria a Salvatore Aquino, capo di una cosca di Gioiosa Ionica. Nel 1974 il Consiglio superiore della magistratura rimuoveva dal suo incarico il sostituto procuratore generale Guido Cento, contestandogli “relazioni affaristiche con persone notoriamente mafiose” della famiglia dei Mazzaferro sempre di Gioiosa Jonica. Nel 1977 il giudice istruttore Agostino Cordova accertò la scomparsa di numerosi fascicoli processuali riguardanti noti ‘ndranghetisti; la questione venne sollevata in Parlamento con una interrogazione, a seguito della quale fu avviata azione disciplinare contro il giudice istruttore Francesco Delfino, del procuratore della repubblica Carlo Bellinvia e di un cancelliere. A proposito della connivenza della magistratura va ricordato una sentenza del tribunale di Palmi, 18 maggio 1981, presidente Giuseppe Gambadoro, contro Giuseppe Piromalli (uno dei capi più importanti nella storia della ‘ndrangheta) e altri imputati, in cui si legge che la mafia interviene sempre per difendere l’ordine per procurare in ogni contrasto un “accordo tra amici”, aggiungendo che la mafia “che potremmo definire di tipo tradizionale, malgrado qualche autorevole giurista abbia ravvisato in essa un’associazione per delinquere, non può ritenersi tale, posto che, prefiggendosi anche illecite, perseguiva pure la lotta all’ingiustizia, componeva le vertenze e, quindi, non può dirsi che avesse una preordinato e specifico programma delinquenziale”. E ancora: “È da chiedersi se convenga mantenere l’equivoca voce “mafia”, termine ormai superato, come talvolta si è prospettato, con quello di “associazione criminosa”, anche perché il fenomeno mafioso non si identifica di per sé con l’associazione per delinquere”. In un tribunale dello Stato italiano, ancora nel 1981 si affermavano in sentenze opinioni del genere. Significativo il fatto che nel secondo dopoguerra in Sicilia i riferimenti alla mafia sono appena accennati o del tutto rassicuranti nelle prime relazioni dei procuratori generali. Nella relazione del 1956 si può leggere addirittura che “il fenomeno della delinquenza associata è scomparso”. Il procuratore generale di Palermo, Merra, nel 1957 così parla dei fenomeni criminali, senza mai citare la mafia: “Tuttavia è bene che su questo fenomeno criminale da reputare transitorio, troppo si è esagerato. Bisogna sfatare la leggenda di una eccezionale criminalità in Sicilia”. Nel 1958, lo stesso procuratore fa riferimento a “caratteristiche non eccessivamente allarmanti della criminalità”. Solo nel 1959, finalmente, si cita la parola mafia da parte del procuratore Stefano Mercadante, che però l’attribuisce a un “fenomeno di psicologia collettiva, ad una mentalità retrograda, a tenaci cause etniche”. E naturalmente fa riferimento all’omertà dei cittadini. Stessa sottovalutazione negli anni 1961-1962: la Sicilia sembra una regione tranquilla secondo i giudici, proprio all’inizio della prima guerra di mafia che farà centinaia di morti ammazzati. Tito Parlatore, procuratore generale della Cassazione, nel 1965 (due anni dopo la strage di Ciaculli, in cui persero la vita 7 rappresentanti delle forze dell’ordine, e l’avvio della prima commissione d’inchiesta sulla mafia), aveva sentenziato in aula, a proposito dell’omicidio del sindacalista Salvatore Carnevale, che la mafia non era materia da tribunali, ma “materia per conferenze”. Nel 1967, sempre nella relazione introduttiva al nuovo anno giudiziario, si afferma che il fenomeno della criminalità mafiosa era entrato in una fase di “lenta ma costante sua eliminazione”. Nessun allarme in sostanza nel 1968, 1969, 1970. Anzi, nel 1968 il procuratore con orgoglio parla di “netta flessione dei delitti di mafia”, come se questo fosse il segnale della sua decadenza. E questi erano le considerazioni sulla mafia di coloro che dovevano contrastarla nella regione in cui all’epoca era più diffusa. E che dire di ciò che scrisse il magistrato di Catania Luigi Russo in una sentenza del 1991, a proposto del pagamento del pizzo alla mafia: “Si può anche non pagare, ma chi non paga deve sapere bene cosa gli succede prima o poi... se tutti facessero così dalla Sicilia sparirebbero le imprese e migliaia di piccole aziende andrebbero in fiamme”. E nel 1968, quando già la mafia siciliana era coinvolta da tempo nel traffico di droga, la Procura di Palermo respinse il rinvio a giudizio del boss Genco Russo con la motivazione che con il suo codice d’onore Cosa nostra mai si sarebbe sporcata le mani con la droga! A Napoli, nel 1981, il procuratore generale all’inaugurazione dell’anno giudiziario sosteneva che non si potessero applicare alla camorra le stesse misure della mafia, essendo meno pericolosa. Nel corso di quello stesso 1981 ci saranno ben 235 morti ammazzati in scontri tra clan camorristici contrapposti, e già da tempo vigeva nelle carceri e fuori il dominio di Raffaele Cutolo, inventore e capo della Nuova camorra organizzata (NCO). Significative le dichiarazioni pubbliche del giudice Alemi (colui che aveva indagato sul caso Cirillo e aveva scoperto le connivenze tra Dc, servizi segreti e Cutolo per la sua liberazione) sul fatto che la Procura di Napoli proscioglieva facilmente i camorristi. Per questo fu querelato da Armando Cono Lancuba, potentissimo capo dell’ufficio denunce, che poco tempo dopo fu arrestato, assieme ad altri magistrati, con l’accusa di aver favorito il clan Alfieri e Galasso in cambio di soldi. E sempre Carlo Alemi nelle indagini delicate sul caso Cirillo si trovò nettamente contro il capo della Procura della repubblica, Francesco Cedrangolo, amico della famiglia Gava e consuocero del costruttore Della Morte, uno dei partecipanti alla colletta da offrire ai brigatisti e uno dei beneficiari delle opere pubbliche realizzate dopo il terremoto del 1980. Nel 1991 i membri del clan Nuvoletta, uno dei pochi clan di camorra affiliati alla mafia siciliana, vengono scagionati dal reato di associazione mafiosa. Erano stati i mandanti dell’omicidio del giovane giornalista Giancarlo Siani. Sul tribunale di Catania, per anni, ha pesato come un macigno il sospetto di una protezione dei mafiosi e di una particolare accondiscendenza verso i costruttori edili in contatto con le cosche. Poi, il Consiglio superiore della magistratura, a seguito di un’indagine ministeriale, prese provvedimenti contro il procuratore capo Giulio Cesare Di Natale e un suo sostituto, Aldo Grassi. L’accusa riguardava i ritardi nella trattazione del processo per l’omicidio del procuratore Costa e nell’aver accumulato lentezze intollerabili e, a loro avviso, sospette nei procedimenti a carico dei “Cavalieri del lavoro”, cioè dei principali costruttori edili della città. Al termine del loro rapporto gli ispettori ministeriali avevano scritto: “Non sussistono soltanto comportamenti, riconducibili a magistrati, tali da offuscarne la credibilità, sufficienti ai fini della sussistenza della incompatibilità ambientale, ma sono emerse accuse (collegate a fatti in parte fondati) di collusioni o comunque di rapporti ambigui, di insabbiamenti, di inerzie, di negligenze o di compiacenze nei confronti di quel nuovo, e non meno pericoloso, tipo di delinquenza che è la criminalità economica”. Un caso a parte è quello del giudice di Cassazione Corrado Carnevale, soprannominato “l’ammazzasentenze” per i numerosi annullamenti di processi per motivi formali grazie ai quali il gotha della mafia usciva sempre impunito. Il formalismo giuridico è stato nel tempo uno degli strumenti più utilizzati dalla magistratura per smontare i processi i mafiosi. Il giudizio di Giovanni Falcone su Carnevale era spietato. Perciò si adoperò affinché non fosse sempre lui a giudicare le sentenze che riguardavano mafiosi. E fu necessario un provvedimento legislativo ad hoc per ottenere la rotazione delle attribuzioni in Cassazione nei processi di mafia Nel 2002 Carnevale fu prosciolto dall’accusa di associazione esterna con la mafia, ma nel 2012 è stato di nuovo chiamato in causa da Giuseppina Pesce, la rampolla pentita dell’importante famiglia di ‘ndranghetisti, la quale ha affermato che il suocero, Gaetano Palaia, aveva mantenuto rapporti con il Carnevale fino al 2005 per ottenere “aggiustamenti” nei processi che riguardavano il clan Pesce. Insomma, è indubbio che il successo della mafia nella storia italiana è stato anche un problema dei giudici. Ma non si trattava solo dell’atteggiamento “benevolo” dei magistrati siciliani verso i mafiosi. Quando furono spostati alcuni importanti processi fuori dall’isola si ottennero gli stessi risultati: nel 1968 la corte d’assise di Catanzaro, dove era stato spostato il procedimento, mandò assolti i mafiosi processati dopo la strage di Ciaculli. Stessa cosa avvenne l’anno dopo a Bari nel processo contro i “corleonesi”. Sta di fatto che Liggio, Riina e Provenzano, coloro che hanno segnato profondamente l’evoluzione della mafia siciliana, furono considerati da un tribunale della Repubblica italiana né assassini né mafiosi, “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Il campo dell’antimafia oggi è monopolizzato dai magistrati. E a molti dà fastidio questo iper-protagonismo dei giudici. Non era affatto così fino alla fine degli anni ‘70 del Novecento, quando i magistrati e la magistratura in larga parte erano funzionali allo strapotere della mafia, con qualche notevole eccezione. Rocco Chinnici e Vincenzo Pajno, rispettivamente capo dell’ufficio istruzioni e procuratore capo di Palermo, quando avevano cose delicate da comunicarsi, parlavano nell’ascensore riservato che collegava i loro due uffici nel tribunale di Palermo per evitare che i mafiosi venissero a sapere immediatamente quanto la procura stava escogitando contro di essi. E quando Chinnici cominciò a indagare sui banchieri Salvo, il procuratore capo di allora, Giovanni Pizzillo gli disse: “Ma cosa credete di fare all’Ufficio istruzione? La devi smettere Chinnici di fare indagini nelle banche, perché così state rovinando l’economia palermitana”. E gli propose di togliere Giovanni Falcone dai processi ai mafiosi e di caricarlo di incartamenti semplici perché “i giudici istruttori non hanno mai scoperto niente”. Chinnici così descrive Pizzillo: “L’uomo che a Palermo non ha mai fatto nulla per colpire la mafia e che anzi con i suoi rapporti con i grandi mafiosi l’ha incrementata. Con il suo complice Scozzari (altro magistrato, nemico di Falcone) ha insabbiato tutti i processi nei quali è implicata la mafia”. Anche la vicenda che coinvolse direttamente Falcone, a cui dopo il successo nel primo maxi processo di Palermo fu negata la possibilità di sostituire Caponnetto, si inquadrava nel campo della non belligeranza con la mafia. Fu prescelto Antonino Meli perché si inseriva perfettamente lungo una continuità storica che Falcone aveva interrotto. L’inversione di tendenza della magistratura nel campo della lotta alle mafie è un fatto recente, e non sempre acquisito una volta per tutte. Non dimentichiamo che quando Buscetta decise di collaborare disse a Falcone: “Io parlo perché c’è lei; con altri giudici non avrei parlato”. Il tribunale di Palermo è stato a lungo luogo di rispetto e di riverenza per i mafiosi. Secondo i dati forniti dal magistrato Gioacchino Natoli, dall’Unità d’Italia fino al 1992 a fronte di almeno 10.000 omicidi ci furono solo 10 ergastoli di mafiosi in Sicilia, mentre ce ne saranno ben 450 solo tra il 1993 e il 2006 nel solo distretto di Palermo. A cosa è stata dovuta questa radicale inversione di tendenza che ha scompaginato gli equilibri precedenti? Condivido, a tal proposito, il parere di Salvatore Lupo: “Si sviluppa un processo di distacco della giovane magistratura dal potere; grazie alla scolarizzazione di massa che sottrae il reclutamento ai tradizionali canali riservati alla possidenza fondiaria e alla classe dei grandi professionisti; grazie all’applicazione seppur tardiva del dettato costituzionale, che dà alla magistratura prima, al singolo magistrato dopo, un’autonomia della quale mai l’una e l’altro avevano goduto nel passato”. E fu grazie alle novità intervenute nella magistratura che si produssero analoghe novità anche nella polizia e nei carabinieri. E perciò la mafia colpì assieme ai magistrati anche le forze dell’ordine più attive conto di essa (il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo e il capitano Emanuele Basile, e i capi della Mobile Boris Giuliano e Ninì Cassarà, per citarne solo alcuni). Mai nella storia precedente uomini degli apparati della sicurezza pubblica avevano osato sfidare la mafia, se non al tempo del prefetto Cesare Mori. E che dire poi dei comportamenti di alcuni prefetti e questori nel corso di questa lunga storia delle “amorevoli relazioni” con i mafiosi? Solo alcuni esempi vorrei ricordare. Il caso che suscitò maggiore scalpore ed ebbe una risonanza nazionale vide coinvolti a Palermo il questore Albanese, il prefetto Giacomo Mancini e il procuratore capo Diego Tajani. Il procuratore Tajani nel 1871 aveva spiccato un mandato di arresto contro il questore Albanese, accusandolo di essere il mandante di tre omicidi operati da membri della Guardia nazionale di Monreale guidata da un noto mafioso. Il questore si rese latitante e da latitante venne ricevuto dall’allora capo del Governo e ministro degli Interni, Lanza. Quando il questore fu poi assolto nel procedimento giudiziario, sostenuto in maniera aperta dal capo del governo, Tajani si dimise dalla magistratura per poi essere eletto deputato nel collegio di Amalfi per la sinistra storica. E in questa veste che il Tajani nel 1875 pronunciò uno dei discorsi più memorabili sulla mafia nella storia del parlamento italiano, ritornando sui fatti che avevano visto il suo scontro con il questore, con il prefetto e con il capo del governo. Qual era l’accusa del Tajani ad Albanese? Al di là dei singoli casi di omicidio, il procuratore indicava nel questore il propugnatore di un’idea di ordine pubblico cogestito con rappresentanti della mafia. Egli applicava alla lettera le indicazioni del prefetto Mancini, il quale per garantirsi il pieno controllo della regione aveva autorizzato i questori a prendere accordi con la mafia e a coinvolgerla nella tenuta della sicurezza dei luoghi da essa dominati. Per di più ai proprietari che gli chiedevano consigli su come comportarsi contro coloro che attentavano ai lori beni, Albanese suggeriva di ucciderli immediatamente sul posto, o di farsi aiutare in questa opera da persone esperte (cioè i mafiosi). Coperto dal prefetto Medici, Albanese condivideva apertamente con la mafia la gestione dell’ordine pubblico. Tajani, nel suo discorso in Parlamento sostenne che le vittime della mafia erano disposte a parlare, ma poi si scoraggiavano e finivano nel silenzio: “Come volete che tutti i cittadini siano degli eroi, ed abbiano la forza, il carattere, il coraggio civile di deporre in piena libertà, quando sanno che questa giustizia è in una certa sua parte, almeno nella parte esecutiva, rappresentata da coloro che per primi dovrebbero essere colpiti?”. Un questore di Palermo nel 1924 (come ricorda Arrigo Petacco) scisse parole di grande ammirazione per Vito Cascio Ferro, allora capo della mafia, come se fosse un eroe civile e non il capo di un’associazione di assassini. Un prefetto di Caserta, Goffredo Sottile, ebbe a dichiarare il 30 luglio 1997 (quando già la camorra casalese controllava ampiamente il settore dei rifiuti) che “per quanto riguarda le presenze malavitose nel settore siamo ancora ai ‘si dice’. Riscontri obiettivi sulla presenza della criminalità organizzata non ne abbiamo”. Un suo predecessore, Luigi Damiano, nel 1995 aveva affermato: “Da quando sono qui, da due anni e mezzo, non ricordo qualche connessione tra cave e camorra o malavita in genere”. Eppure il clan dei Casalesi per anni aveva dominato nel campo degli inerti e da diversi anni seminava di rifiuti le campagne casertane e di morti le strade. E quando si è trattato di anticipare l’evoluzione delle mafie, in particolare quello che si stava prefigurando come un radicamento mafioso in alcune regioni del Nord, il ruolo di alcuni prefetti è stato di negazione dell’evidenza. In particolare va ricordato il ruolo svolto nel 2010 dall’allora Prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi, che di fronte alla Commissione Parlamentare Antimafia in visita nel capoluogo lombardo, riuscì a dichiarare che anche se sono presenti singole famiglie, ciò non vuol dire che a Milano e in Lombardia esista la mafia come se non fossero mai esistiti decenni di rapporti di polizia, inchieste giudiziarie e giornalistiche, nonché manifestazioni antimafia. Ad analizzare poi il numero di latitanti che per anni e anni hanno potuto vivere tranquilli, fare figli, vedersi con i familiari sicuri della tolleranza anche delle forze dell’ordine, si resta allibiti. Bernardo Provenzano è stato latitante per ben 43 anni, 26 anni Vito Roberto Palazzolo, 24 Totò Riina, così per 24 anni si è nascosto Salvatore Lo Piccolo, per 18 anni Giovanni Arena, per 17 Vito Badalamenti, per 11 anni Nitto Santapaola e per 10 i fratelli Graviano. Sono tutti boss di Cosa nostra. Stessa cosa è avvenuto con i boss della ndrangheta: 24 anni Giuseppe Giorgi, 20 anni Domenico Condello,19 anni Giovanni Fazzolari,18 anni è rimasto latitante Pasquale Condello, 17 anni Giovanni Tegano, 16 anni Sebastiano Pelle, 16 Salvatore Pelle e 15 Luigi Facchineri. Per la camorra si va dai 31 anni di Pasquale Scotti ai 16 anni di Michele Zagaria, dai 16 anni di Pasquale Russo ai15 anni di Marco Di Lauro e ai 14 di Antonio Iovine. In quale parte dell’Occidente sviluppato è avvenuto qualcosa del genere? L’Italia è anche la nazione in cui per anni alcune carceri sono state controllate interamente da mafiosi, ‘ndranghetisti e camorristi, come testimonia bene la storia criminale di Raffaele Cutolo che stando quasi sempre in carcere nella sua vita da adulto ha dato vita a una associazione criminale di più di 5000 aderenti, e come dimostra il fatto che alcuni mafiosi hanno procreato figli stando in carcere, come racconta nel suo documentato libro Sapevamo già tutto il generale dei carabinieri Giuseppe Governale. Oltre ai magistrati, ai prefetti e ai questori, bisogna sempre ricordare che ben 5 presidenti del consiglio hanno avuto rapporti accertati con mafiosi, e almeno tre ministri degli interni e un vasto numero di ministri e parlamentari. Il marchese Starabba di Rudinì, che sarà poi capo del governo italiano tra il 1891e il 1892, aveva dichiarato nel 1876 davanti a una commissione parlamentare che esisteva una mafia benigna: “Ma che cosa è questa mafia? Io dico che è anzitutto una mafia benigna. La mafia benigna è quella specie di spirito di braveria, quel non so che di disposizione a non lasciarsi soverchiare, ma piuttosto soverchiare. Dunque mafioso benigno per così dire potrei esserlo anche io”. E al figlio di Emanuele Notabartolo, ex sindaco di Palermo ammazzato dalla mafia, che era andato da lui per un sostegno contro un deputato siciliano accusato di esserne il mandante (Raffaele Palizzolo) diede questo consiglio, nelle vesti di capo del governo dell’Italia: “Se è convinto dei mandanti dell’assassinio di suo padre perché non li fa uccidere?”, invitandolo nei fatti a servirsi di killer di mafia. Un altro siciliano a capo del governo tra il 1917 e il 1919, Vittorio Emanuele Orlando, aveva esclamato in un comizio a Palermo nel 1925: “Se per mafia, infatti, si intende il senso dell’onore portato fino all’esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte; se per mafia s’intendono questi sentimenti, e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni individuali dell’anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo”. E che dire di Giulio Andreotti, il politico italiano più potente del dopoguerra, capo del governo per ben 7 volte capo del governo e 34 volte ministro, nominato poi senatore a vita “per meriti”? Malgrado le notizie ad arte diffuse su un suo totale proscioglimento dalle accuse di mafia nei processi che lo avevano riguardato, fu invece pienamente consapevole dei rapporti dei suoi uomini con la mafia in Sicilia e lui stesso in prima persona li aveva coltivati. Ecco cosa scrivono realmente i giudici: “L’imputato con la sua condotta ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale e arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi”. E aggiungono: “L’imputato anche nei periodi in cui rivestiva le cariche di ministro e di presidente del Consiglio dei ministri della repubblica italiana, si adoperò in favore di Sindona, nei cui confronti l’autorità giudiziaria italiana aveva emesso sin dal 24 ottobre 1974 un ordine di cattura per il reato di bancarotta fraudolenta. Se gli interessi di Sindona non prevalsero, ciò dipese in larga misura dall’onestà e dal coraggio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, il quale fu ucciso su mandato di Sindona”. Sindona era stato uno dei principali riciclatori dei soldi della mafia americana e siciliana, in particolare di quelli di Inzerillo, Bontate e Gambino. E Andreotti non venne condannato per associazione di stampo mafioso solo perché all’epoca dei fatti (prima del 1982, periodo in cui nella sentenza si forniscono le prove di accordi tra lui e i mafiosi) tale reato non era ancora previsto dal codice penale. I rapporti tra Berlusconi, il suo principale collaboratore (Marcello dell’Utri) e i mafiosi siciliani sono ancora più impressionanti e documentati. Rapporti che iniziano nel 1974 e si protraggono per un ventennio. Berlusconi tramite Dell’Utri chiede direttamente aiuto ad alcuni capi-mafia dell’epoca per proteggere i suoi familiari dal pericolo di sequestri, che in quel periodo erano molto diffusi in Lombardia; i mafiosi gli consigliano di assoldare il loro collega Vittorio Mangano formalmente come stalliere ma nei fatti come sovrintendente alla sicurezza dei suoi cari e dei suoi beni immobili. Sta di fatto che l’imprenditore più in carriera dell’epoca, e che poi diventerà presidente del consiglio, si rivolge a mafiosi e non alle forze di polizia. Ma non si tratterà solo di protezione chiesta a criminali in cambio di soldi ma anche di molto altro. Nella sentenza del 2004 in cui il senatore Dell’Utri viene condannato a nove anni di reclusione, i giudici scrivono: “ La pluralità dell’attività posta in essere da Dell’Utri, per la rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di Cosa nostra, alla quale è stata, tra l’altro, offerta l’opportunità, sempre con la mediazione di Dell’Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti dell’economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che politici”. E ancora: “Anziché astenersi dal trattare con la mafia, ha scelto di mediare tra gli interessi di Cosa nostra e gli interessi imprenditoriali di Berlusconi”. Nel 2010 nella sentenza di secondo grado, anche se si riduce la pena da nove a sette anni per il collaboratore di Berlusconi, i giudici così scrivono: “Vi è una indiretta conferma del fatto che anche Silvio Berlusconi in quegli anni lontani, pur di risolvere dei problemi, non esitava a ricorrere alle amicizie particolari del suo amico siciliano che gli garantiva la possibilità di fronteggiare le ricorrenti richieste criminali riacquistando la serenità perduta a un costo per lui tollerabili in termini economici”. La condanna di Dell’Utri diventa definitiva nel 2014 con una sentenza della Cassazione. Insomma, la domanda semplice da porsi è questa: può un imprenditore servirsi di mafiosi per farsi proteggere? Può avere come principale collaboratore un amico di mafiosi? E, infine, può diventare presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia un imprenditore-politico che aveva relazioni con dei rappresentanti di un’organizzazione criminale ritenuta dalle leggi della nostra repubblica tra le più pericolose al punto da punirla con una legislazione speciale? È singolare poi il modo in cui sia Dell’Utri sia Berlusconi abbiano onorato il mafioso Mangano per il fatto di non aver parlato dei loro “strani” rapporti con i magistrati, definendolo un “eroe”. In quale altra nazione può succedere che un assassino, un membro di un’organizzazione criminale venga definito un eroe dal capo del governo italiano e da un senatore della Repubblica? Dunque, è assolutamente provato che almeno 5 presidenti del consiglio dei ministri, meridionali, settentrionali e dell’Italia centrale hanno avuto rapporti con le mafie o ne hanno colpevolmente sminuito il carattere criminale. Per troppo tempo i rapporti con le mafie sono stati considerati da una parte della politica italiana dei comportamenti usuali e normali al punto che un ministro della Repubblica, il settentrionale Pietro Lunardi, ha potuto tranquillamente affermare, senza coglierne minimamente la gravità, che con mafia e camorra bisogna convivere e i problemi della criminalità ognuno li risolva come vuole. E diversi ministri degli Interni (cioè coloro che dovevano garantire la collettività dal condizionamento delle mafie) sono stati accusati, alcuni processati, per rapporti con le mafie (Giovanni Nicotera con la camorra secondo le accuse che gli mosse nel 1874 il prefetto di Napoli Mordini; Mario Scelba con la mafia negli anni ‘50 del Novecento e Antonio Gava negli anni Ottanta). Così come sono diventati capi della polizia personaggi come Vicari e Parisi, al centro di discusse trattative con camorristi e mafiosi (nel caso dell’uccisione del bandito Giuliano il primo, e nel caso della liberazione dell’assessore regionale della Campania Ciro Cirillo il secondo). L’Italia è l’unico paese nell’occidente in cui la sfera politica e quella criminale si sono così fortemente intrecciate con l’avallo dei diversi esponenti della magistratura e delle forze di sicurezza. Come si è potuto affermare in Italia un potere privato violento per così tanti anni senza determinare una emarginazione per coloro che la esercitavano ma addirittura una legittimazione diretta o indiretta da parte di diversi rappresentanti delle istituzioni che rappresentavano lo Stato? Consiste in ciò l’originalità della questione mafiosa in Italia: essa non è parte della storia del crimine, ma è dentro fino in fondo alla storia delle classi dirigenti italiane e della loro concezione dello Stato. Che c’entra l’antimafia sociale con questa lunga e pesante responsabilità politica e istituzionale? Parma. Giustizia riparativa: “Vivere e non sopravvivere” di Alberto Padovani parmadaily.it, 21 marzo 2022 Intervista a Max Ravanetti. “Sono Max Ravanetti, vivo e lavoro a Parma. Mi definisco sempre un educatore prestato al sindacato. Credo che tra le due professioni ci sia un segno di continuità, che dà il senso della misura di cosa intenda io per vivere. Se poi ci metti che sono appassionato di musica tanto quanto di calcio e che in queste due ultime attività creative/ricreative metto sempre energie e passione, credo che il “gioco” sia fatto su come mi veda io. Magari molti mi vedono in altro modo, ma tant’è”. Max, se dovessi spiegare ad una persona appena conosciuta la giustizia riparativa, cosa gli diresti? Come definizione tecnica le direi qualsiasi procedimento che permetta alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale. Poi, personalmente le direi che è qualcosa di prezioso. Uno strumento che va colto e che permette di elaborare il passato e da strumenti per il futuro. Credo che sia una opportunità che bisogna darsi senza pregiudizi e senza preconcetti e che ci si debba mettere in ascolto. Le elaborazioni possono essere sia storiche che di analisi sociali e rapporti personali. Questo è ciò che direi perché mi ritengo un messaggero che porta alla luce le persone che hanno vissuto ed attuato questi percorsi che mi hanno coinvolto e fatto sentire parte di un percorso. Quando e come è nato il tuo interesse per la giustizia riparativa? E’ una storia difficile da spiegare in poche parole ma ci provo. Parto dal Max bambino di 7 anni e ricordo come fosse ora il sequestro e poi l’omicidio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Ero un bambino come tanti, con le sue paure ed i suoi “interessi”: il calcio (tanto tanto calcio), i giochi in cortile tra i più disparati. Ricordo di come mi divertivo con molto poco. Mio padre era un metalmeccanico e mia madre faceva le pulizie in casa di un pezzo grosso in città: oggi le chiamano colf, allora “donna delle pulizie”. In quegli anni la tv non aveva filtri e già da bambino percepivo come la violenza fosse uno strumento con cui si faceva politica: lo respiravi dalla tv, dai discorsi che “i grandi” facevano a tavola rispetto a ciò che la nostra società stava vivendo. Crescendo, ho sempre avuto dentro quel pezzo di vita come un lutto non elaborato o come la voglia di capire. Così, negli anni ho iniziato a leggere tutto su quelli che vengono definiti “gli anni di Piombo”: libri, saggi, articoli, guardato documentari ed interviste o spettacoli teatrali. Posseggo un numero di libri e video esorbitante su quegli anni. Poi ho iniziato anche a cercare di capire cosa ne avrei voluto fare di tutte quelle informazioni: un libro? No, non ho velleità e capacità letterarie. Uno spettacolo? No, non saprei né come e né mettere in ordine i contenuti. Insomma, avevi una vera passione su questi temi, ma non avevi ancora idea di come svilupparli? Non sapevo proprio. Allora iniziai a cercare giornalisti o addirittura testimoni diretti coinvolti in quegli anni. Ho incontrato e partecipato ad appuntamenti di giornalisti come Giovanni Fasanella ma, pensai che no, non mi interessava parlare di quei fatti nel suo modo. Non amo la dietrologia da sempre e non mi piace disquisire su teorie complottiste, che lasciano marginali le questioni umane. Fu così che, nei primi anni ‘90, mi imbattei nell’intervista che Sergio Zavoli fece a Franco Bonisoli, ex appartenente alle Brigate Rosse, membro del comitato esecutivo e coinvolto nel caso Moro: fu un’illuminazione. Il modo in cui quel giornalista riuscì a mettere in luce l’aspetto umano di una persona che sa di averla fatta grossa ma non chiede nulla e che si fa carico e responsabile del dolore creato mi lasciò affascinato. Mi colpì positivamente anche come Franco - oggi lo chiamo così perché è uno dei miei amici più preziosi per me - provava dolore, forte e sincero senza barriere: si mise veramente a nudo ed in un Paese come il nostro credo possa anche essere pericoloso. Tieni presente che Franco ancora non aveva fatto il percorso di giustizia riparativa. Ancora non sapevo dove sarei arrivato ma quella fu una lampadina. Dopo quasi 28 anni, le mie continue ricerche mi fanno scoprire “il gruppo dell’incontro” del quale c’è anche il libro, che ovviamente ho comprato e letto, e grazie al quale ho scoperto di queste persone (ex appartenenti alla lotta armata e figli di vittime), che si son incontrate in un percorso mediato da Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato e Padre Guido Bertagna. Un percorso decennale, all’inizio protetto e non pubblico. Ne venni in contatto grazie ad una mail che spedii ad Adriana Faranda, la quale mi rispose subito in maniera entusiasta. Da li, la prima edizione dell’iniziativa “Vivere e Non Sopravvivere” “Vivere e Non Sopravvivere”: un’iniziativa pubblica portata avanti da alcuni anni a Parma con coraggio e crescente risposta di interesse: ci fai una sintesi? Come si evolverà in futuro? È stata un’iniziativa alla quale ho dedicato molto del mio tempo libero. Ma devo ringraziare prima di tutto la Cgil di Parma, nelle persone di Massimo Bussandri (oggi al Regionale) e Lisa Gattini, attuale Segretaria della Camera del Lavoro di Parma - quest’ultima anche per i contributi preziosi che hanno arricchito l’iniziativa - per il coraggio e la forza con cui hanno sostenuto questo progetto. Ultima, ma non ultima, Carla Chiappini, giornalista che collabora con “Ristretti Orizzonti”, una redazione di detenuti all’interno degli istituti penitenziari. Oggi Carla, donna di altissima sensibilità, è parte piena di questo progetto e stiamo lavorando insieme per renderlo sempre più fruibile. Non è facile andare oltre alle resistenze e le diffidenze. Ho organizzato 3 appuntamenti, il primo e l’ultimo sono stati i più ricchi a mio modo di vedere, il secondo quasi un passaggio necessario che mi ha dato spunti di riflessione: ad esempio ho compreso che il “pallino” è meglio averlo sempre sotto controllo e che l’organizzazione deve sempre essere condivisa con poche persone e fidate. Per questo credo che la terza edizione abbia avuto un grande riscontro ed una crescente risposta. Sto cercando di portare l’iniziativa a livello nazionale e ci sto lavorando insieme a Carla. Per ora questo lavoro lo “proteggo” ma, appena avrò news, promesso che ti aggiornerò. Buona parte del tuo lavoro si svolge con le scuole: come ti poni con gli studenti? Quale ritorno hai dall’incontro con loro su questi temi complessi e articolati? Banalmente, come vedi i giovani di oggi? Mi pongo proprio come messaggero, scusa se ripeto spesso il termine. Mi pongo come una persona che vuol dare un’opportunità. Non mi impongo, cerco di stimolare l’ascolto e l’uso delle parole. I ritorni sono davvero preziosi: in alcuni istituti siamo tornati per quella che viene definita restituzione e dagli studenti, tramite gli incontri ma anche tramite le domande o le riflessioni che mi inviano. Percepisco la voglia e la “sete” di capire e comprendere non solo il percorso e gli strumenti, ma anche la voglia di ricostruire storicamente la storia di questo Paese. Come dice Aluisi Tosolini, Preside del Liceo Bertolucci, per cui nutro una stima infinita, “una scuola che non affronta i suoi nervi scoperti, non è una scuola”: io spesso questo pensiero lo applico anche a questo Paese, che ancora oggi fa fatica ad affrontare quella storia ed i percorsi di oggi di chi quegli anni li ha vissuti e in un certo senso “fatti” o “subiti”. In questo tuo attuale percorso, ti senti ancora educatore? Quanto ti è utile il lavoro ventennale nei servizi educativi nell’affrontare le esperienze collegate alla giustizia ripartiva? Bella questa domanda. Si. Mi sento pienamente educatore ogni istante e soprattutto nell’approccio a questi percorsi. Aggiungo che, da quando tratto il tema della giustizia riparativa, ho cambiato anche i miei paradigmi rispetto al lavoro: infatti mi sento educatore anche nel lavoro da sindacalista. Molto bella questa risposta! Max, in questa esperienza, hai conosciuto, anzi, ti sei immerso in un mondo complicato, a volte oscuro e sconosciuto ai più: se dovessi sintetizzare in poche righe, cosa ne hai tratto e in quali contenuti ti sei arricchito? Sono grato a persone come Agnese Moro, Giorgio Bazzega, Franco Bonisoli, Manlio Milani, Adriana Faranda e Fiammetta Borsellino, ma anche Carla Chiappini ed i compagni della CGIL di Parma, che oggi sono anche amici preziosi. Con ognuno di loro ho un vero rapporto amicale stretto. Con Giorgio Bazzega, oggi uno dei miei migliori amici, siamo spesso insieme a programmare e progettare visto che si è trasferito vicino a Parma. Mi sono arricchito di tante cose, ma su tutte ho imparato ad ascoltare e a non dare mai nulla di scontato. Ho imparato a non avere mai pregiudizi. Ho imparato a disarmarmi per comprendere. Ammetto, non senza ogni tanto scivolare in questa società complessa. Ma questo “mondo complicato”, come giustamente lo hai definito, mi permette anche di cogliere anche i miei errori e di elaborarli e ripararli. Uscendo un attimo dal tema, mi hai detto di essere uscito dai social network: per quale motivo? Credo possa essere importante che si sappia… Ecco, mi sono guardato. Avevo perso completamente il controllo quando ero sui social. Non stavo “zitto” e spesso ho fatto passare messaggi contrari a ciò che volevo dire. Non sono uno che ha dimestichezza con la scrittura e non ho velleità letterarie. Il social, se non ne sai fare un buon uso, può diventare un boomerang dove le persone ti scaricano addosso il loro meccanismo mentale e ciò che in realtà sono loro. Spesso, sono proprio le persone della mia generazione a fare un uso dei social in un certo senso violento. Oppure lo usano come una passerella sulla quale ostentare la propria immagine. Ho conosciuto persone terze, tramite “Vivere e Non Sopravvivere” che sui social ed a livello pubblico davano un’immagine di sé completamente diversa da ciò che poi sono nel proprio privato. Ecco, io ero parte di quei meccanismi e dinamiche, che oggi guardo con sospetto, anche se sono sempre stato me stesso: non ho alcuna velleità, nessuna voglia di emergere. Solo tanta voglia di condividere insieme. Il carcere nel 2022: quale realtà è, a Parma innanzitutto? Quali cose possono e devono migliorare? Come si può essere utili, anche da fuori, ad un miglioramento della situazione e delle criticità legate al carcere e ai percorsi di reinserimento sociale, come semplici cittadini? È un altro tema complesso. Il sistema penitenziario a mio parere sta attraversando una profonda fase di cambiamento. La pena inflitta viene percepita dalla popolazione come una sorta di vendetta e questo è contrario all’art. 27 della Costituzione. Per citare Agnese Moro o Giorgio Bazzega, credo che la società tutta debba mettersi nell’ottica di riaccogliere le persone “ristrette” (ovvero detenute, ndr) che hanno sbagliato, o che hanno compiuto un grave reato, e non tendere a isolarle semplicemente. In generale credo che per affrontare alcune criticità, come anche questa nello specifico, servano profonde riflessioni a livello sociale. È chiaro come il carcere sia importante per fermare chi commette un reato, per dargli un “alt”, ma poi è necessario trovare forme che rispettino l’art 27 della Costituzione e che quindi riconoscano l’individuo in quanto tale. Perché vedi Alberto, non c’è alcuna giustificazione che si possa dare a chi commette un reato, ma ho imparato che chiedersi il perché alcuni reati “accadono”, o perché ci sia recidiva da parte di chi esce dal carcere, sia un buon punto di partenza per agire sulle cause e far sì che non vi sia sola e semplice repressione. Faccio sempre un esempio molto semplice e “terra terra”: se sotto casa mia rubano una macchina, magari la mia, spero che l’autore del reato venga preso e ne paghi le conseguenze, facendogli però comprendere la gravità del gesto. Ma se sotto casa e solo sotto casa e nel mio quartiere, rubano tre macchine a settimana, spero sì che venga fermata questa pratica, ma insieme mi chiedo il perché accada tutte le settimane e solo sotto casa mia. Ed è da lì che si parte per poter agire in linea con la Costituzione. Sassari. Oltre 70 positivi al Covid tra detenuti e agenti L’Unione Sarda, 21 marzo 2022 Allarme per un rialzo dei casi di Covid nelle carceri italiane. I numeri restano inferiori rispetto a quelli di inizio anno, ma - dopo un calo - i contagi sono tornati a salire, anche in Sardegna, sia tra i detenuti che tra gli agenti penitenziaria. Osservato speciale nell’Isola è il carcere di Sassari, dove secondo gli ultimi dati del Dap ci sono 53 detenuti positivi, mentre i contagi tra gli agenti sono una ventina. A livello nazionale il principale focolaio è nel carcere romano di Rebibbia che tra tutti i suoi plessi ha 341 detenuti positivi (una donna è ricoverata in ospedale, gli altri sono asintomatici). Segue il penitenziario di Rieti con 101 casi, tutti asintomatici. Quindi Parma con 94 detenuti positivi, uno dei quali ricoverato in ospedale. E poi c’è Sassari. In totale, i detenuti attualmente positivi in Italia sono 1.357. Brescia. I detenuti di Verziano donano caffè e pasta per l’Ucraina Giornale di Brescia, 21 marzo 2022 Si sono autotassati per dare il proprio contributo di solidarietà alle persone che stanno soffrendo a causa della guerra che sta tenendo col fiato sospeso l’Europa. Perché la vera solidarietà non conosce confini, né barriere. Neppure quelle solidissime che circondano il carcere bresciano di Verziano. Le notizie che costantemente arrivano dall’Ucraina martoriata non hanno lasciato indifferenti neppure i detenuti. I quali, nei giorni scorsi, si sono rivolti al cappellano dell’istituto penitenziario di via Flero, don Faustino Sandrini, per manifestare il proprio desiderio di aiutare, in qualche modo, donne, bimbi e anziani che cercano di sopravvivere e di fuggire da una terra che sta vivendo l’incubo di un conflitto assurdo. Così, in uno sforzo corale che ha coinvolto sia i detenuti della sezione maschile sia le donne recluse nella sezione femminile, anche da Verziano è giunto un prezioso contributo in pacchi alimentari. “I nostri carcerati - spiega don Faustino Sandrini raccontando la recente iniziativa - hanno deciso di autotassarsi e, quindi, di utilizzare i pochi fondi a loro disposizione per acquistare beni alimentari di prima necessità come pasta, sale e caffè. I detenuti hanno insomma rinunciato ad una parte delle loro risorse, che non sono certo ingenti, per far del bene dal profondo del cuore”. Alla fine l’impegno dei detenuti e delle detenute ha consentito di raccogliere e confezionare sei scatoloni di viveri. Pacchi che sono stati già recapitati alla Caritas Parrocchiale Volta per la distribuzione. Genova. La compagnia dei detenuti di Marassi in “Delirio di una notte d’estate” di Carlo Imparato ilcittadino.ge.it, 21 marzo 2022 Al Teatro Ivo Chiesa e al Teatro dell’Arca. Dopo due anni di assenza dal palcoscenico la Compagnia Scatenati, composta da detenuti della Casa Circondariale di Marassi, andrà in scena dal 19 al 24 aprile al Teatro Ivo Chiesa e dal 26 al 28 aprile al Teatro dell’Arca (Casa Circondariale Marassi), con la nuova produzione “Delirio di una notte d’estate” liberamente tratto dall’opera “Sogno di una notte di mezza estate” di W. Shakespeare. L’Associazione Teatro Necessario, che da più di quindici anni lavora all’interno del carcere con le proprie attività teatrali e la gestione del Teatro dell’Arca (unico esempio di un teatro in Europa costruito all’interno di un istituto detentivo, in larga parte con la manodopera dei detenuti stessi ed aperto al pubblico esterno) ha permesso di portare a termine la preparazione del nuovo spettacolo nonostante le chiusure e le limitazioni della pandemia. Circa venti detenuti da otto mesi sono impegnati tre volte alla settimana nella preparazione dello spettacolo teatrale, mentre altrettanti detenuti sono impegnati nei corsi tecnici nei mestieri del teatro, quali scenotecnica, costumi, luci e audio. L’intero progetto si e? rivelato, oltre che uno straordinario strumento di integrazione e di riabilitazione socio-culturale e lavorativa per i detenuti che ne hanno preso parte, un’interessante fucina in grado di produrre manifestazioni di notevole valore sociale, artistico e culturale. È sempre una grande emozione potere verificare come il processo di cambiamento dei detenuti coinvolti, sia sempre così importante e determinate per la loro vita e quella delle loro famiglie, infatti, come dimostrano le statistiche, la recidiva media nazionale dei detenuti passa dal 60% a circa il 6% per i detenuti che partecipano ai laboratori teatrali. Molte scuole e gruppi associativi organizzano momenti di confronto sulle tematiche del carcere all’interno dei propri istituti, anche in presenza di ex detenuti, che con la loro testimonianza rendono ancora più significativi ed efficaci gli incontri di educazione alla legalità. L’invito a partecipare ad una delle repliche non solo permette di assistere ad uno spettacolo unico nel suo genere, ma costituisce anche un’occasione per sostenere l’attività educativa dell’Associazione Teatro Necessario. Con questo intento invitiamo i singoli cittadini, le associazioni, le parrocchie a partecipare alle rappresentazioni dello spettacolo al Teatro Ivo Chiesa o al Teatro dell’Arca, tenendo conto che gli organizzatori sono disponibili ad incontrare chi lo ritenesse opportuno per illustrare il progetto. Prenotazioni: www.teatronazionalegenova.it/spettacolo/delirio-di-una-notte-destate - www.teatronecessariogenova.org/tno-tda/eventi/delirio-di-una-notte-destate/ La Spezia. Le canzoni dei detenuti in un album. La musica come strumento di riscatto di Elena Sacchelli La Nazione, 21 marzo 2022 Presentata alla Camera dei deputati l’idea nata dal produttore discografico sarzanese Paolo Bedini. Il disco “Parole liberate” conterrà quattordici testi scritti da detenuti di tutte le carceri italiane e sarà pubblicato a livello nazionale il 1 aprile Parte da Sarzana grazie a un’intuizione di Paolo Bedini un progetto destinato ad avere un respiro nazionale. L’idea di rimettersi in gioco con un progetto musicale dalla grande valenza sociale è nata durante il periodo di stallo forzato dettato dalla pandemia. Ed è stato proprio in quei giorni bui - quando il settore della musica come quello di tutto lo spettacolo era obbligatoriamente fermo - che Paolo Bedini, manager e produttore discografico sarzanese nonché fondatore dell’etichetta Baracca&Burattini, insieme all’associazione di promozione sociale spezzina Parole liberate oltre il muro del carcere, ha deciso di produrre un nuovo disco. Parole liberate, album con 14 singoli scritti da detenuti di tutte le carceri italiane che hanno aderito al bando lanciato dall’associazione spezzina in accordo con il Ministero della Giustizia e cantati da artisti italiani, uscirà il 1° aprile. Un nobile progetto quello portato avanti dall’associazione spezzina che è nato nel 2014, ma che quest’anno è cresciuto unendo al piano prettamente sociale anche quello della distribuzione. Proprio lo scorso 8 marzo infatti Paolo Bedini, sarzanese doc, ha presentato il risultato dell’ambizioso progetto a Roma, alla Camera dei deputati, e tra pochi giorni tutti potranno ascoltarne i frutti. Bedini ha alle spalle una lunga carriera nel settore musicale. A cavallo tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80 ha organizzato in Italia concerti di artisti di fama internazionale come quelli di Neil Young e dei Dire Straits, ma uno dei suoi più grandi successi resta lo storico concerto di Fabrizio De André del 1979 mandato in onda dalla Rai. Nel 1982 Bedini ha deciso di aprire la sua etichetta discografica in origine con sede a Roma, poi trasferita a Sarzana nel 1995, per produrre dischi di artisti underground. Paolo Bedini, che nel corso della sua carriera ha prodotto album di artisti del calibro di Giovanni Lindo Ferretti e dei Baustelle, dopo un periodo di stasi, ha saputo reiventarsi. “Durante quel periodo di crisi in cui eravamo tutti senza lavoro - ci ha spiegato Paolo Bedini - mi è venuta l’idea di provare a fare qualcosa di nuovo. Il progetto di Parole Liberate esisteva già, ma dato che negli ultimi due anni la solita premiazione che si è sempre svolta a Milano a causa della pandemia da covid non si è potuta svolgere, mi è venuta l’idea di mettere insieme i testi scritti dai detenuti nel corso degli ultimi anni, e di mandarli a una serie di artisti che, scegliendo quelli che ritenevano essere più nelle loro corde, li hanno poi trasformati in vere e proprie canzoni”. Luca Faggella, Giorgio Baldi, Andrea Chimenti, Gianni Maroccolo, Fabrizio Tavernelli, Petra Magoni, Teresa Plantamura, Virginio, Lisa Giorè, Ambrogio Sparagna, Yo Yo Mundi, Acquaragia Drom, Magicaboola Brass Band, Enrico Maria Papes, Federica Balucani, Pape Gurioli, Michael Manring, Riccardo Monopoli e la band spezzina Nuovo Normale: questi tutti gli artisti che hanno partecipato attivamente al progetto e che compariranno nell’album che oltre alla versione classica sarà distribuito nei digital store da The Orchard/Sony Music Entertainment. “Dopo che uscirà l’album - ha concluso Bedini - se la pandemia ce lo permetterà organizzeremo concerti in tutt’Italia per promuovere Parole Liberate. Il disco unisce testi, personalità e tonalità molto interessanti e speriamo davvero che il frutto di un lavoro lungo e articolato possa essere apprezzato”. Milano. Bollate, dietro le sbarre una casa discografica Settegiorni, 21 marzo 2022 “Peached label” è un progetto di Demetrio Sartorio, discografico e produttore milanese che ha voluto investire sul talento di alcuni detenuti. Boomer e Ice sono due cantanti del settimo reparto del carcere di Bollate: il primo singolo che uscirà è “Free”. Il produttore Demetrio Sartorio è entrato nel carcere di Bollate in cerca di talenti. E li ha trovati: si fanno chiamare Boomber e Ice, due detenuti del settimo reparto, che hanno firmato un vero contratto discografico per i prossimi cinque anni. “Questo non è solo un esperimento sociale - ha affermato l’esperto. È una vera e propria occasione”. “Peached label”, così si chiama la casa discografica della casa di reclusione di Bollate, è un’idea sorta anni fa e che solo nell’ultimo periodo è maturata e finalmente concretizzata: “Ho un amico che per uno sbaglio gravissimo ed è stato condannato alla detenzione - ha raccontato Demetrio - Non mi andava di rimanere a guardare. Volevo fare qualcosa per aiutare le persone come lui”. È così che ha deciso di mettere a disposizione dei detenuti le sue conoscenze e il suo talento musicale. “Ho fatto ingresso nel carcere e mi sono reso conto che a tantissimi piace suonare, cantare, scrivere - ha continuato - Praticamente tutti strimpellano nella propria cella”. Perché, quindi, non creare un “X Factor” interno al carcere? “Ho cominciato a fare un vero e proprio talent scouting, ho organizzato delle giornate in cui chi pensava di avere un talento doveva presentarsi e mostrare ciò che sapeva fare”. Ha iniziato dal quarto reparto ed è finito al settimo: “Un’area molto delicata dell’istituto, dove, però, ho incontrato dei veri talenti”. Si tratta di due ragazzi, Boomber e Ice. Di loro non si può rivelare l’identità, ma la cosa certa è che hanno una storia da raccontare: “Boomer appena l’ho incontrato mi ha mostrato una poesia che aveva scritto, “Il coraggio di morire”, che è il manifesto di tutto questo progetto, dove lui racconta della sua vita da quando ha 11 anni ad oggi - ha spiegato il produttore - Ice, invece, è giovane, e abbraccia il mondo del trap. Credo che non abbia nulla da invidiare ai cantanti che sentiamo in radio ogni giorno”. L’entusiasmo ha preso il sopravvento e una cella si è trasformata in sala d’incisione: “Abbiamo creato una zona con attrezzature all’avanguardia, tutto il necessario per incidere dei prodotti musicali molto forti”. Per loro, infatti, Demetrio ha grandi progetti: “Non li sto trattando come categorie protette, ma come artisti che hanno una vera storia da raccontare e, perché no, anche con l’intento di sensibilizzare”. Hanno firmato un vero contratto discografico: “Gli ho proposto cinque anni di collaborazione per la creazione di due album”. Il primo singolo si chiama “Free”: “Questo progetto non è solo un esperimento sociale - ha voluto specificare - Vuole dare una vera occasione a questi ragazzi che hanno talento”. La “Costituzione” di Papa Francesco crea il ministero della Carità di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 21 marzo 2022 Dopo un lavoro durato nove anni, varata la riorganizzazione della Curia Romana. Previsto anche un forte inserimento di laici per immettere nuove competenze. Una delle questioni più spinose, per papa Francesco che compie nove anni di pontificato, è l’amministrazione vaticana. Prima del conclave del 2013, in cui fu eletto, i cardinali criticarono la Curia, specie la gestione del Segretario di Stato. Bergoglio ha sentito il “mandato” di riformarla. Il primo passo è stato creare un consiglio di cardinali per quest’opera e per discutere i problemi della Chiesa. Già una riforma: quasi un sinodo permanente, endemousa - si dice nelle Chiese orientali - per accompagnare il primate nel governo. È stato invece il luogo dove elaborare la Costituzione sulla Curia, Praedicate Evangelium, pubblicata l’altro ieri. Ci sono voluti nove anni (la riforma di Paolo VI, gestita da lui e da tecnici, impiegò due anni). Francesco ha ricordato la battuta di monsignor de Mérode, ministro delle armi di Pio IX e grande immobiliarista: “Fare le riforme a Roma è come pulire la Sfinge d’Egitto con uno spazzolino da denti”. La Curia è la più antica istituzione europea, che affonda le radici nel governo papale ben prima del mille. Nel 1588 Sisto V la riorganizzò. Nel Novecento ci sono state ben tre riforme: nel 1908 con Pio X, con Paolo VI nel 1967 dopo il Concilio e, infine, con Giovanni Paolo II nel 1988. Francesco si è trovato a fare i conti con una Curia piuttosto stanca, quale si era profilata negli ultimi anni di Wojtyla, ma anche con l’esaurimento di una vivace classe dirigente emersa tra Concilio e post Concilio, che contava personalità come il cardinale Etchegaray, attore umanitario sulle frontiere del mondo o grandi diplomatici come Casaroli e Silvestrini. Il problema non è solo la riforma delle istituzioni, ma anche della classe dirigente, questione comune ai ceti politici di oggi, ma in particolare per gli ecclesiastici, in un tempo in cui il mondo religioso si va “deculturalizzando”. Cultura non è qualcosa di libresco, ma senso del mondo e della storia. Francesco spinge la Chiesa a “uscire”, il che significa confronto con la realtà: qui la sua polemica contro il clericalismo. A Buenos Aires, echeggiando Wojtyla, insisteva sul “creare cultura”: “Una fede che non si fa cultura non è una vera fede”. La cultura è un alfabeto necessario quando ci si misura con una realtà globale e differenziata. Un forte inserimento di laici (auspicato dalla riforma: “Qualunque fedele può presiedere un dicastero o organismo”, pur con limitazioni) può immettere nuove competenze. Il testo insiste sul loro ruolo rispetto al “Vangelo come fermento delle realtà temporali” e al “discernimento dei segni dei tempi”. Espressione conciliare, quest’ultima, che vuol dire una Chiesa nella storia. Infatti, in un’Europa dove si combatte come mai dal 1945, varie Chiese vivono un’introversione: quella tedesca, presa dai conflitti sulla “via sinodale” o quella francese, travolta dagli scandali del clero, mentre altre fanno sentire qualche mormorio. Oltre alla spiritualità dei curiali, la riforma insiste sulla “professionalità”, espressione nuova nel lessico curiale. Peraltro la limitazione del mandato a cinque anni (rinnovabile) per gli ecclesiastici non favorisce l’accumulo d’esperienza frutto delle “carriere” nelle istituzioni. Si pensi al cardinale Casaroli, entrato in Segreteria come archivista nel 1940 e uscito, da Segretario di Stato, cinquant’anni dopo, nel 1990, senza mai un incarico fuori Roma. Eppure, è stato una personalità dall’esperienza preziosa. D’altra parte si capisce la volontà della riforma di evitare un ceto curiale chiuso. Non è la Curia di Paolo VI, in cui l’antico prosegretario Montini attribuiva alla Segreteria di Stato una funzione-guida, quasi una presidenza del Consiglio. Mentre la riunione dei capi-dicastero profilava un Consiglio dei ministri (poi inattuato). Era un modello simile al presidenzialismo francese. La riforma inaugura una Curia più leggera, marcata dall’”indole vicaria” rispetto al Papa, ai vescovi diocesani e alle loro conferenze. Si avverte: “La Curia Romana non si colloca tra il Papa e i vescovi, piuttosto si pone al servizio di entrambi...”. Alle istituzioni, si affianca la spinta alla “convergenza” nella trasversalità e nel dibattito interno per “un funzionamento disciplinato e efficace”. Nuova è la creazione di un dicastero per il servizio della carità, che rappresenta l’iniziativa del Papa verso i poveri nel mondo, espressivo del superamento d’un impegno troppo istituzionalizzato negli organismi cattolici. Resta un problema. La Curia Romana non è un’organizzazione sul tipo dell’Onu. L’internazionalità s’interseca con la romanità. Quale rapporto con la Chiesa di Roma? Si raccomanda ai chierici di occuparsi della “cura d’anime”, una tradizione dei curiali (il cardinale Parolin segue Villa Nazaret). Ma c’è un’osmosi da ricreare tra la Curia e Roma, che durante il Novecento s’è in parte dissolta, perché la Curia abbia un carattere “pastorale” e ritrovi il suo radicamento in una Chiesa, che la fa romana. I media, la guerra e la democrazia di Nathalie Tocci La Stampa, 21 marzo 2022 Parto con una premessa: nonostante da anni partecipi spesso a dibattiti sui media internazionali, è la prima volta che vengo invitata a talk show italiani. Il nostro è un Paese che ha poco interesse per la politica internazionale. È così nell’opinione pubblica, nei partiti e nelle istituzioni, e poco è pure lo spazio che viene dedicato tradizionalmente a questi temi sui media nazionali. Quante volte mi è capitato di spiegare a fatica il mio lavoro ad amici e conoscenti, quante volte mi sono disperata venendo definita una esperta di “geopolitica”. Il disinteresse italiano per la politica internazionale è, purtroppo, una costante della nostra storia. A risvegliarci è stata l’invasione russa dell’Ucraina, con le sue conseguenze umanitarie, economiche ed energetiche che toccano corde profonde, per non parlare del terrore diffuso di una terza guerra mondiale. Arrivo al punto: è con enorme tristezza, sconcerto e preoccupazione che osservo il livello del dibattito pubblico italiano su un tema così esistenziale come il ritorno della guerra sul continente europeo. Il confronto è senz’altro vivo. Giornali, telegiornali e talk show si interrogano quotidianamente sulla guerra, ospitando opinioni divergenti. Ed è giusto, anzi sacrosanto, che in una liberal-democrazia il dibattito sia vivo e si dia spazio a idee diverse. La realtà non è mai monolitica, è sempre un mosaico composto da mille pezzi variegati. Così come è fondamentale che ogni cittadino abbia e possa esprimere liberamente la propria opinione su qualunque tema. La libertà di espressione è il cuore della democrazia: un diritto che noi siamo fortunati di avere, che gli ucraini oggi difendono con il sangue, e che i russi - al pari di altri popoli governati da sistemi autoritari - non hanno. Rivendico con orgoglio il diritto di esprimermi liberamente su qualunque tema, dai vaccini alla filosofia, fino alla fisica quantistica. E ringrazio quando i media nazionali mi aiutano a formare o cambiare idea su questi temi, ospitando esperti che argomentano le proprie posizioni sulla base di studi e esperienze che io non ho, proprio perché non sono virologa, filosofa o fisica. Il dibattito pubblico in Italia, perlomeno su questa guerra atroce, non sembra tuttavia essere basato su questa logica. Tiene certamente alto il nome della diversità di opinione, ma non di una diversità che emana da competenze diverse tutte attinenti al tema in discussione. Ciò che posso dire io come esperta di politica europea e internazionale è necessariamente diverso da ciò che dice un sindaco in Ucraina, un accademico a Mosca, un ministro degli Esteri europeo, un generale statunitense o un funzionario a Bruxelles esperto di sanzioni o di energia. Queste opinioni diverse emanano da competenze diverse ma tutte rilevanti per capire il complesso mosaico che è la guerra in Ucraina. Nei media italiani - soprattutto televisivi - l’impressione è che non si cerchino competenze diverse per aiutare i cittadini-spettatori a comporre il proprio mosaico di conoscenza, ma opinioni divergenti e basta. A prescindere dalle (in)competenze dalle quali emanano. Perché se è vero che per comprendere la guerra in Ucraina servono esperti d’area (Russia e Europa orientale) e di relazioni internazionali, così come di difesa, energia e economia - che trattano queste materie lavorando nelle istituzioni, nell’accademia, nei media, nella società civile e nel settore privato - è altrettanto vero che ci sono competenze che sono poco attinenti alla questione. In che modo le valutazioni di un teorico della fisica, di un filologo o di un sociologo del terrorismo aiutano a formare una posizione informata sulla guerra in Ucraina? Sono opinioni che vengono ospitate per volontà di assicurare una completezza dell’informazione o perché funzionali agli ascolti e alla spettacolarizzazione? Questa è una guerra combattuta tanto nelle città devastate di Mariupol e Kharkiv quanto nello spazio mediatico dell’informazione e della disinformazione. È una guerra fatta di sangue e di narrazione, che va ben oltre i confini dell’Ucraina e riguarda l’esistenza della democrazia, incluso nel nostro Paese. Non è un caso che la Russia da anni investa nella disinformazione, e che questa abbia fatto breccia in Italia. Sul terreno di un disinteresse tradizionale per tutto ciò che avviene o proviene al di là dei nostri confini è stato più semplice lavorare. La disinformazione fa perno e si insidia dove c’è poca conoscenza, competenza e informazione, dilaga laddove è più facile distorcere e manipolare. Il paradosso è quando nel nome della libertà di opinione, e quindi della democrazia, si dà spazio alla opinione slegata dalla competenza, aprendo - consciamente o inconsciamente - alla disinformazione e alla propaganda. E infliggendo un colpo letale alla democrazia stessa. I Centri per il rimpatrio dei migranti hanno fallito e in tre anni ci sono costati 44 milioni di Luca Attanasio Il Domani, 21 marzo 2022 Le dieci strutture di “accoglienza” temporanea dove finiscono i cittadini non europei sprovvisti di permesso di soggiorno sono dei non luoghi, che favoriscono la nullificazione delle persone. “I bagni sono in condizioni deprecabili, in alcuni centri sono senza porte, non esistono tavoli, si mangia in piedi, non ci sono punti di aggregazione, attività sportive”. Una questione enorme, inoltre, è rappresentata dai costi. Come riporta la Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili (Cild), nell’ultimo triennio per la gestione appaltata a soggetti privati dei dieci Cpr sono stati spesi circa 44 milioni di euro. All’inizio, almeno nel nome, sembravano avere un loro senso. Furono istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco-Napolitano e si chiamavano Cpta, acronimo di Centri di permanenza temporanea e assistenza. Col tempo hanno cambiato sigla e assunto un tono sempre più simbolico dell’aria che si respira nel paese attorno al tema immigrazione diventando Cie (Centri di identificazione ed espulsione) e infine Cpr (Centri per il rimpatrio). Sono le dieci famigerate strutture di “accoglienza” temporanea dove finiscono cittadini di nazionalità esterne all’Unione Europea senza aver commesso alcun reato, per il semplice fatto di essere sprovvisti di documenti validi alla permanenza in Italia. E ci rimangono, con limitatissime possibilità di ricevere visite, di essere informati dei loro diritti, in molti casi senza neanche aver capito bene per quale motivo ci siano capitati, fino a 120 giorni. Dietro a inumanità, illegalità e spesso violenza, nascondono anche inefficacia. Pochi rimpatri - “Il primo compito dei Cpr sarebbe riportare in patria chi ha un procedimento di espulsione ma le operazioni effettuate nel 2021”, rivela Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, “sono meno del 50 per cento, se prendiamo il dato delle donne, scendiamo al 13 per cento. I motivi di questi scarsi risultati sono diversi, allontanamento arbitrario (1,14 per cento), arresto all’interno del Cpr (1,11 per cento), dimissioni per mancata identificazione (16,62 per cento), fermo non convalidato dall’autorità giudiziaria (15,64 per cento), c’è un 2 per cento scarso di richiedenti protezione internazionale e altri”. Palma poi aggiunge che “se si priva delle libertà un individuo per rimpatriarlo verso un paese con cui l’Italia non ha stipulato accordi o, come dal marzo del 2020 fino a poco fa, in un periodo in cui gli aeroporti sono chiusi, ogni legittimità decade, i Cpr sono il trionfo delle criticità. Per i penitenziari esiste una legge con molte declinazioni, per i Cpr c’è un regolamento scarno senza controllo parlamentare” Il presidente del Garante spiega, per esempio, che in alcuni centri l’uso del cellulare è permesso a tempo, in alcuni si bucano le fotocamere per evitare che i detenuti riprendano, in altri ancora non è permesso affatto. Inoltre, dice Palma, “c’è poi un altro grosso problema, i giudici che si occupano della convalida del trattenimento, sono onorari non togati, senza competenza né esperienza. Non ci sono i registri, non c’è quindi traccia di attività di custodia a differenza di quanto avviene in carcere”. Milioni per gestirli - Una questione enorme, inoltre, è rappresentata dai costi. Come riporta la Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili (Cild), nell’ultimo triennio per la gestione appaltata a soggetti privati dei 10 Cpr sono stati spesi circa 44 milioni di euro. Per riportare in patria un soggetto, poi, si spende un patrimonio a causa dell’abnorme meccanismo di controllo: in una recente operazione per rimpatriare 19 tunisini, tra scorta, personale medico e altre figure, sono partiti in 80. Al momento, dislocati in dieci città d’Italia gli internati sono 438, tutti uomini. Risiedono in strutture che già dalla loro architettura comunicano repressione. “Sono gabbie senza anima”, denuncia Daniela De Robert componente del collegio del Garante, “luoghi ‘non pensati’, depositi di oggetti, all’interno non c’è mobilio per evitare che venga utilizzato per atti di violenza, i letti, gli armadi, sono tutti ricavati dalle pareti. I bagni sono in condizioni deprecabili, in alcuni centri sono senza porte, non esistono tavoli, si mangia in piedi, non ci sono punti di aggregazione, attività sportive. Sono ‘non luoghi’ che favoriscono una nullificazione della persona”. Le regolari visite svolte dal personale del Garante hanno evidenziato in tutte le strutture enormi carenze nella presa in carico della salute psicofisica. Nel Cpr di Torino, dopo il suicidio del 23enne guineano Moussa Balde, finito lì perché, stramazzante al suolo dopo una gravissima aggressione a Ventimiglia, era stato pescato senza permesso di soggiorno, si è scoperto che il servizio di assistenza psichiatrica, obbligatorio, era sospeso da mesi. Divieto di accesso - L’impostazione generale dei centri, già bene evidenziata dalla scelta dell’allora ministro dell’interno Maroni di vietare alla stampa l’accesso “al fine di non intralciare le attività” è quella di isolamento pressoché totale dall’esterno, al riparo da sguardi indiscreti. Anche da questo punto di vista, la permanenza al Cpr risulta molto peggio che in un carcere. Le visite sono limitatissime, al di là dello staff del Garante e di parlamentari che hanno accesso diretto, per tutti gli altri, entrare è complicatissimo. Ovunque accedono poche associazioni accreditate, tra queste, nel Cpr di Roma, BeFree. “I centri sono il simbolo delle politiche restrittive della fortezza Europa”, spiega Francesca De Masi, vice presidente di BeFree, che precisa: “Come dimostrano alcuni studi, dal momento in cui l’obiettivo del rimpatrio viene in gran parte disatteso, sono mantenuti in vita per il loro valore simbolico, hanno funzioni di deterrente e terrorismo psicologico. Noi entravamo (dall’inizio della pandemia la sezione femminile è chiusa ndr) al fine di fornire consulenza alle donne vittime di tratta, ci capitava di incontrare ragazze che si erano rivolte alla polizia per denunciare violenza o sfruttamento e che, poiché non avevano documenti in regola, venivano spedite al Cpr. Peccato che la legge preveda l’ottenimento del permesso di soggiorno automaticoper vittime accertate di traffico o violenza”. I Cpr oltrea a fallire l’obiettivo primario, il rimpatrio, ledono diritti, disattendono leggi, sono buchi neri che sfornano illegalità e crudeltà ad altissimi costi. Cosa si può fare per migliorare la situazione? “Chiuderli e ripensarli completamente”, è perentorio Palma. “nessuno crede che lo strumento del rimpatrio vada abolito, in alcuni casi può ritenersi necessario. Ma non può essere questo il modo per gestirlo. C’è bisogno di immaginare strutture più piccole, aperte e non ostili all’esterno, dove si valutino i casi con interventi mirati e abbiano costi sostenibili”. La Corte penale internazionale e le responsabilità di Putin di Vitalba Azzollini Il Domani, 21 marzo 2022 La procura della Corte ha annunciato l’inizio di un’indagine sui crimini dell’esercito russo, ma se il presidente non sarà arrestato, non ci sarà alcun processo. Alla guerra scatenata dalla Russia gli stati stanno reagendo attraverso diplomazia, sanzioni, invio di aiuti e di armi. C’è uno strumento ulteriore: la giustizia penale. La Corte penale internazionale (Cpi) - organo giurisdizionale che si occupa dei crimini sovranazionali commessi da persone fisiche, non da stati - ha aperto di propria iniziativa un’indagine sulla situazione in Ucraina, ed è stata investita del caso da parte di alcuni stati aderenti allo statuto di Roma del 1998 (cosiddetti Stati Parte). Lo statuto elenca i crimini sottoposti alla sua giurisdizione: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e aggressione. Per genocidio (art. 6) s’intende qualunque atto di violenza commesso “nell’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Crimini contro l’umanità (art. 7) sono atti di esteso o sistematico attacco compiuto “con consapevolezza” contro popolazioni civili (omicidio, sterminio, riduzione in schiavitù, atti inumani diretti a provocare intenzionalmente grandi sofferenze o gravi danni all’integrità fisica o alla salute fisica o mentale ecc.). I crimini di guerra sono divisi in quattro categorie (art.8). Le prime due, riferite ai conflitti armati internazionali, riguardano “gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949” (omicidio volontario, tortura o trattamenti inumani, grandi sofferenze o gravi lesioni all’integrità fisica o alla salute ecc.) e “altre gravi violazioni delle leggi e degli usi applicabili, all’interno del quadro consolidato del diritto internazionale” (attacchi contro popolazioni civili o contro civili che non partecipino alle ostilità, contro beni che non siano obiettivi militari, contro missioni di soccorso umanitario, ospedali ecc.). Le rimanenti due riguardano i conflitti armati non internazionali. Per atto di aggressione, infine, s’intende “l’uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato, o in qualunque altro modo contrario alla Carta delle Nazioni Unite”, indipendentemente da una dichiarazione di guerra. I crimini di competenza della Corte non sono soggetti a prescrizione. La procedura della Corte - Il procuratore della Corte può iniziare una inchiesta di sua iniziativa o su deferimento del caso da parte di uno stato - come per l’invasione dell’Ucraina - e in queste ipotesi la Corte è competente solo se lo Stato sul cui territorio è stato commesso il crimine o lo Stato di nazionalità dell’accusato, oppure entrambi, siano parti dello Statuto. Invece, se l’avvio di indagini avviene su richiesta del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, la giurisdizione della Corte non è sottoposta a condizioni (art.13). L’Ucraina non è Stato Parte (nel 2000 ha sottoscritto lo Statuto, senza poi ratificarlo), ma nel 2014 ha accettato la giurisdizione della Corte (art. 12.3) per i crimini commessi dalla Russia sul proprio territorio; e nel 2015, a seguito dei fatti in Crimea, ha di nuovo accettato la giurisdizione, senza limite di tempo. Pertanto, la Cpi ha competenza a giudicare i crimini commessi in Ucraina. Ma non quello di aggressione, nonostante l’invasione russa nel territorio ucraino sia qualificabile come tale. La Corte esercita il proprio potere di giurisdizione in caso di aggressione quando quest’ultima e? realizzata da cittadini di uno Stato Parte o sul suo territorio. Né Russia né Ucraina sono Stati Parte. L’avvio dell’indagine per aggressione potrebbe essere chiesta dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu ma il governo russo porrebbe il veto. Il mancato adeguamento dell’Italia - La Corte giudica i crimini indicati dallo statuto solo se uno stato non vuole o non può farlo (art. 17, principio di complementarietà, cui corrisponde la primazia delle giurisdizioni nazionali). Secondo lo Statuto, “è dovere di ciascun Stato esercitare la propria giurisdizione penale nei confronti dei responsabili di crimini internazionali” indipendentemente dalla nazionalità, dal paese di residenza o da qualsiasi altro collegamento di tali soggetti con lo stato che intraprende il processo. Questa forma di giurisdizione “universale” si basa sull’assunto che alcuni crimini siano talmente rilevanti da poter essere oggetto di giudizio in qualunque stato. Le leggi di molti paesi autorizzano i tribunali nazionali a indagare e perseguire i sospettati di reati previsti dallo statuto. Invece l’Italia, nonostante la ratifica, si è limitata ad adeguarsi allo Statuto per profili di collaborazione tra la giurisdizione nazionale e quella della Corte, con particolare riguardo alla procedura di consegna alla Cpi di persone che si trovino sul territorio italiano, a seguito di mandato d’arresto internazionale ovvero di sentenza di condanna della Corte. È stata, invece, stralciata la parte della proposta di legge che avrebbe introdotto nel codice penale norme su genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Siccome la legislazione italiana non prevede tutti i reati di competenza della Corte, l’Italia potrebbe giudicare solo quelli riconosciuti dall’ordinamento nazionale, come tortura, stupro o violenze. Ciò vanifica in parte la “giurisdizione universale”. Putin in tribunale? - I capi di stato non godono di alcuna immunità (art. 27), e Putin potrebbe essere perseguito, ad esempio, per il ripetuto bombardamento di edifici che ospitavano civili. Prima che la Camera dei giudizi preliminari della Corte emetta un mandato di arresto, su richiesta del procuratore, serve siano accertati fondati motivi di reità circa la commissione dei crimini previsti, a qualunque livello della catena di comando (art. 58). Questo può essere difficile specie per i crimini di guerra, soprattutto in mancanza di cooperazione dello stato coinvolto, come nel caso della Russia, che non riconosce la giurisdizione della Corte. I procedimenti giudiziari della Cpi possono richiedere molto tempo: l’inchiesta aperta per l’invasione russa dell’Ucraina nel 2014 è ancora in corso. Comunque, in caso di mandato di arresto da parte della Corte nei riguardi di Putin e altri soggetti reputati responsabili, per garantirne la comparizione al processo, che non può svolgersi in contumacia (art. 63), i 123 paesi parte sarebbero obbligati a consegnarli alla giustizia, qualora li trovassero nel proprio territorio. Appare, tuttavia, difficile che Putin lasci il proprio Paese. Lo spettro delle deportazioni in Ucraina: “Come i tartari di Crimea nel 1944” di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 21 marzo 2022 Gruppi di civili ucraini nella città sul mare d’Azov sono stati costretti a lasciare il Paese verso la Russia: al posto del passaporto ricevono un permesso di soggiorno. “I russi stanno facendo con gli ucraini lo stesso che fecero con i tartari di Crimea nel 1944”. Lo spettro della deportazione è agitato dalle autorità di Mariupol e dello stesso governo di Kiev La tradizione staliniana di sradicare intere popolazioni dalle loro terre per mandarle nell’infinito oriente russo, in Siberia o nelle steppe Khazake, terrorizza e, allo stesso tempo, funziona come ulteriore accusa di disumanità nei confronti del Cremlino. Nei secoli Mosca ha spostato milioni di ceceni, tartari, tedeschi e altre minoranze. Nel caso degli assediati di Mariupol non ci sono prove, solo sospetti e accuse, ma in questa guerra di crudeltà, l’ansia di sfuggire ai combattimenti viene sfruttata a fini di propaganda da entrambe le parti. Per gli ucraini in almeno due occasioni gruppi di civili nascosti in rifugi collettivi nella città sul mare d’Azov sotto assedio sono stati costretti a lasciare il Paese verso la Russia. Sono persone stremate dal freddo e dal sonno, terrorizzate dalle bombe che sperano di lasciare le zone dei combattimenti e mangiare e dormire senza il rombo delle cannonate. Rifocillati, caricati su autobus vengono registrati e, in cambio del passaporto, viene loro rilasciato uno speciale permesso di soggiorno. Da quel momento, denuncia il sindaco di Mariupol Vadym Boychenko, sono prigionieri in Russia. Non possono spostarsi da una provincia all’altra e non possono espatriare. Il loro foglio non vale nulla senza passaporto. E la vicepremier Irina Vereshchuk ieri ha aggiunto: “La Russia non apre i corridoi umanitari verso il territorio ucraino e migliaia di persone vengono deportate. Se vogliono salvarsi non hanno scelta e questo è un altro crimine di Putin”. Ma per i russi si tratta di un corridoio scelto liberamente. L’agenzia russa Ria Novosti ha mostrato ieri l’arrivo a Jaroslavl, in Russia, di un treno con 480 rifugiati di Mariupol. Le autorità sfilano a favore di telecamera mostrando la stessa disinvoltura distaccata dalla realtà del presidente Putin davanti alla folla dello stadio. La vicepresidente del governo regionale, Larisa Andreeva, ha parlato dei servizi che verranno gratuitamente offerti ai profughi di guerra. I fuggiaschi dalla città ridotta alla fame, al buio e al freddo per tre settimane, faranno anche il test per il coronavirus, sai mai potessero essersi infettati in tutto questo tempo senza mascherina nei bunker. Forse i numeri aiutano a inquadrare il fenomeno che per alcuni è deportazione e per altri aiuto umanitario. Dalla sola Mariupol, nell’ultima settimana sono fuggiti verso il territorio sotto controllo di Kiev circa 40mila persone, verso Mosca appena 2.973. A Mariupol era difficile trovare qualcuno desideroso di scappare in braccio a chi stava bombardando. Qualcuno poteva ritenerla l’opzione più sicura, per evitare incidenti durante il tragitto, ma la diffidenza era ovvia. Non sarà forse deportazione, ma il rispetto russo per i diritti umani oggi è un serio punto di domanda. Russia. Matematico ucraino si suicida in carcere dopo l’arresto ansa.it, 21 marzo 2022 Stava cercando di lasciare il Paese. Il giovane matematico ucraino Konstantin Olmezov si è suicidato in Russia dopo essere stato arrestato mentre cercava di lasciare il Paese. Lo rende noto l’associazione Ukrainian Mathematicians su Twitter. L’avvocato russo Dmitry Zakhvatov riferisce su Telegram, citato da Ukrinform: “Ho ricevuto un rapporto in cui si dice che questa mattina (20 marzo ndr), si è suicidato, lasciando un biglietto di addio, dove ha scritto che si è ucciso perché non poteva sopportare gli orrori di quello che sta succedendo. Un matematico talentuoso e promettente. Kostiantyn Olmezov”. Per lui - ha aggiunto - la mancanza di libertà era peggio della morte. Olmezov, che era nato nel 1995, è stato detenuto per 15 giorni dal 26 febbraio scorso dopo un primo tentativo di fuga dalla Russia. Poi è stato invitato a continuare gli studi universitari in Austria e ha provato a partire di nuovo. Ha acquistato un biglietto aereo per la Turchia - si legge in un tweet di Ukrainian Mathematicians - ma anche la seconda fuga non ha avuto successo. Poi si è tolto la vita. Secondo l’avvocato Zakhvatov, citato da Unian un protocollo amministrativo “è stato fabbricato contro lo scienziato e a causa di questo Olmezov è stato trattenuto in arresto per 15 giorni”. Su Twitter Ukrainian Mathematicians scrivono che Konstantin era ucraino, aveva studiato all’Università Nazionale di Donetsk che lascò a causa della guerra continuando poi gli studi di matematica al Mipt, in Russia. Konstantin - si legge in un altro tweet - era innamorato della combinatoria additiva. Era anche un poeta, il suo canale su Telegram è pieno di poesie”. Egitto. Diffusi alcuni video di torture in carcere: scatta la rappresaglia di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 21 marzo 2022 Il 24 gennaio il Guardian ha diffuso alcune drammatiche immagini, riprese attraverso la porta di una cella della stazione di polizia di al-Salam, un quartiere del Cairo, in cui alcuni detenuti venivano torturati. In un video, due detenuti seminudi sono appesi per le braccia a una grata di metallo. In un altro, un gruppo di detenuti mostra ferite e lividi accusando gli agenti di polizia di torture. Infine, un terzo video riprende alcuni detenuti mentre supplicano il presidente al-Sisi di salvarli da altre torture e rappresaglie e denunciano che, per punizione, non ricevono più cibo dall’esterno e le visite dei familiari sono state sospese. In un paese normale, verrebbero aperte indagini sull’operato della polizia. In Egitto sono state aperte, sì, ma nei confronti di nove detenuti (otto dei quali appaiono nelle immagini) e di tre loro familiari e amici, compreso un quindicenne. Per la Procura suprema per la sicurezza dello stato sono accusati di “diffusione di notizie false” “appartenenza a un gruppo terrorista”, “assistenza a un gruppo terrorista”, “possesso, all’interno di un luogo di detenzione, di materiale atto a pubblicare”, “finanziamento a un gruppo terrorista” e “uso vietato dei social media”. L’insabbiamento è totale. Il 15 febbraio la Procura ha dichiarato che i detenuti che erano comparsi nel video erano stati “incitati da sconosciuti”, all’interno e all’esterno dell’Egitto, a “infliggersi ferite” con un oggetto metallico e a girare i video per “diffondere bugie e instabilità”. Nelle settimane successive portali e profili social vicini al governo hanno pubblicato video in cui alcuni dei detenuti ammettono di aver recitato e di essersi feriti durante una rissa: “confessioni” rese evidentemente sotto coercizione, dato che gli autori erano ammanettati l’uno all’altro e interrogati in modo aggressivo da un poliziotto. Come scritto, tra gli arrestati c’è anche un quindicenne, Ziad Khaled. Il 16 febbraio le forze di sicurezza, prive di mandato, hanno fatto irruzione nella sua abitazione e l’hanno portato via per il mero fatto di essere imparentato con uno dei detenuti ripresi nei video. Anche per lui, le medesime accuse rivolte agli altri undici. *Portavoce di Amnesty International Italia Camerun. Sant’Egidio sfama i detenuti Famigli Cristiana, 21 marzo 2022 Solo l’intervento della Comunità, che ha costruito un mulino, ha salvato la prigione di Tchollirè, nel Nord del Paese africano. Anche il sovraffollamento delle carceri italiane, seppur un’emergenza costante, impallidisce di fronte alla condizione dei detenuti camerunensi a cui la Comunità di Sant’Egidio, sempre attenta alle necessità degli “ultimi”, ha dedicato un progetto tanto semplice quanto essenziale. Già, perché in un Paese in cui la fame è ancora un problema reale, è facile figurarsi cosa può accadere nell’inferno di una prigione dimenticata. Da qui, dunque, l’idea, subito tramutata in fatti concreti com’è nello stile dell’associazione, di costruire e donare un mulino ai detenuti del carcere di Tchollirè, una piccola cittadina situata nel Nord del Camerun. Risultato? La risposta è tutta nelle parole di Luc, “ospite” di lunga data che sta scontando la propria pena: “Oggi possiamo mangiare ogni giorno grazie alle azioni della Comunità che per anni è sempre stata attenta alla nostra sofferenza”. Quella del cibo ai prigionieri è da diverso tempo una delle priorità dell’associazione nei Paesi africani. Proprio come a Tchollirè dove, grazie al provvidenziale mulino donato, è ora possibile macinare la farina di miglio con cui vengono preparati i pasti. Dopo esser stati costretti, loro malgrado, a digiunare per interminabili giorni, i detenuti hanno ricominciato a mangiare.