Renoldi, il segno che Cartabia vuol lasciare sul carcere di Errico Novi Il Dubbio, 1 marzo 2022 Marta Cartabia sfida i giustizialisti con la nomina di Renoldi. Con la nomina del magistrato definito “troppo garantista” da Lega e M5S, la guardasigilli compie una scelta chiara, destinata a pesare anche dopo la conclusione del suo mandato a via Arenula. Marta Cartabia ha compiuto una scelta. Non irrilevante, tutt’altro che causale. Ha individuato come futuro capo del Dap un giudice che proviene dalla magistratura di sorveglianza, Carlo Renoldi. L’attuale consigliere di Cassazione, in servizio alla prima sezione penale, vanta infatti nella propria vicenda professionale l’esperienza impegnativa e a volte dolorosa della giurisdizione sui diritti di chi è recluso. Ha scatenato, la ministra, una tempesta di reazioni contrarie trasversali. Tutte hanno un punto in comune, nonostante siano espresse da settori così diversi e distanti del panorama politico: additano Renoldi come troppo garantista. Lo è al punto da aver espresso, dicono, posizioni tropo solidali con la condizione dei detenuti, e a volte critiche nei confronti dell’operato degli agenti. Ma visto che un curriculum del genere non è immediatamente spacciabile come una colpa, alcuni, per esempio l’ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, deputato della Lega, aggiungono: viene dalle file di Magistratura democratica, è un giudice di sinistra, ideologizzato. Si prova a dire che, insomma, Cartabia si sarebbe sbilanciata politicamente. Non una scelta sui diritti, ma sul colore delle bandierine. Non sembra una critica solida. Innanzitutto perché mette insieme forze politiche e voci troppo distanti tra loro per non far pensare che invece la vera colpa di Renoldi sia proprio la vicinanza ai diritti dei reclusi. Il Movimento 5 Stelle, per esempio, che non esattamente un partito di destra, si trova su una linea simile a quella di Morrone, e ieri ha inondato le agenzie con comunicati addirittura di allarme per la scelta di un magistrato cosi favorevole alle garanzie. Poi pero il capogruppo di FI in commissione Giustizia alla Camera Pierantonio Zanettin, che viceversa difficilmente può essere confuso con un nostalgico della Terza Internazionale, plaude alla scelta della guardasigilli, così come fa il Pd compatto. E allora: c’è qualcosa che non va? No semplicemente stavolta si è aperta una faglia trasversale nella politica giudiziaria. Una frattura che attraversa il campo da destra e sinistra e divide chi è più attento alle garanzie e ai diritti e chi invece pensa che, in fatto di carcere, vengano sempre e comunque prima il rigore, la restrizione, il controllo, poi il resto. Cartabia ha fatto una scelta chiara. Si è schierata. Renoldi, ricordiamolo, non è ancora destinatario di una nomina, per lui è stata solo chiesta al Csm l’autorizzazione al collocamento fuori ruolo. Ma sin da ora si può dire che siamo davanti a una di quelle scelte destinate a lasciare un segno, a restare, anche dopo che il governo e la guardasigilli avranno concluso il loro mandato. La ministra fa capire che su una cosa intende orientare il futuro della giustizia anche al di là della propria personale presenza a via Arenula: si tratta del carcere appunto, della possibilità che il nostro Paese lo organizzi e concepisca secondo principi di umanità, sull’esigenza di uscire da quella che i radicali definiscono illegalità conclamata. In altre parole, un sistema penitenziario rispettoso della Costituzione. Una sfida difficile. Che, come le note delle ultime 48 ore lasciano intendere, dovrà fare i conti con molti avversari. Ma vale la pena scatenare qualche attrito. Il diritto alla speranza e alla dignità di molte migliaia di persone chiuse in una cella ha già ceduto troppe volte il passo alla politica degli slogan. L’allievo di Margara convinto che anche i detenuti siano esseri umani di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 marzo 2022 Alcuni suoi provvedimenti vietano misure afflittive del 41 bis che sono un surplus rispetto allo scopo originario. La ministra della giustizia Marta Cartabia, con l’indicazione di Carlo Renoldi come nuovo capo del Dap, continua la tradizione che vuole un magistrato al vertice dell’amministrazione penitenziaria. Ma con questa scelta riprende quello che fu un cammino interrotto bruscamente nel 1999 dall’allora guardasigilli Oliviero Diliberto con l’amministrazione guidata da Alessandro Margara, l’ispiratore della riforma penitenziaria, il magistrato “che trattava i detenuti come uomini”. Carlo Renoldi, nato a Cagliari il 1969, oggi giudice della prima sezione penale della Cassazione, è un magistrato che ha tra i suoi maestri proprio Margara. Iscritto alla corrente di Magistratura democratica, non a caso è stato componente dei tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale voluti dall’allora ministro Andrea Orlando. Attraverso le sue pubblicazioni, ha contribuito al dibattito sull’affettività in carcere, auspicato una rivisitazione della nostra legislazione penale sulle droghe. Da consigliere della Cassazione ha contribuito a emanare provvedimenti che vietano tutte quelle misure afflittive del 41 bis che sono un surplus rispetto al suo scopo originario. Non sono azioni che ammorbidiscono il cosiddetto carcere duro, come affermano i suoi prevedibili detrattori che approfittano dell’informazione distorta. In realtà si tratta del pieno rispetto della ratio di questa misura differenziata che sulla carta dovrebbe avere un solo unico scopo: vietare ai boss mafiosi di veicolare all’esterno ordini al proprio gruppo di appartenenza criminale. Nient’altro. Il magistrato Renoldi ha anche una idea ben precisa di come debba funzionare l’esecuzione penale. Una idea che ovviamente rispecchia la visione della ministra Cartabia, ovvero quella dettata dalla nostra carta costituzionale. Contesta, basti sentire i suoi interventi registrati su Radio Radicale, quello che definisce un “mito reazionario”, ovvero la retorica della certezza della pena, quella che da una certa parte politica, anche trasversale, la declina in “no a sconti della pena, no alla prescrizione che viene rappresentata come uno strumento - ha detto Renoldi durante un convegno in Toscana del 2019 - che consente ai delinquenti di sottrarsi alla giusta sanzione, e poi in materia di ordinamento penitenziario l’impegno a fare sì che chi sbaglia la debba pagare in carcere senza benefici”. Renoldi, in quell’interessante dibattito, ha ricordato che uno dei cavalli di battaglia intrapresi da Alessandro Margara era la “flessibilità della pena”, un principio che è stato costituzionalizzato con la sentenza della Consulta del 1974 sulla liberazione condizionale. Interessante quando il magistrato Renoldi non parla di disobbedienza, ma di “obbedienza costituzionale” che si può realizzare attraverso una rete composta da magistrati e avvocati. Il richiamo è sempre quello: i valori della nostra costituzione. Ed è questa l’affinità con la visione della ministra Marta Cartabia. Ma finisce qua. Non sarà certo il capo del Dap a riformare il sistema penitenziario. Ricordiamo che il compito dell’amministrazione penitenziaria è quello di provvedere a garantire l’ordine e la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari, lo svolgimento dei compiti inerenti all’esecuzione della misura cautelare della custodia in carcere, delle pene e delle misure di sicurezza detentive, delle misure alternative alla detenzione. Tutti aspetti difficili e complessi, per questo ci vuole competenza e non una visione riduttiva come hanno taluni magistrati sponsorizzati dai detrattori di Renoldi. Sicuramente il compito non sarà facile. Ci sono numerose criticità che stanno diventando insostenibili sia per i detenuti che per gli agenti penitenziari. Non a caso, Gennarino De Fazio, il segretario Generale della Uil-Pa, plaudendo la possibile nuova nomina, ha rivolto l’ennesimo appello alla guardasigilli affinché vari un decreto- legge necessario per i provvedimenti immediati e si approvi una legge delega per la reingegnerizzazione del sistema d’esecuzione penale, la rifondazione del Dap e la riorganizzazione del Corpo di polizia penitenziaria. Cartabia sceglie il nuovo capo del Dap, che divide sia i magistrati che la politica di Giulia Merlo Il Domani, 1 marzo 2022 Si chiama Carlo Renoldi, appartiene alle toghe progressiste e parla di “carcere dei diritti”, in passato ha attaccato quella che ha definito come “antimafia militante arroccata nel culto dei martiri”. Le sue posizioni sul 41 bis sono in linea con quelle della ministra, ma la Lega ha espresso “preoccupazione per un candidato scelto in modo unilaterale”. Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha un nuovo capo: Carlo Renoldi, consigliere di Cassazione ed ex magistrato di sorveglianza, prende il posto di Bernardo Petralia, che ha chiesto di andare in pensione. La nomina ha suscitato reazioni opposte, sia sul fronte politico che su quello interno all’amministrazione penitenziaria. A far sollevare una parte della maggioranza - in particolare la Lega e il Movimento 5 Stelle -sono stati sia il metodo che il profilo scelto. Sul fronte del metodo, la critica alla ministra della Giustizia Marta Cartabia è di aver scelto il candidato in modo unilaterale e anche molto rapido, senza aver consultato le forze di maggioranza. Quanto al profilo, è spiccato l’elemento di novità rispetto al passato: Renoldi, infatti, è noto per aver preso posizioni critiche rispetto a un certo modo di intendere la lotta alla mafia, che lui ha definito “arroccata nel culto dei martiri”. Proprio questo ha suscitato la dura reazione della responsabile Giustizia della Lega, Giulia Bongiorno: “La Lega manifesta preoccupazione per la scelta”, in particolare “desta perplessità la scelta di affidare un incarico così delicato, anche per il messaggio che ne deriva, a chi ha assunto posizioni, anche pubblicamente, che hanno sollevato un vespaio di polemiche nel fronte dell’Antimafia”. A difenderlo, invece, è intervenuto il membro della commissione Giustizia del Pd, Walter Verini, che ha parlato di “magistrato di grande preparazione, in generale e in particolare sul tema della gestione e dell’umanizzazione dell’ordinamento penitenziario. Il rigore inflessibile nel contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata, dentro e fuori dal carcere, non può essere in contrasto con i principi fissati dalla Costituzione”. Dal ministero della Giustizia, tuttavia, è stato fatto notare che la nomina a capo di un dipartimento è di tipo fiduciario, pur passando dal consiglio dei ministri. In ogni caso, il 9 marzo sarà la prima seduta utile per il Csm per pronunciarsi sul collocamento fuori ruolo di Renoldi: una valutazione che non è di merito ma oggettiva rispetto al parametro del tempo già trascorso fuori ruolo da Renoldi (non si possono superare i 10 anni) e della scopertura di organico dell’ufficio in cui attualmente presta servizio. Un nome in linea con la ministra - Renoldi, 53 anni e originario di Cagliari, è attualmente consigliere della prima sezione penale della Cassazione. In passato, invece, è stato magistrato penale e poi di sorveglianza nella sua città. Magistrato che non ha mai cercato la ribalta mediatica, è poco noto fuori dalla cerchia interna alla categoria. Dal punto di vista dell’orientamento, è vicino a Magistratura democratica ma iscritto anche ad Area, il gruppo associativo che per anni è stato il contenitore delle toghe progressiste che ora invece si sono divise. La sua nomina è in continuità sia con gli orientamenti della Corte costituzionale in materia di carcere, a partire dalla recente ordinanza che ha dichiarato incostituzionale il 4bis (il carcere duro senza benefici per i condannati ostativi che non hanno collaborato con la giustizia), ma anche con la linea della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, sulla funzione riabilitativa del carcere. “Sono per un carcere costituzionalmente compatibile. Un carcere dei diritti, in cui però siano garantite le condizioni di sicurezza”, ha scritto Renoldi. Il suo profilo considerato progressista e riformatore in tema di gestione del carcere, però, non convince i sindacati di polizia penitenziaria, visto che Renoldi assumerà anche il ruolo di capo del corpo. “Renoldi non dimentichi che dovrà rappresentare coloro che pressoché quotidianamente hanno a che fare con detenuti che mettono a repentaglio l’ordine e la sicurezza della sezione detentiva”, si legge in un comunicato del Sappe, “Per quello che ha detto nel passato, dunque, credo che Carlo Renoldi sarebbe più indicato per fare il garante dei detenuti che non il Capo del Corpo di Polizia Penitenziaria”. Le posizioni sull’antimafia - A rendere divisivo il profilo di Renoldi, però, sono le sue prese di posizione sul tema dell’antimafia e della gestione del carcere. In un convegno a Firenze del 2020, Renoldi ha parlato della sua idea di Dap, spiegando che “che in questi anni è rimasto profondamente ostile a quegli istituti che tentano di varare una nuova stagione di diritti “giustiziabili” per le persone detenute. Un atteggiamento miope di alcune sigle sindacali che declinano ancora la loro nobile funzione in una chiave microcorporativa”. Nella stessa sede è stato molto critico anche su alcune posizioni interne all’antimafia in materia di carcere: “Pensiamo all’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri, che certamente è giusto celebrare, ma che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile, dimenticando ancora una volta che la prima vera azione di contrasto nei confronti delle mafie, cioè l’affermazione della legalità, non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti”. L’ergastolo ostativo - Questa nomina è in linea con un tentativo di riforma dell’ordinamento carcerario che Cartabia sta portando avanti e procede in parallelo con la riforma dell’ergastolo ostativo ora alla Camera. La Consulta, infatti, ha dichiarato l’incostituzionalità dell’automatismo per il quale i condannati al 4bis - il cosiddetto carcere duro - possano accedere ai benefici carcerari solo in caso di collaborazione con la giustizia. Secondo la Corte, questo automatismo è contrario alla finalità rieducativa della pena e il parlamento è chiamato a modificarlo. La sentenza ha suscitato critiche in ambienti giudiziari e in particolare nella magistratura antimafia, che considera il carcere ostativo - previsto dalla legislazione di emergenza pensata da Giovanni Falcone - per i condannati al 41bis come ancora oggi lo strumento per contrastare il fenomeno mafioso. La riforma, invece, prevede di eliminare l’automatismo e assegnare alla magistratura di sorveglianza una valutazione concreta caso per caso del profilo di ogni detenuto che non ha voluto collaborare, prendendo in considerazione il percorso carcerario e di dissociazione e l’opportunità di concedergli benefici carcerari. Tuttavia, il rischio è che l’inattesa nomina del nuovo capo del Dap Renoldi crei nuovi ostacoli politici all’approvazione del ddl. Il testo e la nomina del relatore - il presidente del M5S della commissione Giustizia, Mario Perantoni - sono stati votati da tutti i partiti della maggioranza e anche da Fratelli d’Italia. Questa larga convergenza, però, potrebbe guastarsi proprio in seguito alla scelta di Renoldi. Dap, la scelta “troppo garantista” di Marta Cartabia fa insorgere i 5Stelle di Valentina Stella Il Dubbio, 1 marzo 2022 Critiche anche dalla Lega. Fi e sindacati della Polizia penitenziaria divisi. Il Pd sta con la ministra. Carlo Renoldi non può essere il nuovo capo del Dap: è quello che reclamano M5S, Lega, parte di Forza Italia. Perché? Paradossalmente, in quanto sarebbe un teorico del carcere a immagine e somiglianza della Costituzione persino se si tratta di detenuti condannati per mafia. Dunque la scelta della ministra Cartabia di chiedere al Csm di porre fuori ruolo Renoldi, consigliere della prima sezione penale della Cassazione, sta scatenando diverse polemiche e spaccando la maggioranza, in vista del Cdm che dovrebbe ratificare la nomina. I primi a reagire in batteria sono stati i pentastellati. Perplesso Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera, “non per la persona ovviamente ma per le sue esternazioni che connoterebbero il capo del Dap per la sua disponibilità ad allentare le regole del carcere per i mafiosi e per quella sua critica all’antimafia “arroccata nel culto dei suoi martiri”. Posizioni evidente troppo sbilanciate per una carica così delicata”. Ancora più duro Vittorio Ferraresi: “Si tratterebbe di un fatto grave che mi lascerebbe senza parole. Renoldi, oltre ad aver improntato interventi in convegni contro il regime 41- bis e a favore di un suo gravissimo annacquamento, non ha risparmiato parole forti con attacchi frontali a forze politiche come il Movimento 5 Stelle e non solo (definendone le politiche ‘reazionarie’ e basate su ‘logiche perverse’)”. L’ex sottosegretario alla giustizia non risparmia neanche il Presidente dell’Anm Santalucia che invece ha plaudito alla scelta della Guardasigilli dicendo che “Carlo Renoldi è un magistrato stimato in Cassazione per il suo equilibrio e la competenza tecnica. Mi compiaccio della scelta della ministra”. “Renoldi magistrato di grande equilibrio? - si chiede sarcasticamente Ferraresi - Rispetto le opinioni personali del presidente Santalucia ma lo inviterei a una riflessione”. E poi c’è la Lega con quel suo limite per cui il garantismo e la tutela dei diritti si fermano con la fine del processo; a parlare è la senatrice Giulia Bongiorno che ammette: “La Lega reputa essenziale il massimo garantismo nella fase delle indagini e nel corso del processo. Quando però le responsabilità di un imputato sono accertate con sentenza definitiva occorrono rigore e certezza. Questo vale per tutti i condannati, in particolare per quelli per fatti di mafia. La lotta alla mafia non deve conoscere rallentamenti e le Istituzioni oltre a essere intransigenti e severissime in questo obiettivo, debbono apparire tali. Ecco perché la Lega manifesta preoccupazione per la scelta della ministra Cartabia di indicare il dottor Renoldi come nuovo capo del Dap”. Si spacca invece Forza Italia. Il senatore Maurizio Gasparri si augura “che questo Renoldi smentisca le dichiarazioni ostili e offensive che ha rilasciato nel passato contro i sindacati del personale della polizia penitenziaria. Nelle carceri ci vuole una gestione rispettosa dei diritti di tutti, ovviamente anche dei detenuti. Ma anche il personale della polizia penitenziaria merita rispetto”. D’accordo invece con la proposta della Ministra, Pierantonio Zanettin: “Il curriculum di Renoldi, a lungo magistrato di sorveglianza, testimonia un impegno nella tutela dei diritti costituzionali, in linea con il magistero della Corte delle leggi. Registriamo con rammarico le critiche da parte di coloro che stentano a comprendere che nel nostro Paese la pagina del giustizialismo giudiziario sta finalmente per chiudersi”. Il Partito democratico, invece, prende le distanze dall’alleato pentastellato e in generale da chi critica Renoldi. Lo fa con il deputato Walter Verini: “Non condivido riserve e perplessità circa la scelta fatta dalla ministra Cartabia di indicare come nuovo capo del Dap il magistrato Carlo Renoldi. Si tratta di un magistrato di grande preparazione, in generale e in particolare sul tema della gestione e dell’umanizzazione dell’ordinamento penitenziario. Il rigore inflessibile nel contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata, dentro e fuori dal carcere, non può essere in contrasto con i principi fissati dalla Costituzione”. Divisi anche i sindacati della penitenziaria. Gennarino De Fazio (Uilpa): “Plaudiamo alla celerità con cui la Guardasigilli ha rotto gli indugi. Ribadiamo, tuttavia, che nessuna personalità, neanche la più capace e qualificata, potrà risollevare le sorti dell’agonizzante sistema penitenziario se non supportata da immediati interventi legislativi corroborati da sufficienti investimenti economici”. Per Giovanni Battista De Blasis, (Sappe) invece Renoldi “si è espresso più volte contro i colleghi antimafia colpevoli a suo dire di essere troppo sbilanciati a favore delle vittime. Ha partecipato ai tavoli degli stati generali dell’esecuzione penale del ministro Orlando e, in una recente occasione, ha criticato aspramente Gratteri per le sue proposte di riforma del Corpo perché “... non si può mettere il carcere nelle mani della Polizia Penitenziaria”. Non mi rimane difficile prevedere un periodo di grandi conflittualità”. La maggioranza si spacca sul giudice scelto da Cartabia per guidare il Dap di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 1 marzo 2022 I 5 stelle esprimono “perplessità” e parlano di un “fatto grave”. La Lega manifesta “preoccupazione” e persino il Pd lascia intravedere qualche malumore. L’ultima scelta di Marta Cartabia ha spaccato di nuovo la maggioranza del governo di Mario Draghi. Mentre l’attenzione è tutta focalizzata sulla guerra della Russia in Ucraina, la guardasigilli ha scelto il nuovo capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria: è Carlo Renoldi, consigliere della prima sezione penale della Cassazione, esponente di Magistratura democratica, cioè la corrente di sinistra delle toghe. Un magistrato che è stato relatore ed estensore di sentenze delicate, come quella che apriva ai colloqui via skype per i mafiosi detenuti al 41bis, il regime di carcere duro. Renoldi dovrebbe prendere il posto di Dino Petralia, che è andato in pensione anticipata, andando a guidare il Dap insieme a Roberto Tartaglia, attuale vicecapo dell’amministrazione penitenziaria. “Certezza della pena? Mito reazionario” - I condizionali, però, sono obbligatori. Intanto perché non è detto che Tartaglia rimanga a fare il numero due del Dap ora che con il cambio del capo cambierà, molto probabilmente, tutta la politica della gestione delle carceri. Ma soprattutto perché il nome di Renoldi ha creato profonde tensioni nella maggioranza. Fibrillazioni destinate a durare: per far arrivare la nomina sul tavolo del Consiglio dei ministri, infatti, bisognerà aspettare il via libera del plenum del Csm, che non arriverà prima del 9 marzo. Dieci giorni in cui i partiti si faranno probabilmente sentire. A cominciare dai 5 stelle e dalla Lega. In queste ore, infatti, in molti hanno focalizzato la loro attenzione su alcuni video che riportano interventi di Renoldi contro il governo gialloverde. Il 9 febbraio del 2019, a un convengo a Firenze, aveva attaccato le riforme del primo governo guidato da Giuseppe Conte: “C’è un ritorno nel discorso pubblico del mito reazionario della certezza della pena, che è un punto fondamentale del programma del governo del cambiamento - aveva detto - Un mito che in questa narrazione diventa una sorta di evocazione identitaria che mira alla costruzione dell’identità del blocco politico e sociale”. “Antimafia militante arroccata nel culto dei martiri” - Non sono le uniche dichiarazioni pubbliche che in queste ore sono tornate di attualità. Come ha raccontato al Fatto Quotidiano, già nel luglio 2020 il giudice aveva apprezzato i provvedimenti “epocali” della Consulta “che hanno riscritto importanti settori dell’ordinamento penitenziario”. Si riferiva alla sentenza che consentiva di concedere i permessi premio agli ergastolani ostativi, cioè i detenuti per reati di tipo mafioso o per terrorismo che non hanno collaborato con la magistratura. “Ha minato alle fondamenta i dispositivi di presunzione di pericolosità sociale che sono incentrati sull’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario”, diceva Renoldi. L’uomo che Cartabia vorrebbe al vertice del Dap è un convinto sostenitore dell’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, cioè la norma che vieta la liberazione condizionale dei boss irriducibili se non hanno collaborato con gli investigatori. “Ha acquisito alla dimensione del diritto convenzionale il principio della flessibilità della pena, del finalismo rieducativo con la conseguente incompatibilità con l’ergastolo ostativo”, diceva sempre due anni fa, ricordando che “a queste aperture sul piano normativo” sono seguite reazioni “abbastanza trasversali”. A chi riferiva? Proprio “al Dap e ad alcuni sindacati della polizia penitenziaria, ad alcuni ambienti dell’antimafia militante, ad alcuni settori dell’associazionismo giudiziario e anche ad alcuni ambiti della magistratura di Sorveglianza. Un Dap che in questi anni è rimasto profondamente ostile a quegli istituti che tentano di varare una nuova stagione di diritti ‘giustiziabili’ per le persone detenute”. Particolarmente contestati sono poi gli attacchi di Renoldi “all’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri, che certamente è giusto celebrare, ma che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile, dimenticando ancora una volta che la prima vera azione di contrasto nei confronti delle mafie, cioè l’affermazione della legalità, non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti”. Le sentenze: da Skype ai permessi per i mafiosi - È solo un pezzo del pensiero di Renoldi. Il resto si può trovare in alcune delle sentenze di cui è stato relatore ed estensore in Cassazione. Nel dicembre del 2018, per esempio, aveva aperto ai colloqui dei garanti locali - non solo quindi col garante nazionale ma pure quelli regionali e comunali - coi detenuti in regime di 41bis. Nell’agosto del 2020 Renoldi è relatore di una sentenza della Cassazione che apre ai colloqui via Skype anche per i detenuti pericolosi come Salvatore Madonia, killer di Cosa nostra. Nell’aprile del 2021 un’altra sentenza della sezione della Suprema corte di cui fa parte Renoldi condanna il divieto imposto dal Dap ai detenuti 41bis di acquistare gli stessi generi alimentari dei detenuti ordinari. Poi a ottobre un’altra decisione importante: aveva aperto ai permessi premio per i detenuti al 41bis, seguendo i recenti orientamenti della Consulta. I 5 stelle: “Se nomina confermata è un fatto grave” - Insomma: a mettere insieme le sentenze firmate da Renoldi e le frasi pronunciate in pubblico si capisce perché i 5 stelle e la Lega siano contrari alla sua nomina al vertice del Dap. “Ci lasciano perplessi le indiscrezioni sul nuovo vertice del Dap alla vigilia dell’approdo in aula della riforma dell’ergastolo ostativo. Non per la persona ovviamente ma per le sue esternazioni che connoterebbero il capo del Dap per la sua disponibilità ad allentare le regole del carcere per i mafiosi e per quella sua critica all’antimafia ‘arroccata nel culto dei suoi martiri’. Posizioni evidente troppo sbilanciate per una carica così delicata”, dice Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera e deputato del M5S. Secondo un altro 5 stelle come Vittorio Ferraresi, ex sottosegretario di via Arenula, la nomina di Renoldi “se fosse confermata sarebbe un fatto grave che mi lascerebbe senza parole. Renoldi, oltre ad aver improntato interventi in convegni contro il regime 41-bis e a favore di un suo gravissimo annacquamento, non ha risparmiato parole forti con attacchi frontali a forze politiche come il Movimento 5 Stelle e non solo, ha anche sminuito l’antimafia dei martiri”. Le posizioni di Lega e Pd - Pure la Lega manifesta “preoccupazione” per la scelta del ministro Cartabia. “Ferme restando le indubbie capacità professionali del magistrato, desta perplessità la scelta di affidare un incarico così delicato anche per il messaggio che ne deriva, a chi ha assunto posizioni, anche pubblicamente, che hanno sollevato un vespaio di polemiche nel fronte dell’Antimafia”, dice Giulia Bongiorno, responsabile del dipartimento Giustizia del Carroccio. Persino il berlusconiano Maurizio Gasparri chiede a Renoldi di smentire “le dichiarazioni ostili ed offensive che ha rilasciato nel passato contro i sindacati del personale della polizia penitenziaria”. E se il Pd appoggia la decisione della guardasigilli, il deputato Walter Verini, ex responsabile giustizia del partito, sottoscrive una nota in cui definisce “un peccato” l’abbandono di Petralia: “Per quanto mi riguarda - aggiunge - mi auguro davvero che Roberto Tartaglia possa continuare a svolgere il suo prezioso ruolo anche con il nuovo responsabile Renoldi, in un clima di grande collaborazione con tutte le componenti dell’Ordinamento Penitenziario”. Un augurio che al momento non trova un riscontro. Tartaglia, infatti, non ha ancora fatto sapere se intende rimanere al Dap anche con la nuova gestione. Nel frattempo il presidente dell’Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, firma una nota in cui critica la scelta della guardasigilli e annuncia di stare “programmando iniziative di protesta affinché il governo adotti interventi di carattere straordinario per garantire l’incolumità del personale che lavora nelle carceri”. La nomina di Renoldi, insomma, rischia di creare fibrillazioni non solo all’interno della maggioranza ma pure all’interno dell’amministrazione penitenziaria. Dap, Renoldi scrive a Cartabia: “Mai messo in dubbio la necessità del 41bis contro la mafia” di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 1 marzo 2022 La lettera alla Guardasigilli del magistrato scelto per dirigere le carceri italiane dopo le polemiche di M5S e Lega per alcune sue frasi del 2020 che lui stesso spiega. “Illustrissima Signora Ministra... non ho mai messo in dubbio la necessità del 41bis contro la mafia”. Comincia così la lunga lettera che Carlo Renoldi ha consegnato ieri pomeriggio alla Guardasigilli. Renoldi, 53 anni, è il magistrato chiesto da Marta Cartabia al Csm, dopo averne parlato con Mario Draghi, come nuovo capo delle carceri. Una lettera - che Repubblica racconta in esclusiva - per chiarire di persona, e ovviamente innanzitutto con lei, il contenuto di spezzoni di frasi pronunciate in passato che lo farebbero apparire come un magistrato non solo contro il 41bis, ma anche contro i sindacati della polizia penitenziaria, nonché contro settori “militanti” dell’Antimafia. Un ritratto in cui Renoldi non si riconosce affatto, e in cui non lo riconoscono neppure colleghi come il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia che ha lavorato con lui anche in via Arenula. Ma un ritratto che - circolato con video e sentenze “contro” Renoldi che escludevano quelle “pro” Renoldi - hanno provocato la reazione avversa alla sua nomina del M5S e anche della Lega, a fronte delle voci nettamente a favore del Pd e di Forza Italia. Ma eccoci alla lettera, che entra subito nel merito. Renoldi non si tira affatto indietro dallo spiegare a Marta Cartabia cosa disse in quell’incontro al centro delle polemiche - e che tuttora si può ascoltare su Radio Radicale - del 29 luglio 2020 per commemorare Alessandro Margara, storico capo del Dap, noto per la sua convinzione che il carcere debba essere un luogo di pena sì, ma umano. Moderava l’ex sottosegretario Franco Corleone, e c’erano esperti di carcere che condividono in pieno la concezione di Margara, da Francesco Maisto a Giovanni Maria Flick, da Mauro Palma a Riccardo De Vito, a Stefano Anastasia. Scrive adesso Renoldi, oggi giudice della prima sezione penale della Cassazione ed ex giudice di sorveglianza a Cagliari: “Sento la necessità di scriverle questa breve nota in relazione alle polemiche che hanno accompagnato la pubblicazione di alcune frasi fraintese ed estrapolate da quell’incontro del 2020...”. Ed ecco la sua versione rispetto alle accuse che gli sono piovute addosso di essere una toga anti 41bis. “In occasione di quel convegno - scrive il magistrato che ha lavorato anche in via Arenula e al Csm - riflettevo sull’idea di carcere che, in particolare nel tempo della pandemia, vediamo affermarsi e, in generale, sull’idea di penalità che attraversa le società moderne. E in tale contesto, ragionavo sulle pronunce della Corte costituzionale in materia di ergastolo ostativo”. Chi, come Repubblica, ha riascoltato quel confronto su Radio Radicale non può che confermarlo. Prosegue Renoldi: “Nessuno, men che meno io, può avere intenzione minimamente di sottovalutare la gravità del dramma della mafia, costato la vita a tanti colleghi e servitori dello Stato”. E siamo al passaggio chiave della missiva di Renoldi alla ministra della Giustizia sul carcere duro per i mafiosi che gli viene contestata: “Non ho mai messo in dubbio neanche la necessità dell’istituto del 41bis, essenziale nel contrasto della criminalità organizzata, per recidere i legami tra il detenuto sottoposto a questo regime e il contesto delinquenziale di appartenenza. Come, del resto, emerge da sentenze a cui ho contribuito della prima sezione penale della Cassazione, in cui si sottolinea la necessità che le singole misure restrittive siano specificamente finalizzate a tale esigenza”. Tuttavia Renoldi non rinnega certo la sua “idea” di carcere, fedele al dettato della Costituzione - la pena rieduca, non punisce soltanto - che in questi ultimi anni la Consulta presieduta prima da Giorgio Lattanzi, poi dalla stessa Cartabia, e ancora da Giancarlo Coraggio, ha tradotto non solo in sentenze, ma nell’ormai notissimo viaggio dei giudici costituzionali in sette penitenziari italiani da cui è nato anche un film che ha girato l’Italia ed è stato “fermato” solo dalla pandemia. E nelle righe della lettera che seguono ecco che Renoldi spiega che cos’è per lui il carcere: “Credo ugualmente che questa gravissima piaga (quella della mafia, ndr.) non ci possa far dimenticare che in carcere sono sì presenti persone sottoposte al 41bis, ma la stragrande maggioranza è composta da altri detenuti. A cui vanno garantite carceri dignitose, come ci ha ricordato il capo dello Stato Sergio Mattarella”. Il presidente lo ha ribadito più volte e anche dopo i gravissimi pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Prosegue Renoldi: “E così, proprio nell’incontro in ricordo di Margara, rilevavo, con una frase che forse si prestava a equivoci - e questo mi addolora perché verso i nostri martiri, ovviamente, avverto un sentimento di riconoscente reverenza - come sia necessario avere una proiezione sul presente e sui gravissimi problemi che esso pone, in relazione al carcere”. Come quelli di Santa Maria, per esempio. È evidente che Renoldi condivide le decisioni della Corte dei diritti umani di Strasburgo e della nostra Corte costituzionale sul carcere. Alla ministra Cartabia scrive che “sull’ergastolo ostativo, le sentenze delle Alte Corti devono farci interrogare su quali risposte dare, e il Parlamento lo sta facendo, alla ricerca di una strada per tenere insieme uno strumento ancora oggi indispensabile, come l’ergastolo, e i principi dell’umanizzazione della pena e del trattamento rieducativo”. Renoldi cita Papà Francesco quando dice che “qualsiasi condanna deve avere una speranza”. La lettera si chiude con un passaggio sulla polizia penitenziaria: “Il mio pensiero, espresso in più occasioni pubbliche - scrive Renoldi - è che i diritti sindacali sono diritti fondamentali, ma che soprattutto quando riguardano soggetti istituzionali o che esercitano servizi essenziali, sia ancora più necessario superare ogni logica corporativa”. Vedremo, a questo punto punto, quale sarà l’effetto su chi ha contestato la scelta di Cartabia di un magistrato come Renoldi per il vertice delle carceri. Una toga che, proprio per le sue idee garantiste, può certo mettere “pace” in un mondo dove la lotta per i diritti è pane quotidiano, dove la rivendicazione di un diritto diventa protesta in un attimo, dove ovviamente la privazione della libertà e il sovraffollamento possono sfociare in una battitura delle inferriate e in un carcere dove la contestazione si infiamma e degenera. Per adesso, ad accendersi, è lo scontro politico su Renoldi. Partito con le corali proteste di M5S. A partire dalla responsabile Giustizia Giulia Sarti pronta a dire “siamo preoccupati della scelta, seppur legittima, di una personalità che più volte si è espressa in maniera contraria al 41bis arrivando a bollare l’antimafia come ‘arroccata nel culto dei martiri’“. La lettera di Renoldi, sul 41bis, dovrebbe sgombrare il campo. Ma ieri si è aggiunta la Lega, con la responsabile Giustizia Giulia Bongiorno, “perplessa per la scelta di affidare un incarico così delicato, anche per il messaggio che ne deriva, a chi ha assunto posizioni, anche pubblicamente, che hanno sollevato un vespaio di polemiche nel fronte dell’Antimafia”. Per una volta i nemici di sempre, Bongiorno e l’ex Guardasigilli Bonafede, si ritrovano d’accordo. Bongiorno ribadisce il suo “garantismo nella fase delle indagini e nel corso del processo, ma quando le responsabilità di un imputato sono accertate con sentenza definitiva occorrono rigore e certezza”. Quindi “la lotta alla mafia non deve conoscere rallentamenti e le Istituzioni, oltre a essere intransigenti e severissime in questo obiettivo, debbono apparire tali”. Ma in verità, dalle sue sentenze in Cassazione, Renoldi non appare, per così dire, morbido. Certo è rispettoso delle indicazioni della Consulta dove - e non lo si dovrebbe mai dimenticare - a decidere sono 15 giudici di tendenze estremamente differenti e che certo non favoriscono la mafia. Ma, a fronte dei dubbi di M5S e Lega, a fare quadrato su Renoldi ci sono il Pd e Forza Italia. Il tesoriere dei Dem Walter Verini lo ha ripetuto ancora ieri alla Camera durante la discussione generale sull’ergastolo ostativo: “Non condivido riserve e perplessità sula scelta di Renoldi. Si tratta di un magistrato di grande preparazione, in generale e in particolare sul tema della gestione e dell’umanizzazione dell’ordinamento penitenziario. Il rigore inflessibile nel contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata, dentro e fuori dal carcere, non può essere in contrasto con i principi fissati dalla Costituzione”. Identica la posizione di Pierantonio Zanettin, capogruppo di Fi in commissione Giustizia a Montecitorio: “Il curriculum di Renoldi, a lungo magistrato di sorveglianza, testimonia un impegno nella tutela dei diritti costituzionali, in linea con il magistero della Corte delle leggi. Registriamo con rammarico le critiche da parte di coloro che stentano a comprendere che nel nostro Paese la pagina del giustizialismo giudiziario sta finalmente per chiudersi”. Dalla parte di Renoldi ecco infine la voce di Anna Canepa, oggi toga della Procura nazionale antimafia, ma che nel 2008 scelse volontariamente di lavorare per un anno a Gela come pm. Dice Canepa: “Renoldi è stimatissimo, un buon giudice di sorveglianza ed è giusto che vada al Dap, che non è solo 41bis, ma migliaia e migliaia di persone detenute. Il 41bis è un’arma irrinunciabile per l’antimafia e dev’essere adeguatamente applicato, secondo i dettami della Costituzione e le richieste dell’Europa. E siamo certi che si andrà su questa strada. Poi ci sono altre migliaia di detenuti, i detenuti comuni, ed è importante che al Dap arrivi una persona che tuteli i diritti di tutti. Sono certa che Renoldi lo farà”. “Al Dap vogliamo un aguzzino”, assalto alla ministra Cartabia da Cinquestelle e Lega di Piero Sansonetti Il Riformista, 1 marzo 2022 La ministra ha scelto il dottor Carlo Renoldi, un magistrato esperto ma con un difetto: gli piace troppo la Costituzione. Subito è partito il fuoco di sbarramento, guidato dal “Fatto Quotidiano”. È scattato l’assalto a Cartabia per impedirle di nominare al vertice del Dap un magistrato di orientamento “liberal”. Per orientamento “liberal” si intende fedele alla Costituzione. L’assalto è guidato da Travaglio e dal suo robusto esercito di parlamentari Cinque Stelle, ma è sostenuto anche dalla Lega. Tra salvinisti e travaglisti è tornata la pace, dopo il capitolo nero del Papete e l’Annus Horribilis dell’alleanza dei 5 Stelle col centrosinistra. Vediamo qual è il problema. Il Dap è il dipartimento del ministero che si occupa delle prigioni. Il capo del Dap ha una funzione importantissima, perché è lui a dettare le linee della politica penitenziaria, e la politica penitenziaria, in un paese moderno, è il termometro della civiltà. Il dottor Dino Petralia, recentemente ha lasciato l’incarico e bisogna nominare il successore. Cartabia ha scelto un magistrato di Cassazione, che si chiama Carlo Renoldi, e che ha avuto una esperienza molto importante come giudice di sorveglianza. Cioè, a differenza di molti suoi predecessori, arriva al Dap già conoscendo i problemi delle carceri. Per di più ha una visione liberale dell’istituzione carcere e un grandissimo rispetto per la Costituzione. Ha sempre detto che le esigenze della sicurezza e il diritto delle persone detenute vanno bilanciati. Questo ha suscitato la rivolta. Travaglini e leghisti sono insorti. Loro pensano che a capo delle carceri debba esserci un cerbero, perché le carceri sono fatte per soffrire, non per godere diritti. E che la Costituzione è un fogliaccio vecchio scritto in gran parte da ex carcerati. La ministra Cartabia ha scelto il successore di Dino Petralia alla guida del Dap. Il Dap è il dipartimento del ministero che si occupa di carceri. Il capo del Dap è una figura molto importante, perché è lui che detta le linee della politica carceraria. E la politica carceraria, in un paese moderno, è il termometro della civiltà: tanto più è una politica democratica, costruita sulla difesa dei diritti - e non sul mito della punizione, della ferocia, della vendetta - tanto più il grado della civiltà è alto. E viceversa. La ministra Cartabia ha scelto come successore di Petralia un magistrato molto esperto e del quale tutti riconoscono le capacità, la cultura e l’alto livello professionale. Si chiama Carlo Renoldi. È un consigliere di Cassazione ma è stato per molti anni giudice di sorveglianza. Cioè è un magistrato che le carceri le conosce bene. In passato il capo del Dap è stato spesso un Pm, cioè un professionista privo di esperienza nel campo della politica penitenziaria. La notizia della scelta di Renoldi ha suscitato allarme e protesta in alcuni settori della magistratura, i quali hanno subito chiesto e ottenuto l’intervento dei partiti reazionari presenti e maggioritari in Parlamento. I quali hanno risposto abbastanza in fretta all’appello. Il primo a far squillare le trombe è stato il capo vero dei 5 Stelle, Marco Travaglio - che ormai credo che tra i grillini sia riconosciuto come l’unica autorità pensante - il quale ha scagliato il suo giornale contro Renoldi. Il “Fatto” ha spiegato che Renoldi è contro l’ergastolo ostativo, contro il 41 bis, contro Falcone e Borsellino contro l’antimafia. Può un personaggio così border-line assumere un incarico tanto delicato? Vediamo intanto se le accuse del “Fatto” sono accuse vere. Renoldi, come tutte le persone che studiano e amano il diritto, non ama l’ergastolo ostativo per una ragione essenziale: perché è una misura che viola in modo evidente la Costituzione. E Renoldi più volte e in modo un po’ sfacciato si è dichiarato, effettivamente, favorevole alla Costituzione. Renoldi non ama particolarmente neanche il 41 bis (cioè il carcere duro), anche se - a differenza dei garantisti totali, come per esempio i radicali ma anche, nel nostro piccolo, noi del Riformista - non chiede di abolirlo ma pensa solo che vada mitigato. Renoldi ha sempre detto che nelle carceri bisogna bilanciare le esigenze della sicurezza con le esigenze del diritto, e per bilanciarle non si può permettere che le esigenze della sicurezza schiaccino il diritto. Non è vero neppure che Renoldi disprezzi Falcone e Borsellino. Tutt’altro. Le frasi che Travaglio e i suoi gli imputano sono quelle nelle quali Renoldi descrive l’ottusità dell’antimafia professionale (che non è lotta alla mafia, è semplicemente retorica antimafia). E spiega che usare la retorica dei “martiri dell’antimafia” (che pure, precisa, vanno giustamente celebrati) per scagliare il loro sangue contro i diritti, e chiedere pene esemplari, non è una cosa molto bella. Il richiamo di Travaglio, comunque, ha funzionato immediatamente. Domenica si sono pronunciati uno a uno moltissimi parlamentari Cinque Stelle. Poi è partita lancia in resta la Lega, che ha speso persino il nome della sua avvocata di riferimento, Giulia Bongiorno. Chiedendo di rinunciare alla nomina di Renoldi e di mettere a quel posto un tipo tosto, in linea col populismo reazionario (finalmente riunificato, dopo la ferita del Papete) di Lega e travaglini. Il ragionamento è semplice: le carceri sono luogo di punizione e dunque devono essere il più possibile infernali. Il capo delle carceri deve essere un aguzzino, guai se quell’incarico finisce nelle mani di un liberale. La Costituzione può tranquillamente essere usata se serve a polemizzare coin Berlusconi o con Renzi, ma certo non va accettata per i principi folli e modernisti e volterriani, che, se presi sul serio, finiscono con l’annientare lo Stato etico e col mettere nell’angolo la magistratura di trincea, impapocchiandola con la storia insopportabile dei diritti, della necessità delle prove, e persino con il ruolo degli avvocati. Cartabia ora avrà il coraggio di prendere a schiaffo Lega e travaglini? Non ci resta che sperare. Al capo-Dap: l’ergastolo ostativo non va toccato di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 1 marzo 2022 Ho guidato il Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) per un paio d’anni. È stata - francamente - l’esperienza più difficile della mia vita professionale. La maggiore difficoltà nasceva dalla constatazione che i problemi e le complessità del carcere (soprattutto il sovraffollamento) avevano la conseguenza di infliggere al detenuto una sofferenza in più oltre a quella “fisiologica” della privazione della libertà. Un di più in contrasto con i principi della nostra Costituzione. Questa quotidiana constatazione era causa di un disagio che moltiplicava la mia inadeguatezza. Nello stesso tempo, a fronte delle falle dell’universo carcerario, ho apprezzato la grande crescita professionale e culturale del personale addetto e in particolare della polizia penitenziaria. Una realtà che le ombre (anche gravi) talora registrabili non possono cancellare. Tanto premesso, a Carlo Renoldi, destinato secondo i media a essere il nuovo capo del Dap dopo le dimissioni di Petralia, gli auguri più sinceri di un buon lavoro: che possa svolgersi con la collaborazione convinta di tutte le forze interessate, anche di quelle sigle sindacali che secondo Renoldi avrebbero un atteggiamento miope declinando la loro nobile funzione in una chiave microcorporativa. Queste parole fan parte di un intervento di Renoldi del 29.7.2020 in un convegno sul carcere a Firenze, del quale vorrei commentare alcuni passaggi tratti dall’interessante resoconto di A. Mascali sul Fatto del 27 febbraio. La mia opinione in tema di carcere ostativo l’ho esposta anche su questo giornale, ed è decisamente diversa da quella di Renoldi e di quanti plaudono al sostanziale svuotamento dell’ostativa per i mafiosi che non abbiano collaborato con la giustizia. So bene che il mio punto di vista è di quelli che spingono gli zelanti garantisti a brandire come un cartellino rosso, di espulsione dal dibattito, l’accusa di giustizialismo. E tuttavia resto della mia opinione, mentre mi conforta scoprire l’esistenza di una categoria nuova, quella dei “giustizialisti democratici”, coi quali Renoldi vorrebbe riannodare i fili del dialogo. Io penso che il valore dell’art. 27 della Carta (le pene devono tendere alla rieducazione del condannato) sia incontestabile. Ci mancherebbe. Ma quando si tratta di mafiosi irriducibili non pentiti vanno considerati alcuni dati di fatto. Il mafioso giura fedeltà perpetua all’organizzazione e il suo status di mafioso è per sempre. Lo dicono l’esperienza e i più qualificati studi sulla mentalità mafiosa. Il mafioso non pentito continua a essere convinto di appartenere a una “razza” speciale, nella quale rientrano soltanto coloro che sono davvero uomini (non a caso autodefinitisi “d’onore”). Tutti gli altri, quelli del mondo esterno, sono individui da assoggettare. Non persone, ma oggetti, esseri disumanizzati. Tanto premesso, alcuni interrogativi. Si può dire che il pentimento risulta essere l’unica condotta univoca, l’unica dimostrazione affidabile di voler disertare davvero dall’organizzazione criminale, cessando di esserne strutturalmente parte? Si può dire che senza pentimento la decisione si riduce a un pericoloso salto nel buio? In altre parole, si può ritenere che il “doppio binario” per i mafiosi non pentiti (fino all’ergastolo ostativo) sia rispondente a criteri di ragionevolezza basati sulla concreta specificità del problema mafia? Vero è che la Consulta non la pensa così. Nel film Il rapporto Pelican una studentessa (interpretata da Julia Roberts) al professore che le chiede perché la Corte suprema non abbia deciso una questione secondo la sua opinione, risponde “forse perché la Corte ha sbagliato…”. Non oso arrivare a tanto, va da sé. Posso però augurarmi che il Parlamento riesca a trovare una “quadra” in grado quantomeno di ridurre il danno che si profila. Al tema dell’ergastolo ostativo Renoldi collega poi un attacco “all’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri… che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile”. Sono parole a mio avviso poco rispettose dei tanti familiari delle vittime di mafia che ancora oggi chiedono verità e giustizia (lo faranno nuovamente il 21 marzo a Napoli, nella giornata della memoria e dell’impegno organizzata da Libera). E spero che il pensiero di Renoldi non porti acqua al mulino di chi teme che i familiari sbilancino, accentrandola su di sé, la trattazione dei problemi di mafia: per cui bisognerebbe incaricare esperti psicologi di rieducarli… Enza Bruno Bossio: “Ergastolo ostativo, il testo non rispetta la Consulta” di Valentina Stella Il Dubbio, 1 marzo 2022 Ieri alla Camera è iniziata la discussione sull’ergastolo ostativo. Entro maggio, come richiesto dalla Consulta, il Parlamento deve varare una legge. Per il Pd sono intervenuti Walter Verini e Enza Bruno Bossio, la quale in questa intervista sintetizza i punti chiave del suo discorso. Con il testo in discussione si risponde alla linea dettata dalla Corte Costituzionale? Purtroppo no, né nei principi ispiratori, né nella pratica. Esso si presenta come testo base che unifica diverse proposte di legge, tra cui la 1951 a mia prima firma, che evidentemente, perché troppo in linea con il mandato della Consulta, come rilevato anche dal presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, non trova nel testo unificato alcun minimo riscontro. Di contro il testo trova specifico fondamento nelle relazioni alle proposte Ferraresi del M5S e Paolini della Lega, che coincidono nei fatti con il testo base. E secondo lei non rispettano la strada indicata dalla Consulta? No, affatto. Ferraresi indica le decisioni della Corte costituzionale come un “colpo mortale all’ergastolo ostativo”, a cui la sua proposta di legge mira a porre rimedio. Paolini invece afferma che allentare le maglie del 4 bis, per come la Corte indica, significherebbe “perdere una delle poche ed efficaci armi che lo Stato ha contro organizzazioni criminali”. Quindi chi è con la Consulta fa il gioco della mafia? Secondo queste tesi dovremmo restare in quella logica di tipo militare, che tante distorsioni ha creato al nostro Stato di diritto, “la logica del nemico catturato e condannato che poteva liberarsi dalla prigionia solo passando nelle file di un avversario altrettanto armato che lo aveva fatto prigioniero”, logica giustamente contestata dall’ex presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida nella sua prefazione al libro “Contro gli ergastoli”. Ma lo Stato non è un avversario armato e non può conformarsi a questo tipo di logica opposta al diritto costituzionale. Lo Stato ha il dovere di rispondere al delitto con il diritto e non certo aggiungendo un’altra dose di delitto. Cos’è nello specifico che non va nel testo? La norma trascura l’insegnamento della Corte costituzionale che reputa legittimo distinguere tra chi rimane silente per sua scelta, potendo oggettivamente collaborare, e chi, invece, rimane silente suo malgrado, volendo soggettivamente collaborare ma non potendo oggettivamente. Inoltre, la ridefinizione del comma 1 bis fa scomparire la collaborazione impossibile o inesigibile, che la Corte Costituzionale ha invece nuovamente ritenuto essenziale con la sent. 20/ 2022. È prevista una competenza collegiale anche in caso di permessi, fortemente critica per la tenuta del sistema. Infine il divieto di scioglimento del cumulo, che colpisce anche reati che non hanno a che fare con mafia e terrorismo. Se dovesse passare questo testo che scenario si aprirebbe? Quello delineato nei pm in audizione che hanno chiesto al Parlamento di non arretrare di un centimetro rispetto al rigore della norma vigente, se non si vuole offrire alla mafia “un trampolino di lancio”. Dunque, secondo questi unici depositari della lotta contro la mafia, come giustamente afferma Alessandro Barbano, “il condannato non deve aver nessuna chance di superare il muro di divieti che la legge gli alza di fronte”. A nulla servirà la sua buona condotta, perché per definizione assoluta i pm auditi affermano che “il mafioso è obbligato dal suo giuramento a non dare fastidio in carcere”. A nulla varrà un percorso rieducativo, perché, sempre per questi pm, “il mafioso è abilissimo nel fingere una redenzione”. Quanto alla dimostrazione di non essere più mafioso, si tratta appunto di una probatio diabolica, poiché “la mafia non muore mai”. Lei sembra sola, e soprattutto a sinistra, a combattere per far prevalere i dettami della Consulta. Mi fa piacere ricordare che a sottoscrivere i miei emendamenti ci sono i colleghi Pini, Raciti, Magi. E Lucia Annibali in Commissione ha fatto una battaglia importante. Qualche giorno fa un collega, in considerazione della mia ostinazione ad affrontare il tema dell’ergastolo ostativo, più universalmente conosciuto come fine pena mai, mi ha risposto: io non so cos’è l’ergastolo ostativo e non voglio saperlo mai. Io ho replicato, conoscendo tra l’altro le sue qualità umane e politiche, nonché il suo rigore istituzionale: sbagli. Perché tutti i parlamentari, soprattutto di sinistra, dovrebbero essere sensibili alle questioni che riguardano le violazioni dei diritti costituzionali, in questo caso l’art. 27 comma 3 della Costituzione, e la violazione del principio di umanità della pena, ex art. 3 della Cedu. Ovviamente spetterà alla Corte verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni che verranno effettivamente assunte in Aula. Ergastolo ostativo, l’ex Pd Fassone: “Dalla riforma troppi requisiti, così diventa inesaudibile” di Liana Milella La Repubblica, 1 marzo 2022 L’ex presidente della Corte di Appello di Torino, nonché autore del libro “Fine pena: ora”, valuta il testo della commissione Giustizia che oggi va in aula alla Camera. “Il Parlamento ha fatto a gara con l’ordinanza della Consulta”. “Una rete così fitta di requisiti da diventare in pratica inesaudibile”. È questo il giudizio, in estrema sintesi, che Elvio Fassone dà della nuova versione dell’ergastolo ostativo che oggi va in aula alla Camera per la discussione generale. Il 15 aprile dell’anno scorso, a commento della decisione della Corte costituzionale che dava un anno di tempo al Parlamento per cambiare le disposizioni sull’ergastolo ostativo, Repubblica aveva chiamato Elvio Fassone considerandolo il giudice “giusto” per commentarla. Non solo perché ha scritto il volume “Fine pena: ora” per Sellerio nel 2015, dove ha raccontato la sua esperienza con l’ergastolano “Salvatore”, un nome di fantasia, a cui, da presidente della Corte di appello di Torino aveva comminato la pena perpetua e con cui poi è rimasto in contatto epistolare per anni. Ma anche perché, prima da magistrato e poi da senatore del Pd, Fassone ha speso una vita proprio sul valore della pena. Adesso, un anno dopo, eccoci al tentativo della commissione Giustizia della Camera di presentare un “nuovo” ergastolo ostativo, possibile la liberazione condizionale, ma con una serie molto stretta di paletti. Lei ha letto il testo uscito dalla commissione Giustizia della Camera che riscrive l’ergastolo ostativo? Che ne pensa? “Un errore ne genera fatalmente un altro. L’ordinanza della Corte costituzionale dell’anno scorso ha una struttura che rivela chiaramente che doveva trattarsi di una sentenza di accoglimento. L’ordinanza deve essere succintamente motivata, e questa invece impiega una quarantina di pagine per illustrare i motivi, in larga parte su un tema divenuto estraneo, come la presunzione assoluta di pericolosità dell’imputato. Era inevitabile che il Parlamento, nell’assolvere il compito, facesse a gara con l’ordinanza della Corte nel disegnare una rete così fitta di requisiti da diventare in pratica inesaudibile. Il tutto sempre con il richiedente che, in ipotesi meritevole del beneficio, attende in vinculis che il giudice completi la sua raccolta di prove”. Nel merito, la mette in allarme quel passaggio della legge in cui si dice che l’ergastolano, per accedere alla liberazione condizionale, deve dimostrare di non avere più contatti con la mafia “anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione”? “A ben guardare, tutte le differenze tra la sentenza del 2019 sui permessi premio, e l’ordinanza dalla quale prende le mosse il testo della Camera, si risolvono nella sostituzione di un aggettivo con il suo sinonimo. Là era da dimostrare “il pericolo del ripristino” di tali collegamenti con la criminalità organizzata, nell’ordinanza della Corte che ha sospeso il processo si richiede una serie così minuziosa di requisiti che, tra l’altro, si muove contro il principio della corretta distribuzione dell’onere della prova, secondo cui è l’accusa, e non la difesa, che deve farsi carico di provare gli elementi che ostano alla concessione del beneficio”. Ritiene che chiedere “verifiche sulla sua famiglia, fare accertamenti sui suoi redditi e sulla situazione patrimoniale, sul tenore di vita, sulle attività economiche eventualmente svolte e anche sulla pendenza di misure di prevenzione personali o patrimoniali” sia eccessivo? “Senza dubbio. Accertamenti del genere su gente che è in carcere da più di 30 anni possono produrre una sorta di prova diabolica impossibile. Occorre confidare nella saggezza dei magistrati di sorveglianza”. Insomma, lei ritiene che i requisiti richiesti siano troppo stringenti? “Una serie così minuziosa si muove contro il principio della corretta distribuzione dell’onere della prova, secondo cui è l’accusa, e non la difesa, che deve farsi carico di provare gli elementi che ostano alla concessione del beneficio stesso”. L’inasprimento della pena, 30 anni da scontare effettivamente anziché 26, la vede come una misura penalizzante? “L’inasprimento delle pene non era affatto richiesto dalla Corte, ma rientra nella potestà del Parlamento regolare come meglio ritiene la materia. Ciò non toglie che l’aggravamento delle sanzioni penali, così come viene previsto, potrà comportare un trattamento più pesante per i detenuti che saranno giudicati dopo l’entrata in vigore della legge e coloro che invece sono già stati giudicati prima, e quindi una disparità di trattamento non facilmente giustificabile”. Per la sua esperienza, e per l’attenzione che la Consulta ha dedicato in questi ultimi anni al carcere, pensa che una buona legge sull’ergastolo alla fine potrebbe uscire più semplicemente dalla stessa Consulta che non dal Parlamento? “La Corte aveva esordito molto bene con la sentenza sui permessi premio. Pochi concetti chiari, come l’inaccettabilità della presunzione assoluta di pericolosità e l’affidamento del giudizio alla saggezza dei giudici. Non risulta che vi siano stati dei cattivi usi del potere discrezionale, anzi i provvedimenti sono stati prudenti ed attenti. Con la liberazione condizionale sembrava tracciata la strada, cioè la cancellazione della presunzione assoluta di pericolosità e in compenso una maggior attenzione alla pericolosità stessa, che deve essere valutata non per pochi giorni ma per sempre. Non è escluso che la parola, a questo punto, possa tornare alla Corte”. Il garantismo di Salvini va in galera di Claudio Cerasa Il Foglio, 1 marzo 2022 L’attacco alla Cartabia sul Dap rivela l’ipocrisia leghista sulla giustizia. Al mattino si alza garantista, e allora promuove insieme ai Radicali dei referendum che prevedono, tra l’altro, la limitazione al ricorso della carcerazione preventiva. Alla sera deve però essere percorso da un brivido, ricordarsi dei bei tempi felici in cui, insieme al compare Alfonso Bonafede, per gli amici Dj Fofò, occasionalmente ministro della Giustizia, faceva piazzate sulla pista di Ciampino per spernacchiare Cesare Battisti, e torna alla sua vecchia postura. E allora Matteo Salvini verga, con l’indignazione di rito, un comunicato contro la Guardasigilli, tornando a sposare su questo tema le posizioni del M5s: “La Lega manifesta preoccupazione per la scelta del ministro Cartabia di indicare il dottor Carlo Renoldi come nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. E qual è, la ragione dello sgomento di Salvini? “Desta perplessità la scelta di affidare un incarico così delicato, anche per il messaggio che ne deriva, a chi ha assunto posizioni, anche pubblicamente, che hanno sollevato un vespaio di polemiche nel fronte dell’Antimafia”. Dunque è “il fronte dell’Antimafia”, questa astratta categoria dello spirito, a dover decretare promozioni e avanzi di carriera? Dava la stessa credibilità, Salvini, a questo “fronte”, quando denunciava le infiltrazioni mafiose nel Carroccio campano e laziale, quando additava le presunte vicinanze tra esponenti della Lega calabrese e le ‘ndrine, quando sentenziava sui famigerati 49 milioni? E quale sarebbe, poi, la colpa di Renoldi, attuale consigliere della prima sezione penale della Cassazione? Aver osato criticare l’applicazione del 41 bis. “Non si tratta di essere contro il 41 bis - ha detto il costituzionalista Valerio Onida in sua difesa-ma di coniugare, come vuole la Costituzione, la necessità di sicurezza con l’umanizzazione della detenzione”. Per il leader della Lega deve essere complicato, svegliarsi giustizialista o garantista a giorni alterni. Uno sforzo commovente. Almeno come quello di quei “liberali per Salvini” che ne celebrano a giorni alterni le svolte moderate. Domani anche le carceri in preghiera per la pace nel mondo romasette.it, 1 marzo 2022 Don Grimaldi: “La situazione che il mondo sta vivendo chiama tutti alla solidarietà umana”. L’invito ad accogliere l’appello di Francesco per la giornata del 2 marzo. Anche le carceri italiane rispondono all’appello di Papa Francesco per la giornata di preghiera e digiuno del 2 marzo, Mercoledì delle Ceneri, per la pace in Ucraina. In una lettera inviata a tutti gli operatori di pastorale carceraria, don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani degli istituti penitenziari d’Italia, invita “ogni uomo di buona volontà, ogni comunità, ogni Chiesa particolare con i loro pastori, a innalzare al Signore della pace un’accorata supplica affinché le armi della distruzione siano messe a tacere”. Nelle parole di don Grimaldi, “la situazione che il mondo sta vivendo, in questo tempo di grande incertezza e sofferenza per l’aggressione all’Ucraina incomprensibile e inaccettabile, chiama tutti noi alla solidarietà umana e alla preghiera fraterna. Anche dalle nostre carceri, luoghi di grande sofferenza, si innalzi il grido della nostra preghiera al Dio della Pace e della misericordia”, esorta, invitando ad accogliere, come “operatori pastorali che viviamo il servizio nei luoghi di pena”, come “Chiesa che è in carcere”, l’invito di Papa Francesco a vivere una giornata di preghiera e di digiuno. Prendendo in prestito le parole di san Giovanni Paolo II, l’ispettore dei cappellani ricorda che la guerra è “un’avventura senza ritorno”. Di qui la richiesta a cappellani, diaconi, suore e volontari, “come segno di solidarietà e di comunione con tutte le carceri italiane, di unirci come popolo di Dio per non venir meno a questo desiderio di Papa Francesco e della Chiesa tutta, per affermare con forza che la guerra è una “inutile strage”, come affermava Benedetto XV. Ancora una volta, la guerra, questa forza del male, porterà solo distruzione e morte - riflette -, intensificherà gli odi e le vendette, lascerà famiglie divise e distrutte, si interromperà la forza del dialogo, la violenza della guerra calpesterà la fraternità e la dignità e mentre i potenti che hanno sete di potere e i ricchi si fanno la guerra, sono solo i poveri che muoiono. Papa Francesco ha detto al mondo: “Non dimentichiamo, la guerra è una pazzia”. Domani dunque, 2 marzo, Mercoledì delle Ceneri, “anche noi, nei nostri istituti penitenziari, anche se con modalità diverse, non facciamo mancare, ai nostri fratelli e sorelle ristretti, questo “bisogno del cuore”, questo stare insieme per pregare per la pace”, esorta ancora don Grimaldi. Riforma del Csm, fissato al 9 marzo il termine per i subemendamenti di Valentina Stella Il Dubbio, 1 marzo 2022 Ieri pomeriggio l’ufficio di presidenza della Commissione Giustizia della Camera ha fissato il termine per la presentazione dei subemendamenti alle proposte emendative del Governo di riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario alle ore 18 della giornata di mercoledì 9 marzo. Il maxiemendamento Cartabia era stato depositato in commissione lo scorso venerdì, dopo diversi giorni di attesa rispetto alla conferenza stampa post Consiglio dei ministri convocata con il premier Draghi l’11 febbraio. Il testo infatti è rimasto bloccato alla Ragioneria di Stato per via di coperture su aspetti marginali, legate - dicono fonti parlamentari - alle norme sui corsi preparatori alla carriera da magistrato e ai relativi costi da finanziare. Tra oggi e dopodomani si terrà anche un breve ciclo di audizioni e ogni gruppo potrà proporre un solo nome: oltre a Giuseppe Santalucia (Presidente Anm), Gian Domenico Caiazza (Presidente Unione Camere Penali), un rappresentante dell’Ocf, verranno ascoltati Piergiorgio Morosini (Consigliere presso la Suprema Corte di Cassazione), Armando Spataro (già procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino), Domenico Airoma (Procuratore della Repubblica di Avellino), gli avvocati Nicola Madia e Eugenio Minniti, i professori Francesco Saverio Marini e Giovanni D’Alessandro, il giudice Giuliano Castiglia. Insomma bisogna accelerare, lo diciamo ormai da mesi, con il rischio però di comprimere e compromettere il dibattito. Sullo sfondo i referendum “giustizia giusta”, promossi da Lega e Partito radicale che si intrecciano fatalmente con la riforma. Questa dovrebbe essere approvata dall’Aula entro il mese di marzo, ma una parte sarà immediatamente vigente, un’altra funzionerà con i decreti attuativi. Il premier Draghi ha assicurato che questa volta non porrà la fiducia, proprio per lasciare spazio alle sensibilità in materia, notoriamente molto elevate da parte di ciascun gruppo: “Non ci sarà la fiducia - aveva detto in conferenza stampa - ma i capigruppo si sono impegnati a fare in modo che l’esame sia rapido”. Proprio i gruppi della Camera lavorano parallelamente con quelli del Senato per non rischiare modifiche che renderebbero ancora più accidentato il percorso nel passaggio da Montecitorio a Palazzo Madama. Tra luglio e settembre ci sarà infatti il rinnovo del Csm e quindi occorre dare il giusto tempo a Palazzo dei Marescialli per organizzarsi internamente, anche alla luce di una probabilissima nuova legge elettorale. Il sistema proposto dal Governo è misto: si basa su collegi binominali - che eleggono due componenti del Csm l’uno - ma prevede una distribuzione proporzionale di cinque seggi a livello nazionale. Detenzione domiciliare “umanitaria”: va valutata l’età del detenuto quotidianogiuridico.it, 1 marzo 2022 Cassazione penale, Sez. I, sentenza 22 febbraio 2022, n. 6300. Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso l’ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza aveva rigettato l’istanza di differimento dell’esecuzione della pena per ragioni di salute, anche nella forma della detenzione domiciliare. La Corte di Cassazione, nell’accogliere la tesi difensiva secondo cui il Tribunale non aveva preso in alcuna considerazione le condizioni psichiche del detenuto nonostante la sua evidente vulnerabilità - ha invece affermato il principio secondo cui, al fine di verificare l’eventuale incompatibilità tra il regime carcerario e le condizioni di salute del detenuto, è necessario compiere un giudizio articolato in più fasi e, all’esito di tale composita valutazione, è comunque necessario verificare l’incidenza della condizione detentiva sulla dignità della persona, al fine di accertare l’eventuale disumanità della pena nonché, ancora, verificare se l’eventuale differimento dell’esecuzione possa consentire al condannato di commettere nuovi reati. Criteri di “particolare rigore” per presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità iuranovitcuria.it, 1 marzo 2022 Corte di Cassazione, Sez. I, sentenza del 28 gennaio 2022, n. 6299 La presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata deve rispondere criteri “di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo”. Gli oneri dimostrativi imposti al richiedente il permesso premio non possono decisivamente basarsi sul suo atteggiamento soggettivo, l’accoglimento o meno dell’istanza dipende “dalla situazione oggettiva all’esame della magistratura di sorveglianza. È infatti a tale situazione che l’ordinamento non irragionevolmente è ancorato per stabilirne la forza presuntiva e, conseguentemente, per definire il regime probatorio necessario a superare quest’ultima”. Presidente: Bricchetti Renato Giuseppe, Relatore: Aliffi Francesco, Data Udienza: 28/01/2022 Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato. 2. Il beneficio previsto dall’art. 30-ter I. 26 luglio 1975, n. 354 (Ord. pen.) ha un carattere plurifunzionale. Oltre ad avere una specifica funzione pedagogicopropulsiva, quale parte integrante del trattamento di cui, come correttamente ricordato dal ricorrente, costituisce uno strumento cruciale (cfr. sentenza della Corte Costituzionale n. 504 del 1995), ha una funzione premiale, per la stretta subordinazione alla osservanza di una regolare condotta da parte del detenuto ed all’assenza nel beneficiano di pericolosità sociale, anche se orientata alla coltivazione di interessi affettivi, culturali e di lavoro. Il giudice, pertanto, ai fini della concessione dei permessi-premio, deve accertare, acquisendo informazioni adeguate, la sussistenza di tre requisiti, da considerarsi presupposti logico-giuridici della concedibilità del beneficio: in primo luogo, la regolare condotta del detenuto; in secondo luogo l’assenza di pericolosità sociale dello stesso; in terzo luogo, la funzionalità del permesso premio alla coltivazione di interessi affettivi, culturali e di lavoro. 2. In coerenza con tale impostazione la procedura innescata dalla richiesta di permesso premio segue un iter di acquisizioni e di verifiche rimesso alle iniziative dell’autorità procedente. L’art. 65 d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento di esecuzione sull’ordinamento penitenziario) prevede che la domanda volta ad ottenere tale beneficio sia corredata, oltre che dal parere motivato del direttore dell’istituto penitenziario, dall’estratto della cartella personale. Essa contiene anche l’esito dell’osservazione scientifica della personalità svolta ai sensi dell’art. 27 stesso decreto, che rappresenta un ambito di verifica con cui debbono confrontarsi prima il parere del direttore dell’istituto e poi la decisione del magistrato di sorveglianza che in ogni caso può assumere informazioni per integrare quelle ricevute. L’eventuale carenza della documentazione che l’istituto è obbligato a trasmettere a seguito della richiesta di permesso premio e ancora prima l’omissione da parte dell’amministrazione delle doverose verifiche che detta documentazione deve rappresentare, non preclude l’accesso al beneficio. In caso di reclamo, il potere di statuire sulla domanda si trasferisce in capo al tribunale di sorveglianza che, in virtù della natura devolutiva del mezzo di impugnazione secondo i principi generali fissati dall’art. 597, comma 1, cod. proc. pen., non può limitarsi solo a rilevare la non correttezza della decisione contestata ma, sia pure nell’ambito della valutazione delle censure dedotte con i motivi, deve decidere se confermare o riformare la pronuncia censurata non solo considerando le sopravvenienze rispetto a essa ma anche rilevando le carenze istruttorie, tanto più nel caso in cui le stesse siano state rappresentate tramite specifici rilievi in sede di reclamo. Al riguardo è stato precisato che il tribunale di sorveglianza deve apprezzare nel merito la fondatezza della domanda anche alla luce del contributo argomentativo e documentale offerto dall’interessato in sede di udienza, nonché delle informazioni pervenute o acquisite, esercitando i poteri d’ufficio di cui all’art. 666, comma 5, richiamato dall’art. 678 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 10316 del 30/1/2020, Rv. 278691). Poteri di ufficio che vanno attivati doverosamente, nell’ambito del devoluto, quando siano rilevabili, in origine ovvero in seguito, decisivi deficit istruttori. 3. L’individuata esigenza di completezza delle informazioni ai fini della decisione della domanda di permesso premio è divenuta ancora più pressante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 2019 laddove l’istante sia un detenuto per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen. o per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo o al fine di agevolare l’attività delle associazioni ivi previste (così detti delitti ostativi di prima fascia) che non abbia o non possa collaborare con la giustizia. In questa ipotesi, in luogo di quella assoluta, che stava alla base dell’inibizione dell’accesso al beneficio nell’assetto normativo ritenuto contrastante con le norme della Carta, permane comunque la presunzione relativa, quindi vincibile a determinate condizioni e con determinate regole probatorie, di perdurante pericolosità del condannato sicché l’esito favorevole della domanda per la fruizione del permesso premio è subordinata alla avvenuta “acquisizione” di elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. La collaborazione utile e possibile non costituisce unica prova legale di avvenuta rescissione del legame con il contesto criminale di provenienza. In tali casi, pertanto, le verifiche devono estendersi, oltre agli ordinari presupposti del permesso premio, all’eventuale, esistenza di elementi, concreti e specifici, che siano idonei non solo ad escludere, in termini definitivi, l’attualità dei collegamenti tra il condannato e la criminalità organizzata (requisito espressamente previsto dall’art. 4-bis, comma 1-bis, Ord. pen.), ma anche l’inesistenza del pericolo del ripristino di siffatti collegamenti, tenuto conto delle concrete circostanze concrete (Sez. 1, n. 33743 del 14/7/2021, Marazzotta Rv. 281764, secondo la quale, dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 253 del 2019, il condannato non collaborante per contrastare la presunzione di perdurante pericolosità prevista dalla legge può limitarsi ad allegare elementi fattuali potendo, eventualmente, il giudice completare (‘istruttoria anche d’ufficio). Conformemente alle esigenze di raccordo istituzionale indicate nella stessa sentenza Corte cost. n. 253 del 2019, si impone sempre l’acquisizione di informazioni dal Procuratore nazionale antimafia, dal procuratore distrettuale territorialmente competente e dal comitato dell’ordine e della sicurezza pubblica. Fermo restando che la valutazione in concreto degli elementi idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata deve rispondere criteri “di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo” (sent. Corte cost. n. 253 del 2019), gli oneri dimostrativi imposti al richiedente il permesso premio non possono decisivamente basarsi sul suo atteggiamento soggettivo, l’accoglimento o meno dell’istanza dipende “dalla situazione oggettiva all’esame della magistratura di sorveglianza. È infatti a tale situazione che l’ordinamento non irragionevolmente è ancorato per stabilirne la forza presuntiva e, conseguentemente, per definire il regime probatorio necessario a superare quest’ultima” (sent. Corte cost. n. 20 del 2022). 4. Il Tribunale di sorveglianza di Ancona non si è attenuto a quanto sopra rappresentato.Dopo avere dato atto che il Madonia era stato condannato , tra gli altri, per associazione di stampo mafioso e ed omicidi aggravati dalla finalità mafiosa, ha posto a fondamento della decisione sfavorevole al detenuto, la sua pericolosità sociale desunta, tuttavia, o da elementi risalenti nel tempo (la particolare gravità dei reati commessi dal 1977 all’inizio della detenzione decorrente dal giorno 1 marzo 1998) o indicati genericamente (il giudizio di insufficiente riflessione critica espresso in epoca imprecisata dagli operatori penitenziari che tuttavia avevano valutato “sufficientemente partecipativa” la sua adesione al trattamento) senza soffermarsi sui rapporti del Madonia con la criminalità organizzata e sul pericolo attuale di riallacciarli, considerati alla stregua di mere condizioni di ammissibilità dell’istanza non influenti sul merito della decisione e, soprattutto, senza disporre le verifiche idonee a colmare le pur riconosciute mancanze istruttorie, decisive ai fini della pronunzia, in tema di osservazione della personalità ed attuale operatività della cosca di appartenenza, espressamente rinviate alla presentazione di una “prossima istanza”. 5. Ne discende l’annullamento del provvedimento, con rinvio al Tribunale di sorveglianza di Ancona per nuovo giudizio, da compiere osservando i principi sopra enunciati tenendo conto dei rilievi posti in evidenza. P.Q.M. Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Ancona. Così deciso, in Roma il giorno 28 gennaio 2022. Reggio Calabria. Tre agenti indagati per lesioni aggravate e tortura su un detenuto 29enne di Lucio Musolino Il Fatto Quotidiano, 1 marzo 2022 Le indagini, coordinate dal procuratore Giovanni Bombardieri e dal pm Sara Perazzan, puntano a fare luce su quanto accaduto il 22 gennaio scorso, lo stesso giorno in cui in città era presente il ministro della Giustizia Marta Cartabia. La scena non è quella che ha portato agli onori della cronaca il carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ma il sospetto è che all’interno della casa circondariale di “San Pietro”, a Reggio Calabria, un detenuto sia stato pestato dalle guardie. Nei giorni scorsi, la squadra mobile ha notificato tre avvisi di garanzia ad altrettanti appartenenti alla polizia penitenziaria. Per tutti, l’ipotesi accusatoria è di lesioni personali aggravate e tortura. Le indagini, coordinate dal procuratore Giovanni Bombardieri e dal pm Sara Perazzan, puntano a fare luce sui fatti avvenuti il 22 gennaio scorso, lo stesso giorno in cui a Reggio Calabria era presente il ministro della Giustizia Marta Cartabia. Mentre il guardasigilli inaugurava l’anno giudiziario presso la Scuola Allievi carabinieri, infatti, nel carcere di San Pietro si sarebbe consumato il pestaggio di un detenuto napoletano ritenuto esponente di spicco della Camorra. Si tratta di Alessio Peluso, che a settembre aveva già creato qualche problema all’interno del carcere di Frosinone dove, con un drone, sarebbe riuscito a fare entrare una pistola poi utilizzata contro alcuni detenuti con i quali aveva litigato. Per questo motivo, il giovane di 29 anni nei mesi scorsi è stato trasferito a Reggio Calabria dove sarebbe stato aggredito dalle guardie penitenziarie. Collegato in videoconferenza con il Tribunale di Napoli, pochi giorni dopo il presunto pestaggio, Peluso ha denunciato l’episodio togliendosi la maglietta per fare vedere al giudice i segni dei maltrattamenti subiti all’interno del carcere di San Pietro. Allertata la Procura di Reggio Calabria, quindi, il sostituto procuratore Perazzan ha aperto un fascicolo. Il pm si è recato alla casa circondariale e ha interrogato il detenuto napoletano che avrebbe confermato la sua versione. Il magistrato, inoltre, ha ordinato alla squadra mobile di sequestrare le immagini registrate dall’impianto di videosorveglianza. Stando a quanto trapela, infatti, sembrerebbe che le telecamere abbiano ripreso almeno parzialmente la scena. Da qui l’iscrizione nel registro degli indagati dei tre agenti della polizia penitenziaria che sono stati già sentiti dal pubblico ministero. Sui loro interrogatori non trapela nulla ma non è escluso che ci possano essere altre guardie penitenziarie coinvolte nella vicenda. Una brutta storia di cui aveva riferito anche il sindacato Osapp. In una nota stampa inviata ai giornali il 23 gennaio scorso il segretario regionale Maurizio Policaro e il segretario generale aggiunto Pasquale Montesano avevano parlato, infatti, di disordini provocati da “A.P. di origini napoletane” nella casa circondariale. Era ovviamente Alessio Peluso. All’indomani della visita del ministro Cartabia, oltre a segnalare le condizioni del carcere (“gravissima carenza negli organici e insostenibili condizioni di servizio”), i sindacati avevano accusato il detenuto campano di aver “dato origine all’ennesima protesta mettendo a repentaglio l’ordine e la sicurezza dell’istituto”. Una versione completamente diversa da quella di Peluso e sulla quale adesso, grazie ai filmati sequestrati, la Procura della Repubblica di Reggio Calabria dovrà fare chiarezza. Torino. Il Tar spegne il sogno del bar del tribunale gestito da ex detenuti di Federica Cravero La Repubblica, 1 marzo 2022 Respinta la sospensiva di sfratto alla cooperativa Liberamensa, otto addetti in cassa integrazione. Doveva essere (e per un po’ è stato) il posto in cui detenuti ed ex detenuti avevano una possibilità di riscatto servendo caffè, preparando panini e cucinando piatti caldi per chi frequentava il bar del tribunale. Anche i magistrati che li avevano mandati a processo e gli avvocati che li avevano difesi. Ma oggi il progetto della cooperativa sociale Liberamensa, che da anni opera all’interno del Lorusso e Cutugno, sembra arrivato al capolinea, per colpa del Covid ma non solo. Sfrattati dal Comune (proprietario dei locali) che ha revocato la concessione per 130 mila euro di canoni non versati, i vertici della coop nelle scorse settimane si sono visti negare dal Tar anche la sospensione cautelare di quel provvedimento e per gli otto dipendenti che lavoravano nel bar si apre un periodo di incertezza dal momento che è finita anche la cassa integrazione. “Siamo in un momento delicato”, ammette il presidente di Liberamensa, Mauro Allegri. Essendo dipendenti di Liberamensa, i lavoratori del bar sono in carico alla cooperativa e percepiscono uno stipendio senza avere più un lavoro. “Non vogliamo licenziarli e rischiamo la liquidazione, ma sarebbe un peccato perché l’attività del forno invece in carcere sta andando molto bene - spiega Allegri - Stiamo lavorando per trovare una soluzione, per esempio aprendo una rivendita di pane in città, così da impiegare i “disoccupati” del bar”. Chiuso da due anni - Sono due anni, tranne una breve parentesi a fine 2020, che il bar interno del tribunale è chiuso. Ma in realtà le traversie erano cominciate anche prima, quando i precedenti gestori erano finiti a processo per aver truccato l’appalto. Era stato poi rilevato nel 2018 da Liberamensa, con un progetto che faceva leva sul reinserimento sociale degli ex detenuti. Ma dopo poco più di un anno i gestori erano già rimasti indietro di alcune mensilità della concessione, “francamente troppo alta, ottomila euro al mese”, dice l’attuale presidente. Poi è arrivato il Covid, il bar ha chiuso e non ha riaperto. “La chiusura dell’attività - spiega il Comune nella revoca della concessione - superata una prima fase emergenziale, non risulta giustificabile in relazione ai periodi nei quali l’apertura delle attività era consentita e, in particolare, quando le funzioni all’interno del Palazzo di Giustizia sono riprese con regolarità, recando inoltre un grave disservizio all’utenza e a tutto il personale”. Debiti per 130mila euro - In quel periodo il Comune aveva anche offerto di abbassare il canone, quasi di azzerarlo, come ristoro per il Covid, ma la cooperativa non ha fatto richiesta e così i debiti, rata dopo rata, sono arrivati a oltre 130 mila euro. E tra morosità e inadempienza contrattuale per non aver riaperto, è arrivata la decisione del Comune di far decadere la concessione. “Noi cercavamo una soluzione permanente, un ribasso non solo per il momento del Covid - conferma Allegri - Ma è un peccato far fallire un’idea così”. Palermo. Allarme suicidi nelle carceri, sit-in ai cancelli dell’Ucciardone giornalelora.it, 1 marzo 2022 Un sit-in in memoria dei due detenuti morti suicidi recentemente nelle carceri di Palermo e Catania, si terrà a Palermo. Lo ha organizzato dalla Responsabile Regionale del Dipartimento Diritti Umani con delega Art 3-27 della costituzione del Democrazia Cristiana Nuova, insieme al Responsabile Regionale del Dipartimento Legalità e Antimafia della DC. La manifestazione è in programma oggi, martedì 1 marzo, davanti alla casa circondariale Ucciardone di Palermo, a partire dalle 19,30. L’evento prende il titolo “La Luce della Speranza”. Seguirà l’Assemblea di “Nessuno Tocchi Caino” che avrà luogo, alle ore 16, presso la Fonderia Oretea di Palermo. Al sit-in, prenderanno parte, tra gli altri, il Commissario Regionale della Democrazia Cristiana Nuova, Totò Cuffaro, il Segretario dell’Ong Nessuno Tocchi Caino, l’onorevole Sergio D’Elia e i membri del consiglio direttivo Sabrina Renna, Donatella Corleo e Antonio Coniglio. I casi di suicidio - Nei giorni scorsi un detenuto di 25 anni era stato trovato impiccato nel carcere palermitano. Il corpo era stato scoperto dagli agenti della polizia penitenziaria durante dei controlli. Anche in quel caso il giovane per compiere il drammatico gesto avrebbe utilizzato le lenzuola. Sono in corso le indagini sui due episodi a distanza di due giorni. Nei giorni seguenti un detenuto di 31 anni è stato trovato dentro la cella con la corda attorno al collo. Aveva tentato di togliersi la vita. Gli agenti della polizia penitenziaria e i medici del carcere sono riusciti a togliere le lenzuola attorno al collo e affidarlo ai sanitari del 118 che lo hanno portato all’ospedale Villa Sofia dove si trova intubato in condizioni critiche. Anche aggressioni nel carcere - Un detenuto nel carcere Ucciardone di Palermo si è scagliato contro tre agenti della polizia penitenziaria che sono stati soccorsi e trasportati in ospedale per le ferite. “Secondo le prime notizie il detenuto - dicono i sindacalisti della Uil-pa - doveva essere trasferito in un altro reparto. Contro questa decisione dello staff si sia cosparso di gas, e minacciando, non solo di darsi fuoco, ma con una lametta minacciava i poliziotti”. Treviso. Libreria Paoline lancia il “libro sospeso” per regalare “evasioni” ai carcerati di Alessio Antonini Corriere del Veneto, 1 marzo 2022 I libri aiutano a riflettere, a coltivare le passioni. E alle volte cambiano la vita. Un libro è soprattutto evasione. E dunque chi meglio di un carcerato, qualcuno che deve stare chiuso in una stanza dietro le sbarre senza potersi muovere e vedere il mondo esterno, può trarre giovamento dalla lettura? È la domanda che si sono fatti alla Libreria Paoline di Treviso trovando una risposta nell’iniziativa del “libro sospeso”. Come a Napoli esiste il “caffè sospeso”, si prende un caffè e se ne pagano due, lasciando il secondo a un bisognoso. Nel caso del “libro sospeso”, si entra alla Libreria Paoline di Treviso, di fianco al Duomo, si acquista un libro in più e lo si lascia nella cesta dedicata. I volumi raccolti durante la Quaresima, tra il mercoledì delle Ceneri (2 marzo), fino a Pasqua, che quest’anno si festeggia il 17 aprile, verranno poi consegnati al cappellano del carcere di Santa Bona, don Pietro Zardo, che, insieme al personale della onlus Cittadinanzattiva, rimpinguerà la biblioteca della casa circondariale con la consapevolezza che “regalare parole è regalare futuro”. “È un progetto di grande valore etico e morale - spiega il direttore del carcere di Treviso Alberto Quagliotto - con il ‘libro sospeso’ i cittadini possono contribuire a rafforzare la libertà interiore delle persone alle quali è indirizzato”. “Nell’epoca della dematerializzazione - continua Quagliotto - il carcere è uno dei pochi luoghi in cui la parola incisa sulla carta conserva un suo altissimo e peculiare valore. È infatti la parola della lettera, che ancora viene scritta a mano ed inviata alle persone care; è la parola della lettera, che da casa si riceve; è la parola, infine, che si trova scritta nei libri, allineati sugli scaffali delle biblioteche degli istituti. Non è volatile come quella del web, bensì concreta: si tiene fra le mani”. E i carcerati, che per motivi di sicurezza non hanno sempre accesso al mondo digitale, hanno bisogno, come molti altri lettori anche oltre i muri di una cella, proprio di concretezza, di riflessione e di poter tornare più volte sulla stessa frase anche per farla propria e trasformarla in un pensiero personale da portare, un giorno, oltre le sbarre. Treviso non è la prima città italiana a regalare un libro ai carcerati, ma il capoluogo ha voluto coinvolgere anche il sindaco Mario Conte che ritiene che sia giusto “dare una possibilità a chi vive l’esperienza del carcere”. “Penso che in ognuno di noi ci sia un talento e anche chi ha sbagliato più di altri, grazie a questi libri, potrà avere la possibilità di scoprire, riflettere e coltivare una passione”, aggiunge il sindaco. “L’idea di questo progetto - spiegano dalla Libreria Paoline e da Cittadinanzattiva Treviso - si basa sulla convinzione che tutti i luoghi di socializzazione, anche forzata, come le carceri, debbano essere forniti di ricche biblioteche. Regalare un libro ai detenuti, aiuta a uscire, anche se per poco, dalla dura realtà in cui si trovano. Il libro è sicuramente uno spunto di riflessione, una buona occasione di miglioramento e poi, ci sono libri che possono cambiare la vita” E per chi non sa che libro regalare, la libreria offre un aiuto con una selezione di titoli consigliati. La raccomandazione dei volontari, a chi decide di regalare un libro, è di lasciare una dedica o un pensiero autografato nella speranza che una volta espiata la pena, il gesto del dono resti impresso nella memoria a lungo. Bologna. “Finché galera non ci separi”, lettura scenica con le poesie di Emidio Paolucci di Valeria Alpi bandieragialla.it, 1 marzo 2022 Gruppo Elettrogeno Teatro presenta Finché galera non ci separi, un reading teatrale tratto dalle poesie di Emidio Paolucci, ergastolano detenuto nel carcere di Pescara, interpretate da Pierpaolo Capovilla, con le musiche di Paki Zennaro e le illustrazioni di Andrea Chiesi. Lo spettacolo - che andrà in scena domenica 13 marzo alle ore 20.30 al TPO di via Casarini 17/5 a Bologna - accompagna lo spettatore dentro la vita dei detenuti, incatenata irrimediabilmente alla quotidianità, con le sue nostalgie, i suoi rammarichi, le speranze indefinite e illusorie, la disperazione, la voglia di morire, la forza di vivere e resistere. Il lavoro di Capovilla si inserisce nell’ambito del progetto I Fiori Blu - sesta edizione, curato da Gruppo Elettrogeno, un percorso interdisciplinare di formazione musicale e teatrale, rivolto a persone che accedono alle misure alternative alla detenzione o alla pena, a operatori dell’ambito del sociale, loro familiari e amici, a persone con disabilità, studenti e performers. Il progetto I Fiori Blu è realizzato in collaborazione con: Regione Emilia-Romagna, Comune di Bologna, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Centro Documentazione Handicap e Coop. Accaparlante, Istituto dei ciechi F. Cavazza di Bologna, UICI Sezione territoriale di Bologna, Cefal Emilia-Romagna Soc. Coop., Kilowatt soc coop, Visual-Lab, Neu Radio, Radio Oltre, Radio Città Fujiko. Per partecipare allo spettacolo è necessario prenotare a questo link: https://www.musicglue.com/tpo/events/4fabbb6e-a2ab-4eda-a5a0-190c3234bf24. L’accesso è consentito solo alle persone munite di super green pass e mascherina Fpp2. La mattanza di Santa Maria Capua Vetere. Dejà vu ricorrente di Enrico Zucca* altreconomia.it, 1 marzo 2022 Il coraggioso libro dell’avvocato Luigi Romano ci trascina nella brutalità del nostro sistema carcerario. Va letto. “Photographs tell it all”, scriveva nel 2004 Seymour M. Hersch sul New Yorker, pubblicando alcune delle foto di Abu Ghraib. Le foto dicevano anche di più del rapporto del generale Antonio Taguba sul “fallimento istituzionale” del sistema carcerario gestito dall’esercito Usa, per i gratuiti abusi sui detenuti. Frenesia mediatica, indignazione, prese di distanza, accuse, si consumarono nel rituale di ogni scandalo con l’effetto paradossale di evitare il problema. Quegli abusi erano marginali rispetto a un più vasto programma, di fatto mai completamente ripudiato o sanzionato, né finora del tutto svelato. Ora un coraggioso libro (“La settimana santa”, Monitor, 2021) di Luigi Romano, giovane avvocato, esponente di Antigone, ci trascina nella brutalità del nostro mondo carcerario, rievocando la perquisizione straordinaria condotta il 6 aprile 2020 da una squadra speciale di agenti, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (CE), in occasione di turbolenze originate dall’ansia del diffondersi della pandemia. È una spedizione punitiva, in assenza di rivolte in atto, per riaffermare rapporti di forza minacciati dalle rimostranze dei detenuti. Ancora sono le immagini, qui delle telecamere di sorveglianza del carcere, diffuse dai media un anno dopo i fatti a scuotere gli animi. Peraltro “quei video ribaltavano l’ordine della percezione, dalla totale indifferenza a una curiosità quasi morbosa […] il Paese sembrava accorgersi per la prima volta dei problemi del mondo carcerario”. La consapevolezza svanisce in due settimane, il tempo di riaffermare i principi violati, senza ridiscutere le scelte consolidate. Romano ci mostra invece ciò che si cela nel profondo, sotto la schiuma dell’indignazione e della catarsi retorica seguita. Per non perdere memoria, ci dice, occorre verificare le pratiche ordinarie del sistema, separandole dall’ideologia istituzionale, la facciata esterna dell’esecuzione penale. La coercizione violenta non è solo per l’emergenza, ma è il percorso ordinario; all’interno del carcere la guerra ha le sue fasi di bassa intensità. La “soluzione militare” non è occasionale, ma strutturale. Potere e violenza sono le travi portanti del carcere, com’è evidente già nel rapporto tra i numeri di detenuti, agenti e educatori (a Santa Maria Capua Vetere un agente ogni due reclusi e sette educatori per 900). La serie di condanne della Corte europea dei diritti umani nell’ultimo ventennio, per maltrattamenti e tortura, specie ai detenuti, già evidenzia incidenze ordinarie più che emergenziali. Eppure nel libro non compare la parola tortura a qualificare le azioni, totale rispetto del processo in corso, ora che il termine è norma penale, rimessa alla interpretazione giudiziale. Dense pagine descrivono tuttavia la mattanza nel carcere e potenti affiorano gli scenari del G8. I pestaggi nelle celle e nei luoghi nei vari piani del reparto Nilo, dove si trovano i detenuti comuni, un concentrato del disagio sociale e psichico, sono scene della perquisizione ai piani della scuola Diaz: violenza, umiliazioni e quella rabbia scatenata che palesa la funzione ritorsiva, con il paravento di prevenire supposti piani eversivi. Si rivede Bolzaneto, le tecniche di contenimento e controllo, le posizioni stressanti o degradanti e i colpi inferti, un ampio strumentario ben acquisito, a partire dall’antica punizione militare del corridoio umano, un classico già ben descritto da Tolstoj. L’adesione alle regole di ingaggio spiega poi la compattezza delle divise e la richiesta di protezione, cioè di schieramento a prescindere. È illusione pensare alla tortura episodica o del singolo. Non esistono. Inquietante non è l’eccesso sadico di taluno, ma l’esecuzione ragionata degli altri e dei vertici che decidono. Fissato l’obiettivo, ognuno si muove secondo un copione. Dejà vu. La novità c’è, tuttavia, non solo le immagini, che evitano l’adesione acritica alle versioni ufficiali. È l’iniziativa di un magistrato di sorveglianza, che va in carcere a verificare e non rimane in ufficio, un’anomalia nella prassi burocratica dei molti. E poi la pronta riposta dei magistrati inquirenti, altra deviazione da quella prassi. Il ripristino della legalità non è presa di controllo militare, con annessa “bonifica del sito”, altro frasario in uso alla Diaz, per ristabilire l’ordine vigente, ma la messa in discussione di quell’ordine. Per questo il libro va letto, dai magistrati innanzitutto. *Sostituto procuratore generale di Genova Una legge e un libro per chiedere che l’antimafia rispetti gli innocenti di Pietro Cavallotti* Il Dubbio, 1 marzo 2022 Lo scorso giovedì, presso la sala Mattarella del Parlamento siciliano, abbiamo presentato il nostro libro “Quando prevenire è peggio che punire. Torti e tormenti dell’antimafia”. I primi due capitoli raccontano il dramma di tanti imprenditori innocenti colpiti da misure di prevenzione e interdittive antimafia. Il terzo capitolo raccoglie, invece, le testimonianze di alcuni sindaci di comuni sciolti per mafia. Un libro costruito con le testimonianze degli innocenti espropriati di tutto - Grazie al supporto degli avvocati, dei magistrati e dei professori universitari di altissimo livello iscritti alla nostra associazione, avremmo potuto realizzare un vero e proprio manuale sulla legislazione emergenziale per spiegare ai lettori perché le misure di prevenzione - giurisdizionale e amministrativa - si pongono in contrasto con la Costituzione, con la Convenzione europea dei diritti umani, con i principi basilari della civiltà giuridica e, prima ancora, con la logica e il buon senso. La nostra scelta è stata diversa. Il libro contiene i preziosi contributi dei nostri giuristi che hanno spiegato con parole semplici concetti giuridici particolarmente complessi. Ma, soprattutto, mette in una posizione di assoluta centralità il vissuto della Persona Umana, perché siamo convinti che non si possa disquisire sulla legittimità di un istituto giuridico senza considerare gli effetti che esso produce sulla carne viva della gente. Che spiegazione giuridica accettabile possiamo offrire a chi, dopo il calvario di un processo penale che ha visto anche periodi di sofferta detenzione e che si è concluso con un’assoluzione definitiva, si vede portare via dallo Stato tutto ciò che ha costruito in un’intera vita di lavoro per il sospetto di un reato per il quale è stato definitivamente assolto? Come possiamo accettare che un imprenditore incensurato debba essere interdetto e perdere tutte le commesse perché “è più probabile che non” che la sua impresa venga infiltrata dalla mafia? E come si può giuridicamente accettare che un Comune venga sciolto semplicemente perché ci sono disfunzioni amministrative e in quel territorio c’è qualche cosca mafiosa, senza che alcun componente della giunta sia stato mai stato solo indagato per fatti di mafia? I protagonisti del nostro libro si muovono in un contesto del tutto autoreferenziale e avulso dalla realtà in cui la giurisprudenza e parte della dottrina (per fortuna minoritaria) giustificano l’abbassamento (o, per meglio dire, il totale annullamento) delle garanzie individuali sostenendo che le misure di prevenzione, tutto sommato, non sono sanzioni penali. A coloro che sostengono questa posizione costruita semplicemente sull’ipocrisia offriamo l’inedito punto di vista di chi si è visto distruggere la vita, per dimostrare che si tratta di qualcosa di più afflittivo delle pene. Sono misure che, quando non si basano sulla colpevolezza penale, diventano dei veri e propri strumenti di persecuzione. Noi rifiutiamo l’idea che un’antimafia efficace debba essere necessariamente un’antimafia che non si possa permettere il lusso delle garanzie liberali. Riteniamo pure che non si possa contrapporre la lotta alla mafia allo Stato di Diritto e che i cittadini non debbano trovarsi di fronte alla scelta - talvolta prospettata erroneamente come antitetica - tra due valori fondamentali in una democrazia. A nostro avviso, uno Stato che consente alla mafia di proliferare non è uno Stato di Diritto. Viceversa, una lotta alla mafia che non rispetta lo Stato di Diritto non è vera lotta alla mafia ma distruzione di innocenti, economie e territori. Politica d’accordo su norme che tutelino gli imprenditori colpiti ingiustamente - In occasione della presentazione del libro, abbiamo fatto il punto della situazione sulle proposte di legge di riforma del sistema delle misure di prevenzione depositate in Parlamento. Stiamo vivendo un momento storico particolare, qualcosa senza precedenti nell’ormai trentennale storia della legislazione antimafia. Erano presenti i rappresentanti - regionali e nazionali - di quasi tutti i partiti politici. Da Fratelli d’Italia a Forza Italia, passando per Partito democratico, Italia Viva e Movimento 5 Stelle. Il parterre è stato arricchito dalla presenza del presidente della commissione regionale Antimafia Claudio Fava, e dal presidente del Parlamento regionale siciliano Gianfranco Micciché. La presentazione di questi disegni di legge rappresenta una tappa importante nel percorso che abbiamo intrapreso nel 2018 con il Partito radicale. Un percorso molto difficile, iniziato con una proposta di legge d’iniziativa popolare di riforma del sistema delle misure di prevenzione. In quell’occasione, purtroppo, non siamo riusciti a raggiungere il quorum ma non ci siamo fermati. Piano piano, con la forza del vissuto delle persone che costituiscono la base di Nessuno tocchi Caino, con gli argomenti del buon diritto, e grazie ai contributi pubblicati da Il Dubbio e da Il Riformista, abbiamo raggiunto il cuore della politica. Oggi quella proposta di legge d’iniziativa popolare è arrivata finalmente in Parlamento ed è sostenuta da partiti politici che, pur avendo una visione diametralmente opposta del mondo, hanno capito che la lotta alla mafia non può diventare un’occasione per distruggere innocenti, fare carriere, distribuire incarichi e liquidare compensi. In linea di massima, è emersa un’ampia convergenza su due principi di fondo. Il primo riguarda i rapporti tra il processo di prevenzione e l’eventuale processo penale: se una persona viene assolta, deve avere il diritto ad ottenere la restituzione del patrimonio. Il secondo riguarda il risarcimento dei danni: se un imprenditore, all’esito del processo di prevenzione, si vede restituire l’azienda piena di debiti, in liquidazione o, peggio, fallita, deve essere risarcito. Sembrano principi basilari che, in un Paese evoluto come l’Italia, dovrebbero essere scontati. Purtroppo, non è così. L’obiettivo adesso è quello di portare al centro del dibattito parlamentare il tema delle misure di prevenzione. L’idea di revisionare questa normativa non può essere bollata come un tentativo di indebolire l’efficacia della lotta alla mafia, specie quando la nostra intenzione è semplicemente quella di riportare il sistema in vigore all’impianto originario della Rognoni- La Torre, troppo spesso impropriamente strumentalizzata e distorta per aggredire non i patrimoni dei mafiosi - che vanno quelli sì confiscati - ma per impadronirsi di quelli degli innocenti, costruiti con i sacrifici e il sudore della fronte. Nessuno tocchi Caino, in vista dell’apertura dei lavori parlamentari, mette a disposizione la competenza e la professionalità dei propri iscritti per ulteriori approfondimenti sugli effetti e sui presupposti delle misure di prevenzione. Siamo convinti che il Legislatore debba legiferare su una materia tanto complessa non ascoltando esclusivamente - come, purtroppo, avvenuto in passato - magistrati o trasferendo nelle leggi della Repubblica i principi elaborati dai giudici nelle sentenze. È tempo che si apra un confronto serio in cui nessuno abbia il diritto di dire l’ultima parola. Un confronto nel quale, dopo avere ascoltato i magistrati, venga tenuto in considerazione anche chi può arricchire il dibattito offrendo un punto di vista alternativo e non per questo meno meritevole di attenzione. Noi ci siamo, ci siamo stati e ci saremo ancora per tenere accesa la speranza di quanti, dopo vessazioni e umiliazioni, si aspettano un segno di riconciliazione nella giustizia da parte delle Istituzioni. *Imprenditore, componente direttivo Nessuno tocchi Caino I magistrati del coraggio raccontati al Centro studi americani di Roma Adnkronos, 1 marzo 2022 Magistrati che hanno sacrificato la loro vita per dare un futuro al nostro Paese, ma di cui frequentemente si ignorano perfino i nomi, quando invece “è sempre l’individuo che cambia le cose”. Così il magistrato Stefano Amore è intervenuto presso il Centro Studi Americani di Roma, presentando il libro, ‘Ritratti del coraggio. Lo Stato italiano e i suoi magistrati’, di cui è curatore ed in cui insieme ad altri colleghi ripercorre le vicende umane e professionali di 28 magistrati assassinati. Tra i presenti all’evento, Giulio Prosperetti, giudice della Corte costituzionale e il sottosegretario di stato agli affari esteri, Benedetto Della Vedova. Obiettivo del libro, secondo Amore, far sì che al di là della contingenza storica, i valori della legalità possano assumere un significato universalmente riconosciuto e condiviso nel mondo; motivo questo per cui “l’edizione in lingua italiana è stata affiancata da una edizione in lingua inglese del libro”. Tra le storie di coraggio emerge in particolare la descrizione della figura di Antonino Giannola, presidente del tribunale di Nicosia ucciso il 26 febbraio 1960, della cui figura era stato perso il ricordo. Solo nel dicembre del 2018, il suo nome è infatti stato inserito nell’elenco delle Rose Spezzate dell’Anm, che raccoglie i nomi dei magistrati uccisi. Il libro ‘Profili di coraggio’ illustra un “quadro che ci riempie di orgoglio, di magistrati che senza esitazione decisero di fare la cosa giusta”; fatto oggi “in congruenza all’esigenza reale del Paese di difesa, libertà, democrazia e stato di diritto”, commenta intervenendo alla presentazione il sottosegretario di stato agli affari esteri Benedetto Della Vedova ricordando che “i valori che hanno ispirato queste vite sono universali. Per molto tempo il nostro paese è stato considerato terra di mafia. In una narrazione stereotipata”, un immaginario distorto del nostro paese soprattutto guardando a chi “ha compiuto l’estremo sacrificio”. L’Italia piuttosto, ha ricordato Della Vedova, anche “grazie alla comprensione che Falcone ebbe della transnazionalità dei fenomeni delittuosi” è “un attore autorevole della diplomazia giuridica”, “paese destinatario di numerose richieste di assistenza tecnica”, in una “sapiente condivisione della cultura della legalità. Il virus e la guerra hanno rubato la nostra normalità di Sergio Harari La Repubblica, 1 marzo 2022 All’impatto psicologico della pandemia si somma quello della guerra alle porte di casa: i nostri cuori son o cambiati e non saranno mai più gli stessi. È finita la normalità. Il virus e Putin ce l’hanno rubata per sempre. Quel mondo senza guerre e senza pandemie che davamo per scontato e acquisito purtroppo non tornerà più. È finito in una sera di marzo di due anni fa quando un presidente del Consiglio stranito ci comunicò a reti unificate che le nostre vite entravano in lockdown, mentre le autostrade e le stazioni ferroviarie si erano già riempite di famiglie che cercavano di riunirsi prima che la pandemia le separasse o di uomini e donne che partivano per la guerra, quella che li attendeva nelle corsie degli ospedali. La normalità è finita quando la guerra, quella vera, quella dei carri armati e dei bombardamenti, è arrivata vicino a noi, di nuovo dopo oltre 70 anni e due generazioni, in Europa. Fino a oggi avevamo conosciuto solo gli echi di battaglie lontane, terribili ma lontane. Ora non è più così. I nostri figli, che hanno vissuto il distanziamento sociale, sentito le sirene delle ambulanze rompere il silenzio delle città in lockdown, sperimentato la Dad, ora, dall’oggi al domani, scoprono una nuova dimensione. Non solo la vita può cambiare per l’annuncio di un presidente del Consiglio a causa di un invisibile virus, ma anche per bombe, distruzioni e lutti che irrompono improvvisamente nelle nostre quotidianità. E sullo sfondo resta la preoccupazione per una ripresa dei contagi, non sappiamo quali ripercussioni avrà la guerra sulla pandemia ma la storia ci ricorda che la spagnola crebbe in ogni dove durante la Prima guerra mondiale. E anche le piazze europee così piene come non le vedevamo da tempo, da Berlino a Milano, accendono una luce di speranza che ci auguriamo si rifletta sull’Ucraina ma impensieriscono mentre il virus è ancora tra noi. Se l’impatto psicologico della pandemia è stato fortissimo per tutti ma particolarmente per bambini e adolescenti, a questo oggi si aggiunge quello devastante di un orrore che credevamo dimenticato nella storia della Seconda guerra mondiale. Bosnia e Erzegovina, così come la Georgia nel 2008, sono state esperienze drammatiche e terribili ma molti dei ragazzi d’oggi sono troppo giovani per averne un ricordo diretto e i più grandi l’hanno comunque vissuto come un conflitto locale che non avrebbe cambiato l’equilibrio complessivo mondiale. Invece il virus e l’Ucraina hanno destabilizzato non solo il mondo ma anche le nostre menti, e questo rimarrà per sempre. I nostri cuori sono cambiati e non saranno mai più gli stessi. Quella innocenza che derivava da una pace duratura e da un benessere acquisito è persa definitivamente. Le immagini di questi giorni che ci arrivano da Kiev con i palazzi sbriciolati da razzi e bombe e i feriti dal viso sfregiato, così come quelle delle bare di Bergamo sui carri militari e del Papa che prega nel deserto di piazza San Pietro, sono un trauma con il quale dovremo fare i conti per sempre. Il futuro non sarà più lo stesso, adesso che pace e salute si declinano solo al passato prossimo. L’umile sasso serve più delle armi di Dacia Maraini Corriere della Sera, 1 marzo 2022 Contro la Russia, più che le armi stanno funzionando le sanzioni; sta funzionando l’entusiasmo con cui cittadini comuni stanno decidendo di difendere il proprio Paese. Conta che il presidente Zelensky, invece di scappare, rimane sul posto rischiando la vita. Ma veramente pensiamo che mandando armi si possano aiutare gli ucraini e fermare Putin? Armi per uccidere, armi che feriranno e distruggeranno. Armi che costeranno una montagna di soldi. E se pensassimo a un modo più pacifico e solerte di spendere questi soldi? L’argomento è che la resistenza contro un invasore armato fino ai denti non può che essere aiutata con risorse militari. Un intervento armato diretto farebbe esplodere la terza guerra mondiale, quindi aiutiamo il piccolo Davide che si presta a combattere il Golia russo. Ma la domanda è: se si accetta la logica delle armi, non si finisce per fare il gioco dell’avversario? Già Putin parla di missili a testata nucleare. Se la scelta è quella di armi contro armi, cosa facciamo, inviamo agli ucraini altri missili a testata nucleare per rispondere a quelli russi? Più che le armi in effetti stanno funzionando le sanzioni; sta funzionando l’entusiasmo con cui cittadini comuni stanno decidendo di difendere il proprio Paese. Conta che il presidente Zelensky, invece di scappare, rimane sul posto rischiando la vita. Contano le parole dei dissidenti che criticano la politica di aggressione. Contano le manifestazioni antiguerra che riuniscono per strada migliaia e migliaia di giovani in tutto il mondo. Contano le immagini di morte sul campo di una guerra che pretende di aiutare il popolo ucraino, ma in effetti lo strazia e lo stermina. Insomma non sarebbe più efficace lavorare su quella che si chiama intelligence, ovvero sulla informazione, sulla conoscenza, su tecniche mirate che simbolicamente ricordano la strategia del piccolo Davide contro il gigante Golia? Davide, ricordiamolo, non ha impugnato una spada più tagliente di quella del colosso, ma ha scagliato una pietra che l’ha colpito in testa. È lì, proprio nella testa, che cambiano e si organizzano i pensieri. E i pensieri, le parole, il sentimento di giustizia calpestata, sono le armi più efficaci quando la forza bruta pretende di dominare e controllare. Insomma l’umile sasso, come ci hanno insegnato le tante guerre di resistenza, può mettere in crisi un colosso che dispone di soldi, armi, potere, ma manca di quella volontà emotiva che spinge un uomo o una donna a rischiare la vita per la libertà propria e del proprio Paese. Serve fermare subito le armi, non inviarle di Giacinto Botti e Maurizio Brotini* Il Manifesto, 1 marzo 2022 Serve una conferenza sull’Europa per ristabilire un equilibrio nel continente. La Cgil darà il suo contributo per la pace. Nel cuore dell’Europa, ancora una volta, si è uccisa la Pace. La folle guerra va fermata. Prima di tutto la Pace, la libertà e l’autodeterminazione dei popoli. Non ci trascineranno ad indossare l’elmetto, non saremo mai tifosi o partecipi di una guerra cruenta che si doveva e si poteva evitare in questi trent’anni con la politica, la diplomazia, il negoziato, con la lungimiranza di chi ricopre ruoli istituzionali nazionali e internazionali. Resteremo persone pacifiche, pensanti e rifuggiremo il manicheismo, la retorica dei guerrafondai, l’opportunismo ipocrita e vigliacco di coloro che facevano e fanno affari con gli oligarchi di quel paese, che esprimono il peggio del liberismo, selvaggio e antipopolare sulle spalle dei lavoratori e di gran parte del popolo russo. Siamo stati contro il massacro della guerra nell’ex Jugoslavia, contro chi erroneamente la considerava una “contingente necessità”, contro l’intervento armato in Afghanistan e in Iraq, contro tutte le altre guerre mistificanti, fatte per interessi e motivi di dominio. Questa aggressione non avviene come un fulmine a ciel sereno ma, come dice il nostro segretario generale Maurizio Landini, “fa parte di una strategia precisa che è figlia di un crescendo di logiche populiste, sovraniste e nazionaliste degli ultimi anni”. La priorità è far tacere le armi, far vivere e imporre la politica e il negoziato, inviare aiuti alimentari e sanitari, aprire corridoi umanitari ai profughi, esprimere vicinanza e solidarietà al popolo sotto bombardamento, applicare pesanti sanzioni mirate a colpire le oligarchie e gli affari e non la popolazione. È sbagliato e incomprensibile che l’Europa, e soprattutto l’Italia, che nella sua Costituzione “ripudia la guerra”, abbiano deciso di inviare armi e sostegno militare all’Ucraina, dando persino parere favorevole alla costituzione e all’intervento di fantomatiche “brigate internazionali”: così si entra direttamente in guerra, si incentiva e si prolunga la natura armata dello scontro, si amplia il conflitto e la sofferenza di un popolo, sino alle inimmaginabili conseguenze di un possibile utilizzo delle armi atomiche. Le armi non sono la soluzione, ma benzina sul fuoco distruttivo disumano della guerra, dove a pagare il prezzo più alto saranno ancora la parte più povera della popolazione, i bambini e le persone più deboli. Siamo, come Cgil, per lottare, manifestare per la Pace contro la guerra, insieme a tutte le associazioni pacifiste, ambientaliste, antifasciste, con tutte e tutti coloro che ripudiano la guerra. Nella tragica situazione bisogna scegliere la strada del disarmo, a partire da quello nucleare, abiurando la pazzia della corsa al riarmo anche in paesi come la Germania che finora avevano fatto una scelta diversa. Siamo per un rilancio del valore dell’internazionalismo del movimento dei lavoratori, per la riconversione produttiva delle fabbriche di armi, contro i profitti enormi della loro commercializzazione. Non si investano le risorse economiche europee per gli armamenti ma per il progresso, la giustizia sociale e la civiltà! Questa guerra, come altre, per dirla con Gino Strada “piace a chi ha interessi economici, che se ne sta ben distante dalle guerre. Le guerre vengono dichiarate dai ricchi e dai potenti che poi ci mandano a morire i figli dei poveri”. Non ci rassegniamo alla guerra e vogliamo riappropriarci della Pace. Siamo per l’utopia del possibile e, come diceva il Presidente Pertini, siamo fermamente, convinti che occorre “svuotare gli arsenali e riempire i granai”. Vogliamo costruire il progresso reale e la giustizia sociale, e consegnare la vivibilità e la bellezza del nostro pianeta e un futuro migliore alle nuove generazioni. Dobbiamo mobilitarci per l’immediata convocazione di una nuova Conferenza per la pace e la sicurezza in Europa. La Pace si fa togliendo spazio alle armi, con il riconoscimento e il dialogo tra tutte le parti in causa. La Cgil tutta saprà, come sempre, dare voce e rappresentanza al patrimonio umano, di civiltà e di solidarietà tra uguali che innerva ancora il paese, per contribuire ad affermare la pace e i principi fondanti della nostra costituzione. *Direttivo Nazionale Cgil La corsa alla cannabis terapeutica e per produrla ora arrivano i privati di Michele Bocci La Repubblica, 1 marzo 2022 Consumi quadruplicati, lo Stato non riesce a sostenere la domanda. Ad aprile i bandi per coinvolgere le imprese. La crescita del consumo prosegue anche nel 2021, non è stata scalfita nemmeno dalla pandemia. I medici italiani prescrivono sempre più cannabis terapeutica a sempre più pazienti e diventa ormai urgente avere una produzione nazionale più importante della attuale, che riduca le spese e che cancelli anche i rischi di blocchi nelle consegne, avvenuti anche di recente. In una parola bisogna puntare all’autonomia. I dati sulla distribuzione della cannabis per uso medico nel 2021 sono appena arrivati. Ebbene, in quattro anni il consumo è quasi quadruplicato. Nel 2017 i chili erano 351, l’anno scorso sono stati 1.271, che significa oltre 5 milioni e mezzo di dosi da 0,25 grammi. La prospettiva per quest’anno è ovviamente di aumentare ancora e arrivare a circa una tonnellata e mezzo di fiori di marijuana consumati. “Si tratta di una stima troppo bassa - dice Santa Sarta, del Comitato pazienti cannabis medica - Già adesso secondo i nostri calcoli servirebbero tre tonnellate. E infatti in molte zone del Paese il farmaco manca”. In Italia la produzione di marijuana terapeutica è affidata all’Istituto farmaceutico militare di Firenze, che però non riesce a sostenere la crescita della domanda. L’anno scorso ha prodotto circa 150 chili e grazie anche ai finanziamenti di ministero alla Salute e alla Difesa quest’anno riorganizzerà il sistema di coltivazione per arrivare a 300 chili. Ancora troppo pochi. L’Italia infatti è costretta ad importare i fiori della canapa, soprattutto dall’Olanda a 5 e 10 euro al grammo. Il ministro alla Salute Roberto Speranza ha detto che bisogna rimediare alle carenze anche cercando altri produttori. L’idea è quella di coinvolgere privati italiani, che coltiverebbero la marijuana terapeutica per poi inviarla a Farmaceutico fiorentino per le lavorazioni finali. Visto che si tratta di un medicinale deve essere standardizzato, cioè sempre uguale a se stesso, al di là dove è stato coltivato. “Entro aprile faremo i bandi per trovare i privati con i quali collaborare”, spiega il sottosegretario alla Salute Andrea Costa. I candidati non mancheranno. Tra questi potrebbe esserci il Consorzio agricolo Bio Hemp Farming di Cerignola (Foggia). Il presidente, Pietro Paolo Crocetta, spiega che “siamo stati i primi, nel gennaio dell’anno scorso, ad avere l’autorizzazione a produrre per il settore farmaceutico”. L’azienda coltiva marijuana con il solo cbd, il principio attivo non inserito nella lista degli stupefacenti. Nella cannabis che oggi è considerata un farmaco c’è anche il thc. È questa che sarà messa a bando. “Bisogna fare una coltivazione indoor, in ambiente controllato, quindi più complessa. Valuteremo le condizioni del bando”. Mentre si cerca di aumentare la produzione, i pazienti aspettano. “In Italia sono sei le patologie per le quali, in base a quanto previsto dal decreto Lorenzin, la cannabis è gratuita - spiega di nuovo Santa Sarta. Per altre, come l’epilessia, si pagano circa 9 euro al grammo in farmacia. Ma il problema non è solo questo. Noi vogliamo che la produzione aumenti, perché ci sono periodi, come adesso, nei quali è difficile trovare la cannabis”. Santa Sarta è una paziente. “La uso per l’artrite psorisiaca e per l’anoressia - spiega. Consumo 60 grammi al mese con il vaporizzatore. Senza non saprei proprio come fare. Il problema è che ci sono ancora tanti malati, soprattutto colpiti dal dolore cronico, che ancora non conoscono questo farmaco perché i medici non glielo prescrivono. I pazienti trattati potrebbero essere ancora di più”. Le guerre scatenate dai tiranni dove la libertà di stampa non c’è di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2022 L’informazione, uno dei principali contropoteri, aiuta a mantenere salubre l’aria democratica dei Paesi, quando viene eliminata o compressa rischia di svilupparsi la muffa della violenza. Nel 2021 il premio Nobel per la pace è stato assegnato a Maria Ressa, reporter filippina e a Dmitry Muratov, caporedattore di Novaya Gazeta, uno dei pochi giornali russi non asserviti e dunque oggetto di violenze e minacce, “per i loro sforzi per salvaguardare la libertà di espressione, che è precondizione per la democrazia e per una pace duratura”. In precedenza, una sola volta il premio era stato assegnato a un giornalista: nel 1935 a Carl von Ossietzky, all’epoca già detenuto in un campo di concentramento, perché fiero oppositore fin dalle origini del nazismo. Non potrà ritirare il premio e morirà detenuto tre anni dopo. Oggi, che la guerra è ritornata nel cuore dell’Europa, questo parallelismo fa una certa impressione. Il regime russo, è cosa nota, si è distinto per la repressione violenta della stampa e d’altra parte la circostanza non stupisce: tutti i Paesi autocratici sono naturalmente ostili a ogni sistema di contropoteri. E quindi scompaiono o vengono zittiti i partiti di opposizione, gli organi amministrativi di controllo, la magistratura indipendente. Con essi anche il più parcellizzato, il più diffuso e quindi anche il meno controllabile dei contropoteri: la libera stampa. Questa viene sostituita dall’apparato di informazione del regime, ove fioriscono a profusione incredibili affermazioni propagandistiche, sulla scorta delle quali giustificare, agli occhi della propria gente, le peggiori nefandezze. Accade nei periodi di pace, accade, a maggior ragione, quando la violenza prende il posto del dialogo e della diplomazia.Si tratta del terreno di coltura ove più facilmente il potere, lasciato libero di espandersi senza limiti, degenera nelle sue forme più odiose e più pericolose, come dimostra la tragica cronaca di questi giorni. E così una mattina giunge la notizia peggiore: un dittatore piega al proprio personale disegno di potenza la cronaca e la storia, fino alla terribile scelta di dare il via a una invasione, battezzandola con feroce eufemismo “operazione militare speciale”. D’altra parte, non bisogna essere né storici né esperti di politica internazionale per sapere che una guerra di aggressione è scatenata assai più di frequente da un tiranno che da una democrazia. Le democrazie, quando sono tali, si difendono o reagiscono, difficilmente assumono iniziative belliche per mera volontà di conquista. Non che sia impossibile, intendiamoci, ma è più raro. E ciò, con ogni probabilità anche perché quando un ordinamento non solo lascia spazio, ma si contraddistingue per l’esistenza di poteri e contropoteri, nel contraddittorio fra essi le prepotenze si stemperano. Quando poi l’informazione non è schiacciata dal politico in carica, ma anzi ne vaglia con severità le scelte, di solito l’opinione pubblica non permette opzioni autodistruttive in nome di una retorica greve ispirata da fini secondi, a volte puramente ideologici, a volte frutto di deliranti costruzioni di ego marmorei. Di fronte a queste derive ripetutesi ora e che non sono una novità se sfogliamo il libro dei fatti del passato, quali risposte ci si dovrebbe attendere dall’Europa e in generale dalle democrazie occidentali? Non spetta a noi dirlo, se parliamo di reazioni immediate. In materia diplomatica o di politica estera e militare non abbiamo alcun titolo per esprimerci. Tuttavia un suggerimento più generale, da applicare nel medio e nel lungo periodo, ci sentiamo di esprimerlo. Forse, invece di “esportare la democrazia” come qualcuno ha cercato di fare, utilizzando la forza, negli anni passati, si potrebbe tornare a rivendicare con un certo qual orgoglio i nostri ordinamenti. Certamente complessi, non sempre efficienti, ma dotati di quell’articolato sistema di pesi e contrappesi che costituisce il principale antidoto alla china verso il sopruso di Stato. Parte indispensabile del sistema è proprio la tendenza alla creazione delle condizioni migliori per lo sviluppo di un discorso pubblico il più autorevole, indipendente e plurale possibile. Questo carattere, preziosa eredità della cultura europea, dovrebbe essere mostrato con fierezza e semmai veicolato il più possibile ove assente. Perciò l’oppressione della stampa, cui a volte si guarda con troppa sufficienza, quando accade in realtà lontane, è viceversa fenomeno pericolosissimo. In quello stesso terrario nasce il germe che infetta la società, creando un contesto in cui proliferano forze distruttive. Insomma, la voce che denuda il re è il migliore amico del popolo. Parafrasando Michele Serra anni fa, su tutte le terre oppresse dalle dittature bisognerebbe organizzare il più grande lancio di libri, e aggiungiamo noi di giornali, della storia. E forse, grazie alle moderne tecnologie, per questo lancio non è necessario mobilitare l’aviazione ma basterebbe un gruppo di bravi informatici. Le piazze russe contro la guerra sono un punto di svolta di Andrea Borelli* Il Manifesto, 1 marzo 2022 No war. Il forte messaggio della protesta non è un evento scontato, ma un segnale per una Europa di pace. E dice che quel Paese non è semplicemente Putin e il suo regime. La situazione in Ucraina è drammatica. L’invasione russa ha trovato l’opposizione fiera dei cittadini ucraini, un’opposizione in grado di rallentare i russi. L’Europa ha reagito con dure sanzioni e con l’invio di armi in Ucraina, una decisione che renderà più duro il conflitto ma resa necessaria per impedire la capitolazione ucraina e aumentare la pressione su Mosca. Inoltre, l’avvio dei negoziati tra le parti apre un primo spiraglio di pace. Preso atto della doverosa durezza iniziale che bisognava mostrare al Cremlino, per l’Europa ora la parola d’ordine da rivolgere alla Russia deve essere: cessate il fuoco. È questa una precondizione imprescindibile per evitare una lunga guerra dai costi umanitari enormi e una escalation disastrosa che potrebbe portarci fino ad un conflitto aperto Nato-Russia. C’è qualcosa su cui varrebbe la pena porre attenzione in Europa per definire una strategia di pace: le proteste nelle piazze russe. Al grido di “No alla guerra!” e “Sono i nostri fratelli” in migliaia sono scesi per le strade di numerose città. Centinaia sono invece gli studiosi appartenenti a diverse istituzioni accademiche russe che hanno sottoscritto un durissimo documento di condanna verso la guerra del Cremlino. Memorial, Novaja Gazeta e altri hanno assunta la stessa posizione contro il conflitto. Sono eventi non scontati. Parliamo di un paese retto da un regime autoritario, dove non è possibile mostrare apertamente dissenso sulla linea del Cremlino pena il rischio per la propria stessa incolumità. La guerra peggiora questo quadro, perché come capita sotto tutti i regimi (tanto più quelli autoritari), quanti si oppongono allo sforzo bellico del proprio paese vengono visti dal potere come disfattisti, traditori o peggio ancora agenti stranieri. Allora le manifestazioni russe assumono un significato ancora più importante. Sono ragazzi e ragazze, giovani e meno giovani che scendono in piazza sapendo che saranno probabilmente arrestati. Persone che firmano appelli o prendono posizioni pubbliche consapevoli che potrebbero perdere il loro posto di lavoro o peggio. Questi eventi ci ricordano una cosa, la Russia non è semplicemente Putin e il suo regime. Forse il presidente russo pensa il contrario, forse come tutti gli uomini di potere, crede di essere lui il paese e di incarnarne la Volontà. Non è così. Non ci sono state manifestazioni di giubilo per l’invasione dell’Ucraina o un pubblico e generalizzato moto di orgoglio Grande-russo, come invece era successo per l’annessione della Crimea. C’è una Russia in quelle piazze che capovolge la lettura storica di Putin: è vero, i russi e gli ucraini hanno legami secolari, per questo però una guerra tra i due popoli è moralmente inaccettabile. Quelle piazze ci ricordano che Putin non è eterno, che una Russia diversa c’è già, nonostante tutto, che una Russia senza Putin è possibile. Non bisogna illudersi, il regime di Putin non scomparirà da un giorno all’altro. Eppure è meno solido di quanto alcune semplicistiche comparazioni storiche non lascino intendere. È più fragile, ad esempio, di quanto non fosse il potere sovietico, che pure è poi crollato. Quella Russia, dunque, che non vuole la guerra va sostenuta, aiutata e supportata con tutti i mezzi. A quella Russia non bisogna creare terra bruciata attorno, evitando che il conflitto diventi cruento tanto da rendere sempre più difficile per i russi riconoscere negli ucraini i propri fratelli e viceversa. In tutto questo la risposta dell’Europa non può essere semplicemente “più Nato, più armi, più sanzioni”. È necessario costruire e proporre da subito un’alternativa di pace per il continente europeo. Dobbiamo metterci del nostro, ragionando sui limiti dell’Unione Europea odierna nonché sul rapporto presente e futuro tra Nato e sicurezza europea: l’Ue come l’abbiamo costruita non ha una sua politica estera e di sicurezza, si è deresponsabilizzata affidando esclusivamente all’Alleanza atlantica questa funzione. Ci ha fatto notare con arguzia Michael Moore che gli statunitensi sono stanchi delle guerre e non vogliono uno scontro aperto con Mosca. Le tante manifestazioni pacifiste hanno testimoniato la diffusione globale di questi sentimenti. Ecco, perciò, l’importanza di una Russia diversa capace di intraprendere un percorso di disarmo dell’Europa, una Russia che noi dobbiamo contribuire a costruire e sostenere già ora. Sarebbe fatale pensare alla Russia come un paese solo da punire, senza distinguere tra il popolo russo e il suo regime politico. Sarebbe drammatico isolare i tanti russi che lottano con coraggio contro il regime e la guerra, lasciandoli soli o favorendo implicitamente la loro repressione in nome di logiche di guerra. L’Unione Europea può configurarsi come potenza democratica in grado di rispondere con durezza alla violazione del diritto internazionale e alla sovranità dei paesi europei. Deve anche, e le piazze russe le danno una sponda, costruire una Europa di pace in cui tutti i paesi liberi e democratici possano lavorare per la sicurezza comune. *Storico, autore del libro Gorba?ëv e la riunificazione della Germania, Viella, 2021 Iraq. Nei villaggi yazidi iniziano le esumazioni dalle fosse comuni di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 1 marzo 2022 La settimana scorsa, centinaia di persone che avevano perso almeno un parente nel genocidio compiuto dallo Stato islamico nel 2014 contro la comunità yazida si sono raccolte nel villaggio di Hardan, per accompagnare con la preghiera la ripresa delle esumazioni da sei fosse comuni. Le operazioni erano iniziate alla fine del 2019, ma erano state presto interrotte a causa della pandemia. La zona è sul lato nord dei monti del Sinjar, nella provincia irachena di Ninive. Qui, nell’estate di otto anni fa, lo Stato islamico fece terra bruciata, e non è un modo di dire: vennero uccisi almeno 5000 uomini adulti e adolescenti e almeno 7000 donne, ragazze e bambine furono trasferite nelle zone dell’Iraq e della Siria allora conquistate dallo Stato islamico e ridotte in schiavitù sessuale. Il lascito del genocidio degli yazidi è una ferita ancora aperta. Le persone sopravvissute, soprattutto le donne, patiscono ancora le conseguenze fisiche e psicologiche della loro compravendita e della violenza sessuale di massa. A distanza di quasi otto anni, mancano all’appello oltre 2700 yazidi. Nel villaggio di Hardan furono rapite 362 persone, 132 delle quali risultano ancora scomparse. Nelle sei fosse comuni di Hardan sono stati individuati 131 corpi, o meglio ciò che è rimasto di loro: questi resti verranno portati a Baghdad e abbinati, grazie alle tecniche del Dna, alle famiglie di appartenenza per una sepoltura degna. Nella zona intorno ai monti del Sinjar sono state localizzate 82 fosse comuni. Le esumazioni sono condotte dal governo iracheno, in coordinamento col Governo regionale curdo e sotto la supervisione dell’Unitad, il Team investigativo delle Nazioni Unite per l’accertamento delle responsabilità dei crimini commessi dallo Stato islamico.