“Basta carceri sovraffollate”, parte dalla piazza di Torino l’Agorà promosso dal Pd di Federica Cravero La Repubblica, 20 marzo 2022 All’incontro anche il segretario Enrico Letta in video-collegamento: “Il tema della prevenzione delle recidive e della rieducazione non è una questione cenerentola, ma è centrale per la sicurezza del Paese”. Combattere il sovraffollamento delle carceri, piemontesi ma non solo, partendo dalle sperimentazioni fatte durante il Covid in cui per ragioni sanitarie si aprivano maggiormente le porte delle celle per consentire ai detenuti di andare ai domiciliari. E trovare sistemazioni per il dopo - non solo una casa, ma anche un aiuto per trovare lavoro - a tutti coloro che avrebbero diritto a pene alternative al carcere ma non hanno un posto in cui andare. Il terreno fertile che c’è in Piemonte ha già permesso di mettere a frutto bandi per finanziare iniziative del terzo settore che permetteranno ai detenuti più fragili di avere un’opportunità di reinserimento nella società. Si tratta alcune delle esperienze raccolte e rilanciate durante la prima Agorà nazionale sul carcere nella società organizzata dal Partito democratico, in strada del Fortino a Torino. “Non è stata una scelta casuale quella di far partire dal Piemonte questa serie di incontri - dicono i promotori - Qui ci sono state vicende che hanno anche dato origine a inchieste penali ed è proprio da queste cose che vogliamo partire, lungo un percorso che porti il più possibile al recupero sociale dei detenuti”. È stata la parlamentare dem Anna Rossomando, responsabile Giustizia del partito e vicepresidente del Senato, ad aprire i lavori: “Il compito della politica è trovare soluzioni ai problemi, ascoltando tutti coloro che sono coinvolti, in particolare enti locali e terzo settore, partendo dalle loro esperienze per raccogliere suggestioni e fare proposte. In particolare gli enti locali sono molto importanti come collegamento tra il carcere e la società, per favorire il recupero del detenuto dentro e fuori dal carcere”. Sulla scia è intervenuto il parlamentare Pd Andrea Giorgis, sottosegretario alla Giustizia nel governo Conte bis, che ha sottolineato come “si debba combattere la retorica populistica che c’è sul carcere - ha detto - Nella fase più acuta della pandemia ci sono state molte resistenze alla proposta di agevolare le uscite dal carcere verso i domiciliari, ma nei fatti non c’è stata nella popolazione una sensazione di insicurezza, così come non sono aumentate le recidive. Dunque questa è la strada da percorrere. Certo servono investimenti, ma soprattutto serve un tessuto sociale che aiuti il reinserimento dei detenuti: deve essere chiaro che investire sul recupero dei detenuti è un investimento sulla sicurezza dell’intera società”. D’altra parte lo aveva detto anche la ministra Marta Cartabia che una settimana fa ha visitato il carcere Lorusso e Cutugno: “Bisogna investire sulla rieducazione dei detenuti per evitare la recidiva. Anzi, meglio ancora sarebbe investire sulla prevenzione e l’educazione perché, come diceva Hugo, chi apre la porta di una scuola chiude una prigione”. All’incontro è intervenuto in video-collegamento anche il segretario Pd Enrico Letta: “La riforma del sistema carcerario, il suo rafforzamento e la necessità di trovare soluzioni a situazioni drammatiche da troppo tempo abbandonate a se stesse è uno dei nostri obiettivi primari. Il problema delle carceri coinvolge davvero tante famiglie, tanti aspetti e valori sociali. Questo tema non è una questione cenerentola, ma è centrale per la sicurezza del paese”. L’istituzione della Giornata nazionale per le vittime degli errori giudiziari da Osservatorio sull’Errore Giudiziario dell’Ucpi camerepenali.it, 20 marzo 2022 Presentato il testo della proposta di legge per l’istituzione della Giornata Nazionale per le vittime degli errori giudiziari. Con una conferenza stampa indetta a Palazzo Madama il 15.03.2022, il Sen. avv. Francesco Urraro e il Presidente della Commissione Giustizia del Senato, Sen. Avv. Andrea Ostellari, hanno presentato il testo della proposta di legge, promossa dal movimento radicale e dalla Fondazione Enzo Tortora rappresentata da Francesca Scopelliti, già approvata dalla Commissione Giustizia del Senato, per l’istituzione della Giornata Nazionale per le vittime degli errori giudiziari. Un’iniziativa alla quale l’Unione delle Camere Penali non ha solo partecipato, ma che ha sostenuto con impegno, auspicando che in uno Stato liberale e di diritto il ricordo delle vittime di errore giudiziario diventi un monito per il futuro e non solo una giornata celebrativa. È stata scelta - non a caso - la data del 17 giugno, che nel 1983 vide l’arresto di Enzo Tortora, la cui vicenda processuale è divenuta il simbolo delle battaglie contro la malagiustizia: l’auspicio, in linea con gli obiettivi da sempre perseguiti su più fronti da Ucpi, è che l’istituzione della Giornata Nazionale per le vittime degli errori giudiziari possa avere realmente il fine di sensibilizzare gli operatori del diritto ma anche l’opinione pubblica e le giovani generazioni, affinché si possa costruire una memoria storica funzionale alla difesa di valori quali la libertà, la dignità personale, il giusto processo e la presunzione di innocenza, principi imprescindibili e irrinunciabili per garantire - anche - la riduzione degli errori giudiziari. Carceri piene ma arresti facili di Gabriele Barberis Il Giornale, 20 marzo 2022 Nei contorcimenti della politica l’ultima battaglia dem non sfugge all’ennesima contraddizione di fondo: combattere con una mano il sovraffollamento delle carceri e, con l’altra, respingere le restrizioni sulla custodia cautelare. C’è tutto il Letta degli ultimi tempi, maschera veltroniana buonista e ghigno cattivista del neo radical, nell’offensiva che il Partito democratico ha lanciato con una serie di Agorà sulle pessime condizioni degli istituti di pena italiani. E il segretario ha dato la sua benedizione, con parole del tutto condivisibili: “Questo tema non è una questione cenerentola, ma è centrale per la sicurezza del Paese”. Ma non si parla di una delle drammatiche cause che alimentano il problema delle celle stipate di detenuti. Quella di una giustizia dall’arresto facile che trova più comodo anticipare una pena finale, cui spesso non si arriverà, con qualche giorno o settimana di galera preventiva. Uno dei quesiti sui referendum per la giustizia, su cui si esprimeranno gli italiani, riguarda proprio l’attenuazione della custodia cautelare. Non una sanatoria come sostiene un certo mondo giustizialista, ma una riduzione degli ambiti che portano direttamente dietro le sbarre. E questo in un Paese dove la media delle persone messe in prigione, e poi risultate innocenti, è di circa mille all’anno. Su questo punto il Pd si è già sfilato nelle scorse settimane schierandosi per il No, insieme alla riforma della legge Severino. Per Letta la restrizione della custodia cautelare “porterebbe più danni che benefici”. Meglio dunque appiattirsi sul giustizialismo grillino e preoccuparsi delle condizioni dei detenuti. Ma più sono e peggio staranno. Storia di Eros, che in carcere non sarebbe mai dovuto entrare di Francesca De Carolis laltrariva.net, 20 marzo 2022 Eros Priore. Il suo nome forse non vi dirà niente. Ma la sua parabola, di persona “problematica” che in una dozzina d’anni passa da un TSO al carcere di Velletri, poi a quello di Secondigliano, e poi alla Rems di Subiaco, per approdare alla casa circondariale-casa di lavoro di Vasto, da dove il 23 gennaio scorso esce, a 61 anni, distrutto anche nel fisico, pochi giorni, per subito morire… è il racconto di un meccanismo feroce che non può lasciarci indifferenti. Ma chi era Eros Priore? Cosa aveva combinato di tanto grave da finire anche in un carcere? “Chi era… una persona certo poco gestibile, un caratteriale, ma che non aveva mai fatto male a nessuno. Una sorta di Forrest Gump, lo definirei… nel suo paese, Colleferro, era anche benvoluto… lo racconta anche il parroco che ne conosceva le fragilità” risponde Francesco Lo Piccolo, giornalista che da anni si occupa del reinserimento di ex detenuti, e dirige Voci di Dentro, rivista scritta da detenuti delle carceri abruzzesi. Che la vita di Eros da tempo aveva seguito, e questa vicenda “incivile e barbara” ha denunciato dalle pagine di Huffpost. Il TSO, il trattamento sanitario obbligatorio, Eros Priore, irascibile quando obbligato o se si sentiva “guardato storto”, lo subisce dopo un litigio, nel Centro di Igiene mentale di Colleferro… da lì inizia “un calvario fatto di comunità che definiva lager, legacci, psicofarmaci, visite mediche, perizie… per poi finire in carcere. Un calvario per motivi di sicurezza, per risocializzare - come prescrivono i giudici - una persona ritenuta socialmente pericolosa, caratteriale, visionario che si rifiuta di prendere psicofarmaci, che non accetta cure, comunità e restrizioni di alcuna natura…”. Ma tutto accade a Eros, fuorché essere curato e tantomeno risocializzato. Perché non è cura la somministrazione costante di psicofarmaci quando esclude, come denuncia la sorella di Eros, l’attenzione all’umanità che pure è in ciascuno. Immaginate poi cosa può accadere quando “la cura” diventa il carcere, foss’anche una casa-lavoro, dove però Eros, invalido, non può lavorare. Lì alle problematiche di salute mentale si aggiunge dell’altro. Eros si ammala, è stato necessario asportare parte dell’intestino, subisce una stomia e lì rimane, in un’estate che trasforma quel carcere in una fornace (è il suo lamento…), con il sacchetto esterno per la raccolta delle feci più del tempo necessario per mancanza, quell’estate, di personale medico che potesse rioperarlo. Ha un tumore ai polmoni e nell’ultimo video-colloquio con la sorella si presenta reggendosi su una scopa, che gli fa da stampella… E viene rimandato a casa, il tempo di essere trasferito in ospedale per morire. Se cerchi il perché di tutto questo, rischi di perderti nei dettagli, di burocrazie, vuoti, timori, non risposte… ma al di là di inadeguatezze individuali o collettive, alla fine la risposta è in un kafkiano meccanismo di rimpallo per cui alla fine, quando non si sa che fare, rimane il carcere. Un tremendo cortocircuito fra sistema giudiziario, penale e sanitario. Una storia che, per chi l’ha seguita, non è facile buttarsi alle spalle. Così Francesco Lo Piccolo ha cercato di capirne di più, e mi racconta: “Sono andato questa settimana a parlare con la direttrice della casa lavoro di Vasto dove era internato Eros Priori. Mi ha spiegato che Priori era una persona bizzarra ma tranquilla (forse per i farmaci) e che in più occasioni ha fatto presente alla Sorveglianza che il suo stato di salute (resezione dell’intestino e applicazione del sacchetto per le feci) non era compatibile con la detenzione. La stessa incompatibilità era stata accertata anche dal Medico dell’Unità Operativa di Sanità Penitenziaria del Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria di Abruzzo e Molise. La risposta (ovvero la scarcerazione e l’invio a casa dalla sorella) purtroppo è stata sempre negativa, mi è stato detto, a causa della diagnosi di pericolosità sociale accertata dal Dipartimento di Salute Mentale di Colleferro che aveva definito Priori affetto da schizofrenia e delirio”. Il controllo, dunque, prevale sulla cura. La non cura in carcere, in generale, è tanta… basti dire che Francesco Ceraudo, pioniere della sanità penitenziaria, ha titolato il libro sulla sua esperienza nei lunghi anni nelle carceri italiane “Uomini come bestie”. Pensate poi come possano essere seguite e curate persone con problemi psichiatrici, anche solo considerando che la media nazionale di ore di presenza degli psichiatri in carcere è di 8,9 ore ogni 100 detenuti, 13,5 ore se parliamo di psicologi. “Lo psichiatra dedica meno di 5 minuti a settimana, lo psicologo 8 minuti a settimana per persona detenuta”, dicono i dati raccolti da Lo Piccolo che non si ferma nel portare avanti la sua denuncia. Stiamo parlando di medie, ma valutate voi, se nell’universo carcere più della metà dei detenuti è in terapia psichiatrica… Tornando alla triste storia di Eros Priore… Quasi una beffa, se proprio due giorni dopo la sua morte, arriva la pronuncia della Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo, che condanna l’Italia per aver tenuto in carcere per più di due anni un cittadino con problemi psichici. Detenzione “illecita”, il carcere è “vietato” per i malati psichici. Eros in carcere non sarebbe dovuto mai entrare. E quante sono le persone che in carcere ancora stanno, pur dovendo stare, se si volesse dar seguito alla pronuncia della Cedu, da tutt’altra parte. Ma tant’è. E dimentichiamo in fretta storie come questa. Eppure, molto ci sarebbe da cercare, per capire e trovare strade. Confrontandomi, ancora, con Francesco Lo Piccolo che, appena tornato dal suo ostinato indagare (ha ascoltato anche l’avvocato di Priore, il parroco di Colleferro…), mi ha detto: “Alla fine, resto della mia idea: un debole in una società dove è facile approfittarsi di chi non sa difendersi. E dove alla cura, all’aiuto e alla comprensione si preferisce la costrizione e il carcere. E che, pur di fronte all’evidenza, pur di fronte alla sua sofferenza anche fisica (dopo la resezione dell’intestino Priori non stava neppure in piedi) si è preferito non vederlo, facendo parlare le carte, il fascicolo, la fredda diagnosi. Un meccanismo infernale che si è protratto anche di fronte alla diagnosi di tumore all’ultimo stadio. Non c’è una responsabilità, ce ne sono tante, soprattutto di chi non sa guardare in faccia il prossimo, come peraltro faceva ed insegnava Franco Basaglia”. “Per la giustizia serve riforma profonda, non il compromesso Cartabia e l’accetta referendaria” di Umberto Baccolo spraynews.it, 20 marzo 2022 Antonio Ingroia, ex magistrato e politico, spiega cosa pensa della riforma Cartabia (definita un “compromesso”) e cosa serva veramente in Italia affinché la giustizia ottenga infine una riforma reale e concreta. A breve andremo a votare sui referendum giustizia, lei cosa ne pensa da un lato di quelli passati e dall’altro crede che ci sia la possibilità di raggiungere il quorum su temi così tecnici? Il paradosso è che la Corte Costituzionale mi ha tolto la possibilità di votare l’unico dei referendum con il quale ero in pieno accordo, perché ritengo che il tema della responsabilità diretta del magistrato da una parte era più facilmente recepibile per il cittadino e dall’altra corrisponde ad un’esigenza che il cittadino sente, perché abbiamo cittadini sempre più sfiduciati nei confronti della giustizia e diffidenti nei confronti della magistratura, e allora il fatto che la magistratura sia l’unica categoria che si sottrae alla responsabilità diretta, diversamente da ad esempio medici o avvocati, penso che possa essere vissuto come un privilegio. Penso quindi che se la magistratura vuole riconquistare un’immagine più vicina ai cittadini deve dimostrare di non avere paura della responsabilità diretta: quella per difendere la responsabilità indiretta a mio parere è una battaglia di retroguardia, anzi dovrebbero essere i magistrati i primi a dire che il cittadino vittima di errori per colpa grave dovrebbe potersi rivalere direttamente nei confronti dei magistrati. Del resto, basterebbe munirsi di una buona assicurazione e il magistrato potrebbe essere protetto dai risultati negativi, mentre così diventa una sorta di privilegio che può essere percepito come intollerabile da parte del cittadino. Concordo su questo punto... ma tornando alla domanda originaria, riguardo agli altri? Gli altri sono invece a mio parere molto tecnici. Anche la famosa questione della separazione delle carriere (che tra l’altro secondo me non risolve comunque il problema dell’autonomia e indipendenza del giudice) si entra in tecnicismi... non parliamo poi del sorteggio e delle altre cose sul CSM... sono cose davvero lontane dalle persone. Peraltro c’è anche il rischio che al quorum non si arrivi e che così venga perfino frustrato lo strumento del referendum, facendo crescere la disillusione dei cittadini su uno strumento di democrazia diretta certamente importante e strategico nell’assetto costituzionale. C’è però un altro tema che penso non sia tecnico ma importante per tutti: quello degli abusi della custodia cautelare. Lei cosa ne pensa? Io credo che lì sia necessario intervenire, però non affidandosi ad uno strumento come il referendum abrogativo, che rischia di agire come un’accetta, quando si dovrebbe farlo in modo equilibrato. Io credo che ci sia un eccesso della custodia cautelare soprattutto nella fase delle indagini preliminari, con troppi detenuti ancora oggi in attesa di giudizio perché i tempi della giustizia sono troppo lunghi, ma credo che questo tema dovrebbe essere affidato al legislatore e al Parlamento, attraverso un confronto tra tutti gli operatori del diritto, di magistrati e avvocati che trovino insieme il migliore punto di equilibrio per andare avanti. Un referendum che potrebbe essere utile, paradossalmente, sul piano politico, sarebbe uno consultivo su una proposta di legge, piuttosto che abrogativo, perché intervenendo con l’accetta si rischia di creare squilibrio nell’assetto normativo complessivo. Benché io, a maggior ragione oggi da avvocato, percepisca nettamente quanto il ricorso allo strumento della custodia cautelare sia eccessivo - chiamiamolo abuso o eccesso cambia poco - e sarebbe necessario dargli un freno. Un caso per cui di recente c’è stata una grande mobilitazione, con 2500 firme tra cui quelle di 29 parlamentari in carica, è stato quello di Pittelli. Lei trovava giusta la richiesta di fargli affrontare il processo se non libero almeno agli arresti domiciliari? Credo che là dove non ci sono concreti pericoli di inquinamento probatorio o di reiterazione del reato bisogna davvero applicare quello che la Corte Costituzionale ha sempre detto, cioè che la custodia cautelare in carcere deve essere l’estrema ratio. Però mi piace di più citare altri casi, meno famosi, di tanti poveri cristi nelle patrie galere di cui nessuno si occupa. Da avvocato potrei testimoniare di casi di custodia cautelare che si protraggono per mesi e mesi in attesa di giudizio, in vicende anche paradossali. Ne potrei citare uno dove un cittadino che si è sentito frodato dal suo avvocato difensore lo ha denunciato per presunti accordi con la controparte, nello stesso periodo questo avvocato difensore ha subito delle intimidazioni (gli hanno bruciato l’auto e altro) ed ha quindi indicato come possibile sospetto l’ex cliente che dicevo, così che la procura di Caltanissetta, a cui serviva un presunto colpevole, lo ha arrestato, e questo si trova oggi in carcere sulla base di sospetti e congetture, come se si fosse voluto far giustizia da sé, mentre invece è proprio il contrario, si era affidato alla giustizia perché aveva denunciato il suo ex avvocato. Di casi come questi ce ne sono tanti, e per questo occorre una profonda riforma della giustizia su questo terreno. Da questo punto di vista lei è fiducioso nel ministro Cartabia? Le proposte di riforma della giustizia fatte dal ministro Cartabia sono veramente poca roba, pannicelli caldi diciamo. Occorrerebbe una riforma molto più profonda, ma il tema è che questo governo Draghi è un governo trasversale, che mette insieme anime e ispirazioni politiche molto lontane tra loro, quindi ogni riforma è una riforma di compromesso, anche la riforma Cartabia lo è, ma non è con le riforme di compromesso al ribasso che si cura la giustizia, occorrono semmai riforme profonde e coraggiose. C’è un tema ad esempio che da sempre viene trascurato da tutti i governi di destra e di sinistra compreso il governo trasversale Draghi: cioè quello dei tempi del processo e della giustizia. Su questo non si fa nulla. Mentre è un diritto del cittadino, sia imputato che danneggiato dal presunto reato, e un dovere dello Stato intervenire sui tempi del processo penale in modo che le decisioni arrivino in tempi ragionevoli. Non parliamo poi del diritto civile, dove ci sono cause in cui sono in ballo imprese, vite, capitali e milioni di euro che durano anni tra un rinvio e l’altro. L’Italia è il fanalino di coda in Europa per i tempi della giustizia e questa è una cosa intollerabile che dovrebbe essere in cima all’agenda delle priorità, mentre non ce n’è traccia. Neanche ce ne è nei referendum, che però non possono intervenire su questo tema: lo deve fare il governo e la riforma Cartabia non lo fa. Il punto è sicuramente molto importante, ma nel concreto come potrebbe intervenire il Governo per risolvere questo problema? Primo, ci sono una serie di procedure e procedimenti che potrebbero essere snelliti, ci sono tanti tempi morti nel giudizio che si potrebbero eliminare per legge. Secondo, ci sono troppi reati, troppi fatti che vengono puniti come reati mentre potrebbero essere puniti con sanzioni non penali, c’è il cosiddetto panpenalismo che regna nel nostro paese. Anche il cittadino che si rivolge alla procura con esposti e denunce per ogni minima cosa invece dovrebbe rivolgersi magari al giudice amministrativo o al giudice civile o ad altre forme di giustizia alternativa che vanno incentivate. Altrimenti se i tribunali non vengono dedicati solo alle violazioni davvero gravi, ecco che poi nei territori ad alta presenza mafiosa ci si rivolge all’altra giustizia alternativa, quella della mafia che rischia di essere più rapida ed efficiente di quella dello Stato, e questa è la peggiore sconfitta che lo Stato potrebbe annoverare. Per finire, lei ha letto il nuovo libro Lobby e Logge di Palamara, e nel caso cosa ne pensa di queste nuove rivelazioni? Io ho letto bene e attentamente il primo, che ha scoperchiato quello che si chiamava il Sistema. Di questo secondo ho letto solo stralci, ulteriormente inquietanti e interessanti riguardo quel mondo in cui Palamara ha vissuto e in parte regnato, avendo un ruolo di vertice nel correntismo giudiziario contiguo alla politica. Penso che sia importante che possa raccontare ciò di cui è a conoscenza, anzi più racconta più possiamo poi verificare. Però non lo ho ancora letto: magari in una prossima nostra intervista lo commenteremo assieme. Giustizia e rappresentanza di genere, il convegno di Aitra col mondo del diritto e la politica di Davide Varì Il Dubbio, 20 marzo 2022 L’Associazione Nazionale Trasparenza e Anticorruzione riunisce lunedì prossimo 21 marzo alcuni tra i protagonisti del sistema giustizia: si discuterà anche di sotto-rappresentanza delle donne nella magistratura, dove il genere femminile ormai prevale ma non trova una corrispondente espressione nel Csm. Interverrà anche la presidente Cnf Masi, a chiudere il lavori il sottosegretario Sisto. L’Aitra, Associazione Nazionale Trasparenza e Anticorruzione, lunedì prossimo 21 marzo alle 15, presso la Nuova Aula dei Gruppi Parlamentari della Camera dei Deputati, presenterà il convegno dal titolo “Giustizia e Rappresentanza di Genere”. Aitra porrà un focus sul problema della sotto-rappresentanza di genere nella giustizia e sulla necessità e importanza di un riequilibrio del genere meno rappresentato. Dopo i saluti istituzionali del vicepresidente della Camera Andrea Mandelli e dell’onorevole Cristina Rossello, apriranno i lavori il presidente dell’Aitra Giorgio Martellino, giurista d’impresa, e la presidente del Consiglio Nazionale Forense Maria Masi. Introdurrà il tema Florinda Scicolone, consigliere direttivo e responsabile Relazioni istituzionali Aitra, giurista d’impresa. La relazione dell’onorevole, e avvocata, Cristina Rossello, illustrerà il progetto di legge di cui è prima firmataria, avente per oggetto il riequilibrio delle quote di genere nel Csm. Seguirà la tavola rotonda moderata dalla professoressa Paola Balducci, membro del Comitato scientifico Aitra, docente Luiss, già componente laica del Csm, nella quale interverranno la professoressa Ida Nicotra, ordinario di Diritto Costituzionale Università di Catania, che indicherà l’importanza storica della riforma costituzionale dell’art 51 della Costituzione, i magistrati del Comitato scientifico Aitra Cinthia Pinotti, presidente della Giurisdizione Corte dei Conti Piemonte, Stefano Toschei, Consigliere di Stato, e Lorenzo Salazar, Sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Napoli, e la presidente Associazione Donne Giuriste Italia Irma Conti. Concluderà i Lavori il Sottosegretario di Stato alla Giustizia On. Avv. Francesco Paolo Sisto. Con Libera in corteo per ricordare le 1.055 vittime innocenti delle mafie di Adriana Pollice Il Manifesto, 20 marzo 2022 Giornata della memoria. A Napoli la manifestazione principale, iniziative anche in Europa e Sud America. Don Luigi Ciotti: “Il fenomeno è come normalizzato, serve un sussulto prima che sia tardi”. “Il problema delle mafie, ma anche dei fenomeni connessi della droga, della corruzione e dei disastri ambientali prodotti dalla criminalità organizzata, è che sono diventati nella testa di troppa gente normalizzazione. C’è bisogno di un sussulto prima che sia troppo tardi”: da Casal di Principe in provincia di Caserta dov’era ieri, nel giorno del 28esimo anniversario della morte per mano della camorra di don Peppe Diana, il presidente di Libera don Luigi Ciotti ha lanciato l’allarme sulle mafie, che attraversano una fase “carsica” rispetto agli anni Novanta e Duemila ma restano ancora una presenza che condiziona la vita del paese. “Nella politica il problema delle mafie è un argomento messo da parte - ha proseguito -, è il momento di diventare più presenti in quei contesti scomodi e lontani per essere veramente credibili”. Area nord di Napoli. Frattaminore: dal 5 febbraio in poi esplodono 4 ordigni più raffiche di mitra a scopo intimidatorio. La manifestazione di protesta indetta l’11 febbraio va deserta. La notte dell’11 marzo davanti il cancello della chiesa di San Paolo Apostolo, nel parco Verde di Caivano, nuova esplosione: l’intimidazione è rivolta al parroco, don Maurizio Patriciello, che si contrappone ai clan della zona. Il 7 marzo ad Arzano appaiono manifesti funebri che annunciano la morte del comandante della polizia municipale, Biagio Chiariello, che sta indagando sugli affari illeciti delle famiglie che tengono sotto scacco il rione 167. Proprio a Napoli, domani, si terrà la manifestazione principale della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie promossa da Libera e Avviso Pubblico. Alle 9 il corteo partirà da piazza Garibaldi per arrivare in piazza Plebiscito, dove verranno letti (alla presenza dei familiari) i 1.055 nomi di chi è stato assassinato dalla criminalità organizzata. Alla manifestazione parteciperanno don Ciotti e il presidente della Camera, Roberto Fico. Al capoluogo partenopeo si uniranno tante altre città in Italia e nel mondo. Iniziative sono previste anche a Milano, Vittoria, Torino, Foligno, Roma, Firenze, Pescara, Scanzano Ionico, Savona, Bari. Appuntamenti in America Latina, a Città del Messico, Bogotà, Buenos Aires, Quito, e in Europa a Parigi, Marsiglia, Strasburgo, Berlino, Monaco, Colonia, Lipsia, Madrid, La Valletta. “La giornata della memoria e dell’impegno - spiega don Ciotti - non è la retorica. Abbiamo una responsabilità e un impegno: non ingabbiare la memoria del passato, ma farla vivere nel presente. Il nostro paese deve ricordare non solo i nomi importanti, ma tutti quei figli, padri, madri, mariti, mogli il cui dolore dei familiari è uguale e profondo. Il paese deve scrivere quei nomi nelle coscienze perché sono morti per la democrazia, per la libertà”. La manifestazione di Napoli prende il titolo “Terra mia: Coltura - Cultura”. Spiega Libera: “Non si tratta di un’attenzione esclusivamente ambientale. Significa rivedere i rapporti di forza e centralità, ripensare alle forme di sopruso operate sull’ambiente per soddisfare un modello di consumo che non è sostenibile, che piega i territori, i lavoratori, che omologa e impoverisce”. E ancora: “Alla base della diffusione della cultura e della pratica mafiosa e corruttiva c’è il bisogno, la mancata libertà, che consente l’imposizione e l’assoggettamento. Si tratta di un sistema violento che riguarda molti ambiti e che possiamo disarmare, per recuperare sovranità, protagonismo e libertà”. Don Luigi Ciotti: “La nuova mafia abita in mezzo a noi, ma è diventata invisibile” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 20 marzo 2022 “I clan lucreranno sulla guerra come hanno fatto sulla pandemia. Quanto alla parola antimafia, c’è chi l’ha resa un cavallo di Troia del malaffare”. Le mafie che non sparano più, che non fanno più saltare in aria pezzi di autostrada, che hanno visto tutti i più grandi padrini finire dietro le sbarre e morire, non fanno più paura. “Che grande errore credere che una mafia che non fa più stragi sia debole, in via d’estinzione. Le mafie in Italia godono ancora di coperture e complicità a livello politico ed economico, hanno tratto grandi profitti dalla pandemia e ne ricaveranno da un’economia di guerra. Ma la lotta alle mafie e alla corruzione sembra scomparsa dall’agenda politica del Paese”. Dall’alto dei suoi 76 anni, almeno metà dei quali a coltivare la coscienza civile di un Paese soffocato da Cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta, Sacra corona unita, don Luigi Ciotti, animatore del Gruppo Abele e di Libera, prepara la grande manifestazione (che domani avrà a Napoli la sua piazza centrale, ma si svolgerà in tutte le città d’Italia e nelle grandi capitali europee) della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti: 1.005 i cui nomi verranno letti, uno per uno, dai palchi di tutta Italia. Don Ciotti, sarà un 21 marzo particolare, a 30 anni dalle stragi. La mafia è sempre lì, ma il fronte antimafia ha perso pezzi e credibilità con figure iconiche finite sul banco degli imputati... “Antimafia è parola che bisognerebbe mettere in quarantena prolungata. Essere contro le mafie dovrebbe essere un fatto di coscienza che produce condotte conseguenti. Cosa significa essere antimafia? C’è forse qualcuno che si dichiara apertamente a favore delle mafie? È di questo consenso unanime che hanno approfittato alcuni per fare dell’antimafia un cavallo di Troia del malaffare”. Tocca fare un bilancio di questi trent’anni. Che Italia le è passata sotto gli occhi dal 1992 a oggi? “I bilanci si fanno a fine lavori e qui c’è ancora molta strada da fare. Però di passi avanti da quella stagione ne sono stati fatti tanti. È senz’altro cresciuta, almeno nella coscienza civile, la consapevolezza del fenomeno mafioso: non dimentichiamo che la parola mafia era entrata nel codice penale solo dieci anni prima delle stragi. Ma a questa consapevolezza non ha sempre corrisposto un impegno politico all’altezza. È uno scenario di luci e ombre”. Le ombre sono chiare. Veniamo alle luci... “L’inclusione nell’ultimo codice antimafia di strumenti specifici contro la corruzione. Quello che manca è una visione complessiva, la capacità o la volontà di riconoscere nelle mafie un parassita della democrazia e del progresso civile, sociale ed economico. Non più infiltrate, ma insediate in mezzo a noi, ben prima della crisi economica. È un processo iniziato con la globalizzazione delle merci e delle finanze, sistema che ha prodotto molte zone grigie tra l’economia legale e quella illegale”. Gli apparati istituzionali e investigativi lo hanno ben chiaro. Il Viminale tiene alta la guardia sui flussi di denaro distribuiti durante il lockdown e quelli in arrivo... “In questo sistema economico, con questi vuoti di giustizia sociale, le mafie trovano un habitat più che mai favorevole ai loro affari. Hanno tratto grandi profitti dalla pandemia e possono ricavarne dall’economia di guerra. Come segnalano gli allarmi di Dna e Dia, iniziano a guardare con molto interesse ai fondi del Pnrr”. In questo quadro, che pericoli intravede? “Proprio nel trentennale di Mani pulite e delle stragi mafiose sembra che questi fenomeni criminali si siano radicati in un distorto senso comune, in un processo di normalizzazione per cui è meglio fingere che il problema non esista”. Forse anche perché i grandi boss non ci sono più e le guerre di mafia o l’attacco alle istituzioni sembrano ormai di un’altra era? “Da quando hanno colto l’opportunità del libero mercato, senza regole, soggetto alla legge del più forte, le mafie hanno cambiato abiti e modi, scoprendo che con la finanza è possibile riciclare, investire, moltiplicare i patrimoni senza ricorrere con la frequenza di prima alla violenza diretta. Ma ci sono rigurgiti criminali che tornano e c’è bisogno di uno scatto, di un sussulto prima che sia troppo tardi”. Anche domani in piazza ci saranno decine di migliaia di giovani. In 30 anni il seme della legalità sembra germogliato... “Abbiamo cercato di diffondere conoscenza e responsabilità. Ai giovani si nega il futuro e si grida allo scandalo se da quel futuro negato nascono fragilità, comportamenti antisociali, sfiducia nelle istituzioni. Eppure i giovani hanno forti ideali, ci hanno insegnato a riprenderci le piazze, sanno che per costruire una realtà diversa bisogna prima sognarla”. Sopravvivere al femminicidio: “Raccontare cosa mi è successo può salvare la vita” di Erika Antonelli L’Espresso, 20 marzo 2022 Beatrice Fraschini, Livia Prosperi e Maria Teresa D’Abdon fanno parte dell’associazione Difesa donne, impegnata a offrire primo soccorso alle donne in difficoltà e a sensibilizzare sul tema della violenza patriarcale. Seppur in modo diverso sono tre sopravvissute, unite dal desiderio di mettere la loro storia al servizio delle altre. Perché non si ripeta mai più. “Raccontare quello che mi è successo significa liberarsene. Affidarne un pezzettino a chi mi sta ascoltando, per scaricare il peso che altrimenti mi porterei addosso da sola”. Per Beatrice Fraschini la condivisione passa attraverso il potere salvifico delle parole, filo conduttore in grado di unire queste donne che restano. E raccontano, costruendo ponti a disposizione delle altre, perché non accada più che una donna muoia per mano di un uomo, vittima di femminicidio. Nel 2021, l’anno in cui è stata fondata l’Associazione di cui anche Fraschini fa parte, hanno perso la vita in 119 (due in meno dell’anno precedente). Calano i femminicidi ma aumentano gli episodi di stalking, i maltrattamenti e i reati sessuali, come denunciava pochi giorni fa un’analisi realizzata dal Dipartimento di pubblica sicurezza. Ed è proprio per prevenire che Beatrice ha deciso di mettere a disposizione la sua storia. “All’inizio lui era solo frenetico, più iperattivo, dormiva sempre meno. Poteva essere un segnale che non stesse bene. Avevamo ripreso a frequentarci dopo una pausa di qualche mese e lui aveva cambiato terapeuta. Lei volle vedermi, le raccontai le mie perplessità sul suo comportamento. Mi rassicurò. Non mi sarei mai aspettata di arrivare a quel punto”. L’ex fidanzato di Fraschini era in cura per aver già dimostrato atteggiamenti violenti verso un’altra donna. Ma la psicologa la rassicura sul corretto svolgimento della terapia e lei si fida. Dopo la frenesia che l’aveva insospettita arrivano i commenti fisici. Innocui all’inizio: “Ma guarda che sei già bella di tuo, non devi truccarti troppo. A che serve quella minigonna?”. Poi il bisogno di colmare ogni ritaglio di tempo libero con la presenza fisica. “Mi veniva a prendere ogni giorno quando staccavo dal lavoro, pur abitando in un quartiere distante. Se dicevo che non ce n’era bisogno si insospettiva, “mica hai un altro”, allora acconsentivo”. E poi i messaggi, assillanti, per rendicontare ogni spostamento: “Era reciproco per quanto soffocante, lo facevo anche io e lo consideravo una sorta di dare e avere”. Non lo era. Il suo ex fidanzato, quattro anni e mezzo insieme, ha provato ad ammazzarla dopo averla segregata in un appartamento e seviziata per quattro giorni. Per salvarsi la vita Fraschini è saltata dalla finestra del secondo piano, con il corpo contuso ma finalmente libera. “Appena salita in ambulanza ero tranquilla, perché sapevo di essere al sicuro. Quando mi hanno dimessa ho sentito la necessità di fare qualcosa. Non volevo che la mia vicenda passasse sotto silenzio. E forse quel che è capitato a me può essere d’aiuto a un’altra”. Per il suo ex, condannato a sei anni in primo grado poi ridotti a quattro in appello, non c’è più rabbia ma solo pena. “Per l’ennesima volta ha buttato al vento la possibilità di dimostrare di essere diverso”. Mentre lei i suoi cocci ha saputo raccoglierli, coronando un sogno che teneva in tasca già da qualche tempo: “All’inizio di marzo 2020 sono diventata volontaria della Croce verde, portavo la spesa a chi non si poteva muovere da casa. Appena è stato possibile ho fatto il corso per diventare soccorritrice. Mio padre, che in Croce verde ci lavora, voleva proteggermi da un mondo che spesso è duro. Ma il solo fatto di aver vissuto quello che ho vissuto abbatteva queste preoccupazioni”. Anche Livia Prosperi fa la volontaria, “ho iniziato otto anni fa, forse questo senso del dovere me lo porto dietro da un bel po’”. Lo dice e ride e poi si fa seria spiegando perché racconta di sua madre, Roberta Priore, uccisa dal suo compagno nel 2019. “Ho superato la parte del doverle rendere giustizia, io so chi era mia mamma e questo basta. Lo faccio perché so che lei avrebbe messo a disposizione delle altre donne la sua storia”. All’inizio non è stato facile. “A lungo sono stata accerchiata dalla paura di cosa pensasse di me chi mi conosceva. Pian piano però ho sentito che non volevo la mia storia rimanesse lì. Succede ad altre donne, può succedere a chiunque. Per me e mia mamma non c’è più tempo, per le altre sì”. Anche se trovarle, le parole per dirlo, costa fatica: “La sera prima degli incontri ho sempre zero voglia, emotivamente è una batosta, ma spero serva a chi mi ascolta. Dopo ne esco appesantita ma felice. Una volta una ragazza mi ha detto “non smettere mai di raccontare la tua storia così, perché fai la differenza”. E allora continuo nella missione che mi sono data”. A sentirla parlare sembra che Prosperi abbia due cuori. “Per me è importante scindere il ruolo di figlia da quello di testimone e cerco di non sovrapporre mai i due aspetti. Nella mia testimonianza non porto il mio dolore, altrimenti chi mi sente oltre a piangere non conserverebbe nulla. Condivido quel che mi è successo perché non accada più”. Per evitare che chi la ascolta perda ciò che lei e sua madre non possono più recuperare: il tempo. “Si dice sempre “perché le donne non si allontanano da un uomo violento?”. Non lo fanno perché sono innamorate. E mia madre era sinceramente innamorata. Avevo la sensazione non fosse l’uomo giusto per lei, ma non la sentivo urgente. E poi non c’è stato il tempo materiale, mia mamma l’ha conosciuto a novembre ed è morta a marzo”. Una settimana dopo, lui si toglie la vita in carcere. “Ha scelto tutto da solo. Lui ha deciso che mia madre non sarebbe mai diventata nonna, che non sarebbe mai venuta alla mia laurea. Avrei voluto un processo, una giustizia. Non l’ho mai più visto. Non so neppure come siano andate le cose e non lo saprò mai, ma forse non è importante”. Non c’è astio verso quell’uomo, la memoria di Prosperi è fissa sul ricordo di sua mamma: “Non mi concentro a odiarlo, ma su quello che lei è stata e mi ha insegnato. Tolleranza, amore, accoglienza. Voglio cercare di stare bene e far star bene gli altri”. La capacità di plasmare il dolore incanalandolo in testimonianza è il filo che collega Beatrice a Livia e loro due a Maria Teresa D’Abdon, una madre che ha perso sua figlia, Monica Ravizza, per mano del suo fidanzato, nel 2003. “All’inizio non accettavo di perdonare, poi ho iniziato a elaborare il lutto. Ho capito che dovevo incontrare la mamma del ragazzo. Le ho lasciato una lettera nella buca della posta, invitandola in chiesa per la commemorazione di Monica. L’ho vista arrivare e le sono andata incontro, ci siamo abbracciate. Quando ci siamo messe a parlare, però, ha giustificato il gesto del figlio. Mi sono cadute le braccia. Poi mi sono detta di aiutare chi ha bisogno”. E così ha fatto, fondando l’associazione Difesa donne nel 2021. Un modo per connettere chi resta, familiari di donne che hanno subito violenza o donne che l’hanno vissuta in prima persona. Con l’obiettivo di fornire primo soccorso a chi si rivolge loro e fare attività di prevenzione e sensibilizzazione (tra i fondatori dell’Associazione c’è anche Roberto Ottonelli, autore di un libro contro la violenza di genere, “Credi davvero che sia sincero”, incentrato sul femminicidio di Monica Ravizza). “Non dimentico quello che è successo, dice D’Abdon, ci sono momenti in cui il pianto soffoca il respiro, poi mando giù e capisco che la cosa migliore da fare è agire”. Per riempire il tempo, per un atto di fede verso chi amavi e non c’è più. “Mi muovo e ricomincio, là fuori qualcuno ha bisogno di me. E quando sento quelle donne che chiamano di notte chiedendo aiuto, la loro voce mi colpisce dritta al cuore. Gli offrirei anche il mondo intero. Sono sempre riuscita ad aiutarle a ricominciare. Quando succede mi sento sollevata. E spero che mia figlia gioisca vedendo quello che sto facendo”. Così, con questa specie di ricordo militante, che non è solo commemorazione ma azione concreta per cambiare le cose, Beatrice Fraschini, Livia Prosperi e Maria Teresa D’Abdon hanno plasmato il dolore. Con le parole, che sono diventate strumento di condivisione, allerta, prevenzione. E salvando le altre, hanno salvato anche se stesse. Una campagna globale a favore di Mimmo Lucano di Eugenio Fatigante Avvenire, 20 marzo 2022 Dall’Internazionale Progressista lettere a Mattarella, Draghi e Cartabia: sua condanna è parodia di giustizia. Annunciata una mobilitazione: fra gli altri in campo Chomsky, Corbyn, Varoufakis, Rackete. Una campagna internazionale di una coalizione globale, composta da personaggi pubblici e parlamentari, per far cadere le accuse contro Mimmo Lucano. Si mobilita e si organizza un fronte a favore dell’ex sindaco di Riace in Calabria, ideatore e autore di un “modello” alternativo di accoglienza dei migranti. E anche discusso, al punto di essere finito al centro di un processo di primo grado chiuso con la clamorosa (per l’entità) condanna a 13 anni e 2 mesi. In attesa dell’appello, scende ora in campo l’Internazionale Progressista (Ip) che invierà domani, lunedì, una serie di lettere al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al capo del governo, Mario Draghi, al ministro della Giustizia, Marta Cartabia, e al titolare dell’Interno, Luciana Lamorgese, per stimolare una moral suasion finalizzata a far venire meno le accuse sulla gestione dei progetti di accoglienza nel comune calabrese. “Crediamo che il modello Riace sia un’ispirazione per il mondo - si legge nel testo della lettera aperta -. Siamo inequivocabili: questa condanna a 13 anni è sia una parodia della giustizia che una palese violazione dei principi comuni di libertà, democrazia, uguaglianza e pace che l’Unione Europea proclama di sostenere”. Fra gli attivisti che si stanno organizzando per Lucano ci sono nomi di primo piano del mondo della sinistra e non solo, tra cui Noam Chomsky, il grande linguista ribelle statunitense, e poi la sindaca di Barcellona, Ada Colau, l’ex capo dei laburisti britannici Jeremy Corbyn, il deputato francese e leader di France insoumise, Jean-Luc Melenchon, l’ex ministro e oggi deputato greco Yanis Varoufakis e Carola Rackete, l’attivista tedesca comandante della nave Sea Watch a sua volta arrestata nel 2019 per aver forzato la chiusura del porto di Lampedusa, al centro di un duro scontro con l’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Si tratta di un’iniziativa politica rilevante, che si prefigge di creare un “clima” diverso attorno alla vicenda di Lucano. Pur tenendo presente che in Italia, stante la divisione tra potere esecutivo e giudiziario, non può essere un appello al governo a far cadere le accuse in un procedimento penale. In ogni caso, questi personaggi (e altri ancora come l’europarlamentare francese Manon Aubry, resa nota da un duro attacco alla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen all’inizio della pandemia, Malin Bjork della Sinistra svedese, il regista Berardo Carboni e Patrizia Pozzo del movimento transnazionale Diem25) hanno deciso di abbracciare la causa in prima persona. “La nostra richiesta è molto semplice - dice a esempio Corbyn -: far cadere le accuse. Lucano e i suoi coimputati sono umanitari dignitosi, dediti a sostenere i rifugiati che sono persone come noi che cercano solo di trovare un posto sicuro nel mondo. L’ospitalità di Riace dovrebbe essere giustamente considerata il massimo della civiltà umana, non doversi difendere in un tribunale”. Come sindaco di Riace dal 2004 al 2018, Lucano è salito alla ribalta per aver trasformato un paese “morente” in una località dove sono state reinsediate centinaia di famiglie di immigrati, dando nuova vita al posto. Una notorietà che gli diede nel 2010 anche il terzo posto al concorso “World Mayor”. In seguito alla sua condanna, Lucano si è rivolto all’Internazionale, una rete globale che unisce le forze progressiste, per chiedere aiuto sulla sua vicenda: in una lettera, dopo aver denunciato la “crisi di solidarietà che abbiamo sofferto qui in Italia per molti anni”, ha reclamato “sostegno per combattere le accuse contro di me e per smantellare la fortezza che è stata costruita lungo i confini dell’Europa. La posta in gioco di questo caso è molto più alta della mia stessa libertà”. In risposta l’Ip ha deciso di lanciare questa campagna globale per la “liberazione” di Lucano, rivolta alle autorità italiane. Netto è anche Chomsky, membro del consiglio dell’Internazionale Progressista: “Lucano ha offerta una vera speranza di rivitalizzazione per una comunità. La sua punizione è una vergogna. Dovrebbe essere lasciato libero per portare avanti il suo importante lavoro”. Ventennale omicidio Marco Biagi: le celebrazioni. Mattarella: “Un esempio per la comunità” di Ilaria Venturi La Repubblica, 20 marzo 2022 Marco Biagi, 20 anni dopo. Il ricordo, la sua eredità di giuslavorista che ha tentato di riformare il mercato del lavoro anticipando le sue trasformazioni, garantendo i diritti ai più deboli: giovani, donne. È il giorno del Ventesimo anniversario del suo assassinio per mano delle Nuove Br. Modena gli conferisce la cittadinanza onoraria postuma consegnando, simbolicamente, le chiavi della città alla vedova Marina Orlandi. Bologna lo ha celebrato con la deposizione delle corone e un minuto di silenzio davanti alla casa di via Valdonica dove venne ucciso dalle Nuove Br. Poi la messa in San Martino, la bicicletta che ha ripercorso alla sera il tragitto dalla stazione a casa, lo stesso che fece il professore il 19 marzo 2022, il giorno in cui fu freddato da sei colpi di pistola da un commando di brigatisti. E la musica: poesie e canzoni in piazzetta Biagi. Per non dimenticare. Alla cerimonia tutte le autorità. Il questore Isabella Fusiello, parlamentari del Pd anche di Fdi, Rosanna Zecchi, presidente delle vittime della Uno Bianca che abbraccia Marina Biagi, Silvia Zamboni a rappresentare la Regione. In chiesa Zuppi si rivolge alla vedova: “Sono passati 20 anni, Marina: il tempo non cambia niente. Ma forse aiuta a guardare con più larghezza”. Il ricordo: “Colpisce di come sia stato possibile, 20 anni fa, che l’ideologia permettesse di scatenare una campagna di odio, tanto da fare dell’altro un nemico. Marco cercava di risolvere i problemi con competenza, libertà di analisi. Non accettava soluzioni massimaliste, era libero però anche dal cinismo realista che affronta i problemi senza mettere al centro la persona. Guardava al futuro. Ne abbiamo bisogno di questa sua lezione in un tempo in cui siamo tutti chiamati a costruirlo”. “Marco Biagi apparteneva alla schiera di giuslavoristi impegnati a cogliere le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro e ad accompagnarle nelle proposte di innovazione anche normative per confermare il significato dell’affermazione contenuta all’art.1 della nostra Carta Costituzionale” afferma il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella ricordando altre vittime del terrorismo: Ezio Tarantelli e Massimo D’Antona. “Ciò che il terrorismo pretendeva di cancellare era proprio la capacità di dialogare, di connettere i diritti con le trasformazioni in atto nell’economia e nella società, di tenere viva la mediazione tra istituzioni, imprese, forze sociali, per sostenere lo sviluppo del Paese unitamente ai valori di equità e giustizia - continua il messaggio del Capo dello Stato - Le testimonianze di Marco Biagi e di queste personalità fanno parte della memoria della Repubblica e restano esempi per la nostra comunità, ai quali possono guardare i giovani che vogliano essere protagonisti e costruttori di un domani migliore”. Tante le testimonianze. Scrive il presidente della Camera Roberto Fico: “Un uomo del dialogo e del confronto, capace di intercettare i punti di intesa tra le diverse prospettive all’interno del mondo del lavoro senza mai rinunciare a promuovere una visione autenticamente riformista”. E così la presidente del Senato, Elisabetta Casellati: “Il coraggio di Marco Biagi, la sua indipendenza e il suo impegno civile ci aiutino a proseguire le sue battaglie difendendo la libertà di manifestazione del pensiero contro ogni forma di minaccia terroristica”. Biagi “provò a mettere in campo una visione. Capace di guardare le esperienze europee e perseguire il diritto al dialogo sociale, ambiva a creare uno stato sociale più universalistico. È il suo lascito più prezioso, le BR lo colpirono per quello non per aver scritto un comma o un articolo, ma per una visione”, sottolinea il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali Andrea Orlando. “Un grande riformatore, un appassionato studioso. Una persona di valori e visione. La follia dei brigatisti rossi spense la vita, non le idee” twitta il segretario del Pd, Enrico Letta. “È veramente arrivato il tempo di recuperare quel luminoso monito e quell’insegnamento di Marco Biagi e costruire oggi un nuovo Statuto della Persona nel mercato del lavoro. Impegnarsi a fondo per combattere le vere “precarietà’ del nostro mercato del lavoro seguendo ed aggiornando questi insegnamenti, è la migliore risposta sia all’atto barbaro che ci ha privato di Marco Biagi, sia alle tante polemiche strumentali e superficiali che ne hanno ingiustamente offuscato la figura”, sono le parole di Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl. Per la bolognese Lucia Borgonzoni, sottosegretario alla Cultura, Biagi “con lungimiranza aveva anticipato i nodi più controversi della questione occupazionale e per questo dobbiamo dirgli tutti grazie. Un grande italiano, un punto di riferimento”. Per Ettore Rosato (Iv) “ricordarlo oggi significa rendere omaggio ad un uomo e alle sue idee, ad un servitore dello Stato che ci ha insegnato l’importanza del dialogo e del confronto per costruire una società migliore. Una lezione oggi quanto mai utile”. “Il suo pensiero tocca temi di straordinaria attualità che ci fanno rimpiangere ancora e per sempre la sua scomparsa. Spiace che una mente illuminata come la sua sia stata colpevolmente dimenticata dalle istituzioni. E soprattutto che la sua memoria sia stata troppo spesso infangata da critiche tanto superficiali quanto infondate. Biagi è un maestro di vita”, è il pensiero della presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini. “Un abbraccio va alla sua famiglia e ai suoi cari in questo triste giorno. Che il suo sacrificio non venga mai dimenticato”. Lo dichiara il presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. “Con la sua onestà intellettuale e la sua forza morale - sottolinea Luca Zaia, presidente del Veneto - Biagi è stato un grandissimo esempio, nel nostro Paese, di chi non si arrende mai, nemmeno di fronte alle minacce, per portare avanti le proprie idee a favore di riforme in grado di migliorare ed elevare la vita dei propri concittadini”. A Modena - Marco Biagi lavorava all’università di Modena e Reggio e c’è la Fondazione a suo nome - questa mattina si è riunito il consiglio comunale straordinario per conferire al professore di Diritto del lavoro la cittadinanza onoraria postuma. “Marco Biagi era parte di questa comunità” dice il presidente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini. “Nessuno potrà ridare il professor Biagi ai suoi cari, penso che vivano da vent’anni il dolore e la solitudine, ma quelle idee devono continuare a essere patrimonio collettivo, utili a dare una mano a costruire una società più giusta soprattutto per i più giovani”. E ancora: “Va riconosciuto che Marco Biagi, per molto tempo, fu lasciato abbastanza solo: da un punto di vista professionale, delle sue idee, come vero riformista, almeno all’inizio è stato poco riconosciuto invece quelle idee ora suonano e risuonano. Per fortuna quelle idee sono tornate di moda”. Alla cerimonia il ministro Patrizio Bianchi: “È una giornata densa di emozioni. La cosa che mi impressionava di Marco era questa capacità come giurista di confrontare le diverse situazioni e come intellettuale di cogliere le trasformazioni che c’erano nei sistemi produttivi, economici, sociali e umani. Vi era questa capacità anche di trovare un riformismo vero e come tutti i riformisti ha assaporato quanto fosse dura la solitudine del riformista”. E poi: “Contro la violenza politica non si può mollare un attimo”. La cittadinanza onoraria è “riconoscimento doveroso e sentito di tutta la nostra comunità modenese”, assicura il sindaco Giancarlo Muzzarelli che consegna le chiavi della città alla vedova. “Il tempo non ha allontanato ma anzi ha rafforzato il valore di Marco Biagi. Oggi ne abbiamo più bisogno, abbiamo bisogno di riformisti preparati e profondi”, afferma il sindaco che definisce il giuslavorista “un autentico servitore dello stato e un europeista ante litteram”. Marco Biagi, Zuppi: “Cavaliere dei deboli” - “Era un cavaliere che si batteva con la sua intelligenza per difendere i più deboli. Oggi abbiamo ancora bisogno di cavalieri che si battano con cuore e intelligenza per difendere i diritti dei più fragili”. Le parole dell’arcivescovo Matteo Zuppi hanno aperto alla vigilia del Ventennale il convegno “Il riformismo per la dignità del lavoro” a Palazzo d’Accursio a Bologna. Ricorda Zuppi: “Marco Biagi è cresciuto con valori profondamente cristiani, viveva il suo impegno nella Chiesa e aveva un amore per il vangelo che era nella vita e che difendeva i più deboli e i più piccoli”. Però, lavorava in un “clima di odio esteso e immotivato”, aggiunge l’arcivescovo condannando “l’estremizzazione del pensiero” che “ha causato tante complicazioni e reso difficili delle soluzioni possibili”. Biagi, le conclusioni di Zuppi, “ha continuato fino alla fine a difendere le sue idee per costruire delle riforme del mondo del lavoro che aiutassero il futuro dei ragazzi e rendessero i diritti possibili. E voleva metterli in pratica. Cercava di tradurre i sogni in realtà, lottando contro la precarietà, rendendola protetta grazie ai diritti”. Al convegno, promosso da Base Italia, erano presenti Romano Prodi, il sottosegretario Bruno Tabacci (“Biagi era un riformatore sociale”), Marco Bentivogli e Giuliano Cazzola. “Le tensioni politiche hanno fatto di Marco Biagi un uomo di parte. Non lo era - commenta Prodi - come D’Antona partecipava alla politica in modo appassionato, ma fuori dagli schemi e in modo profondo. Loro sono state vittime di tensioni politiche folli e di una frammentazione della società che porta all’odio politico “. Marco Biagi, Lepore: “Bologna non dimentica” Bologna non dimentica, mai. “Le istituzioni hanno il dovere della memoria. Bologna non si dimentica delle persone, del lavoro delle persone, dei loro sogni e del lavoro che hanno fatto. Lo fa perché ha sofferto”, scandisce il sindaco Matteo Lepore. “Il pensiero di Biagi ha anticipato i tempi”, fa notare ricordando che anche allora “il dibattito era su precarietà e lavoro”. Riportando quella riflessione all’attualità, il sindaco dice: “Ai giovani non possiamo dare un’idea di rinuncia, ma di speranza. Abbiamo ancora bisogno di riformismo, certo abbiamo bisogno di riforme buone e complete”, perché riforme incomplete non hanno “dato speranza e hanno fatto male alle nuove generazioni”. Per questo “non basta il pragmatismo, serve un pensiero sul valore della persona. Bologna può essere la città che costruisce cose buone sul lavoro. Ci abbiamo provato in questi anni con la carta dei riders e l’accordo sulla logistica etica”. E infine, “Ogni volta che si è colpita questa città è stato per colpire chi voleva creare una strada diversa, un pensiero per gli altri. Bologna deve inserire Marco Biagi nel percorso della memoria”. Aldo Marchese, coordinatore cittadino Grande Città di Bologna per Forza Italia, ha guidato una delegazione di berlusconiani che hanno deposto un mazzo di fiori nella piazzetta che porta il nome di Biagi. “A vent’anni di distanza da quel barbaro omicidio, che ha segnato per sempre la nostra storia, la storia di Bologna, vogliamo dire chiaro e forte che l’eredità di Biagi non andrà perduta”. Trento. Tra disagi psichici, carenza di medici e agenti, allarme al carcere di Spini di Giuseppe Fin ildolomiti.it, 20 marzo 2022 La Garante dei detenuti: “Abbiamo circa il 10% di persone detenute con patologie psichiatriche primarie”. Mancano gli spazi adatti, i medici sono pochi e spesso si trovano in una situazione di isolamento che li porta a gravi conseguenze, è un dramma nel dramma quello che vivono diversi detenuti con problemi psichiatrici nel carcere di Trento. La denuncia è stata fatta già più volte dal sindacato Sinappe della polizia penitenziaria. Gli stessi agenti da un lato devono garantire la sicurezza della struttura dall’altro si trovano in alcuni casi anche a occuparsi di situazioni sanitarie che nulla hanno a che vedere con la formazione ricevuta. Ma è un dramma nel dramma perché i problemi vanno avanti da tempo e fino a oggi la questione, pur essendo stata fatta conoscere alla Provincia e all’Azienda sanitaria, non ha trovato soluzione. Continuano, intanto, a esserci episodi di aggressione e suicidi. Numeri che spesso, però, rimangono sottotraccia. Camera penale di Trento - “Il carcere dovrebbe avere una funzione di rieducazione per le persone ma nella situazione in cui ci troviamo oggi chi entra ne esce ‘incattivito’. Tutto questo di certo non ci permette di abbattere la recidiva che a oggi è del 68%” spiega l’avvocato Filippo Fedrizzi, presidente della Camera Penale di Trento che segue l’evoluzione della situazione nella casa circondariale di Trento. “Dopo la rivolta a cui abbiamo assistito qualche anno fa, c’era stato un pregevole investimento della Provincia che aveva potenziato il sistema sanitario coprendo le 24 ore con professionisti e specialisti. Un aspetto importante - spiega il presidente della Camera Penale - se consideriamo che l’80% delle persone all’interno della struttura hanno qualche problema di dipendenza e accanto a questi moltissimi hanno dei disagi psichici rilevanti e forme di depressione forti”. Questo potenziamento, però, è durato ben poco e dopo qualche tempo si è tornati a una carenza di personale. “Abbiamo assistito nei successivi anni - spiega sempre Fedrizzi - a un tremendo passo indietro. Mancano medici e anche la copertura dello psicologo non è sufficiente”. Il secondo dato che ha inciso enormemente sulla situazione all’interno del carcere è il sovraffollamento che unito alle restrizioni dovute al Covid-19 e quindi a una riduzione della vita sociale, lavorativa e dell’attività fisica all’interno della struttura, hanno creato un clima delicato e deleterio. “Si è venuta a creare una situazione di forte sofferenza” ha sottolineato il presidente della Camera Pena di Trento “ed è allarmante - continua - anche l’aumento del tasso dei suicidi”. Una situazione difficile che è stata fatta conoscere alle autorità, dalla Provincia e all’Azienda sanitaria, che però finora non hanno trovato una soluzione. “Da anni - continua Fedrizzi - noi chiediamo più educatori, più investimenti. Oggi sono toppo pochi e vivono situazioni di stress fortissimo. Non c’è nulla da fare, se non si investe in risorse umane, in formazione e strutture non ne usciamo proprio”. La Garante dei detenuti - Che la situazione all’interno del Carcere di Trento non fosse rosea lo si era già capito qualche mese fa quando la Garante dei Detenuti Antonia Menghini, nel presentare la sua relazione annuale, aveva manifestato grande preoccupazione parlando della massiccia e contestabile presenza di persone affette da conclamate e gravi patologie psichiatriche all’interno dell’istituto di pena. Problemi psichiatrici - E’ il tema che riguarda quelle persone che sono state condannate, ritenute quindi capaci di intendere di volere al momento del fatto, e che si trovano all’interno della struttura carceraria ma alle quali è stata poi riscontrata una infermità sopravvenuta. “Questa è una situazione che da un punto di vista normativo - spiega Menghini - dovrebbe assolutamente implicare una riflessione e una modifica normativa importante. Queste persone non dovrebbero per le condizioni in cui si trovano eseguire la propria pena in carcere”. L’unica misura prevista sarebbe la creazione di un’articolazione in carcere ad hoc ma non tutte le strutture ne possiedono una e nemmeno in quella di Trento è presente. “Spesso non si dispone del personale per eseguire le cure adeguate - spiega la garante - ma io penso comunque che la soluzione non possa essere ricercata in queste articolazioni. Questo perché non è il carcere il luogo dove queste persone dovrebbero eseguire la propria pena”. Oggi nel carcere di Spini di Gardolo a Trento, continua la garante Menghini “effettivamente abbiamo un circa 10% di persone con patologie psichiatriche primarie. Se i numeri sono questi è chiaro che diventa estremamente difficile seguire un numero così rilevante”. Sinappe - Nel corso degli ultimi mesi sono diversi gli episodi di agenti di polizia penitenziaria aggrediti da un detenuto. L’ultimo è avvenuto mercoledì e ha visto un agente colpito in maniera violenta alla testa. “La situazione che stiamo vivendo è insostenibile. Abbiamo informato nei mesi scorsi anche il Consiglio provinciale con un’audizione in Commissione e della situazione sono stato informati la Provincia e l’Apss ma non è cambiato nulla” spiega Andrea Mazzarese, segretario regionale del Sinappe. “Ci sono periodi - spiega - in cui si concentrano detenuti che hanno particolari problemi psichiatrici e dovrebbero essere seguiti in modo diverso ma così non avviene. Noi a Trento abbiamo all’interno dell’istituto dalle 20 alle 30 persone con problemi e noi non abbiamo le conoscenze professionali per seguirle. Chi può intervenire è il personale sanitario che ha una specifica formazione. I detenuti non possono interloquire con il poliziotto penitenziario che ha conoscenze limitate alla sicurezza e all’ordine”. Un problema, sottolinea la Sinappe, che si registra non solo nel carcere di Spini di Gardolo ma anche in altri sul territorio italiano. “A Trento - continua Mazzarese - si aggiungono poi le carenze del personale che sono rilevanti. Per questo vogliamo di nuovo fare un appello alla Provincia di Trento per dire che abbiamo una carenza di organico notevole. Non va tutto bene. Noi facciamo turni che prevedono il lavoro straordinario sempre”. Nel mese di novembre il segretario del Sinappe Mazzarese ha partecipato a un’audizione in Quarta Commissione dove era stata invitato per rappresentare i vari problemi che si registravano all’interno della Casa circondariale di Spini. “E’ stato preso atto della situazione ma da quel momento noi non abbiamo visto alcun cambiamento”. Sul tema della carenza di personale, sempre secondo i dati forniti dal sindacato, negli ultimi anni si è visto un calo del 15-20%. “Alla fine del 2017 con l’ex governatore Rossi e l’ex ministro Orlando - spiega Mazzarrese - si era riusciti a portare a Trento una trentina di agenti in più. Da quel momento, però, questi numeri sono andati persi”. La Provincia - Il presidente della Provincia autonoma di Trento, Maurizio Fugatti, nelle scorse ore ha annunciato che incontrerà la prossima settimana una rappresentanza sindacale delle guardie carcerarie in servizio nella struttura penitenziaria di Spini. “Nelle ultime settimane - ha spiegato Fugatti - abbiamo ricevuto sollecitazioni da parte del mondo sindacale e la prossima settimana riceverò i sindacati in accordo con il commissario Bernabei”. In merito al tema della carenza di personale rispetto al numero di detenuti presente il governatore ha spiegato che la Provincia aveva “informato le autorità ministeriali competenti. Si tratta di un tema di assoluta importanza, su cui ci confronteremo anche con la direzione del carcere, sempre in accordo con il prefetto”. Parma. Contagi fermi, ma il carcere ormai è in quarantena di Michele Ceparano Gazzetta di Parma, 20 marzo 2022 Il Garante: “Regole di sicurezza non rispettate. Alcuni non possono neanche comprarsi la mascherina”. Centoquaranta. Una cifra elevata. Il numero di positivi nel carcere di via Burla, tra detenuti e personale, sarebbe per il momento fermo alla cifra raggiunta nella giornata di giovedì. Pare, però, che il numero, già alto, sia comunque destinato a salire e il livello di attenzione resta altissimo. Le ultime notizie fotografano, infatti, l’immagine di un carcere in quarantena in cui gran parte delle attività sono state sospese. Al momento, tra Alta e Media Sicurezza e nuovo reparto, sono 119 i detenuti positivi (su un totale di circa settecento che si trovano all’interno del penitenziario), a cui vanno aggiunti ventuno agenti della polizia penitenziaria. Uniche sezioni che risultano attualmente immuni dai contagi sono la 1B della Media sicurezza e il reparto 41 bis. Va sottolineato che all’interno della casa circondariale proseguono i colloqui con i familiari e con gli avvocati, assicurati anche a distanza, nel rispetto delle procedure di sicurezza (tamponi antigenici rapidi), mentre sono sospese per almeno due settimane tutte le altre attività che si svolgono in via Burla tra cui quelle in comune e quelle che riguardano scuola e formazione. Importante anche sottolineare il fatto che nessun detenuto al momento presenta sintomi che possano preoccupare. Nel frattempo, dovrebbe essere in programma nella giornata di oggi lo screening riservato al personale della polizia penitenziaria che si trova a operare in una situazione di ulteriore difficoltà. Sull’emergenza in via Burla, che viene costantemente monitorata dall’Ausl, è intervenuto il garante regionale Roberto Cavalieri che ieri ha incontrato il direttore dell’istituto parmigiano Valerio Pappalardo. “Questa rapida diffusione del contagio nel carcere di Parma preoccupa - ha spiegato senza giri di parole il garante - perché inattesa ma anche perché quasi certamente non vengono rispettate le regole di sicurezza quali l’indossare le mascherine Ffp2 da parte del personale e anche da parte dei detenuti”. Per questi ultimi, ha aggiunto Cavalieri, “va verificato se sono stati messi nelle condizioni di entrare in possesso dei presidi di sicurezza, dal momento che tra i detenuti è ampiamente diffuso uno stato di povertà e di assenza di mezzi economici per far fronte alle spese minime”. Un’emergenza nell’emergenza quest’ultima, che il garante aveva già con decisione sottolineato a più riprese nei suoi passati interventi. Cavalieri ha espresso apprezzamento “per la trasparenza con la quale sia la direzione che il personale sanitario stanno affrontando la situazione”. Da ultimo il garante, che recentemente ha presentato il bilancio della sua attività davanti alla Commissione Servizi sociali del Comune di Parma, ha formulato un invito anche ai detenuti “a rimanere tranquilli in questo ultimo colpo di coda della pandemia”. Sanremo (Im). Non riesce a videochiamare la famiglia, detenuto tenta il suicidio riviera24.it, 20 marzo 2022 “Un detenuto di origine magrebina, con fine pena 2023, non è riuscito per problemi tecnici a fare una videochiamata alla famiglia e, rientrato in cella, ha tentato il suicidio impiccandosi con una corda ricavata dalle lenzuola. Prontamente soccorso dal personale di polizia penitenziaria che con coraggio e immediatezza, eroi/poliziotti che hanno impedito che si realizzasse l’insano proposito. Il detenuto è stato trasportato con urgenza presso il nosocomio cittadino”. Il segretario regionale della Uil Fabio Pagani racconta quanto accaduto ieri pomeriggio, intorno alle 13,30, all’interno del carcere di Valle Armea. “É del tutto evidente che il personale è sottoposto a forti tensioni e lavora in un clima di forte preoccupazione. Tutti siamo consapevoli che la situazione potrebbe irrimediabilmente degenerare da un momento all’altro a Sanremo, siamo altrettanto consapevoli che l’esiguità delle risorse umane e tecnologiche ci impedirebbero di gestire la situazione e tenerla sotto controllo. Ma non possiamo affidarci alla sola fortuna, occorrono uomini e mezzi e il rientro del personale distaccato. Qui può succedere di tutto. Se il Dap non implementa l’organico bisognerà, gioco forza, rivedere le assegnazioni di poliziotti penitenziari negli Uffici e nei servizi complementari. Benché anch’essi siano essenziali alla vita dell’istituto in questo momento è preminente rinforzare le prime linee. Alla fine per garantire i servizi operativi essenziali restano non più di settanta unità. Troppo poche. Assolutamente inadeguate a garantire i livelli minimi di sicurezza, ancor più in considerazione - conclude Pagani - che attualmente sono ristretti 220 detenuti. Anche in questi numeri c’è la ragione delle criticità che registriamo quotidianamente a Sanremo, dove un’altra vita è stata salvata dalla polizia penitenziaria”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Gli studenti dell’Ites da Vinci incontrano i detenuti vivicampania.net, 20 marzo 2022 Gli studenti dell’Istituto Tecnico Economico Statale “Leonardo Da Vinci” di Santa Maria Capua Vetere, nella mattinata di oggi, hanno partecipato, presso la Casa circondariale “Francesco Uccella”, sito nella città del foro, all’incontro promosso dal Garante campano delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello, d’intesa con l’associazione Libera e il Coordinamento campano dei familiari delle vittime innocenti di camorra, in vista della Giornata della Memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti che si terrà lunedì 21 marzo a Napoli. Nell’ambito del ciclo “Il Cantiere della Legalità e della Convivenza civile”, fortemente voluto dalla dirigente scolastica Carmela Mascolo, e curato dalla docente Camilla Sgambato, i ragazzi e le ragazze dell’Ites, accompagnati dai docenti Tiziana Chianese, Giustina Persico e Lino Mele, hanno ascoltato con interesse e grande emozione le testimonianze di Marzia Caccioppoli che ha raccontato del suo unico figlio morto, di Bruno Vallefuoco, che ha raccontato del figlio Alberto, un ragazzo normale ucciso per trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato, della direttrice Rotundo Donatella e del senatore Sandro Ruotolo, che proprio venerdì prossimo 25 sarà ospite all’Istituto Da Vinci di Santa Maria C.V. “Siamo convinti che solo offrendo ai giovani la possibilità di elaborare un pensiero critico sui principi fondamentali della legalità nella loro espressione più alta, aiutiamo a formare cittadini maturi, consapevoli e coraggiosi. Per questa ragione ringraziamo il garante Ciambriello, Libera e l’amministrazione della struttura carceraria per questa importante opportunità che hanno offerto ai nostri studenti”, dichiarano la preside Mascolo, che ha aderito all’iniziativa con entusiasmo, la responsabile Sgambato e i docenti Chianese, Persico e Mele. Bologna. Carcere del Pratello, incognita teatro di Sirio Tesori bolognatoday.it, 20 marzo 2022 “Dieci anni per i lavori, ma sarà ancora agibile per i giovani detenuti? Se confermato, sarebbe grave”. Viaggio all’interno dell’istituto minorile, dove attualmente sono detenuti una quarantina di ragazzi. A chiedere lumi è il consigliere 5 Stelle Marco Piazza, e sul tavolo c’è il dossier del carcere minorile del Pratello. O meglio del teatro del carcere minorile, chiuso da almeno dieci anni e ora oggetto di una corposa ristrutturazione. Piazza, insieme alla deputata grillina Stefania Ascari, componente della Commissione giustizia alla Camera ha da poco fatto visita all’istituto di pena per i minori, sollevando la questione. “Ora per fortuna il complesso è in ristrutturazione - commenta Piazza - ma da quello che io e l’onorevole abbiamo avuto modo di vedere, per ora non sembrerebbe esserci la fruibilità per i ragazzi detenuti”. In altre parole, il teatro stesso era stato avviato per potere fornire ai giovani carcerati un luogo di espressione dei laboratori teatrali, progetti che negli anni hanno sempre dato ottimi frutti in termini di recupero. “Finché era operativo -prosegue Piazza- era una grandissima opportunità per l’importante e apprezzata attività teatrale svolta dai volontari. La buona notizia è che finalmente sono stati stanziati i fondi e i lavori di ristrutturazione iniziati. Quella meno buona è che al momento però ci è stato riferito che il progetto non prevede quegli accorgimenti necessari per renderlo fruibile dai ragazzi detenuti”. Il problema sembra essere proprio la dotazione di sicurezza necessaria, come le sbarre alle finestre, per poter essere fruibile anche dai giovani detenuti. “A questo punto diventerebbe uno spazio utilizzabile solo dall’esterno” incalza Piazza, che su questo punto chiede che si accendano i fari. “Perché non è stato discusso con la città, che tanto si impegna a creare relazioni tra gli istituti di pena e l’esterno?”, si chiede il consigliere. Visita consigliere e deputata: “La situazione dentro è questa” - A fare la sintesi dello stato del carcere del Pratello è anche Stefania Ascari, deputata e membro della commissione giustizia alla Camera. “Abbiamo riscontrato una buona organizzazione generale, seppure con criticità strutturali dovute al sovraffollamento degli spazi. Il carcere del Pratello è “un edificio storico riadattato per l’uso carcerario al cui progressivo ampliamento della capienza non è corrisposto un adeguamento dell’organico di Polizia penitenziaria e -soprattutto- di educatori”. I ragazzi detenuti sono compresi in una fascia di età molto ampia, dai 15 ai 25 anni, alcuni di loro con pene rilevanti. “Tutti -si legge nel report dell’onorevole- sono impegnati in eccellenti attività scolastiche, sportive, teatrali, musicali finalizzate all’acquisizione di competenze da spendere durante il periodo di detenzione e una volta usciti dall’istituto”. Sempre secondo Ascari, a Bologna l’organizzazione è sicuramente pregevole, anche se con i “limiti dettati da una carenza di finanziamenti”. E a questo “bisogna porre rimedio, se vogliamo che le tante professionalità al servizio di questi giovani siano messe nelle condizioni di fornire loro gli strumenti per una seconda opportunità, così come la nostra Costituzione prevede”. Verona. Detenuto ucraino chiede la grazia per tornare in patria a combattere di Angiola Petronio Corriere di Verona, 20 marzo 2022 Stepan deve scontare una pena minore. “Confidiamo in Mattarella”. Stepan è ucraino e sta scontando una pena di 23 mesi per contrabbando nel carcere veronese di Montorio. Ma ha chiesto la grazia al presidente Sergio Mattarella perché vuole andare a combattere. “Quello che chiediamo al presidente Mattarella è di mettersi una mano sulla coscienza. E di concedere a Stepan di fare il “suo”. Dove “fare il suo” - se sei un uomo ucraino di trent’anni - in questi tempi vul dire fare la guerra. La “richiesta” è dell’avvocato Alexandro Maria Tirelli, presidente delle Camere penali del diritto europeo e internazionale. Ed è una richiesta di grazia. Perchè Stepan è un detenuto. È sta scontando la sua pena in una cella del carcere di Montorio. Non ha commesso un “reato da prima pagina” Stepan. Contrabbando di sigarette, la sua colpa. Quella per la quale è stato condannato a 23 mesi. Sentenza del 2019, andata in giudicato meno di un anno fa. Ne ha all’incirca un altro da scontare. Ma se la mancanza di libertà è la pena più pesante da scontare per un recluso, per Stepan - da quando il suo Paese è stato invaso - è diventata un’asfissia. E tramite l’avvocato Tirelli ha chiesto la grazia al presidente della Repubblica. Per andare a combattere. Richiesta che, parole del legale “nasce da una motivazione non solo politica, ma esistenziale e, oserei dire, quasi spirituale. Il reato per il quale è stato condannato Stepan non desta alcun allarme sociale, e la sua condotta carceraria è stata fino ad oggi irreprensibile. Consentirgli di ritornare in patria è un atto di giustizia che, in questo momento storico, assume un valore che va ben oltre la semplice liberazione anticipata di pochi mesi”. Perchè Stepan le notizie dall’Ucraina le vede e le ascolta dalla televisione di una cella. Sa che tra le città bombardate c’è anche la sua. E che, tra i morti del conflitto, ci sono anche dei suoi parenti. “Stepan dice che non avrebbe senso tornare lì quando avrà finito la detenzione. Troverebbe un Paese maciullato e, forse, nessuno dei suoi parenti. Per questo vuole andarci adesso a combattere”, dice Tirelli. Che quello che sta vivendo Stepan lo capisce anche troppo bene essendo sposato con una donna ucraina. Sua figlia è nata a Kharkov e da poco è riuscito a portare in Italia i parenti della moglie. Ma l’avvocato Tirelli conosce bene anche la realtà russa, essendo stato legale anche di alcuni oligarchi. Adesso, in una parabola non solo lavorativa, aiuta Stepan. “Non può accedere alla misura alternativa alla detenzione in quanto sprovvisto di domicilio. E, allo stesso modo, non può essere espulso perché in possesso di doppio passaporto, ucraino e rumeno e i trattati comunitari impediscono di allontanare un cittadino europeo da un Paese membro”. L’unica strada che rimane è quella della grazia. “Lo stesso presidente Volodymir Zelensky ha invitato tutti gli ucraini, abili e arruolabili, a impugnare le armi e a prendere parte alla resistenza”, spiega l’avvocato. Lo stesso Zelensky che ha assicurato “clemenza” per i detenuti che andranno a combattere. Ma non è per quello, assicura Tirelli, che Stepan vuole tornare in Ucraina e combattere contro i russi. “Chiediamo - conclude l’avvocato - per lui e per altri detenuti con reati minori di poter andare a difendere il loro Paese. Confidiamo nella saggezza e nel coraggio del presidente Mattarella”. Montalbano è finito in carcere di Gianluigi Rossini Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2022 Luca Zingaretti, direttore di un penitenziario al confine con la Slovenia, è ora una figura negativa, anche se non del tutto malvagia. La serie ha un impianto un po’ vecchio ma racconta con profondità l’emergenza nelle prigioni. Quando sono in branco, spesso i giornalisti danno il peggio di sé. Alla conferenza stampa di presentazione de “Il Re”, nuovo originale Sky (su Atlantic e Now), erano presenti nove membri del cast tra autori, attori e produttori, ma al momento delle domande sembrava che tutti volessero chiedere la stessa cosa alla stessa persona: Luca Zingaretti, dopo Montalbano che era un buono, adesso interpreti un cattivo? Date un premio a quell’uomo per la calma impassibile con cui ha risposto. Nella serie Zingaretti è Bruno Testori, direttore dell’immaginario San Michele, un carcere vicino alla frontiera con la Slovenia. Testori è un protagonista negativo da manuale della serialità pay tv: ha molto potere e ne abusa senza remore, ma lo fa perché per lavoro deve confrontarsi con il male; sniffa cocaina e va a prostitute, ma è tenero conia figlia e ancora innamorato dell’ex moglie; trasuda hybris e si crede Dio, ma il suo regno è pericolante. “Il Re” ha una concezione di fondo un po’ vecchia, non riesco a non dirlo: di cattivi seriali ne abbiamo visti tanti, dubito che qualcuno davvero trasalirà nel vedere Testori che stende una striscia di polvere bianca. Un racconto così centrato sul dramma shakespeariano di un carismatico semi-malvagio dà a volte l’impressione di essere l’ennesimo epigono del genere creato dai Soprano ormai più di vent’anni fa. Di converso, di prison drama italiani ne abbiamo visti pochi, e lire ha il grande merito di muoversi all’interno del genere senza pretendere di formulare un giudizio sul sistema carcerario italiano, ma senza nemmeno mai scadere nella superficialità o nella mancanza di autocoscienza. carcere in Italia è un fronte emergenziale permanente, come ha detto lo sceneggiatore Peppe Fiore, è un argomento di cui non è facile parlare. Posizionare il conflitto drammatico all’interno di un singolo essere umano è una scelta di campo ben precisa che qui funziona, ma il micromondo che lo circonda (guardie, detenuti divisi per fazioni etniche, altri organi dello Stato) è credibile e interessante. La fotografia cupa, i grandangoli, le location, tutto è ben armonizzato nel creare un’atmosfera tesa e sporca, molto coerente ed efficace. Non parliamo solo di guerra e Covid, rimettiamo in moto la fantasia di Gabriele Romagnoli La Repubblica, 20 marzo 2022 Da troppo tempo le conversazioni sono monotematiche. È legittimo cambiare discorso? È la ricerca non di un rifugio prefabbricato, ma di una base da cui rilanciare l’idea per cui un altro mondo è, sempre, possibile. Eppure è ancora possibile, anzi è salutare, ridere, farsi portare lontano da una musica, sognare un altro tempo affidandosi alla magnifica inesistenza dei personaggi inventati da un regista. Può sembrare paradossale affermarlo in un articolo di giornale che viene dopo molti altri a tema unico (la guerra in Ucraina, come prima lo era stato la pandemia). È legittimo riprendersi Italo Calvino e affermare che “la leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. Cantare con Lucio Battisti l’innocenza delle evasioni. Affidarsi al respiro dell’arte, che non è mai stata mera sovrapposizione alla realtà, neppure nella più calcolata esibizione di un performer dell’autofiction che vaneggi la scala 1:1. Da troppo tempo le conversazioni sono monotematiche e, ma questo da sempre, ininfluenti. Da dove viene veramente il Covid, però anche questi vaccini, quale sarà la salute di Putin, ma anche la Nato dal canto suo. Opinioni di terza mano, riprese da opinionisti di seconda. È lecito cambiare discorso? È sacrilego continuare a cercare l’aggancio salvifico della bellezza e il potere della rappresentazione di condurci altrove? A volte è così riuscita da imporsi prendendoci alla sprovvista, con la guardia abbassata. Per esperienza personale mi è capitato anche in questi tempi in cui il retropensiero non ci molla mai. L’ultima proprio ieri mattina, con un libro in mano, mi sono sorpreso a ridere. Stavo leggendo Serge di Yasmina Reza: la storia tragicomica di tre fratelli che ha per epicentro una gita ad Auschwitz e neppure lì rinuncia a mettere in scena la distorsione del turismo di massa, “la folkloristica commozione”, il protagonista che davanti alla Judenrampe percepisce come unico fastidio la presenza degli insetti. A dirci che la nostra irrequietezza non è “vanità, pazzia o malessere. Gli uccelli non sono né irrequieti né pazzi. Cercano il posto migliore e non lo trovano. Tutti crediamo che esista un posto migliore”. O che sia esistito un tempo migliore. E continuiamo a voltarci, ad adottare passati che non abbiamo vissuto. Così due sere fa mi sono lasciato trasportare dalla nostalgia di Paul Thomas Anderson e dal suo film Licorice Pizza per ritrovarmi in quell’America che è sempre stata la seconda patria di chi è cresciuto non tanto in quegli anni ma guardando quegli anni, nella gioiosa sostituzione alla propria realtà di quella dei romanzi, dei telefilm e, più di ogni altra cosa, dei testi delle canzoni. Abbiamo davvero bussato alle porte del paradiso e pazienza se non ci è stato aperto: torneremo, anche da vecchi, fino alla fine, con la stessa fiducia di quei ragazzi che per tutto il tempo della pellicola corrono, corrono verso il futuro. E due sere prima ancora, in un teatro, a un certo punto dello spettacolo mi sono ritrovato a battere il piede sul pavimento cercando un’assonanza con il ritmo. Sul palco Lina Sastri in Eduardo mio cantava una versione di Tammuriata nera irresistibile, così scandita e tribale. La canzone ha un riferimento al tempo di guerra, certo, al figlio di un incrocio proibito, ma la forza dell’arte è quella di evocare in ciascuno il proprio sogno alla fine della stessa giornata e così io ho ritrovato un tram incassato sotto il ponte ai Murazzi del Po di Torino negli Anni Novanta, una folla danzante e multirazziale: “Niro, niro comm’a che!”. Potrei andare ancora più in là e dire che un effetto evocativo, l’allusione a una traiettoria impensabile, l’ha avuto pure il gol con dribbling, sospensione del tempo e poi tiro, messo a segno da Boga nel finale di una partita perfetta dell’Atalanta a Leverkusen. La guerra, la malattia, la separazione, il lutto, l’esilio e ogni forma di sofferenza producono un’ossessione. Restringono il mondo a quell’esperienza. Non si parla d’altro, non si prova altro, si finisce per non immaginare altro, elevando il dolore al quadrato. La salvezza richiede uno slancio di fantasia, una sovversione estetica che allontani dalla bruttura in cui ci ha infilati il caso o l’altrui non condivisibile volontà di potenza. Si può leggere Lolita a Teheran, ascoltare Leonard Cohen nelle cuffie in ospedale, guardare Boris in fondo al pozzo della propria solitudine. Poi, certo: Vita e destino di Grossman, L’isola dei morti di Rachmaninov e la serie tv con Zelensky, ma la libera uscita del pensiero è un ricostituente morale. È la ricerca non di un rifugio prefabbricato, ma di una base da cui rilanciare l’idea sommersa per cui un altro mondo è, sempre, possibile. La strada sbagliata dell’aumento delle spese militari di Francesco Vignarca* Il Manifesto, 20 marzo 2022 Oltre a devastare l’Ucraina, l’invasione decisa da Valdimir Putin ha ribaltato gli orizzonti di molte scelte politiche internazionali, soprattutto in Europa. È successo per le esportazioni di armi, con i Paesi dell’Unione europea che hanno deciso di ignorare norme condivise vincolanti, ma soprattutto lo si rileva sul tema delle spese militari. Un clima politico totalmente cambiato dal recente passato, in cui comunque il rialzo negli investimenti armati era in qualche modo limitato da una contrarietà nell’opinione pubblica evidenziata da diversi sondaggi. Oggi invece si cerca il consenso politico in direzione militarista. Un consenso politico in direzione militarista che fa dichiarare con allegria al Sottosegretario alla Difesa Mulé che “non ci diciamo più che con un F-35 si costruiscono cento asili, ma che con l’F-35 ne proteggiamo migliaia”. Sempre che in futuro ci sia qualche soldo per costruirli e gestirli… Nelle ultime settimane la Germania ha deciso di portare a 100 miliardi (praticamente raddoppiandolo) il proprio livello di spesa militare, la Francia si adeguerà e anche l’usualmente “neutrale” Svezia intende raggiungere i livelli suggeriti dalla Nato. Lo stesso è avvenuto in Italia con l’ordine del giorno votato a larga maggioranza alla Camera dei Deputati e spiegato come risposta alle richieste di Mario Draghi. Che in realtà aveva già rilasciato dichiarazioni di questo tenore dopo la conclusione della presenza in Afghanistan (situazione dimenticata, dopo solo sei mesi dal fallimento della missione militare occidentale) descrivendolo come passo verso la Difesa comune Europea, che potrà invece concretizzarsi solo dopo un reale affidamento all’Unione di competenze su politica estera. Tanto è vero che un Report diffuso in questi giorni dalla rete Enaat dimostra che i primi fondi europei destinati alla difesa stiano solo diventando l’ennesimo sussidio all’industria militare. Non regge nemmeno quanto dice il primo firmatario dell’OdG, il leghista Paolo Ferrari, secondo cui la spesa militare avrebbe avuto di recente una costante contrazione invertita solo dall’ultimo esercizio finanziario. I dati dell’Osservatorio Milex evidenziano invece una crescita costante dai 21,5 miliardi del 2019 ai 25,8 previsti per il 2022 soprattutto per l’aumento dei fondi per nuovi armamenti balzati da 4,7 a 8,2 miliardi di euro. “È solo l’applicazione di una richiesta Nato già prevista” dicono in molti. Nemmeno questo è vero. L’indicazione di almeno il 2% del Pil in spesa militare fa capolino nel 2006 in un accordo informale dei Ministri della Difesa rilanciato al vertice dei Capi di Stato e di Governo del 2014 in Galles (obiettivo per il 2024) in cui si indicava anche una quota per investimenti del 20%. Dichiarazioni di intenti mai ratificate dal Parlamento con forza normativa e obbligo vincolante per il Bilancio dello Stato. L’obiettivo del 2% non è mai stato giustificato in termini militari e collega una spesa pubblica a un parametro soggetto a fluttuazioni comprendente produzione di ricchezza privata: è quindi aleatorio e scollegato da reali esigenze tecniche. “In una fase come questa è inevitabile aumentare le spese per la difesa”, è un’altra delle giustificazioni addotte, vedendo nella Russia una minaccia sempre maggiore cui far fronte. Difficile però che un aumento di spesa da realizzare nei prossimi anni, e con effetti ancor più trascinati nel tempo, possa incidere sulla crisi in corso in Ucraina. Soprattutto perché, considerando il volume di fondi come parametro di potenza militare e assumendo che sia correlato a efficacia nella sicurezza, la sproporzione è già oggi enorme. Dal 2015 in poi (cioè dall’occupazione di Crimea e Donbass quando la “faccia cattiva” di Putin era già evidente, ma senza che ciò fermasse gli “affari armati” europei) la Nato in totale ha investito nei propri eserciti oltre 14 volte quanto fatto dalla Federazione Russa. Un’astronomica cifra di 5.892 miliardi di dollari contro 414 (cioè una differenza di quasi 5.500 miliardi). Anche limitandosi all’Unione europea i dati indicano che i Paesi Ue (con Regno Unito considerato solo fino al 2019) hanno avuto una spesa militare combinata di oltre 3,5 volte quella di Putin: 1.510 miliardi di dollari, quasi 1.100 in più dei russi… Chi ritiene che per rispondere alla minaccia del Cremlino, che uscirà dal conflitto ucraino con forze armate decimate e fortemente indebolite in assetti e capacità, si debbano ulteriormente aumentare le spese militari o ha problemi di aritmetica o ritiene altamente inefficienti (magari per corruzione?) gli investimenti fatti dai Paesi occidentali. Oppure, più semplicemente, si fa trascinare da una diffusa retorica con l’elmetto (comoda, semplificatoria, politicamente vantaggiosa) orchestrata in maniera interessata da chi sta già contando le montagne di soldi in arrivo per questa decisione. Resta da capire come le casse dello Stato possano permettersi 12 miliardi in più all’anno per soldati e armi. *L’autore è coordinatore delle campagne di Rete Pace e Disarmo L’Italia corre ad armarsi. “Ma così stiamo investendo nella guerra e nell’instabilità” L’Espresso, 20 marzo 2022 Il Parlamento ha approvato quasi all’unanimità l’ordine del giorno della Lega che prevede che il 2 per cento del Pil sia investito nella Difesa. Ma è solo l’ultimo atto di un trend costante: da anni, come denunciano inascoltate le associazioni, spendiamo sempre di più in armi e le vendiamo a paesi senza diritti umani, guidati da dittatori e autocrati. Mercoledì 16 marzo la Camera ha approvato a larghissima maggioranza (391 voti favorevoli su 421 presenti, 19 voti contrari) un ordine del giorno per portare al 2 per cento il Pil dedicato alle spese militari in Italia, “predisponendo un sentiero di aumento stabile nel tempo, che garantisca al Paese una capacità di deterrenza e protezione”. In pratica si passerebbe da una spesa di circa 25 miliardi l’anno (68 milioni al giorno) ad almeno 38 miliardi l’anno (104 milioni al giorno). La corsa al riarmo, dopo l’invasione ucraina da parte della Russia di Putin, ha coinvolto tutti gli Stati europei, una mossa unica nella storia dell’Unione, e che ha coinvolto anche quegli Stati che avevano fondato la propria politica sul disarmo. La Germania, l’unica all’Interno della Nato a non aver mai aumentato le spese militari, investirà ogni anno più del 2 per cento del Pil, persino la Finlandia, con uno stato di neutralità che deriva dal post Seconda Guerra Mondiale, ha inviato armi e ora vuole entrare nella Nato. E così la Norvegia. La corsa alle armi italiana è stata giustificata in aula dal primo firmatario, il leghista Roberto Paolo Ferrari, con queste parole: “Si tratta di raggiungere un obiettivo che il nostro Paese si era dato, aderendo alle conclusioni del vertice dell’Alleanza atlantica nel 2014 in Galles. In questi anni, in maniera altalenante, la spesa per la difesa ha subito, però, una costante contrazione”. Partiamo dalla fine. Dire che le spese militari hanno subito una contrazione non corrisponde al vero. Se qualcosa non ha subito tagli negli ultimi anni è proprio la spesa militare, persino durante la pandemia. La guerra in Ucraina non ha cambiato una tendenza consolidata: l’Osservatorio Milex rivela che il 2022 sarà l’anno in cui la spesa militare italiana supererà il muro dei 25 miliardi di euro (25,8 miliardi per l’esattezza). Solo negli ultimi mesi, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha sottoposto all’approvazione del Parlamento diciotto programmi di riarmo, di cui tredici di nuovo avvio (un valore già approvato di 11 miliardi di euro e un onere complessivo previsto di 23 miliardi). Tra questi spiccano quelli per i due nuovi cacciatorpedinieri lanciamissili classe Orizzonte da circa 1,2 miliardi l’uno, prodotti da Fincantieri. Ma passiamo a quel 2 per cento cui si riferisce l’ordine del giorno. La percentuale riferita al Pil di cui parla Ferrari deriva sì da un accordo del 2006 dei Ministri della Difesa - quindi non della Nato - dei Paesi membri dell’Alleanza poi confermato e rilanciato al vertice dei Capi di Stato e di Governo del 2014 in Galles, a seguito proprio dell’invasione della Crimea. Ma è innanzitutto un accordo informale, dichiarazioni di intenti che al momento non sono mai state ratificate formalmente dal Parlamento italiano, con un voto avente forza legislativa, e quindi non costituiscono un obbligo vincolante per il Bilancio dello Stato. “Chi ha deciso che deve trattarsi del 2 per cento? Non c’è una ragione militare o dettata da esigenze operative, non c’è nessun riscontro in questo dato. È un numero scelto non dico a caso, ma in maniera arbitraria”, spiega Francesco Vignarca, coordinatore di Rete italiana Pace e Disarmo. Insomma è una cifra utilizzata per spingere la crescita della spesa, denunciano le associazioni che si sono poste anche contro l’invio di qualsiasi arma all’Ucraina invasa. “Anche il collegamento con il Pil è fuorviante: è un livello di spesa pubblica, che però comprende anche la produzione di ricchezza privata, e non si può conoscere preventivamente”, aggiunge Vignarca. La problematica sta nel fatto che, sottolinea Vignarca, il Pil è soggetto a fluttuazioni indipendenti dalle decisioni fiscali, rende del tutto aleatoria e scollegata da reali esigenze la definizione tecnica e concreta di tale spesa. L’invio delle armi in Ucraina, la corsa al riarmo e soprattutto alla vendita a paesi terzi di armamenti sono decisioni in chiave opposta a quanto l’Italia ha sancito ormai più di trent’anni fa con la legge 185/90, conosciuta con il nome di “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”. L’incantesimo si è spezzato giorni fa, quando il governo italiano ha deciso di inviare armi all’Ucraina, adattandosi in realtà a quello che gli altri paesi dell’Unione Europea hanno fatto, con lo scopo iniziale di far difendere il paese di Zelensky dall’invasione russa. “Garantire sostegno e assistenza al popolo ucraino attraverso la cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari alle autorità governative dell’Ucraina”, si legge nel documento del consiglio dei ministri. Ma l’export italiano di armi non conosce limiti neppure quando riguarda paesi pronti a sganciare bombe sui civili, anche in questo conflitto sappiamo che la Russia sta utilizzando armi che l’Italia stessa ha venduto al governo di Putin. Ad arricchirsi sono le aziende a controllo statale, in primis Leonardo (ex Finmeccanica) e Fincantieri, i due colossi nazionali della produzione militare. L’industria bellica non si ferma neppure davanti a quei paesi in cui i diritti umani sono costantemente calpestati, ma trova l’appoggio di tutto il Parlamento: basta vedere quest’ultima votazione, con contrari soltanto diciannove deputati. Un made in Italy che sostiene autocrati e dittatori, che utilizzano gli armamenti per consolidare il proprio potere indisturbati. Tra questi paesi ci sono le monarchie assolute islamiche della penisola araba (Qatar, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Oman) e i paesi del bacino sud del Mediterraneo (Egitto, Algeria, Israele, Marocco), i cosiddetti “paesi Mena”. E anche la parte della legge del ‘90, in cui si invita alla conversione a fini civili delle industrie nel settore della difesa, è del tutto ignorata. Ad oggi spetta ancora alle associazioni e alle reti della società civile, che chiedono lo smantellamento della Nato, difendere e chiedere l’attuazione di quanto deciso. “Paesi che hanno basato sull’aspetto della neutralità tutta la propria politica, stanno cambiando. Purtroppo lo sfruttamento della tragedia ucraina porterà più instabilità: se prepari la guerra, avrai la guerra. Mentre si dovrebbe investire nella pace”, aggiunge Vignarca. Finanziare settori diversi da quello delle armi andrebbe ad aumentare benessere e condizioni di vita delle persone: “Quando tutti stiamo meglio, tendiamo a essere meno conflittuali, mentre anche la deterrenza militare è crollata come un castello di carta: se la Russia non avesse il nucleare sarebbe del tutto diverso”. Le associazioni contrarie all’industria delle armi da anni provano a definire un modello alternativo di Difesa europea che non sia aggressivo, ma solo difensivo, in pratica di smantellare la Nato, che può avere solo una funzione di polizia internazionale (quindi niente portaerei, cacciabombardieri ecc.). “Nel modello di difesa Ue deve essere contemplata (e di pari grado e valore e con un 15-20% degli investimenti) la difesa civile non armata e nonviolenta (corpi civili di pace, diplomazia popolare, ecc.) e un Istituto di ricerca Ue e nazionale di studi per la difesa, la sicurezza e la pace”, spiega Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio sulle armi leggere (opal). Intanto la spesa militare globale è raddoppiata dal 2000, siamo 2mila miliardi di dollari l’anno. Una corsa agli armamenti esponenziale con un dispendio di risorse che potrebbero essere utilizzate per scopi migliori, così come hanno ricordato cinquanta Premi Nobel in un appello inviato ai governi di tutti gli Stati membri dell’Onu. Questo articolo è pubblicato senza firma come segno di protesta dei giornalisti dell’Espresso per la cessione della testata da parte del gruppo Gedi. I profughi dall’Ucraina e il disastroso stato dei Centri di accoglienza L’Espresso, 20 marzo 2022 “Troppi tagli, serve tornare al pre-Salvini”. Migliaia di persone in fuga dalla guerra stanno per arrivare in Italia. Ma col calo dei fondi deciso dai decreti sicurezza i servizi di Cas e Sai sono quasi azzerati. Tra letti sporchi, bagni sudici e scarafaggi. Sono quasi tre milioni gli ucraini fuggiti dal proprio paese e che ora cercano una sistemazione lontano dalle bombe russe. Non si sa ancora quanti raggiungeranno l’Italia - si stima nell’ordine di decine di migliaia - ma con l’allungarsi della guerra i numeri potrebbero aumentare di molto. Quella italiana è infatti una delle comunità ucraine più grandi d’Europa, con 248mila persone. A oggi si contano circa 40mila ingressi, assorbiti per ora da parenti o amici. Se i numeri dovessero aumentare, non è detto che l’Italia sia pronta. Il decreto legge Ucraina, entrato in vigore il 28 febbraio scorso, prevede che Cas, i centri di accoglienza straordinari, e Sai, Sistema di Accoglienza e Integrazione, siano i luoghi per ospitare i rifugiati. Sono stati semplificati i passaggi per potervi accedere, così che non sarà necessario presentare domanda di protezione internazionale. Il decreto ha specificato anche l’aggiunta di ottomila nuovi posti (cinquemila per i Cas e tremila per i Sai), metà di quelli dichiarati in un primo momento. A questi si aggiungono poi, eventualmente, i covid hotel attivati per la pandemia. A livello europeo la Commissione ha annunciato l’attivazione, per la prima volta nella storia, della direttiva che consente la “protezione temporanea” ed evita la valutazione delle singole domande di asilo, fornendo protezione immediata e alcuni diritti fondamentali (ingresso, lavorare, accedere all’assistenza sanitaria, all’alloggio e all’istruzione immediatamente per un massimo di un anno, prorogabile per altri due). Una norma che prevede che tutti i paesi dell’Unione Europea (tranne la Danimarca che non partecipa) aderiscano al piano di redistribuzione dei profughi. Non c’è distribuzione obbligatoria, ma “sforzo di equilibri”, per cui spetta all’Italia dire quanti ucraini è disposta ad accogliere. Mentre spetterà all’Ue stabilire i fondi necessari: difficile siamo meno di 10mila euro all’anno a persona, la cifra solita. “L’Italia rappresenta il 13 per cento della popolazione europea, quindi a oggi parliamo di più di trecentomila persone. Se, come dice l’Unhcr, si arrivasse a cinque milioni di profughi, questo numero sarà doppio”, spiega Filippo Miraglia dell’Arci. Trentadue organizzazioni nazionali che fanno parte del Tavolo Asilo e immigrazione, tra cui la stessa Arci, hanno inviato una nota urgente al presidente del Consiglio Mario Draghi e al ministro dell’Interno con alcune richieste: il riconoscimento della protezione a tutte le persone fuggite (anche prima del 24 febbraio) dall’Ucraina, anche quelle provenienti da paesi terzi (ci sono infatti numerosi studenti provenienti dall’Africa ma anche dall’Afghanistan), per cui ora è previsto il rientro forzato in patria, senza il diritto di rimanere in Ue. “Vogliamo che si torni a un regime pre-Salvini, non possiamo fare accoglienza senza servizi”, aggiunge Miraglia, ricordando che Arci si è tagliata fuori dall’accoglienza dopo i tagli dei decreti sicurezza del governo Conte I. “È necessaria anche una deroga che consenta le gare pubbliche, con la garanzia data dagli enti locali che ci conoscono e che già stanno iniziando a contattarci per la gestione delle persone”. Il tavolo spinge per un’accoglienza nelle famiglie, con un contributo per chi ospita. Le chiamate di questi giorni alle associazioni sono migliaia, ma la cosiddetta “accoglienza esterna” deve essere sostenuta economicamente. “Le protezioni civili regionali stanno chiedendo agli alberghi di ospitare le persone offrendo 45-55 euro al giorno, senza servizi, solo vitto e alloggio. Alle associazioni invece spettano i soliti 24 euro, vitto alloggio. Come facciamo a garantire un qualche servizio a questa cifra?”, conclude Miraglia. La confusione al momento è tanta e si aspettano ulteriori specifiche dal consiglio dei ministri. Intanto la Protezione Civile è vaga sul da farsi. Il piano di prima accoglienza, come conferma a l’Espresso il Dipartimento, prevede l’attivazione di un piano modulare: prima Cas e Sai, poi regioni e comuni che andranno a supporto in caso di saturazione del sistema ordinario. Ma non specificano in che modo. Previsto anche il coinvolgimento del terzo settore, ma per ora, confermano, chi arriva poggia sulla rete familiare e di conoscenze. La mappa dei Cas contava, a fine 2020, 4.556 strutture Cas, 4.570 strutture Sprar/Siproimi e dodici centri di prima accoglienza. Nei primi due anni dai decreti sicurezza Salvini, Open Polis insieme ad ActionAid, hanno descritto un sistema di accoglienza distrutto, con l’aumento delle problematiche già presenti e lo smantellamento delle buone prassi. Il cambiamento più forte è dovuto al calo da 35 a circa 26 euro al giorno per ospite, che ha azzerato ogni tipo di servizio, come quelli forniti dai mediatori culturali, e che ha portato alla chiusura di molte strutture (un calo di oltre il 25 per cento dei posti disponibili). Con la diminuzione del mercato dei Cas, sono aumentati i casi di centri mal gestiti e tenuti nella sporcizia. È di pochi giorni fa il caso del centro di accoglienza di Pesaro, portato alla luce dall’avvocata e consigliera comunale Giulia Marchionni. Letti sporchi, bagni sudici, scarafaggi, resti di cibo nel frigo, muffa sui muri. “Gli ucraini hanno avuto la forza e la possibilità di denunciare il problema, ma quanti sono stati lì e non hanno potuto denunciare lo schifo? Un conto è chi arriva sulle nostre coste, così disperato che tetto sopra la testa se lo prende, costretto a stare in silenzio per paura di perderlo”, commenta Marchionni a L’Espresso. Il centro al momento non è stato chiuso, la Prefettura ha disposto un’ispezione. “Un Cas lo può aprire chiunque, ci sono situazioni meritevoli che hanno alle spalle una formazione e altri che lo fanno per puro denaro”, spiega Alda Re di LasciateCIEntrare, che da anni monitora la situazione all’interno dell’accoglienza italiana, raccogliendo denunce di ogni tipo. “Il problema di avere crisi riconosciute a livello globale è che si sottraggono i posti all’accoglienza: lo abbiamo già vissuto con gli afghani, che hanno preso il posto dei migranti che erano presenti nei centri, solo perché riconosciuti a livello istituzionale”, denuncia Re, che parla di una direttiva da parte del ministero inviata ai centri con lo scopo di fare spazio. E non è detto che non si arrivi a fare lo stesso con questa nuova crisi umanitaria: “Le persone che erano nei Cas, nei progetti Sprar o nelle case dei comuni, sono state messe in strada nel giro di tre giorni”. Un grande flusso quello afghano, circa un milione di persone, ma piccolo se paragonato a quanto sta avvenendo con l’Ucraina. L’immigrazione poi non sparisce all’improvviso: la rotta balcanica si sta nuovamente affollando di quei profughi da sempre respinti con violenza dai paesi, come la Polonia, che ora accolgono gli ucraini. E l’Italia intanto rafforza il sistema delle cosiddette “navi quarantena”, istituito con la pandemia, pronto a intercettare i migranti dal nord Africa. Nonostante le numerose denunce delle associazioni che descrivono il trattamento al loro interno come inumano per chi arriva già logorato da un viaggio lungo mesi e costellato di violenza. Questo articolo è pubblicato senza firma come segno di protesta dei giornalisti dell’Espresso per la cessione della testata da parte del gruppo Gedi. L’errore dell’Occidente? La debolezza in troppe crisi di Danilo Taino Corriere della Sera, 20 marzo 2022 Putin ha contato sulle deboli risposte di Europa e Usa nei casi di Georgia, Siria, Yemen, Hong Kong e in varie altre occasioni. L’Occidente ha certamente compiuto un rosario di peccati che hanno portato all’invasione dell’Ucraina. Forse, sta perseverando. No, non è che si è espanso troppo fino a minacciare la Russia: quando cadde il Muro di Berlino e iniziò il disfacimento dell’impero sovietico, in Europa erano presenti più di 315 mila soldati americani, nel 2021 erano ridotti a meno di 64 mila. Il numero delle testate nucleari della Nato sul territorio europeo è sceso del 98% rispetto al massimo raggiunto all’apice della Guerra Fredda, ora sono un centinaio. È vero che la Nato si è ampliata, molti Paesi dell’ex Patto di Varsavia sono entrati ma nessuno di questi, non uno, e nemmeno quelli storici hanno mai minacciato Mosca. I peccati sono altri e purtroppo parecchi governi non ben disposti verso Stati Uniti ed Europa li conoscono e li studiano. Quando, nel 2008, Vladimir Putin ha attaccato la Georgia, abbiamo fatto spallucce. Un’indagine dell’Unione europea criticò equamente Mosca e Tbilisi e addirittura indicò nel presidente georgiano Mikheil Saakashvili l’iniziatore delle ostilità. Nel 2013, Barack Obama tracciò una linea rossa: se il regime siriano di Bashar Assad avesse usato armi chimiche contro la popolazione, Washington sarebbe intervenuta. La notte del 21 agosto di quell’anno, i militari siriani le usarono in un quartiere di Damasco controllato da forze ribelli, quasi 1.500 morti, 400 bambini. Ma Obama cambiò idea e il mondo capì di essere senza il gendarme di un tempo. La prima invasione russa dell’Ucraina, nel 2014, terminata con l’annessione della Crimea e la creazione di due regioni separatiste, fu seguita da sanzioni pallide, se paragonate alla violazione che fu. Ma non se ne trasse lezione. Nel 2016, il bombardamento a tappeto di Aleppo da parte degli aerei russi e siriani - più di 440 morti, 90 bambini - emozionò, ma non insegnò. Nel frattempo, il transfuga russo Alexander Litvinenko moriva avvelenato dall’esposizione al polonio in una tea-room di Londra. Il politico liberale e critico di Putin Boris Nemtsov camminava su un ponte non lontano dal Cremlino quando un killer lo assassinò con sette colpi di pistola. Prima, la giornalista e attivista dei diritti civili Anna Politkovskaja, uccisa nell’ascensore di casa. Più di recente l’avvelenamento e l’imprigionamento di Alexei Navalny, altro oppositore dell’uomo del Cremlino. Molti articoli, ricordi di spionaggio e Guerra Fredda ma conseguenze mai tratte davvero. E Hong Kong? La distruzione della metropoli così come l’avevamo conosciuta, con le sue leggi e la libertà di espressione, riportata con le cattive maniere sotto il tallone del Partito Comunista di Pechino. Pallide conseguenze. E le provocazioni verso l’Europa di Recep Tayyip Erdogan? Premiate con i miliardi dell’Unione europea. E la destabilizzazione del Medio Oriente da parte del regime degli ayatollah iraniani per interposto gruppo armato in Iraq, in Siria, a Gaza, in Libano, nello Yemen? C’è chi pensa sia solo un problema di Israele. Infine, l’abbandono caotico e da fine impero dell’Afghanistan. Sempre, proteste occidentali, inconcludenti ricorsi alle Nazioni Unite, reset delle relazioni annunciati, telefonate dall’Eliseo e dal Bundeskanzleramt al Cremlino. Aveva questo Occidente, queste democrazie davanti agli occhi quando, isolato nel suo bunker asettico, Vladimir Putin ha deciso di invadere l’Ucraina? Sicuramente ha contato su una risposta debole e impacciata di Stati Uniti ed Europa: sulla base dell’esperienza per la quale gli autocrati e i dittatori se la cavano con pochi danni, di questi tempi. Ha sbagliato i conti, probabilmente: l’invasione e i massacri sono troppo un’enormità per entrare nello stesso, lungo elenco di casi in cui le democrazie si sono voltate dall’altra parte. Forse la guerra la sta perdendo, gli ucraini sono eroici, Zelensky è Davide contro Golia e certamente le sanzioni economiche avranno nel tempo effetti massicci sull’economia della Russia. Ma se la sua lettura è la stessa di quella di Xi Jinping, cioè il declino inarrestabile dell’Occidente e dei suoi valori, continuerà a contare sul cedimento, basterà alzare la posta e la brutalità per dire alla fine “ho vinto”. Non è detto che così accada. Ma è probabile che le democrazie si trovino presto di fronte alla scelta di cessare le importazioni di gas e petrolio dalla Russia e di aiutare maggiormente gli ucraini a controllare i cieli. Doloroso e rischioso: dopo tanti peccati è il momento della penitenza. Tunisia. Il mare restituisce i corpi di diciassette migranti di Giansandro Merli Il Manifesto, 20 marzo 2022 Le Ong: proteggere anche chi viene da sud. Al largo delle coste nord-orientali della Tunisia sono stati ritrovati ieri 17 cadaveri. Erano in mare nei pressi di Cap Bon, una penisola che dista appena 80 chilometri da Pantelleria e 147 da Marsala. “I migranti provenivano in gran parte dall’Africa subsahariana, ma c’erano anche dei siriani”, ha fatto sapere il portavoce della protezione civile di Tunisi Moez Triaa. Non si sa quando sia avvenuto il naufragio, né se ci possano essere altre vittime. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) nei primi due mesi del 2022 circa 200 persone hanno perso la vita lungo la rotta del Mediterraneo centrale. La maggioranza erano partite dalla Libia. Lo scorso anno le vittime sono state oltre 2mila. Statistiche comunque al ribasso, perché contano solo i morti accertati. Così mentre il leghista Matteo Salvini continua a ripetere che gli unici “veri profughi” sarebbero quelli che scappano dall’invasione russa, le Ong del Mediterraneo hanno lanciato degli appelli per richiamare l’attenzione su ciò che accade in mare e in Libia. “L’emergenza umanitaria di chi fugge dalla guerra in Ucraina non deve farci dimenticare chi fugge da altre guerre e dai campi di concentramento libici”, ha dichiarato ieri Sea-Watch. Secondo Mediterranea: “Abbiamo fatto diventare la Libia un grande campo in cui è possibile torturare, stuprare, uccidere i profughi. Vi immaginate se anche per gli ucraini ci fossero lager invece che accoglienza?”. L’organizzazione chiede un piano speciale per i migranti del fronte sud, attraverso canali di ingresso legali che mettano fine alle morti in mare e aiutino le persone a fuggire dall’”inferno libico”.