Il Dipartimento chiave che gestisce le carceri, crocevia di soldi e parole di Giulia Merlo Il Domani, 19 marzo 2022 Il Dap è un luogo centrale per ragioni economiche: è il dipartimento con maggior bilancio nel ministero della Giustizia, con oltre 3 miliardi l’anno. Qui circolano informazioni, dalle voci dei detenuti comuni alle intercettazioni di quelli al 41 bis. Inoltre la gestione dei detenuti in regime di carcere duro è un potere centrale nella giustizia penale. Una buona dimostrazione di come questo potere possa generare cortocircuito è rappresentata dal caso delle dimissioni del vertice, Francesco Basentini, e la polemica che ne è derivata tra l’allora ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e il consigliere del Csm Nino Di Matteo. La nomina di Carlo Renoldi, invece, cambia il paradigma: supera la regola non scritta per cui storicamente il ruolo di capo del Dap è stato rivestito da procuratori, molti dei quali con un passato nell’Antimafia. Inoltre, è portatore di una visione “progressista” in favore della riforma del 41bis e carcere ostativo. Come tutti gli acronimi, per pochi Dap significa qualcosa. Per quella nicchia, composta da magistrati, direttori di carcere, detenuti, polizia penitenziaria e dirigenti ministeriali, però, il vertice del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è la poltrona più ambita all’interno del ministero della giustizia. Formalmente si tratta di uno dei quattro dipartimenti - insieme a quello dell’organizzazione giudiziaria, per gli affari di giustizia e per la giustizia minorile e di comunità - che formano il ministero di via Arenula. Nei fatti, però, è un luogo nevralgico per una serie ragioni. La prima è di natura economica: il Dap è il dipartimento che amministra la maggior quantità di risorse, con un bilancio 2021 di circa 3,1 miliardi di euro, che equivalgono al 35 per cento del bilancio del ministero della Giustizia. Un volume imparagonabile a quello degli altri dipartimenti, e la cifra è cresciuta progressivamente con un aumento quasi del 20 per cento rispetto al 2017, quando il bilancio era di 2,6 miliardi. I fondi vengono spesi per la gestione del personale amministrativo e dei magistrati; polizia penitenziaria; edilizia penitenziaria e manutenzione; accoglienza, mantenimento e reinserimento dei detenuti. Questo significa che il vertice del Dap è il terminale che sovrintende a spese e investimenti, con il loro effetto a cascata. Il dipartimento, infatti, gestisce la vita carceraria dei circa 60 mila detenuti e a quella professionale dei circa 40 mila agenti della polizia penitenziaria. Il suo vertice è anche a capo del corpo e dunque è equiparato a un comandante generale, così che il suo stipendio è tra i più alti dentro l’amministrazione: 320mila euro l’anno (ma prima del tetto sugli stipendi toccava i 550mila euro l’anno). La struttura penitenziaria, infatti, è piramidale e non decentrata: il ministero fissa gli obiettivi a cui il Dap da attuazione pratica attraverso le direttive e l’allocazione dei fondi, declinandola attraverso tre direzioni generali e i provveditorati regionali. La seconda ragione, invece, è più sottile. Il carcere è nevralgico per lo Stato perchè è un luogo di trattativa, dove la moneta di scambio sono le informazioni. Il dipartimento che lo amministra quindi diventa il crocevia da cui queste arrivano, passano e vengono smistate ai vari mondi contigui. Informazioni che possono essere solo “voci” interne, ma anche vere e proprie intercettazioni e informative che provengono dai detenuti nel regime di “carcere duro”, il 41bis e che provengono da un reparto appositamente formato dentro la polizia penitenziaria. Il Gom, il gruppo operativo mobile, risponde direttamente al capo del Dap che per questo dialoga con la direzione nazionale antimafia e le sue articolazioni, i vertici delle procure e anche i servizi di intelligence. L’ultimo livello, infine, è strettamente legato al regime di carcere duro disciplinato dal 41bis. Dal dipartimento, infatti dipende l’organizzazione della detenzione dell’alta sicurezza: ogni decisione sui cosiddetti gruppi di socialità (come la formazione dell’elenco delle compatibilità tra gruppi criminali nelle strutture), la mobilità di questi detenuti tra le strutture, con trasferimenti e allocazioni. Un potere enorme all’interno della galassia penale e penitenziaria, che rende il Dap un punto nevralgico. Una buona dimostrazione di come questo potere possa generare cortocircuito è rappresentata dal caso delle dimissioni del vertice, Francesco Basentini, in seguito alle proteste in carcere e alle cosiddette “scarcerazioni facili” durante il Covid nel 2020. All’epoca il consigliere del Csm e magistrato antimafia Nino Di Matteo aveva raccontato che l’allora ministro Alfonso Bonafede aveva offerto a lui il posto al capo del Dap, ma che - dopo il suo sì - il ministro gliela aveva negata per darla a Basentini. Di Matteo aggiungeva anche che, contestualmente al ripensamento di Bonafede, sarebbero arrivate informazioni dal Gom alla procura nazionale antimafia secondo cui “la reazione di importantissimi capimafia, legati anche a Giuseppe Graviano e altri stragisti, all’indiscrezione che potessi essere nominato capo del Dap era che “se nominano Di Matteo è la fine”. L’allusione è che Bonafede abbia fatto il passo indietro perché temeva reazioni mafiose: lui ha sempre negato di aver ricevuto pressioni di qualsiasi genere. Tuttavia, non è mai stato chiarito né perché Di Matteo abbia aspettato due anni - dal 2018 al 2020 - per raccontare i fatti né la ragione della ritrattazione di Bonafede. La nomina di Renoldi - Proprio la rete di potere che ruota intorno al Dap spiega in parte le ragioni della polemica intorno alla nomina del consigliere di Cassazione ed ex magistrato di sorveglianza vicino a Magistratura democratica, Carlo Renoldi. Un nome lontano dalla ribalta mediatica e considerato di rottura: Renoldi, infatti, supera la regola non scritta per cui storicamente il ruolo di capo del Dap è stato rivestito da procuratori, molti dei quali con un passato nell’Antimafia. Inoltre, è portatore di una visione “progressista” in favore della riforma del 41bis e carcere ostativo e, nel corso di un convegno del 2020, ha utilizzato parole controverse nell’indicare l’esistenza di una parte di antimafia “militante arroccata nel culto dei martiri”. La scelta della ministra è arrivata come un fulmine a ciel sereno, dopo le dimissioni del magistrato antimafia Dino Petralia, ufficialmente per dedicarsi alla famiglia. Ufficiosamente, invece, fonti interne al Dap parlano di contrasti proprio con il ministero. La scelta di Renoldi, infatti, è diventata subito un caso politico e anche di politica giudiziaria. Dalla maggioranza sono piovuti attacchi da parte di Lega e Movimento 5 Stelle, a cui si è associata anche Fratelli d’Italia. Anche da parte della magistratura associata e del Csm - chiamato a votare la collocazione fuori ruolo del collega - si sono alzate voci critiche: una delle più critiche, quella di Nino Di Matteo che ha parlato di “delegittimazione grave perfino del Dipartimento che ora è chiamato a dirigere e quindi i suoi appartenenti”. Ai più attenti, inoltre, è suonato come critico anche il silenzio della Direzione nazionale antimafia. Nessuna richiesta di ripensamento, però, è servita: la ministra Marta Cartabia ha fatto valere il fatto che quella al Dap è una nomina fiduciaria e in questo ha trovato la sponda anche del presidente del Consiglio, Mario Draghi. Nonostante le contrarietà iniziali, infatti, il consiglio dei ministri ha votato all’unanimità la nomina. L’intento di questa scelta da parte della ministra sembra quello di voler cambiare il paradigma sul carcere: dal focus principale sul carcere duro a quello dei detenuti ordinari, che sono oltre il 90 per cento. Una visione, questa, che torna anche nella lettera che Renoldi ha indirizzato alla ministra nei giorni della polemica: la piaga della mafia non può “far dimenticare che in carcere sono sì presenti persone sottoposte al 41bis, ma la stragrande maggioranza è composta da altri detenuti. A cui vanno garantite carceri dignitose, come ci ha ricordato il capo dello Stato”. “Un edificio in fiamme” - Eppure, anche su questa visione di carcere esistono varie posizioni nel variegato mondo della giustizia. Il consigliere del Csm, Sebastiano Ardita, che durante il voto su Renoldi aveva definito la realtà carceraria “un edificio in fiamme”, dice che “il carcere è il luogo dal quale lo Stato parla alla criminalità. Per realizzare la scommessa sociale della rieducazione, però, servono regole e sicurezza, altrimenti si regalano spazi che vengono assorbiti dalla gerarchia criminale. E oggi l’unica zona regolata è quella del 41bis, il resto sta scivolando nell’anarchia”. Per questo indebolire il 41bis rischia di allargare una crisi del carcere ancora più grande. Inoltre, esiste anche il rischio inverso: distogliere l’attenzione dalle sezioni 41bis potrebbe trasformarle in “reparti incubatori” in cui testare misure detentive ancora più restrittive, che poi si diffondono a cascata nelle carceri miste in cui ci sono anche detenuti comuni. L’esperienza carceraria, infatti, insegna che nelle strutture dove sono presenti detenuti al 41bis tutto tende a prendere quell’impronta, anche per chi a quel regime non è sottoposto. La sintesi è impossibile e apre davanti al neonominato Renoldi una sfida: gestire un grande potere, bilanciando le pressioni che ne derivano con la volontà riformatrice della ministra per un “carcere dei diritti”. Letta: “Le carceri? Una grande questione di civiltà” di Liana Milella La Repubblica, 19 marzo 2022 E i dem fanno quadrato su Renoldi a capo del Dap. “Non dobbiamo avere paura di dire che siamo contro il populismo giudiziario” dice la responsabile Giustizia dei dem Rossomando che a Torino organizza una Agorà democratica e lancia lo slogan sulla “prigione a misura di Costituzione”. “Un carcere rispettoso della Costituzione”. Dice così il segretario del Pd Enrico Letta, e con lui tutti i Dem che fanno quadrato sulla nomina del giudice Carlo Renoldi al vertice del Dap. All’indomani del voto unanime del consiglio dei ministri - compreso quello di M5S che pure dopo ha protestato - la responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando organizza a Torino, dove fa l’avvocato e dove è stata eletta, la prima Agorà democratica dedicata alle carceri. Ce ne saranno altre in giro per l’Italia. Accanto a lei l’ex sottosegretario alla Giustizia, il costituzionalista Andrea Giorgis, e il senatore Franco Mirabelli, entrambi convinti che è tempo di archiviare per sempre le teorie del “marcite in galera”. E a chi gli ricorda - come fa l’ex magistrato torinese Paolo Borgna - che “il governo Gentiloni ebbe paura di portare avanti il progetto di riforma delle carceri di Glauco Giostra su cui all’ultimo consiglio dei ministri, per timore di reazioni, si fece marcia indietro” - era il 4 marzo del 2018 e le elezioni erano alle porte -, adesso il Pd risponde che questo non succederà più. “Sul carcere c’è il supporto del partito a livello nazionale - garantisce Letta - e quando, nella prossima legislatura, saremo al governo un pochino di più di come lo siamo adesso e saremo in grado di mettere delle priorità chiare, quella del carcere sarà una di quelle”. Per adesso il Pd saluta la nomina di Renoldi come di una buona mossa. Di cui Mirabelli, vice capogruppo al Senato, parla come di un segnale per chiudere con frasi come “buttare la chiave”. “Il suo è un incarico complicato, ma Renoldi ha la nostra fiducia, e la sua attenzione ai principi costituzionali gli permetterà di governare il Dap”. È quello che sostiene anche Walter Verini quando parla di una nomina che contribuirà a realizzare una politica “per garantire la sicurezza dentro le carceri e, insieme, rafforzare nella gestione penitenziaria i principi della Costituzione, tesi a una pena non solo afflittiva, ma in grado di garantire trattamenti umani per recuperare chi ha sbagliato, e reinserirlo nella società”. All’Agorà democratica del Pd si succedono le voci di chi conosce e vive nelle carceri, dal Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, al Garante del Lazio Stefano Anastasia, al presidente di Antigone Patrizio Gonnella, a Ornella Favero di Ristretti orizzonti, a Lucia Castellano, l’ex direttrice di Bollate, divenuta direttrice generale dell’esecuzione penale esterna di via Arenula, nominata anche dalla Guardasigilli Marta Cartabia provveditrice reggente della Campania. E proprio Castellano parla di quelle “69.785 persone che scontano la pena in esecuzione penale esterna” e della riforma penale di Cartabia che mette in pratica la via delle pene alternative e della giustizia riparativa, di cui la stessa Cartabia, ancora una volta, ha parlato ieri a Brescia. Dunque non è il carcere del M5S quello che ieri ha raccontato a Torino il Pd facendo parlare tutti coloro che sono contrari alla politica del “buttare la chiave”. Rossomando su questo è nettissima: “Per noi l’espiazione della pena non è solo il carcere. Vogliamo uscire da un’impostazione che lo considera come il luogo della rimozione e della segregazione. E dobbiamo sconfiggere quest’idea populista attraverso interventi che, da un lato, non considerino il carcere come l’unica risposta, e dall’altro con politiche che incidano sul lavoro, sulla formazione e sulla salute. Vogliamo essere concreti perché la politica esiste per trovare soluzioni ai problemi”. La sfida del Pd è quella di riaprire la partita della riforma dell’ordinamento penitenziario “con una cultura delle garanzie vera e non a corrente alternata, come talvolta ci capita di vedere”. Ma ci sono gli uomini per farlo? Il Garante dei detenuti di Firenze Eros Cruccolini fa notare che “in via Arenula manca adesso un sottosegretario che si occupi di carceri”. Poco prima lo ha detto Giorgis, che nei due governi Conte, con Alfonso Bonafede Guardasigilli, aveva proprio questo ruolo. E come ha ripetuto anche ieri, “girando le carceri una per una ho scoperto un mondo”. Che adesso gli fa dire: “Un carcere fedele all’articolo 27 della Costituzione non solo è più umano, ma garantisce tutta la società”. E ancora: “Il carcere è una realtà complessa, difficile, chiusa, che tuttavia non possiamo considerare separata ed estranea alle nostre comunità, soprattutto se vogliamo rendere la pena davvero rieducativa e tutelare così la sicurezza di tutti i cittadini. Dare piena ed effettiva attuazione alla finalità rieducativa della pena riduce la recidiva e si traduce in beneficio per l’intera collettività”. Giorgis parla anche della pandemia, e di quello che i detenuti hanno patito in carcere. E Mirabelli rilancia una proposta per cui si è battuto fortemente durante la conversione dei decreti Covid nel 2020, e cioè “aumentare lo sconto di pena da 45 a 75 giorni ogni sei mesi per riconoscere la fatica fatta dai detenuti”. Perché anche Mirabelli, come gli altri del Pd, è convinto che “il carcere del buttare la chiave” fa solo il gioco della criminalità. Perché proprio il carcere, come documenta con tanto di numeri chi ci passa le giornate dentro, non è solo il mondo dei boss e della mafia. Ecco l’analisi di Mauro Palma, il Garante nazionale delle persone private della libertà: “Ad oggi ci sono 1.246 detenuti che scontano un residuo di penna inferiore a un anno, e questo ci consegna l’immagine di come al carcere venga assegnato un compito che non può affrontare da solo”. Ma non basta, ecco un altro dato su cui riflettere: “Sempre a oggi ci sono nelle carceri 9.608 detenuti in alta sicurezza e 741 al 41bis su una popolazione di 54.685 persone”. Palma consiglia la politica si “spostare l’attenzione su questa maggioranza di 40mila persone destinate a rientrare nella società”. Con una frase a effetto Palma dice che “ogni persona detenuta ha diritto a un tempo che non sia vuoto, perché altrimenti alla privazione della libertà si aggiunge un ulteriore elemento aggravante. E tutti dobbiamo chiederci se, dopo due anni di chiusura per via del Covid, quella penalità non possa essere sanata”. Per esempio con la liberazione anticipata di cui parla Mirabelli. Bisogna ascoltare chi vive nel mondo degli istituti di pena come scelta di vita. Come Favero di Ristretti orizzonti quando dice che “il carcere cattivo non serve a niente” e racconta di aver ricevuto la lettera di un detenuto che le scrive così: “Sono diventato un fascicolo vivente”. “Il carcere peggiora le persone e toglie loro umanità” dice Favero, e chiede anche lei la “liberazione speciale dopo due anni di Covid”. Per dirla con Gonnella di Antigone “il linguaggio della politica deve tornare a Beccaria, dipinto come un mostro da cui allontanarsi. E la pena dev’essere rispettosa della dignità umana”. E la polizia penitenziaria sotto accusa dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere? “Non è quella russa o brasiliana - dice Gonnella - e non va militarizzata come se dovesse andare al fronte, usando il taser nelle carceri”. Le voci che chiedono un carcere proprio come quello che il nuovo capo del Dap Renoldi ha raccontato nei suoi interventi - il carcere secondo Costituzione - si susseguono. Citiamo le parole di Stefano Anastasia, il Garante dei detenuti del Lazio: “Il Pd dovrebbe prendere sul serio le due frasi sul carcere che Sergio Mattarella ha pronunciato nel suo discorso di reinsediamento quando ha detto che la dignità di un Paese si misura su istituti di pena che non siano affollati e che garantiscano il reinserimento dei detenuti, perché questa è anche una garanzia per la sicurezza del Paese”. Un carcere che, secondo Anastasia, “non dovrebbe andare oltre le 20-30mila persone, perché la marginalità sociale, come diceva Alessandro Margara (l’ex capo delle carceri che le chiedeva dal volto umano, ndr.), deve stare fuori. E quindi non bisogna costruire nuove carceri, ma lavorare sul territorio per assorbire quella marginalità”. Il capo del Dap non è un pm: Cinquestelle e Lega ingoiano il rospo di Tiziana Maiolo Il Riformista, 19 marzo 2022 Il Cdm ha nominato all’unanimità Carlo Renoldi, per dieci anni giudice di sorveglianza a Cagliari: una competenza che spaventa. Forse ora anche i più zucconi capiranno che cos’è il mondo del carcere. Sarà perché ci sono ben altre urgenze -le stragi in Ucraina, l’energia e il caro-bollette, l’uscita dall’emergenza pandemia- fatto sta che anche i partiti di governo più recalcitranti, Lega e Movimento cinque stelle, hanno dovuto deglutire la nomina da parte del Consiglio dei ministri unanime del giudice Carlo Renoldi a capo del Dap. Non se ne pentiranno, crediamo, quando anche i più zucconi capiranno che cosa è il mondo del carcere, un’istituzione totale di oltre cinquantamila persone, di cui la metà non ancora processate, private della libertà per le ragioni più disparate, con un eccesso di ricorso alla norma penale che riempie le prigioni invece di svuotarle e di affrontare i problemi di devianza sociale per quel che sono, cioè spesso dei non-reati. Abbiamo sempre ritenuto inopportuno il fatto che il ruolo di capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria fosse un pubblico ministero, e in particolare uno dei cosiddetti pm “antimafia”, proprio per questo motivo. Perché hanno la tendenza prima di tutto a privilegiare l’esigenza della sicurezza rispetto a quella della funzione di reinserimento del detenuto nella società. E poi, specie per quei magistrati che provengono dall’aver ricoperto il ruolo di pubblici accusatori nei maxiprocessi di mafia, per la tentazione di vedere i detenuti solo come assassini pericolosi. Può sembrare un paradosso, ma il sapere che cosa pensi il dottor Renoldi dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario o dell’ergastolo ostativo è del tutto secondario, interessa solo agli ossessionati del Fatto quotidiano e a quelli dell’antimafia militante. Il mondo della giustizia, e anche del carcere, ha ben altri e gravi problemi. O vogliamo tornare ai tempi in cui ogni domenica sera da Giletti si sparava contro il capo del Dap Francesco Basentini, che veniva messo in croce per una circolare in cui, in piena pandemia, si chiedeva alle direzioni carcerarie di segnalare i nominativi di anziani e malati in modo da snellire il sovraffollamento ed evitare maggiori contagi? E quando lo stesso ministro Bonafede veniva preso d’assalto perché al posto di Basentini non aveva nominato un pm “antimafia” doc come Nino Di Matteo. Carlo Renoldi non fa parte di quei giri lì. Durante un convegno li aveva anche criticati come coloro che stanno ancorati alle immaginette di Falcone e Borsellino in modo ideologico. Naturalmente, poiché chiunque può essere impiccato per una frase isolata dal contesto o volutamente fraintesa, la stupidità militante era partita lancia in resta contro il giudice e la sua nomina, voluta dalla ministra Cartabia. Ma pochi avevano fatto, nei giorni in cui era trapelata la notizia della sua probabile nomina al Dap, lo sforzo di informarsi bene, di capire chi è, che cosa ha fatto (e non solo quel che ha detto in qualche convegno) nella sua vita di magistrato, Carlo Renoldi. Forse i suoi dieci anni trascorsi nel ruolo di giudice di sorveglianza a Cagliari, invece di essere un titolo di merito per la competenza, spaventano. Così come il fatto che abbia sollevato alcune questioni di costituzionalità su norme penitenziarie che la Corte ha accolto o abbia fatto parte di una commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario, forse induce qualche sospetto. Soprattutto da parte di quel mondo, per fortuna non più così numeroso, per cui il vero magistrato, quello che conta, è solo colui che ha quanto meno fatto il pm nel fallimentare “processo trattativa”. Gli cede il posto Dino Petralia, che si è dimesso dalla magistratura, prima che da capo del Dap, con qualche mese di anticipo dalla scadenza dei 70 anni, età della pensione per i magistrati. Se ne va dopo un commiato negli uffici della ministra Cartabia cui hanno partecipato, come lui stesso racconta, i vertici della magistratura e del Csm. Costretto a precisare di non esser stato cacciato per far posto al giudice Renoldi. Come se non fosse stata la stessa Guardasigilli, al momento del suo ingresso nel governo, a confermare sia Dino Petralia che Roberto Tartaglia come suo vice al vertice del Dap. Ma i tartufoni del Fatto quotidiano preferiscono l’immagine di una ministra amica dei mafiosi che caccia un ex pm “antimafia” per far posto a uno che, proprio come lei, preferirebbe secondo loro usare la mano morbida con i boss. Come se non esistesse la Costituzione a imporre un certo trattamento nei confronti dei detenuti. Come se non esistesse la presunzione d’innocenza, ribadita dal Parlamento con voto unanime. Agli auguri di buon lavoro al nuovo capo del Dap con parole incoraggianti da parte del Garante dei detenuti e dell’associazione Antigone e a quelli del deputato del Pd Walter Verini (che sente la necessità di ricordare l’esigenza di sicurezza nelle carceri, quasi timoroso di esser additato per intelligenza con il nemico), non possiamo che aggiungere i nostri. Per l’uguaglianza dei diritti. Di tutti. Verini (Pd): “Con Renoldi al Dap, la nostra Carta entrerà nelle nostre carceri inumane” di Valentina Stella Il Dubbio, 19 marzo 2022 Per il deputato PD Walter Verini, membro della Commissione Giustizia, la coppia Renoldi - Tartaglia alla guida del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria rappresenta il giusto equilibrio per garantire una pena umana nella sicurezza interna ed esterna agli istituti di pena. Una detenzione vissuta dignitosamente annulla la recidiva. Ma il dem rivolge nuovamente un appello alla Ministra: oltre alla modifica del regolamento penitenziario si faccia un decreto di urgenza. ‘Noi saremo al suo fianco’. Onorevole come giudica la nomina di Renoldi al vertice del Dap? Dopo la decisione di lasciare il vertice del DAP da parte di Dino Petralia, che insieme a Roberto Tartaglia ha garantito una guida collegiale seria e affidabile, la nomina di Renoldi si inserisce in questo contesto: continuare a lavorare per la sicurezza dentro le carceri e, insieme, rafforzare nella gestione penitenziaria i principi della Costituzione, tesi ad una pena non solo afflittiva, ma in grado di garantire trattamenti umani in grado di recuperare chi ha sbagliato e reinserirlo nella società. Il profilo di Renoldi garantisce pienamente questo impegno, insieme a quello di Tartaglia e in collaborazione con le forze della Polizia Penitenziaria e con tutte le figure multidisciplinari che operano negli Istituti di pena. La Ministra Cartabia, in audizione al Senato, non facendo un riferimento diretto, ha comunque stigmatizzato la campagna stampa del Fatto Quotidiano e forse per la prima volta ha assunto un atteggiamento conflittuale nei confronti di due partiti di maggioranza, Lega e Movimento Cinque Stelle... Io non ho letto queste dichiarazioni della Ministra come polemiche verso chicchessìa. Non ha attaccato chi dissentiva, ha fatto capire che le sue decisioni non dipendono dalle opinioni di un giornale, avendo altri interlocutori come Governo e Parlamento. E poi però ha difeso la sua scelta ricaduta su Renoldi, coerente con i principi costituzionali e con una idea dell’ordinamento penitenziario e della politica carceraria che siano - e sottolineo che oggi non lo sono - coerenti con quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione, ma anche con gli articoli 2 e 3. Il voto su Renoldi alla fine è stato unanime in Cdm... Appunto. Ho ritenuto le polemiche, che ci sono state in questi giorni fino anche a dopo la nomina, non condivisibili ma anche poco comprensibili. Perché? Stiamo parlando di una personalità della magistratura che ha svolto anche il ruolo di giudice di sorveglianza, il quale in diverse occasioni ha espresso delle sue opinioni, tra l’altro, sul regime carcerario duro. Le opinioni possono essere condivisibili o meno ma oggi Renoldi è il capo del Dap ed è tenuto - e così sarà - a gestire il sistema carcerario innanzitutto secondo le indicazioni che la Ministra, il Governo e il Parlamento daranno e poi attraverso i principi costituzionali, che racchiudono altresì il tema della sicurezza. È impensabile credere che ora arrivi Renoldi e chissà cosa smantella. Sarà chiamato a facilitare la vita quotidiana all’interno del carcere, ad aiutare lo sviluppo di trattamenti umani e socializzanti, a potenziare l’affettività, a combattere il sovraffollamento, a debellare la disumanità presente in alcuni istituti, come quello di Torino, recentemente visitato dalla Guardasigilli, a garantire la sicurezza. La nomina di Renoldi è forse il primo atto concreto della Ministra sul carcere. Ora si può passare alla modifica del regolamento penitenziario, come suggerito dalla Commissione Ruotolo? Non si può, si deve. Le dimissioni di Petralia sono state inattese anche se motivate. La Ministra si è trovata ad affrontare una vacatio. Adesso però si prenda subito quanto elaborato dalla Commissione e con un semplice atto ministeriale si modifichi il regolamento penitenziario. E poi si definiscano anche interventi normativi da adottare con lo strumento del decreto, che abbia i requisiti di necessità ed urgenza. Noi saremo al fianco della Ministra. Ma c’è la sostenibilità politica? Partiamo da un presupposto: al di là di quelli in misura alternativa o affidati alla messa alla prova, in carcere ci sono persone che hanno sbagliato e stanno scontando una pena. Dopo la detenzione usciranno: ecco, non solo perché lo dice la Costituzione (ma anche perché lo prevede il buon senso) un detenuto che in carcere è stato trattato umanamente, è stato rieducato, ha socializzato, ha studiato o ha appreso un lavoro, tornerà nella società, terminato di scontare la pena, senza più delinquere. Quindi, se si parte da questo principio, ossia che investire in umanità significa investire pure in sicurezza, chi è che può opporsi? Non stiamo parlando di amnistia o indulto che sono impraticabili, ma di misure per rendere la vita all’interno del carcere più umana e più sicura anche per l’interno degli istituti di pena. Voglio vedere se i Salvini davanti a questo ragionamento potranno opporsi. Però la Lega è quel partito che dice che il garantismo finisce con il processo. Poi certezza della pena, senza troppi problemi... Il loro è un garantismo a la carte. Dietro il garantismo a corrente alternata, spunta il populista, il giustizialista, l’amico del cappio. Aggiungo una cosa. Prego... La Camera si sta apprestando a votare la riforma dell’ergastolo ostativo. Abbiamo trovato un testo che ora stiamo limando in Aula e che rispetta, secondo noi, le indicazioni della Corte Costituzionale. E lo approveremo con una larghissima maggioranza. In queste ore stiamo lavorando per una norma transitoria per portare da 30 a 26 gli anni di carcere dopo i quali poter presentare la domanda per valutare la possibilità di accedere al beneficio ma anche sul tema dell’inesigibilità della collaborazione. Poi la prossima settimana si voterà - ne sono il relatore - la legge Siani per non avere mai più bambini in carcere. Si tratta di un problema di dimensione ridotta ma anche di grande civiltà. E anche qui ci potrebbe essere la possibilità di un accordo ampio. Quindi se si propongono tematiche serie con equilibrio e senza propaganda la convergenza si trova. Suicidi nella Polizia penitenziaria, quel dato allarmante di Luigi Manconi La Repubblica, 19 marzo 2022 Al 15 marzo del 2022 sono 17 i detenuti che si sono tolti la vita all’interno del sistema penitenziario italiano: 1 ogni 4 giorni e poco più. Se questo ritmo proseguisse nel corso dell’anno, al 31 dicembre del 2022 avremmo un numero di suicidi quasi pari a quello massimo raggiunto nel 2009 (72). Sulle cause di questi eventi, fatta salva l’avvertenza che ogni suicidio è storia a sé, ha inciso probabilmente la pandemia con i suoi effetti di ulteriore isolamento, frustrazione nei rapporti, crescita dell’ansia e dello stress. Ma restano come decisive le cause strutturali che rendono il carcere una macchina patogena, dove i suicidi sono 16-17 volte più frequenti di quelli verificatisi nella medesima fascia di età tra la popolazione libera. E resta il fatto che un numero assai rilevante di atti di autolesionismo si registra nei primi giorni della detenzione (e nelle prime 72 ore). A seguito - presumibilmente - delle conseguenze dell’impatto tra il recluso “nuovo giunto” e il sistema detentivo, dove regole, gerarchie, ruoli, consuetudini e linguaggi possono risultare estranei e “stranieri”. Ma c’è un altro dato di cui si parla raramente. Ed è quello relativo ai suicidi tra gli appartenenti alla polizia penitenziaria. La UIL Pubblica Amministrazione Polizia Penitenziaria (UILPA PP) è un sindacato del settore particolarmente attivo e agguerrito con cui mi capita di litigare spesso e volentieri. Devo al suo Segretario, Gennarino De Fazio, i dati relativi ai suicidi tra i poliziotti penitenziari. E si tratta di dati, anch’essi, impressionanti, che superano quelli relativi ad altri apparati dello Stato. Nel corso di undici anni, dal 2011 al 2022, si sono registrate 78 morti tra gli agenti. In particolare, nel 2013 e nel 2019 si è verificato il numero più alto, ovvero 11. Sia chiaro: confondere i due gruppi di suicidi sarebbe, più che errato, profondamente sciocco: i poliziotti penitenziari vivono all’interno degli istituti esclusivamente il tempo di lavoro, anche se - ricordiamolo - è un tempo frequentemente maggiorato da turni assai lunghi e da straordinari obbligatori. Eppure nulla mi leva dalla testa che l’immanenza e l’incombenza del carcere, anche come struttura fisico-materiale, e l’architettura opprimente, alienante e spesso disastrata possano pesare tra le motivazioni, oltre evidentemente quelle personali che restano determinanti. In ogni caso, sarebbe assai interessante una ricerca che analizzasse le biografie e il contesto di quelle 78 persone tra i poliziotti penitenziari che hanno deciso di togliersi la vita. Mi permetto di suggerire una simile iniziativa al nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), Carlo Renoldi, al quale invio i miei più calorosi auguri di buon lavoro. Il Dap sia autonomo e fuori dalle logiche dei Pm di Domenico Alessandro De Rossi* Il Riformista, 19 marzo 2022 Non sempre le buone intenzioni conducono ai risultati sperati. L’esecuzione penale in Italia non funziona e non è un’impressione soggettiva o una favoletta. I detenuti, ciò non di non meno i poliziotti penitenziari, troppo spesso pagano personalmente la disfunzionalità della detenzione con la sofferenza se non anche con la vita. C’è da domandarsi come mai dopo tanti anni di gestione fallimentare dell’esecuzione penale, di disorganizzazione e di tanti scandali che hanno toccato la magistratura, la politica non intervenga con decisione operando alla radice l’estirpazione delle profonde ragioni del pessimo funzionamento e dei risultati negativi che ogni anno di più si presentano puntuali. Paragonare le carceri del nostro paese ad un’azienda in rovina, in corso di fallimento da anni, è incongruente e forse sgradevole. L’obiettivo delle aziende è fare profitto e ovviamente non fallire, evitando di portare i libri in tribunale. Quello delle carceri è tendere alla rieducazione del condannato, evitando ovviamente che si ammazzi o che venga malmenato. Da tanti anni ormai il Paese aspetta una risposta che possa risanare l’universo della detenzione, non è accettabile che ci si abitui con noncurante indifferenza a considerare la criticità dell’esecuzione penale come se fosse un fatto fisiologico, statisticamente normale, mantenendo inalterato lo status quo. Il cattivo funzionamento dell’istituto induce a pensare che il permanere del suo assetto vada considerato come un destino non rettificabile, perché in fondo così sta bene mantenerlo per rispondere alla visione della detenzione intesa come legittima vendetta sociale. Se queste sono le finalità della esecuzione penale allora, senza ipocrisie, ammettiamo che il carcere attuale risponde benissimo alle aspettative e che nulla è da cambiare al suo interno. Però, data la gravità della situazione, non sarebbe un’eresia pensare che una riforma strategica dell’esecuzione penale, finalizzata alla radicale revisione di procedure e strutture, veda in futuro il Dap come un autonomo Dipartimento, quale diretta articolazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Sganciato dal ministero della Giustizia, dalle logiche correntizie, dalla verticistica gestione spesso legata a una cultura della detenzione vissuta esclusivamente come punizione e degrado, non come opportunità di recupero e reinserimento sociale. Con ciò la trasformazione strutturale del Dap e della sua autonomia consentirebbe una diversa attribuzione di funzioni e responsabilità nella gestione, demandando a ben altra competenza, più vicina ai valori umanitari e più esperta su procedure tese al recupero del detenuto, consolidando così finalmente una cultura sistemica diversa da quella attribuita ad una visione formata su basi solamente giurisdizionali e legalistico-securitarie. Le competenze e i compiti, in questa visione alternativa, dovrebbero reinterpretare la struttura di custodia come un particolare nuovo organismo tecnico-sociale, in grado di offrire formazione e capacità lavorativa anche di servizio al territorio. Una struttura simile somiglierebbe più a una fabbrica o una filiera dove si apprende, si lavora e produce, incentivando il desiderio di appartenenza e reintegrazione sociale. Quest’ultima andrebbe alimentata e favorita da una coerente presenza di altri operatori penitenziari, soprattutto funzionari e tecnici giuridico-pedagogici, psicologi e assistenti sociali, formatori professionali e insegnanti, nonché provenienti dalle altre pertinenti professionalità. In tal senso il compito destinato alla polizia penitenziaria dovrebbe essere rivisto e gestito a latere, fuori dalla struttura, e solo per intervenire in presenza di aspetti violenti e criminosi (il che, però, porrebbe un problema di assenza di ogni sua specificità, favorendo la fungibilità con qualunque altro corpo di polizia). Il carcere così come è pensato oggi diverrebbe altro da sé, migliorando in effetti coloro che vi entrano, dando loro una maggiore opportunità di reintegro nella società, eliminando o attenuando di molto la recidiva e la radicalizzazione nel rispetto della vera mission costituzionale. In tal caso la dirigenza dovrebbe provenire da una cultura di fondo più specializzata nella pianificazione e nel management, oltre che nella effettiva conoscenza della gestione delle risorse umane, supportata da una maturata esperienza nel settore human rights. In tal senso la figura istituzionale di un pubblico ministero sarebbe inefficace per una riforma destinata a trasformare il carcere in un sistema destinato al recupero dell’individuo così come richiesto dalla Costituzione e dalle stesse regole europee. *Vice Presidente Cesp (Centro europeo studi penitenziari) Cara ministra, si faccia più attenzione alle nomine nelle Commissioni di Domenico Alessandro De Rossi* Il Dubbio, 19 marzo 2022 L’ex ministro della Giustizia Bonafede, ha istituito con D.M. 12.1.2021 una apposita Commissione per l’architettura carceraria, per preparare progetti di “riqualificazione delle strutture carcerarie per allineare sempre di più i luoghi dell’esecuzione penale intramuraria alla funzione costituzionale di responsabilizzazione del detenuto in una reale visione di reinserimento sociale e recupero personale”. In queste ore apprendiamo che il Garante dei Detenuti del Piemonte, Bruno Mellano, in occasione della visita al carcere di Torino della ministra Cartabia, intenderebbe correttamente consegnare alla Guardasigilli la relazione che la Commissione ha elaborato a suo tempo. Nel ricevere il testo, voluto dal ministro Bonafede e pensato al tempo dal gruppo di lavoro, c’è da supporre che l’aleatorio gesto del Garante potrebbe non essere particolarmente apprezzato dalla ministra. Ciò per la semplice ragione che non tutte le soluzioni tecniche preparate per una visione politica siano comunque valide e congruenti per qualunque altra e diversa, ancorché tutte regolarmente ispirate, quantomeno nel titolo, ai valori costituzionali. Un mio caro amico già esperto operatore penitenziario, mi ricordava spesso come “… la firma di un protocollo e un richiamo alle norme costituzionali non si negasse a nessuno”, spiegandomi come, invece, fosse sempre necessario andare, puntualmente, a verificare cosa quegli impegni formali avessero per davvero prodotto prima di “celebrarne” inutilmente dei nuovi, scorrendo dati che fossero per davvero asseverati, al fine di comprendere quali problematiche si fossero incontrate e che effetti concreti gli impegni avessero prodotto almeno nel breve e medio periodo. A mente di quanto sopra, qualche spontanea domanda è giusto comunque porla ai “paladini dei diritti” presenti nella Commissione per conoscere quali siano i criteri che hanno visto prescegliere i diversi componenti, senza ricorrere, come di buona norma lo Stato dovrebbe fare, a selezioni obiettive riferite a bandi, concorsi, titoli specifici, pubblicazioni, saggi, attività umanitarie e di sostegno al diritto. Non sarebbe male conoscere se coloro che hanno elaborato la relazione abbiano in effetti maggiore esperienza di altri o se abbiano invece acquisto un qualche speciale diritto semplicemente essendo stati invitati, in precedenza, sempre a sedere a tavoli “tecnici” voluti dal ministero non si sa bene a che titolo. Ma la domanda finale è: quali sono i riferimenti certi che giustificano la presenza e/ o l’assenza di professionalità comunque in grado di rispondere ai criteri di competenza richiesti dalla Commissione stessa? A ben vedere i nomi dei nominati esperti sembrano essere sempre gli stessi che appaiono nel tempo puntualmente nelle medesime commissioni. C’è da immaginare che forse il ministero solo per comodità proponga a sé stesso gli stessi nomi. Da qui la civica preoccupazione che, data l’inutile speranza di fare passi avanti utilizzando professionalità che nel tempo non hanno determinato miglioramenti nell’attuale pessima condizione carceraria, continuerà a non registrarsi alcuna seria trasformazione. Difficile far guarire un malato utilizzando gli stessi medici se dopo anni di cura il malato si è aggravato. Forse il problema andrebbe ricercato non nella malattia ma di chi usa medicinali non appropriati. Risulta infatti che qualche rappresentante della Commissione sia anche il responsabile di un contestatissimo progetto destinato a suo tempo per il nuovo carcere di Nola. Una mostruosa ideazione di cui ancora forte è il ricordo di un modello carcerario contrario a tutti i criteri più avanzati della esecuzione penale, nonché di fatto in antitesi con la stessa legge penitenziaria. Molti sono i difetti che in Italia purtroppo legano la burocrazia e la politica al mondo professionale esterno che nel tempo vedono consolidare costumi, conoscenze, relazioni, consuetudini, assonanze. Anche nel caso in cui vengono chiamati professionisti esterni alla PA, troppo spesso si preferisce adagiarsi alla più tranquilla ripetizione di consolidate procedure di appartenenza. La non notizia è che tali metodi avvengano anche con la compiacenza, se non anche con la condivisione, di chi partecipa a tali commissioni senza battere ciglio, pur ricoprendo importanti incarichi di garanzia. Alla ministra Cartabia rivolgiamo rispettosamente la richiesta di attenzione, visto anche il sonno e la distrazione degli Ordini professionali che anche in questo caso potrebbero svolgere un ruolo significativo. Per ora preferendo candidamente tacere. *Vice Presidente Cesp (Centro europeo studi penitenziari) Giustizia riparativa, Cartabia: “Servono norme capaci di accogliere storie” di Felice Florio gnewsonline.it, 19 marzo 2022 È iniziato il ciclo di incontri “Giustizia riparativa e comunità”. Il primo degli otto appuntamenti, che si è tenuto nell’aula polifunzionale del Palazzo di Giustizia di Brescia il 18 marzo, è stato aperto da Manlio Milani della Casa della Memoria. All’intervento del presidente dell’associazione che riunisce i famigliari delle vittime della strage di Piazza della Loggia, sono seguiti i contributi del presidente della Corte di Appello Claudio Castelli, della mediatrice del Comune di Brescia Anna Scalori e dei professori Claudia Mazzuccato e Adolfo Ceretti. Quest’ultimo ha portato l’esempio di un caso di giustizia riparativa che sta seguendo di persona in Colombia. Ha partecipato al tavolo di discussione anche il procuratore generale Guido Rispoli. La ministra della Giustizia Marta Cartabia, presente all’evento, riferendosi alla giustizia riparativa ha affermato: “Siamo di fronte alla sfida di poter scrivere delle leggi che abbiano la capacità di accogliere al loro interno delle storie”. Un capitolo della riforma del processo penale è dedicato proprio al tema della giustizia riparativa. Nell’intervento, la ministra ha voluto ricordare anche due vittime del terrorismo, alla vigilia dell’anniversario della loro morte: il giudice Guido Galli, ucciso il 19 marzo 1980 alla Statale di Milano, e il giuslavorista Marco Biagi, assassinato lo stesso giorno ma del 2002, a Bologna. La ministra ha voluto rimarcare anche un’altra ricorrenza: “Un pensiero affettuosissimo alla Polizia penitenziaria. Oggi sono 205 anni dalla fondazione, uno dei corpi di polizia che più è chiamato a trasformare il suo ruolo: si trasforma la giustizia, l’esecuzione penale, la concezione del reato, della pena, a loro è chiesto sempre qualcosa di nuovo e di diverso”. Dopo aver lasciato il Palazzo di Giustizia, la ministra si è recata in Piazza della Loggia, nel cuore di Brescia. Qui, con il sindaco del capoluogo di provincia, Emilio Del Bono, e Manlio Milani, ha reso omaggio alle vittime della strage avvenuta il 28 maggio 1974. Pensione anche per chi è condannato per mafia? Sono i diritti, bellezza... di Tiziana Maiolo Il Riformista, 19 marzo 2022 Una sentenza della Consulta del 2021 ristabilisce un principio costituzionale abolito dal governo Monti. Dopo un anno arrivano i primi sms dell’Inps agli interessati e “Il Giornale” grida allo scandalo. L’allarme arriva dal Giornale, che definendo “sentenza choc” un pronunciamento della Corte Costituzionale del 2021 sulle pensioni sociali da estendere anche ai condannati per gravi reati, fa propria la preoccupazione dell’Inps, che potrebbe presto “essere travolta di richieste”. Dov’è lo scandalo, se persone povere e disoccupate, spesso disabili e bisognose di assistenza e di aiuto per la sopravvivenza, li ottengono da parte dello Stato? Il vero scandalo, sanato dall’Alta Corte e dal relatore Giuliano Amato, un anno fa, quando non era ancora Presidente, era annidato nella legge ora dichiarata incostituzionale, dopo che era stata sollevata la questione di legittimità dai tribunali di Roma e di Fermo. La norma - ma guarda un po’ - era del 28 giugno 2012, quando il governo Monti, elegante e democratico, aveva già scalzato quello dei brutti e cattivi di Silvio Berlusconi. E faceva parte della “legge Fornero”, quella che ha riformato il mondo del lavoro, proprio quella che avrebbe dovuto includere, tra l’altro, i soggetti fragili e anche le donne. Una sorta di fiore all’occhiello, insomma, dopo quella sulle pensioni che aveva aperto una ferita nella sensibilità della stessa ministra. Quella parte della norma poi riformata dalla Consulta, era davvero scandalosa, e forse passata inosservata ai più, perché in Italia esistono minoranze come i detenuti o i condannati, che sono più minoranze degli altri. Imponeva infatti la revoca di una serie di prestazioni assistenziali nei confronti di persone condannate per reati “di particolare allarme sociale”. Naturalmente stiamo parlando solo di coloro che ne avrebbero comunque avuto diritto, che avevano i requisiti, di tipo economico e sociale, per essere assistiti e aiutati dallo Stato. Ma, se si trattava di condannati per fatti di terrorismo o di criminalità organizzata, ecco che calava la scure di Monti e Fornero. E del Parlamento intero. Se qualcuno, magari di sinistra o del mondo cattolico, si accorse, mentre votava in aula, dell’incostituzionalità e della disumanità della norma, ci piacerebbe saperlo. Ma è stata votata. L’ha notato però l’Alta Corte, in seguito ai ricorsi dei due tribunali, e il 2 luglio di un anno fa, ha dichiarato illegittima la norma nella parte in cui la revoca dei diritti riguarda persone che “scontino la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere”. Nel comunicato della stessa Corte e del relatore Giuliano Amato si diceva che quell’esclusione dei condannati per fatti gravi “contrasta con gli articoli 3 e 38 della Costituzione”, soprattutto ogni volta che al condannato veniva applicata una pena alternativa al carcere. È una sottigliezza, ma la Corte Costituzionale aveva ragionato in questo modo, molto sensato: “È irragionevole che lo Stato valuti un soggetto meritevole di accedere a tale modalità di detenzione e lo privi dei mezzi per vivere, quando questi sono ottenibili solo dalle prestazioni assistenziali”. Non è un caso il fatto che Giuliano Amato (con qualche titolo in più di quel tal pm del pool Mani Pulite) fosse chiamato “dottor Sottile”. Ma in questa circostanza possiamo anche dire che la Corte Costituzionale ha svolto quella funzione di Stato sociale che sarebbe spettata al governo e al parlamento. E quanta saggezza nel dire che “sebbene queste persone abbiano gravemente violato il patto di solidarietà sociale che è alla base della convivenza civile, attiene a questa stessa convivenza civile che ad essi siano comunque assicurati i mezzi necessari per vivere”. Quanta saggezza, davvero. Stiamo parlando, sia chiaro, non di regali o privilegi, ma della revoca attuata dalla Legge Fornero dei seguenti diritti di cui il condannato era titolare: indennità di disoccupazione, assegno sociale, pensione sociale e pensione per gli invalidi civili. È welfare allo stato puro, è il mondo dei diritti! Ora si pone però un problema, perché la sentenza della Corte Costituzionale n. 137 è stata depositata il 2 luglio 2021, quasi un anno fa. E, a quanto scrive il Giornale, l’elefantone lento dell’Inps si sta muovendo solo ora, con l’invio di un sms alle persone cui dovrebbe essere ripristinato il diritto che era stato cancellato dalla legge del 2012. C’è da chiedersi in che modo siano riuscite a vivere, o a sopravvivere nel frattempo, queste persone. Noi siamo scandalizzati per quella vergogna di cui si sono macchiati dieci anni fa il governo Monti, la ministra Fornero e il Parlamento intero. E siamo anche un po’ sconcertati del fatto che il Giornale diretto da Augusto Minzolini (sincero garantista) definisca “choc” la sentenza-welfare da Stato di diritto della Consulta, invece di strillare perché dieci anni fa erano stati maltrattati disoccupati e invalidi civili. Mafiosi e terroristi, e allora? Non avevano gli stessi diritti di sopravvivenza di tutti noi? Un po’ scandaloso anche il fatto che l’Inps mandi solo oggi un sms, che avrebbe dovuto partire il 3 luglio 2021, subito dopo la sentenza che ripuliva quella legge da Stato totalitario. Responsabilità civile dei giudici, otto condanne in 12 anni di Liana Milella La Repubblica, 19 marzo 2022 Costa (Azione): cambiare la legge. “Una presa in giro”, per il vice segretario di Azione viste le ultime statistiche. E pone l’aut aut alla ministra Cartabia: inversione di passo o niente voto alla riforma del Csm. Le statistiche, compresa quella di quest’anno, sembrano fare il gioco dei partiti che vogliono a tutti i costi cambiare la legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Ci hanno provato la Lega e i Radicali con i referendum, che però la Consulta ha respinto. Adesso ci riprovano con la riforma del Csm, anche mettendone a rischio l’approvazione. Perché le condanne per responsabilità civile praticamente non esistono. Non arrivano alle dieci dita delle nostre mani. Si fermano a otto. Tante sono le condanne per responsabilità civile indiretta dal 2010 a oggi, in cui alla fine paga lo Stato, e non la toga coinvolta, che però dovrà restituire la metà dell’importo. Su 644 cause avviate contro lo Stato, in media 57 all’anno, in 12 anni, ci sono state appunto soltanto otto condanne. Come l’anno scorso, puntiglioso e puntuale, il vice segretario, nonché responsabile Giustizia di Azione, il deputato Enrico Costa, tiene minuziosamente il conto di come funziona la macchina della responsabilità civile. “Una presa in giro” esordisce lui. Che dopo aver letto gli ultimi dati disponibili - quelli che racconta a Repubblica - conferma la sua intenzione di chiedere alla ministra della Giustizia Marta Cartabia di cambiare le regole in vigore approfittando subito della riforma del Csm. È quello che vorrebbero fare anche Lega e Forza Italia. Volendo fare una previsione c’è da scommettere che la Guardasigilli dirà di no. E altrettanto faranno il Pd e il M5s. Disponibili Forza Italia e Lega. Ma stavolta Costa potrebbe anche andare oltre, e senza la “nuova” responsabilità civile potrebbe anche non votare la riforma del Csm. Una premessa, prima di analizzare i dati e le conseguenze. La Consulta, il 16 febbraio, ha bocciato il quesito sulla responsabilità civile proposto dai Radicali e dalla Lega. Era uno dei sei referendum sulla giustizia. Ma per la Corte la domanda agli elettori era “manipolativa e creativa”, perché attraverso l’abrogazione parziale delle norme in vigore sarebbe stata introdotta una disciplina giuridica del tutto nuova, quindi non voluta dal legislatore, e perciò frutto appunto di una “manipolazione” non consentita. Per i proponenti è stato uno smacco, perché proprio il quesito sulla responsabilità civile aveva più chance degli altri di passare. Del resto, nel 1987, sempre proposto dai Radicali, il quesito di allora ottenne l’80,27% dei sì, ma poi un anno dopo arrivò la doccia fredda della legge Vassalli, con la responsabilità indiretta. Dati alla mano, Costa li legge così: “Dal 2010 a oggi ci sono state 154 pronunzie definitive (a maggio 2021 erano 129). Un solo numero resta invariato, fisso, quello delle condanne. Dal 2010 a oggi lo Stato ha subito solo 8 condanne. Nell’ultimo anno sono diventate definitive 25 nuove sentenze: nessuna condanna, e quindi zero per lo Stato”. E ancora: “I numeri ci dicono che dal 2010 fino a oggi solo l’1,2% delle cause iscritte contro i magistrati si è conclusa con una condanna definitiva. Alcune certamente si sono infrante contro il filtro di ammissibilità, soppresso poi dalla riforma del 2015, altre sono state rigettate, altre sono ancora in corso. Ma la tendenza è chiara. In Tribunale, su 82 sentenze si registrano solo 3 condanne, in Appello 18 sentenze e zero condanne, in Cassazione 31 sentenze e 5 condanne”. Le tabelle, secondo Costa, parlano chiaro. Scorrendo l’elenco dei dati città per città si scopre che gli uffici giudiziari con il maggior numero di ricorsi per responsabilità civile sono quelli di Roma con 186 casi, seguiti da quelli di Perugia con 143 e di Caltanissetta con 45. Si scende poi ai 35 di Genova, ai 30 di Potenza, ai 26 di Brescia, ai 18 di Napoli, ai 17 di Catanzaro. Il salto da questi dati alla richiesta politica, per Costa, è scontato. La legge va cambiata, e la responsabilità deve diventare “diretta”, senza alcun filtro. Toga che perde, paga il conto. Nel 2015, quando è passata la legge dell’allora Guardasigilli Andrea Orlando che confermava la responsabilità indiretta, c’è voluto oltre un anno di trattative politiche per mettersi d’accordo. Mentre adesso la legge sul Csm è urgente perché contiene la nuova legge elettorale per far scegliere alle toghe il nuovo Consiglio che scade tra luglio (i togati) e settembre (i laici). Una querelle sulla responsabilità civile farebbe saltare i tempi del voto previsti per il 28 marzo alla Camera. Ma Costa, mentre sfoglia le sue tabelle, sembra proprio che non voglia cambiare idea. Una richiesta politica che ovviamente piace a Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, e che potrebbe compromettere il corso della riforma sul Csm, bloccandola alla Camera. Lanzi (Laico Csm): “Quel parere del Csm sulla riforma è il tentativo ostinato di non cambiare” di Simona Musco Il Dubbio, 19 marzo 2022 “Il parere della Sesta Commissione è acronico, senza tempo. In realtà bisogna storicizzarlo e avere ben presente perché si è arrivati a questo progetto di riforma. Ci si è arrivati perché dalla primavera del 2019 non si sentono altro che dichiarazioni sul voler cambiare, voltare pagina, recuperare la fiducia persa nella magistratura. Da qui nasce tutto. Io credo, da un punto di vista generale, che la riforma non raggiunga pienamente l’obiettivo; ma sono certo che questo parere non tiene conto di quanto è successo e si ostina a non voler - di fatto - cambiare alcunché”. A dirlo, al Dubbio, è il consigliere laico del Csm Alessio Lanzi, critico sul parere espresso dai colleghi della Sesta Commissione sulla riforma del Csm, sul quale lunedì si esprimerà il plenum. Lanzi ha presentato sette emendamenti soppressivi, “proprio per cercare di segnalare e così di ricondurre, almeno in parte, il parere ad una prospettiva di riforma vera e non unicamente di facciata, se non addirittura gattopardesca”. Professore, perché definisce acronico questo parere? Perché ignora tutto quello che è successo in questi tre anni. Siamo arrivati alla necessità di un progetto di riforma proprio per cambiare le cose, dopo aver constatato come funzionava il Csm. E il progetto, con tutti i suoi limiti, dati anche dalla necessità di tenere conto di tutte le componenti governative, cerca di cambiare qualche cosa. Invece la Commissione critica tutte le novità che si vogliono introdurre nella prospettiva di non cedere sugli elementi fondamentali su cui si fonda il potere della magistratura. Secondo il parere, tale riforma aumenterebbe il controllo politico sulla magistratura, a scapito dell’indipendenza. È un rischio realistico? Non è assolutamente vero. E mi voglio soffermare sulle aperture notevoli che il progetto dà sulla partecipazione e la consulenza di avvocati e Coa ai fini degli incarichi direttivi e semidirettivi e nelle valutazioni di professionalità dei magistrati, da fare nei consigli giudiziari territoriali, sul quale il parere è assolutamente negativo ed esprime sfiducia nei confronti dell’avvocatura. Ciò in contrasto con l’articolo 111 della Costituzione, che dopo 20 anni ancora non trova applicazione e che dice espressamente che accusa e difesa devono avere parità di diritti e facoltà davanti ad un giudice che sia terzo e indipendente. Invece abbiamo un pubblico ministero che ha la stessa carriera del giudice e che valuta il giudice, mentre gli avvocati non dovrebbero far niente. Il progetto allarga la loro funzione, ma la Commissione lo trova assurdo e contrario ad ogni regola. La Commissione ha fatto un parallelismo con il Csm, dove i membri laici non possono esercitare la professione legale durante il mandato… È un ragionamento che non sta né in cielo né in terra. C’è una grandissima differenza tra gli avvocati nei consigli giudiziari e gli avvocati nel Csm. I primi sono i rappresentanti dell’avvocatura territoriale e quindi devono avere gli stessi diritti che hanno i pm nei Consigli giudiziari. Perché anche loro continuano a fare il loro lavoro, eppure determinano la valutazione dei giudici. Gli avvocati e i professori al Csm, invece, non sono una rappresentanza territoriale, ma i rappresentanti della comunità civile, nominati dal Parlamento, rappresentando il contrappeso alla componente togata in un organo di rilievo costituzionale che altrimenti sarebbe composto di soli magistrati e sarebbe, dunque, un’altra Anm, autoreferenziale. Una delle critiche principali è quella al sistema elettorale, che alimenterebbe il correntismo, le cui degenerazioni hanno dato luogo alle criticità degli ultimi anni. Su questo punto è d’accordo? Nella misura in cui c’è un’elezione è chiaro che il tema delle correnti sarà sempre presente, per il semplice fatto che vinceranno e saranno eletti al Csm quelli che aderiscono culturalmente ad una corrente piuttosto che all’altra. Che sia proporzionale o maggioritario, nella misura in cui la base elettorale vota sulla scorta di simpatie ideologiche, è chiaro che si determinerà sempre la presenza delle correnti tramite i suoi rappresentanti. Se si vuole uscire dal correntismo, l’unico sistema utile è il sorteggio. La Costituzione, però, prevede un’elezione... La soluzione è semplicissima: il sorteggio temperato. La mia idea è che sarebbe meglio prima eleggere e poi sorteggiare tra gli eletti. Questo eliminerebbe la sicurezza di avere una corrente dominante. Ma soprattutto c’è un altro tema: al momento del conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, il plenum dovrebbe votare le proposte della V Commissione con voto segreto. Perché quando si va a votare, tranne pochissimi casi, ogni corrente vota in maniera compatta. Ma è mai possibile che tutti abbiano sempre la stessa identica idea? In ogni caso all’interno delle correnti c’è sempre una discussione: scoprire chi si è discostato dalla linea imposta dai vertici potrebbe non essere così complicato... Questo è ineliminabile. Ma pensi quante volte il membro di una corrente, per una sorta di vincolo di mandato, sia costretto a votare ciò che la corrente propone. Col voto palese è difficile discostarsi dal diktat, col voto segreto, invece, è molto più facile. Con il sorteggio a monte e il voto segreto a valle, il correntismo si può, in parte, eliminare. Altrimenti ci sarà sempre. Ma bisogna uscire dall’ipocrisia: è chiaro che ci sono le attività culturali e che ci si aggreghi con chi ha opinioni simili alla propria. Ma il voto palese lega le mani a chi ha magari idee diverse su un candidato. Un’altra questione è il rifiuto delle “pagelle” ai magistrati: il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ha paventato il rischio di una “ansia competitiva”... Quando si va a votare per un direttivo o un semidirettivo ci si basa unicamente sul curriculum e sui pareri dei consigli giudiziari, che tranne in rarissimi casi sono sempre elogiativi. Tutti i magistrati sono dei fenomeni, dunque. Ma non interessa mai come si sono esercitate le attività relative all’ufficio che si è ricoperto, in termini di risultati concreti di giurisdizione: la tenuta delle inchieste, dei sequestri e delle sentenze emesse. È evidente che non c’è una valutazione meritocratica. Ma se un chirurgo sbaglia tutte le operazioni può anche essere primario, ma non è un bravo chirurgo. Invece il magistrato, se anche sbaglia chiedendo ordini di cattura che non stanno né in cielo né in terra e procede con azioni penali che finiscono tutte con assoluzioni, è comunque ritenuto bravo, perché ha ricoperto questo o quell’ufficio. Questo il cittadino non riesce a capirlo. Sono perciò tutte critiche che mirano a non cambiare nulla. Alla base di tutto, poi, c’è il grande tema della separazione delle carriere o, allo stato, almeno separazione delle funzioni. Il dottor Cascini ha definito la riforma un fucile puntato sui magistrati, in particolare rispetto ai rapporti tra stampa e magistratura e all’introduzione di nuovi illeciti disciplinari. C’è un rischio di censura della libertà di manifestazione del pensiero? È un discorso assolutamente di parte. E lui, come parte, difende i pm senza considerare che c’è una risoluzione europea chiarissima, che noi abbiamo anche tardato a mettere in esecuzione, e che c’è una legge che a tutela della presunzione di innocenza non consente interviste. Se ci sono queste regole la parte può lamentarsene, ma francamente continua ad applicarsi la regola generale. È un discorso di tipo corporativo. Cosa non va bene, secondo lei, in questa riforma? Rispetto alla situazione attuale, la riforma è assolutamente positiva e accettabile. Com’era positiva e accettabile la riforma del processo penale, perché bisognava uscire dal pantano del fine processo mai. Il problema principale è che non ridurrà il problema delle correnti, perché bisogna incidere alla base, con il sorteggio. Ma almeno porrà fine alla situazione attuale. Misure alternative ai pedofili solo dopo un anno di osservazione psicologica “positiva” in carcere di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 19 marzo 2022 Non rilevano percorsi riabilitativi per “uomini maltrattanti” se svolti, anche con esiti positivi, prima dell’inizio della detenzione. Il periodo minimo di un anno di “osservazione scientifica collegiale” all’interno del carcere, è presupposto indefettibile per la concessione di misure alternative al condannato per atti sessuali contro minori. E l’assenza di tale requisito del beneficio non è superabile in base a nessun’altra circostanza. Quindi la previsione dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario (Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti) costituisce un “rigido” paletto alla possibilità di aprire le porte del carcere a un pedofilo condannato. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 9228/2022, ha perciò respinto il ricorso che sosteneva la legittimità della richiesta di affidamento in prova, fondata sul fatto che il condannato avesse intrapreso - prima di entrare in carcere - un percorso di riabilitazione sociale per “uomini maltrattanti”. E che l’esito di tale percorso era stato valutato come positivo. Il ricorso intendeva cioè dare rilevanza a un presupposto alternativo, a quello prescritto dalla legge sull’ordinamento penitenziario, perché di fatto “equipollente”. In effetti, oltre a contestare il diniego del tribunale di sorveglianza, il ricorrente sollevava dubbi di costituzionalità del requisito previsto dall’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario. La Cassazione ribadisce, invece, che la norma non viola la funzione “costituzionale” riabilitativa della pena, in quanto la prescritta collegialità di esperti nell’osservazione annuale in carcere risponde alla gravità e alla complessità dell’iter di recupero di soggetti che si macchiano di tali delitti. Il giudice della sorveglianza non è perciò tenuto a considerare (anzi, non può), ai fini della concessione della misura alternativa, come equipollente il periodo di riabilitazione psicologica intrapresa dall’imputato, presso una struttura dedicata al recupero psicologico degli “uomini maltrattanti”, quando era ancora a piede libero. Quindi neanche un percorso annuale e mirato proprio sul reato per cui vi è stata condanna è sovrapponibile alla prescritta osservazione scientifica e collegiale svolta in carcere. L’amministrazione penitenziaria - in base all’articolo 80 dell’ordinamento penitenziario - può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica, nonché di mediatori culturali e interpreti per lo svolgimento delle attività di osservazione. Brescia. Cartabia: “Giustizia riparativa una sfida epocale, Manlio Milani un pioniere” di Redazione online Corriere della Sera, 19 marzo 2022 Prima ospite all’incontro in tribunale organizzato da Casa della Memoria, Comune e Provincia, poi l’omaggio alla Stele dei caduti in piazza Loggia. “Siamo di fronte a una sfida epocale: scrivere una riforma giudiziaria che non soffochi e imbrigli, ma anzi agevoli l’esperienza della giustizia riparativa, stabilizzandola”: così la ministra della Giustizia Marta Cartabia, intervenuta in tribunale a Brescia al primo incontro del ciclo `Giustizia riparativa e comunità: riprendere la parola e le relazioni´, organizzato da Casa della Memoria, Provincia e Comune di Brescia. “La legge deve limitarsi a sostenere, offrire una possibilità, ma non può imporre di intraprendere un percorso di questo tipo - ha aggiunto -. Deve però garantire il diritto a farlo. È importante avere dei luoghi anche fisici in cui incanalare questa urgenza, dei centri che possono diventare invito, sollecitazione e proposta. Ogni storia è unica e ha una sua peculiarità che la legge non deve schematizzare e imbrigliare”. Rivolgendosi agli uomini della Polizia penitenziaria, di cui oggi ricade il 205esimo anniversario della fondazione, ha aggiunto: “Proprio a queste forze di polizia è chiesta un’evoluzione importante, già iniziata: hanno un ruolo fondamentale nell’affiancamento di chi ha commesso un reato e inizia un percorso di riabilitazione”. In quanto all’importanza della memoria, in relazione alla giustizia riparativa, la ministra ha ringraziato Manlio Milani, marito di una delle vittime della strage di Piazza della Loggia, presidente della Casa della memoria e da sempre impegnato nella ricerca di verità e giustizia, con il quale poi si è recata a rendere omaggio alla stele. “Milani è uno dei pionieri della giustizia riparativa, perché ha saputo cogliere esperienze sottotraccia, poi emerse in potenza all’attenzione pubblica. Non ci si deve aggrappare a un ricordo che va sbiadendosi, ma una memoria che genera vita innovativa. Non è un modulo che si ripete, ma è sempre nuovo: così si onorano le vittime. La vita deve guardare sempre avanti”. Foggia. Il procuratore capo: “Più che di certezza della pena dobbiamo parlare di pena efficace” di Emiliano Moccia Vita, 19 marzo 2022 “Più che della pena certa, penso che si debba parlare della pena efficace, che raggiunge il suo obiettivo principale: la redenzione della persona che ha sbagliato, che ha commesso un crimine”. È il pensiero di Ludovico Vaccaro, procuratore capo presso il Tribunale di Foggia, che rilancia l’esigenza di affiancare al lavoro di repressione della criminalità, anche quello della giustizia riparativa. “Più che della pena certa, penso che si debba parlare della pena efficace, che raggiunge il suo obiettivo principale: la redenzione della persona che ha sbagliato, che ha commesso un crimine. Recuperare chi ha sbagliato è fondamentale per le nostre comunità. Oggi si calcola che il 75% dei detenuti sia recidivo e questo ci deve fare riflettere. Occorre promuovere azioni che favoriscano il loro recupero, il cambio di mentalità, perché è determinante per il reinserimento sociale e lavorativo di chi ha avuto problemi con la giustizia”. Ludovico Vaccaro è il procuratore capo del Tribunale di Foggia, un territorio che conosce molto bene perché è nato nel capoluogo dauno e perché nel corso delle sue esperienze professionali ha avuto modo di approfondire attentamente le diverse realtà della criminalità organizzata pugliese. Per questo, ha rilanciato un tema a lui molto caro, che viaggia di pari passo con la lotta alla mafia che insieme alla “Squadra-Stato” combatte quotidianamente. “So bene di toccare un tasto estremamente delicato e forse in questo momento non c’è la disponibilità ad ascoltare questo discorso, perché è un periodo in cui si pensa che tutto debba essere risolto con la repressione. La repressione è importante, ma deve essere anche una repressione che miri al recupero delle persone” ha detto il procuratore Vaccaro a margine della presentazione del volume “L’altra Città. Mafia e antimafia di Capitanata”, curato da Annalisa Graziano e Roberto Lavanna, rispettivamente responsabile della comunicazione e direttore del CSV Foggia, che descrive le mafie che hanno colpito il territorio foggiano negli ultimi quarant’anni, con un’attenzione particolare alle storie delle vittime innocenti e alle azioni di contrasto alla criminalità organizzata. “Penso che sia una strada che prima o poi bisogna intraprendere assolutamente, altrimenti così il carcere non è un’esperienza utile. E’ solo un’esperienza costosa, una scuola di criminalità in cui mandiamo coloro che hanno sbagliato. Bisogna seguire la strada del recupero. Sicuramente chi sbaglia deve scontare una pena, ma questa pena deve essere finalizzata al recupero delle persone. L’ottica” rileva il Procuratore Vaccaro “è quella di una giustizia riparativa che ponga al centro anche l’incontro tra la vittima e l’autore del reato. Perché da questo incontro può nascere sia una reale soddisfazione della vittima, che spesso esce dal processo penale vittimizzata una seconda vola, sia per l’autore del reato, che da questa esperienza può uscire un uomo diverso”. Generare occasioni di lavoro Il cammino per generare una cultura della pena efficace o della giustizia riparativa, probabilmente varia anche in base ai territori in cui viene proposta questa sfida di inclusione. Perché servono aziende, imprese, cooperative, associazioni disponibili ad accogliere persone provenienti da percorsi di giustizia penale per offrire occasioni di lavoro e creare sviluppo economico. “Il lavoro non solo riduce le possibilità della criminalità di trovare nuove leve, ma diventa anche l’opportunità per chi ha sbagliato. Anche nel foggiano non è difficile creare queste condizioni, perché questa terra ha tante possibilità. Siamo il granaio d’Italia, la Capitale dell’ortofrutta. Le possibilità di sviluppo e di lavoro sono tantissime. Se riusciamo a metterle a frutto e a dare lavoro ai giovani innanzitutto ridurremo la criminalità, e poi si potrà offrire anche lavoro a chi ha sbagliato, affinché” conclude Vaccaro “possa tornare nei giusti binari di una vita sociale nella legalità”. Di qui, l’importante azione portata avanti anche dagli Uffici di Esecuzione penale esterna - Uepe che operano in stretta sinergia con gli Enti Locali, le associazioni di volontariato, le cooperative sociali e le altre agenzie pubbliche e del privato sociale per favorire concreti percorsi di reinserimento ed inclusione sociale. E secondo i dati del Ministero della Giustizia, in provincia di Foggia i soggetti in carico all’Uepe alla data del 31 dicembre 2021 erano 1.059. Intanto, nel carcere di Foggia il clima continua ad essere piuttosto teso. Anche a causa dell’evasione di 72 detenuti dal penitenziario avvenuta il 9 marzo 2020, pochi giorni prima che iniziasse il lockdown provocato dal Covid-19. Una fuga di massa avvenuta mentre le proteste devastano decine di carceri in tutta Italia causando la morte di 13 reclusi. Ancora oggi si paga quel drammatico episodio, con la riduzione degli spazi nel carcere che sono stati ripensati per garantire una maggiore sicurezza dopo la rivolta e con lo stato di agitazione del personale della polizia penitenziaria che anche qualche giorno fa è scesa in strada per protestare “contro lo stato di abbandono in cui versa il sistema carcerario italiano negli ultimi due anni, con carichi di lavoro non più fronteggiabili con gli attuali organici, ben al di sotto delle piante organiche già sottodimensionate”. Gli unici spiragli di benessere arrivano dalle attività promosse dal Centro di Servizio al Volontariato di Foggia che, con il sostegno della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, da diversi anni promuove un bando destinato alle organizzazioni di volontariato per promuovere e sostenere iniziative laboratoriali, di spettacolo e di solidarietà negli Istituti penitenziari della Capitanata. Iniziative che, sempre a causa del Covid, hanno subito dei rallentamenti ma che gli operatori sono pronti a riprendere. Come il Fondo di Solidarietà, destinato a soddisfare i bisogni primari che condizionano la qualità della vita dei detenuti in stato di grave indigenza. Torino. Il punto sulla situazione delle strutture detentive nell’agorà dem di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 19 marzo 2022 “Il sistema carcerario italiano non è una Cenerentola ma un tema centrale, una grande questione di civiltà”. Così il segretario del Pd Enrico Letta in occasione dell’agorà dedicata al tema. “Tutte le statistiche e le ricerche ci raccontano la drammatica situazione italiana, sul sistema carcerario, rispetto agli altri Paesi. Non possiamo continuare a pensare che questo sia un tema Cenerentola. È una grande questione di civiltà”. Il segretario del Pd Enrico Letta parte da questo dato di fatto per spiegare l’impegno e la disponibilità dei dem ad affrontare in maniera costruttiva l’emergenza carcere. L’occasione è stata l’agorà, la piattaforma del partito che punta ad essere “luogo” di dialogo, confronto e proposte. L’appuntamento organizzato dalla senatrice Anna Rossomando (responsabile Giustizia e Diritti del Pd) aveva proprio come tema “Il carcere nella società civile per una pena rispettosa della Costituzione”. “Ci sono principi di carattere generale e costituzionale, di diritto e di decenza nel nostro Paese che vanno rispettati per quanto riguarda questo tema - ha continuato Letta. È necessario un approccio non residuale”. Non è un caso che il dibattito sia stato organizzato a Torino, dove il carcere è finito al centro di polemiche e inchieste giudiziarie. La stessa ministra Marta Cartabia - la scorsa settimana in occasione di una visita al Lorusso e Cutugno - aveva messo in luce le criticità: “Ho visto un luogo disumano, sia per i detenuti che per gli operatoti che vi lavorano”. Parole che spingono a una riflessione. “È un istituto di pena problematico, ma non così disgraziato”, ha esordito Mara Lupi, comandante della polizia penitenziaria. La dirigente ha voluto sottolineare anche i tanti progetti che vengono organizzati con le associazioni di volontariato. “Certo, ci sono delle criticità. Ma prima di tutto bisogna intervenire per dare istruzione e lavoro ai detenuti. Molti agenti mi dicono: “Se stanno bene loro, stiamo bene anche noi”. Non c’è dicotomia, ci sono buone possibilità per lavorare tutti nella stessa direzione. Se da un lato bisogna potenziare la presenza di assistenti sociali ed educatori, dall’altra si deve insistere sulla formazione degli agenti. Servirebbe, inoltre, un supporto psicologico fisso per la polizia penitenziaria”. Istruzioni e lavoro sono gli strumenti attraverso i quali è possibile il reinserimento e il recupero della popolazione carceraria. “Ridurre la recidiva significa aumentare la sicurezza dei cittadini - ha sottolineato il deputato Andrea Giorgis. Durante la pandemia, per arginare il sovraffollamento e i contagi sono state adottate misure straordinarie per favorire l’esecuzione della pena residua non superiore a 18 mesi: l’aumento della detenzione domiciliare, di licenze e permessi per coloro che sono in regime di semilibertà e in lavoro esterno. La recidività non è aumentata, queste soluzioni devono diventare strutturali. Il carcere è un’estrema ratio, nei casi in cui non c’è pericolo sociale bisogna applicare forme alternative”. A fare la sintesi dei tanti interventi che si sono susseguiti è stata Rossomando, che rimarca l’importanza della rete sociale formata da istituzioni, enti locali e terzo settore: “Servono anche riforme strutturali per istruzione, formazione e implementazione tecnologica. Per noi la pena non è solo il carcere, ma la ricerca di un percorso che porti il più possibile al recupero sociale dei detenuti ai quali vanno riconosciuti i diritti fondamentali”. Trento. Carcere, la Giunta incalza il ministero: “Detenuti oltre il tetto previsto” Corriere del Trentino, 19 marzo 2022 “Sappiamo che il carcere di Trento da tempo ha problemi di carenza di personale, insufficiente per il numero di detenuti, per altro superiore agli accordi”. Il presidente Maurizio Fugatti incalza Roma. E ricorda: “Abbiamo informato il ministero, ora sentiremo la direzione del carcere e i sindacati”, afferma a conclusione della seduta di giunta che si è tenuta a Lona-Lases. La prossima settimana Fugatti riceverà i rappresentanti sindacali degli agenti di polizia penitenziaria in servizio a Spini di Gardolo, un incontro atteso che si terrà a pochi giorni di distanza dalla nuova aggressione avvenuta all’interno della casa circondariale. “Una violenza inaccettabile”, afferma il sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe) che denuncia un’escalation di episodi. L’ultimo mercoledì sera quando un detenuto ha aggredito con una spranga metallica (ricavati dal profilato di una finestra), un agente colpendolo brutalmente al capo. L’uomo è stato arrestato per tentato omicidio e questa mattina sarà interrogato dal gip. Una violenza inspiegabile che riapre un’antica ferita. Da tempo i sindacati denunciano le gravi difficoltà di gestione dei detenuti in carcere e la cronica carenza di organici. E ora, a fronte dell’ennesima aggressione, i sindacati Osapp, Uilpa polizia penitenziaria e Fnp Cisl del Trentino hanno indetto una giornata di mobilitazione. Le organizzazioni scenderanno in piazza il 31 marzo con un presidio davanti alla sede del Commissariato del Governo dalle 9 alle 11 del mattino, poi, dalle 14 alle 15.30, si sposteranno in piazza Dante, ai piedi del palazzo della Provincia. Una seconda giornata di protesta sarà organizzata il 4 aprile davanti al Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria di Padova. Ma sono i numeri a dare il senso delle gravi criticità che la polizia penitenziaria deve affrontare quotidianamente. La pianta organica prevede 227 agenti, ma sono in servizio solo 150, con una carenza organica di ben 75 unità. I sindacati chiedono di incrementare velocemente l’organico con almeno 30-40 nuovi agenti. “Sono passati pochi mesi dalle ultime due aggressioni all’interno dell’istituto penitenziario di Spini di Gardolo eppure, nulla sembra essere cambiato”, afferma la Fp Cgil che chiede un piano di assunzioni. “Queste aggressioni non possono più essere definite fatti episodici e casuali - spiega Giovanni Virruso. A maggior ragione se anche questa volta l’aggressore era stato segnalato in precedenza a chi avrebbe dovuto prendere provvedimenti non l’ha fatto. Noi continueremo a denunciare la strutturale mancanza di personale e di servizi indispensabili in queste strutture”. La sicurezza e l’incolumità psico-fisica dei lavori restano una priorità per la Fp Cgil: “Servono provvedimenti che invertano in maniera decisa un andamento preoccupante”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Garante dei detenuti e Libera nelle carceri contro le mafie di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 19 marzo 2022 Il Garante Ciambriello: “Parlare di crimine organizzato e vittime di mafia per non restare indifferenti”. Si è concluso oggi, con l’iniziativa organizzata nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, il ciclo di incontri nelle carceri campane, promosso dal Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, e dall’associazione “Libera contro le mafie”, presieduta da Don Ciotti, in vista della Giornata nazionale dell’impegno e della memoria delle vittime innocenti di mafia, in programma a Napoli il prossimo lunedì. Nella chiesta dell’istituto di pena, hanno partecipato all’incontro la Direttrice, Donatella Rotundo, il Garante dei detenuti campano, Samuele Ciambriello, il Senatore Sandro Ruotolo, la referente “Libera Caserta”, Marilù D’Angelo, oltre che Marzia Caccioppoli e Bruno Vallefuoco, familiari di vittime innocenti di Camorra e una delegazione di studenti e docenti dell’Istituto tecnico “Leonardo Da Vinci” di Santa Maria Capua Vetere. A prendere per prima la parola è stata la direttrice dell’istituto penitenziario, leggendo un passo del libro “Ali bruciate. I bambini di Scampia”, scritto da un ex detenuto da lei conosciuto diversi anni fa. La lettura ha anticipato una sua riflessione sul concetto di malavita e criminalità organizzata. Il Garante dei detenuti, Samuele Ciambriello ha sottolineato “come il 21 marzo, giorno di inizio della primavera, rappresenti anche il risveglio della verità e della giustizia sociale. In Italia su 1040 vittime innocenti di mafie, metà sono campane. È importante parlare di criminalità organizzata e ricordare le vittime innocenti per non restare indifferenti. L’indifferenza è un proiettile che uccide più di un’arma”. Toccante la testimonianza di Bruno Vallefuoco, padre di Alberto, ucciso erroneamente nel 1998 dalla Camorra, mentre insieme a due colleghi si recava ad un corso di formazione. “La parola legalità andrebbe sostituita con responsabilità e corresponsabilità - ha affermato - La sentenza, anche se dura, non mi ridarà indietro mio figlio. Nel vocabolario troviamo solo le parole orfano e vedovo, mentre non esiste un termine che indichi lo status di genitore che perde un figlio”. Incisivo anche il racconto di Marzia Caccioppoli, mamma di Antonio, bimbo di 9 anni morto per una malattia causata dalle tossicità nella c.d. Terra dei fuochi. “Sono dieci anni che combatto con don Maurizio Patriciello per la salvaguardia del futuro dei giovani. Antonio, ad ottobre scorso, avrebbe compiuto 18 anni e per una madre di figlio unico è un dolore inspiegabile”. È costante l’impegno di Marilù D’Angelo, referente di “Libera Caserta”, che ha raccontato la sua esperienza nel contrasto alla criminalità organizzata, anticipando qualcosa di ciò che avverrà nella giornata della Legalità del 21 marzo. Poco prima della conclusione dell’incontro, un detenuto ha chiesto di parlare, ponendo diversi interrogativi ai presenti sul tema della rieducazione del condannato, fondamentale per trovare opportunità di lavoro e vivere secondo legalità, una volta uscito dal carcere. A concludere è stato il senatore Sandro Ruotolo. Le sue parole suonano come un appello alle coscienze: “Non c’è futuro per chi sceglie la vita del crimine organizzato. La cultura rende liberi e, se volete essere liberi, dovete dire di no alla criminalità organizzata, perché in caso contrario si è solo sudditi. Sareste senza sogni, ma ognuno ha il diritto di sognare”. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere ospita 798 detenuti, di cui 165 stranieri e 52 donne, tutte con reati associativi. Reggio Calabria. “Libera-Mente. Genitorialità oltre le mura” ilmetropolitano.it, 19 marzo 2022 I padri detenuti si sentono totalmente delegittimati, sono certi di non avere un posto. Per un padre, il carcere è un grave pericolo per gli scopi della sua stessa funzione genitoriale, per la sua autostima. Un tema di grande rilevanza sociale quello pensato per la progettazione dell’evento/percorso “Libera-Mente. Genitorialità oltre le mura”. Quante cose riesce a raccontare un bambino a colloquio? Quante ne riesce a dire un padre? Seduti ad un tavolo non si possono condividere esperienze: si possono ricordare, se ve ne sono state, o si può sperare. Difficilmente un figlio, peggio se bambino, si rassegna ad accettare che suo padre non possa tornare a casa con lui e sua madre. Mangiare insieme, condividere una passeggiata, trovarlo all’uscita di scuola. Da queste domande, dalla crescente sensibilità dei professionisti della città, dalle interlocuzioni Istituzionali tra l’ufficio del Garante Avv. Russo, la Camera Penale G. Sardiello presieduta dall’Avv. Pasquale Foti e dall’Assessore al Welfare Demetrio Delfino si è costruito l’evento “Libera-Mente. Genitorialità oltre le mura”. Un percorso sulla genitorialità in carcere. Il sistema penitenziario, afferma il Garante deve rispettare i diritti inviolabili dell’uomo, del genitore nonostante viva in una struttura detentiva. Il secondo articolo della nostra Costituzione, infatti, sancisce che ‘La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale’. Tra questi diritti inviolabili dell’uomo ritroviamo sicuramente il diritto all’affettività ed alla genitorialità a maggior ragione se reclusa. Un pensiero condiviso da tutti quello espresso dall’Avv.to Foti “La detenzione minaccia e spesso cancella la funzione di essere padri. È indispensabile che i genitori detenuti siano supportati e accompagnati nell’esercizio del proprio ruolo, poiché il confronto con il giudizio sociale, che varia a seconda delle culture, è spesso crudele. La camera penale di Reggio Calabria vuole cristallizzare e sensibilizzare la società civile al tema della giustizia sociale e delle problematiche afferenti il diritto penitenziario”. Per la società quasi mai un detenuto può essere un buon genitore: la società si chiede cosa sia in grado di offrire ad un figlio un uomo incapace di discernere tra il bene e il male o peggio un uomo che ha commesso un reato, prosegue il Garante Questo il pensiero che ha permesso di ideare un percorso partendo dalla festa del Papà in carcere, ma che ha trovato una battuta d’arresto a causa dei contagi Covid in aumento nella provincia regina. Motivo per cui le Istituzioni coinvolte di concerto con la Direzione dell’Istituto Penitenziario, a maggior tutela della salvaguardia del diritto alla salute dei detenuti, ha ritenuto corretto rinviare a tempi più sereni. È un progetto che solo momentaneamente ha subito una battuta d’arresto dichiara Delfino, perché le Istituzioni sensibili alla giustizia reputano di dover in primis dimostrare attenzione all’altro soprattutto preservando i detenuti dal rischio di contagi Covid intramurari. La pandemia argina solo temporaneamente un’idea che è un percorso non fine a se stesso, ma di sensibilità e supporto ai percorsi trattamentali. In questi anni intere generazioni di padri si sono scoperte disorientate, incapaci di comprendere quale ruolo esercitare, vivendo un diritto legittimo in funzione di quanto necessariamente stabilito da altri. Reggio cambia passo e lo fa partendo dal tema della genitorialità in carcere con una progettualità istituzionale concreta, professionale e umana, ma soprattutto avendo sensibilità per le istanze dei padri detenuti così come già avvenuto nei giorni scorsi per le donne e madri dell’Istituto Panzera, chiosa il Garante. Catanzaro. Al carcere di Siano l’Istituto Agrario progetta l’orto estivo lanuovacalabria.it, 19 marzo 2022 Anche nel chiuso di un penitenziario, attraverso l’apprendimento il lavoro e la passione, è possibile dare una speranza di riscatto ai detenuti che hanno dimostrato di gradire mettendosi all’opera con entusiasmo. Lo sa bene l’Istituto Tecnico Agrario che nell’Istituto Penitenziario U. Caridi di Siano - Catanzaro ha una sezione dove i detenuti delle sezioni Media e Alta Sicurezza studiano per diventare Periti Agrari, nell’ambito dei programmi di rieducazione e reinserimento nella società previsti dai Ministeri della Pubblica Istruzione e della Giustizia. Obiettivo principale è la garanzia di pari opportunità agli studenti in esecuzione penale e di una politica dell’istruzione integrata con la formazione professionale, in collaborazione con le Regioni e il mondo delle imprese, anche attraverso percorsi di apprendistato e tirocinio. E così nel Penitenziario sotto la spinta propulsiva della direttrice Angela Paravati, con il funzionario capo dell’area educativa Giuseppe Napoli è stato realizzato interamente dai detenuti, sotto la guida dell’assistente Francesco Cosentino e con il contributo di Calabria Verde che ha fornito le piante e le strutture di sostegno, un bellissimo vigneto sperimentale che da questa campagna agraria è entrato in produzione. A causa delle problematiche connesse all’epidemia Covid, per motivi sanitari, tutte le attività didattiche hanno subito dei rallentamenti, ma da pochi mesi grazie all’intraprendenza e all’iniziativa di Emy Citraro, docente di Gestione Ambiente e Territorio, dell’Insegnante Tecnico Pratico Emanuele Mastroianni, con la fattiva collaborazione degli assistenti di Polizia Penitenzia Rosario Alimondi e Pasquale De Fazio, e degli altri docenti disciplinari una nuova aria si respira nelle aule e negli spazi esterni che vengono utilizzati per le esercitazioni. La Prof. Citraro, infatti, ha contattato le aziende vivaistiche, Milone e Santacroce di S. Eufemia Lamezia, Ammirata Giuseppe di Bisignano e l’azienda Rocca Celestina di Lamezia Terme che, aderendo con slancio all’invito della docente e riconoscendo l’alto significato sociale nonché professionale dell’iniziativa hanno donato un ingente quantitativo di piante erbacee, arboree, concimi, teli pacciamanti e terricciati. Informati la Dirigente Rita Elia, che ha sposato con entusiasmo l’iniziativa e la referente Prof.ssa Gisella Gigliotti, la programmazione degli interventi è stata concordata con il Prof. Alberto Carpino Collaboratore della DS, nonché responsabile dell’Azienda Agraria e della Cantina della sede Centrale della scuola Agraria di Via Cortese. Così dopo quasi 3 anni i detenuti, della Media e Alta Sicurezza, hanno potuto misurarsi con la didattica laboratoriale, progettando l’orto estivo, mettendo a dimora pomodori, cetrioli, melanzane, peperoni tondi e quadrati, fragole, piselli, fagiolini, fragole, carciofi ecc. In un’area esterna, sarà realizzato un orto denominato con un pizzico di sana ironia “Piccanti evasioni”, in cui saranno messi a dimora piante di diverse varietà di peperoncini calabresi, notoriamente famosi per la loro piccantezza. Sarà altresì creato il “giardino dei cinque sensi” dove prenderanno posto le piante aromatiche come timo, alloro, basilico, origano, salvia, rosmarino, lavanda, prezzemolo, sedano, un posto dove ogni persona può odorare, vedere, toccare, udire e gustare utilizzando tutti i cinque sensi. Per completare la filiera agricola e per rispettare la vocazionalità del territorio catanzarese sono state messe a dimora anche alcune piante di Agrumi quali Arance e clementine. Il dolore altrui, i nostri dilemmi di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 19 marzo 2022 Quanto saremmo disposti a pagare, in termini di sacrifici, per difendere le libertà e i diritti di altri che mai come in questo momento, scopriamo essere fragili come i nostri? Il dolore degli altri, reso acuto e straziante da una guerra alle porte dell’Europa, scuote le coscienze individuali e solleva antiche paure che credevamo ormai sepolte nelle memorie familiari. Siamo solidali e generosi con il popolo ucraino, aggredito da Putin, ed è encomiabile lo slancio dell’accoglienza di fronte all’esodo di profughi più massiccio dalla fine della Seconda guerra mondiale. Anche da parte di chi, specie nell’Est Europa, aveva eretto, vantandosene, barriere di filo spinato per respingere disperati in fuga da altre tragedie o, in casa nostra, invocava blocchi navali, voltando lo sguardo altrove. Il dolore non ha latitudine né colore della pelle. E non esiste una graduatoria del valore delle vite. Anche se a perderle è qualcuno più vicino a noi, più simile a noi, parte irrinunciabile della nostra storia europea. Come ci comporteremo, d’ora in poi, con chi fugge da guerre e carestie (indotte anche dall’attuale conflitto) e approda lungo le nostre coste? Ma c’è un’altra domanda che dobbiamo fare a noi stessi, confidando in un sussulto di sincerità. Quanto saremmo disposti a pagare, in termini di sacrifici, per difendere le libertà e i diritti di altri che mai come in questo momento, scopriamo essere fragili come i nostri? E basta il timore di rimanere al freddo, di rinunciare anche a un briciolo del nostro benessere, delle nostre comodità, per mettere in discussione la sacralità di quei principi e giustificare sempre il “sano realismo” delle convenienze? L’appeasament 2.0. Non avendole conquistate noi, quelle libertà, ma altre generazioni, non è fuori luogo avanzare il dubbio sul loro valore di scambio. Considerandole acquisite per sempre le abbiamo svalutate. Essere consapevoli dei nostri limiti, e delle relative ambiguità, ci aiuta a capire meglio quanto quelle libertà siano essenziali e a difenderle da debolezze e paure. A proteggerci di fronte alle svolte improvvise, a choc inattesi. Ma anche a comprendere - ed è questo il punto - che i buoni sentimenti hanno un costo. Una solidarietà gratuita è solo apparente. Non ci si può illudere - come è avvenuto per esempio con le tante assenze al voto alla Camera sugli aiuti all’Ucraina - che si possa essere concretamente solidali senza mettere in discussione qualche posizione acquisita e accettare delle rinunce. Se per esempio si decide di investire di più per la difesa (leggi armi) è inevitabile che si tolga qualcosa ad altre attività civili, la sanità per esempio. A meno che non si sia intimamente convinti - e ne abbiamo il sospetto - che ci si possa indebitare spendendo senza limiti. Il vecchio dilemma (burro o cannoni) torna d’attualità. Far finta di niente è un modo di ingannare, oltre gli altri, molti dei quali sotto le bombe, anche noi stessi. E ancora: ogni pericolo più grande (la guerra) ne scaccia un altro (il Covid) ma non lo elimina d’incanto, anche se nella percezione collettiva è esattamente quello che sta accadendo. Così come un grave stato di necessità, come la dipendenza dal gas russo e l’esplosione dei costi dell’energia, non toglie drammaticità all’emergenza ambientale che pare di colpo dimenticata. E c’è da dubitare sulla nostra reale volontà di difendere l’ambiente se basta uno scossone ai mercati per rendere indispensabile ciò che avremmo voluto bandire per sempre (esempio il carbone). Senza alcuna discussione. La transizione energetica è più complessa e costosa di quanto non si pensi. La realtà si è incaricata, dunque, di denudare qualche velleitarismo o ingenuità di troppo. E anche ideologie che sembravano granitiche. Se manca il grano - anche questo per colpa della guerra - non è poi un grande problema importare i famigerati Ogm. Non ne parla nessuno. Se la crisi russo-ucraina ci toglie l’olio di semi di girasole allora si è costretti a rivalutare l’olio di palma nonostante proclami nutrizionisti e messaggi pubblicitari. La sola paura degli scaffali vuoti di un supermercato agita fantasmi di nuove povertà e polverizza tendenze e mode. Lo stato di necessità è, nel diritto, un’attenuante o persino un’esimente. Ma in questo caso non è un alibi. Né una lavanda delle coscienze. Anche se noi, avvolti nel nostro benessere che riteniamo intoccabile, ne siamo sotto sotto convinti. L’ingiustificata corsa agli armamenti di Pierfrancesco Majorino* Il Manifesto, 19 marzo 2022 Immaginare di programmare l’aumento di diversi miliardi di euro nei prossimi anni è un contributo all’”escalation” futura che non mi sento di condividere. Dietro a quel gesto, fino ad ora tradottosi nell’adozione di un semplice ordine del giorno non c’è l’Ucraina. Tutt’altro. Da alcuni giorni sono in Polonia dove ho visitato alcuni luoghi di confine con l’Ucraina, tra cui il punto di attraversamento e organizzazione della solidarietà di Medyka. Si tratta di un tentativo che sto realizzando in punta di piedi, per capire meglio quel che è e sarà il grande esodo costituito da chi fugge dalla guerra e per ragionare con esponenti della società civile e delle istituzioni su come far vivere azioni di sostegno al popolo ucraino. Faccio parte di quel drappello di parlamentari - italiani ed europei - che a tale proposito si era anche detto disponibile a varcare la frontiera per portarsi nelle città oggetto della folle guerra di Putin. L’intervento del ministero degli Esteri ci ha fatto cambiare programma e, davvero senza voler fare una ridicola polemica, ho preferito recarmi comunque su parte del “campo”, per capire meglio come rendersi utili in uno scenario sempre più complesso e drammatico. Vista dunque da qui, da dove scrivo, con ancora negli occhi le straordinarie esperienze di concretissimo aiuto che ho incontrato e la devastante stanchezza di questo fiume in piena, in larga parte composto da donne, bambini, anziani, mi vien da dire che si è di fronte ad alcune enormi necessità. La prima, la più ovvia e certamente non affermo nulla di originale, è quella costituita dal bisogno di riapertura di una dinamica negoziale che, proprio al fine di favorire tregua, pace e ricostruzione veda l’Europa molto più protagonista. In fondo chiedere, come stiamo facendo in tanti, a capi di governo e di istituzioni continentali, di rinunciare a “Versailles” ma di spostarsi a “Leopoli” per vertici e prese di posizione ha anche questo significato: auspicare un drammatico bisogno di un protagonismo politico più forte innanzitutto affinché si abbandoni la strada della guerra. Tentando poi, a partire da possibili pertugi di fronte a noi, di rilanciare un processo di Pace su ampia e vasta scala. La seconda importante necessità è relativa proprio al confronto con l’esodo. Si è di fronte ad uno spostamento enorme di persone dentro lo spazio europeo: famiglie spezzate dall’orrore del conflitto, soggetti fragili, cittadine e cittadini che tentano di acciuffare frammenti di presente e di futuro. Si tratta di una vicenda enorme, che lascerà a lungo conseguenze, e con cui l’Europa si deve misurare affrontando le difficoltà con lo spirito solidale sin qui messo in campo e con la volontà non solo, come tante volte viene scritto anche su il manifesto, di “non discriminare”, ma proprio di praticare un radicale cambiamento sulla gestione complessiva dell’immigrazione. Al fine di dare vita ad una nuova storia e non ad un’eccezione della (pessima) regola. Le attenzioni straordinarie finalmente rivolte a chi scappa dalla disperazione e dall’aggressione devono e dovranno infatti ritrovarsi sempre. A tale proposito, peraltro, servirebbe quel coraggio che è mancato in passato affinché venga cancellata la gestione di “Frontex” e si dia vita ad un corpo di solidarietà europeo di carattere umanitario e civile capace di sostenere solidarietà e accoglienza nelle emergenze. Inoltre potremmo dire che l’Europa, come viene spesso ribadito, dovrebbe proprio a partire da questi mesi produrre un’accelerazione imponente per rafforzare politica comune, politica estera comune, difesa comune. Il tema è ovviamente essenziale. E da sostenitore dell’autonomia strategica europea e della cultura del multilateralismo non posso che concordare con i tanti richiami rivolti in questa direzione. Con un particolare in più. Riterrei particolarmente dannoso e grave se si accompagnasse ad un simile balzo concettuale e politico un ingiustificato aumento della spesa militare. In questo quadro ho ritenuto sbagliata la scelta operata dai deputati italiani di - come fatto anche altrove - perorare la corsa al “2% del PIL” come traguardo relativo agli impegni di spesa nel campo militare. Immaginare di programmare l’aumento di diversi miliardi di euro nei prossimi anni è un contributo all’”escalation” futura che non mi sento di condividere. Dietro a quel gesto, fino ad ora tradottosi nell’adozione di un semplice ordine del giorno non c’è l’Ucraina. Tutt’altro. Perfino la scelta, che io considero dolorosamente necessaria, di fornire armi a chi resiste di fronte alla guerra di Putin non ha nulla a che vedere con lo sviluppo della nostra “spesa” futura per svariati miliardi. E poi diciamoci la verità, quel che colpisce è come si parta maliziosamente dalla “coda”. Invece che sciogliere i nodi profondi riguardanti il rafforzamento della politica comune, sino ad immaginare per l’appunto di condividere la strategia di Sicurezza, si parte dal fondo. Affermando, si perdoni la semplificazione “innanzitutto aumentiamo il denaro per gli armamenti”. Raccomanderei non solo più cautela ma, pure, di non farsi incantare dalle sirene dell’industria bellica che ancora una volta preme alla porta avendo in mente il proprio legittimo profitto. Profitto, perseguito, non dimentichiamolo in tutti questi anni, vendendo armi a destra e a manca (perfino ignorando le raccomandazioni del Parlamento europeo). All’Egitto di Al Sisi come, guarda un po’, alla Russia di Putin. *Europarlamentare del Pd Il benessere e la sicurezza non passano per la corsa alle armi di Nadia Urbinati Il Domani, 19 marzo 2022 In Europa, l’invasione russa dell’Ucraina ha ossigenato la corsa al riarmo, un processo già in atto durante la pandemia, come ha scritto Stefano Feltri su Domani. Il vecchio continente è rinato dalle macerie della Seconda guerra mondale con una politica kantiana: integrazione commerciale e culturale, pace e benessere. L’Unione europea senza una comune politica di difesa: la Nato, e gli Stati Uniti come sua massima agenzia di approvvigionamento, è stata per anni l’allenza-schermo dietro alla quale l’Europa si è costruita un’immagine rassicurante. Non senza generare critiche di ipocrisia: ricordiamo una celebre copertina del New Yorker, precedente all’attentato terroristico del 2001, nella quale Usa e Ue erano raffigurati con due file di persone in attesa di imbarcarsi su un aereo: la prima fila era un mondo variegato, multietnico, un po’ sgangherato, con i viaggiatori che soffrivano in piedi; la seconda era tutta bianca, con gente ben vestita e che attendeva seduta, bevendo e fumando. I paesi europei sembrano voler correggere quell’immagine iconica di benessere nella pace e si imbarcano in politiche di riarmo. La giustificazione al riarmo è iniziata con le immigrazioni dall’Africa e dal Medio Oriente che hanno sedimentato l’idea che i confini della Ue necessitino di una difesa non aleatoria (e che la Nato non può offrire). Poi, la Brexit ha aperto nuovi spazi di giustificazione visto che a quel punto la Francia era la sola forza militare preponderante, un fatto che alla Germania non doveva piacere affatto. La guerra in Ucraina arriva nel momento giusto e giustifica quel che neppure i massacri seguiti alla dissoluzione della Jugoslavia sono riusciti a giustificare. Il riarmo corposo della Germania, la costante crescita in vari paesi e in Italia del bilancio della Difesa stanno cambiando l’immagine dell’Europa, che non cesserà di godere dello proprio status di benessere ma lo riserverà probabilmente a fasce sempre più ristrette di una popolazione che è sempre più multietnica. La pandemia non è riuscita a motivare tanti finanziamenti alla salute quanto la guerra. Sembrerebbe che la produzione di armi si imponga come un settore di traino della ripresa economica più della sanità. La crisi energetica e il probabile razionamento sembrano dare una mano a questa nuova stagione di politiche nazionalistiche. Da un lato, il presidente francese Emmanuel Macron profila uno Stato che prenda il controllo del settore energetico e perfino un ritorno alla pianificazione. Dall’altro, una Germania che sembra convertita all’idea della spesa militare come volano di crescita. La rinascita dal Covid rivisita strade battute nel primo dopoguerra - nazionalismo economico e riarmo - e questo può difficilmente riservarci un mondo più giusto e più sicuro. Anche in passato, la militarizzazione è stata venduta come volano di benessere, un’ideologia che ha abbagliato perfino le socialdemocrazie. Ha senso essere preoccupati. Delrio (Pd): “Dobbiamo fermare la corsa al riarmo” di Andrea Carugati Il Manifesto, 19 marzo 2022 Il dirigente Pd: “Vedo in giro una psicosi bellicista. L’Europa deve lavorare ora alla pace con la Russia, come fece Moro a Helsinki”. Graziano Delrio, ex ministro ed ex capogruppo Pd, non nasconde la sua angoscia per i tempi che stiamo vivendo. “Dopo due anni di questa lunghissima pandemia che ancora non finisce, adesso la guerra nel cuore dell’Europa. Credo sia proprio questo il momento in cui la politica deve utilizzare parole di speranza, indicare una prospettiva non solo militare ma di pace duratura. Non possiamo lasciare che a parlare siano solo le armi, dobbiamo rassicurare, mostrare un orizzonte, far percepire un impegno concreto della politica e dell’Italia per la pace e la sicurezza”. Eppure il ruolo diplomatico dell’Europa stenta a farsi sentire. Ci sono telefonate di Macron e Scholz con Putin, ma la guerra prosegue... La guerra è sempre un fallimento della politica. È evidente che la responsabilità della situazione è dell’aggressore, ma in questi giorni vediamo i gravi limiti di una Europa che non ha una politica estera e di difesa comune. Questa è una crisi interamente europea, Kiev così come Mosca e San Pietroburgo sono città europee, il problema non è la mancanza di abilità del singolo leader, ma il salto di qualità che ancora non c’è stato. Mi auguro che, come è avvenuto nell’affrontare la pandemia sul fronte sanitario e del debito, questa crisi possa essere l’occasione per l’Ue per fare questo salto nella politica estera che è quanto mai urgente. Altrimenti la nostra voce non si sente. L’Italia con altri paesi Ue ha deciso di inviare armi all’Ucraina. È la strada giusta? Ho votato a favore con tormento. Sono un pacifista convinto, consapevole che le armi lasciano sempre dietro di loro tragedie, non mi lascio sedurre dall’idea della corsa agli armamenti, della deterrenza come strada per costruire la pace. Ma questo è un avvenimento eccezionale, la prima volta che i confini di un paese europeo vengono aggrediti dopo la seconda guerra mondiale, e non possiamo invocare il diritto alla resa. La legittima difesa degli ucraini va aiutata, le armi possono servire a rallentare l’invasione e ad aprire trattative su una base più dignitosa per l’Ucraina. Allungando la guerra aumentano anche le vittime... Sono per la non violenza, ma non posso chiedere agli altri di arrendersi. La loro resistenza ricorda quella dei partigiani. Condivide questo paragone storico? Tra il 1943 e il 1945 era in corso una guerra mondiale... In comune c’è il diritto di resistere a una aggressione così palese, il concetto stesso di resistenza. Lo prevede anche l’Onu. Io avrei scelto un altro tipo di resistenza, ma era nostro dovere dare una mano: questo non significa che la diplomazia debba stare ferma. L’Europa deve parlare di pace, e farlo subito. E la pace si fa col nemico. Come fece Moro nel 1975 con gli accordi di Helsinki tra Russia ed Europa. Era un momento di contrapposizione frontale, eppure ha funzionato. Sono molto preoccupato da una logica bellicista, la scelta della Germania di investire 100 miliardi nella difesa non è una buona notizia. Lei si è astenuto, con altre due deputate Pd, sull’odg di maggioranza che aumenta le spese militari... Gli investimenti possono servire se si ragiona su una difesa comune europea, che permette anche di razionalizzare la spesa. Non condivido la logica degli aumenti indiscriminati. Vedo in molti animi quello che Giovanni XXIII definì “una psicosi bellica”. Eppure l’Italia prevede un aumento di 13 miliardi... Non basta un ordine del giorno, di queste cose bisogna discutere seriamente. Su cosa investiamo? Sulla cyber sicurezza? Certamente. Ma la Francia ha già 300 testate nucleari, non credo proprio che ne servano altre in Europa. La decisione del Parlamento mi pare più figlia di un riflesso automatico che di un ragionamento. Anche Macron annuncia il riarmo... Si invocano le armi quando la politica è latitante. Arrendersi alla logica bellica vuol dire negare il principio spesso su cui abbiamo costruito l’Europa. Putin a un certo punto, col suo paese in ginocchio, avrà bisogno di una via d’uscita. Sì, parlare di riduzione delle spese militari in questa fase non è solo utopia. In momenti ancora più difficili si sono firmati trattati per la riduzione delle armi nucleari. Se ci arrendiamo alla logica di Putin siamo noi gli sconfitti. Ora più che mai serve un nuovo trattato per la sicurezza in Europa, Russia compresa. E lo capiranno anche loro. Come diceva Tolstoj, la grandezza della Russia è un fine che si sarebbe potuto perseguire anche senza guerre. Anche in questa crisi l’Ue è eccessivamente a ruota degli interessi americani? La colpa è nostra, non possiamo lamentarci del protagonismo degli Usa o della Cina se non siamo in grado di esprimere una politica estera comune. Mi auguro che questa sia l’occasione perché l’Italia, con Francia, Germania e Spagna, avvii una cooperazione rafforzata in tema di difesa. Come valuta il dibattito italiano di questi giorni? C’è una psicosi bellicista? Nella nostra società il no alla guerra è un sentimento molto radicato, l’articolo 11 della Costituzione non è stato scritto a caso. Il governo e il Pd hanno toni troppo bellicisti? Giusto che l’Europa abbia risposto in modo compatto all’aggressione. E che anche l’Italia sia stata unita. Ma dopo tre settimane questa unità va usata nell’azione diplomatica. Il tempo di parlare di pace è adesso. Nel Pd si è sentito isolato? No. Nel Pd ci sono tante sensibilità ma tutti concordiamo sul primato della politica e della diplomazia. E nel rapporto con la Russia noi non abbiamo retropensieri o scheletri nell’armadio. Ucraina. L’ultimo affronto agli innocenti di Lucetta Scaraffia La Stampa, 19 marzo 2022 Nell’elenco purtroppo sempre più numeroso dei mali causati dalla guerra in Ucraina ne è stato aggiunto un altro: non è definito, ma pare comunque alto il numero dei neonati nati da donne che hanno fornito l’utero in affitto e che - a causa prima del Covid e poi della guerra - non hanno potuto essere, diciamo così, ritirati dai committenti. Per di più, ci sono donne - circa 500 - in attesa di partorire bambini su commissione che non si sa che fine faranno. Alcuni dei neonati, si sa, sono finiti in orfanotrofio o in certi casi portati via dai russi, ma comunque il loro recupero sembra quanto mai improbabile. Poveri piccoli innocenti. Siamo sicuri però che la responsabilità di tanto strazio sia solo della guerra, o della pandemia? Non vogliamo proprio vedere che questi bambini, più che come esseri umani, sono stati trattati fin dal progetto come merce, che - proprio come può succedere per le merci - gli acquirenti ora non sono in grado di ritirare? Succede per tanti prodotti, lo sappiamo, e vengono mandati al macero o, se qualcuno li compra, svenduti. La sorte di questi poveri innocenti rivela cosa è veramente la pratica dell’utero in affitto, che si cerca sempre di velare con penose giustificazioni, descrivendola come aiuto a chi non può avere figli, come dono di una donna a un’altra. In realtà è uno spietato mercato che coinvolge donne povere pagate da donne e uomini ricchi, con la mediazione di società che lucrano sullo scambio, e che in questo momento non funzionano più, spazzate dai malanni della storia. Da una parte bambini abbandonati e finiti chissà dove, dall’altra donne incinte di figli che non sono loro, prodotti da vendere, che per riuscire in questa impresa sono state imbottite di ormoni, mettendo in pericolo la loro salute, e che ora non sanno che fine farà il frutto del loro corpo. Ma che comunque, con questo piccolo che hanno tenuto, o forse tengono ancora oggi, in pancia, hanno un rapporto, anzi un legame indistruttibile. Sarà dura, per chi vuole legittimare la pratica dell’utero in affitto, continuare a descriverla come un dono grazioso che arriva attraverso uno scambio sicuro. Quanto sta accadendo in Ucraina mette a nudo la crudeltà e la pericolosità di questa compravendita. Rimane ancora una domanda: perché anche in Italia si ricorre sempre più spesso a questa mercificazione della gravidanza? Sappiamo che il crollo delle nascite nel nostro paese non è dovuto solo a una mancanza di volontà da parte dei possibili genitori, ma anche - e in misura non certo trascurabile - alla crescita costante della sterilità. Una delle ragioni principali di questa sterilità è l’età avanzata alla quale le donne decidono di mettere al mondo un figlio, spesso anche illuse da una falsa onnipotenza esibita dalle tecniche di inseminazione assistita. Invece in Ucraina, non solo le donne che vendono l’utero sono giovani, ma in generale, come vediamo dalla composizione della massa di profughi che si sta riversando in Europa, il Paese rigurgita di bambini e di giovani mamme. Le donne ucraine sono sicuramente più povere delle italiane, di sicuro come quelle italiane vogliono affermarsi nel mercato del lavoro, e non possiamo certo credere che gli asili nido abbondino lì più che in Italia. È lecito quindi domandarsi: perché fanno i bambini da giovani, e al tempo stesso affrontano le difficoltà economiche e lavorative relative alla maternità? Le donne ucraine ci fanno capire che la spinta a fare figli non viene dalla sicurezza economica, dall’efficienza dei servizi (anche se beninteso queste sono tutte cose utilissime che non ci si deve stancare di chiedere): il boom delle nascite da noi c’è stato nei duri anni del dopoguerra e anche durante la guerra esse non sono mancate. I bambini nascono quando c’è voglia di futuro e di speranza, soprattutto quando si pensa che i rapporti umani valgano di più di un livello maggiore di benessere, di un successo nel mondo. I poveri bambini dispersi dal mercato degli uteri in Ucraina sono le vittime della nostra incapacità, - di noi che abitiamo in questa parte del mondo - di accettare il sacrificio che comporta avere dei figli da giovani, della nostra illusione che anche le coppie dello stesso sesso possono generare dei figli. Sono vittime della nostra idea utopica di potere piegare la vita come ci pare e piace senza tenere conto delle realtà più elementari. Sono vittime innocenti dell’utopia e di una distorta idea dei diritti individuali. Del loro triste destino siamo tutti noi a portare la responsabilità. Russia. Le donne coraggio che sfidano lo zar di Linda Laura Sabbadini* La Stampa, 19 marzo 2022 Donne russe coraggiose. Un gesto eclatante quello di Marina Ovsyannikova la giornalista televisiva che ha avuto il coraggio di sfidare Putin. È comparsa con la scritta contro la guerra. “Quello che sta accadendo ora in Ucraina è un crimine. E la Russia è l’aggressore. La responsabilità è di una persona sola e questa persona è Vladimir Putin”. Non solo, ha chiamato alla mobilitazione contro la guerra fratricida. “È solo nel nostro potere fermare questa follia. Scendete in strada. Non abbiate paura. Non possono incarcerarci tutti”. E la prima ballerina del Bolshoi, Olga Smirnova, dimessasi per protesta, contro la guerra “in tutte le fibre della mia anima”. E ancora la fashion blogger Veronika Belozerkoskaya che denunciava le atrocità commesse dall’esercito invasore russo contro i bimbi ucraini e ha 900 mila follower. Incarcerata, in base alla nuova legge sulle fake news. E poi le due amiche che hanno portato i fiori all’ambasciata ucraina insieme ai cinque figli, arrestate con i figli. Sono casi isolati? Non sembra. Tante donne manifestano. Tante donne arrestate. Segnali forti di speranza. Segnali forti di coraggio. Putin non ha avuto il coraggio di arrestare la giornalista televisiva col cartello contro la guerra, almeno per ora. E questo vuol dire qualcosa. Perché Putin sa bene che la giornalista, che è popolare, esprime ad alta voce, mettendo a rischio se stessa, il sentimento di tante madri che hanno figli giovanissimi al fronte, che non sapevano di andare in guerra. Tante madri a cui neanche verrà restituito il corpo dei loro figli. Tante donne che considerano il popolo ucraino un popolo fratello. Le donne russe sono le più penalizzate dall’assenza di democrazia. La dittatura perpetua l’oppressione e la violenza maschile contro di loro. Ma sono forti, chissà che non rappresentino proprio loro il tallone di Achille, il vulnus della Russia di Putin. Non a caso Zelensky ha fatto appello soprattutto a loro. Conosce il loro dolore di madri e di donne. D’altro canto la libertà ha un fascino unico, è magnetica e travolge alla fine i dittatori, perché il risveglio delle coscienze arriva, prima o poi. Dopo 30 anni di democrazia, il popolo ucraino non vuole rinunciarci. Fa la resistenza di popolo. Più questa si rafforzerà, più possibile sarà il contagio in Russia. E Putin questo lo sa e ha tentato il blitz. Ma non gli è riuscito. Aiutare la resistenza ucraina, anche con le armi, è stato giusto. Se ci saranno sprazzi di trattativa vera, lo dovremo alla resistenza popolare. Serve ancora sostenerla, per costringere Putin a rispettare la libertà e l’indipendenza di un popolo e le regole del diritto internazionale. Serve ancora, non sottovalutiamolo, per dare forza all’anelito di libertà che si esprime nelle manifestazioni represse in Russia. È una questione di diritti del popolo ucraino e di doveri del nostro, dell’Europa, dell’Occidente, fornire sostegno forte in tutte le forme, mobilitandosi, verso una pace giusta. Perché più forte sarà la resistenza più la pace sarà giusta e duratura. Ha ragione Zelensky. Le donne e gli uomini ucraini stanno combattendo anche per noi. E stanno dando al mondo un grande esempio di come si difende la democrazia e la libertà. È ora chiara la posta in gioco. Chi parla di un Occidente che si sarebbe “preso” i Paesi europei che stavano sotto l’influenza russa, dimentica che questi Paesi si sono autodeterminati in modo sovrano, libero e democratico. Sono gli acerrimi nemici del nuovo zar, perché ne conoscono il giogo meglio degli altri. Non sono stati invasi, hanno scelto in libertà, invece di far assassinare e incarcerare i propri oppositori. E così anche l’Ucraina. E paga un alto prezzo con l’invasione di Putin, come potrebbero pagarlo anche altri. *Direttora centrale Istat In Libia c’è il regno del terrore per chi rivendica diritti civili di Yousef Murad Il Domani, 19 marzo 2022 Tripoli, Derna, Bengasi. Sono decine gli attivisti e difensori dei diritti umani arrestati illegalmente negli ultimi giorni. Una campagna guidata da Lotfi Al-Hariri e dagli uomini dell’Agenzia per la sicurezza interna. Nelle chat su Facebook girano i video delle confessioni estorte sotto costrizione e cresce la paura tra gli attivisti nascosti a Tripoli. In tanti si chiedono come lasciare il paese. E decine di giovani sono già arrivati in Tunisia. È questo l’ultimo round di intimidazioni e di arresti per schiacciare quel poco che era rimasto di una Libia che si oppone al controllo dei gruppi armati sulla società. Sono in tutto una decina gli attivisti arrestati e altrettanti i video-confessioni pubblicati dall’Agenzia per la sicurezza interna: “Confesso di essere ateo, laico e femminista” e ancora “confesso di utilizzare i social media e di agire contro la mia religione”. Tra i giovani arrestati ci sono anche dipendenti locali di organizzazioni umanitarie internazionali attive in Libia. Nella Libia post-Gheddafi, dove i gruppi armati e le milizie integrate nel governo continuano a mettere a tacere il dissenso e ad agire in un clima di totale impunità, cresce la paura. Sono tattiche illegali e pericolose, scrivono gli osservatori della missione Onu in Libia: “I video hanno suscitato incitamento all’odio e diffamazione contro gli attivisti per i diritti umani e i sostenitori della libertà di coscienza e di espressione”. Confessioni estorte - Decine di post sono apparsi online e sulla pagina Facebook “lotta al comportamento corrotto e all’immoralità in Libia”, con attacchi diretti ai membri della società civile libica, accusandoli di comportamenti anti-islam, ateismo e laicità. Sulla pagina Facebook, inoltre, ci sono decine di messaggi di supporto ai membri dell’Agenzia per la sicurezza interna: “Stanno lavorando per contrastare l’immoralità”. Una campagna che sembra cercare consenso e legittimità politica, e che mira attori locali e giovani libici tra cui i membri del movimento per i diritti umani Tanweer, sciolto ufficialmente lo scorso 13 febbraio, il movimento per il dialogo razionale, un gruppo creato su Facebook all’inizio del 2018; il movimento delle donne Tamazight e alcuni membri del gruppo Al-Barraka attivo su Club House. Sono decine di giovani arrestati e costretti a confessioni estorte sotto costrizione. Ora sono detenuti dagli uomini dell’Agenzia per la sicurezza interna, non è chiaro su quali accuse. Il 19 febbraio 2022, i social media dell’Agenzia per la sicurezza interna hanno iniziato a pubblicare i video dove i giovani vengono obbligati a confessioni pubbliche: “confermo di essere un membro del Movimento Tanweer e di promuovere l’infedeltà e l’ateismo”, ripete un giovane di 20 anni con il volto oscurato. Gli ufficiali delle Nazioni Unite sospettano che questa confessione sia stata estorta sotto costrizione. “Conosciamo queste tattiche criminali sono le stesse dell’era Gheddafi”, racconta un attivista libico ora in esilio in Germania e continua, “questi gruppi armati sono penetrati nella società libica e negli organi con tattiche fondamentaliste ed estremiste. Ora cercano appoggio e legittimazione”. Un altro attivista libico contattato da Domani ha confermato che le forze di sicurezza stanno portando avanti una massiccia campagna di arresti: “Siamo in Trappola. Nel mirino ci sono intellettuali, atei e comunità Lgbti+”, ha ribadito, chiedendo di rimanere anonimo per paura di ripercussioni. Fondato nel 2013, il Movimento Tanweer - dall’arabo illuminazione - era impegnato nel promuovere la tolleranza nella società libica attraverso una serie di programmi, dalla campagna per l’abrogazione della Sezione 424 del Codice Penale (che permette allo stupratore di sposare la propria vittima, in maniera da non essere perseguito penalmente), alla promozione dei diritti della comunità Lgbti+. In un comunicato diffuso dai membri del movimento - ora rifugiati all’estero - si annuncia la chiusura delle attività: “in una società che si oppone al cambiamento e che rifiuta la diversità e la libertà di espressione”. Omicidi e aggressioni - Intissar al-Hassayri, fondatrice del movimento Tanweer, era stata assassinata a colpi di arma da fuoco il 23 febbraio 2015 dopo aver ricevuto messaggi di minaccia sul suo account Facebook. Altri attivisti e dissidenti politici hanno lasciato la Libia dopo essere stati minacciati, aggrediti o detenuti arbitrariamente. Secondo le Nazioni Unite, ci sono almeno 10.000 persone detenute nei centri di detenzione controllati da milizie e gruppi armati. Episodi di gravissime violenze e di stupri sono stati recentemente documentati nella prigione di Mitiga, nei pressi dell’aeroporto di Tripoli, controllata dalle forze di deterrenza - Rada Special Deterrence Force (SDF) - una tra le milizie più influenti e potenti di Tripoli. Giudici e procuratori rischiano di essere sequestrati e assassinati semplicemente per il fatto di svolgere il loro lavoro. Gli attivisti del Cairo Institute for Human Rights Studies, un’organizzazione indipendente che raggruppa le associazioni locali libiche attive nella difesa dei diritti umani, sostengono che la società civile libica, così come le organizzazioni internazionali che operano nel paese, sono ancora soggette alla repressive pratiche dell’era Gheddafi : “Esistono decreti illegali e decisioni arbitrarie che autorizzano i gruppi armati di limitare e sospendere le organizzazioni della società civile”, denunciano. L’ultimo dei decreti, proposto dal governo di unità nazionale di Tripoli lo scorso 31 luglio, obbliga le organizzazioni che operano in Libia ad ottenere un’autorizzazione preventiva dalla Commissione della società civile - un’amministrazione sotto il controllo del consiglio presidenziale libico che spesso condivide richieste e informazioni con gruppi armati affiliati ai Ministeri della Difesa e Interno nella Libia. In passato, la Commissione della società civile a Tripoli aveva già obbligato le organizzazioni della società civile ad ottenere un’autorizzazione preventiva prima di interagire con l’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, la Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia e l’Unione europea. Dal 2015, secondo i dati raccolti dalla piattaforma libica per i diritti umani, sono almeno 247 i giornalisti e gli attivisti presi di mira da milizie e gruppi armati; e oltre 100 difensori dei diritti umani. Gli attivisti - intercettati negli aeroporti o ai posti di blocco - vengono interrogati, torturati e poi fatti sparire. Afghanistan. La lezione dell’Onu e il vicolo cieco di Putin di Carlo Nordio Il Messaggero, 19 marzo 2022 Con una risoluzione quasi unanime - unica astenuta la Russia - il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha deciso di istituire “relazioni formali e stabili” con il nuovo regime afgano. Anche se nel testo la parola “talebani” non compare mai, il suo intento è chiaro, ed è stato spiegato da Mona Juul, rappresentante permanente della Norvegia: si tratta di incentivare la missione di assistenza delle Nazioni Unite in quel martoriato paese “per promuovere la pace e la stabilità, e aiutare il popolo afgano ad affrontare sfide e incertezze senza precedenti”. Con somma cautela, e nella soavità del linguaggio diplomatico, si tenta di convincere quei ruvidi governanti ad assicurare i minimi diritti umani. La notizia non sarebbe granché, se non intervenisse nel bel mezzo del conflitto ucraino. In effetti il ruolo dell’Onu non è stato finora corrispondente alle aspettative dei suoi creatori, come non lo era stata la Società delle Nazioni, e nemmeno i vari tribunali che da Norimberga in poi si sono cimentati nel giudicare i criminali di guerra. I vari organismi sovranazionali, che da sempre i filosofi auspicano per garantire, come progettava Kant, una pace perpetua, urtano contro le ferree leggi della storia enunciate da Tucidide: ogni Stato persegue - ove possibile - la politica dell’utile e della forza. Il discorso del 21 febbraio indirizzato da Putin agli ucraini e al mondo, è lo stesso che gli Ateniesi rivolsero ai Meli duemilacinquecento anni fa, e che Hitler pronunciò sui Sudeti poco prima dell’accordo di Monaco nel 1938. E l’unico modo per opporvisi è quello delle armi e del coraggio. Se la Russia ora comincia a parlare di negoziati, è perché l’eroico popolo ucraino sta combattendo con il vigore dell’aggredito e con i mezzi forniti dagli amici. Chi crede che esista un’alternativa alla resistenza armata non è solo ignorante della storia: è un ingenuo che confonde la pace con la resa, e la virtù con la viltà. La nostra stessa Costituzione, che non eccede di militarismo, proclama che la difesa della Patria è “sacro dovere del cittadino”. Se vogliamo estendere questo nobile principio agli ucraini, dobbiamo anche metterli in condizione di realizzarlo. E per fortuna, nonostante le omiletiche litanie di alcuni neutralisti equidistanti, è quello che stiamo facendo. Ma perché allora la risoluzione dell’Onu può aver importanza nell’attuale conflitto? Per la semplice ragione che l’Onu, da sempre impotente nell’evitare le guerre, è spesso stata utile per farle finire, quando la situazione militare si presentava in uno stallo insolubile. Può cioè essere uno strumento di mediazione quando nessuna delle parti è in grado di vincere, e tantomeno ammettere di perdere. In Ucraina infatti la situazione sta per diventare un misto della Corea del 1952 e dell’Afghanistan degli anni ‘80. Un’ invasione russa che sembrava un blitzkrieg si è rivelata una logorante guerra, se non di posizione, certamente di attesa. Pare che Putin abbia impiegato quasi tutte le truppe disponibili, che sia a corto di carburante e di munizioni, che il morale dei suoi soldati stia precipitando e che un’impreparazione logistica abbia fatto impantanare i suoi blindati in colonne bersagliate dall’alto dai droni e dai lati dalla guerriglia. Anche se il satrapo del Cremlino avanzasse di qualche decina di chilometri non risolverebbe la situazione, anzi la peggiorerebbe: perché allungherebbe le linee dei già scarsi rifornimenti ed esporrebbe le truppe, così assottigliate, agli attacchi dalle retrovie. Putin non può ritirarsi, perché perderebbe la faccia, il posto e forse la vita, ma nemmeno può controllare un paese che non ha occupato neanche per un terzo. In altre parole, si è cacciato in un vicolo cieco. Ma l’Occidente non sta molto meglio. Scartando le due ipotesi quasi metafisiche che i russi se ne vadano senza condizioni, o che, all’opposto, ricorrano alle armi nucleari, l’alternativa sarebbe di trovarsi ai propri confini una sorta di Afghanistan con costi insopportabili in termini umani, etici, economici e militari. L’idea che si possa assistere per mesi o per anni a eccidi, agguati e rappresaglie alle porte di casa, non è proprio concepibile. E quindi una soluzione va trovata. È vero che nel frattempo i combattimenti continuano. Ma questo è sempre accaduto, da Panmunjon per la Corea all’Avenue Kleber per il Vietnam. In vista di un accordo, le parti cercano sempre di arrivarci nella massima posizione di forza. I vari soggetti, pubblici e privati che si sono offerti come mediatori, francesi, turchi, israeliani, tedeschi e forse anche cinesi sono, o appaiono agli interlocutori, tutti interessati. L’Onu, al contrario, non lo è. E non lo è proprio per la sua debolezza, per la sua incapacità di impedire i conflitti, per la sua inesistente deterrenza militare, e per le sue aperture quasi spregiudicate ai governi più ignobili. Nessuno può sospettare di retropensieri imperialistici un organismo che instaura “relazioni formali e stabili” persino con i talebani. Ma proprio per questa sua neutralità disarmata può costituire un terreno finale non di scontro, ma di onorevole e necessario compromesso. Stati Uniti. In South Carolina ok definitivo alla fucilazione dei condannati a morte La Repubblica, 19 marzo 2022 Metodo di esecuzione approvato l’anno scorso, ora è ufficiale. Tra i promotori della misura shock il senatore democratico Dick Harpootlian, ex pubblico ministero ora avvocato penalista, secondo il quale la fucilazione “è il metodo meno doloroso e più umano che esista”. Via libera ufficiale in South Carolina alla fucilazione come uno dei metodi di esecuzione dei detenuti nel braccio della morte. La misura shock era stata approvata a maggio dell’anno scorso per superare le difficoltà nel reperire il mix di veleni necessario per le iniezioni letali, con molte case farmaceutiche che hanno vietato la loro esportazione negli Usa per motivi umanitari. E’ per questo che l’ultima volta di una esecuzione in South Carolina risale al 2011. Fino a oggi i condannati, potendo scegliere tra l’iniezione e la sedia elettrica, avevano optato per la prima, di fatto impedendo la loro esecuzione. Le autorità carcerarie del South Carolina hanno annunciato che i lavori di ristrutturazione della “camera della morte” di Columbia sono stati completati e di aver notificato al procuratore generale Alan Wilson il via libera ufficiale alla fucilazione come metodo di esecuzione delle condanne a morte. Secondo la Cbs, adesso nella stanza c’è anche una sedia di metallo sulla quale si dovrà sedere il detenuto che scelga il plotone di esecuzione. A circa quattro metri dalla postazione, un muro con un’apertura rettangolare, attraverso il quale tre tiratori spareranno al condannato. Tra i promotori della misura shock il senatore democratico Dick Harpootlian, ex pubblico ministero ora avvocato penalista, secondo il quale la fucilazione “è il metodo meno doloroso e più umano che esista”. Amnesty alla Turchia: “Rilasciate Osman Kavala” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 19 marzo 2022 Osman Kavala e i coimputati al processo in cui rischiano l’ergastolo o pene fra i 15 e i 20 anni di carcere per il reato di “tentativo di colpo di Stato” in Turchia, devono essere assolti e immediatamente rilasciati. È quanto chiede Amnesty International in un comunicato diramato prima della quinta, e forse ultima, udienza del processo, lunedì prossimo, che vede imputato il difensore dei diritti umani Osman Kavala e altre sette persone. Nel suo parere finale, il procuratore ha chiesto che Osman Kavala e Mucella Yapici - uno dei suoi coimputati, che era il portavoce di Taksim Solidarity al tempo delle proteste - siano riconosciuti colpevoli. I due rischiano una possibile condanna all’ergastolo. “Questo fine settimana, Osman Kavala ha raggiunto il suo 1600/mo giorno di prigione. Nonostante non abbia commesso alcun crimine riconosciuto a livello internazionale, rimane arbitrariamente detenuto con accuse infondate in una struttura lontana dalla sua famiglia - ha dichiarato Nils Muinieks, direttore Europa di Amnesty International -. Dal 2017, le autorità giudiziarie hanno cercato di evocare un crimine dal nulla, ma hanno ripetutamente fallito. Al contrario, ogni tortuoso colpo di scena in questo processo a sfondo politico ha ulteriormente messo in luce la vacuità del sistema giudiziario turco”. A gennaio, ricorda Amnesty, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha preso la rara decisione di iniziare il processo formale di infrazione contro la Turchia per il mancato rilascio di Osman Kavala. Questo è avvenuto due anni dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accusato le autorità turche per violazione del diritto alla libertà di Osman Kavala con il secondo fine di metterlo a tacere, e ha chiesto il suo rilascio immediato.