Il modo migliore per salutare il nuovo Capo del DAP è mettere la nostra esperienza e la nostra competenza a disposizione di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 18 marzo 2022 Carlo Renoldi è il nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. La Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ritiene che, in questo momento così difficile per le carceri, dopo due anni di pandemia che hanno raddoppiato le sofferenze delle persone detenute, il modo migliore per salutare il nuovo Capo DAP sia mettere la nostra esperienza e la nostra competenza a disposizione perché un cambiamento di rotta, forte e radicale, avvenga rapidamente. Ci permettiamo anche di dire che, in una situazione complessa e disgregata come quella attuale, è importante coinvolgere, come è successo per gli Stati Generali dell’esecuzione penale, tutte le persone che hanno maturato una lunga esperienza che le ha portate a conoscere a fondo il mondo del carcere, che siano appassionate del proprio lavoro, che credano veramente che le persone detenute possono cambiare e che abbiano una spiccata propensione alla collaborazione e valorizzazione di tutti i soggetti che a vario titolo sono coinvolti nella complessa realtà dell’esecuzione penale. La giustizia penale è “regina” delle trasmissioni televisive e al centro dei programmi politici di tutti gli schieramenti, il carcere molto meno: per questo diventa sempre più importante che chi questa realtà la conosce bene da dentro aiuti a riflettere sul fatto che il processo, la condanna, la galera, il male a cui si risponde con altrettanto male non ci rendono più sicuri né sono in grado di arginare e contrastare il disagio e la sofferenza sociale. Vista la complessità dei temi riguardanti le pene, il carcere, le misure di comunità, e l’intenzione, più volte espressa dalla Ministra, di riformare profondamente le carceri e tutto il sistema dell’esecuzione penale, vorremmo con insistenza e pazienza presentare una sintesi delle proposte del Terzo Settore e le riflessioni da cui si sviluppano, a partire dalla consapevolezza che la privazione della libertà in carcere è di per sé una condizione innaturale che produce sofferenza, alienazione, isolamento. Si tratta, quindi, di lavorare per ridurne i danni là dove del carcere non si può proprio fare a meno. La nostra proposta principale riguarda la costituzione di un gruppo di lavoro operativo, di cui facciano parte esponenti delle esperienze storiche e significative delle cooperative sociali e del volontariato, che in questi anni si sono distinte per le attività svolte tanto all’interno degli istituti penitenziari quanto nell’area penale esterna. Servono un dialogo e un confronto stabili con i referenti del DAP, proprio per non sprecare le competenze consolidate sul campo, ma per metterle a disposizione dell’Amministrazione e delle altre realtà coinvolte, con cui co-programmare e co-progettare i progetti di reinserimento delle persone detenute. È una sfida che ci sentiamo di affrontare perché ci sono temi, che il Terzo Settore ha portato avanti negli anni, che hanno permesso di costituire un patrimonio di conoscenze, che se non adeguatamente condiviso rischia di andare disperso. Elenchiamo di seguito solo alcuni temi su cui il Terzo Settore lavora da anni e che potrebbero costituire il primo terreno di confronto e condivisione con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e il Ministero della Giustizia. 1. Affrontare la tematica del lavoro in carcere e fuori, valorizzando il patrimonio di esperienza sviluppato dalle cooperative attive nel territorio e capaci di portare all’interno delle carceri attività lavorative, che hanno tutte le caratteristiche del lavoro vero, qualificato, risocializzante. Attività lavorative che vanno modulate insieme a occasioni di istruzione in collegamento con la scuola, di crescita culturale, di cura della mente e del corpo, fondamentali per la responsabilizzazione delle persone detenute. In carcere quindi serve più lavoro “formativo”, servono più attività costruite in vista del “fuori”, che è molto più complesso di quanto si aspetti la persona detenuta quando inizia a uscire con i primi permessi. Ma serve anche mettere a fuoco la funzione, le finalità e il senso dei lavori di pubblica utilità rispetto alla natura e al valore del lavoro retribuito. 2. Co-progettare un piano per una formazione congiunta tra operatori dell’Amministrazione Penitenziaria (agenti di polizia penitenziaria, personale dell’area pedagogica, personale amministrativo), magistratura di sorveglianza, istituzioni quali quella scolastica e sanitaria, e Terzo Settore con il duplice obiettivo, da un lato di promuovere una maggiore conoscenza reciproca utile ad abbattere i pregiudizi, dall’altro di sviluppare le diverse competenze arricchite dalla pluralità degli sguardi. La formazione e la ricerca congiunte sono fondamentali anche per ripensare i percorsi rieducativi individualizzati, basati sulla continuità delle proposte educative, sul confronto con la società esterna, sul graduale reinserimento nella comunità. 3. Sviluppare tutte le iniziative per sostenere gli affetti delle persone detenute, a partire dall’uso allargato al massimo delle tecnologie. Se a inizio lockdown fossero state subito messe in atto le misure per ampliare il numero delle telefonate e introdurre le videochiamate, forse la paura e la rabbia sarebbero state più contenute, ma quello che non si può più cambiare ci deve però insegnare per il futuro, e il primo insegnamento è che, quando finirà l’emergenza, non vengano tagliate le uniche cose buone che la pandemia ha portato, il rafforzamento di tutte le forme di contatto della persona detenuta con la famiglia come le videochiamate e Skype, e l’uso delle tecnologie per sviluppare più relazioni possibile tra il carcere e la comunità esterna. 4. Mappare le esperienze di giustizia riparativa realizzate negli istituti penitenziari, a cominciare dai percorsi di autentica rieducazione in cui famigliari di vittime di reati, come Agnese Moro, Fiammetta Borsellino, Silvia Giralucci, Benedetta Tobagi, Giorgio Bazzega accettano di entrare in carcere e di aprire un dialogo con le persone detenute: è infatti dall’incontro con le vittime e con la loro sofferenza che nasce la consapevolezza del male fatto. Sono esperienze importanti per promuovere la cultura della mediazione anche nella gestione dei conflitti all’interno delle carceri e avviare su questi temi percorsi innovativi, con il sostegno di mediatori penali professionali, come già si è sperimentato a Padova. Perché questi conflitti, affrontati solo con rapporti disciplinari, perdita della liberazione anticipata, trasferimenti, alla fine allungano la carcerazione delle persone punite e non affrontano affatto il tema cruciale, che è quello della difficoltà a controllare l’aggressività e la violenza nei propri comportamenti. 5. Valorizzare l’esperienza dei progetti di confronto con le scuole che hanno coinvolto negli anni decine di migliaia di studenti in incontri con le persone detenute, sottolineando il ruolo delle narrazioni nei loro percorsi rieducativi. Il progetto “A scuola di libertà” rappresenta una esperienza che, se per gli studenti è di autentica prevenzione, per le persone detenute è una specie di restituzione: mettendo al servizio delle scuole le proprie, pesantissime storie di vita i detenuti restituiscono alla società qualcosa di quello che le hanno sottratto. E non meno significativi sono gli incontri con vittime di reati, famigliari delle persone detenute, operatori della Giustizia. 6. Mettere in rete gli Sportelli di Orientamento Giuridico e Segretariato Sociale, di modo che le competenze e le buone prassi su materie complesse come la residenza, le pensioni, i documenti di identità diventino patrimonio di tutti. 7. Porre mano alla questione dell’accoglienza in strutture abitative, senza la quale si rischia di sprecare le opportunità lavorative esterne e la possibilità di usufruire di misure di comunità. 8. Mettere a disposizione del DAP le risorse del Terzo Settore nell’ambito dell’Informazione e della Comunicazione. Sono tante da questo punto di vista le esperienze concrete, dalla Rassegna Stampa quotidiana di Ristretti Orizzonti, di cui usufruiscono tantissimi operatori della Giustizia, ai seminari di formazione per giornalisti, realizzati in collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti in alcune carceri, ai Festival della Comunicazione dal carcere e sul carcere, organizzati dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia con interventi dei massimi esperti in materia. 9. Le tecnologie possono essere anche uno straordinario strumento per promuovere un confronto continuo tra gli istituti penitenziari sull’organizzazione della vita detentiva, che deve diventare un momento stabile di verifica di quello che si può e si deve fare per avviare un cambiamento significativo dell’esecuzione delle pene. Pensare di cambiare alcune norme non basta però, sono le persone che quelle norme le hanno applicate e le dovranno applicare che prima di tutto devono mettere in discussione il loro modo di porsi di fronte alla realtà nella quale vivono e operano, partendo da un’analisi seria dei motivi che in questi anni hanno paralizzato le necessarie riforme, fra i quali quell’assenza di efficaci strumenti di controllo, che ha permesso che un Ordinamento, che ha più di quarant’anni, sia in buona parte ancora disatteso. Siamo certi che sia fondamentale l’esistenza di uno spazio strutturato, in cui i rappresentanti del Terzo Settore possano mettere a frutto decenni di conoscenza sul campo in un confronto continuo con il DAP, coinvolgendo anche nuove rappresentanze delle persone detenute, finalmente elette e non estratte a sorte, proposta questa avanzata da noi da tempo e ora ripresa e sostenuta dalla Commissione per l’innovazione dell’esecuzione penale. Questo permetterebbe finalmente che le sperimentazioni ed innovazioni introdotte in certi istituti abbiano una positiva ricaduta in tutte le realtà detentive, superando finalmente la divisione tra istituti “con vocazione trattamentale” e istituti con pochissime attività, e spesso più di “intrattenimento” che di reale valore rieducativo. Forte è la richiesta che venga messo in atto ogni sforzo per migliorare in modo sostanziale la vita detentiva a partire da ciò che può essere fatto immediatamente per via amministrativa (per esempio rendendo estesa in tempi e orari la possibilità di telefonare e/o videochiamare i propri famigliari, anche per chi non lavora e non ha risorse personali). Ma per mettere mano a una riforma delle carceri servirebbe subito un provvedimento urgente di concessione di liberazione anticipata speciale, anche per compensare le enormi difficoltà e sofferenze a cui la popolazione detenuta è stata sottoposta dall’inizio della pandemia. Se si pensasse a una liberazione anticipata speciale, un giorno di libertà restituito per ogni giorno vissuto nel carcere della pandemia, nel carcere dell’assenza di rieducazione, i numeri del sovraffollamento scenderebbero in modo significativo, e se poi le assunzioni di personale educativo e di direttori avvenissero per strade più rapide dei concorsi, allora si potrebbe davvero cominciare a “rivoluzionare” un sistema, che è immerso in una crisi sempre più profonda. La forza delle nostre proposte discende dal contatto quotidiano che abbiamo con le persone detenute e la loro sofferenza, e non esclude nessuno, neanche i mafiosi, neanche le persone ritenute da quasi tutti, ma non dalla Costituzione, “cattivi per sempre”. La forza discende anche dal desiderio di collaborare a dar loro delle risposte, e da tutta la passione ed il coinvolgimento, che in ciascuno di noi continuano a vivere e a spingerci a mettere a disposizione idee ed energie per cambiare una realtà complessa come quella del carcere. È una sfida quotidiana in cui non c’è niente di scontato e dove le vere soluzioni sono principalmente nelle mani delle persone e della loro capacità di lavorare insieme, moltiplicando così il valore del contributo di ognuno. Cogliamo l’occasione per dare la nostra disponibilità ad approfondire con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria il tema del rapporto tra istituzione penitenziaria e Terzo Settore, un tema che può essere davvero importante e innovativo, e a tal fine ci impegniamo a coinvolgere nel dibattito di approfondimento esperti del Terzo Settore di levatura altissima come i professori Stefano Zamagni, Luca Antonini, Giuliano Amato. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Renoldi è il nuovo capo del Dap: anche i ministri 5S si piegano a Cartabia di Errico Novi Il Dubbio, 18 marzo 2022 Via libera unanime del Consiglio dei ministri alla nomina del giudice proposto dalla Guardasigilli per le carceri. Hanno detto sì, dunque, anche le delegazioni governative di pentastellati e Lega. Nonostante il muro alzato nei giorni scorsi contro il magistrato “colpevole” di avere a cuore la dignità dei detenuti. Secondo Giulia Sarti, irriducibile dell’intransigenza 5 Stelle, Carlo Renoldi sarà pure “un magistrato di grande capacità e professionalità”, ma la sua nomina resta “non perfettamente in linea con le peculiari esigenze del Dap”. Eppure il no pentastellato, ma anche leghista e meloniano, ha dovuto piegarsi alla volontà di Marta Cartabia: intorno alle 18.30, infatti, durante un Consiglio dei ministri in cui si è discusso anche di molto altro, il governo ha deliberato all’unanimità la nomina del giudice individuato dalla ministra della Giustizia quale nuovo capo dell’amministrazione penitenziaria. All’unanimità. Dunque anche con l’assenso dei ministri in quota Movimento 5 Stelle e in quota Lega. I fan della “antimafia dura e pura” si sono dovuti arrendere alla determinazione della Guardasigilli, che sulla materia forse a lei più cara, la dignità nelle carceri, non ha accettato veti. Dopo le polemiche sollevate non solo da alcuni partiti di maggioranza e da Fratelli d’Italia, ma anche da alcuni magistrati, a cominciare dal consigliere Csm Nino Di Matteo, si compie un passaggio destinato a segnare l’intera esperienza di Cartabia a via Arenula. Su Renoldi, Cartabia aveva avvertito: non darò retta a Travaglio - Solo tre giorni fa, nel corso di un’audizione al Senato, la ministra aveva fatto intendere che stavolta la sua diplomazia avrebbe lasciato posto alla fermezza: “Non mi affido alle opinioni espresse da un giornale, vediamolo lavorare, poi ne riparleremo”, aveva detto a proposito delle bordate esplose contro Renoldi sul Fatto quotidiano. Il giornale diretto da Marco Travaglio era stato il primo a far emergere le posizioni critiche del consigliere di Cassazione, ed ex giudice di Sorveglianza a Cagliari, sul regime del 41 bis. Ma Cartabia era stata di una durezza inconsueta, martedì scorso: “Vediamo se Renoldi è una persona che corrisponde all’immagine dipinta in alcune visioni mediatiche o se ha le qualità per cui io mi sono sentita di proporlo”. Praticamente l’annuncio di quanto è avvenuto poco fa in Consiglio dei ministri: via libera unanime su richiesta della guardasigilli. Anche se Sarti, ex presidente e tuttora deputata della commissione Giustizia, insiste nel dire: “Restiamo perplessi e preoccupati di fronte alla nomina”. Continueranno a cannoneggiare. Ma stavolta, sul carcere, ci si batte in campo aperto. Non più soltanto con il vigliacco sadismo consumato a tavolino sulla pelle dei detenuti. I Garanti territoriali: “Magistrato di grande valore e competenza professionale” Il Portavoce della Conferenza, Anastasìa: “La rivoluzione della dignità nell’esecuzione delle pene può trovare in Carlo Renoldi un interprete coerente e conseguente”. “Carlo Renoldi è un magistrato di grande valore e competenza professionale. Ben prima della duplice condanna europea per il sovraffollamento in carcere, nelle sue funzioni di giudice di sorveglianza aveva prestato attenzione alla dignità e ai diritti dei detenuti. Eguale e critica attenzione ha prestato alla legislazione sulle droghe che riempie le nostre carceri di quella che Sandro Margara chiamava la “detenzione sociale”, quella cioè che non dovrebbe stare in carcere, se non avessimo una legge criminogena e se funzionasse adeguatamente il sistema dei servizi socio-sanitari sul territorio. Sono questi i tratti umani e professionali di Renoldi che ci rendono fiduciosi nell’incarico che la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e il Consiglio dei ministri hanno voluto affidargli”. Così Stefano Anastasìa, Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali, nonché Garante dei detenuti della Regione Lazio, dopo aver appreso che il Consiglio dei ministri ha deliberato, all’unanimità su proposta della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, la nomina di Carlo Renoldi a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “La rivoluzione della dignità nell’esecuzione delle pene - prosegue Anastasìa - evocata dal Presidente Mattarella nel suo discorso di insediamento del 3 febbraio scorso, può trovare in Carlo Renoldi un interprete coerente e conseguente. I Garanti delle persone private della libertà nominati dalle regioni, dalle province e dai comuni italiani sono pronti - conclude Anastasìa -, nel consueto spirito di leale collaborazione istituzionale, a confrontarsi attivamente con il nuovo vertice dell’Amministrazione penitenziaria nel perseguimento dei principi costituzionali che ogni giorno motivano il proprio operato”. Carlo Renoldi il nuovo capo delle carceri. Il M5S protesta: “Siamo perplessi e preoccupati” di Liana Milella La Repubblica, 18 marzo 2022 In Cdm solo il grillino Patuanelli chiede conto a Cartabia della nomina e invoca “la continuità della gestione e il 41bis”. La Guardasigilli ufficializza: il vice rimarrà l’ex pm di Palermo, Tartaglia. Dalla Lega nessuna obiezione. Marta Cartabia ha vinto la battaglia sul nuovo capo delle carceri italiane. In consiglio dei ministri è passata, solo con uno scambio di osservazioni tra lei e il grillino Stefano Patuanelli, la nomina del giudice della Cassazione Carlo Renoldi. A fine febbraio, quando da via Arenula era partita, alla volta del Csm, la richiesta di mettere il magistrato “fuori ruolo” proprio con l’obiettivo di farne il nuovo direttore del Dap, dal M5S era partita una dura contestazione per le idee di Renoldi sul 41bis e sui militanti dell’antimafia, espressi in un convegno dell’estate 2020. Anche la Lega, con Giulia Bongiorno, aveva parlato di nomina inopportuna. Ma in consiglio dei ministri, i leghisti stavolta non si sono fatti sentire, e tra Cartabia e Stefano Patuanelli c’è stato un sereno scambio di osservazioni. Alle preoccupazioni di Patuanelli sulla continuità e sul 41bis, la ministra ha replicato innanzitutto ufficializzando la conferma come vice direttore dell’ex pm di Palermo Roberto Tartaglia, uno dei protagonisti del processo Trattativa Stato-mafia con Nino Di Matteo. Ma, nonostante questo, è evidente che il M5S incassa malvolentieri la nomina di Renoldi, tant’è che, pochi minuti dopo la decisione del consiglio dei ministri, è la responsabile Giustizia Giulia Sarti a diffondere i suoi dubbi e quelli del suo partito. Dice Sarti: “Restiamo perplessi e preoccupati di fronte alla nomina di Carlo Renoldi a capo del Dap. Si tratta senza dubbio di un magistrato di grande capacità e professionalità, ma la sua nomina, a nostro parere, potrebbe risultare non perfettamente in linea con le peculiari esigenze del Dap”. Dubbi che il M5S aveva reso pubblici subito dopo le prime indiscrezioni. Dubbi confermati del resto dallo scambio di opinioni avvenuto a palazzo Chigi tra la Guardasigilli e Patuanelli. Cartabia ha messo a disposizione dei colleghi il curriculum di Renoldi, per molti anni magistrato di sorveglianza a Cagliari e poi giudice in Cassazione, dove ha firmato molte sentenze in cui si affronta la questione del 41bis, il carcere duro per i mafiosi. Che lo stesso Renoldi, come ha scritto alla ministra Cartabia, non vuole affatto cancellare. Ma Patuanelli rivolge ugualmente due domande a Cartabia. Premettendo però di avere fiducia nella scelta fatta da una giurista come lei ed ex presidente della Consulta. Patuanelli pone i due problemi che agitano il suo partito, e cioè la garanzia della continuità dell’amministrazione delle carceri e l’applicazione rigorosa e senza sconti del 41bis. La ministra - a quanto riferisce chi era a palazzo Chigi - ha ringraziato Patuanelli di avergli posto i quesiti perché, lei dice, “il tema della continuità è importante”. Spiega che proprio per questo motivo, al suo arrivo in via Arenula, non ha cambiato i vertici del Dap, proprio perché il carcere ha bisogno di continuità. Per la cronaca bisogna ricordare che l’arrivo, a maggio del 2020, in pieno Covid, dell’ex direttore Dino Petralia e del vice Roberto Tartaglia - entrambi magistrati con lunga esperienza antimafia in uffici del Sud -, entrambi scelti dall’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede per sostituire l’ex capo Dap Francesco Basentini, giungeva non solo dopo le rivolte di marzo che avevano coinvolto, con effetti devastanti, tutti i penitenziari, ma soprattutto dopo la circolare firmata dai vertici che aveva prodotto la scarcerazione di alcune centinaia di mafiosi di rango. Passo che aveva costretto lo stesso Bonafede a fare un decreto per dare ai magistrati di sorveglianza la possibilità di rivalutare le scarcerazioni decise dagli stessi giudici. Ora Cartabia a palazzo Chigi ricorda che divenuta Guardasigilli non ha toccato il vertice del Dap. E adesso ha deciso di affidare, già prima della nomina di Renoldi, la reggenza al vicecapo Tartaglia. Quanto ai dubbi del M5S sul destino del 41bis, Cartabia ha letto ai colleghi alcune frasi dello stesso Renoldi nella lettera che le ha scritto il 3 marzo. Lettera in cui - dice Cartabia - Renoldi ricorda le sue sentenze e ribadisce che non ha alcuna intenzione di cambiare le regole in vigore sul 41bis. Che, vale la pena ricordarlo, viene deciso proprio dallo stesso ministro della Giustizia. La ministra però ha spiegato che la sua scelta ha un obiettivo più ampio, perché “il carcere non è solo quello in cui ci sono i mafiosi”. Adesso, dice Cartabia, “bisogna occuparsi dei bisogni degli altri detenuti, senza mai contrapporre il carcere della sicurezza al carcere della dignità”. Anzi, insiste la Guardasigilli, “il carcere che dà più dignità è un carcere più sicuro”. Ricorda inoltre che gli ultimi due anni sono stati molto faticosi per gli agenti, più volte vittime di aggressioni, e anche per i detenuti che, a causa del Covid, hanno visto la sospensione di tutte le attività di trattamento. Di Renoldi la ministra cita il lungo curriculum, soprattutto per il ruolo svolto in Cassazione, dove il giudice si è occupato anche di criminalità organizzata, e per il lavoro fatto sulla sentenza Torreggiani e sul sovraffollamento delle carceri, quando davvero, dice Cartabia, “la situazione era esplosiva” tant’è che l’Italia fu condannata dalla Corte di Strasburgo. La nomina passa, e a parte le richieste e i dubbi di Patuanelli, nessun altro gruppo fa delle osservazioni, neppure la Lega che pure, con la responsabile Giustizia Giulia Bongiorno, aveva parlato di una “nomina inopportuna”. Ma non appena la notizia della nomina di Renoldi esce da palazzo Chigi, ecco che si materializzano di nuovo le forti perplessità del M5S. “Noi non vogliamo nessuna attenuazione del 41bis e abbiamo bisogno di figure che conoscano nei minimi dettagli la pericolosità e le caratteristiche dei detenuti per reati collegati all’associazione mafiosa” dice una fonte del M5S. E ancora: “Su questo chiederemo sempre garanzie di massima attenzione. Perché la sottovalutazione della pericolosità dei detenuti per mafia e delle loro caratteristiche peculiari, completamente diverse dal resto dei detenuti, comporterebbe gravi rischi per la sicurezza di tutti gli operatori all’interno degli istituti penitenziari e per la sicurezza dell’intera collettività”. Il M5s non “perdona” a Renoldi le sue dichiarazioni sulla politica della giustizia del primo governo Conte fatte a Firenze, in un convegno del febbraio 2019, “un mese dopo l’approvazione della legge Spazzacorrotti”, come fa notare una fonte M5S, in cui il giudice parlò di “un ritorno nel discorso pubblico del mito reazionario della certezza della pena”. A questo punto, a nomina fatta, non resterà che un confronto tra il partito di Giuseppe Conte e il nuovo capo del Dap. Carlo Renoldi, chi è il nuovo Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di Piera Cosentini policymakermag.it, 18 marzo 2022 In passato Carlo Renoldi ha scritto: “Sono per un carcere costituzionalmente compatibile. Un carcere dei diritti, in cui però siano garantite le condizioni di sicurezza”. Prende il posto del magistrato dell’antimafia Bernardo Petralia, nominato sotto il governo Conte II. Il Consiglio dei Ministri di ieri, su proposta del Ministro della giustizia Marta Cartabia, ha deliberato la nomina, a decorrere dal 1° marzo 2022, di Carlo Renoldi, magistrato ordinario attualmente Consigliere della Corte di Cassazione, a Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La scelta la Guardasigilli l’aveva compiuta almeno un mese fa, al termine di una lunga rassegna di colloqui e cv. Marta Cartabia aveva individuato in Carlo Renoldi, oggi giudice della prima sezione penale della Cassazione, il nuovo capo del Dap. Già allievo di un altro magistrato che guidò il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Alessandro Margara, Renoldi, 53 anni, nato a Cagliari, dove ha anche lavorato come giudice penale e come magistrato di sorveglianza. Ha fatto parte dell’ufficio legislativo di via Arenula nel 2013 e ha contribuito a risolvere il caso Torreggiani, quando la Corte dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per il trattamento disumano dei detenuti. Ha fatto parte dell’ufficio studi del Csm per approdare poi alla Suprema corte. Da consigliere di Cassazione è stato relatore ed estensore di sentenze delicate, come quella che apriva ai colloqui via Skype per i mafiosi detenuti al 41bis. Fa parte della corrente progressista, Area, cartello formato da Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia. Nei suoi scritti passati è possibile rinvenire in nuce tracce del suo programma per i detenuti: “Sono per un carcere costituzionalmente compatibile. Un carcere dei diritti, in cui però siano garantite le condizioni di sicurezza”. Un carcere in cui “il sindacato ha un valore, ma se svolge una pura difesa corporativa e non guarda alla funzione istituzionale, allora diventa una forza che tradisce l’istituzione”. Toghe furiose: hanno scoperto che c’è davvero la presunzione d’innocenza di Errico Novi Il Dubbio, 18 marzo 2022 Da alcuni anni, 16 per la precisione, esiste già la tutela della presunzione d’innocenza fino a condanna passata in giudicato. Direte: ma no, esiste, sì, ma da poche settimane, da quando nello scorso mese di novembre è entrato in vigore il decreto Cartabia. E invece no: si tratta davvero di 16 anni. Perché è prevista, in Italia, dall’ormai archeologica riforma Castelli dell’ordinamento giudiziario (anno 2006) la punibilità disciplinare dei magistrati che dovessero “ledere indebitamente diritti altrui” con “pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria”. È già perseguibile dunque il magistrato che violi un importantissimo “diritto altrui”, la presunzione di non colpevolezza, tutelato nientedimeno che dall’articolo 27 della Costituzione. Se proprio si vuol controllare di persona, ecco le coordinate della norma: articolo 2, comma 1, lettera v) del decreto legislativo 109/ 2006. Peccato che, in effetti, quasi nessuno ne conoscesse l’esistenza. Perché in 16 anni ne avevamo viste di tutti i colori. E dalle Procure erano filtrate ai giornali imbeccate di ogni genere. Altro che “diritti altrui”. Non a caso l’8 novembre dell’anno scorso, il governo, su impulso della guardasigilli Marta Cartabia e del Parlamento, si è sentito in dovere di approvare il decreto sulla presunzione d’innocenza, che in alcuni passaggi ignora quasi la preesistenza di quelle misure del tutto simili. Si è dovuto ribadire il concetto, perché averlo già scolpito da tempo nella legge, evidentemente, era servito a ben poco. Dopodiché mercoledì una delle più importanti figure dell’associazionismo giudiziario, il togato di Area Giuseppe Cascini, ha dichiarato al plenum di Palazzo dei Marescialli che, tra le “criticità più rilevanti” contenute nel maxiemendamento Cartabia alla riforma del Csm, spicca “l’estensione dell’illecito disciplinare” a “tutte le ipotesi di violazione delle disposizioni in materia di rapporti con la stampa introdotte dalla riforma del 2021 in tema di presunzione d’innocenza”. Secondo il consigliere, con la puntualizzazione disegnata dalla ministra si finirebbe col sindacare “scelte di natura discrezionale che dovrebbero essere riservate al procuratore della Repubblica”. Le nuove norme d’altra parte ribadiscono che non esiste (non esisteva neppure prima) il diritto di danneggiare l’immagine di un presunto innocente. Non è che il procuratore può discrezionalmente decidere di distruggere la reputazione di un indagato, se vuole. Non può farlo. E se c’è un divieto, è giusto che ci sia una sanzione. Altrimenti che divieto è? Ma Cascini, interpellato dal Dubbio, obietta una genericità dell’ipotesi disciplinare “che può compromettere qualsiasi tipo di comunicazione fra ufficio inquirente e stampa. E il motivo mi pare semplice: con la novità proposta dal maxiemendamento al ddl sul Csm, diventa sindacabile qualsiasi scelta compiuta dal procuratore nel quadro delle previsioni sulla presunzione d’innocenza. Può essere astrattamente perseguibile”, spiega il consigliere, “la scelta di riferire ai media su una determinata indagine attraverso una conferenza stampa anziché un comunicato. Il titolare dell’azione disciplinare potrebbe mettere in discussione la sussistenza della rilevanza, oppure dell’interesse pubblico, delle specifiche esigenze investigative che, secondo le norme del 2021, consentono al capo dell’ufficio inquirente di optare per una delle residue opzioni comunicative previste. E in ogni caso, io non condivido affatto l’idea che una correttezza dell’informazione giudiziaria possa ottenersi con la messa sotto chiave delle notizie, anche quando non vi siano più esigenze investigative per farlo”. Cascini è un magistrato di grande valore ed esperienza: è stato ai vertici dell’Anm, prima di essere eletto a Palazzo dei Marescialli, ed è considerato un intransigente nella difesa dei colleghi, in particolare degli inquirenti, categoria a cui appartiene. Ha un punto di vista che lui stesso riconosce essere “radicale”, in questo campo. Ma al di là delle legittime convinzioni di Cascini, la sensazione è che una parte della magistratura resti insofferente all’esistenza stessa della disciplina sulla presunzione d’innocenza. E che in fondo si voglia conservare lo status quo, cioè l’irrilevanza di provvedimenti, come quelli del 2006, pure codificati come leggi dello Stato. Mercoledì sera il ministero della Giustizia ha ricordato che “già c’erano divieti e sanzioni per il pm che facesse dichiarazioni senza un’autorizzazione del procuratore”. E neppure la magistratura è un monolite: un’altra figura di straordinaria autorevolezza del mondo togato, Armando Spataro, aveva lasciato nei giorni scorsi a disposizione della Camera una relazione in cui, dell’ulteriore stretta disciplinare sulla presunzione d’innocenza, dà valutazioni assai diverse: si tratta, aveva scritto, e detto in commissione Giustizia, di “modifiche certamente condivisibili”. In particolare, “l’ipotesi di illecito relativo alla divulgazione di informazioni alla stampa si inquadra nell’altrettanto condivisibile scelta operata con il recente provvedimento in tema di presunzione di innocenza”. La presunzione di innocenza infilata nel water di Ermes Antonucci Il Foglio, 18 marzo 2022 “Un fucile puntato sui pm”. Con queste parole Giuseppe Cascini, componente togato del Consiglio superiore della magistratura, appartenente alla corrente di sinistra Area, ha criticato alcune norme contenute nella riforma dello stesso Csm e dell’ordinamento giudiziario elaborata dalla Guardasigilli Marta Cartabia. Parole a dir poco fuori luogo, se non indecenti, soprattutto perché espresse in un paese che nel corso della sua storia ha tristemente assistito all’uccisione di decine di rappresentanti della magistratura sotto i colpi di pistole e di bombe. Eppure, le dichiarazioni di Cascini non hanno suscitato alcuna reazione nel mondo politico e istituzionale, anzi sono state evocate con entusiasmo da quegli organi di informazione impegnati da tempo nell’opera di affossamento della riforma Cartabia. Ma a cosa si riferiva Cascini? A una norma che mette in pericolo la vita dei magistrati? A una disposizione che cancella l’autonomia e l’indipendenza dei pubblici ministeri? Niente di tutto questo. Il consigliere del Csm ha criticato l’introduzione di illeciti disciplinari per i pubblici ministeri che violano la nuova disciplina in materia di rapporti con la stampa, introdotta di recente in attuazione della direttiva sulla presunzione di innocenza. La disciplina mira ad attenuare il fenomeno della gogna mediatico-giudiziaria, prevedendo che le procure - tramite i capi degli uffici o pm delegati - possano comunicare ai giornalisti informazioni sulle indagini solo se sussiste un “interesse pubblico”, principalmente attraverso comunicati ufficiali (le conferenze stampa possono essere convocate solo “nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti”) e assicurando il diritto dell’indagato e dell’imputato a non essere indicati come colpevoli fino a sentenza definitiva. Risulta logico a chiunque che all’introduzione di queste norme debba conseguire l’introduzione di altre norme che puniscano i magistrati che le violano. Tutto ciò non va giù a Cascini, che al plenum del Csm ha parlato di “un fucile puntato su tutti i magistrati del pubblico ministero, in particolare sul procuratore della Repubblica, costantemente suscettibile di finire sotto azione disciplinare”, e ha richiamato l’attenzione sulle gravi conseguenze che ciò potrebbe determinare “dal punto di vista del diritto all’informazione e dell’autonomia e indipendenza dei pubblici ministeri”, In serata il ministero della giustizia si è pure scomodato per rispondere alle critiche, spiegando che “già prima della riforma c’erano divieti e sanzioni per il pm che facesse dichiarazioni senza un’autorizzazione del procuratore”. Ora, “poiché ci sono delle regole anche per le comunicazioni del procuratore, si rende la norma omogenea con quanto già esisteva, con sanzioni anche se si viola la legge sulla presunzione di innocenza”. La replica di Via Arenula ribadisce, senza volerlo, il pericolo principale a cui va incontro la disciplina sulla presunzione di innocenza, e cioè che a vigilare sul rispetto delle norme dovranno essere gli stessi soggetti (i magistrati) chiamati ad applicarle. Basti considerare che, già prima della riforma, la legge attribuiva (inutilmente) al solo procuratore, oppure a un magistrato delegato, il mantenimento dei contatti con i mass media. Dunque, come sempre ciò che in realtà i magistrati temono è essere giudicati, seppur sul piano disciplinare. D’altronde, in un paese normale anche l’accusa mossa da Cassini al governo di aver puntato “un fucile sui pm” avrebbe probabilmente condotto a un procedimento disciplinare nei confronti del magistrato. Ma, come si sa, questo non è un paese normale. Ricordiamo le vittime della giustizia, perché chi dimentica il passato è condannato a riviverlo di Francesca Scopelliti* Il Dubbio, 18 marzo 2022 La data del giorno della memoria dovrebbe coincidere con il 17 giugno, giorno in cui Tortora venne arrestato nel 1983. Primo Levi diceva “chi dimentica il passato è condannato a riviverlo”, una frase che fa il paio con il titolo di un libro di Leonardo Sciascia “A futura memoria (Se la memoria ha un futuro)”: in sostanza due inviti a non dimenticare gli errori del passato proprio per preparare un futuro migliore. Sono passati 39 anni da quando Enzo Tortora venne arrestato per associazione camorristica e spaccio di droga. Innocente. Lui ne morì, nessuno pagò e nessun altro prese quel caso per studiarne le cause e stabilirne la cura. Non si è voluto ricordare, non si è voluto rimediare. E gli errori giudiziari sono arrivati oggi a cifre insopportabili per uno stato di diritto: circa 30mila in 30 anni. È mancata la memoria. E non solo. Ecco perché l’istituzione della giornata in memoria delle vittime della giustizia portata avanti con caparbia volontà dal presidente della Commissione Giustizia del Senato, Andrea Ostellari, insieme al suo collega Francesco Urraro, è cosa buona e giusta. Fonte di saggezza “politica”. Il 17 febbraio di 30 anni fa l’Italia entrava nella stagione di Mani Pulite, un’operazione politico- giudiziaria che grazie ad una provvidenziale sudditanza mediatica, ha rivoluzionato le nostre istituzioni. A trent’anni da Mani Pulite, sarebbe meglio dire “di” Mani Pulite, il panorama politico è cambiato molto, ma quello giudiziario no, perchè il “sistema” è sempre quello della squadra del magistrato Francesco Saverio Borrelli. E’ sempre quello raccontato da Palamara ad Alessandro Sallusti. Dopo l’assoluzione, Enzo Tortora rientrò in Rai e disse al suo pubblico “Dunque dove eravamo rimasti”. Chiediamocelo oggi e la risposta è drammatica. All’epoca del maxi blitz napoletano, davanti alle nefandezze dei procuratori Felice di Persia e Lucio di Pietro, c’era un Paese in grado di reagire e interagire. Al giornalismo antropofago di tanti quotidiani, con la firma anche di qualificati (ahimè!) giornalisti, si contrapponevano le autorevoli testimonianze di Leonardo Sciascia, Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Indro Montanelli, Piero Angela intellettuali capaci di “sporcarsi le mani”. Oggi prevale il principio “che non ci sono innocenti in carcere ma solo colpevoli che la fanno franca”. Oggi prevalgono i social che intossicano il Paese: parole e immagini che uccidono la dignità, la reputazione, il buon nome di chicchessia e che sfociano nella sguaiatezza delle inchieste televisive. A conferma che stiamo vivendo un momento sociale, politico, etico e culturale molto triste. A conferma che il sistema giustizia necessita di una revisione che non credo si possa affidare al Parlamento, troppo spesso letargico, pavido, incapace di intervenire su materie sensibili e rilevanti come quelli della giustizia, troppo spesso critico e mugugnante verso le riforme della ministro Cartabia. Quasi ad indicare una sua (con le dovute eccezioni) subalternità alla magistratura. E questo è il motivo principale per lasciare i temi referendari al voto dei cittadini, senza se e senza ma. A chi dice che - essendo i quesiti “concessi” dalla Consulta meno popolari, più tecnici, di minor presa mediatica - sarà difficile raggiungere il quorum, dico che un politico di razza non può desistere, arrendersi, rinunciare prima ancora di provare. Anche difronte ad una sfida difficile come questa. Marco Pannella non l’avrebbe fatto. Enzo Tortora non si sarebbe tirato indietro. Anzi. Come diceva John Beluschi, “quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”. A chi dice che le materie affrontate nel referendum si possono risolvere in Parlamento dico che mente sapendo di mentire e nasconde una verità amara che non dovrebbe appartenere alla sinistra italiana: vale a dire, togliere il diritto referendario ai cittadini per non infastidire la magistratura. A chi dice che i testi sono impropri, scritti male, inadeguati a risolvere il problema, be’, dico che è un pretesto: i testi si possono correggere, migliorare, perfezionare, sviluppare. Durante il mio mandato parlamentare, non ho mai visto l’approvazione di una legge scritta bene... E infatti approvata la legge c’era bell’e pronta una norma di interpretazione autentica. Quindi con i referendum “avanti a tutta dritta”, ma anche con la giornata dedicata alle vittime della giustizia, per un futuro che non può dimenticare il suo passato. La memoria serve a ricordare, evita di fare gli stessi sbagli, indica la strada giusta da perseguire. La memoria è emozione perchè tutti cresciamo nel ricordo, che rappresenta la storia più importante della vita di ciascuno. E proprio per un ricordo appropriato, la data del giorno della memoria delle vittime della giustizia dovrebbe coincidere con il 17 giugno, giorno in cui Tortora venne arrestato nel 1983. Una data simbolica, ma aggiungerei anche un nome “simbolo”, per dare a questa data una memoria più forte, più concreta, più pregnante, per raccogliere, nel nome di Enzo Tortora, tutte le vittime della giustizia. Non una celebrazione bensì la consegna al suo nome, alla sua storia, la forza di quel ricordo e alla giornata una intensità, una validità ancora più efficace. Una proposta che, sono certa, è condivisa dai tanti amici che - vittime della giustizia - sarebbero ben felici di farsi rappresentare da Enzo Tortora, quell’uomo “antipatico” perchè troppo “perbene”, “colpevole” perché troppo “innocente”. *Presidente Fondazione per la giustizia Enzo Tortora I brigatisti del delitto Biagi al 41bis. Il silenzio dei killer sconfitti dalla storia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 18 marzo 2022 Vent’anni fa a Bologna l’ultimo agguato delle Nuove Brigate Rosse. La banda armata è ormai da tempo inattiva, ma il regime carcerario speciale resta per tre di loro. Prima ancora del volantino di rivendicazione - 15.396 parole di verbo brigatista inviate per posta elettronica - furono la pistola e i proiettili utilizzati dagli assassini a firmare l’omicidio del professor Marco Biagi, “giustiziato” (così scrissero) la sera del 19 marzo 2002 sotto i portici di Bologna: stessa arma e stesso tipo di munizioni impiegate il 20 maggio 1999 per uccidere a Roma il professor Massimo D’Antona; due docenti universitari, due giuslavoristi, entrambi collaboratori dei ministri del Lavoro di due differenti governi. Due riformisti che cercavano soluzioni per comporre il conflitto sociale, obiettivi intercambiabili per gli epigoni della lotta armata che invece quel conflitto pensavano di acuire. Quel documento con la stella rossa - Poi arrivò il documento con il marchio della stella a cinque punte chiusa nel cerchio: “Con questa azione combattente le Brigate Rosse attaccano la progettualità politica della frazione dominante della borghesia imperialista nostrana...”. Espressioni mutuate dal secolo precedente per motivare una condanna a morte eseguita mentre la vittima rientrava a casa in bicicletta, pedinato dall’università di Modena fino all’appuntamento con il killer. Un uomo, rimasto senza protezione perché l’attacco jihadista alle Torri gemelle di sei mesi prima aveva cambiato l’elenco degli obiettivi da proteggere, e su input del ministro dell’Interno qualcuno aveva deciso che il professore scortato dopo il delitto D’Antona non fosse più un bersaglio dei terroristi. Un simbolo senza adeguata protezione - Un regalo per la sparuta pattuglia di tardo-brigatisti, inadeguata ad affrontare un qualunque dispositivo di sicurezza ma sufficiente per sparare a un uomo solo, che stava tornando dalla moglie Marina e dai due figli, Francesco e Lorenzo, che all’epoca avevano 19 e 13 anni e oggi sono due uomini realizzati. Anche grazie alla forza della mamma: “Dovevo farne due cittadini che avessero fiducia nello Stato e nelle istituzioni. Volevo essere una persona positiva, come era Marco, e non farli vivere in una famiglia spezzata in cui la madre era piena di dolore e di rancore”. Le altre due vite spezzate - Dice di non provarne nemmeno per gli assassini di suo marito, Marina Biagi: “Non li ho mai odiati, e anche per questo non ho mai sentito il bisogno di fare percorsi di avvicinamento che non mi avrebbero dato nulla”. Li hanno arrestati un anno dopo gli spari di Bologna, il 3 marzo 2003, al prezzo di altre due vite: quella del sovrintendente di polizia Emanuele Petri, che aveva chiesto i documenti a due passeggeri in un normale controllo ferroviario senza sapere che erano due ricercati, e quella di Mario Galesi, rimasto ucciso nel conflitto a fuoco. Era stato lui a sparare a Biagi, l’ultimo delitto pianificato dalle Brigate Rosse a trent’anni dalla loro prima azione armata. E ancora prima a D’Antona. Dopo undici anni di silenzio seguiti all’esecuzione di Roberto Ruffilli, 16 aprile 1988, un altro professore che progettava le riforme istituzionali. I “tecnici” prestati al governo erano diventati l’anello debole da colpire, e da lì aveva ricominciato chi s’era messo in testa di rilanciare la lotta armata. I tre ergastolani al 41 bis - All’arresto di Nadia Lioce, sorpresa sul treno insieme a Galesi, seguì nell’ottobre 2003, quello degli altri brigatisti rimasti in servizio, una dozzina di militanti ora tutti liberi dopo aver scontato le rispettive pene (compresa la “pentita” Cinzia Banelli, che vive sotto una nuova identità col figlio nato in carcere e neo-maggiorenne) ad eccezione di tre ergastolani: Lioce, Roberto Morandi e Marco Mezzasalma. La quarta, Diana Blefari Melazzi, s’è suicidata in cella nel 2009. I tre brigatisti superstiti hanno compiuto o stanno per compiere 19 anni di detenzione, e nonostante da tempo l’organizzazione non dia più segni di vita, sono tutti e tre ancora al “41 bis”, il “carcere duro” introdotto per i terroristi degli anni Settanta, reinventato per i mafiosi all’indomani delle stragi del ‘92 e applicato anche agli ultimi militanti delle Br. Da anni chiusi nelle rispettive prigioni tacciono e non lanciano più proclami di guerra, ma sono considerati in servizio permanente effettivo da Procure, forze di polizia e ministra della Giustizia che ha rinnovato i decreti nel settembre scorso. I pericoli ancora sussistenti e il reclamo di Mezzasalma - “L’associazione terroristica è tuttora operante e risulta tuttora dedita ad attività di proselitismo nonché alla programmazione di gravissimi delitti”, si legge nel provvedimento, e “l’attuale contesto sociopolitico, caratterizzato da forti tensioni, induce a ritenere concreto il pericolo di una ripresa di possibili azioni violente di natura eversiva”. Tra i segnali di rischio ci sono anche i saluti a Nadia Lioce inviati con un documento pubblico da un sedicente Movimento Femminista Proletario Rivoluzionario. Contro l’ultima proroga del “41 bis” Lioce non ha voluto presentare reclamo, mentre Mezzasalma s’è rivolto al Tribunale di sorveglianza per sapere quali siano gli elementi concreti a sostegno di “un teorema tanto suggestivo quanto astratto e sganciato dalla realtà”. L’udienza per discuterne non è stata ancora fissata. Il silenzio dell’indagato non è più ostativo alla riparazione per ingiusta detenzione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2022 Presunzione d’innocenza. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 8616 del 15 marzo 2022, richiamando il Dlgs 188 del 2021 in vigore dal 14 dicembre scorso. In tema di “riparazione per l’ingiusta detenzione” arriva la prima decisione della Cassazione dopo l’approvazione nel dicembre scorso del Dlgs 88/2021 sulla “Presunzione di innocenza”, in conformità a quanto richiesto dall’Europa. Ebbene, la Quarta Sezione penale, sentenza n. 8616 depositata il 15 marzo 2022, ha spiegato che il silenzio dell’indagato non può più considerarsi ostativo all’ottenimento del ristoro economico. L’articolo 314, comma 1, del cod. proc. pen., si legge nella decisione, è stato infatti modificato dall’articolo 4, comma 4, lettera b), del Dlgs 188/2021, con l’aggiunta del seguente periodo “L’esercizio da parte dell’imputato della facoltà di cui all’articolo 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione di cui al primo periodo.”. La vicenda - La Corte d’appello di L’Aquila aveva rigettato la richiesta di riparazione ritenendo che il richiedente avesse avuto un comportamento ostativo in quanto “per ben due volte in sede di interrogatorio, a fronte degli elementi emersi dalle indagini, non aveva offerto oggettivi e riscontrabili elementi di contrasto alla ricostruzione dei fatti in chiave accusatoria”. In particolare, “non aveva specificato la natura dei rapporti con i tre soggetti ripresi dalle telecamere” non aveva chiarito che la detenzione delle chiavi dell’auto utilizzata per la rapina “era stata solo occasionale”. La motivazione - La Suprema corte, per prima cosa, ribadisce che, in linea generale, il giudice della riparazione per l’ingiusta detenzione, “per stabilire se chi l’ha patita vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabilire, con valutazione ex ante ... non se tale condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale”. Tornando al caso in esame, la Corte territoriale, ha motivato il rigetto dell’istanza alla stregua del solo silenzio serbato dall’imputato nel corso degli interrogatori, “ritenendone la capacità esplicativa di fatti emersi dalle indagini e il conseguente ostacolo all’accertamento dei fatti”. La decisione impugnata, prosegue la sentenza, in realtà, è “coerente con l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità” che ha “avvertito la necessità di conciliare il diritto al silenzio e l’esercizio di facoltà riconosciute all’indagato/imputato con la incidenza che tale comportamento possa assumere in termini di condotta gravemente imprudente/negligente da parte di chi, pur a conoscenza di fatti potenzialmente idonei a neutralizzare la portata del quadro indiziario posto a fondamento del titolo cautelare, scelga di esercitare le facoltà di legge, ostacolando l’accertamento dei fatti e contribuendo, in tal modo, a ingenerare la falsa apparenza di un reato”. Tuttavia, prosegue la Cassazione, “tale orientamento deve ritenersi oggi superato dall’intervento del legislatore di cui al d.lgs. n. 188 del 8/11/2021, in vigore dal 14 dicembre 2021”. “È chiara l’opzione del legislatore” che così “inteso adeguare la normativa nazionale alle disposizioni della Direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimento penali, con specifico riferimento, per quanto di rilievo nel caso all’esame, alla emanazione di norme comuni sulla protezione dei diritti procedurali di indagati e imputati (cfr. considerato n. 10 e n. 24 della Direttiva). Professionisti in concorso esterno mafioso di Aurelio Panetta e Calogero Gaetano Paci Italia Oggi, 18 marzo 2022 Il concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso è configurabile nelle ipotesi in cui il concorrente è un libero professionista (in specie commercialista), che, pur non essendo inserito nella struttura organizzativa della consorteria, instaura con la stessa un rapporto sinallagmatico, incentrato su un sistema di relazioni di reciproci vantaggi, economici e professionali. Tale rapporto non viene meno allorquando, nell’ambito dell’intesa intervenuta tra i due soggetti, è consentito al soggetto attivo del reato lo svolgimento di un’attività di intermediazione criminale a favore anche di cosche alleate o federate con quella con cui si è instaurato il sinallagma mafioso. Lo afferma la Cassazione con la sentenza 8123/2022 rigettando il ricorso dell’imputato avverso l’ordinanza cautelare emessa dal Tribunale del riesame di Reggio Calabria, con la quale si contestava allo stesso la fattispecie riqualificata di concorso esterno in associazione mafiosa (ex art. 110 e 416 bis c.p.). Il fatto trae origine da una copiosa attività di intercettazione e dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia che hanno permesso di delineare il ruolo di concorrente esterno delle cosche ‘ndranghetiste presenti nell’area rosarnese, per le quali il ricorrente svolgeva un’attività di intermediazione criminale. Sulla scorta di un compendio indiziario, ritenuto univoco, il Tribunale del riesame di Reggio Calabria evidenziava che le due consorterie tramite il ricorrente, si erano infiltrate nel settore della grande distribuzione alimentare, nella quale la società di distribuzione svolgeva un ruolo egemonico nell’area calabrese, gestendo il trasporto dei prodotti alimentari. La sezione I non ha condiviso l’impostazione difensiva secondo cui la decisione del riesame sarebbe sprovvista di un percorso argomentativo sulla configurazione del reato associativo contestato al ricorrente. Il Collegio ha ribadito la legittimità della figura del concorso esterno di associazione di tipo mafioso, pur vincolata rigorosamente alla effettiva sussistenza del nesso di causalità. La Corte ha attribuito rilievo, ai fini della valutazione dell’atteggiamento di contiguità del professionista con cui il sodalizio criminale, di volta in volta, si rapporta, alla congrua valutazione compiuta dal giudice di merito in ordine alla sua adesione al progetto di controllo illecito del territorio, per il quale è indispensabile che il dolo del concorrente esterno investa sia il fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice, sia il contributo causale recato dalla condotta dell’agente alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione, nella consapevolezza e volontà di recare un contributo alla perpetrazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio. In questa cornice, la verifica del Tribunale del Riesame ha consentito di individuare il contributo funzionale e di contiguità del professionista, ritenuto congruamente motivato dalla S.C. nel concreto svolgimento del ruolo di intermediazione criminale posto in essere dal ricorrente nei confronti delle cosche di ndrangheta, nel settore della grande distribuzione alimentare. Ma non solo. La S.C. ha condiviso l’ulteriore impostazione del riesame: quella sulla effettiva sussistenza delle esigenze cautelari dimostrata dall’analisi del materiale indiziario raccolto e non ritenuta meramente presunta. Precisando che la valutazione compiuta è coerente con l’art. 275, c. 3 cpp poiché nella specie, a differenza dell’ipotesi della partecipazione ad associazione mafiosa, non sussiste un inserimento organico nell’aggregato criminale bensì un collegamento funzionale per sua natura circoscritto e non indeterminato nel tempo e nelle condotte. Marche. Il Garante dei detenuti: “Sovraffollamento e patologie psichiatriche in aumento” di Annalisa Appignanesi centropagina.it, 18 marzo 2022 Si punta su telemedicina. Il Garante ha delineato le strategie di intervento per sopperire alla carenza di personale sanitario, limitando le ospedalizzazioni e puntando sulla telemedicina. Sono “in costante aumento” le patologie psichiatriche ed i casi di autolesionismo tra i detenuti reclusi nelle carceri marchigiane, dove si sono verificati alcuni casi di suicidio nell’ultimo anno, ma dove la tossicodipendenza si conferma tra i maggiori problemi presenti all’interno degli istituti. È quanto emerge nella fotografia del Garante regionale dei diritti, Giancarlo Giulianelli, sulla situazione de penitenziari marchigiani, illustrata questa mattina, giovedì 17, Palazzo delle Marche, alla presenza del presidente del Centro Servizi Volontariato e Giustizia, Silvano Schembri. La carenza di personale, tra medici, educatori e agenti di polizia penitenziaria, insieme al sovraffollamento “intermittente”, sono tra le maggiori criticità evidenziate dal Garante, sulle quali hanno inciso anche i due anni di pandemia. Alcuni numeri sulle carceri marchigiane - Guardando ai numeri del Ministero della Giustizia, aggiornati a fine di febbraio, i detenuti complessivamente presenti nelle Marche sono 836 (su una capienza di 823): il sovraffollamento interessa gli istituti di Montacuto di Ancona, dove sono ospitati 310 detenuti contro una capienza di 256, Villa Fastiggi a Pesaro, con 194 detenuti a fronte dei 143 previsti, e quello di Fermo con 54 detenuti, 13 in più della capienza prevista. Sul fronte del personale di polizia penitenziaria, risultano effettivamente in servizio 591 agenti sui 626 assegnati, “una carenza più volte al centro delle proteste degli stessi agenti” e dei sindacati che rappresentano la categoria: a Montacuto in particolare sono presenti 122 agenti su 137 assegnati, a Villa Fastiggi sono in attività 149 agenti su 148 assegnati, a Fossombrone 96 agenti su 99 assegnati. Per quanto riguarda invece il penitenziario di Marino del Tronto sono presenti 101 persone (28 stranieri) su una capienza di 104 posti, e vi prestano servizio 135 agenti su 151 assegnati, mentre al Barcaglione ci sono 88 ospiti, 44 stranieri, su una capienza di 100 posti: 45 gli agenti presenti su 46 assegnati. Giulianelli ha spiegato che la Rems, ovvero la Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, ubicata temporaneamente a Macerata Feltria, in un convento (25 gli ospiti presenti) una struttura che verrà sostituita da quella in corso di ultimazione a Fossombrone. In ambito sanitario, Giulianelli ha sottolineato che le criticità maggiori riguardano “la tossicodipendenza, l’aumento delle patologie di tipo psichiatrico e dei casi di autolesionismo, la presenza di diversi detenuti affetti da Epatite C, Hiv ed altre patologie”, mentre sul fronte dei casi di infezione da Sars-CoV-2 ha spiegato che “in una prima fase si è riusciti a contenerlo, mentre nell’arco temporale ricompreso tra i mesi di novembre 2021 e gennaio 2022, sono stati riscontrati contagi in quasi tutti gli istituti, sia tra la popolazione detenuta che tra gli agenti della Polizia penitenziaria”. “Attualmente - spiega - la situazione non sembra destare preoccupazioni e il problema resta quello legato ai controlli da effettuare ed alle misure da adottare in relazione ai nuovi ingressi. Il Garante ha anche segnalato che nell’ultimo anno si sono verificati casi di autolesionismo e riscontrati alcuni suicidi”. Evidente la carenza di medici di base, specie nel carcere di Fermo, Montacuto e Villa Fastiggi, in tal senso il Garante ha evidenziato che l’indennità oraria riconosciuta ai sanitari che si recano nelle carceri è notevolmente inferiore rispetto a quella prevista per i medici delle Usca. Una carenza, per la quale sono stati indetti bandi di assunzioni. In area trattamentale mancano invece educatori, una carenza “a cui facciamo fronte con i comandi da altre strutture” e con i volontari che sopperiscono “con merito”. Sempre in questa area su impulso del Garante è stato attivato a Montacuto il Sio, uno sportello orientativo e informativo “che vorrei estendere a tutti istituti penitenziari nelle Marche”. Sempre sul fronte sanitario il Garante si è detto contrario all’ipotesi, ventilata negli anni passati, di aprire un reparto dedicato ai detenuti all’interno dell’ospedale regionale di Torrette, una ipotesi che ha definito “anacronistica e fuori luogo, perché non abbiamo una popolazione carceraria che richiede un reparto”. A tal riguardo ha spiegato che procederà invece alla “verifica negli ospedali più vicini alle carceri, della presenza di una stanza da poter adibire ai detenuti” sulla scorta dell’ospedale di Camerino. La telemedicina in carcere: il progetto a Montacuto - Tra le direttrici di intervento del Garante c’è quella di puntare sulla telemedicina, con un progetto pilota nella struttura di Montacuto, dove “i lavori di cablaggio sono quasi ultimati”: tramite un macchinario che misura pressione sanguigna, saturazione dell’ossigeno nel sangue e che esegue elettrocardiogramma, i medici possono verificare le conduzioni dei detenuti a distanza ed eventualmente intervenire in caso di necessità. La strategia del Garante, che ha discusso di queste problematiche nel corso di una riunione dell’Osservatorio regionale della Sanità penitenziaria, del quale l’Autorità di garanzia è entrata ufficialmente a far parte dietro sua esplicita richiesta, è quella di limitare le ospedalizzazioni dei detenuti, attraverso il progetto dell’ambulanza in carcere “per evitare trasferimenti negli ospedali” con bus da adibire ad ambulatori, una soluzione che “consentirebbe di evitare trasferte con le scorte, vista anche la carenza di personale, e di far risparmiare la Regione”. Secondo il Garante è importante permettere ai detenuti di lavorare, a tal riguardo ha citato uno studio pubblicato dal Corriere della Sera, dal quale è emerso che su 54mila detenuti in Italia (giugno 2021) solo il 30% svolge una attività lavorativa: l’obiettivo sarebbe quello di innalzare anche nelle Marche la quota portandola al 50%, così da rieducare i detenuti. In tale cornice è in vista anche un progetto con l’Università Politecnica delle Marche per creare un polo universitario simile a quello attivato dal precedente Garante (Andrea Nobili) nel penitenziario di Fossombrone, dove 4 detenuti si sono laureati. Sul fronte dei lavori di ristrutturazione, “l’attenzione è rivolta, in particolare, a quelli di Montacuto, Marino del Tronto e Villa Fastiggi”, mentre per quello di Fermo il Garante punta alla chiusura per la “non idoneità dei luoghi sotto molteplici punti di vista. È una struttura che va restituita alla città, contemplando la possibilità di costruire un nuovo e moderno istituto fuori dalla stessa cinta cittadina”. Sardegna. “Inesistenti i reparti ospedalieri per i detenuti, situazione indegna” unionesarda.it, 18 marzo 2022 Michele Cossa (Riformatori): “Necessario intervenire subito per porre rimedio”. Sulla mancata realizzazione dei reparti detentivi negli ospedali di riferimento delle carceri della Sardegna il consigliere regionale dei Riformatori, Michele Cossa, ha presentato un’interrogazione. “Il diritto alla salute - spiega - si realizza garantendo a tutti l’accesso alle cure e terapie, senza distinzioni e senza creare situazioni di svantaggio o di pericolo per i pazienti”. Cossa, che evidenzia come “l’assistenza sanitaria penitenziaria sia a carico del sistema sanitario regionale e debba essere realizzata, tra l’altro, anche con l’istituzione di appositi reparti detentivi all’interno dei presidi ospedalieri esistenti nei comuni sardi sedi di carceri”, si chiede per quali motivi “l’unico reparto sinora realizzato, pronto da anni, non sia stato ancora consegnato (reparto presso l’Ospedale Santissima Trinità di Cagliari, utilizzato come magazzino/deposito) e quali siano le cause della mancata realizzazione delle camere di sicurezza presso gli scali aeroportuali dell’Isola”. In questo momento, il ricovero dei detenuti “avviene in stanze con altri pazienti che vengono esposti a pesanti disagi e a condizioni di rischio. Una situazione non più tollerabile sia per chi si ritrova in questa condizione e sia per i detenuti, a cui è negato un diritto acquisito”. A tutti questo si somma “il numero crescente di detenuti psichiatrici”, il che comporta l’utilizzo di sottufficiali e agenti di Polizia penitenziaria, “aggravando le criticità derivanti dalle carenze di organico che interessano tutti i settori del personale penitenziario”. Per Cossa, l’interrogazione viene proposta con l’intenzione di rappresentare “anche un aiuto concreto ai sindacati della Polizia penitenziaria, che a più riprese hanno segnalato le criticità operative e le problematiche, dato che in diverse occasioni il personale impiegato nel servizio di piantonamento in ospedale ha faticato a contenere tentativi di evasione o di aggressione nei confronti degli agenti o degli operatori da parte di detenuti particolarmente pericolosi (oltre a registrare ingenti danni alle strutture e alle attrezzature dell’ospedale)”. E, infine, “tra le gravi problematiche evidenziate c’è anche l’assenza di appositi presidi fissi presso gli aeroporti: all’aeroporto di Elmas la Polizia penitenziaria è ospitata in un indecoroso container arrugginito, situazione offensiva della dignità del Corpo e delle persone che lì transitano”. La richiesta al presidente della Giunta regionale e all’assessore alla Sanità è quella di un “intervento immediato” per attivare in tempi brevi “reparti ospedalieri detentivi in grado di accogliere detenuti che hanno necessità di cure ospedaliere senza mettere a repentaglio la sicurezza degli altri pazienti e del personale sanitario e penitenziario coinvolto”. Campania. Protocollo per velocizzare iter per espianto di organi da donatori deceduti in carcere quotidianosanita.it, 18 marzo 2022 Trapianto di organi. Obiettivo dell’accordo, siglato tra la Regione, Procura generale e Avvocatura generale di Napoli, è ampliare la platea dei possibili donatori di organi o tessuti: in Italia sono circa 10mila persone in attesa di un trapianto e di queste circa 600 muoiono per non avere ricevuto l’organo. “Un esempio straordinario, l’unico in Italia di collaborazione tra autorità giudiziaria e regionale in tema di trapianti d’organo” ha detto il presidente De Luca. Ampliare la platea dei possibili donatori di organi o tessuti sburocratizzando l’iter per l’espianto da persone coinvolte in reati o decedute in carcere. Una opportunità che consentirà di ridurre il gap tra il numero di persone con gravi malattie in attesa di trapianto e quello di organi o tessuti potenzialmente disponibili. È questo l’obiettivo del protocollo d’intesa sul tema dei trapianti d’organo, sottoscritto nei giorni scorsi, nell’Arengario del Palazzo di giustizia di Napoli, dal presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, dal Procuratore Generale della Repubblica Luigi Riello e dall’Avvocato Generale della Repubblica Antonio Gialanella, con l’adesione di tutti i Procuratori della Repubblica del Distretto della Corte di Appello di Napoli. Il protocollo disciplina il rapporto tra Autorità Giudiziaria ed Autorità Sanitaria sul prelievo di organi e tessuti in caso di decesso di potenziali donatori, causato da eventi accidentali che possono costituire dei reati (ad esempio sinistri stradali, omicidi volontari, infortuni sul lavoro, salme indotte al sequestro giudiziario e responsabilità professionale) ai quali si aggiunge il caso della morte di soggetti detenuti. Ideato e promosso da Maria Rosaria Focaccio, Responsabile del Servizio divulgazione donazione organi, tessuti e cellule della Regione Campania, il protocollo regola ogni passaggio delle necessarie interlocuzioni tra le autorità competenti, per contemperare le esigenze di tempestività dell’espianto con quelle di completezza delle indagini preliminari e, inoltre, fornisce modelli di atti variamente utili a dare celerità a questo rapporto. “Un esempio straordinario, l’unico in Italia di collaborazione tra autorità giudiziaria e regionale in tema di trapianti d’organo” ha detto il presidente De Luca. Il protocollo, ha aggiunto, tocca un tema “estremamente delicato e questa testimonianza di solidarietà e di impegno civile è un segnale di grande valore per la nostra comunità perchè il tema della donazione è da sempre delicato”. Ci sono in Italia, poi ricordato De Luca, “circa 10mila persone in attesa di un trapianto e di queste circa 600 muoiono per non avere ricevuto l’organo. Tutto questo – ha concluso De Luca – chiama in causa la nostra coscienza”. “Un donatore moltiplica la vita. È questo il pensiero costante che ci deve guidare” ha detto il procuratore generale di Napoli Luigi Riello. “Il primo drammatico test di sinergia tra autorità giudiziaria e autorità sanitaria regionale in tema di donazione d’organi e trapianti – ha ricordato – l’Avvocato Generale della Repubblica Antonio Gialanella – è stata la morte di un immigrato di 30 anni, investito da un pirata della strada nel quartiere Pianura di Napoli lo scorso dicembre mentre in sella a una bici stava tornando a casa dopo aver terminato il suo lavoro in pizzeria. Un test che ognuna delle parti in causa avrebbe voluto evitare ma che ha dato la misure dell’efficienza messa in piedi tra Regione Campania e Procura Generale di Napoli grazie alla quale è stata salvata più di una vita” “La salma era sotto sequestro giudiziario – ha aggiunto Gialanella – ma come comunicato con urgenza dalla Dottoressa Focaccio avevamo a disposizione appena 50 minuti per l’espianto degli organi, autorizzato dalla famiglia. Grazie all’apporto del procuratore di Napoli Giovanni Melillo siamo giunti a far coniugare le esigenze dell’autorità giudiziaria e sanitaria poco primo del default, e così stata salvata la vita ad alcune persone”. Caserta. Ex Opg di Aversa, l’inferno del carcere degli ultimi di Viviana Lanza Il Riformista, 18 marzo 2022 Ancora detenuti in attesa di un posto in Rems. Manca un dirigente dell’area sanitaria e lo psichiatra svolge l’incarico due volte alla settimana. Come possono essere seguiti gli internati della Casa di reclusione di Aversa? Ancora una volta dal pianeta carcere arrivano notizie di criticità e carenze, di vuoti che, se protratti nel tempo, sono destinati a mortificare i diritti, anche di quelli più elementari. Il caso dell’ex Opg di Aversa è in ordine di tempo l’ultimo. A segnalarlo è l’associazione Antigone, da anni impegnata nella tutela dei diritti e delle garanzie del sistema penale. Lunedì gli osservatori dell’associazione si sono recati nella casa di reclusione “Filippo Saportito” di Aversa, meglio nota come ex ospedale psichiatrico giudiziario. Sulla pagina dell’associazione c’è il resoconto della visita. Il sovraffollamento, per fortuna, in questo istituto non è un problema, lo è invece la tipologia di reclusi. A fronte di una capienza regolamentare di 258 posti, l’istituto ospita 163 persone detenute. Ma “nonostante la destinazione di casa di reclusione - spiega Antigone - 53 persone sono internate per effetto di una misura di sicurezza, tre delle quali in attesa di Rems”. Vale a dire in attesa di essere trasferiti in una residenza per l’esecuzione delle misure sicurezza, cioè in una delle strutture che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari e sono dedicate all’accoglienza di detenuti affetti da disturbi mentali. È chiaro, quindi, che si parla di detenuti più fragili, per gestire i quali occorrerebbe una struttura e personale adeguati. Il fatto che nell’ex Opg di Aversa si trovino detenuti con patologie mentali che dovrebbero invece trovarsi in una Rems non può lasciare indifferenti. “La struttura - osservano da Antigone - pare aver conservato la sua antica vocazione”. A ciò si aggiungono le carenze negli organici del personale. “A fronte dei bisogni delle numerose persone internate - aggiungono da Antigone - si registra la perdurante assenza di un dirigente dell’area sanitaria, alla quale si è aggiunta la carenza di un medico psichiatra incaricato per l’istituto dallo scorso dicembre sino agli inizi del mese corrente. Attualmente l’incarico è coperto per due volte alla settimana”. La casa di reclusione di Aversa è stata fino al 2016 un ospedale psichiatrico giudiziario. Sorge in una zona abitata, a un chilometro dal centro cittadino. Sul piano geografico, quindi, è vicinissima al “mondo fuori”. Per il resto esiste una distanza tale da rendere la casa di reclusione un piccolo mondo a parte. In quanto casa di reclusione, poi, quella di Aversa dovrebbe ospitare soltanto persone condannate in via definitiva per reati cosiddetti comuni. Ma la realtà, secondo quel che emerge dal rapporto di Antigone, è ben diversa perché ci sono anche detenuti destinatari di misure di sicurezza e in attesa di essere trasferiti in Rems. Un dato che sposta la riflessione su una criticità irrisolta nel panorama penitenziario, non solo campano ma anche nazionale, e relativa alla gestione dei detenuti con problemi di salute mentale. Poco più di un mese fa la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per aver trattenuto illecitamente in carcere, per più di due anni, un cittadino italiano con problemi psichici. Il detenuto, sofferente di disturbo della personalità e disturbo bipolare, accusato di molestie nei confronti della sua ex fidanzata, resistenza a pubblico ufficiale, percosse e lesioni, doveva avere, secondo le disposizioni del giudice di Roma, un “immediato collocamento” in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza ma il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non aveva però trovato posto nelle Rems. Di qui la condanna da parte della Corte di Strasburgo. In Campania il garante regionale Samuele Ciambriello ha più volte attirato l’attenzione sul problema delle Rems e dei detenuti con patologie psichiatriche. A livello nazionale il garante Mauro Palma ha denunciato che siamo ormai a un suicidio ogni tre giorni tra i detenuti dall’inizio del 2022. Cos’altro si aspetta? Torino. “Detenuto picchiato e chiuso in cella per 48 ore con il divieto di visite mediche” di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 18 marzo 2022 Inchiesta della Procura. La vittima è Vittorio Jerinò, personaggio di spicco della ‘ndrina di Gioiosa Jonica. La denuncia è stata depositata dal suo avvocato. Picchiato e poi chiuso in cella per 48 ore, con il divieto di presentarsi dal medico per le terapie di routine. Una nuova presunta storia di abusi arriva dal carcere Lorusso e Cutugno. È contenuta in un fascicolo d’inchiesta della Procura di Torino, al quale sono allegate le foto che ritraggono i lividi sul corpo del detenuto. La vittima è Vittorio Jerinò, personaggio di spicco della ‘ndrina di Gioiosa Jonica. È in carcere dall’ottobre del 2014, quando i carabinieri lo scovarono in un alloggio bunker di Torino dopo 85 giorni di latitanza. L’uomo è accusato di essere l’esecutore dell’omicidio dell’ex ‘ndranghetista Salvatore Germanò, freddato a colpi di pistola nelle campagne di Borgo San Dalmazzo e seppellito lungo le sponde del torrente Gesso. La sentenza è passata in giudicato e sta scontando la condanna. A dispetto del suo curriculum criminale, racchiuso in cinque pagine di casellario giudiziario, Jerinò oggi è un uomo malato. Soffre di diverse patologie, tanto che durante la pandemia il Tribunale di Sorveglianza gli aveva concesso - seppure per un periodo limitato - i domiciliari per scongiurare il contagio. L’episodio di cui sarebbe stato protagonista e vittima risale al 15 gennaio, qualche mese dopo essere rientrato in cella. Era un sabato. Stando alla denuncia, depositata nelle settimane scorse dall’avvocato Cristian Scaramozzino, quella mattina Jerinò aveva prenotato una videochiamata con la figlia, costretta a casa dal Covid. Quando si è presentato in sala colloqui, sarebbe stato accolto da una guardia. Un uomo dalla stazza imponente che gli avrebbe vietato quell’unico contatto con il mondo esterno. “Qui decido io chi può chiamare o no”, avrebbe chiosato l’addetto alla sorveglianza. Poi, di fronte alle rimostranze del detenuto, l’agente lo avrebbe colpito con una raffica di pugni alla spalla, al braccio e al ginocchio. Infine, lo avrebbe rinchiuso nella cella fino al lunedì successivo. “Il fine settimana, però, non trascorreva tranquillo - si legge nella denuncia. Domenica mattina, l’agente apriva lo spioncino della cella e puntava agli occhi del detenuto un’accecante luce per dieci minuti. Peraltro, il medico della struttura lo aveva chiamato per le visite, ma non gli era stato consentito di lasciare la cella”. Solo il lunedì Jerinò è riuscito a contattare la famiglia e raccontare quanto accaduto. In quei giorni, il detenuto avrebbe anche cercato di mettersi in contatto con la polizia giudiziaria del carcere, ma la sua richiesta scritta è stata respinta. Ora sarà la Procura a fare luce sulla vicenda. Intanto ieri è iniziata l’udienza preliminare dell’inchiesta sulle presunte torture avvenute all’interno del penitenziario tra il 2017 e il 2019. Gli imputati sono 25: tra loro anche l’ex direttore Domenico Minervini, che avrebbe espresso la volontà di farsi interrogare e di essere giudicato con rito abbreviato. Il ministero della Giustizia è stato chiamato in causa come responsabile civile, mentre i garanti comunale, regionale e nazionale dei detenuti si sono costituiti parte civile, insieme con l’associazione Antigone. Roma. “Polo universitario penitenziario” della Sapienza: si parte di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 marzo 2022 “Con questo protocollo d’intesa, stipulato con la più grande università italiana, si completa la rete delle università pubbliche del nostro territorio con le quali da tempo abbiamo stipulato analoghi accordi, per garantire l’istruzione universitaria all’interno degli istituti penitenziari”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, dopo aver sottoscritto con il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria per il Lazio, Abruzzo Molise, Carmelo Cantone, e la Rettrice dell’Università di Roma Sapienza, Antonella Polimeni, un protocollo d’intesa, volto a garantire il funzionamento del “Polo universitario penitenziario” dell’Università Roma Sapienza (Pup-Sapienza). “Lo studio universitario in carcere - prosegue Anastasìa - è supportato da una pluralità di interventi, come le esenzioni dalle tasse scolastiche regionali, la fornitura dei libri di testo e dei materiali necessari allo studio e il sostegno all’attività di tutorato. L’istruzione universitaria è un passaggio molto importante per le persone detenute che riescono ad arrivarvi e che spesso ci arrivano al termine di cicli scolastici partendo dal totale analfabetismo. Per chi ha lunghe pene da scontare è un’occasione straordinaria di rielaborazione della propria esperienza e per tanti che hanno dovuto interrompere il proprio percorso di studi è un’importante possibilità per riprenderli. È un pezzo fondamentale di quella che in gergo penitenziario viene chiamata l’offerta trattamentale, derivante dall’articolo 27 della Costituzione che consiste innanzitutto nella capacità di offrire alle persone in carcere l’opportunità di costruirsi una vita diversa: con il protocollo che abbiamo firmiamo oggi - conclude Anastasìa - diamo sostegno a questa opportunità”. L’accordo sottoscritto lunedì scorso con l’Università Roma Sapienza completa il quadro dei protocolli d’intesa stipulati dal Garante con gli atenei pubblici del Lazio con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap). Complessivamente, nello scorso anno accademico risultavano iscritte 121 persone detenute alle università del Lazio. All’offerta universitaria contribuiscono da tempo, in forza di analoghi protocolli d’intesa, l’Università degli studi di Roma Tor Vergata, l’Università degli studi di Roma Tre, l’Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale, l’Università della Tuscia. L’accordo prevede che Sapienza si impegni ad agevolare il compimento degli studi universitari delle persone detenute. L’immatricolazione e l’iscrizione a corsi di studio attivati da Sapienza avverranno secondo le norme contenute nello Statuto, nei Regolamenti dell’Università e nei rispettivi bandi di ammissione, ma è prevista la possibilità di richiedere l’esonero dalla prova d’ingresso, laddove prevista. Gli studenti e le studentesse afferenti al Pup-Sapienza sono esenti dal pagamento delle tasse universitarie e pagano un contributo di importo fisso fissato annualmente. Al Garante dei detenuti il protocollo d’intesa attribuisce la funzione di raccordo tra le parti e i detenuti iscritti, assicurando l’esenzione dal pagamento della tassa regionale, nonché l’acquisto di libri e di altri strumenti indispensabili allo studio e il proprio supporto agli studenti detenuti nelle procedure di immatricolazione, iscrizione, nonché nelle altre pratiche riguardanti la carriera scolastica. Al Garante spetta altresì il la funzione di coordinamento con la Regione Lazio e con DiSCo - Ente regionale per il diritto allo studio e alla conoscenza - affinché assicurino, nell’ambito delle rispettive competenze, il proprio sostegno per fornire agli studenti detenuti gli strumenti indispensabili allo studio e con la Regione Lazio al fine di individuare possibili fondi regionali per il finanziamento delle iniziative. Nel protocollo d’intesa si prevede, tra l’altro, che i docenti delle singole materie incontrino, anche in modalità telematica, gli studenti e le studentesse detenuti non meno di tre volte prima dell’esame, l’individuazione di tutor, tra gli studenti e le studentesse universitari non detenuti, con il compito di fornire supporto nelle varie fasi del percorso di studio. Dal canto suo, l’amministrazione penitenziaria s’impegna: a fornire gli spazi didattici necessari all’interno degli istituti penitenziari; a favorire, ove possibile, l’utilizzo dell’insegnamento a distanza e l’assegnazione dei detenuti studenti in camere e reparti adeguati allo svolgimento dello studio, rendendo inoltre disponibili appositi locali comuni; ad agevolare l’ingresso negli istituti penitenziari dei docenti incaricati di svolgere attività di tutorato o impegnati nelle prove d’esame; favorire l’accesso ai canali di informazione bibliografica, di elaborazione e calcolo utili ai fini della tesi di laurea. Catanzaro. Al via nel carcere i seminari a cura dell’Università Magna Graecia calabria7.it, 18 marzo 2022 Il Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Sociologia e il centro di ricerca ‘Diritti umani, integrazione e cittadinanza europea’ dell’Università di Catanzaro organizzano, nell’ambito dei corsi di ‘Sociologia giuridica e della devianza’ e ‘Sociologia della sopravvivenza’ (prof. Charlie Barnao), una serie di seminari all’interno del carcere di Siano. Tematiche oggetto dei seminari - I seminari si svolgeranno tra marzo e aprile 2022 e avranno come oggetto tematiche di particolare rilievo tra cui populismo penale; violenza e diritto; prostituzione e pornografia; police brutality e tortura; terrorismo, lotta armata e resistenza; violenza istituzionale; homelessness; giustizia riparativa. Tutti gli incontri si terranno all’interno della casa circondariale di Siano, avranno un pubblico costituito da studenti detenuti in Alta sicurezza e verranno trasmessi in collegamento streaming agli studenti universitari non detenuti. Ventinove detenuti iscritti a corsi universitari - L’iniziativa si inquadra all’interno delle attività del Polo Universitario Penitenziario di Catanzaro, ed è frutto di un “importante e pluriennale percorso di collaborazione tra l’Università di Catanzaro e il carcere di Siano”. All’interno del carcere sono attualmente iscritti a corsi universitari 29 detenuti, di cui 25 iscritti presso l’Università di Catanzaro e 4 presso l’Università di Cosenza. I relatori del primo seminario - Il primo seminario si svolgerà domani, venerdì 18 marzo, alle 13.30, e avrà come titolo: ‘Populismo penale e giustizia riparativa’. Tra i relatori - oltre ad Angela Paravati, direttore del carcere di Catanzaro, Domenico Bilotti (Università di Catanzaro) e Claudia Atzeni (Università di Catanzaro) - ci sarà Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale dei minori di Trento, già presidente del Tribunale dei minori di Bologna e già presidente di sezione del Tribunale di Lamezia Terme. Avellino. Continuano le Giornate della legalità nelle carceri labtv.net, 18 marzo 2022 Il garante Ciambriello: “l’associazione Libera, anni di memoria e di impegno, di promozione del valore della responsabilità”. “Il 21 marzo: perché in quel giorno di risveglio della natura si rinnovi la primavera della verità e della giustizia sociale, perché solo facendo memoria si getta il seme di una nuova speranza”, così Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Campania, in vista della Giornata nazionale dell’impegno e della memoria delle vittime innocenti di mafia, organizzata a Napoli, per lunedì prossimo, dall’ associazione ‘Libera’ di don Luigi Ciotti. In questa settimana, sono state promosse diverse iniziative ed incontri nelle carceri campane, d’intesa con l’associazione ‘Libera’ ed alcuni familiari di vittime innocenti della criminalità organizzata. Oggi, ci si è recati negli istituti di pena di Bellizzi Irpino, nella mattinata, e di Salerno, nel pomeriggio. Hanno partecipato agli incontri i direttori delle due carceri, Paolo Pastena di Bellizzi Irpino e Rita Romano di Fuorni, oltre che Anna Garofalo, dell’associazione ‘Libera Salerno’, Anna Maria Torre, figlia di Marcello, vittima innocente di Camorra e Marco Cillo della Caritas di Avellino. Annamaria Torre, nel suo intervento, ha dichiarato: “È la prima volta che parlo a detenuti adulti, fino ad adesso ho parlato ad adolescenti delle carceri minorili. Con la mia famiglia, in particolare con mia madre, abbiamo atteso anni per reclamare giustizia e verità. La mia presenza oggi qui, anche emozionata, vuole verificare con voi, senza giudicarvi, le condizioni di un percorso di inclusione sociale e nostro, con le nostre sofferenze, il nostro dolore, di sentirci comunità”. Su questa testimonianza, dal pubblico è intervenuto un detenuto di Bellizzi che ha consegnato alla dottoressa Anna Maria Torre una riflessione personale, raccontando poi di aver, da qualche settimana, intrapreso un percorso di giustizia riparativa e quindi cercare di instaurare un dialogo con i familiari della persona che ha ucciso. Anna Garofalo, nel corso dell’incontro, ha sottolineato che “dietro un problema c’è sempre un bisogno e si deve intervenire già nell’età adolescenziale, poiché dietro tante storie di coloro che causano violenza e morte, ci sono miseria, povertà educativa ed emarginazione”. Marco Cillo della Caritas di Avellino, invece, ha tratteggiato la storia di due vittime innocenti della criminalità organizzata della provincia di Avellino: Nunziante Scibelli, prima vittima innocente, e Pasquale Campanello, agente di polizia penitenziaria al quale è intitolato, peraltro, il carcere di Ariano Irpino. Ha affermato: “Ho insegnato diversi anni in carcere e da questa mia esperienza ho imparato che bisogna capire, sapersi rapportare e mai giustificare”. Il Garante campano Ciambriello, ha così concluso: “Anni di memoria e impegno per restituire verità e giustizia a tutte le vittime di mafia. Oltre il settanta per cento delle famiglie, che hanno provato sulla propria pelle la ferocia del crimine organizzato, non conosce la verità sulla morte dei propri cari. Un cammino nelle carceri per promuovere responsabilità e giustizia riparativa, per andare oltre le mura dell’indifferenza. Bisogna che non ci sia più disinteresse sul tema del carcere e della giustizia, ma anche sulle disuguaglianze sociali, sulla precarietà, perché l’indifferenza è un proiettile silenzioso, che uccide quotidianamente”. Milano. Ago e filo, piegato su uno sgabello così provo a ricucire la mia vita di Antonio Aparo* Il Riformista, 18 marzo 2022 Èun tema letterario ricorrente quello del prigioniero che ritrovandosi messo ai ferri, afferra l’uncinetto e sferruzza la catenella per allentare le catene della vita. Io ho scelto il ferro dell’ago, io ricamo. I compagni mi guardano e non comprendono la fatica del corpo su uno sgabello, della schiena piegata, delle mani pazienti e rapide, la passione delle dita, degli occhi concentrati dodici ore al giorno in silenzio, alla luce incerta di una lampadina, ma così io racconto. Perché il cuore non scoppiasse e la mente non impazzisse ho preso ago e rocchetto tanti anni fa e nel filo che scende e risale ho cominciato a imprigionare i giorni, i mesi, gli anni, mentre il tempo si è messo a tessermi le rughe in volto. Curvo la schiena su idee che prendono la forma di fili colorati, accolgo la storia che la tela mi offre come accettazione della vita e imparo a renderla al meglio. La stoffa è data come la vita, a me la possibilità di renderla migliore. In ogni ricamo racconto quello che non ho saputo fare e che ho imparato: serro il filo nell’ago, entro nella tela e raggiungo il rovescio, sfogo la voglia di tornare indietro e invertire il corso degli eventi, risalgo e poi rientro, cucire e scucire diventano processi di revisione interiore. Infilo lo sguardo sul fondo di un ricordo, seguo la legge del passo, trasformo il vuoto in un punto, ripasso le ragioni, comprendo gli errori. Era il 16 giugno 1990, una sera d’estate in cui la guerra di mafia arroventava la Sicilia già calda e io ero a casa sotto misure di prevenzione, che mi confinavano alla mia città con tre timbri al giorno. Arrostivo carne e verdure quando sentii le scariche di armi da fuoco. Mi affacciai dalla balaustra del terrazzo, due uomini si avvicinavano di corsa a un corpo straziato a terra, uno gli sparava un colpo alla nuca, rientravano veloci in una macchina in moto e si dileguavano. A terra un ragazzo inerme. Mio fratello. Mi precipitai in strada, sperando fosse ancora vivo, lo presi fra le braccia e con le mani cercavo le ferite e la vita, ma mi ritrovai imbrattato di sangue e di una strana materia vischiosa, era il suo cervello. Mio fratello era un uomo enorme, lo caricai in auto con l’aiuto di mia sorella Teresa e senza patente guidai fino all’ospedale di Siracusa, dove lo lasciai con lei su una barella per precipitarmi di nuovo a casa affinché non mi arrestassero per violazione degli obblighi. Con la morte di mio fratello, la mia casa un tempo felice, fu avvolta dal silenzio. Poi ho perso mio padre e poi un figlio che non ho mai conosciuto, perché mia moglie era incinta. Fui arrestato con un pretesto il 5 luglio 1990, quasi subito insomma, e non ebbi il tempo di vendicarmi. Due mesi dopo furono arrestati gli assassini di mio fratello, Tarascio, Bottaro, Di Benedetto, perciò pensai che prima o poi mi sarei vendicato in carcere. Ho trascorso 27 anni e due mesi al 41 bis, poi da Novara sono stato trasferito a Voghera, dove giungevano altri detenuti, finché arrivò un ispettore, mi porse una lista di nomi, mi chiese se qualcuno di quelli potesse essere un problema. Dissi di no, poi fui accompagnato in magazzino a ritirare la mia fornitura e finalmente in sezione. Lì notai un uomo che tremava vicino al frigorifero, aveva il morbo di Parkinson, ma io lo riconobbi: era l’assassino di mio fratello. Sentii il dolore riemergere dalle viscere della terra ed entrandomi dai piedi risalirmi tutto il corpo. Mio fratello, mio padre, mio figlio. Ora lui era davanti a me, il dolore offrì la mano all’odio che mi disse: “Fallo ora, fallo subito, non avrai un’altra opportunità. Sono 27 anni e tre mesi che attendi!”. Ero un felino pronto ad aggredire ma quando mi trovai a un metro da lui, una voce flebile mi raggiunse chiamandomi per nome: “Antonio, Antonio, sei tu?”. Era lui, ero davvero io, era la voce dell’amore e del perdono che ci ha unito le mani affinché io lo aiutassi nelle fatiche e nelle sofferenze della sua malattia. Ho capito che io ero diverso, che ero migliore degli uomini che eravamo stati. Così ci siamo salutati e non gli ho nemmeno chiesto a Di Benedetto perché lo avesse ucciso mio fratello. Solo dopo alcuni giorni, qualcuno si accorse che fra me e Di Benedetto c’era un divieto d’incontro e lo trasferirono a Opera, dove mi trovo anch’io dal 2019, pur in una sezione diversa dalla sua e qui oggi chiedo perdono per lui, ché mi provoca dolore vederlo soffrire e in lui ritrovo mio fratello morente. In lui ritrovo mio fratello. La vita prosegue oltre gli strappi e come un’esperta ricamatrice sutura le ferite. Io aspetto dalle mie Parche, tessitrici della tela che mi resta, il dono per il ricamo mio più grande, intreccio di dolore e rimpianto, racconto di ciò che è stato e speranza del presente, aspetto un filo per disegnare la possibilità di tornare a esistere. Quel filo si chiama speranza. *Ergastolano detenuto a Opera Roma. Gambero Rosso e Sant’Egidio in favore dei detenuti del Regina Coeli dire.it, 18 marzo 2022 La Fondazione Gambero Rosso e la Comunità di Sant’Egidio annunciano la loro iniziativa in favore dei detenuti della Casa Circondariale di Regina Coeli. Un progetto che prevede un percorso formativo rivolto sia agli addetti al servizio mensa del carcere. La Fondazione Gambero Rosso e la Comunità di Sant’Egidio annunciano la loro iniziativa in favore dei detenuti della Casa Circondariale di Regina Coeli. Un progetto che prevede un percorso formativo rivolto sia agli addetti al servizio mensa del carcere, circa 13 detenuti, sia ai responsabili della sorveglianza e del coordinamento del servizio dell’Istituto Carcerario. Il percorso formativo partirà il 21 marzo e si articolerà in 4 incontri tenuti dai talent più amati dal pubblico di Gambero Rosso Channel: Igles Corelli, Giorgio Barchiesi in arte Giorgione e Laura Marciani, Chef della Gambero Rosso Academy da sempre attenta alle tematiche sociali. In tutti gli incontri Mirko Iemma, resident Chef di Gambero Rosso Academy Roma, sarà presente per fornire supporto ai partecipanti. Questa iniziativa, oltre a voler rendere più gustose e saporite le ricette previste nei menu nel rispetto dei limiti imposti dai regolamenti, avrà sicuramente il beneficio di incentivare i momenti di aggregazione e di recupero dei componenti della comunità carceraria, valorizzando e responsabilizzando gli addetti alla preparazione pasti attraverso un rafforzamento del lavoro di squadra. Al termine del percorso è previsto il conferimento di un attestato di partecipazione che rappresenta un’auspicata prospettiva di reinserimento sia in un contesto lavorativo che sociale. Un primo passo per una maggiore inclusione e per una maggiore solidarietà dei soggetti coinvolti. La dr.ssa Claudia Clementi, direttrice Regina Coeli; dichiara “Sono ben lieta di poter dare inizio a questo progetto che da due anni attende di essere realizzato. Credo sia una vera opportunità, non solo per i detenuti coinvolti nella preparazione dei pasti, ma per tutta la popolazione carceraria qui presente, in quanto occasione di apprendimento e di conoscenza specifica del settore della ristorazione. In un’ottica di condivisione e di aggregazione, ritengo, che per i detenuti, possa essere una vera occasione di contatto con il mondo lavorativo esterno, che sia per loro un’occasione per un graduale reinserimento nel contesto sociale”. Prosegue l’ing. Paolo Cuccia, vicepresidente Esecutivo di Fondazione Gambero Rosso “Abbiamo sostenuto sin dall’inizio questa iniziativa assieme alla Comunità di Sant’Egidio per favorire la comunità carceraria di Regina Coeli. La Fondazione Gambero Rosso, senza scopo di lucro, da anni dà il suo contributo ai temi sociali, formativi, tecnici e scientifici del settore agroalimentare. Supportare questo progetto formativo che fornirà nuove tecniche nuovi strumenti in cucina che i detenuti potranno utilizzare per il loro reinserimento lavorativo e sociale, è stata una naturale conseguenza dell’impegno che quotidianamente mettiamo nel nostro lavoro”. Per la Comunità Sant’Egidio, la dr.ssa Stefania Tallei, coordinatrice nazionale del servizio in carcere della Comunità, dichiara: “Un progetto che ha un grande valore e che aiuta a sognare un futuro migliore in un tempo difficile. Insieme, perché nessuno può fare da solo. Sant’Egidio, il Gambero Rosso, l’Istituzione, abbiamo bisogno gli uni degli altri per cambiare la realtà, per parlare alla società civile dei valori costituzionali. Formazione e lavoro, reinserimento e inclusione, dignità e riscatto, per ricominciare, siano un diritto e una possibilità per tutti, nessuno escluso. Infine ricevere un attestato, per presentarsi al mondo e ricominciare”. Al termine del percorso formativo, presso la Sala Conferenze della Casa Circondariale di Regina Coeli verrà indetta una conferenza stampa per presentare i risultati del Progetto e l’impatto che ha avuto sui detenuti. Paolo Liguori e Piero Sansonetti lanciano la televisione garantista di Claudia Osmetti Libero, 18 marzo 2022 Il format che anno scelto per la loro rubrica in combinata, “Attenti a quei due”, la dice tutta. Paolo Liguori e Piero Sansonetti lanciano il Riformista Tv, “un progetto garantista in un Paese giustizialista”. E pure lo slogan, a ben vedere, è di quelli azzeccati. “Quando l’editore del Riformista, Alfredo Romeo, che è un imprenditore, mi ha chiamato, ho accettato subito, senza riserve”, racconta Liguori, che tra l’altro è anche il direttore editoriale del Tgcom24, l’oramai classica testa all-news di Mediaset, e di queste cose, cioè del mondo dell’informazione digitale, se ne intende. È un canale web, il Riformista Tv: perché nell’era delle immagini, di Internet e dei social essere fuori dalla rete significa essere fuori dal mondo. “Il Riformista è un giornale garantista in distonia completa con tutti gli altri giornali”, continua Liguori, uno abituato a non guardare troppo all’etichetta e a non farsi problemi nel sostenere posizioni poco ortodosse rispetto alla narrazione che va per la maggiore. Dopotutto, l’ha dimostrato più di una volta. “E poi per crescere, oggi, una testata ha bisogno di una dimensione multimediale”. Appunto. Il “canale” lo si trova nel www, per adesso ha un palinsesto di circa tre ore al giorno fatto di programmi live e on-demand che vanno dalle breaking-news (utilizziamo “un prodotto veloce e giovane nel linguaggio per dare in pochi minuti una sintesi dei fatti principali”, si legge sul sito), alla rassegna stampa a cura del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti (un altro che, con la tessera del Partito radicale in tasca, ha fatto del garantismo un punto fermo di tutta la sua azione politica), al “contro Tg”, ossia a un mini notiziario che il sabato offre “quelle notizie non valorizzate o non raccontate Paolo Liguori a pieno dai telegiornali” tradizionali. Cliccare per credere, insomma: basta un computer. Uno studio in cui prevale l’arancione (il colore del Riformista) e quel filo conduttore che lega tutti gli interventi, nessuno escluso, e che non può che essere così: “Tireremo sassate per scassare il sistema dell’informazione”, puntualizza Sansonetti. E allora forse sta tutto lì, in quel voler essere dalla parte degli ultimi, dei carcerati, dei massacrati da una giustizia che, in troppe occasioni, lo sappiamo fin troppo bene, giusta non lo è per niente. Oppure lo è solo a metà. C’è Paolo Guzzanti, l’ex senatore di Forza Italia. C’è Angela Azzaro, che è vicedirettrice. C’è Aldo Torchiaro. La squadra è folta per questa “operazione integrata” (il copyright è, ancora, di Liguori) che ha un obiettivo e alla fine conta solo quello: raccontare i tribunali e quel che succede nelle corti italiane, cioè “parlare a chi governa i processi perché devono cambiare le mentalità che ci sono alla base. Dobbiamo difendere i più deboli”. In diretta (pardon, in streaming) si parte con la guerra in Ucraina, non poteva essere altrimenti. Ma anche qui Sansonetti e Liguori la vogliono trattare fuori dal coro. La loro parola d’ordine è il suo esatto contrario, la pace: “Siamo contro la tendenza di una stampa omologata: ci stiamo dimenticando, i giornali lo stanno facendo, che nei conflitti la gente muore. Ecco”, chiosa Liguori, “noi ci siamo per ricordare questo. Siamo rimasti in pochissimi a non voler mandare le armi a Kiev”. Il resto è fatto di contenuti video, commenti (“graffianti”, promettono), idee, fatti in prese in diretta. “Da venticinque anni a questa parte, ma forse pure da qualcosina in più, lo Stato di diritto, in Italia, è ferito a morte”, conclude Sansonetti, “noi vogliamo ristabilirlo. Siamo garantisti, liberali e socialisti”. Pandemia e guerra alimentano le nostre paure di Sergio Harari Corriere della Sera, 18 marzo 2022 L’ondata di profughi che si sta già riversando in Europa avrà ripercussioni non solo socio-economiche ma anche sanitarie importanti, che è bene mettere in conto da subito. L’invasione dell’Ucraina, con le terribili immagini che la accompagnano e che ogni giorno entrano nelle nostre case, scuote le nostre coscienze e mette in ansia i nostri cuori ma a colpirci non è solo la vicinanza geografica di questi luoghi. Altre guerre, altrettanto orribili, hanno segnato il mondo in questi anni senza che ci sentissimo così coinvolti, basti ricordare la distruzione di Aleppo o i conflitti in essere in Etiopia, Yemen, Nigeria, e l’elenco potrebbe continuare a lungo. L’Ucraina è meno distante di molti di questi paesi e la Russia è una potenza nucleare che potrebbe scatenare la terza guerra mondiale, è vero, ma forse esiste anche un altro fattore che fa sì che i nostri timori siano maggiori che in altre occasioni. Dopo la pandemia tutto è diventato possibile, qualsiasi cosa può accadere e nulla ci sembra più improbabile. Nessuno di noi nel gennaio di due anni fa avrebbe mai, anche solo lontanamente, predetto quello che poche settimane dopo avvenne, nessuno avrebbe potuto immaginare il mondo in lockdown, i morti, gli ospedali travolti, il distanziamento sociale, il blocco dei viaggi, la paura dei contagi, la corsa ai vaccini; è avvenuto di tutto, senza che lo potessimo prevedere. In questi drammatici mesi abbiamo capito che quello che accade dall’altra parte del globo interessa anche noi, che la terra non ha più isole felici nelle quali nascondersi in sicurezza, che il pericolo può arrivarci addosso senza preavvisi. Moltissimi di noi fino a due anni fa non sapevano neanche dell’esistenza di una città cinese dal nome oggi diventato sinonimo di morte e malattia, Wuhan. Eppure tutto questo è successo. Allora la guerra dei nostri vicini diventa anche un po’ nostra, ne percepiamo il pericolo e le possibili ripercussioni. Abbiamo paura delle conseguenze che potrebbe avere anche sulle nostre vite, oggi che tutto è strettamente collegato, mentre niente è più certo e realmente prevedibile. L’ondata di profughi che si sta già riversando in Europa avrà ripercussioni non solo socio-economiche ma anche sanitarie importanti, che è bene mettere in conto da subito: Ucraina e Russia sono due paesi con un elevato numero di casi di tubercolosi spesso con forme pericolosamente resistenti ai farmaci e anche l’HIV è ben lungi dall’essere sotto controllo. Il crollo economico di quell’area geografica con la crescita di nuove povertà rischia di far esplodere l’epidemiologia di malattie finora contenute da sistemi sanitari che già presentavano serie criticità prima di questo conflitto. Per questo bisognerà tenere conto dell’impatto dirompente che potrà avere la gestione sanitaria anche nei paesi limitrofi come ad esempio la Polonia. Trascorsi questi due anni tutto fa più paura, anche una guerra, che in altri tempi avremmo forse sentito più estranea, diventa una concreta minaccia a quella pace e a quel benessere che fino a ieri davamo per scontati e acquisiti. La solidarietà che ha caratterizzato la prima ondata della pandemia sta riemergendo con forza e forse è l’unico modo con il quale ognuno di noi nel suo piccolo può reagire all’indicibile che stiamo vivendo, ma non potrà bastare se non sarà accompagnata da serie azioni anche di politica sanitaria. Al servizio del pensiero unico di Vincenzo Vita Il Manifesto, 18 marzo 2022 Media. L’informazione è oggi una componente attiva della guerra: in Russia si rischia la prigione se viene rotta l’omertà e il dissenso è proibito con logiche fasciste; nel democratico occidente censure e autocensure impazzano. A leggere il lungo post pubblicato sulla sua pagina di Facebook dallo storico Angelo d’Orsi c’è da rabbrividire. Si racconta di una lettera inviata al direttore de La Stampa per protestare legittimamente contro una grande fotografia pubblicata in prima pagina. Dal quotidiano raffigurante una carneficina di civili a Donetsk dello scorso 14 marzo. Si attribuiva ai russi la colpa del macello e non - come comprovato- all’esercito ucraino. Nel post si evoca persino la fonte incerta e non trasparente della foto medesima. Guai a difendere Putin, ovviamente. Tra l’altro, se c’è una voce insospettabile di strane simpatie è proprio il manifesto, ben più lesto di tanti commentatori di oggi ad individuare la degenerazione profonda del modello sovietico e il baratro di quelli succeduti al cosiddetto socialismo di stato. Tuttavia, l’informazione non deve mai sedersi su qualche curva da stadio, avendo il compito deontologico di rendere consapevoli le persone che usufruiscono dei media. Fa impressione, quindi, che una storica testata guidata peraltro da uno stimato professionista scada a tali livelli, mostrandosi persino offesa per le critiche. In verità, proprio una simile contraddizione ci racconta la realtà della sottomissione verso le linee ufficiali, che prendono (strumentalmente?) le difese del popolo ucraino (cosa sacrosanta) per rinvigorire nei fatti la religione atlantista: così scolorita nel tempo e ora ringalluzzita con l’aumento delle spese militari. L’informazione è oggi una componente attiva della guerra: in Russia si rischia la prigione se viene rotta l’omertà e il dissenso è proibito con logiche fasciste; nel democratico occidente censure e autocensure impazzano. Il sindacato dei giornalisti della Rai ha chiesto all’azienda di chiarire come mai il servizio pubblico italiano non riprenda le corrispondenze da Mosca, a differenza di ciò che hanno deciso le testate internazionali e pure diverse italiane. I giornalisti hanno sottolineato che nessuno di loro aveva chiesto di rientrare. Inoltre, aggiunge l’UsigRai, continua nei programmi di rete e nei telegiornali il ricorso ai freelance, senza neppure chiarire se ne siano garantiti la sicurezza e un equo compenso. Il precariato prevale a dispetto dei santi? Insomma, che ne è delle inviate e degli inviati? La Rai è embedded? Eppure, la percentuale delle notizie sulla guerra, in termini di titoli, è di circa il 75% del totale delle edizioni e gli ascolti aumentano moltiplicati dalla relazione non conflittuale ma sinergica con i social. La tendenza è simile per le emittenti private e una parte dei talk (in particolare, Presa diretta e Piazza pulita). Non dimentichiamo, però, che l’apparato pubblico ha un surplus di obblighi, come recita il contratto di servizio che giustifica la concessione. Il sindacato chiede di sapere e pone così una questione strategica: l’informazione è la trama nervosa della società e l’utilizzo del segreto è un’arma impropria. Non bastano le non stop delle redazioni centrali con una nuova compagnia di giro di ospiti. La riduzione a sloganistica manipolatrice è la negazione della ricerca della verità e del metodo dell’argomentazione. Ciò significa che la stessa presunta verità va proposta, discussa, analizzata. Se è imposta come naturale e lineare, perentoria e aprioristica, è la prima vittima del conflitto bellico. Se l’informazione prevalente assume le sembianze di un pensiero unico, la guerra ottiene un ulteriore effetto collaterale: il bavaglio di regime. Con tanti saluti all’articolo 21 della Costituzione. Trent’anni fa finiva l’apartheid: quando perderemo la presunzione di essere i migliori? di Giusy Baioni Il Fatto Quotidiano, 18 marzo 2022 Il 17 marzo del 1992 i sudafricani bianchi si recavano alle urne per votare al referendum che avrebbe sancito la fine dell’apartheid con il 68,73% dei sì. Trent’anni fa. Trent’anni che sono nulla, rispetto a una vicenda che sa di Medioevo. Eppure, dopo tre decenni, mi ritrovo a domandarmi quanti anni, quanti decenni serviranno per eradicare davvero dalle nostre menti la presunzione di essere i migliori. Non lo ammettiamo, certo, spesso non ne siamo nemmeno consapevoli, ma quanti dei nostri atti, dei nostri pensieri, delle nostre decisioni portano ancora il peso dei secoli di dominio coloniale? Negli Stati Uniti è ancora necessario lottare con slogan che ricordano che le vite dei neri hanno importanza quanto quelle dei bianchi. E qui da noi, nella civilissima Europa dilaniata oggi da un conflitto fratricida, ancora ci troviamo a distinguere tra profughi di serie A e di serie B. Da giorni questo pensiero mi lacera, contesa anche io tra la drammatica evidenza della necessità di venire in soccorso di chi fugge dai bombardamenti e la rassegnata consapevolezza che le altre guerre (quelle che da vent’anni cerco di raccontare) producono altri profughi, regolarmente respinti come non avessero gli stessi diritti. Poi, ieri, ascoltando la radio, sono stata colpita dal pensiero espresso dal sindaco di uno dei tanti comuni che si stanno dando da fare per l’ospitalità (mi perdoni, non ne ricordo proprio il nome!): diceva che quanto sta accadendo potrà segnare un punto di svolta nella nostra idea di accoglienza, nella percezione stessa che noi italiani, noi europei abbiamo di chi fugge da una guerra. Mi piace. Voglio essere propositiva e sperarlo anche io. Se ora apriamo a chi ne ha bisogno - come è giusto e sacrosanto - un domani sarà ben difficile giustificare nuove chiusure… Anziché lamentarmi o accusare, dunque, voglio auspicare che davvero oggi, mentre apriamo le nostre frontiere e le nostre case a persone in fuga, guardandole negli occhi, possiamo davvero allargare le maglie della nostra comprensione e della nostra capacità di condivisione ed empatia. Lasciando definitivamente alla cupa storia del Novecento tutta l’eredità di qualunque tipo di segregazione consapevole o inconsapevole. Un altro pensiero voglio aggiungere, traendolo dalla ricorrenza che oggi ci porta a ricordare il Sudafrica dell’apartheid: al referendum si giunse dopo un percorso di crescente isolamento internazionale iniziato addirittura nel 1961, con l’espulsione del paese dal Commonwealth, proseguito nel 1964, con l’esclusione del Sudafrica dalle Olimpiadi e culminato con le sanzioni economiche che costrinsero il governo del presidente de Klerk a capitolare: nel 1985-6 la Comunità Europea varò l’embargo sul commercio delle armi, la cessazione delle esportazioni di petrolio e degli scambi culturali e sportivi e poi un embargo sui nuovi investimenti. Nel 1986 anche gli Stati Uniti (superando, con un voto del Congresso e del Senato, il veto posto dal presidente Reagan) stabilirono pesanti sanzioni economiche: stop alle importazioni di acciaio, ferro, uranio, carbone, tessuti e materie prime agricole; divieto al governo sudafricano di detenere conti bancari statunitensi; bando della South African Airways dal suolo degli Stati Uniti; divieto assoluto di nuovi aiuti, investimenti e prestiti. Il paese, strangolato dalle pressioni internazionali, ma soprattutto dalle sanzioni, non poté che arrendersi. Ma ci vollero quattro anni per arrivare alla scarcerazione di Mandela e sei per giungere al referendum che ricordiamo oggi. Certo, da allora il mondo è cambiato: l’interconnessione e l’interdipendenza globali fanno oggi sperare che chi viene sottoposto a sanzioni drastiche abbia molto meno tempo a disposizione per cedere. Anche se è una superpotenza. Nel mondo globalizzato, anche i giganti hanno i piedi d’argilla. Cannabis, usata da 22 milioni in Ue. Alla camera il ddl sulla coltivazione di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 marzo 2022 L’appello di Walter De Benedetto ai parlamentari: “Ci lasciate nelle mani della criminalità”. Perantoni (M5s): “Superare preclusioni ideologiche”. Nel giorno in cui riprende alla Camera, in commissione Giustizia, l’iter del ddl sulla coltivazione domestica della cannabis, Walter De Benedetto torna a sensibilizzare i parlamentari sulla condizione di quei malati che come lui sono trattati da criminali per aver coltivato marijuana in casa. E vale la pena prendere nota dei risultati dello studio dell’Agenzia europea per la droga (Emcdda), pubblicati ieri dal gruppo Score, condotto sulle acque reflue di 75 città europee nei 23 Paesi dell’Ue, oltre che in Turchia e in Norvegia, per indagare sui consumi di stupefacenti e sulle tendenze emergenti nel corso del 2021. “La cannabis è la droga illecita più comunemente usata in Europa, con circa 22,1 milioni di consumatori l’anno scorso”, si legge nel report che sottolinea come durante la pandemia, e i relativi lockdown, “la cannabis vegetale era una delle poche sostanze utilizzate più spesso” in Europa. Anche se l’Italia non compare tra le zone dove sono più presenti i residui di stupefacenti nelle acque reflue - tranne che per la cocaina in tutte le regioni del Nord - il metabolita della cannabis (Thc-Cooh) è stato trovato massicciamente in “Europa occidentale e meridionale, in particolare nelle città della Repubblica Ceca, Croazia, Spagna, Paesi Bassi, Portogallo e Slovenia. Nel 2021 più di due quinti delle città (13 su 31) hanno segnalato un aumento dei carichi di Thc-Cooh nei campioni di acque reflue” rispetto agli anni precedenti. Quanto alla cocaina, essa è ancora più diffusa nell’Europa occidentale e meridionale ma prende sempre più piede nell’Europa orientale, secondo questa tipologia di studi che, come ha spiegato il direttore dell’Emcdda Alexis Goosdeel, “negli ultimi dieci anni è passata da una tecnica sperimentale a strumento consolidato per il monitoraggio del consumo di droghe illegali in Europa”. L’unica sostanza i cui residui sono diminuiti un po’ ovunque è l’Mdma, utilizzato soprattutto dai giovanissimi nei rave e nei luoghi del loisir. Se questo è il contesto in cui viviamo in Europa, la war on drugs che ancora si combatte novecentescamente in Italia mostra tutte le sue crepe. Walter De Benedetto, che da 36 anni è affetto da artrite reumatoide e che l’anno scorso ha dovuto affrontare un processo per aver coltivato in casa alcune piantine per curarsi, torna, come aveva già fatto nel 2019 e nel 2020, a rivolgersi alle istituzioni per chiedere una “legge più giusta, per chi ne ha bisogno per alleviare il dolore, per chi è costretto a rivolgersi alle piazze di spaccio”. “Ci sentiamo scoraggiati perché sembra che il nostro Stato preferisca lasciare 6 milioni di consumatori nelle mani della criminalità organizzata anziché permettergli di coltivarsi in casa le proprie piantine”, aggiunge nel messaggio consegnato tramite il Comitato Cannabis Legale formato da Meglio Legale, Associazione Coscioni e Forum Droghe. De Benedetto ricorda che, a novembre a Genova, la Conferenza governativa sulle droghe si è conclusa facendo proprie “molte delle proposte che da anni la società civile avanza”. Dunque, “calendarizzare e approvare questo ddl sarebbe in linea con le raccomandazioni del governo”. In effetti il testo sul quale ieri si è conclusa la discussione generale in commissione e che attende ora di essere emendato, legalizza la coltivazione domestica di 4 piantine di marijuana al massimo, inserisce la fattispecie di reato di lieve entità per i casi meno gravi di violazione dell’art. 73 della 3039/90, elimina la sanzione amministrativa (ritiro della patente) per i consumatori e sostituisce il carcere con lavori socialmente utili quando a produrre o spacciare sostanze è una persona tossicodipendente. “Sono dalla tua parte, mi batto con te”, risponde a De Benedetto il deputato M5S Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia che ha messo a punto il testo base e lo giudica un buon inizio perché, dice, “vuole guardare proprio a coloro che, come te, potrebbero avere una migliore qualità della vita se fossero superate preclusioni ideologiche incomprensibili”. Cannabis, la ministra Dadone: “Basta giochi, sì alla coltivazione” di Viola Giannoli La Repubblica, 18 marzo 2022 Riparte in Commissione Giustizia alla Camera la discussione sulla proposta di legge. Lettera del paziente affetto da artrite reumatoide: “Serve un atto di responsabilità del Parlamento, chi si trova nelle mie condizioni non può finire in tribunale”. Bocciato il referendum sulla depenalizzazione dalla Corte costituzionale, riparte il lungo cammino del disegno di legge sulla cannabis, all’esame della commissione Giustizia. La proposta introduce, tra le altre cose, la coltivazione domestica, ovvero la possibilità di seminare e crescere fino a un massimo di 4 piantine per uso personale. Inoltre inserirebbe la fattispecie di lieve entità per i casi meno gravi, toglierebbe la sanzione amministrativa del ritiro della patente per i consumatori senza toccare però i reati legati alla guida sotto Thc e, nel caso sia una persona tossicodipendente a commettere il reato di produzione o spaccio, non punirebbe la condotta con il carcere ma con lavori socialmente utili. Il dibattito è ancora in stallo e così Walter De Benedetto, il paziente che convive da 36 anni con l’artrite reumatoide e che lo scorso anno è stato costretto ad affrontare un processo ad Arezzo per aver coltivato nel suo giardino la cannabis di cui aveva bisogno per curarsi (processo in cui è stato assolto), ha scritto, tramite l’associazione Meglio Legale, una lettera-appello che pubblichiamo alla ministra con delega alle Politiche sulla droga Fabiana Dadone, al presidente della Camera Roberto Fico e al presidente M5s della Commissione Giustizia Mario Pierantoni. E la ministra ha deciso di rispondere a Repubblica e poi sui suoi social. La lettera di De Benedetto - “Mi permetto - scrive De Benedetto - di farmi portavoce di chi da anni aspetta una legge che affronti un fenomeno sociale molto diffuso chiedendo un immediato approdo in Aula della proposta Perantoni e altri. Una richiesta che torno a condividere adesso che la Corte costituzionale non ci farà votare il referendum cannabis. Ci sentiamo scoraggiati perché sembra che il nostro Stato preferisca lasciare 6 milioni di consumatori nelle mani della criminalità organizzata anziché permettergli di coltivarsi in casa le proprie piantine”. La legge, scrive ancora, “non risolverà certo tutti i problemi ma potrà evitare che chi la usa o, peggio, chi ne ha bisogno per motivi terapeutici, finisca davanti a un giudice per aver coltivato col rischio del carcere”. “Regolamentare la coltivazione domestica e intervenire per contenere le pene per uso personale resta - dice per questo De Benedetto - una decisione urgente per andare incontro anche a quanto accade ogni giorno a tante persone malate costrette ad arrangiarsi nell’indifferenza generale di chi dovrebbe occuparsi del diritto alla salute”. I dati sulla distribuzione della cannabis per uso medico nel 2021 raccontano che in quattro anni il consumo è quasi quadruplicato. Nel 2017 i chili erano 351, l’anno scorso sono stati 1.271, che significa oltre 5 milioni e mezzo di dosi da 0,25 grammi. La produzione in Italia è affidata all’Istituto farmaceutico militare di Firenze, che però non riesce a sostenere la crescita della domanda. L’anno scorso ha prodotto circa 150 chili e grazie anche ai finanziamenti di ministero alla Salute e alla Difesa quest’anno riorganizzerà il sistema di coltivazione per arrivare a 300 chili. Ancora troppo pochi. L’Italia infatti è costretta ad importare i fiori della canapa, soprattutto dall’Olanda a 5 e 10 euro al grammo. Ad aprile dovrebbero arrivare i bandi del ministero per reperire privati italiani che coltiverebbero la marijuana terapeutica per poi inviarla a Firenze per le lavorazioni finali. Ma la soluzione più semplice, che va però oltre l’uso medico e si immette sulla strada della legalizzazione, è quella di consentire una coltivazione minima, per esclusivo uso personale. Da pochi mesi si è tenuta a Genova, dopo 12 anni di interruzione e per volere della ministra Dadone, la Conferenza nazionale sulle droghe. Un incontro nazonale che, secondo Walter, “ha fatto propria molte delle proposte che da anni la società civile avanza per una riforma di buon senso delle politiche sulle droghe proibite”. Per questo, “calendarizzare e approvare questo disegno di legge che introduce la possibilità di coltivare fino a 4 piantine sarebbe in linea con le raccomandazioni del Governo”, sostiene. “Il mio processo - racconta ancora - si è chiuso con un’assoluzione che ha riconosciuto l’uso medico della mia coltivazione. Già nel dicembre del 2019 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito la non punibilità della coltivazione domestica”. Da qui l’appello: “Occorre un ulteriore atto di responsabilità da parte del Parlamento per evitare che chiunque si trovi nelle mie condizioni sia costretto ad entrare in un tribunale”. “Cara Dadone, caro Fico, caro Pierantoni, vi chiedo di fare tutto quanto nelle vostre facoltà per calendarizzare il disegno di legge e di adoperarvi in quanto legislatori perché venga approvato. I tempi e i numeri ci sono, adesso occorre la volontà”. La risposta della ministra Dadone - “L’appello di De Bendetto non può rimanere inascoltato - risponde Dadone - Ho incontrato il Presidente Fico poco fa per informarmi sull’iter del ddl alla Camera dei deputati e posso già dirvi che non sarà semplice ma per Walter e quelli come lui abbiamo il dovere di insistere e di chiedere tempi rapidi. Aspettiamo da troppo tempo”. La commissione Giustizia ha concluso la discussione che prevede la depenalizzazione per la coltivazione di piantine di cannabis e già la prossima settimana inizierà a votare gli emendamenti. Ma, fa sapere Dadone, “ci sono palesi opposizioni e giochi di palazzo per fermare questa proposta”. È anche vero, aggiunge, “che in Parlamento c’è una maggioranza trasversale sul tema. Parliamo di piantine per uso privato, parliamo di dare dignità a chi soffre, parliamo di qualcosa di assolutamente ridicolo e in tanti pensano che sia arrivato il momento di smettere di affrontare seriamente questi problemi”. “In questi giorni - conclude la ministra per le Politiche giovanili - ho inviato alle Camere la relazione finale della Conferenza di Genova. Confido nella testa pensante e autonoma di tanti colleghi, confido nel loro cuore e nella loro empatia ma soprattutto confido nel loro coraggio. Siamo qui per aiutare le persone e lo dobbiamo fare senza farci intimidire”. Processare Putin: la sfida della giustizia internazionale di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 18 marzo 2022 Il presidente Biden lo ha definito “criminale di guerra”. Una espressione affatto casuale che cela la volontà di portare “zar Vladimir” sul banco degli imputati. La guerra in Ucraina ha attivato la giustizia internazionale e i leader mondiali confidano che faccia il suo corso. Se all’inizio dell’invasione russa il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, definì Putin un “killer”, due giorni fa, dopo il bombardamento della scuola di Mariupol, è andato giù più duro e lo ha considerato un “criminale di guerra”. “Putin - ha detto - sta infliggendo devastazione e orrore, bombardando appartamenti e reparti di maternità. Queste sono atrocità, un oltraggio per il mondo”. Parole inequivocabili, usate non a caso, che indicano la chiara intenzione, qualora sarà possibile, di portare il padre- padrone della Russia al cospetto di un Tribunale internazionale. A chiederlo da settimane sono i giuristi ucraini. Avvocati e magistrati del Paese invaso dalle truppe russe e martirizzato dall’aviazione di Mosca chiedono un Tribunale speciale, sull’esperienza di Norimberga, da insediare a Kharkiv, la città che ha subito terribili devastazioni. La Corte penale internazionale, organo giurisdizionale indipendente e permanente, è al lavoro dal primo giorno di guerra. Sarà chiamata a processare le persone accusate dei più gravi reati che generano allarme e preoccupazione a livello internazionale, come il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra. Il Procuratore della Cpi, Karim Khan (avvocato britannico esperto in diritti umani) ha assicurato massimo impegno, affinché “le indagini siano condotte in modo obiettivo e indipendente, nel pieno rispetto del principio di complementarità”. Inoltre, ha rivolto un appello a tutti coloro che sono coinvolti nelle ostilità in Ucraina, chiedendo un rigoroso rispetto “delle norme applicabili del diritto internazionale umanitario”. Lo scorso 16 marzo si è recato in Ucraina e Polonia. Il viaggio ha permesso al Prosecutor Khan di valutare personalmente la situazione sul campo, di incontrare le comunità colpite e di accelerare il lavoro di indagine con il coinvolgimento di tutte le controparti nazionali. “Durante la mia visita - ha commentato - ho avuto l’opportunità di incontrare le persone costrette a fuggire dell’Ucraina. I racconti che ho sentito da uomini, donne e bambini hanno accresciuto la mia preoccupazione per l’impatto di questa situazione sulla popolazione civile. Desidero inviare un messaggio chiaro a tutti coloro che partecipano alle ostilità. Se gli attacchi sono diretti intenzionalmente contro la popolazione civile, questo è un reato che il mio Ufficio può indagare e perseguire. Se gli attacchi sono diretti intenzionalmente contro strutture civili, compresi gli ospedali, questo è un reato che il mio Ufficio può indagare e perseguire”. Un altro passaggio del Procuratore della Cpi è stato molto esplicito. “Coloro che prendono parte alle ostilità - ha aggiunto -, siano forze armate regolari, milizie o gruppi di autodifesa, devono sapere che indossando l’uniforme o portando le armi non sono esonerati da responsabilità, anzi assumono ulteriori obblighi. Per coloro che non agiscono in conformità con il diritto internazionale umanitario il mio Ufficio ha il potere di agire per garantire che gli autori di crimini internazionali siano ritenuti colpevoli in conformità con lo Statuto di Roma. Stiamo già raccogliendo prove per raggiungere questo obiettivo e credo che la mia visita in Ucraina rafforzerà tale lavoro. La Cpi lavorerà sempre in modo coerente con i principi fondanti dello Statuto di Roma, con indipendenza, imparzialità e integrità”. Dall’Aia, sede della Corte penale internazionale, è stata inoltre inviata alla Federazione Russa una richiesta formale di incontrare Putin. “Rientra - ha rilevato Khan - tra le prerogative del mandato del mio Ufficio. Ritengo fondamentale che la Federazione Russa si impegni attivamente in merito alle indagini in corso e sono pronto a incontrare i suoi rappresentanti. La mia visita in Ucraina ha anche sottolineato l’importante compito che dobbiamo affrontare per garantire che tutte le prove raccolte vengano utilizzate nelle nostre indagini”. Un altro organo giurisdizionale direttamente impegnato è la Corte internazionale di Giustizia, anch’essa con sede all’Aia (Olanda) ed istituita dalla Carta delle Nazioni Unite. Il suo ruolo è quello di definire, in base al diritto internazionale, le controversie giuridiche ad essa sottoposte dagli Stati e di fornire pareri su questioni giuridiche provenienti dagli organi delle Nazioni Unite e dalle agenzie specializzate. Il 16 marzo la Cig ha ordinato, con tredici voti a favore e due contrari, di sospendere subito le operazioni militari in Ucraina. “La Russia - spiega l’avvocato Ezechia Paolo Reale, segretario generale del Siracusa International Institute for Criminal Justice and Human Rights - ha più volte giustificato il proprio intervento armato in Ucraina fondandolo sul diritto di auto- difesa delle popolazioni del Donbass nel cui territorio le forze governative ucraine, sin dal 2014, avrebbero intrapreso una sistematica azione finalizzata al genocidio della popolazione di lingua russa. L’Ucraina ha chiesto alla Corte internazionale di Giustizia di verificare che nel Donbass non è mai stato in corso alcun genocidio e che, in ogni caso, la Convenzione sul genocidio non consente che uno Stato aggredisca militarmente un altro Stato per porre fine ad azioni che esso stesso qualifica come genocidio. In attesa di affrontare il merito del giudizio, la Corte, valutando come non gli fosse stata fornita dalla Russia alcuna prova dell’asserito genocidio verificatosi nel Donbass e come il protrarsi dell’aggressione militare russa produrrebbe un pregiudizio irreparabile alle ragioni sostenute dall’Ucraina, ha emesso nei confronti della Russia l’ordine cautelare di sospendere immediatamente le operazioni militari”. Continuare a bombardare e a radere al suolo le città aggrava la posizione della Russia. “La prosecuzione delle operazioni militari - conclude Reale - la pone, quindi, da oggi in una situazione di grave inadempimento alle obbligazioni assunte con la comunità internazionale di rispettare ed eseguire le decisioni della Corte Internazionale di Giustizia. “Ora siamo costretti a fuggire, ma torneremo per ricostruire l’Ucraina” di Piergiorgio Pescali Il Manifesto, 18 marzo 2022 Con i profughi diretti in Moldavia dove la popolazione, con una grande presenza russofona, teme di essere il prossimo obiettivo di Putin. La strada che da Yuzhnoukrainsk si dirige verso Chisinau passa attraverso villaggi e città distrutte. Il pullmino che trasporta anche una decina di ucraini stipati sui sedili logori deve spesso abbandonare la carreggiata principale perché ostruita da cavalli di Frisia e mezzi militari, molti dei quali distrutti dai recenti combattimenti. Durante le deviazioni passiamo in fattorie i cui campi sembrano abbandonati. “Cosa mangeremo nei prossimi mesi?” chiede una donna che, con i suoi due bambini, ha lasciato il marito e il figlio maggiore a combattere. Non parla in terza persona, non chiede cosa mangerà chi non ha potuto o non ha voluto partire per rimanere in Ucraina. Coniuga tutte le frasi in prima persona perché lei, assieme agli altri, non vogliono rimanere rifugiati. Il loro futuro è qui, nel loro Paese e vedono questa fuga verso l’ovest come qualcosa di temporaneo. Il presente è solo un tempo sospeso tra il passato e il futuro che si dipana fluttuando in un limbo di angoscia. LE BOMBE hanno diviso le famiglie, una fissione a catena impazzita, senza più alcun controllo che sta distruggendo la società di questa nazione. “I russi ci costringono a fuggire, ma noi ritorneremo e ricostruiremo l’Ucraina. Non vogliamo rimanere un giorno in più del necessario fuori dal nostro Paese” dice un vecchio che assieme alla moglie sta portando il nipote di cinque anni in Moldavia. I genitori sono rimasti a Mykolaiv, il padre a combattere nella milizia, la madre a continuare a lavorare nelle strutture pubbliche che ancora resistono all’assedio delle truppe di Mosca. Dai finestrini osserviamo colonne di mezzi blindati procedere verso sud a difesa di Odessa. Ai posti di blocco chiedono quanti soldati russi abbiamo visto, quali sono gli armamenti, come sono dislocati. Ogni informazione verrà poi messa a confronto con le altre ricevute in modo da cercare di disegnare una mappa il più possibile realistica e aggiornata della situazione sul campo. La distruzione non ha risparmiato neppure i villaggi più piccoli, quelli abitati da contadini che guidano trattori arrugginiti e dagli pneumatici talmente vecchi da avere i battistrada consunti e solcati da crepe. Le case dai muri irregolari e fronteggiate da giardinetti delimitati da staccionate verniciate con improbabili colori, sono quasi interamente distrutte. Da molte di esse si sprigiona ancora del fumo e il fuoco avviluppa qua e là ciò che resta di quello che un tempo era un granaio, una stalla, alcuni mobili, un’auto. In una casa il sole illumina una stanza le cui pareti sono completamente distrutte lasciandoci vedere una donna che sta cucinando una zuppa su una cucina a legna. Arriviamo al confine con la Moldova e ci fanno attraversare senza problemi. Un veloce sguardo alle carte d’identità e ai passaporti e siamo al di là dalla frontiera. In realtà dobbiamo ancora fare diverse decine chilometri prima di arrivare nella zona controllata dal governo di Chisinau. La lunga lingua di territorio che divide l’Ucraina dalla Moldova è l’autoproclamata repubblica indipendente di Transnistria, fedelissima di Mosca, ma non la Mosca attuale, bensì quella sovietica. La bandiera a strisce rosse e verdi del governo di Tiraspol ha in evidenza ancora la falce e martello con la stella sovietica e lungo tutto il percorso i vessilli nazionali vengono spesso accompagnati da quelli della Federazione russa. “La Moldova sarà la prossima vittima di Putin” sentenzia una ragazza, studentessa di biologia all’Università Sukhomlynskyi di Mykolaiv. Sono discorsi che ho sentito spesso durante la permanenza in Ucraina. Del resto, le analogie sono evidenti. Come l’Ucraina, anche la Moldova ha una forte rappresentanza russofona sul suo territorio, che però, a differenza dei vicini, è riuscita a ritagliarsi una propria autonomia convivendo più o meno in modo pacifico con la popolazione di origine romena. Per cercare di evitare l’inasprimento delle tensioni, Chisinau ha accettato di aggiungere il russo al romeno come lingua ufficiale, ma la crisi costituzionale del 2019 che ha portato alla destituzione del presidente filorusso Igor Dodon viene vista da molti come la copia esatta degli eventi che hanno portato all’invasione ucraina, compreso l’appoggio dato da Vladimir Putin a Dodon. Lo stesso presidente russo, a suo tempo fece un diretto richiamo alla situazione ucraina affermando che, come nel vicino Paese oggi invaso dalle sue truppe, anche in Moldova il potere è stato preso da oligarchi che “hanno schiacciato tutte le strutture dello Stato”. Nessuno degli ucraini arrivati qui in Moldova si sente più in pericolo, ma nessuno vuole rimanere troppo a lungo perché, tra i rifugiati, sono in molti a credere che, se l’Unione europea non riuscirà a dare una risposta ferma e univoca contro l’invasione, la prossima tappa di Putin sarà Chisinau. Mattanza Arabia Saudita: 81 esecuzioni in un solo giorno di Sergio D’Elia Il Riformista, 18 marzo 2022 La sabbia dorata del deserto bagnata di sangue per ottantuno volte, una dopo l’altra. Orribile rito sacrificale sull’altare della guerra santa al terrorismo. Dov’è finito il rinascimento annunciato da MBS? “Giustiziare” ottantuno persone in un solo giorno non era mai avvenuto nella terra di Saud. È difficile immaginare come una tale mattanza sia potuta accadere nell’arco di una sola giornata. Si dice “giustiziare” ma non v’è nulla di più opposto all’idea di giustizia quanto questa pratica sommaria del bene con cui si pretende di compensare il male arrecato. Le autorità saudite non hanno rivelato se i “giustiziati” siano stati uccisi in modo tradizionale mediante decapitazione o tramite fucilazione. Non lo sapremo mai perché i loro corpi non verranno restituiti alle loro famiglie per paura che i funerali diventino oggetto di una rinnovata protesta, preludio di future vendette. Ottantuno esecuzioni! Che siano decapitazioni o fucilazioni, ottantuno riti patibolari della legge divina si sono svolti all’ombra del tempio di Dio. Neanche a voler vedere un piccolo esercito di boia assunti allo scopo e chiamati a un lavoro straordinario dall’alba al tramonto. Ottantuno condannati portati nel campo dell’estremo supplizio e, uno alla volta, con le mani legate dietro la schiena, costretti a chinarsi davanti al loro carnefice. Il fucile puntato di un plotone o la lunga spada della decapitazione sguainata ottantuno volte per fare giustizia nel nome di Allah. Immaginate: la sabbia gialla e assolata del deserto irrorata di sangue ottantuno volte in un giorno. Ottantuno esecuzioni sono state la più grande operazione di giustizia capitale nella storia del regno del deserto. La metà delle persone “giustiziate” proveniva dalla regione orientale del Qatif popolata dalla minoranza sciita del Paese, un’area ribelle che ha assistito a manifestazioni anti-governative sempre più accese da quando la Primavera Araba ha colpito la regione nel 2011. Un peccato d’origine aggravato, forse, da altri e più gravi peccati. È stata una esecuzione “salvifica”, ha giustificato il regime saudita, contro la minaccia alla pace e all’ordine del mondo intero. Le esecuzioni del 12 marzo avrebbero coinvolto terroristi stranieri e persone condannate per “aver ucciso uomini, donne e bambini innocenti”. Secondo gruppi per i diritti umani, alcuni dei giustiziati sono stati anche torturati, la maggior parte dei processi condotti in segreto. In alcuni casi, secondo i documenti ufficiali, non v’era alcuna traccia di sangue nei reati addebitati. Altri uccisi erano accusati di avere “credenze devianti”, una formula che comprende sia il fanatismo islamico violento dei sunniti “giustiziati” per appartenenza ad Al-Qaeda e allo Stati Islamico sia la versione sciita dell’Islam propria degli Houti anch’essi uccisi nell’infornata di esecuzioni effettuate a tutela della pace sociale e religiosa del regno saudita. Quando, alcuni giorni dopo la mattanza, i volti dei condannati sono stati rivelati, si sono visti tra loro giovani uomini, alcuni appena adolescenti al momento dell’arresto, con la barba rada e il sorriso sulle labbra. Un’immagine straziante mostra Hussain Ahmed Al-Ojami che tiene in braccio il suo giovane figlio. È stato un orribile rito sacrificale, una mattanza di piccoli agnelli sull’altare della guerra santa al terrorismo consumata nei giorni in cui il mondo ha visto l’indicibile, l’impensabile avvenire in Europa, nel cuore dei suoi valori universali, dei diritti umani inviolabili alla vita, alla libertà e alla sicurezza degli individui. È stata la terza uccisione di massa del genere nei sette anni di regno di re Salman e di suo figlio Mohammed, il principe ereditario. Il bilancio delle vittime ha persino superato l’esecuzione del gennaio 1980 di 63 militanti condannati per aver sequestrato la Grande Moschea della Mecca. Nel 2018, dalle pagine del “Time Magazine”, Mohammed bin Salman aveva annunciato al mondo l’alba di un rinascimento saudita, meno avvolto dal velo ultraconservatore della legge islamica. Il suo piano era quello di limitare la pena di morte all’omicidio. Invece, nel braccio della morte saudita ci sono ancora prigionieri di coscienza, altri arrestati da bambini o accusati di crimini non violenti. Dopo la brutale furia giustizialista degli ultimi giorni, anche su di loro incombe ora un pericolo mortale, se nulla accade, soprattutto da parte di chi ha a cuore la vita di persone “colpevoli” che hanno attentato alla vita di persone “innocenti”. Nella galleria di foto dei giovani condannati a morte si vedono ragazzi indossare magliette della squadra del cuore, anche di squadre che militano nella Premier League. Boris Johnson ha appena concluso la sua visita in Arabia Saudita. Era andato per convincerla ad aumentare la produzione di petrolio per compensare la carenza di carburante russo perso a seguito delle sanzioni successive all’invasione dell’Ucraina. Dopo la carneficina compiuta in nome della pace e della giustizia, ci saremmo aspettati da parte saudita piccoli atti di segno diverso, almeno la moratoria di un giorno sulla pena di morte. Invece, proprio al suo arrivo, Johnson è stato accolto da un luccichio di spade sguainate che hanno fatto rotolare altre tre teste.