Carcere disumano, dalla Cartabia solo parole e frasi ad effetto ma l’inferno resta di Riccardo Polidoro Il Riformista, 17 marzo 2022 Il Ministro della Giustizia Marta Cartabia, in visita alla Casa Circondariale di Torino, dopo le segnalazioni del Garante nazionale e dei Garanti locali, ha dichiarato di aver visto “un reparto inguardabile per la sua disumanità, sia per le condizioni di lavoro della polizia penitenziaria, sia per i detenuti”. Parole che descrivono una realtà insostenibile per un Paese civile, perché si riferiscono ad un bene che non è nella disponibilità di altri, nemmeno dello Stato: la dignità. Termine questo più volte ricorrente, solo poco tempo fa, nel discorso d’insediamento del Capo dello Stato al suo secondo mandato. Ma nonostante ciò, alcuna conseguenza vi è stata a quelle altrettanto gravi affermazioni. Forse perché è notorio che quanto visto a Torino rispecchia la situazione della gran parte degli istituti penitenziari, da sempre abbandonati da una politica miope, che non comprende le irrinunciabili ragioni di avere un sistema penitenziario del tutto diverso e allineato con i principi costituzionali e le norme in vigore. Come l’aumento del prezzo del carburante penalizza l’intera economia, un carcere violento e repressivo mina costantemente la sicurezza dei cittadini. È questo un principio più volte ribadito dal Ministro della Giustizia, ma siamo a metà marzo e nulla è stato concretamente fatto per modificare una situazione che avrebbe dovuto vedere nel mese di gennaio scorso, così come annunciato, un intervento concreto da parte del Governo. I lavori dell’ennesima Commissione per la Riforma, terminati a dicembre, non hanno prodotto alcun risultato, mentre è stato del tutto ignorato, ormai da oltre tre anni, il lavoro della Commissione ministeriale presieduta dal professor Glauco Giostra, che faceva tesoro di quanto emerso dagli Stati generali dell’esecuzione penale, istituiti dopo l’ennesima condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Insomma l’importante è non fermare la barca - ed è giusto - ma come sarebbe bello navigare con la coscienza tranquilla. “Abolire la morte per pena”, la nuova frontiera di Nessuno Tocchi Caino di Sabrina Renna* Il Dubbio, 17 marzo 2022 Il digiuno di Rita Bernardini è servito. Oggi, più che mai. È servito per non essere complici di uno stato (civile) che esercita la forza bruta della terribilità e serve al mondo impegnato in una guerra che vede la Russia imprigionare, anche, per motivi di mera opposizione politica. Due forme di violenza di diverso tipo e tenore, ma che mettono in eguale evidenza l’inutilità del carcere, della privazione della libertà fine a sé stessa. L’alternativa all’esercizio del monopolio della forza bruta diventa la lotta nonviolenta che dà “corpo” al diritto, ai diritti civili e sociali, alla democrazia. In questo l’Associazione “Nessuno Tocchi Caino”, di cui la Bernardini è presidente, è passata, in breve, a una campagna di argomentazioni e motivazioni che portano l’abolizione della pena di morte a nuova frontiera: “abolire la morte per pena”. Morte è, allora, il carcere come sistema di annientamento delle coscienze, ma lo è pure un sistema giudiziario deficitario sotto il profilo organizzativo e sostanziale. Che senso ha la prevenzione quando diventa peggiore della punizione? “Quando prevenire è peggio che punire” (autori: Cavallotti, Cava Valla, Niceta, Romeo) non è solo il titolo di un libro da poco pubblicato dal riformista in collaborazione con l’associazione, ma un manifesto di valori che “Nessuno Tocchi Caino” ha voluto scrivere a tante mani per cristallizzare le esperienze, le testimonianze di chi ha vissuto sulla propria carne la esecuzione di una misura di prevenzione (senza contraddittorio e motivazione) che ha messo, spesso, a dura prova la vita aziendale, societaria, personale dei singoli destinatari e delle famiglie. Catania, Palermo, Messina, Siracusa, Enna, Misterbianco, Acicatena, Trecastagni, Camporotondo Etneo, sono stati i primi luoghi di prolifero dibattito su questi temi da parte di addetti ai lavori: professori, avvocati, medici, imprenditori, cittadini che partendo da questi profili particolari sono riusciti pian piano a recuperare un filo comune con i grandi problemi della giustizia italiana. E sono attuali, in una logica di costante comparazione, le parole di Sergio D’Elia che approfondisce in ogni luogo, con imparzialità e puntualità, le storture del sistema giustizia, fino a sottolineare l’insensata prassi giuridica delle 81 esecuzioni in Arabia, e pure le parole di Elisabetta Zamparutti che da membro in carica del comitato europeo per la prevenzione della tortura non può che sottolineare le barbarie dell’atroce guerra in atto che usa le carceri come strumento di eliminazione fisica. La forza di parlare, di confrontarsi, di denunciare sono gli elementi costitutivi che animano il viaggio della speranza; e finché c’è la speranza, quella spes contra spem di politica Pannelliana impronta, finché ci saranno Associazioni come “Nessuno Tocchi Caino”, donne e uomini come Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti, Sergio D’Elia, finché ci saranno i laboratori in carcere, le sentenze delle Corti Superiori, le attività parlamentari (grazie on. Roberto Giachetti), la speranza non diventa una inconsistente utopia, ma la conquista di tutti giorni. *Componente del Consiglio direttivo di “Nessuno Tocchi Caino” “Il governo presenti i dati sulle ingiuste detenzioni”. La richiesta di Costa di Valentina Stella Il Dubbio, 17 marzo 2022 Errori giudiziari e ingiusta detenzione, la Relazione annuale sarebbe dovuta arrivare in Parlamento entro il 31 gennaio. Ma ancora non ce n’è traccia. Perché è sempre così difficile conoscere i dati che riguardano l’amministrazione della giustizia? Un esempio: l’articolo 15 della legge n. 47 del 2015 prevede che entro il 31 gennaio di ogni anno il Governo presenti una relazione al Parlamento, contenente informazioni e dati concernenti le misure cautelari, distinte per tipologia e con i relativi esiti, adottate nell’anno precedente. Su questa disposizione è poi intervenuta la legge n. 103 del 2017 che ha specificato come con questa relazione il Governo debba anche comunicare i dati relativi alle sentenze di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, pronunciate nell’anno precedente (con specificazione delle ragioni di accoglimento delle domande e dell’entità delle riparazioni), nonché i dati relativi al numero di procedimenti disciplinari avviati nei confronti dei magistrati per le accertate ingiuste detenzioni, con indicazione dell’esito, ove conclusi. Tuttavia quest’anno ancora non è stata resa nota la Relazione, e siamo a metà marzo. L’anno scorso è stata presentata a metà maggio, l’anno precedente a metà aprile. Insomma, cambiano i governi ma la prassi è sempre la stessa. “Purtroppo - ha scritto l’onorevole di Azione Enrico Costa in una interrogazione parlamentare - nonostante l’importanza dei dati contenuti in tale relazione, è invalsa la prassi da parte del Governo di presentarla con notevole ritardo, in spregio al dettato legislativo e al ruolo del Parlamento”. Eppure, grazie a questo report - ricorda il deputato, che con un suo emendamento ha dato il via alla Relazione - noi sappiamo che “nel 2020 l’Italia ha speso 46 milioni per ingiuste detenzioni ed errori giudiziari; dal 1991 al 31 dicembre 2020 i casi di errori giudiziari e ingiusta detenzione sono stati poco meno di 30.000, in media, quasi 1000 l’anno, per una spesa complessiva dello Stato di circa 870 milioni di euro, pari a circa 29 milioni di euro l’anno”. Da via Arenula fanno sapere che la nuova relazione sarà pronta a breve. Il ritardo non dipenderebbe solo da loro ma anche dalle altre istituzioni che devono inviare i dati, compreso il Ministero dell’Economia. Le rassicurazioni comunque non fermano il solito Costa che ha presentato l’interrogazione parlamentare proprio al Mef per sapere “il numero di provvedimenti di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione emessi nel 2021 suddivisi per corti d’appello e l’esborso complessivo per le riparazioni sostenuto nello stesso anno”. Come sottolinea su Filodiritto anche l’avvocato Riccardo Radi, consulente giuridico dell’associazione Errorigiudiziari.com, “si tratta di un adempimento che, al di là del profilo formale, è molto significativo, in quanto consente al legislatore di comprendere la vastità di un fenomeno, quello dell’uso e abuso della custodia cautelare, alla luce dell’esito dei procedimenti penali in cui le persone vengono private della libertà personale”. Sulle possibili cause del ritardo della pubblicazione della Relazione ipotizza che la responsabilità debba ricadere sugli uffici giudiziari competenti. “Infatti - ci dice - si registra una notevole ritrosia degli uffici a comunicare i dati; basti pensare che l’anno passato la percentuale di risposta dei Tribunali (sezioni GIP e sezioni dibattimentali) interessati al monitoraggio dei dati dell’anno 2020 è stata del 76%”. Quindi, nonostante il ritardo, siamo comunque dinanzi a dati parziali: “Spiace dover constatare che il Ministero invece di stigmatizzare e prendere provvedimenti in merito ha enfatizzato la circostanza del 76% scrivendo nella sua relazione di accompagno al Parlamento dell’anno scorso: “comunque percentuale da considerarsi ben significativa”. Il 76% appare “significativo” di un sostanziale disinteresse ad avviare una fase di effettiva trasparenza sull’uso e l’abuso delle misure cautelari”. Ergastolo ostativo. Ardita contro la Consulta di Tiziana Maiolo Il Riformista, 17 marzo 2022 Il pm si è presentato alla Commissione antimafia per esprimere il suo parere negativo contro le decisioni del Parlamento che entro maggio dovrà legiferare sulla incostituzionalità come richiesto dalla Corte e dalla Cedu. “Antimafia” versus “sorveglianza”, pm contro giudici. Il tiro in porta pare esserselo assegnato il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, che si è presentato alla Commissione Antimafia per ribadire il suo “no” alla Corte Costituzionale e alla Cedu sull’ergastolo ostativo, ma ha colto l’occasione per tirare, appunto, verso la porta presidiata da una folta schiera di giudici di sorveglianza e di magistrati garantisti. Se la palla ha centrato l’obiettivo ancora non si sa. E dipende dai punti di vista, dal momento che neppure quei modesti piccoli cambiamenti, attuati finora dal Parlamento sull’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, vengono accettati dal partito dei pm “antimafia”. E che la stessa ministra Cartabia viene messa sulla graticola ogni giorno per i suoi tentativi di riforma così come per scelte come quella di mandare a presiedere il Dap il magistrato di cassazione Carlo Renoldi. Che ha due difetti gravissimi, quello di essere un giudice e non un pm, e quello di essere un vero conoscitore delle carceri per come sono e non come se il mondo penitenziario fosse una grande cosca, così come lo vedono gli occhi del partito “antimafia”. È un po’ come se la separazione delle carriere ci fosse già, tra pubblici ministeri “antimafia” e giudici di sorveglianza. Perché la verità è che i primi detestano e un po’ disprezzano gli altri, che considerano, sotto sotto, degli ingenuotti che in buona fede finiscono per essere pedine degli uomini della mafia. Come se nelle carceri ci fossero solo i boss del corleonese, come se non sapessero che su circa 55.000 prigionieri, quelli condannati per reati di criminalità organizzata non sono più di poche centinaia. Ma è un fatto di mentalità, di cultura. E anche di ignoranza, in senso letterale. Quella che a volte accomuna le toghe e la politica. Accade così che il Parlamento, chiamato a legiferare entro il prossimo mese di maggio sull’incostituzionalità già accertata dalla Corte Costituzionale, con l’ordinanza numero 97 del 2021, delle norme sull’ergastolo ostativo nella parte in cui subordinano la richiesta di liberazione anticipata alla collaborazione del detenuto, cioè al “pentitismo”, stia adoperandosi per tradire quel pronunciamento e lo stesso articolo 27 della Costituzione. “Boicot, boicot”, sembra la parola d’ordine. Complicare, mettere paletti e spargere sadismo, come il fatto di aumentare da ventisei a trenta gli anni di pena da scontare prima di poter avanzare la “domandina”. E poi soprattutto mettere sulla schiena di ogni detenuto uno zaino carico di obblighi da adempiere per poter accedere alla speranza. Come se alla base della riforma ci fosse una sostanziale carica di sfiducia rispetto ai cambiamenti che in ogni persona determinano il passare del tempo ma anche il percorso di riflessione e di lavoro su se stesso. E anche rispetto a tutto il personale, composto di assistenti sociali, psicologi, medici, volontari e spesso agenti di custodia e direttori delle carceri. E infine e soprattutto i giudici di sorveglianza, che decidono sulla base della relazione degli esperti ma anche sulla conoscenza personale del detenuto. Sul quale, se la legge sarà approvata sulla base della bozza finora conosciuta, peserà l’onere di dimostrare il reale allontanamento da ambienti di criminalità organizzata, presente e futuro. E poi ancora fare due passi alquanto difficili, cioè risarcire il danno e avviare un progetto di ricucitura dello strappo inferto alle vittime con percorsi di giustizia riparativa. Una vera strada irta di ostacoli, alla fine. Anche perché per risarcire occorre avere disponibilità economiche, mentre la riparazione non dipende dal reo ma deve essere un’iniziativa delle vittime. Sebastiano Ardita è sospettoso, pur apprezzando il tentativo del Parlamento di vanificare la decisione dell’Alta Corte. Pur avendo capito che una legge fatta in questo modo è praticamente inapplicabile, non si fida. Così, attraverso un ragionamento cervellotico, ha già dedotto che quelli della squadra avversa, cioè i giudici di sorveglianza, finiranno con l’accontentarsi di qualche gesto di buona volontà da parte del detenuto e concederanno a mani basse i benefici penitenziari. In particolare, dice l’ex pm “antimafia”, succederà che ogni boss (perché, come dice sempre l’ex procuratore Giancarlo Caselli, mafiosi si resta per tutta la vita), impossibilitato a dimostrare di aver rescisso i rapporti con i suoi sodali mafiosi, si darà da fare a risarcire e ricucire. Come se le carceri fossero piene di miliardari e le vittime fossero tutte pronte ad avviare percorsi di giustizia riparativa. Quindi? Andrà a finire che “essendo la prova positiva sui legami criminali pressoché impossibile, a fronte di tutti gli altri indici… qualcuno troverà che la positività sarà comprovata da tutte le altre richieste della norma”. Chi sarebbe questo “qualcuno” sempre pronto a concedere benefici, è concetto che non ha bisogno di spiegazioni o di approfondimenti. È il giudice di sorveglianza, che viene descritto sempre come fosse un complice in agguato nell’attesa di aprire le celle, di spalancare porte e portoni delle carceri. Non una parola viene spesa nei confronti di tutti coloro, e sono tanti, che non possono testimoniare su fatti che non conoscono perché ne sono estranei o la cui collaborazione non potrebbe aggiungere nulla rispetto a quello che il magistrato conosce già. Quelli che non possono fare i “pentiti”. Certo, se si pensa che nessuno possa mai cambiare, e che non esistono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca, ecco che la proposta del dottor Ardita di vincolare i benefici penitenziari alla sola dimostrazione dell’allontanamento definitivo dalle cosche ha senso. Visto che lui stesso ha detto che è un fatto indimostrabile. Pena di morte sociale, dunque, pollice verso come quello dei romani nell’arena. E pollice verso anche nei confronti dei giudici di sorveglianza sparsi su tutto il territorio, nei cui confronti la sfiducia è totale, poveri sempliciotti. Meglio lasciare ogni decisione a un ufficio centralizzato, cioè composto da magistrati che non conoscono il detenuto, che decidono solo sulle carte e sull’opinione del procuratore nazionale antimafia e del pm che trent’anni prima aveva condotto le indagini magari su un giovinetto oggi incanutito e diverso da colui che era stato. Anche su questo punto il ragionamento del consigliere Ardita è cervellotico, anche se “furbo”. Se coloro che trent’anni prima avevano fatto parte della stessa cosca sono detenuti in carceri diverse, presentatisi davanti a disparati giudici nei 26 distretti, ottengono risultati divergenti, che cosa succederà? “La conseguenza sarà che il più garantista dei 26 farà prevalere la sua posizione e l’ergastolo ostativo cadrà”. Ma, dottor Ardita, come si fa a ragionare in questo modo? Stiamo parlando dei reati o delle persone? Se il reato accomuna, non pensa che ogni individuo sia diverso dall’altro e che nell’arco di trent’anni ciascuno viva la propria vita - nello stesso carcere o in un istituto diverso non necessariamente uguale a quella degli altri? E infine: perché la decisione di un tribunale dovrebbe attrarre come un morbo contagioso, quella di tutti gli altri? Speriamo davvero che quel suo tiro in porta non vada mai a segno. Ogni tre giorni un suicidio in carcere di Valter Vecellio lindro.it, 17 marzo 2022 Ogni suicidio, ovviamente, è una storia a sé: storie che parlano di solitudine, disagio psichico, trattamento sommario con psicofarmaci, disperazione per il processo o per la condanna, abusi… E poi il sovraffollamento nelle carceri: più cresce il numero dei detenuti, più alto il rischio che il recluso si abbandoni a scelte definitive e disperate. Carcere di Castrovillari, provincia di Cosenza. Un detenuto attende che il suo compagno di cella esca; una volta solo, si toglie la vita impiccandosi. Quando gli agenti della Polizia penitenziaria intervengono, la tragedia ormai si è consumata. Carcere di Regina Coeli, Roma. Un detenuto originario della Georgia si toglie la vita. Era ristretto nel Centro Clinico in isolamento perché percosso da altri detenuti. Era in carcere per furto. Carcere di Sondrio: un detenuto trentenne, D.S., arrestato pochi giorni fa con l’accusa di aver fatto un paio di rapine, si toglie la vita all’interno della sua cella impiccandosi con un lenzuolo annodato alle sbarre. Carcere di Terni: un detenuto di 54 anni, originario di Enna, si toglie la vita impiccandosi nella propria cella. Recentemente si era visto respingere la richiesta di scarcerazione; era stato arrestato nell’aprile del 2021 nell’ambito dell’operazione antimafia “Caput silente” condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta. Da quasi un anno era in carcerazione preventiva. La media dei suicidi in carcere è di uno ogni tre/quattro giorni. Quelli ufficiali sono 12 dall’inizio dell’anno; ma potrebbero essere 14: due detenuti sono morti per aver usato la bomboletta del fornello per cucinare, e non è accertato ufficialmente che si tratti di suicidio. Ogni suicidio, ovviamente, è una storia a sé: storie che parlano di solitudine, disagio psichico, trattamento sommario con psicofarmaci, disperazione per il processo o per la condanna, abusi. E poi il sovraffollamento nelle carceri: più cresce il numero dei detenuti, più alto il rischio che il recluso si abbandoni a scelte definitive e disperate. Suicidi a parte, c’è il problema della denegata giustizia. Circa mille persone ogni anno vengono incarcerate per poi risultare innocenti. Dati diffusi dal Partito Radicale: dal 1992 al 31 dicembre 2020 si sono registrati 29.452 casi. L’Italia è il quinto Paese dell’Unione Europea con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare: il 31per cento, un detenuto ogni tre. A parte i devastanti effetti di carattere psicologici, irrisarcibili, c’è anche un grave danno economico. Si è calcolato che i 750 casi di ingiusta detenzione nel 2020 sono costati quasi 37 milioni di euro di indennizzi: dal 1992 a oggi lo Stato ha speso quasi 795 milioni di euro. Non bastasse, ecco i paradossi, che lasciano l’amaro in bocca perché tocchi con mano che vivi nella giustizia di Pinocchio. La legge italiana prevede che ci si possa avvalere della facoltà di non rispondere: un diritto riconosciuto a ciascun imputato. Se lo si esercita, questo diritto si rischia poi di pagarlo salato: a processo finito, e ad errore giudiziario accertato (e con soprammercato l’ingiusta detenzione subita), se si prova a chiedere un risarcimento allo Stato c’è la concreta possibilità che la richiesta sia respinta. Lo Stato, infatti, replica che l’essersi appellato al diritto di non rispondere ha contribuito a far cadere nell’errore gli inquirenti. È un assurdo: non è l’imputato che deve provare la sua innocenza, ma chi lo accusa che deve provare che le contestazioni hanno un fondamento. Eppure chi non riesce a provare la colpevolezza, rigira la frittata sostenendo di non averlo potuto fare perché l’imputato non ha “collaborato”. L’associazione Errorigiudiziari.com, che da vent’anni raccoglie storie e vicende di ingiusta detenzione ed errori giudiziari, ha realizzato un’analisi delle decisioni più frequentemente adottate dalle Corti d’appello e dalla Cassazione. Se ne ricava, appunto, che essersi avvalsi della facoltà di non rispondere al momento dell’interrogatorio, avere frequentazioni poco raccomandabili, o non possedere una memoria di ferro per ricordare, con minuziosa precisione, date e orari che interessano alla tesi accusatoria può, una volta assolti, inficiare il diritto al risarcimento. Si paga, insomma il fatto di “non essere pienamente collaborativi”; per questo il risarcimento può essere negato o decurtato. Si chiama, in gergo, “colpa lieve”. Altra “colpa lieve” essere stato in carcere in passato, o avere precedenti penali; ma anche una personalità valutata “negativa”. I numeri rivelano una realtà sconcertante: si stima una media di un migliaio di vittime di malagiustizia ogni anno; e ogni anno si spende una media di due milioni e mezzo di euro in risarcimenti. Ma si deve considerare che il 70 per cento delle richieste di risarcimento non viene accolto; e questo dà l’idea delle dimensioni del fenomeno. Non solo: ci sono circa 20mila casi di ingiusta detenzione non dichiarati negli ultimi anni: chi subisce un arresto o un processo ingiusto poi non ha la forza economica o psicologica per ingaggiare una nuova battaglia giudiziaria per il risarcimento. Quei fondi per le Rems e il sospetto che diventino mini-Opg di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 marzo 2022 Nel decreto bollette, come ha fatto notare Stefano Cecconi dell’osservatorio stopOpg, il governo inserisce una piccola voce sulle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Dal testo del decreto, infatti, si apprende che il governo ha autorizzato la spesa di 2,6 milioni di euro per la Rems provvisoria di Genova- Prà e per consentire l’avvio della Rems sperimentale di Calice al Cornoviglio (La Spezia). Lo stanziamento è per ciascuno degli anni 2022, 2023 e 2024. Inoltre, a decorrere dall’anno 2025, il limite di spesa corrente potrà essere incrementato. Ciò che denuncia Cecconi sulle pagine de il manifesto, è il fatto che una Rems “sperimentale” non è assolutamente prevista nella legge. C’è quindi il sospetto che si stia andando nella direzione opposta allo spirito che ha superato gli ex ospedali psichiatrici (Opg): un aumento dei posti nelle Rems per rispondere alla lista di attesa di prosciolti destinatari di una misura di sicurezza. Con la chiusura definitiva degli Opg si doveva (e deve tuttora) aprire una nuova fase, assegnando alle Rems un ruolo utile ma residuale, e puntando decisamente al potenziamento dei servizi di salute mentale e del welfare locale, costruendo così concrete alternative alla logica manicomiale, per affermare il diritto alla salute mentale e alla piena e responsabile cittadinanza per tutte le persone, senza distinzione, come vuole la nostra Costituzione. La riforma che ha superato gli Opg, istituisce un nuovo sistema di presa in carico dei “folli rei” (le persone che hanno commesso un reato dichiarate “inferme di mente” e prosciolte), in cui le Rems dovrebbero rappresentare l’anello ultimo e residuale nelle offerte di cura da prestarsi di norma sul territorio. Le Rems, dunque, non rappresentano dunque la sostituzione degli Opg, poiché, nello spirito della riforma, la misura di sicurezza detentiva dovrebbe essere una extrema ratio. Ma è proprio qui sta uno dei punti critici della riforma, poiché questo principio cardine, che segna la netta discontinuità con il modello precedente, appare ben poco applicato. Sì, perché i dati dimostrano che è cresciuto il numero di applicazioni delle misure di sicurezza presso le Rems. Accade quindi che il numero delle persone in lista d’attesa aumenta e la soluzione prospettata da più fronti sarebbe quella di aumentare il numero dei posti nelle Rems. Ma è sbagliato. Le Rems si differenziano dai precedenti Opg per alcune caratteristiche: il principio di territorialità, il numero chiuso, la messa al bando della contenzione e la gestione affidata al Servizio sanitario, senza la presenza di Polizia penitenziaria. In più, la misura di sicurezza detentiva in Rems ha un limite temporale. La gestione sanitaria di queste residenze, col rispetto rigoroso del numero massimo di posti previsti per ciascuna struttura, ha garantito cure adeguate e programmi di reinserimento efficaci. La presenza delle liste di attesa non è imputabile alla carenza di posti nelle Rems, né tantomeno alla gestione sanitaria che impone il numero chiuso per rispettare la qualità delle cure prestate; ma piuttosto al principio di extrema ratio della misura di sicurezza detentiva che la legge ha sancito, ma largamente disatteso nella pratica giudiziaria. Ricordiamo che da un anno giace la proposta di legge a firma del deputato Riccardo Magi di +Europa. Frutto di un’elaborazione collettiva, sostenuta da un manifesto- appello indirizzato alla società civile, promosso da: La Società della ragione, l’Osservatorio sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, il Coordinamento delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza e dei dipartimenti di salute mentale (Dsm) e Magistratura democratica, e firmato da giuristi, avvocati, operatori nel campo psichiatrico e militanti delle associazioni per la riforma della giustizia. L’idea centrale della proposta di legge a firma di Magi, è quella del riconoscimento di una piena dignità al malato di mente, anche attraverso l’attribuzione della responsabilità per i propri atti. Il riconoscimento della responsabilità cancellerebbe una delle stigmatizzazioni che comunemente operano nei confronti del folle. Ma con il decreto bollette, dove stranamente si inserisce una norma che non c’entra nulla con il discorso energetico, pare che si vada in altre direzioni. “L’equilibrio tra i diritti del minore e il genitore detenuto” qdpnews.it, 17 marzo 2022 Un webinar organizzato dall’associazione Avvocati per le Persone e Famiglie. L’associazione APF, Avvocati per le Persone e le Famiglie, ha organizzato un webinar sul tema “Il delicato equilibrio fra i diritti del minore e del genitore detenuto” che si terrà su piattaforma telematica (Webinar via Zoom) venerdì 18 marzo dalle ore 15 alle 19. L’evento è gratuito, ci si dovrà iscrivere dal sito dell’associazione ed è rivolto agli avvocati, agli assistenti sociali, ai professionisti dell’area psicologica e alla cittadinanza; sono stati riconosciuti 3 crediti formativi per gli avvocati ed è in corso l’accreditamento al Consiglio Regionale dell’Ordine degli assistenti sociali. Il “carcere” è un tema spinoso, quasi avulso dalla realtà, come se si trattasse di un mondo a parte delegato alla competenza di pochi addetti ai lavori. Il comune sentire è che in carcere entrano i delinquenti, entrano i reati e si perde l’individuo. In carcere però entrano anche le vite di molte persone, vite complesse, di devianze maturate in contesti sociali e familiari difficili, problemi di dipendenze, di abbandono scolastico, di una rete sociale inconsistente, di percorsi che non stanno al passo con le esigenze della vita quotidiana. In carcere entrano i bambini al seguito di madri in misura cautelare o in esecuzione pena; bambini a tutti gli effetti reclusi. I detenuti posso usufruire di 6 colloqui al mese della durata di un’ora, mentre i detenuti per i reati di particolare gravità previsti dal I periodo del I comma dell’art. 4 bis L. 354/1975 (Ordinamento Penitenziario) possono usufruire fino a quattro colloqui al mese. L’Ordinamento penitenziario prevede inoltre che il detenuto possa effettuare una telefonata alla settimana della durata di 10 minuti. Il convegno cerca quindi di porre nella giusta luce le diverse esigenze ponendo al centro - come dovrebbe essere - la figura del fanciullo, del bambino, del ragazzo, del figlio. Del figlio nel suo delicato rapporto con il genitore, nell’ottica di diritti e doveri del detenuto, diritti e doveri del genitore, diritti dei figli a “intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i genitori detenuti”. Per le iscrizioni consultare il link www.avvocatipersonefamiglie.it Made in carcere: cibo buono e solidale di Stefano Liburdi Il Tempo, 17 marzo 2022 I prodotti da forno salati della casa circondariale di Trani, tra cui i famosi taralli, la pasta del carcere dell’Ucciardone di Palermo, le passate, i succhi e le marmellate dell’Istituto penitenziario di Cremona e poi ancora i dolci della “Banda biscotti” di Verbania, i frollini “Dolci Evasioni” fatti nel carcere di Siracusa insieme alla pasta di mandorle, gli amaretti e i peperoni di Sicilia secchi, i dessert del carcere minorile Malaspina di Palermo. Il tutto annaffiato dall’ottimo vino rosso “Vale la pena” del carcere di Alba o un bianco raffinato come il “Coda di Volpe” della Casa di reclusione Sant’Angelo dei Lombardi. Senza dimenticare il caffè “Le Lazzarelle” realizzato nel carcere femminile di Pozzuoli. Questi e tanti altri prodotti di “Economia Carceraria” stanno rivoluzionando il mondo dei “rinfreschi”. “Ethicatering” nasce nel 2014, con la voglia di portare sulle tavole di matrimoni, eventi aziendali o feste private i prodotti eno-gastronomici di eccellenza, realizzati nelle carceri e da realtà che operano su terreni confiscati alle mafie. Inclusivo, ecosostenibile e solidale sono le tre parole identitarie che descrivono questo tipo di catering attento anche all’ambiente grazie all’utilizzo di stoviglie monouso in Mater B, materiale compostabile ecologico. Inoltre molti dei supporti di allestimento - come tavoli, sedie e complementi di arredo - vengono realizzati con materiali di recupero. Nei “banchetti” non manca poi qualche “chicca” come i gustosissimi germogli di piante commestibili a elevato valore nutritivo, proposti da “Semi Liberi”, della cooperativa sociale agricola O.R.T.O., che svolge buona parte delle sue attività nella Casa circondariale di Viterbo. Il progetto EthiCatering è stato presentato alla stampa giovedì 10 marzo nel pub “Vale la Pena” di via Eurialo a Roma, un locale dove si possono gustare e acquistare tutti i prodotti di “Economia Carceraria” in alternativa alla vendita online. Nella serata ricca di assaggi di cibi artigianali e di cocktail fantasiosi preparati da Rodrigo, che dietro il bancone sta conoscendo la sua seconda occasione, è stato sottolineato come queste iniziative siano ancora troppo poco conosciute e quasi relegate a un ruolo di “nicchia”. Importante sapere invece che si sta parlando di generi alimentari e non, di qualità perché fatti in maniera artigianale da detenuti formati alla professione. Da rimarcare poi è il valore sociale di questa catena produttiva che offre possibilità di reinserimento nella società a detenuti prossimi al termine della loro pena. I dati statistici dicono che un recluso formato e poi introdotto nel mondo lavorativo, difficilmente ricadrà nei vecchi errori. La recidiva è abbattuta dal reinserimento che contribuisce ad avere così una società più sicura per tutti. Chi sabota la riforma della Giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 17 marzo 2022 Con 700 emendamenti la destra boicotta Cartabia e ci espone in Europa. Non c’è dubbio che la ministra della Giustizia Marta Cartabia abbia presentato il suo pacchetto di riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario con un notevole ritardo rispetto a quanto preventivato (inizialmente previsto la scorsa estate, il testo è stato approvato dal Consiglio dei ministri soltanto a febbraio). Proprio questi ritardi, però, dovrebbero indurre le forze politiche ad affrontare l’esame delle proposte in Parlamento con il senso di responsabilità che la situazione richiede: non solo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha più volte fatto appello affinché la riforma del Csm venga realizzata “al più presto” e soprattutto prima del rinnovo dell’organo (previsto a luglio), ma su entrambi gli interventi - Csm e ordinamento giudiziario - come ha sottolineato Cartabia “c’è un’attenzione altissima della Commissione europea” nell’ambito dell’attuazione delle riforme previste dal Pnrr. Detto in altri termini: su questi temi il nostro paese non può permettersi passi falsi. Si rimane a dir poco perplessi, quindi, di fronte all’atteggiamento mostrato negli ultimi giorni da alcuni partiti, che hanno inondato il pacchetto Cartabia con oltre 700 emendamenti, mettendo a rischio l’approdo in Aula del provvedimento, previsto il 28 marzo. Circa la metà delle proposte di modifica è giunta dal centrodestra. Forza Italia e Lega, in particolare, spingono per l’adozione del sorteggio temperato come metodo di elezione del Csm, una soluzione scartata dalla Guardasigilli e che potrebbe far saltare la già fragile intesa raggiunta nella maggioranza sulla riforma. La situazione non è priva di tratti surreali, se si considera che nei corridoi parlamentari si registrano persino voci forziste che - per giustificare l’assalto al pacchetto Cartabia - evocano il parere contrario espresso proprio da quel Csm che si vorrebbe riformare e oggetto di strali da parte del partito da decenni. Insomma la giustizia rischia di essere il nuovo catasto, in termini di fibrillazioni nel governo. Stavolta, però, in gioco c’è la credibilità del paese di fronte all’Europa. Il Csm smonta la riforma: “Un fucile puntato sui pm” di Simona Musco Il Dubbio, 17 marzo 2022 Lo sfogo del togato Cascini sui rapporti fra toghe e media: “Limitato il diritto di manifestazione del pensiero”. “Nessun siluro alla riforma”, ha tenuto a precisare ieri, in apertura di plenum, Carmelo Celentano, presidente della Sesta Commissione del Csm. Ma il documento che lunedì alle 15 andrà ai voti, dopo la richiesta di far slittare tutto per presentare ulteriori emendamenti al testo della ministra Marta Cartabia, difficilmente potrebbe essere definito diversamente. Tant’è che sono già una cinquantina le proposte di modifica - sulle quali oggi si aprirà il dibattito - presentate dai consiglieri, mentre la decisione del plenum è prevista proprio nel giorno in cui si aprirà in Commissione Giustizia la discussione sugli emendamenti presentati dai partiti. Senza bisogno di attendere il voto, il giudizio della componente togata di Palazzo dei Marescialli è già chiaro ed emerge con prepotenza dalle dichiarazioni di ieri in assemblea, che seppur non conclusiva ha fatto emergere una netta bocciatura della riforma che dovrebbe idealmente rappresentare l’inizio di una vera e propria ristrutturazione della magistratura, dopo gli scandali degli ultimi anni. Per Nino Di Matteo si tratta di una “pessima riforma che accentua la deriva carrieristica”, ovvero l’esatto opposto di quanto si era prefissata la ministra. E sarebbe proprio l’idea di fondo, secondo il magistrato, ad essere sbagliata, in quanto “accentua anche la burocratizzazione del ruolo del magistrato, il controllo politico del pm, l’esclusiva logica produttivistica, nonché la possibilità di conflittualità interne agli uffici e il pericolo di magistrati che ricerchino la compiacenza di avvocati, nella forma di acquisizione del consenso”. Oggetto della critica del magistrato il sistema elettorale - prevalentemente maggioritario con un “correttivo proporzionale che mira ad offrire ai gruppi minori una rappresentanza in Consiglio” - che secondo la Sesta Commissione comporterebbe una sottorappresentazione delle minoranze, “mentre i gruppi di maggiori dimensioni potrebbero essere sovrarappresentati”. E ciò confermerebbe, dunque, lo strapotere delle correnti, emerso con prepotenza dalla vicenda dell’Hotel Champagne. “Il sorteggio temperato non sarebbe risolutivo - ha dunque affermato Di Matteo -, ma di certo sarebbe il metodo più efficace per scompaginare quegli schemi, quel meccanismo che ha mortificato non solo l’autonomia e l’indipendenza ma anche la nobiltà dell’impegno di molti che hanno fatto o fanno parte dei gruppi”. A condividere le critiche sul sistema elettorale anche il togato di Autonomia e Indipendenza Giuseppe Marra, secondo cui il sistema previsto dalla riforma “non trova nessun consenso neanche da parte delle forze della maggioranza di governo”. Per il laico dei 5 Stelle, Fulvio Gigliotti, tale sistema, “invece di temperare, favorisce il correntismo”. Con il risultato, secondo il togato Sebastiano Ardita, anche lui d’accordo con l’idea del sorteggio temperato, di ampliare “il controllo del voto”. Ma sono le parole del magistrato di Area Giuseppe Cascini quelle più feroci contro la riforma, in particolare per quanto riguarda i rapporti tra magistratura e stampa, con l’introduzione di illeciti disciplinari per i pm che informano i giornalisti dei risultati dell’attività di indagine, “nel 90% dei casi - ha evidenziato - per ristabilire la verità dei fatti”. Secondo Cascini, tale illecito rappresenterebbe “un fucile puntato sui pm, in particolare sui procuratori, suscettibili di finire sotto procedimento disciplinare”, con effetti pesanti sul “diritto all’informazione” e sulla “autonomia” delle toghe. Si tratta di “una delle criticità più rilevanti della riforma”, perché “rappresenta una indebita, e del tutto irrazionale, limitazione del diritto di manifestazione del pensiero dei magistrati, con gravi conseguenze ancora una volta sul diritto di informazione e sull’indipendenza dei magistrati - ha affermato. Con questa norma si verrebbe ad attribuire ai titolari dell’azione disciplinare e al giudice disciplinare un penetrante potere di sindacato su scelte di natura discrezionale che dovrebbero essere riservate al Procuratore della Repubblica - ha sottolineato Cascini - con rischi molto gravi sia per le garanzie di indipendenza dei magistrati del pubblico ministero che per il diritto/dovere di informazione sulle vicende giudiziarie”. In generale, ha affermato Cascini a nome dell’intero gruppo di Area, “il limite principale di questa riforma, e anche del dibattito pubblico in corso su questi argomenti, è quello di non cogliere i temi centrali della crisi del governo autonomo della magistratura e i rimedi necessari a risolverla. Manca un disegno complessivo di riforma, manca un’idea di fondo sulla magistratura e sul governo autonomo e si rincorrono in maniera disordinata le pulsioni irrazionali del dibattito in materia. E nella parte in cui sembra cogliersi un disegno complessivo, questo è sicuramente sbagliato e rischia di aggravare i fenomeni degenerativi cui si dichiara di voler porre rimedio”. Per il togato di Magistratura Indipendente Antonio D’Amato si tratta “di una riforma di basso respiro, che tocca il suo culmine nel controllo politico dei magistrati e soprattutto dei pubblici ministeri, anche perché vuole sottoporre i progetti organizzativi delle procure alle osservazioni del ministro della Giustizia”. Una riforma che, se attuata nella sua completezza, porterebbero ad “una magistratura più debole e un organo di governo autonomo più fragile”, ha aggiunto Michele Ciambellini di Unicost. Secondo cui il rischio sarebbe quello di trasformare il Csm in “organo di irrilevanza costituzionale”. Proteste al Csm: “La riforma prevede di punire la toga che parla con i giornalisti” di Liana Milella La Repubblica, 17 marzo 2022 Il consigliere togato Giuseppe Cascini di Area rivela in plenum che nella riforma del Csm si prevede per i procuratori che parlano con la stampa l’illecito disciplinare se si sfiora la presunzione di innocenza. “Con questa norma nessun magistrato di Milano avrebbe potuto parlare di Mani pulite”. Prima è stato messo il bavaglio con la direttiva sulla presunzione d’innocenza. Per cui le procure non possono parlare con i giornalisti a meno che non ci sia “un interesse pubblico” per farlo. Altrimenti addio alle conferenze stampa. Adesso verrà aggiunta la punizione per il procuratore - solo lui può parlare, e non il pm che conduce l’indagine - che viola la legge sulla presunzione d’innocenza, che inserisce nella legge italiana, come sostiene la Guardasigilli Marta Cartabia, la direttiva europea del 2016. Ma il nuovo illecito disciplinare produce un effetto paradossale. Su cui, nel plenum del Csm dedicato al parere sulla riforma Cartabia, richiama l’attenzione il consigliere togato di Area Giuseppe Cascini. Che riassume così gli effetti di quello che considera un assurdo paradosso: “Pensate - dice rivolto ai colleghi - che i magistrati addetti alla procura di Milano non avrebbero potuto parlare di Mani Pulite, non avrebbero potuto esprimere nessuna valutazione, né rilasciare dichiarazioni sul processo di Mani Pulite: ditemi voi se questa cosa ha una sua razionalità o meno”. E ancora: “Qual è l’effetto? È quello di una totale copertura dal punto di vista informativo di tutto ciò che avviene all’interno delle procure. Non si parlerà più di nulla. Non si saprà mai più nulla. Nessuno potrà mai parlare perché ci sarà un fucile puntato su tutti i magistrati del pubblico ministero, in particolare sul procuratore della Repubblica. Tutti i pm saranno costantemente suscettibili di finire sotto l’azione disciplinare. Io non so quanti vantaggi, dal punto di vista del diritto all’informazione e dell’autonomia e indipendenza dei pubblici ministeri, una cosa del genere possa produrre”. Al Csm si sta discutendo un complesso e lungo parere che sarà votato la prossima settimana, sulla riforma dello stesso Consiglio che si appresta - tra le polemiche - ad affrontare la discussione in commissione Giustizia della Camera, per approdare in aula il 28 marzo. Ma il centrodestra si prepara a chiedere il sorteggio temperato come legge elettorale, mentre M5S non vuole far sconti sulle “porte girevoli” e il rientro in magistratura delle toghe dalla politica. Il Pd richiama tutti all’ordine e dice “così salta tutto”. Al Csm si discute di tutto questo, dalla legge elettorale proposta da Cartabia considerata comunque troppo debole sul correntismo, tant’è che l’ex pm di Palermo Nino Di Matteo chiede, come Lega e Forza Italia, il sorteggio temperato. Ma ecco l’ultima sorpresa, l’illecito disciplinare per chi parla con i giornalisti. Una sorpresa davvero difficile da scoprire nel testo delle modifiche all’originario disegno di legge dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, una modifica tutta nascosta in tre incomprensibili righe. Siamo all’articolo 9 degli emendamenti che la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha portato prima al consiglio dei ministri dell’11 febbraio, ottenendo un via libera tra le polemiche e la promessa del premier Mario Draghi che non verrà messa la fiducia. Il testo arriva alla commissione Giustizia della Camera dopo una lunga sosta per la bollinatura della Ragioneria generale dello Stato. La prossima settimana si voterà sui subemendamenti dei partiti agli emendamenti della ministra. Ed eccoci al misterioso articolo 9. Che recita così: “1-bis, alla lettera v): i) dopo le parole “la violazione” sono inserite le seguenti “di quanto dispositivo dall’“; ii) le parole “del divieto di cui all’“ sono soppresse; iii) le parole “comma 2” sono sostituite dalle seguenti “commi 1, 2, 2-bis e 3” . Il testo a fronte rivela che la lettera “v” da modificare è quella della legge sull’ordinamento giudiziario del 2006 quando l’allora Guardasigilli Clemente Mastella (governo Prodi) diede il via libera, con modifiche, alla riforma scritta dal suo predecessore, il leghista Roberto Castelli che faceva parte del governo Berlusconi. La lettera “v” cita “le pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino soggetti coinvolti. Negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui nonché la violazione”. Per capire ecco come la racconta Giuseppe Cascini durante il plenum: “Dunque noi abbiamo un procuratore della Repubblica che valuta un fatto come di rilevante interesse pubblico, e quindi autorizza un comunicato stampa o fa una conferenza stampa. E poi potrebbe trovarsi sotto procedimento disciplinare perché il titolare dell’azione disciplinare ritiene che in quel caso non ci sia la rilevanza pubblica. La sezione disciplinare dovrà stabilire se c’era o non c’era la rilevanza pubblica o l’interesse pubblico alla diffusione della notizia”. Se questa è la situazione, Cascini conclude così: “La domanda è semplice: quale procuratore della Repubblica si azzarda a fare un comunicato stampa o una conferenza stampa, rischiando che un ministro o un Csm reputi quella notizia non di rilevante interesse pubblico?”. Secondo Cascini nessuno si prenderà più questo rischio e scatterà di conseguenza il black out sull’informazione giudiziaria. Ma l’ex pm di Roma, in plenum, sceneggia anche cosa potrà succedere in una procura se questa norma passa: “Un pm non potrà più parlare di nessun procedimento trattato nel suo ufficio, anche se non l’ha trattato lui, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, non potrà mai fare un commento, non potrà mai fornire un’informazione. Ma il 90% delle informazioni che i magistrati forniscono alla stampa vengono date per ristabilire la verità dei fatti, evitare la diffusione di notizie pericolose. Invece nessun pm potrà mai più interloquire con i giornalisti, anche per dire a un giornalista che ha una notizia, ‘aspetta a pubblicarla, perché puoi rovinare un’indagine’, perché così gli sta confermando l’esistenza dell’indagine. Ogni volta che un giornalista chiama e dice: ‘Ho saputo che avete inscritto il presidente della Repubblica nel registro degli indagati, posso dare la notizia?’, tu devi dire ‘no, non ti posso parlare’, e devi attaccare il telefono, eventualmente fare un comunicato stampa nel quale smentisci la notizia, con il rischio che così la dai. Ma finché era così, c’era un divieto, ma non aveva conseguenze. Adesso invece diventa un illecito disciplinare. E quindi io, se parlo di un processo trattato dal mio ufficio, anche non trattato da me, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, sono suscettibile di una sanzione disciplinare”. Conclude Cascini: “Allora, qual è l’effetto di questa normativa? Di dare un potere enorme al titolare dell’azione disciplinare sui pubblici ministeri, oltre a impedire completamente qualunque forma di comunicazione sulla giurisdizione”. Cascini prosegue con l’esempio di Mani pulite. “Pensate che i magistrati addetti alla procura di Milano non possono più parlare di Mani Pulite, non possono esprimere nessuna valutazione, non possono rilasciare dichiarazioni sul processo di Mani Pulite. Ditemi voi se questa cosa ha una sua razionalità o meno”. A questo punto Cascini si avvia a concludere il suo intervento, con un interrogativo: “Ma qual è l’effetto? L’effetto è una totale copertura dal punto di vista informativo di tutto ciò che avviene all’interno delle Procure, cioè non si parlerà più di nulla, non si saprà mai più nulla, perché ci sarà un fucile puntato su tutti i magistrati del pubblico ministero, in particolare sul procuratore della Repubblica. Io non so quanti vantaggi, dal punto di vista del diritto all’informazione e dell’autonomia e indipendenza dei pubblici ministeri, una cosa del genere possa produrre”. A questo punto il problema è sul tavolo. A discuterne non sarà solo il Csm con il suo parere, ma anche il Parlamento. Ne parlerà anche l’Anm, e dovrà parlarne anche la Fnsi per le conseguenze che un simile illecito disciplinare potrà produrre sull’informazione giudiziaria italiana. Riforma del Csm, il niet al testo Cartabia evoca un sindacalismo d’altri tempi di Errico Novi Il Dubbio, 17 marzo 2022 L’altolà spesso incomprensibile alle norme del ddl trasfigura il Csm da istituzione a organismo di lotta anni 70. E si resiste pure sulle “rinomine” della Cassazione. Ecco l’impressione che si ricava dal parere alla riforma del Csm proposto dalla Sesta commissione e dibattuto ieri dal plenum: una difesa e un’opposizione di parte. Straniante, per un organo di rilevanza costituzionale. Anche perché se si guarda al merito, diversi passaggi in teoria qualificanti di quella critica paiono fragilissimi. Partiamo dai Consigli giudiziari, dal diritto di voto concesso, in una forma davvero molto prudente, ai soli rappresentanti del Foro nei “mini- Csm” locali quando si deve esprimere il parere sulla professionalità di un certo magistrato. Ebbene su una modifica che, di recente, figure dello spessore di Gianni Canzio, Giuseppe Pignatone e Armando Spataro hanno promosso in pieno, il Csm dice vade retro. Come se gli avvocati fossero una massa sgradita di intrusori, sempre pronta a confondere l’interesse professionale con la carica pubblica. Come se gli Ordini forensi che di fatto dovranno eterodirigere i loro delegati non fossero a loro volta delle istituzioni. Ed è forse ancora più difficile dare una spiegazione ai rilievi mossi dalla Sesta commissione del Csm su una modifica auspicata persino da capi di governo, a cominciare da Matteo Renzi: l’inveramento del motto “chi giudica non nomina, chi nomina non giudica”. In altre parole, il divieto per i consiglieri superiori assegnati alla sezione disciplinare di partecipare contemporaneamente ad altre commissioni, in particolare alla Quinta, in cui si avanzano le proposte per gli incarichi direttivi. Il parere negativo alla norma proposta sia da Bonafede che da Cartabia, ora all’esame di Montecitorio, ritiene la preclusione eccessiva. Ma onestamente, com’è pensabile che un componente del Csm prima si batta perché a capo di un’importante Procura vada un certo pm e poi debba trovarsi a fare da giudice su un illecito disciplinare contestato a quello stesso pm? Sì, potrà astenersi, potrà essere ricusato se non si astiene: ma non si realizza forse un ordine più compiuto, se si evita ogni eventuale sovrapposizione, anche indiretta? E siamo alle cosiddette pagelle, forse il vero collo di bottiglia di tutte le diffidenze togate sulla riforma. Come ormai arcinoto, il maxiemendamento con cui Cartabia integra il testo Bonafede modifica l’attuale meccanismo per cui, nelle valutazioni di professionalità, si decide solo se un certo giudice è o non è “adeguato”. Se passa la riforma, chi risulta all’altezza della promozione (e dello scatto retributivo) sarà individuato con diversi indicatori di merito: discreto, buono, ottimo. Dire, come fa la maggioranza del Csm, che si tratta di un’istigazione al carrierismo, pare francamente ingiusto. Non si tiene conto del fatto che quei giudizi sono concepiti per rendere meno melmoso un carrierismo già radicato, quello di chi aspira agli incarichi direttivi. Oggi le nomine a procuratore o a presidente di Tribunale sembrano obbedire troppo spesso alle appartenenze. Si vuol cercare di piegarli di più alle qualità effettive. E poi, se vogliamo limitarci al piano formale, va detto che ora molte delle cartucce a disposizione di un magistrato per aggiudicarsi un posto di comando si basano sul terribile meccanismo di cui ci parlò anni fa, in un’intervista, l’ex togato Piergiorgio Morosini: la ricerca di una sintonia con il capo dell’ufficio in cui si lavora. La relazione con il dirigente è quasi sempre decisiva nell’accrescere le ambizioni del “magistrato semplice”. Non solo: sono decisivi pure gli incarichi temporanei che il procuratore, per esempio, affida a un proprio pm. È chiaro come tali investiture dipendano da un’adesione del magistrato alle volontà e persino alle convinzioni personali del suo vertice, fino a condizionare assai più l’autonomia di quanto non avverrebbe con le cosiddette pagelle. Che almeno dovrebbero stemperare quel circuito autoreferenziale di rapporti in un sistema valutativo più ampio. Davvero al Csm pensano che questa spinta vada letta solo in chiave ciecamente efficientista, anziché correttiva di distorsioni già presenti e ben più gravi? Nel dire no al cambiamento, ci si ricorda pure, come ha fatto ieri il plenum, di costituirsi in giudizio nel ricorso presentato da Angelo Spirito contro la riconferma degli attuali vertici della Cassazione, Pietro Curzio e Margherita Cassano. Giusto, legittimo. Ma combinato con l’altolà al testo Cartabia, quella resistenza diventa un altro segno di un Csm troppo irrigidito per non ricordare il sindacalismo di quarant’anni fa. Caso Moro, dopo 44 anni è ancora caccia ai fantasmi di Paolo Persichetti Il Riformista, 17 marzo 2022 Sono state condannate 27 persone, ma oggi sappiamo che solo in 16 erano davvero coinvolte. 11 non c’entravano col sequestro. Non contenta, la giustizia ne cerca altre 4 o 5 a cui dare altri ergastoli. Pochi sanno che per il sequestro e l’esecuzione di Aldo Moro e dei cinque uomini della sua scorta sono state condannate 27 persone. La martellante propaganda complottista sulla permanenza di “misteri”, “zone oscure”, “verità negate”, “patti di omertà”, ha offuscato questo dato. Il sistema giudiziario ha concluso ben 5 inchieste e condotto a sentenza definitiva 4 processi. Oggi sappiamo, grazie alla critica storica, che solo 16 di queste 27 persone erano realmente coinvolte, a vario titolo, nel sequestro. Una fu assolta, perché all’epoca dei giudizi mancarono le conferme della sua partecipazione, ma venne comunque condannata all’ergastolo per altri fatti. Tutte le altre, ben 11 persone, non hanno partecipato né sapevano del sequestro. Due di loro addirittura non hanno mai messo piede a Roma. Il grosso delle condanne giunse nel primo processo Moro che riuniva le inchieste “Moro uno e bis”. In Corte d’assise, il 24 gennaio 1983, il presidente Severino Santiapichi tra i 32 ergastoli pronunciati comminò 23 condanne per il coinvolgimento diretto nel rapimento Moro. Sanzioni confermate dalla Cassazione il 14 novembre 1985. Il 12 ottobre 1988 si concluse il secondo maxiprocesso alla colonna romana, denominato “Moro ter”, con 153 condanne complessive, per un totale di 26 ergastoli, 1800 anni di reclusione e 20 assoluzioni. Il giudizio riguardava le azioni realizzate dal 1977 al 1982. Fu in questa circostanza che venne inflitta la ventiquattresima condanna per la partecipazione al sequestro, pronunciata contro Alessio Casimirri: sanzione confermata in via definitiva dalla Cassazione nel maggio del 1993. Le ultime tre condanne furono attribuite nel “Moro quater” (dicembre 1994, confermata dalla Cassazione nel 1997), dove vennero affrontate alcune vicende minori stralciate dal “Moro ter” e la partecipazione di Alvaro Loiacono all’azione di via Fani, e nel “Moro quinques”, il cui iter si concluse nel 1999 con la condanna di Germano Maccari, che aveva gestito la prigione di Moro, e Raimondo Etro che aveva partecipato alle verifiche iniziali sulle abitudini del leader democristiano. Tra i 15 condannati che ebbero un ruolo nella vicenda - accertato anche storicamente - c’erano i 4 membri dell’Esecutivo nazionale che aveva gestito politicamente l’intera operazione: Mario Moretti, Franco Bonisoli, Lauro Azzolini e Rocco Micaletto; i primi due presenti in via Fani il 16 marzo. Furono poi condannati i membri dell’intero Esecutivo della colonna romana e la brigata che si occupava di colpire i settori della cosiddetta “controrivoluzione” (apparati dello Stato, obiettivi economici e politico-istituzionali): Prospero Gallinari, Barbara Balzerani, Bruno Seghetti, Valerio Morucci, tutti presenti in via Fani. Gallinari era anche nella base di via Montalcini. Adriana Faranda, che aveva preso parte alla fase organizzativa e il già citato Raimondo Etro, che dopo un coinvolgimento iniziale venne estromesso. C’erano poi Raffaele Fiore, membro del Fronte logistico nazionale, sceso da Torino a dar man forte, Alessio Casimirri e Alvaro Loiacono, due irregolari (non clandestini) che parteciparono all’azione con un ruolo di copertura e Anna Laura Braghetti, prestanome dell’appartamento di via Montalcini. Era presente anche Rita Algranati, la ragazza col mazzo di fiori che si allontanò appena avvistato il convoglio di Moro e sfuggì alla condanna per il ruolo defilato avuto nell’azione. Tra gli 11 che non parteciparono al sequestro, ma furono comunque condannati, c’erano i membri della brigata universitaria: Antonio Savasta, Caterina Piunti, Emilia Libèra, Massimo Cianfanelli e Teodoro Spadaccini. I cinque avevano partecipato alla prima “inchiesta perlustrativa” condotta all’interno dell’università dove Moro insegnava. Appena i dirigenti della colonna si resero conto che non era pensabile agire all’interno dell’ateneo, i membri della brigata furono estromessi dal seguito della vicenda. La preparazione del sequestro subì ulteriori passaggi prima di prendere forma e divenire esecutiva. In altri processi la partecipazione all’attività informativa su potenziali obiettivi, quando non era direttamente collegata alla fase esecutiva, veniva ritenuta un’attività che comprovava responsabilità organizzative all’interno del reato associativo, nel processo Moro venne invece ritenuta una forma di complicità morale nel sequestro. Furono condannati anche Enrico Triaca, Gabriella Mariani e Antonio Marini, membri della brigata che si occupava della propaganda e che gestiva la tipografia di via Pio Foà e la base di via Palombini, dove era stata battuta a macchina e stampata la risoluzione strategica del febbraio 1978. Tutti e tre all’oscuro del progetto di sequestro. Furono condannati anche due membri della brigata logistica della capitale, Francesco Piccioni e Giulio Cacciotti, solo perché nel mese di aprile 1978 avevano preso parte a un’azione dimostrativa contro la caserma Talamo ed erano fuggiti con la Renault 4 rosso amaranto che il 9 maggio venne ritrovata in via Caetani con il cadavere di Moro nel bagagliaio. Gli ultimi due condannati furono Luca Nicolotti e Cristoforo Piancone, membri della colonna torinese mai scesi a Roma ma coinvolti - secondo le sentenze - perché avevano funzioni apicali in strutture nazionali delle Br, come il Fronte della controrivoluzione. Tra i 27 condannati, 25 furono ritenuti colpevoli anche del tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, il testimone di via Fani che dichiarò di essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da due motociclisti a bordo di una Honda. Spari che avrebbero distrutto il parabrezza del suo motorino. Marini ha cambiato versione per 12 volte nel corso delle inchieste e dei processi. Studi storici hanno recentemente accertato che ha sempre dichiarato il falso. In un verbale del 1994 - da me ritrovato negli archivi - ammetteva che il parabrezza si era rotto a causa di una caduta del motorino nei giorni precedenti il 16 marzo. La polizia scientifica ha recentemente confermato che non sono mai stati esplosi colpi verso Marini. Queste nuove acquisizioni storiche, non hanno tuttavia spinto la giustizia ad avviare le procedure per una correzione della sentenza. Al contrario in Procura sono attualmente aperti nuovi filoni d’indagine, ereditati dalle attività della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Fioroni, per identificare altre persone che avrebbero preso parte al sequestro: i due fantomatici motociclisti, un ipotetico passeggero seduto accanto a Moretti nella Fiat 128 giardinetta che bloccò il convoglio di Moro all’incrocio con via Stresa, eventuali prestanome affittuari di garage o appartamenti situati nella zona dove vennero abbandonate le tre macchine utilizzate dai brigatisti in via Fani. Si cercano ancora 4, forse 5, colpevoli cui attribuire altri ergastoli. Sardegna. In Regione ci sono 11 Istituti penitenziari e solo 3 direttori stabili askanews.it, 17 marzo 2022 Il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, fa il punto sulla visita appena terminata in tre luoghi di privazione della libertà in Sardegna: gli istituti penitenziari di Sassari Bancali e di Nuoro Badu e Carros e il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Macomer: “Attualmente, in Sardegna, a fronte di undici Istituti penitenziari sono in servizio solo tre direttori, ai quali sono stati affiancati per alcuni giorni alla settimana due direttori in missione. Si tratta di una situazione problematica, con serie conseguenze sulla vita degli Istituti, esemplificata dalla Casa circondariale di Sassari: abbastanza positiva sul piano strutturale, si rivela una sorta di ‘guscio vuoto’, con scarsissime attività. Il rischio è ridursi al semplice mantenimento delle persone. Servirebbe invece una responsabilità di direzione continua. Un aspetto senz’altro positivo riscontrato è rappresentato dalla qualità dell’istruzione universitaria, che può contare su una rete intranet dotata di archivio di risorse digitali accessibile agli studenti detenuti, già operativa negli Istituti di Nuoro e Alghero. Il Garante nazionale ha incontrato i Garanti comunali di Sassari e di Nuoro, con i quali ha ribadito l’urgenza che la Regione Sardegna proceda alla nomina di un Garante regionale. Nel Cpr di Macomer, la percentuale di ospiti effettivamente rimpatriati è particolarmente bassa, attorno al 12%. Anche se posto in una posizione isolata - come del resto la maggior parte dei Cpr italiani - il Centro risulta strutturalmente abbastanza positivo in confronto agli altri presenti sul territorio nazionale. Sul Cpr, il Garante nazionale ha avuto un positivo incontro con il Prefetto di Nuoro, Luca Rotondi, che ha confermato la disponibilità a un continuo confronto con il Garante nazionale. Il Presidente Mauro Palma ha inoltre tenuto a Cagliari e a Sassari due seminari informativi sul tema della privazione della libertà rivolti ai Comandanti delle Unità territoriali dei Carabinieri, nell’ambito del ciclo di attività formative che sta svolgendo in tutti i Comandi Legione, sulla base del Protocollo di collaborazione siglato con il Comando generale dell’Arma”. Orvieto (Pg). Carcere, si pensa al potenziamento: l’impegno del Consiglio regionale La Nazione, 17 marzo 2022 Rafforzare il penitenziario di Orvieto dove ultimamente si sono verificati preoccupanti episodi che sono sfociati in atti di violenza ai danni di agenti penitenziari. Il primo passo è quello di dotare la struttura di un dirigente a tempo pieno, che non debba cioè dividere il proprio impegno con altri penitenziari della regione come è avvenuto fino ad oggi. Va in questa direzione la decisione recentemente assunta dal Consiglio regionale che ha approvato con voto unanime una mozione presentata dalla consigliera della Lega Francesca Peppucci. L’atto impegna la Giunta regionale ad “attivarsi verso il ministero di Giustizia-dipartimento dell’amministrazione penitenziaria affinché per la casa di reclusione di Orvieto venga assegnato un dirigente penitenziario che si occupi solo delle numerose problematiche e incombenze che derivano dalla gestione del predetto istituto”. La casa di reclusione di Orvieto era stata trasformata nel 2014 in istituto a custodia attenuata, destinata a programmi intensivi di sostegno al reinserimento sociale e in questa prospettiva, nell’istituto sono ammessi solo detenuti che presentano determinati requisiti, tra i quali quello di non avere un’elevata pericolosità detentiva, di appartenere al circuito di media sicurezza, di avere una pena residua minima di un anno e massima di dodici e di non essere tossicodipendenti. Qualche anno dopo, l’amministrazione penitenziaria ha ritenuto di dover revocare, su proposta della direzione orvietana, la denominazione di custodia attenuata e di attribuire nuovamente all’istituto lo stato di casa di reclusione. L’esponente della Lega spiega che “attualmente l’organico è considerevolmente diminuito a causa di molti pensionamenti non reintegrati. Nel corso degli ultimi anni - ha aggiunto Peppucci - alla direzione della casa di reclusione non è mai stato assegnato un dirigente penitenziario in pianta stabile e sono state previste solo figure part-time che dovevano dividersi nella gestione di più istituti detentivi, l’istituto è stato retto fino al 31 dicembre scorso da Chiara Pellegrini, già direttrice di Terni e vicedirettrice a Spoleto. La direttrice è stata avvicendata da un dirigente penitenziario già assegnato al penitenziario di Terni e che quindi, come negli anni passati, garantirà nell’istituto penitenziario orvietano solo una presenza limitata”. Ragusa. Il vescovo illustra il nuovo ufficio per la pastorale carceraria di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 17 marzo 2022 Conoscerli per quello che sono e non per il reato che hanno commesso. Parte da qui il progetto lanciato dal vescovo di Ragusa, Giuseppe La Placa, destinato alle persone private della libertà, che prevede l’istituzione di un Ufficio per la pastorale carceraria perché “ogni persona è sacra e possiede una dignità inviolabile donata da Dio, a prescindere dalla condizione sociale in cui ci si trova”. L’attenzione di Ragusa nei confronti dei detenuti non è nuova. L’ultima iniziativa balzata agli onori delle cronache è stato l’orto del carcere dedicato all’enciclica Laudato sii di Papa Francesco. A portarlo avanti, gli operatori sociali dell’associazione “Ci Ridiamo Su”, assieme ai detenuti dell’istituto penitenziario, secondo tecniche di agricoltura biodinamica. La diocesi è andata oltre e intende “organizzare” e “strutturare” le iniziative di volontariato partendo da un’idea precisa: “La nostra Chiesa deve rafforzare la sua presenza al fianco dei detenuti perché chi è privato della libertà non è escluso agli occhi di Dio. Anzi, è una persona che ha bisogno più degli altri della presenza e della vicinanza della comunità cristiana” spiega monsignor La Placa, aggiungendo che “per tale motivo abbiamo pensato di istituire una struttura stabile, non più limitata alla presenza del cappellano, di qualche laico che fa parte del gruppo dei volontari o delle persone che saltuariamente si occupano dei carcerati, ma un presidio che possa fungere da stimolo nei confronti di tutte le comunità cristiane per avvertire che nel territorio esiste un luogo di sofferenza dove si scontano pene. Un luogo che non è certo un obitorio, un posto destinato ai defunti o alle persone che non hanno più speranza, ma è una “sala parto), nella quale siamo chiamati a far nascere a vita nuova chi è sepolto nella sua colpa”. Una pastorale carceraria, se vuole essere veramente incisiva, non può prescindere dal binomio carcere-territorio. Se non c’è questo binomio, fallisce il recupero e il reinserimento del detenuto nella società. “Centreremo l’obiettivo puntando sulla preghiera e la vicinanza concreta. Promuoveremo iniziative di sostegno non solo nei confronti dei ristretti ma anche delle famiglie. Madri, padri, mogli, mariti e figli che tante volte pagano un prezzo molto alto per la perdita di un proprio caro che non vedono più in casa e perché vengono stigmatizzate da tante parti della società”, continua il presule. La Chiesa di Ragusa sta predisponendo, inoltre, una struttura per poter accogliere detenuti stranieri o residenti altrove che pur avendo la possibilità di scontare la pena ai domiciliari, non sono in grado di uscire. “Ci stiamo muovendo, inoltre, per istituire centri di ascolto veri e propri nelle parrocchie” rivela il vescovo, convinto che spesso la società tende a considerare il detenuto un emarginato o comunque qualcuno che va condannato al di là dei suoi sentimenti e delle sue esigenze. Per lui, quindi, il carcere inizia molto prima della detenzione vera e propria e non finisce certo nel momento in cui si riacquista lo stato di libertà. “Per questo l’ufficio che abbiamo in mente non intende semplicemente occuparsi delle persone che sono dietro le sbarre” riprende La Placa. “Pensiamo ad un volontariato diverso, che presti servizio dentro e fuori. È importante sottolineare questo. La nostra idea è quella di sensibilizzare la comunità diocesana ad una attenzione di affetto e di preghiera nei confronti di questi nostri fratelli che soffrono una situazione nella quale devono ristabilire un rapporto con se stessi, con la società e con Dio”. Infine, spazio alla formazione: “Avvieremo corsi specifici a tutto campo, destinati alle comunità affinché non si giudichi il detenuto con il solito pregiudizio che parte dal nostro fariseismo” osserva il presule. “Dobbiamo guardare questi nostri fratelli con amore e compassione. Quella stessa compassione che il Signore ci ha insegnato. Ammorbidire il proprio cuore nei confronti di chi ha sbagliato porta a guardare le periferie esistenziali a trecentosessanta gradi, quindi a porsi sulla linea che ci ha indicato Papa Francesco. Il punto di partenza fondamentale - conclude - è quello di non porsi nell’atteggiamento di chi ha qualcosa da donare ma nell’atteggiamento di chi vuole scoprire e vuole incontrare il volto di Cristo nell’altro, di ogni altro: il volto di Cristo sofferente, ferito, emarginato. Questo incontro è qualcosa che induce alla reciprocità: io porto qualcosa all’altro e, piuttosto, io ricevo anche qualcosa dall’altro. In questo dare e ricevere, e riscoprendo nell’altro il dono di Cristo, penso ci sia la radice dell’atteggiamento del volontariato cristiano. Vogliamo cogliere l’opportunità di donare semi di speranza in un orizzonte dove si fa fatica a trovarla. Il nostro servizio sarà un balsamo sulle ferite dei nostri fratelli ristretti e dei loro familiari”. Roma. Il Csi regala 100 paia di scarpe da ginnastica a detenuti Regina Coeli Adnkronos, 17 marzo 2022 Con la consegna di cento paia di scarpe da ginnastica ai detenuti del carcere di Regina Coeli a Roma, si è conclusa questa mattina la campagna del Csi Roma “Rimettiamoli in gioco”. L’idea di aiutare i detenuti del carcere di Regina Coeli con una raccolta di scarpe da ginnastica non più utilizzate risale a due anni fa, quando, avviando un corso di calcio free style con i detenuti, ci si è subito resi conto della necessità di dotarli di scarpe adatte. È stata così lanciata la campagna denominata “Rimettiamoli in gioco”: il Csi Roma, in collaborazione con l’associazione Francescani nel mondo e con Vo.re.co (volontari di Regina Coeli), ha chiesto ai propri tesserati di donare un paio di scarpe da ginnastica ormai inutilizzate. “Abbiamo chiesto ai nostri atleti di rimettere in gioco un paio di scarpe ancora in buone condizioni ma non più utilizzate, per permettere ai detenuti di Regina Colei di rimettersi in gioco con lo sport - spiega il presidente del Csi di Roma Daniele Pasquini -. L’iniziativa è stata ostacolata dell’esplosione della pandemia, ma oggi siamo soddisfatti perché siamo riusciti a mantenere l’impegno preso”. Grazie a questo semplice gesto potranno riprendere le attività del corso di calcio free style grazie alla asd Freestyle Italia, società sportiva da anni impegnata con il Csi romano a promuovere lo sport nei contesti di marginalità sociale. Insieme ai promotori della raccolta, alla consegna delle scarpe era presente questa mattina, l’assessore alle Politiche Sociali di Roma Capitale Barbara Funari: “Questo progetto è stata una luce accesa, una speranza che è stata mantenuta accesa nonostante la pandemia. C’è solo da ringraziare tutti i volontari per il lavoro di rete che hanno fatto. Roma Capitale sarà accanto a queste progettualità”, le parole dell’assessore. La direttrice del carcere, dott.ssa Claudia Clementi, ha confermato l’importanza del progetto sia per “le attività svolte da anni dal Csi a favore della popolazione detenuta con il Calcio Freestyle sia per la donazione odierna, segno concreto di interesse”. Questa campagna ci fa riflettere su come lo sport possa rappresentare un seme di speranza per i detenuti del carcere, che da ormai due anni assommano alla pena detentiva le ulteriori restrizioni sanitarie dovute al Covid19. La donna custode della giustizia e del diritto? Il libro di Fabrizio Di Marzio di Elvira Frojo formiche.net, 17 marzo 2022 “Giudici divoratori di doni. Esiodo, alle origini del diritto”, ed. Mondadori, di Fabrizio Di Marzio, già magistrato ordinario, docente di diritto privato. Riflessioni sul senso della giustizia nella società moderna. Ritornando alle origini, a Esiodo, primo poeta e primo pensatore della giustizia. Interrogandosi sul concetto del bene e del male, su domande mai mutate e senza possibilità di risposte esaustive. Con la consapevolezza che, in un mondo sempre più complesso, la risposta è nella stessa necessità di guardare, con sensibilità, ai limiti del giudizio. In un evento organizzato, a Roma, dall’associazione Paci (Professionisti d’azienda crisi d’impresa) con il contributo della Fondazione Movimento bambino e dell’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, si è parlato dell’ultima opera “Giudici divoratori di doni. Esiodo, alle origini del diritto”, ed. Mondadori, di Fabrizio Di Marzio, già magistrato ordinario, docente di diritto privato, insieme a Margherita Cassano, prima donna presidente aggiunto della Corte di Cassazione, Maria Rita Parsi, psicoterapeuta e presidente della Fondazione movimento bambino. Ha coordinato i lavori Simona D’Alessio, giornalista Ansa. Un libro di interesse culturale e di grande attualità tra filosofia, classici e diritto, come ha evidenziato, introducendo l’incontro, la presidente di Paci Giuseppina Ivone, che nel suo titolo prende le mosse dalle accuse di Esiodo di avere corrotto i giudici al fratello Perse, con il quale era in contesa per la divisione dell’eredita? paterna. Nel dibattito, tenutosi all’Auditorium Parco della musica, il focus è la donna. Eva e Pandora personificazione del peccato e del male? Pandora creata per punire gli uomini? E qual è il ruolo femminile nella Storia, nella società e nella giustizia, leggendo Esiodo? “Un inganno ordito dal dio (Zeus) senza rimedio per gli uomini” per comminare il male in compensazione del furto di Prometeo del fuoco, la creazione della donna? Di Marzio offre una rilettura del mito di Esiodo “al femminile”. La figura della donna nella giustizia, impersonata da due dee, non da due dei. Themis, seconda moglie di Zeus (dea dell’ordine e della giustizia) e Dike (la giustizia processuale da rendere comprensibile agli uomini per amministrarla). “La donna fa ingresso nel mondo come custode della giustizia e del diritto. Senza quell’ingresso, il fuoco avrebbe bruciato la giustizia umana, fomentando uno sviluppo dell’azione incurante di qualsiasi idea di limite. La donna salvaguarda l’uomo dalla violenza; consolida la comunità nella riflessione”, scrive l’autore. E, citando l’antico poeta greco, “una casa è in primo luogo una moglie, un bue, un aratro”. La donna protagonista dell’esistere. Chi sceglie una buona moglie, “sollecita e salda la mente”. “Una buona moglie è un valido alleato per tutta la vita”, “alleata nel confronto con la natura” e nella “solidarietà familiare fatta di aiuto e conforto” nella vecchiaia. Il poeta spesso definito misogino, scrive ancora De Marzio, non condanna le donne. Come nella Genesi, la donna è coadiuvata dall’uomo e, soprattutto, nella donna “si compie simbolicamente il contraddittorio destino dell’animo umano, irrimediabilmente scisso nelle incompatibili ragioni e nei sentimenti conflittuali di cui è fatto il pensiero di ognuno”. “Pandora” è colei che dona. Come la terra, è produttrice di doni e di vita. E la sua potenza è tale da essere scambiata con la potenza del fuoco. “Con l’introduzione della donna finisce il tempo del mito e inizia il tempo della storia”, scrive l’autore, con il distacco della figura di uomini “eterni bambini che vivono inconsapevolmente accanto agli dei o giocano perennemente alla guerra cruenta”. E ancora, la creazione della donna mostra il limite dell’uso del fuoco e il confine della sua “potenza”. La donna è l’inaspettato, “scompiglia la rettilinea e semplicistica attesa del mondo, in cui prima si illudevano gli uomini”. Sulle tracce di Esiodo, l’alto magistrato Cassano, da giurista e donna, ha esplorato quali siano le ragioni sottostanti alla richiesta di giustizia, quali siano i “diritti” che la giustizia può garantire, in una società complessa che avanza con sempre maggiori “aspettative”, rispetto ai tempi necessari della legislazione. Con la consapevolezza del limite e dell’imperfezione della giustizia. Alimentata, oggi, dalla dilatazione della categoria di “diritti” che attengono, soprattutto, alla sfera etica, individuale e esistenziale da ritrovare nella quotidianità e nelle relazioni, prima che in una giustizia scritta e cristallizzata. Talvolta, per superare stereotipi trasformati in diritti, come per il diritto alla maternità richiesto in virtù di un’asserita “imperfezione” della donna. In una comunità alla ricerca di valori condivisi, la dialettica tra giustizia e società, sulla base dei confini invalicabili fissati dai principi, deve, dunque, nutrirsi di capacità di ascolto, dubbio, umiltà, dialogo con le parti e con i difensori, ha sottolineato la Cassano. Valori non per sole donne. “Una costante tensione ideale verso la conoscenza”, per uomini e donne insieme, per comprendere la complessità del reale con la consapevolezza del limite. La psicoterapeuta Parsi, intervenendo nel dibattito, ha sottolineato come, nella curiosità di Pandora, si manifesti la creatività delle donne, la strada vincente per andare oltre. L’antenata di tutte le donne è, infatti, colei che apre la strada ad altre prospettive attraverso il passaggio dalla dipendenza all’autonomia. Parsi ha, inoltre, messo in guardia da fragilità spesso causa di comportamenti irragionevoli, inganno, arroganza, prevaricazione e violenza. Evidenziando, nell’attualità di una drammatica situazione, l’importanza fondamentale di riflessioni culturali per una comunità in crisi, per recuperare il senso della complessità del vivere e le istanze del vissuto individuale cogliendo il senso del limite. Luca Zingaretti: “Il mio direttore del carcere, oltre le regole e la giustizia” di Silvia Fumarola La Repubblica, 17 marzo 2022 L’attore protagonista su Sky e in streaming su Now dal 18 marzo: “Nessun desiderio di riscatto o di dimenticare Montalbano: semplicemente è un’esperienza chiusa”. “Bruno Testori è un uomo che si sente superiore alla giustizia”, dice Luca Zingaretti, “anche se io non sono così netto nel giudizio. Mi sono sempre dato la regola di non giudicare i personaggi che interpreto. Cerco di coglierne le sfumature, l’umanità, i conflitti. Testori è una sfida per un attore. La bellezza di questa serie è che tenta di uscire fuori dai cliché: in fondo nessuno di noi è completamente buono o cattivo”. Dimenticate le nuotate, il sole, i paesaggi rassicuranti, l’idea di giustizia del Commissario Montalbano. Nella nuova serie “Il re”, diretta da Giuseppe Gagliardi, dal 18 marzo su Sky Atlantic e in streaming su Now, Zingaretti interpreta il direttore di un carcere “che a un certo punto decide di farsi Dio, con un’idea tutta sua della giustizia”. Il prison drama (produzione Sky Studios con Lorenzo Mieli per The Apartment e con Wildside, in collaborazione con Zocotoco) racconta la storia del controverso direttore di un carcere, sovrano assoluto di una struttura - il San Michele - in cui nessuna delle leggi dello Stato ha valore, perché il bene e il male dipendono unicamente dal suo giudizio. “Il male è contagioso”, spiega l’attore, “lo dice la storia del mondo dall’Antico Testamento a oggi”. Nel cast c’è Isabella Ragonese, nei panni di un’agente carceraria, Anna Bonaiuto interpreta il pubblico ministero che indaga sulla rete di illeciti e connivenze che fanno capo a Testori, Barbora Bobulova ha il ruolo dell’ex moglie del protagonista, Giorgio Colangeli è il capo delle guardie, amico del direttore. Stefano Bises, Peppe Fiore, Bernardo Pellegrini e Davide Serino, che firmano la sceneggiatura, raccontano un uomo che perde il controllo; Zingaretti lo paragona al colonnello Kurtz (Marlon Brando) in Apocalypse now. “Testori perde i punti cardinali, il senso della missione che prima era chiara”, spiega l’attore, “è un regalo per un attore interpretare un ruolo di questo tipo. Sky ha cambiato tempi e modalità del racconto televisivo. Credo che sia interessante per il pubblico televisivo, perché arriva a chiedersi: ‘Cosa avrei fatto al suo posto’?”. “È un progetto che è nato più di due anni fa”, racconta Lorenzo Mieli, “con l’idea di partire dal prison drama per raccontare come negoziare con i criminali, l’uso della violenza come mezzo per il controllo. C’è stato bisogno di tanto studio e preparazione, un lavoro fatto dagli sceneggiatori”. Le uniche che riescono a metterlo in crisi sono le donne: la ex moglie, la figlia e la pm che cerca la verità. “Hanno idee sulla giustizia molto diverse”, chiarisce Bonaiuto, che interpreta la magistrata chiamata a indagare in carcere dopo le morti e le violenze, “lei ha la bilancia in mano, per la giustizia ha rinunciato alla sua vita privata, è una donna che deve faticare dieci volte di più, poi si è messa una corazza. Mi è piaciuta perché è anche spiritosa, sarcastica, irritante, non ha nulla di consolatorio. È una combattente: quando mi hanno proposto il ruolo ho detto subito di sì”. Zingaretti racconta di aver parlato “con magistrati, detenuti e ex detenuti, agenti penitenziari è parte del lavoro di documentazione”, spiega, “trovo impossibile un paragone con Montalbano, quello è un mondo delle favole, è una maschera creata da Andrea Camilleri, è commedia dell’arte che abbiamo lavorato per rendere reale”. Il cambio totale di registro spiazzerà il pubblico? “Non c’è alcun desiderio di riscatto, di volerlo dimenticare, mi sono sentito semplicemente di voler chiudere quell’esperienza perché sono venuti a mancare alcuni compagni”, dice l’attore. “Questo progetto nasce prima, ancora prima della chiusura di Montalbano, volevo raccontare un personaggio che all’improvviso perde la bussola. Non c’è alcun legame tra la fine di Montalbano e Il re perché da tempo stavo lavorando per portare storie che mi piaceva raccontare”. Il carcere fa paura: celle, corridoi, sotterranei dove tutto può accadere. “Volevamo raccontare questo regno”, dice il regista Gagliardi, “e abbiamo usato il carcere abbandonato di Civitavecchia e il museo del carcere di Torino, soprattutto il panopticon centrale arriva dal carcere di Torino ed era un luogo ideale da cui far partire le varie vicende. Volevamo che la struttura schiacciasse i personaggi come un altro protagonista. E poi abbiamo impiantato tutto a Trieste che è lontana dall’immaginario italiano, una città che è incrocio tra culture, di frontiera”. Il dilemma di Isabella, agente tormentata divisa tra bene e male di Chiara Maffioletti Corriere della Sera, 17 marzo 2022 Ragonese co-protagonista della serie “Il re” con uno spietato Zingaretti. “Interpreto un’agente tormentata costretta a volte ad essere violenta”. Ha dovuto imparare ad usare il manganello, Isabella Ragonese. Per interpretare Sonia, agente penitenziario protagonista della nuova serie di Sky “Il re” (da domani su Sky Atlantic e in streaming su Now), l’attrice ha dovuto calarsi in un mondo che fino a questo momento aveva frequentato poco, quello della violenza. Della cattiveria, anche. “Eppure è quello che forse ho più amato - spiega lei. Era una grande occasione: troppo spesso nel raccontare i personaggi femminili si cade nella retorica, nel santino. Invece no, non siamo tutte perfette e necessariamente migliori degli uomini, esistono le sfumature”. Il suo è un personaggio che si muove in un mondo prepotentemente maschile... “Per questo lei si trova sempre a dover ribadire non solo la sua identità ma anche la sua autorevolezza, perfino con la violenza. È quello che la rende così dura, cupa. Mi interessava lavorare sulle sue dinamiche, è la prima volta che interpreto un personaggio così “notturno”, combattuto. Pieno di tormenti e turbamenti anche di fronte alle scelte che deve costantemente prendere”. Tutte in bilico tra bene e male, dove il bene e il male però sono più che mai confusi... “La serie si basa sulla riscrittura di questi due concetti. Nel microcosmo del carcere diretto da Bruno (Luca Zingaretti, ndr.) quello che fuori sembra male dentro diventa bene. Anche questo aspetto mi ha messo alla prova e di certo una figura come quella di Sonia mi mancava. È come una pentola a pressione, che si sente costantemente monitorata, giudicata e che poi dà sfogo alla rabbia. Cercare di comprendere le sue motivazioni è una delle cose che mi fa ri-innamorare del mio mestiere”. Un mestiere in cui, tornando al maschilismo, troppo spesso i ruoli femminili sono secondari. A lei è mai capitato di sentire di dover faticare di più per imporsi? “Credo sia una cosa abbastanza comune a tutte, a prescindere dall’ambito in cui si lavora. Devi dimostrare il triplo se sei donna, oppure dissimulare di fronte allo stupore di chi ti dice cose tipo: “Ah ma quindi sai anche tu questa cosa? Dunque leggi? Ti informi?”. I cambiamenti sono lentissimi ma, per fortuna, posso dire di avvertirli”. Possono passare anche dallo spettacolo questi cambiamenti? “In piccola parte si, proprio scegliendo ruoli non bidimensionali. In generale però continua ad esserci un problema di rappresentanza, in ogni sfera: siamo tantissime ma pochissimo rappresentate e questo si avverte. Sento poi molti che si lavano la coscienza con frasi tipo: “Eh, ma voi siete troppo più avanti rispetto a noi...”. Credo sia un modo per restare fermi alla retorica. Un po’ come quando mi chiedono come sia lavorare con una regista donna. Non mi hanno mai chiesto come è lavorare con un regista uomo”. “Il re” affronta poi la dimensione del carcere... “Io sono anche nata in prossimità di un carcere, per questo mi è capitato spesso di pensare a quella dimensione, a quel microcosmo in cui ci sono delle regole proprie. La continuità di luogo nella serie poi, rimanda molto al teatro, che è da dove arrivo. Così come la ritualità della vita lì dentro: ogni giorno è come fosse una replica”. Shakesperiano è anche il rapporto del suo personaggio con quello di Zingaretti, una sorta di padre che però viene messo in discussione... “Di certo hanno un rapporto molto stretto. Per lei è un padre perché incarna chi decide come vanno le cose, ma se da una parte vuole dimostrargli di essere brava e capace, dall’altra si pone dei temi, lo mette in discussione, quasi come a voler cambiare l’ordine costituito. Ed è l’unica a farlo. Detto questo, nonostante l’ambiente oppressivo, i miei ricordi sul set sono tutti davvero felici. Eravamo un gruppo grande e unito: faceva impressione ridere fino a un minuto prima e poi ritrovarsi nel dramma, dopo il ciak”. Con Zingaretti avevate già lavorato in “Montalbano”... “Uno scenario completamente diverso, in effetti. Però, anche se lui arrossisce quando glielo dico, è sempre bello passare del tempo con lui, è una persona che arricchisce”. Come è stato interpretare scene in cui picchia pesantemente? “Beh, venivo dal film “Yara” dove ero già stata messa alla prova con il pugilato. Certo, qui ho proprio imparato a menare. Lavorare con tutto il corpo è stato bellissimo, le scene erano molto coreografiche. Però, certo, vedere che con un colpo atterravo omoni grandi e grossi faceva un certo effetto. Posso dire che ho imparato a difendermi”. Contro la guerra, dobbiamo fermare l’odio di Daniele Archibugi Il Manifesto, 17 marzo 2022 Una delle cose che sorprende dell’invasione dell’Ucraina è come le truppe di occupazione russe e i civili ucraini interagiscano tra loro. Non solo a colpi di fucile e di cannone, ma anche con le parole. A Kherson abbiamo visto folle disarmate di civili - donne, bambini, anziani - che insultano soldati russi armati senza che questi potessero fare altro se non sparare in aria. Nella periferia di Kiev, tre soldati armati si sono intrufolati in una casa privata, forse alla ricerca di qualcosa da mangiare, ma due vecchietti li hanno messi in fuga strillando. Ci siamo commossi di fronte alle immagini di un giovanissimo prigioniero russo in lacrime, nutrito e consolato da donne ucraine, fino al punto che gli hanno prestato il proprio cellulare per farlo parlare con la madre in qualche remota regione della Siberia. Non sono ancora bastati migliaia e migliaia di morti per far odiare i due popoli. Ma quanto durerà? Nella ex-Jugoslavia, chi voleva smembrare il paese doveva in tutti i modi fomentare l’odio, obbligando le parti in causa a schierarsi da una parte. Per aizzare il genocidio in Rwanda, una delle etnie doveva scatenare l’abominio sull’altra. Non è certo una novità: se si vuole sobillare un conflitto, specie se di natura etnica, bisogna forzare le persone a schierarsi. Ce lo insegna l’ultimo film di Kenneth Branagh sulla sua natìa Belfast. Che ancora oggi non ci sia un odio diffuso tra russi e ucraini è il più grande fallimento di Vladimir Putin, un fallimento ancora più importante dei suoi insuccessi militari. Putin si starà chiedendo in questi giorni: può questa invasione continuare senza generare disprezzo tra le parti in causa? Come posso provocare una violenza tale da rendere la coesistenza presente e futura impossibile? Visti i limitati progressi del suo riluttante esercito, Putin ha bisogno che nel teatro di guerra arrivino gruppi armati pronti a tutto. E ha bisogno di trovarli tra i criminali comuni, i disperati, i mercenari. Ramzan Kadyrov, il feroce leader ceceno, aveva annunciato di essere a Kiev, ma non con l’esercito regolare, bensì con il suo gruppo para-militare ben noto per le torture e gli assassini compiuti. Sembra che il governo russo sia addirittura pronto ad arruolare truppe mercenarie siriane e della Repubblica centrafricana, soldati che hanno già visto e seminato il terrore. Mosca non ha certo bisogno di altri militari, ma potrebbe aver bisogno di squadroni della morte pronti a tutto. Non è diversa la situazione in Ucraina: come ha denunciato il Washington Post, certamente non una testata filo-Cremlino, ci sono gruppi di balordi neo-nazisti che non vedono l’ora di usare il conflitto per scatenare la caccia al russofono. Un eventuale smembramento dell’Ucraina richiederebbe forzosamente una pulizia etnica, come già avvenuto per il Donbass. Nella ex-Jugoslavia, stupri e torture sono stati gli strumenti per rendere impossibile la convivenza futura. E se non si ferma subito la guerra, c’è il pericolo che lo stesso avvenga in Ucraina. Putin deve oggi usare il pugno di ferro per reprimere l’opposizione interna con una brutalità che non si era mai vista in Occidente. A confronto, finanche gli Stati Uniti sono stati più clementi nei confronti di chi opponeva alla guerra del Vietnam o all’invasione dell’Iraq. Ma Putin deve impedire che qualcuno ricordi che il popolo russo non ha alcun bisogno di distruggere l’Ucraina. Specie se, come tardivamente dichiarato dal Presidente Zelensky, il Paese non entrerà nella Nato. Gli interventi della società civile diventano preziosi per radicare in chi vive in Russia e in Ucraina la convinzione che non c’è alcuna inimicizia insormontabile tra i due popoli. E che due stati autonomi possono coesistere con la stessa armonia che dal 1945 in poi regna tra Germania e Austria, due Paesi con storia, lingua e cultura comuni, ma con amministrazioni del tutto distinte. Tutelando le minoranze linguistiche in tutte le aree. Gli scienziati russi hanno coraggiosamente firmato un appello contro la guerra dove si dice che “l’Ucraina è Stato e continua ad essere un Paese a noi vicino. Molti di noi hanno parenti, amici e colleghi che condividono le nostre ricerche scientifiche. I nostri padri, nonni e bisnonni hanno combattuto assieme contro il nazismo. Scatenare una guerra per le ambizioni geopolitiche del governo rappresenta un cinico tradimento perpetrato alla loro memoria”. Per fermare l’odio, servirebbero decine e decine di appelli congiunti tra i rappresentanti della società civile dei due Paesi: scienziati e sindacati, musicisti e attori, enti locali e associazioni dovrebbero oggi far sentire la propria voce per evitare che la convivenza futura diventi impossibile. E chissà che questi appelli di carta non si dimostrino più efficaci dell’invio o della vendita delle armi. Sottoporre gli Stati ai diritti per non tornare al diritto di guerra di Massimo Donini Il Riformista, 17 marzo 2022 Inviare armi all’Ucraina in guerra contro l’aggressore russo è una forma di soccorso difensivo. Se si prendono a prestito le categorie del diritto che regolano i rapporti tra individui e le si estendono agli Stati, si sta applicando una forma di legittima difesa a favore di un terzo aggredito. È un’azione libera l’aiuto al terzo, non è vincolata, e suppone che l’aggressione sia “ingiusta”, e dunque che sia ingiusta la guerra scatenata dalla Russia. Certo si potrebbero inviare armi a un Paese belligerante o attivare altre forme di aiuto militare senza discutere sulla giustizia o meno delle condotte, ma semplicemente per un interesse nazionale o internazionale (ai privati sarebbe vietato farlo secondo la l. n. 185/1990). Il soccorso difensivo non è pensato per sacrificare ogni interesse del difensore. Per la cultura occidentale, e anzi internazionale, la logica dominante, almeno dal Seicento, nei rapporti fra Stati, fino al processo di Norimberga (1945-46) e alla dichiarazione universale dei diritti umani del 10 dicembre 1948, era un’altra. Dalla pace di Westfalia (1648), la guerra “tra Stati” era ritenuta un normale strumento di soluzione di conflitti internazionali, l’aggressione bellica non costituiva un crimine (ma resterà il più impunito dei crimini anche fino a oggi), e se i crimini di guerra ricevettero definizioni in convenzioni internazionali già dai primi del Novecento, quelli contro l’umanità, insieme al genocidio (due crimini distinti), non avevano una disciplina. Li si cominciò a definire solo al processo di Norimberga. La storia della nascita di queste ultime due fattispecie, attraverso varie biografie di deportazioni, genocidi e tragedie collettive, grazie all’impegno dei due giuristi ebrei polacchi, poi emigrati negli Usa, che le coniarono, Hersch Lauterpacht e Raphael Lemkin, è narrata, proprio partendo dalla città di Leopoli, crocevia di culture, nazioni e politiche europee, e dalle vicissitudini dell’Ucraina, nel libro del giurista inglese Philippe Sands, La strada verso est, Guanda, 2017 (orig. East West Street, 2016). Tra i genocidi descritti o anche solo ricordati e che sono alla base della definizione normativa, c’è quello degli Armeni. Discutendo di questo evento accaduto al tempo della prima guerra mondiale, si ricorda una “dottrina giuridico-politica” allora vigente: “all’epoca, il diritto internazionale consentiva ai singoli stati di fare ciò che volevano. Sorprendentemente, non c’era alcun trattato che impedisse alla Turchia di agire come aveva agito, che le proibisse di uccidere i suoi stessi cittadini. La sovranità era sovranità: totale e assoluta”. Attualmente lo strumento giuridico-punitivo (accanto a vari altri ben più efficaci) per responsabilizzare gli Stati o i governi o i militari al rispetto dei diritti umani suppone che si creino Corti penali alle quali gli Stati stessi si sottomettano in virtù di un trattato ratificato prima della commissione dei fatti nei loro territori, o da parte di loro gruppi o soggetti nazionali. Oppure si prevede la creazione di Tribunali ad hoc, costituiti da qualche “vincitore” a conflitto concluso, e che applicheranno un diritto generalmente riconosciuto in ambito internazionale, consuetudinario, e localmente vigente, anche se ignorato al tempo dei fatti da qualche singolo Stato o gruppo. Oggi anche singoli Stati esercitano simbolicamente una giurisdizione universale contro ogni possibile dittatore e criminale internazionale. La criminalizzazione del nemico è storia recente, perché la legge della guerra, dopo la fine delle guerre di religione, cioè dopo Westfalia, è stata tradizionalmente un’altra. Il nemico non era un delinquente, non era immorale: era hostis pubblico, privo di connotazioni eticizzanti o di discipline della concorrenza tra privati. La legge o la consuetudine internazionale disciplinavano solo l’appartenenza legittima a Stati sovrani riconosciuti i quali, in quanto tali, avevano il diritto di guerra. Forse nessuno l’ha illustrata così bene come Carl Schmitt nel suo libro più bello scritto dopo la coinvolgente esperienza del nazismo: Il Nomos della terra (1950). Sennonché, questo era il tempo dell’età degli imperi, che le Carte dei diritti dopo la seconda guerra mondiale volevano cancellare. La guerra come strumento di soluzione dei conflitti internazionali, ciò che la Costituzione italiana del 1948 ripudia all’art. 11, è dunque la situazione pre-costituzionale alla quale ci vorrebbe riportare la politica della Russia, che è retrocessa, o forse rimasta, a quello stadio. Uno Stato oggi privo di una ideologia corrispondente a quella sovietica ed espressione di una pura logica della forza non potrebbe avere nessun appeal neppure al proprio interno. Nuove metafisiche antioccidentali come l’idea dell’Eurasia del filosofo Alexandr Dugin (Eurasian Mission, 2014; The Fourth Political Mission, 2012) sembrano riecheggiare in Putin (progetto identitario russo), e del resto hanno corrispondenti descrizioni critiche occidentali dell’”Impero” finanziario delocalizzato dopo la fine dei vecchi blocchi (realtà antitetica avversata: cfr. Hardt e Negri, Empire, 2000). Ma gli stermini parlano una lingua diversa da quella delle idee. La pena di morte, il cui divieto o abbandono è un requisito per entrare nel Consiglio d’Europa e dal quale la Russia significativamente si è ora autosospesa, è un altro aspetto di quel mondo, il “mondo di ieri”, che invece ritorna. E con esso, il terzo aspetto che è quello della guerra come normalità politica. Era mai davvero scomparso quel mondo? Il difensore militare storico dell’Occidente, gli Stati Uniti, ha sempre mantenuto di quel passato i tratti ora ricordati: la guerra come strumento di soluzione dei conflitti internazionali e dimensione quotidiana della presenza internazionale, oltre alla pena di morte. Non vorremmo, in una escalation collettiva, ritrovarci tra qualche tempo a rimettere anche “culturalmente” in discussione (e non solo di fatto) tutti e tre gli aspetti finora relegati idealmente nel passato pre-costituzionale e ante guerra fredda. Il conflitto in corso in Ucraina ci immerge in ciò che non volevamo vedere: i civili morti quale prezzo inevitabile dei bombardamenti, come in Siria, in Iraq e in Afghanistan; e la necessità di stare da qualche parte, attivi o passivi, collaboranti o resistenti. E in questa situazione lacerante ricompare la nostra nuova cultura che penalizza ogni illecito. Dobbiamo criminalizzare la guerra o solo chi abbia commesso singoli crimini di guerra o contro l’umanità? Tanto è forte oggi l’etichettamento penalistico per i crimini di guerra che lo stesso Presidente russo ha richiamato tra le pseudo-giustificazioni dell’intervento l’esigenza di sottoporre a giudizio penale gli autori del ritenuto “genocidio” in Donbass. Ecco allora che questa cultura dei diritti, ma anche dei delitti e delle pene, continua a coinvolgere nella propaganda internazionale anche chi se ne sta distaccando e forse non l’ha mai condivisa. Certo, tocchiamo con mano che Usa, Russia e Cina non hanno mai ratificato lo Statuto di Roma e dunque non sono sottoponibili nei loro rappresentanti alla giurisdizione della Corte penale internazionale, salvo ipotesi di nuovi tribunali ad hoc. Tuttavia, chi (anche non sottoscrittore) commette crimini di guerra nel territorio ucraino resta soggetto alla giurisdizione della CPI ai sensi dell’art. 12 dello Statuto di Roma, dato che l’Ucraina ha accettato comunque la giurisdizione della CPI. Invece, non risponderà del crimine di aggressione, che suppone una ratifica di entrambe le parti (Ucraina e Russia), la quale manca, ma dei crimini commessi su quel territorio potrà comunque rispondere. I giudizi penali a posteriori hanno però un’evidente debolezza preventiva rispetto a Stati che ormai non si considerano occidentali. Molto più importante è che queste minacciose normative accompagnino e veicolino una cultura e una prassi, e non l’illusione di aver cancellato per sempre le guerre. Ci chiediamo invece se siamo mai davvero usciti dall’età degli imperi. Abbiamo conservato e anzi incrementato di contenuti ideali e normativi la purezza dei diritti, lasciando spesso che altri li violassero, in Cecenia, in Ucraina, in Georgia, nella ex Iugoslavia, come in Medio Oriente e oltre, e solo adesso che bussa alla porta una guerra più estesa, ma a noi più vicina, e di cui nessuno ancora ha compreso con certezza gli obiettivi, ci rendiamo conto di quante sono le questioni cruciali che abbiamo preferito ignorare. E magari rispolveriamo un mazzinianesimo europeo. Ma noi siamo andati ben oltre nel 1948. La nostra azione difensiva, anche contro chi sta progressivamente ripudiando trattati e impegni internazionali, resta una forma di difesa collettiva, non di aggressione bellica finché non subisce una tragica escalation, ed è coerente a un modello di civiltà, proseguendo un cammino che ha rappresentato una delle novità più rivoluzionarie della storia: la sottoposizione degli Stati non semplicemente alla legge, ma ai diritti. Una vicenda assai recente di fronte ai millenni del passato. La vera battaglia politico-culturale si sta giocando su questo terreno, e non ci possono essere cedimenti su questo fronte. Il ius si impone alla lex e alla forza. Gli Stati vanno sottomessi ai diritti. Sono diritti non solo individuali, ma della popolazione, di una moltitudine che “non ha un padrone” e non ha bisogno di identificarsi in una nazionalità, cittadinanza o etnia per vantare quei diritti. A questo punto occorre che nei confronti di tutti, alleati e non, si ribadisca il divieto di regresso verso il ius belli. Il diritto di guerra è solo rigorosamente difensivo, ed è sottoposto a una disciplina giuridica che vincola gli Stati a favore degli individui. Questo era il modello della “pace perpetua” di Kant, un obiettivo di giurisdizione universale, non il modello Westfalia che lasciava agli Stati il dominio e il potere di costruire imperi e con ciò una sovranità assoluta sulle persone. La Russia di Putin sta chiaramente regredendo all’età degli imperi e alla guerra di aggressione, dove gli individui sono una quantité négligeable. Come lo sono per il suo Presidente quegli stessi ucraini che pubblicamente dichiara di ritenere russi. Qui la battaglia è identitaria, perché si può essere più pacifisti o belligeranti, ma su questi princìpi non ci sono possibilità di trattative. Da ora in poi sarà più difficile pensare di affiancare a una pace perpetua circoscritta a un continente tante guerre dislocate altrove, lontano dagli occhi. La valutazione del passato dovrà rinunciare alle tentazioni antistoriche della criminalizzazione retrospettiva, magari fino ad Alessandro Magno, ma da Norimberga e Tokyo in avanti solo l’esistenza di Tribunali attivi ha potuto assicurare che i diritti siano ius, anziché materia prima degli scambi internazionali. Con una cautela, peraltro. Le Corti di giustizia, quando operano a conflitti ancora in corso, diventano armi da guerra, come accade anche ai tribunali ordinari. Dovremo perciò tenere separata la giurisdizione dalle armi, usando solo le armi legittime, non giurisdizionali ma di policy e di police, per sconfiggere quella pura forza che vorrebbe travolgere leggi e diritti, e riservando la criminalizzazione anticipata del nemico o dell’aggressore a un discorso politico che si estenda a tutti i conflitti internazionali analoghi. Zanotelli: “Questa guerra non sia l’alibi per armarci ancora di più” di Luca Marsilli Corriere del Trentino, 17 marzo 2022 Padre Alex Zanotelli, missionario comboniano, è da decenni una delle voci più importanti e scomode della cultura della mondialità. Con l’antimilitarismo come uno dei valori fondanti, assieme a quello altrettanto cardinale della giustizia sociale. Strettamente legati tra loro: la giustizia sociale è nella sua visione la base necessaria per la pace. Posizioni che gli sono costate, negli anni, anche contrasti all’interno della Chiesa e ne hanno fatto l’ispiratore di movimenti non violenti, contro la globalizzazione e ambientalisti. Una battaglia morale e culturale, la sua, lunga più di 50 anni. Partita nel Sudan devastato dalla guerra civile nel 1965. Padre Alex, in questi 50 anni non è mai mancata una guerra da denunciare, un orrore a dimostrarci quanto costi all’umanità basarsi su rapporti di forza e sulla violenza per conservarli o sovvertirli... “È un eterno ritorno, un continuo creare un nemico contro il quale scagliarsi o del quale avere paura. Un meccanismo vecchio come il mondo ma che evidentemente funziona ancora”. Questa guerra da molti è percepita, o almeno tratteggiata, come diversa. Cosa ha di diverso? “Niente. È solo più vicina, guardando all’Italia e all’Europa, e quindi ne vediamo i meccanismi direttamente sulla nostra pelle. Ma non ha nulla di diverso rispetto all’Iraq, alla Siria, all’Afghanistan. Alla stessa Ucraina degli ultimi otto anni, prima che l’invasione da parte di Putin ce la facesse scoprire. Allora la gran parte di noi non si è scossa, adesso sembra che scopriamo che esiste la guerra e cosa è. Una ipocrisia totale”. La guerra come fine e non come mezzo, quindi? “Non lo dico io oggi, lo aveva detto già Eisenhower nel suo ultimo discorso: serve sempre un nemico per mantenere gli eserciti e i produttori di armi. Sono gli eserciti e le armi a produrre i contrasti e la guerra, non il contrario”. L’Occidente è unanime nell’imputare alla Russia di Putin la responsabilità di questo conflitto... “Quello che ha fatto Putin è follia e non si può che essere solidali con il popolo ucraino. Ma siamo tutti responsabili di quanto sta accadendo. Alla caduta del muro c’era stato l’accordo di non far entrare nella Nato i Paesi dell’ex patto di Varsavia. E invece uno alla volta sono entrati quasi tutti. Un continuo aumentare la provocazione sapendo benissimo che prima o poi la Russia avrebbe reagito. Ora ha reagito. Quindi giustissimo condannare Putin, ma senza per questo assolvere nessuno”. A cosa ci porterà? “All’ennesima divisione in buoni e cattivi. A una nuova “cortina di ferro” che permetterà ai nostri Paesi di armarsi per i prossimi decenni. L’Italia ha già annunciato che aumenterà le spese militari, si parla di 38 miliardi. Sono soldi che saranno sottratti alle scuole, alla sanità. Lo stesso faranno gli altri singoli Paesi e l’Europa unita, che andrà verso un proprio esercito. Ovviamente senza per questo smantellare l’esercito della Nato. Ne usciremo, se va bene, con un mondo più armato e più povero”. L’obiezione è che una invasione di un Paese libero e sovrano non si può accettare in silenzio... “Potrebbe essere onesta, come obiezione, se non ci fossero decine di precedenti simili in cui non abbiamo mosso un dito. E comunque l’errore imperdonabile è pensare sempre alle armi come risposta. Su questo anche i movimenti pacifisti e la stessa Chiesa hanno le loro responsabilità. Noi che lavoriamo per la pace dovremmo mettere in campo altro, con coraggio e anche un po’ di fantasia. Cambiare la prospettiva”. Per esempio? “Lo avevo detto all’inizio di questa guerra: Kiev è una delle Città Sante e la chiesa è molto importante nella cultura russa quanto in quella ucraina. Se tutti i presidenti delle conferenze episcopali all’inizio del conflitto si fossero riuniti nella cattedrale di Santa Sofia, a Kiev, dicendo “noi non usciamo finché non cesserete il fuoco” l’impatto sulla popolazione sarebbe stato enorme. Ci vuole più coraggio, più preparazione delle azioni non violente”. Tra i leader mondiali papa Francesco è forse l’unico a dire no alla guerra senza distinguo. Un no che prescinde da torti e ragioni... “Il Papa è oggi l’unico vero leader politico che abbiamo. Un profeta. E il suo messaggio è chiarissimo quanto lucido: nella sua enciclica “Fratelli tutti” dice una cosa rivoluzionaria anche per la Chiesa, che da Sant’Agostino a oggi aveva sostenuto il contrario. Oggi, dice Francesco, non è più possibile una “guerra giusta”. Gli arsenali nucleari, chimici e batteriologici sono tali che un conflitto può portare alla scomparsa della vita su questo pianeta. E l’uomo non ha il diritto nemmeno di pensarlo come eventualità. Per questo non c’è alternativa alla pace”. Volendo trovare un tratto positivo, la tragedia ucraina ha visto nascere dal basso iniziative di solidarietà importanti, con dimensioni popolari che forse nemmeno ci si poteva aspettare... “È vero, la solidarietà che vediamo è bella. Ma parlo della solidarietà popolare, dal basso. Non di quella di Paesi come la Polonia che accolgono i profughi ucraini dopo aver costruito 150 chilometri di muro per non far passare i profughi in arrivo da altri Paesi. O la solidarietà di Salvini che dice che loro sono veri profughi. Come se morire sotto le bombe in Ucraina o in Siria o in Afghanistan possa essere diverso. Nella solidarietà verso chi soffre si esprime la nostra umanità, ma nei distinguo non si possono non vedere elementi razzisti o effetti della stessa propaganda che ha generato la guerra. Le vittime usate per definire il nemico e tratteggiarne la mostruosità”. Profughi, superati i 3 milioni quasi 50 mila sono in Italia di Leo Lancari Il Manifesto, 17 marzo 2022 Il governo valuta la possibilità di un aiuto economico mensile a chi riesce a rendersi autonomo. Più di tre milioni di persone sono ormai fuggite dall’Ucraina trovando rifugio temporaneo nei Paesi dell’Unione europea, 1,7 milioni solo in Polonia. “E’ un’ondata imponente, repentina e potrebbe raggiungere la cifra di 5 milioni di profughi”, ha detto ieri il ministro degli Esteri Luigi Di Maio in un’informativa alla Camera. Un flusso enorme di persone, la maggior parte delle quali sono donne e bambini, che oltre all’angoscia per non avere più una casa, durante la fuga devono fare i conti con l’artiglieria e i cecchini russi che non risparmiano i civili. Ma non basta. L’Oim, l’Organizzazione interazionale per le migrazioni, è tornata a lanciare l’allarme sul rischio che nel corso del viaggio la gente dell’Ucraina possa rimanere vittima della tratta, un pericolo che riguarda in modo particola donne e bambini che viaggiano da soli. “Il deterioramento della situazione umanitaria e i conseguenti movimenti su larga scala - ha detto l’organismo dell’Onu - sono correlati a un aumento delle minacce alla sicurezza personale e tutto questo fa sì che le persone in fuga siano ad alto rischio di sfruttamento”. Nei giorni scorsi, in una nota comune, l’Alto commissariato Onu per rifugiati e Save the Children aveva segnalato il rischio di tratta di esseri umani e sfruttamento sessuale per i profughi ucraini chiedendo agli Stati che li accolgono di esercitare un maggiore controllo soprattutto per quanto riguarda i bambini. E ieri l’Oim ha reso noto di avere informazioni proprio relate a casi di violenza sessuale e sfruttamento ad opera di “individui che promettono alle persone in fuga servizi di trasporto o altri tipi di servizi successivi”. Occorre, chiede l’organizzazione, poter tracciare quanti si offrono di trasferire i profughi da una località all’altra. “Gli individui e i membri di comunità che forniscono assistenza per il trasporto e l’alloggio - è la richiesta dell’Oim - dovrebbero farlo in coordinamento con le agenzie di protezione locali e dovrebbero facilitare la registrazione e, condividere i dettagli dei contatti, i percorsi di trasporto e i luoghi di alloggio per consentire un’adeguata supervisione e salvaguardia” delle persone. Per quanto riguarda l’Italia i profughi arrivati fino a ieri sono 47 mila, per il 90% donne e bambini (24.032 donne, 4.052 uomini e 19.069 minori). I neri sono stati forniti dal capo della Protezione civile Fabrizio Curcio che ha anche spiegato come la maggior parte delle persone siano arrivate attraverso il confine sloveno e per ora “solo 2.500 utilizzano l’assistenza strutturata, mentre gli altri si sono rivolti ad amici e parenti”. Oggi dovrebbe essere licenziato il Dpcm accoglienza che prevedrà l’utilizzo dei centri coordinati dal Viminale, strutture gestite dal terzo settore e case messe a disposizione da cittadini pronti ad ospitare chi ne ha bisogno. Esclusa invece, almeno per ora, la nomina di un commissario per l’accoglienza. Inoltre il dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione del Viminale ha avviato la procedura per ampliare il sistema della rete Sai di 3.500 posti da destinare con priorità ai nuclei familiari anche monoparentali per fronteggiare le esigenze di accoglienza. Il governo sta anche studiando la possibilità di un contributo economico mensile ai rifugiati che potranno trovarsi autonomamente un alloggio e soddisfare le esigenze quotidiane. E potrebbe anche esserci un incentivo economico alle famiglie che accolgono ucraini. La Corte di giustizia dell’Onu condanna la Russia: fermate subito la guerra in Ucraina ansa.it, 17 marzo 2022 La Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite ha ordinato alla Russia di fermare le ostilità in Ucraina. Kiev aveva chiesto alla corte dell’Aja di intervenire, sostenendo che la Russia aveva violato la Convenzione sul genocidio del 1948 accusando falsamente l’Ucraina di aver commesso un genocidio e usandolo come pretesto per l’invasione in corso. La presidente della corte, la giudice Joan E. Donoghue, ha chiesto che “la Federazione russa sospenda immediatamente le operazioni militari speciali iniziate il 24 febbraio”. L’ordine con cui la Corte di Giustizia Internazionale ha ordinato alla Russia di “sospendere immediatamente le operazioni militari iniziate il 24 febbraio nel territorio dell’Ucraina” è stato approvato con 13 voti favorevoli e due contrari, espressi dal giudice russo e dal giudice cinese dell’assise internazionale. Nell’ordine si specifica inoltre che non si sono riscontrate alcune prove a sostegno delle giustificazioni usate dal Cremlino per legittimare l’invasione, cioè il presunto genocidio commesso da Kiev contro le popolazioni russofone dell’Ucraina orientale. La Russia non ha partecipato all’udienza iniziale e neanche oggi sono apparsi in aula i suoi avvocati. Invece ha inviato una lettera sostenendo che la Corte - massimo organismo Onu per dirimere le contese tra Stati - non avrebbe avuto giurisdizione sul caso. L’ordine era in risposta all’appello presentato il 26 febbraio scorso dall’Ucraina in cui si chiedeva una sentenza d’urgenza della Corte sulle accuse infondate di Mosca riguardo i presunti crimini di genocidio commessi nelle regioni di Luhansk e Donetsk. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha esultato per la decisione della Corte Onu: “L’Ucraina ha ottenuto una vittoria completa nella causa contro la Russia presso la Corte internazionale di giustizia. La Corte ha ordinato di fermare immediatamente l’invasione. L’ordine è vincolante ai sensi del diritto internazionale e la Russia lo deve rispettare immediatamente. Ignorarlo - si legge in un messaggio pubblicato su Twitter - isolerà ulteriormente la Russia”. La fame attanaglia lo Yemen. E la guerra continua a infuriare di Michele Giorgio Il Manifesto, 17 marzo 2022 Due terzi dei programmi Onu sono stati chiusi o ridotti. I ribelli Houthi convocati in Arabia Saudita per discutere il cessate il fuoco. Anche l’attrice e star internazionale Angiolina Jolie, ambasciatrice dell’Unhcr, si è unita all’appello lanciato da Martin Griffiths, sottosegretario agli affari umanitari delle Nazioni Unite, per la raccolta di 4,3 miliardi di dollari essenziali per aiutare a sfamare e a curare milioni yemeniti vittime della guerra che da otto anni devasta il paese. Un conflitto figlio anche dello scontro a distanza tra Arabia saudita e Iran che ha già fatto decine di migliaia di morti - tra cui 10mila bambini ha riferito il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres - e che ha gettato lo Yemen in una “crisi umanitaria permanente”. Ieri era in programma la conferenza dei paesi donatori organizzata per raccogliere fondi dall’Onu. Il popolo yemenita rischia davvero la fame. Due terzi dei programmi delle Nazioni Unite sono stati completamente chiusi o ridotti a causa della mancanza di fondi e dell’escalation dei combattimenti. I tagli agli aiuti hanno comportato la riduzione delle razioni di cibo per otto milioni di persone e delle forniture di acqua potabile. “Siamo pronti a sostenere il popolo yemenita ma non possiamo farlo da soli. Per una questione di responsabilità morale, di decenza e compassione umana, di solidarietà internazionale e di vita o di morte, dobbiamo sostenere il popolo dello Yemen ora” ha detto Guterres rivolgendosi ai paesi ricchi per sollecitarli a non abbandonare il più povero dei paesi arabi. Secondo la Scala di classificazione integrata della sicurezza alimentare (Ipc), alla quale qualche giorno fa hanno fatto riferimento in un comunicato la Fao, l’Unicef e il Programma alimentare mondiale, lo Yemen mostra un livello elevato e persistente di malnutrizione acuta tra i bambini al di sotto dei cinque anni. In tutto il paese, 2,2 milioni di bambini sono gravemente malnutriti. Stessa la condizione di 1,3 milioni di donne incinte o che allattano. E 161mila persone saranno soggette alla carestia nella seconda metà del 2022, con un dato cinque volte maggiore rispetto a quello attuale e livelli catastrofici di fame. La gravità della situazione umanitaria e le sofferenze della popolazione non fermano la guerra tra le forze governative appoggiate dalla Coalizione a guida saudita e i ribelli sciiti Houthi sostenuti dall’Iran. All’inizio dell’anno l’avanzata dei ribelli verso le città petrolifere è stata arrestata grazie all’intervento di forze mercenarie agli ordini degli Emirati - uno sviluppo al quale gli Houthi hanno risposto lanciando attacchi con missili e droni su Abu Dhabi - e sul terreno ora regna una situazione di stallo. L’incapacità delle due parti di vincere la guerra non ha ancora prodotto tentativi concreti di mettere fine alle ostilità e lasciare spazio a trattative. Non pare perciò destinato ad avere successo l’invito che il Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), organizzazione con base a Riyadh, ha rivolto ai ribelli yemeniti a recarsi dal 29 marzo fino al 7 aprile in Arabia saudita per discutere del cessate il fuoco. Nei prossimi giorni dovrebbero partire inviti formali alle parti. Gli Houthi dovrebbero essere “ospiti” del segretario generale del Ccg, Nayef Falah Mubarak Al-Hajraf. Proprio il ruolo di primo piano ricoperto dall’Arabia saudita è l’ostacolo principale agli incontri. Pesano inoltre le 81 persone, per metà di fede sciita, giustiziate sabato da Riyadh. Un alto ufficiale Houthi ha già avvertito che il gruppo difficilmente accetterà di andare nel regno dei Saud che è parte attiva nella guerra, continua a bombardare con i suoi aerei lo Yemen e sostiene il governo di Abdrabbo Mansour Hadi, considerato “corrotto” dagli insorti sciiti. “L’Arabia saudita” ha detto Mohammed Ali al-Houthi, capo del comitato supremo, “è parte della guerra e non un negoziatore”. Tuttavia, queste dichiarazioni non rappresentano né una conferma né un rifiuto dell’invito. Quindi non è da escludere che i ribelli possano ammorbidire la loro posizione, forse su pressione del loro sponsor, l’Iran. Teheran da mesi è impegnata in negoziati, mediati dall’Iraq, con Riyadh per allentare la forte tensione tra i due paesi. Le trattative dovevano riprendere questa settimana ma sono state sospese dopo le esecuzioni di massa compiute dai sauditi. Ma andranno avanti. Teheran in questa fase, approfittando dell’attenzione sulla guerra tra Russia e Ucraina, ha tutto l’interesse a migliorare le relazioni nella regione e a chiudere il nuovo accordo Jcpoa con gli Usa e le altre potenze occidentali sul suo programma nucleare in discussione a Vienna. Capoverde. Riaperte le indagini sul cooperante italiano morto in circostanze misteriose redattoresociale.it, 17 marzo 2022 Il gip di Roma ha deciso che devono proseguire le indagini del caso di David Solazzo, il cooperante fiorentino morto a Capoverde in circostanze misteriose. È stata respinta la richiesta di chiusura delle indagini presentata dal Procuratore, Dr. Erminio Carmelo Amelio, ed accolta l’opposizione all’archiviazione delle indagini presentata dalla famiglia Solazzo. A seguito dell’impeccabile ricostruzione del quadro degli eventi e delle motivazioni della riapertura delle indagini svolta in aula dall’avvocato Giovanni Conticelli, il giudice ha ritenuto che “le argomentazioni svolte in opposizione sono sufficientemente ragionevoli e impongono le ulteriori attività investigative lì indicate”. In primo luogo, il giudice ha sottolinea l’importanza di acquisire il telefono e il computer di David, per analizzarne il contenuto. Si ricorda, infatti, che a settembre 2019 l’account Whatsapp di David era stato cancellato quando il suo telefono si trovava ancora sotto sequestro delle autorità di Capo Verde. “L’analisi del contenuto del telefono, l’esame tossicologico, gli esami forensi sull’abitazione in cui il corpo di David è stato trovato in una pozza di sangue, non sono mai stati svolti. Si tratta di atti elementari di indagine che sono scontati in casi di sangue come quello di David” ha detto Alessandra Solazzo, sorella di David, che poi ha aggiunto: “Quello che è accaduto nel caso di David fa emergere problematiche sistemiche della collaborazione giudiziaria internazionale che purtroppo interessano numerose famiglie che perdono i propri cari che lavorano all’estero. In un mondo globalizzato nel quale persone e lavoratori si spostano continuamente, questi drammatici avvenimenti potrebbero riguardare sempre di più famiglie”. E infine: “Come famiglia, supportati dalle istituzioni che hanno mostrato sensibilità alla triste vicenda di David, continueremo ad impegnarci affinché sia mantenuta alta l’attenzione sul caso di David e siano svolte finalmente indagini appropriate nei prossimi sei mesi”.