La sfida di Cartabia: “Sul Dap non mi affido alle idee di un giornale” di Valentina Stella Il Dubbio, 16 marzo 2022 La guardasigilli tira dritto sulla nomina di Renoldi, il giudice attaccato dal Fatto e da alcuni partiti di governo. “Ddl giustizia, sintesi in arrivo”. “Sul nuovo capo del Dap, non mi affido alle opinioni espresse da un giornale, vediamolo lavorare e dopo ne riparliamo”: con queste dure ed inaspettate parole ieri la ministra Cartabia, intervenuta in Commissione Giustizia del Senato, sembra aver posto fine alla contesa sulla nomina del magistrato Carlo Renoldi alla guida del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, sulla quale deve ancora pronunciarsi il Consiglio dei ministri. “Vediamo se è una persona che corrisponde all’immagine dipinta in alcune visioni mediatiche ha proseguito - o se ha le qualità per cui io mi sono sentita di proporlo”. Il riferimento della Guardasigilli è chiaramente alla campagna stampa portata avanti soprattutto dal Fatto Quotidiano in questi ultimi giorni contro Renoldi. Per la prima volta forse, da quando è a Via Arenula, Cartabia assume un atteggiamento conflittuale nei confronti di due partiti di maggioranza, Lega e Movimento Cinque Stelle, che non hanno perso tempo a bocciare Renoldi, troppo costituzionalmente orientato sul tema carcere. E di certo è ben consapevole di aver lanciato un guanto di sfida al giornale diretto da Marco Travaglio. Sempre sul tema penitenziario, la professoressa ha aggiunto che nelle carceri italiane “vi sono spazi al limite della decenza” che “inevitabilmente diventano inagibili”, provocando, dunque, “ricadute sul sovraffollamento”. Non è la prima volta che registra gravi criticità, e allora che fare per porvi rimedio quanto prima? Un decreto svuota- carceri è probabilmente insostenibile politicamente, ma ci sarebbe la strada della modifica del regolamento penitenziario, come suggerito dalla Commissione Ruotolo: potrebbe essere questo il prossimo passo dopo aver messo Renoldi a capo del Dap? Il tempo stringe anche per l’ergastolo ostativo: “Dovrà concludersi entro maggio l’importante intervento, ora in fase avanzata”, ha proseguito la ministra. Non è mancato un accenno altresì alla riforma del Csm, il cui dibattito è stato compresso e compromesso da una cattiva gestione delle tempistiche, se pensiamo che il testo base è stato approvato ad aprile 2021: “Sono stati presentati i subemendamenti e nei prossimi giorni, nelle prossime settimane, arriveremo a un punto di sintesi”, ha detto Cartabia. Secondo una fonte parlamentare, la sintesi potrebbe consistere nel dar vita ad un testo a cui ogni gruppo contribuisce inserendo un elemento di riforma che ritiene importante, sacrificando tutto il resto e dando vita ad una soluzione annacquata rispetto a quanto necessario per la svolta epocale di risanamento dell’etica della magistratura. Insomma, un ennesimo compromesso al ribasso. La Guardasigilli ha annunciato che “questa settimana in Consiglio dei ministri, queste sono le previsioni, sarà portato un decreto legislativo di attuazione di una direttiva Ue che va a completare un altro segmento della riforma della crisi d’impresa e dell’insolvenza”. Ma ha fatto, come da oggetto dell’audizione, il punto sul Pnrr: esso “ha occupato in grande misura tutta l’attività del 2021”. La fase di negoziazione con la Commissione europea “è stata impegnativa”, ha ribadito. Per il settore della Giustizia l’obiettivo principale riguardava “i tempi dei processi, l’efficienza della giustizia, la riduzione degli arretrati e del tempo medio dei processi civili e penali, rispettivamente del 40 e 25 per cento”, ha ribadito. Cartabia si è quindi soffermata sugli investimenti che, tra Ufficio del processo, transizione digitale ed elaborazione di nuovi strumenti d’analisi dei dati e riqualificazione dell’edilizia, ammontano ad un importo totale pari a “2 miliardi 837 milioni di euro”. Cartabia: “Nel Pnrr fondi per l’edilizia carceraria” di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 marzo 2022 Istituti penitenziari. “Quasi ovunque spazi al limite della decenza. Ora 640 nuovi posti detentivi”. Ristrutturazione degli spazi esistenti, attenzione alla qualità della vita dei detenuti e degli agenti di custodia penitenziaria, ma anche nuova edilizia carceraria. È quanto annunciato dalla ministra Marta Cartabia in Commissione Giustizia al Senato durante l’illustrazione dello stato di attuazione del Pnrr nella parte di sua competenza. “Nelle nostre carceri ci sono quasi ovunque spazi al limite della decenza. Vanno recuperati, perché inevitabilmente finiscono per diventare inagibili e ridurre gli spazi disponibili, aumentando così il sovraffollamento. Questo va fatto in via ordinaria”. Ma, spiega la Guardasigilli, con i fondi straordinari del Pnrr è previsto un “investimento per otto nuovi padiglioni, a Ferrara, Vigevano, Rovigo, Perugia, Viterbo, Civitavecchia, Santa Maria Capua Vetere e Reggio Calabria, che dovrebbero portare all’aumento di 640 nuovi posti detentivi ma accompagnati anche da adeguati spazi per il trattamento”. Progetto che è nelle mani del Ministero delle Infrastrutture, mentre per quanto riguarda gli istituti minorili saranno i provveditorati a seguire la ristrutturazione degli spazi - “qui non c’è un problema di capienza al momento”, spiega Cartabia - a Roma Casal del Marmo, Torino, Ferrante a Porti, Airoli Benevento e Bologna Pratello per i quali sono stati stanziati 49 milioni di euro. Per quanto riguarda le carceri per adulti, che “hanno bisogno innanzitutto di interventi di recupero e ripensamento degli spazi”, con “circa 200 milioni di euro sono stati già avviati da tempo lavori a Taranto, Sulmona e Cagliari per recuperare posti inagibili”. Sono soldi provenienti da “altre risorse”, spiega la ministra che riferisce di aver visto in questi ultimi due anni - e la settimana scorsa anche durante la sua visita al carcere delle Vallette a Torino - “aggravarsi con la pandemia l’afflittività della pena” e le dure condizioni di lavoro della polizia penitenziaria, per la quale “provo una ammirazione sconfinata”. “Bisogna uscire dalla trappola mentale che vorrebbe dividere chi si schiera con i detenuti e chi con i poliziotti: ciò che fa bene all’uno fa bene all’altro”, chiosa. “Quanto al capo del Dap - continua Cartabia rispondendo ad una domanda sulla nomina del magistrato Carlo Renoldi attaccato dalla Lega e dal M5S per le sue posizioni di tutela costituzionale dei diritti dei detenuti - Non mi affido alle opinioni espresse da un giornale. Vediamo se è una persona che corrisponde all’immagine dipinta in alcune visioni mediatiche o se ha le credenziali per le quali io mi sono sentita di proporlo come capo della Polizia penitenziaria oltre che come capo del Dipartimento”. Fiandaca: “L’antimafia dura e pura è contro la Costituzione. Renoldi scelta eccellente” di Errico Novi Il Dubbio, 16 marzo 2022 Intervista al professore di Diritto penale dell’Università di Palermo. “Il diritto è sempre bilanciamento, mai estremismo. Vale anche nel campo dell’antimafia”. E su Renoldi, il magistrato che Cartabia vorrebbe indicare al vertice del Dap: “È un giudice di grande competenza ed equilibrio, quando era al Tribunale di Sorveglianza ha saputo stabilire una interlocuzione diretta con i reclusi”. “Il diritto è misura. Non può essere estremistico. Vale per ogni suo ambito, non esclusa l’antimafia. Trovo dunque necessario che nel nostro Paese si superi la sterile contrapposizione fra un’antimafia che pretende di essere pura e dura e una presunta antimafia impura e debole”. Giovanni Fiandaca è forse oggi il più apprezzato e autorevole fra gli studiosi che, nella dottrina penalistica, dedicano particolare attenzione agli strumenti di contrasto del crimine organizzato. Nei giorni scorsi ha pubblicato, tra l’altro, un intervento sul Foglio tra i più illuminanti a proposito delle norme che il Parlamento si appresta ad approvare sull’ergastolo ostativo. Gli abbiamo chiesto di esprimersi sul rischio che quella scuola di pensiero da lui efficacemente definita “antimafia dura e pura” sfiguri l’immagine di Carlo Renoldi, il giudice individuato dalla guardasigilli Marta Cartabia quale possibile nuovo capo del Dap. “È una persona di notevole equilibrio, oltre che di elevato livello tecnico. Ed è un giudice che ha vissuto l’esperienza nel tribunale di sorveglianza attraverso una concreta presenza nelle carceri e l’interlocuzione con le persone recluse”, risponde il professore di Diritto penale dell’università di Palermo. Che spiega di parlare sulla base di una conoscenza personale, per essere stato insieme con Renoldi nel comitato scientifico del Csm, l’organismo deputato alla formazione dei magistrati prima che venisse istituita la Scuola superiore di Scandicci. Si è scatenata una reazione molto forte e contraria di fronte all’ipotesi che la ministra Cartabia affidi il vertice del Dap a un giudice, dopo tanti pm, come Renoldi. Quasi che un profilo più attento alla rieducazione, e meno al carcere inteso come vendetta, rappresenti un’eresia: non dovrebbe casomai garantire un più efficace recupero dei condannati e dunque la sicurezza sociale? Guardi, come studioso, sia nei miei scritti tecnici che nei miei interventi giornalistici, sottolineo da tempo l’esigenza di sottrarre la gestione delle carceri al monopolio dei pm. I quali sono professionalmente orientati a privilegiare la sicurezza, mentre sono meno sensibili alla tutela dei diritti e al percorso rieducativo del detenuto. Quando si tratta di pm antimafia, sono portati a considerare la logica e l’interesse del contrasto alle mafie quale criterio guida dominante. Ma andrebbe tenuto presente che i mafiosi costituiscono una componente davvero minoritaria dell’intera popolazione detenuta. A Renoldi viene contestata appunto la mancata adesione culturale alla prospettiva tipica, sulle carceri, della magistratura inquirente. Alcune forze politiche gli hanno mosso rilievi che sembrano rinfacciare un’eresia, non solo contestare un’opinione diversa. Non crede che un atteggiamento del genere nasconda in fondo debolezza? Anche nel campo dell’antimafia sociale, politica e giudiziaria si riscontra una pluralità di orientamenti, tra posizioni più estremiste o radicali e posizioni più moderate. Il radicalismo antimafioso sembra vagheggiare una Costituzione tutta sua, cioè interamente concepita sub specie antimafiae. Ma questa sorta di Costituzione specifica e autonoma contrasta con il costituzionalismo italiano ed europeo, così come è inteso dalla maggior parte dei giuristi contemporanei sia teorici che pratici. Il costituzionalismo penale corretto comporta sempre equilibrati bilanciamenti fra tutti gli interessi e i diritti in gioco. La lotta alla criminalità e il contrasto alla mafia non possono prevalere unilateralmente rispetto alla salvaguardia dei diritti fondamentali degli stessi autori dei reati e al loro diritto alla risocializzazione. Ma una volta buona dovemmo riuscire a superare, nel nostro Paese, la sterile contrapposizione fra un’antimafia che pretende di essere pura e dura e una presunta antimafia impura e debole. Il diritto non può essere estremistico: è sempre misura, contemperamento di esigenze diverse e concorrenti. Carlo Renoldi come possibile capo del Dap: come giudica la scelta, e la propensione della guardasigilli a concentrare sull’esecuzione penale l’ultima fase del proprio mandato? Ho più volte manifestato pubblicamente il mio apprezzamento alla ministra Cartabia, per i suoi orientamenti di fondo sia, in generale, in materia di giustizia penale sia più specificamente riguardo all’ambito penitenziario. Non posso che condividere la scelta di Carlo Renoldi come nuovo capo del Dap. Si tratta di un giudice di Cassazione che vanta una precedente e lunga esperienza da magistrato di sorveglianza, vissuta anche attraverso forme di concreta presenza nelle carceri, e di interlocuzione con le persone recluse. Conosce già la realtà carceraria da vicino, dunque, e questo è fondamentale. Ho avuto occasione, alcuni anni fa, di conoscere personalmente Renoldi: sono stato componente, insieme con lui, del cosiddetto comitato scientifico del Csm per la formazione professionale dei magistrati, prima che a Scandicci nascesse la Scuola superiore. In tale occasione ho avuto modo di apprezzare non solo l’elevato livello tecnico e l’ampia cultura di fondo di Renoldi, ma anche le sue caratteristiche di persona di notevole equilibrio. Penso che queste sue complessive doti di personalità confermino la sua attitudine a gestire il mondo carcerario senza unilateralismi, ma bilanciando con ragionevolezza le diverse esigenze di una realtà complessa e variegata come quella penitenziaria. In un intervento sul Foglio, lei ha scritto che sull’ergastolo ostativo la politica sembra quasi offrirsi deliberatamente alle inevitabili correzioni interpretative della magistratura: non una prospettiva che faccia onore al Parlamento... Ribadisco i rilievi che ho formulato nel mio articolo sul Foglio del 10 marzo. Spero comunque che dalla fabbrica parlamentare venga fuori un prodotto legislativo il più possibile chiaro e univoco, così da evitare che debba essere la magistratura a precisare il contenuto di norme che il legislatore non riesce a ben definire. C’è un versante dell’antimafia, relativo alle misure di prevenzione, che negli anni ha prodotto casi di grave ingiustizia: in regioni che ne sono state assai colpite, come la Sicilia, c’è il rischio che ne derivi una profonda e più generale sfiducia nelle istituzioni? La materia delle misure di prevenzione, controversa da decenni, è troppo complessa per poter essere affrontata in poche battute nell’ambito di un’intervista. Sono qui pensabili, in verità, riforme anche di ampio respiro e secondo direttrici molto innovative, ma per poterle realizzare sarebbe necessaria la maturazione di un clima meno conflittuale sul tema dell’antimafia. E sarebbe anche necessario un livello di cultura, di consapevolezza e di competenze dello stesso ceto politico più elevato rispetto a quello che oggi è dato riscontrare in ogni schieramento, di cosiddetta destra, di cosiddetta sinistra o di cosiddetto centro. Ergastolo, il Parlamento perde un’occasione che non tornerà di Ignazio Juan Patrone* Il Riformista, 16 marzo 2022 La Camera dei deputati si appresta ad approvare, con una larga maggioranza, il testo unificato delle proposte di legge presentate per la modifica degli articoli 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 in materia di revisione delle norme sul divieto di concessione dei benefìci penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia. Com’è noto, la legge che verrà emanata dovrà adempiere all’invito rivolto al Parlamento dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 97 del 2021 che ha già accertato, ma non dichiarato, l’incostituzionalità del regime vigente che subordina alla sola collaborazione con la giustizia la concessione di tutti i benefici penitenziari e, fra essi, della liberazione condizionale, concedendo al legislatore termine sino al 10 per approvare una disciplina rispettosa dell’art. 27 della Costituzione. La prima impressione che si ha leggendo il testo unificato è di delusione: quella imposta dalla Corte costituzionale doveva essere l’occasione per un generale ripensamento dell’attuale disciplina della concessione dei benefici ai condannati per una serie del tutto eterogenea ed illogica di reati, anche ben distanti da qualsiasi matrice organizzata, mafiosa o terroristica. L’attuale articolo 4.bis dell’ordinamento penitenziario è il frutto di scelte legislative prive di logica ed asistematiche, generate dalle sole pulsioni securitarie emergenti da settori della pubblica opinione. L’occasione è andata persa e chissà se e quando di ripresenterà. Nel dettaglio devono poi fatte alcune specifiche critiche. L’abolizione della concedibilità dei benefici nei casi di collaborazione inutile o irrilevante pare essere una scelta poco comprensibile, che impedisce un trattamento adeguato per chi non abbia collaborato perché non ha potuto farlo, stante la sua limitata partecipazione al fatto criminoso o per l’ormai intervenuto integrale accertamento delle circostanze e delle responsabilità ad esso connesse. Si tratta di un aggravamento non utile né necessario. L’aumento da ventisei a trenta anni della pena da scontare prima di poter presentare l’istanza di liberazione condizionale, attraverso la modifica dell’art. 176 del codice penale, appare misura inutilmente gravatoria e punitiva, che oltretutto dovrebbe andare a regime solo per i fatti commessi dopo l’entrata in vigore delle riforma: infatti, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2020, deve ritenersi non conforme alla Costituzione l’applicazione di modificazioni peggiorative introdotte nel regime penitenziario anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge. Durante la discussione in Commissione questo problema sembra esser stato semplicemente ignorato. Infine sembra essere stata ignorata l’esigenza di provvedere ad una adeguata nuova disciplina delle cosiddette misure intermedie, lavoro all’esterno e semilibertà, due passaggi fondamentali in un percorso rieducativo, anche al fine di verificare in concreto se sussistano le condizioni per accedere alla liberazione condizionale. Tale omissione rischia di essere foriera di nuove rimessioni alla Corte costituzionale con la conseguente necessità di por nuovamente mano alla materia. Resta perciò un senso generale di delusione per una disciplina che, sin dall’inizio della discussione parlamentare, sembra essersi orientata più verso il mantenimento di ampi margini di ostatività piuttosto che verso il rispetto dell’art. 27 della Costituzione. *Già magistrato, membro del Comitato scientifico dell’Associazione Antigone Ardita: “Norma rischiosa, così il Parlamento abbatte l’ergastolo l’ostativo” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2022 Se passa la riforma dell’ostativo così come è stata scritta dalla commissione Giustizia della Camera, ci sarà “l’abbattimento” dell’ergastolo ostativo per i benefici ai mafiosi, al di là “delle buone intenzioni” di chi l’ha scritta. Ha detto proprio così, senza giri di parole, uno dei massimi esperti in materia di prevenzione penitenziaria, Sebastiano Ardita, attuale consigliere del Csm, pm antimafia ed ex capo dell’ufficio detenuti del Dap. “Senza una legge chiara e una procedura snella - ha detto ieri davanti alla commissione Antimafia - se l’ergastolo ostativo cade, la colpa sarà del Parlamento: i margini, in queste condizioni, per far diventare la maglia un buco enorme, ci sono tutti”. Ardita riconosce che “l’intento di questo testo è lodevole nel voler rendere più difficile ottenere i benefici per chi non collabora, ma c’è un eccesso di dettagli che rischiano di andare a vantaggio dei mafiosi”. Un vero paradosso per una riforma che, come ha detto Giulia Sarti, deputata M5S, “non avremmo voluto fare”, riferendosi all’obbligo arrivato dalla Corte costituzionale, che ha chiesto le modifiche dopo aver trasformato da assoluto a relativo l’ostativo. E la domanda è inevitabile: cosa c’è di “pericoloso” per chi non è addetto ai lavori, anche per i parlamentari più volenterosi, che favorirà invece di ostacolare i mafiosi irriducibili? Ardita fa un’analisi articolata e che si può sintetizzare così: poiché per avere il beneficio non è prevista da parte del mafioso detenuto la sola prova positiva, ritenuta “fondamentale”, di non avere legami con la cosca di appartenenza né di avere la possibilità di ripristinarli, ma deve anche pensare al risarcimento del danno, alla “revisione critica del passato criminale”, deve aderire a “percorsi di giustizia riparativa”, le cose si complicano. Sono, ha aggiunto, tutte richieste “facili” da esaudire per un mafioso. “Se guardiamo l’aspetto risarcitorio - prosegue Ardita - chi ha interrotto i rapporti con la mafia è sul lastrico mentre chi ha i soldi per risarcire le vittime, i rapporti con Cosa Nostra non li ha interrotti”. E quindi, come finirà, in base alla storia della giurisprudenza “applicata”? Finirà che “essendo la prova positiva sui legami criminali pressoché impossibile, a fronte di tutti gli altri indici” esauditi, “qualcuno (dei giudici, ndr) troverà che la positività sarà comprovata da tutte le altre richieste della norma”. E quindi concederà il beneficio. La cosa migliore, secondo il magistrato, sarebbe quello di prevedere soltanto la prova, a carico del mafioso detenuto, di non avere né di poter ripristinare i legami criminali. C’è, poi, un altro punto critico per cui secondo Ardita l’ostativo “sarà abbattuto” nonostante “l’ottima previsione” dei pareri delle Dda e della Dna: la mancanza di un tribunale unico di Sorveglianza a Roma che decida sui benefici così come dal 2009 si pronuncia sul 41 bis. Invece, la riforma prevede per i benefici che sia il collegio e non il monocratico ma a livello dei 26 distretti. Quindi, ha avvisato Ardita, che come la maggior parte dei magistrati aveva chiesto un unico tribunale di Sorveglianza, su “150 arrestati”, per esempio, di una stessa cosca, giudicheranno più tribunali di Sorveglianza, essendo i detenuti in carceri diverse. “La conseguenza sarà che il più garantista dei 26 farà prevalere la sua posizione e l’ergastolo ostativo cadrà”. Errori giudiziari, una giornata dedicata ai troppi casi Tortora di Valentina Stella Il Dubbio, 16 marzo 2022 La proposta era nata nel 2020 da una idea avanzata dal Partito Radicale, dall’associazione Errorigiudiziari.com, dalla Fondazione internazionale per la giustizia Enzo Tortora, dal Comitato radicale per la giustizia Piero Calamandrei e dall’associazione “Il detenuto ignoto”. Arriverà presto in Aula al Senato per essere discusso il disegno di legge, già approvato dalla Commissione giustizia, volto ad istituire la “Giornata nazionale in memoria delle vittime di errori giudiziari”. Lo hanno reso noto ieri i senatori della Lega Andrea Ostellari e Francesco Urraro, sottoscrittori del testo, durante una conferenza stampa. La giornata sarebbe quella del 17 giugno, perché quel giorno, nel lontano 1983, i carabinieri di Roma misero le manette ai polsi a Enzo Tortora. La proposta era nata nel 2020 da una idea avanzata dal Partito Radicale, dall’associazione Errorigiudiziari.com, dalla Fondazione internazionale per la giustizia Enzo Tortora, dal Comitato radicale per la giustizia Piero Calamandrei e dall’associazione “Il detenuto ignoto”. L’iniziativa della Lega si spiega anche per rafforzare il dibattito sui referendum giustizia giusta. “Essi - ha detto Urraro - vogliono porre le basi concrete per una prospettiva di civiltà giuridica e di fiducia in una giustizia che deve essere bene comune. I quesiti possono anche sembrare tecnici ma hanno un grande impatto sociale”. Il senatore poi ha aggiornato i dati, rispetto a quelli contenuti nella relazione del provvedimento: “Dal ‘ 92, anno da cui parte la contabilità ufficiale, al 2020, si sono registrati quasi 30mila casi. Il che significa 1025 innocenti in custodia cautelare ingiusta ogni anno. Si tratta di qualcosa che un Paese civile non deve consentire”. Ha preso poi la parola il presidente della Commissione Giustizia, Ostellari, che, tra l’altro, ha ricordato la gogna mediatica “di chi viene ammanettato e mandato in televisione. Io mi ricordo bene quel senso di impotenza di fronte al volto più noto della tv dell’epoca. Il giornalista Giorgio Bocca, per quella vicenda, scrisse che eravamo di fronte al “più grande esercizio di macelleria giudiziaria all’ingrosso della storia italiana”“. A fornire altri dati ci ha pensato l’avvocato Renata Accardi, co-responsabile dell’Osservatorio Errori Giudiziari dell’Unione Camere Penali: “Se consideriamo che l’indice di aumento è di 1000 casi all’anno, non siamo più nel campo dell’errore fisiologico rispetto all’andamento ordinario della giustizia, ma in quello patologico. Negli ultimi quattro anni i risarcimenti hanno superato i 50 milioni di euro, per un totale complessivo di 900 milioni di euro nell’ultimo trentennio”. La penalista ha tenuto a sottolineare che “è una raffigurazione per difetto, a causa degli errori, cosiddetti invisibili, che non vengono riconosciuti per vari motivi. Lo Stato rigetta le istanze, alcune vittime di errore muoiono, altre non hanno la capacità economica per affrontare un nuovo giudizio. Quindi, possiamo dire che il dato significato è che l’errore viene alla luce solo per approssimazione”. Come rimediare? “Auspichiamo in una collaborazione con le forze politiche per elaborare proposte di legge di modifica del codice di rito intervenendo su tre direzioni: riduzione dell’applicazione della custodia cautelare, concorso per colpa grave alla formazione dell’errore da parte dell’indagato, doppio binario in tema di misure di prevenzione”. Con lei ha preso la parola anche l’altro co- responsabile dell’Osservatorio, l’avvocato Giuseppe Guida: “Una sentenza di assoluzione è lo snodo finale di un processo che ha mantenuto il rispetto delle garanzie. Il sistema salta quando un uso distorto della funzione giudiziaria contamina i suoi momenti: indagini preliminari date per buone in maniera sciatta, avvocati non messi nella condizione di difendere, sentenze che subiscono l’onda della pulsione mediatica, pm che non va anche alla ricerca di elementi a discolpa, gip che non applica un vaglio sull’operato degli inquirenti”. Ha concluso la conferenza Francesca Scopelliti, già senatrice e compagna di Tortora: “Quello di Enzo è stato un crimine giudiziario. Riprendendo la terminologia pandemica, se nell’ 87 ci avessero fatto il tampone sul garantismo saremmo risultati positivi. Non a caso in quell’anno il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati fu vinto con oltre l’80% di sì. Oggi quello stesso tampone risulterebbe positivo al virus del giustizialismo, perché mancano gli anticorpi”. Energia e Rems, un decreto “da matti” di Stefano Cecconi* Il Manifesto, 16 marzo 2022 Miracoli della burocrazia. Scorrendo il testo del cosiddetto “decreto energia” dedicato al contenimento dei costi dell’energia elettrica e del gas naturale ci si imbatte nell’articolo 32 “Disposizioni urgenti volte all’implementazione della capacità di accoglienza delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza” (Rems). La prima reazione è di sorpresa: è evidente che con le finalità del decreto le Rems (strutture detentive a gestione sanitaria destinate a ospitare autori di reato giudicati incapaci di intendere e di volere) non c’entrano nulla. Una manina ha inserito una norma stravagante come lo era la legge Fini-Giovanardi in un decreto delle Olimpiadi invernali nel 2006! Ora il Governo deve giustificare una vergognosa operazione che si vuole imporre perfino ignorando i richiami del Presidente della Repubblica sulla coerenza tra finalità e contenuti dei decreti. Lo stupore aumenta leggendo il testo dell’articolo 32 che autorizza una spesa di 2,6 milioni di euro all’anno per finanziare una REMS “sperimentale” a Calice al Cornoviglio (La Spezia). Si prevede anche che, dall’anno 2025, il limite di spesa corrente per le Rems potrà essere incrementato in relazione agli eventuali maggiori fabbisogni emergenti. La chiusura degli Opg stabilita dalla legge 81 del 2014 è stata una grande riforma di civiltà sostenuta dal Presidente Napolitano e non può essere manomessa con un sotterfugio o una manovra di palazzo. Il Governo dovrà spiegare cosa sia una Rems “sperimentale” che nella legge non è prevista. La risposta è facilmente immaginabile: da tempo tanti nostalgici del manicomio reclamano un aumento dei posti nelle Rems per rispondere alla lista di attesa di prosciolti destinatari di una misura di sicurezza. Il mistero aumenta se si osserva che le liste d’attesa sono numericamente rilevanti solo in cinque regioni (Sicilia, Puglia, Calabria, Campania e Lazio) nelle quali si concentra il 78 per cento del fenomeno e non in Liguria. In realtà la norma oggi proposta non intende rimuovere le cause che alimentano una distorta domanda di internamento in Rems (e tra queste un ritardo culturale di parti della magistratura) ma semplicemente assecondarla. Anche la recente sentenza della Corte Costituzionale (22/2021), che si è pronunciata su questo argomento, sarebbe disattesa. La Corte raccomanda infatti “un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio”, indispensabili anche per offrire una alternativa alla detenzione in Rems, confermata come extrema ratio. Clamoroso è anche il fatto che il Governo non abbia consultato preventivamente “l’Organismo di coordinamento relativo al processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”, appena insediato, e il cui mandato è chiaramente quello di sostenere il difficile percorso avviato dalla legge 81. Come ci ricorda Pietro Pellegrini (vedi SdR) bisogna organizzare “un coerente modello organizzativo, sanitario e sociale, incentrato su una visione unitaria in grado di assicurare il diritto alla salute a prescindere dalla condizione giuridica della persona”. Questa brutta vicenda ci sollecita a riprendere l’iniziativa per abolire gli articoli del Codice Rocco sulla non imputabilità dei “folli rei” che ancora li destina, diversamente dagli altri cittadini autori di reato, al binario speciale delle misure di sicurezza, ieri in Opg oggi in Rems (vedi la proposta di legge n. 2939 dell’on. Riccardo Magi “La responsabilità è terapeutica: la proposta di legge per superare il Codice Rocco”). Solo eliminando il doppio binario il re sarà nudo: diventerà chiaro che per raggiungere il delicato equilibrio tra l’esercizio della giustizia e la tutela della salute, ogni persona deve conservare, in carcere o in libertà, senza eccezioni o status speciali per i “folli rei”, i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione. *Osservatorio stopOPG Il Csm boccia la sua riforma di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 16 marzo 2022 Dal Consiglio superiore un parere critico sul testo Cartabia: c’è anche un illogico premio di carriera per le toghe che scendono in politica. Alla camera è scontro per la decisione di tagliare di due terzi gli emendamenti. La ministra: ci vorranno settimane per una mediazione. Un taglio netto. Solo un terzo circa degli emendamenti alla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario potrà essere discusso e votato. Da settecento complessivi piovuti in commissione giustizia alla camera, l’80% dei quali firmati dalla maggioranza, solo 250 potranno essere segnalati dai gruppi. Altrimenti non ci si potrebbe nemmeno più illudere di riuscire a portate entro fine mese il disegno di legge in aula, e così continuare a sperare di approvare le nuove regole sul Consiglio superiore della magistratura in tempo per il rinnovo dell’organo, a luglio. Il taglio degli emendamenti deciso dal presidente della commissione, il 5S Perantoni, provoca immediati malumori in parlamento, dove le proposte della ministra Cartabia si sono fatte attendere per mesi e devono adesso essere discusse in gran fretta. I rappresentanti del gruppo misto, di Fratelli d’Italia e di Italia viva sollevano il problema in aula, in tarda mattinata, chiedendo al presidente della camera Fico di correggere le decisioni del presidente della commissione. Un’eco della protesta arriva certamente a Marta Cartabia, che alle tre compare davanti alla commissione giustizia del senato in audizione sui tempi del Pnrr. “Nei prossimi giorni, nelle prossime settimane, arriveremo a un punto di sintesi”, dice la ministra della giustizia, lasciando intendere che i tempi necessariamente non potranno essere troppo brevi. E aggiunge che la riforma del Csm, pur non essendo menzionata nel Pnrr, è reputata dalla Commissione europea “complementare” e dunque dovrà essere approvata “entro il 2022”. Il tempo utile per le prossime elezioni del Csm, però, è assai più breve e anche se resterà il taglio degli emendamenti ne resteranno in piedi comunque abbastanza da richiedere complicate e lunghe mediazioni, i più delicati sono i sub emendamenti al maxi emendamento che contiene le proposte della ministra. I gruppi spingono in direzioni opposte e sulla carta c’è una maggioranza favorevole a soluzioni drastiche, stravolgenti, come la netta e definitiva separazione delle funzioni e il sorteggio per l’elezione dei togati nel Csm. Senza un accordo politico che al momento non si vede e se il governo vorrà mantenere la promessa di non mettere la fiducia sul provvedimento, appare improbabile che la riforma possa entrare in vigore in tempo da consentire le modifiche regolamentari e la designazione dei nuovi collegi necessari per rispettare la scadenza delle elezioni di luglio per il Csm. E tornerebbe di attualità l’ipotesi di uno slittamento del voto a settembre, adesso esclusa dalla ministra. Oggi intanto proprio dal Csm arriverà una mezza bocciatura della riforma proposta dal governo. Il plenum approverà il parere già passato ieri all’unanimità in sesta commissione. Dove accanto a giudizi critici già sentiti - e ribaditi sabato dall’Associazione nazionale magistrati - contro la proposta di legge elettorale, l’organizzazione del nuovo consiglio, il voto degli avvocati nelle valutazioni di professionalità delle toghe, si trova anche un parere critico originale e interessante sulle complesse norme che dovrebbero penalizzare i magistrati che scelgono di candidarsi per un mandato elettorale. La novità per cui la toga che si è schierata non potrà tornare a esercitare funzioni giudiziarie, ma resterà in ruolo, rischia secondo il Csm di “avere un effetto illogicamente premiale per i magistrati che intraprendono una carriera politica”. Il cui sbocco più probabile allo stato dei fatti resta quello, assai ambito, dell’ufficio del massimario della Cassazione. In pratica un bel salto di carriera. Magistrati e centrodestra contro la riforma del Csm di Giulia Merlo Il Domani, 16 marzo 2022 Dopo la pioggia di quasi cinquecento emendamenti, arriva anche il parere molto critico del Csm ad affossare la riforma dell’ordinamento giudiziario. La riforma dell’ordinamento giudiziario, la terza nell’elenco delle riforme del sistema giustizia previste dal Pnrr, rischia di finire affossata. Non solo dai quasi 500 emendamenti presentati in commissione al testo approvato in consiglio dei ministri all’unanimità e frutto del lavoro di accordo e limatura della ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Ma anche dal parere molto critico espresso dal Consiglio superiore della magistratura, che proprio della riforma è oggetto. Tutto questo, con le sue conseguenze politiche, rischia di rendere ancora più accidentato il percorso di una riforma che già è slittata spesso negli ultimi mesi. Secondo il calendario dei lavori, dovrebbe arrivare in discussione generale a Montecitorio il 28 marzo, ma non è detto che si trovi la quadra. Infatti, dopo il ricevimento dei 456 emendamenti - e non di dettaglio, ma che mettono mano all’impianto della riforma - il presidente della commissione Giustizia, Mario Perantoni, ha convocato un lungo ufficio di presidenza dove ha posto la necessità di ridurne il numero. “Una scelta che non mi piace ma che si delinea come inevitabile, pena il rischio di affondare il provvedimento che è atteso per la discussione generale in aula il prossimo 28 marzo. Comunque la modalità decisa a mio parere potrà favorire una reale discussione nel merito”, ha spiegato. Circa 60 emendamenti sono stati dichiarati irricevibili, perché potevano essere avanzati già sul testo base entro il 3 giugno 2021. Ne restano però molti da esaminare e per questo si è deciso che i gruppi debbano segnalare quelli che per loro sono prioritari. In settimana, inoltre, si dovrebbe tenere una riunione di maggioranza con la ministra Cartabia. Il dato politico, infatti, è determinante: il maxi emendamento ministeriale che ha rimodulato il testo base e che oggi viene messo in discussione era stato approvato all’unanimità in Cdm. Poi, forti anche del fatto che il governo ha scelto di non imporre la fiducia sul testo, la sensazione al ministero è che ogni partito voglia portare a casa la sua battaglia di bandiera. Inaccettabile, se si vuole approvare la riforma entro i tempi chiesti anche dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. A chiedere le modifiche maggiori sono i partiti di centrodestra, che hanno trovato asse anche in Italia viva nell’avanzare la proposta di un sistema elettorale per il Csm che preveda il sorteggio temperato per individuare gli eleggibili. Una soluzione, questa, che è stata volutamente accantonata dal ministero. I tre partiti chiedono anche l’introduzione della separazione delle funzioni tra magistrati requirenti e giudicanti, sulla falsariga del quesito referendario che difficilmente passerà il quorum. Questione, anche questa, non presente nel testo iniziale della riforma. Tuttavia, il coordinatore di Forza Italia, Antonio Tajani, ha ribadito la fiducia nel governo Draghi. Il parere negativo del Csm - Non solo la pioggia di emendamenti, anche il Consiglio superiore della magistratura ha espresso parere molto critico sul testo della riforma, votato all’unanimità in sesta commissione e che ora passa al plenum per l’approvazione. Le critiche riguardano il sistema elettorale che “pur essendo prevalentemente maggioritario, prevede un correttivo proporzionale che mira ad offrire ai gruppi minori una rappresentanza in Consiglio”, insufficiente perché “anche con tali modifiche le minoranze potrebbero essere sottorappresentate mentre i gruppi di maggiori dimensioni potrebbero essere sovra-rappresentati”. Criticità anche nell’individuazione discrezionale dei collegi, con il “rischio di una modifica strumentale della composizione dei collegi al fine di orientare il risultato elettorale”. Contrarietà anche per il sistema di incompatibilità introdotto per i componenti effettivi della sezione disciplinare che “finisce con l’escludere irragionevolmente questi ultimi dalla quasi totalità delle attività svolte in sede referente”. Quanto alle porte girevoli, “la disciplina del ricollocamento in ruolo dei magistrati a seguito della cessazione di mandati elettivi ed incarichi di governo presenta criticità connesse alla difficile concreta individuazione di un tertium genus di attività esercitabile dai magistrati ordinari”. Forti perplessità anche sul riconoscimento del diritto di voto agli avvocati nei consigli giudiziari, ma anche sulle nuove “pagelle” ai magistrati per gli avanzamenti di carriera, che prevedono un giudizio multiplo e, secondo il Csm, porterà a “una inammissibile classifica tra magistrati dell’ufficio” e “potrebbe finire per stimolare quel carrierismo che la riforma vorrebbe invece eliminare”. Consigli giudiziari, il Csm dice no al voto degli avvocati di Simona Musco Il Dubbio, 16 marzo 2022 Riforma del Consiglio Superiore della Magistratura: il parere della sesta commissione approda nell’assemblea plenaria di oggi. Il Csm dice no al voto degli avvocati nei Consigli giudiziari. È quando si evince dal parere licenziato all’unanimità dalla Sesta Commissione, che oggi approderà in plenum per il voto dell’assemblea. Stando al documento, “desta forti perplessità” la norma che introduce “la facoltà per i componenti avvocati del Consiglio giudiziario di esprimere un voto unitario” nelle valutazioni di professionalità dei magistrati “tenuto conto che i membri laici continuano a svolgere, nel corso del mandato consiliare, l’attività forense nello stesso distretto del magistrato in valutazione e tale elemento può tradursi in un fattore incidente sul sereno svolgimento delle funzioni giudiziarie da parte di quest’ultimo e non è escluso che possa dar luogo all’ingresso di valutazioni soggettive ed influenzate dal ruolo di parte”. Una preoccupazione supportata dall’evidenza, secondo la Commissione, dal momento che gli stessi componenti laici del Csm “non possono esercitare la professione legale durante il mandato”, proprio per garantire “imparzialità e neutralità rispetto ai magistrati”. Gli avvocati, secondo il Csm, avrebbero già a disposizione uno strumento nelle procedure di valutazione di professionalità dei magistrati, ovvero le “segnalazioni”, molto meno pericolose, a loro dire, di un diritto al voto che consentirebbe “di incidere, in perpetuo, sulla carriera del magistrato”. Ma a terrorizzare le toghe sono soprattutto le modifiche introdotte in merito alle valutazioni di professionalità, funzionali alla verifica periodica della permanenza in capo al magistrato dei valori di capacità, laboriosità, diligenza e impegno. “La previsione di un giudizio ad hoc - graduato in discreto, buono, ottimo - sulla capacità di organizzare il proprio lavoro, che è già compresa nel parametro della diligenza, è del tutto ultronea - afferma la Commissione e, portando ad una inammissibile classifica tra magistrati dell’ufficio, potrebbe finire per stimolare quel carrierismo che la riforma vorrebbe invece eliminare”. Altro tema caldo quello delle porte girevoli tra politica e magistratura: se, da un lato, è positiva la previsione secondo la quale i magistrati che abbiano assunto incarichi elettivi non possono, alla cessazione del mandato, essere riassegnati ad attività direttamente giurisdizionali, la criticità risiede nella “difficile concreta individuazione di un tertium genus (rispetto all’attività giudiziaria in ruolo e all’attività non giudiziaria fuori ruolo) di attività esercitabile dai magistrati ordinari”. Le critiche riguardano anche il sistema elettorale prevalentemente maggioritario con un “correttivo proporzionale che mira ad offrire ai gruppi minori una rappresentanza in Consiglio” - in quanto “le minoranze potrebbero essere sottorappresentate mentre i gruppi di maggiori dimensioni potrebbero essere sovra-rappresentati”. Parere negativo, nei giorni scorsi, era stato espresso da Angelo Piraino, segretario nazionale, e Luisa Napolitano, presidente nazionale di Magistratura Indipendente. “Questa riforma disegna una magistratura succube, asservita, timorosa, non libera, burocratizzata”. In attesa del voto di oggi, ieri i gruppi in Commissione Giustizia hanno segnalato i subemendamenti ritenuti prioritari. Da quanto riferito dal capogruppo azzurro in Commissione, Pierantonio Zanettin, Forza Italia ha mantenuto quelli più “qualificanti”: sorteggio temperato, un solo passaggio di funzione tra magistratura requirente e giudicante, stretta sui fuori ruolo, rigidi criteri per i magistrati eletti e non. Anche il deputato di Azione Enrico Costa ha segnalato quelli su responsabile civile diretta dei magistrati, pagelle, disciplinare, separazione delle funzioni, non facendo mancare la polemica sulla modalità di discussione: “Abbiamo aspettato nove mesi che il Governo presentasse i suoi emendamenti al disegno di legge sul Csm. Dopo 9 mesi, quando potremmo discutere e votare rapidamente, quello stesso Governo sollecita il presidente della Commissione Giustizia (che esegue) a ridurre d’imperio gli emendamenti parlamentari da 1000 a 200. Una strozzatura del dibattito sollecitata da chi ha provocato il ritardo è davvero paradossale e mortificante dell’impegno e dello studio che abbiamo dedicato nel presentare le nostre proposte”. Oggi la Commissione tornerà a riunirsi, ma molto probabilmente il Governo non avrà avuto il tempo per esprimere i pareri. Giornata del ricordo delle vittime di mafia, per questo 21 marzo ho una speranza di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2022 Il primo marzo del 2017 la Camera dei Deputati approva all’unanimità il testo già licenziato all’unanimità dal Senato per la istituzione della Giornata nazionale della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie: entra così definitivamente nel calendario repubblicano una data fortemente voluta da migliaia di famigliari delle vittime di mafia che fin dal 1995 grazie all’Associazione Libera avevano rivendicato l’importanza di questa memoria collettiva. Ricordarli tutti e tutte, non soltanto le figure più popolari e prestigiose, perché tutti e tutte vittime della medesima violenza. Ricordarli tutti e tutte in una data simbolica, il primo giorno di primavera, per saldare il dovere della memoria con l’impegno insoddisfatto a liberare l’Italia da mafie e corruzione. Fece bene il Parlamento? O cedette a quella che alcuni storici definiscono “bulimia memorialistica” ed in particolare “vittimistica”, che si manifesta nella proliferazione di giornate dedicate a questi e a quelli, con il rischio di polverizzare la memoria pubblica in una miriade di recinti autoreferenziali? Fece bene, ne sono convinto. Perché quello che oggi sappiamo del ruolo delle mafie nella storia del nostro Paese ci deve spingere a riconoscere nel conflitto tra mafie e antimafia una vera e propria guerra civile, atipica, irrisolta, esiziale per la democrazia italiana. Le mafie non sono un eccezionale fenomeno criminale, ma una manifestazione criminale della gestione ordinaria del potere pubblico: se così non fosse, lo Stato le avrebbe battute definitivamente da un bel pezzo. Le vittime delle mafie non sono quindi semplicemente vittime di alcune spietate organizzazioni criminali, ma sono vittime della guerra non conclusa tra coloro che intendono la Repubblica italiana fondata sul principio di legalità e più generalmente sulla Costituzione del ‘48 e quanti invece hanno cercato e cercano di svuotare questi principi, preferendo una società più comodamente fondata su quelli di forza, appartenenza ed ubbidienza. È la società delle correnti, dei clan, delle clientele. E’ la società della intimidazione, della corruzione, della segregazione. Le mafie sono state sempre culturalmente maestre e militarmente alleate di questo modo feroce di intendere il legame sociale. Vorremmo poter dire che questa guerra civile è combattuta tra mafie e Stato, ma sbaglieremmo: purtroppo sappiamo che c’è stata mafia anche dentro lo Stato ed è proprio questo che rende la storia così decisiva per la qualità democratica italiana. Ecco perché fece bene il Parlamento: istituire la giornata è un modo per rammentare all’opinione pubblica una lotta che ha già preteso un altissimo tributo di sangue e che però non è finita, riguarda la responsabilità di ciascuno. Oggi. La legge prevede che istituzioni e scuole dedichino a questa ricorrenza una adeguata attenzione. Cosa succederà? Non ne ho idea, ma ho una speranza racchiusa in due parole: parresia e poesia. Parresia, cioè la parola che dice tutto, che dice la verità. La verità fa crescere un Paese e sbaglia chi ancora pensa che sia meglio tacere, eludere, mescolare le carte per una mal riposta fiducia nel quieto vivere, in una limacciosa “pacificazione” che puzza di decomposizione. Soprattutto a trent’anni dalle stragi di Palermo abbiamo bisogno della verità, senza ulteriori aggettivi, specialmente sui rapporti tra mafie e pezzi di Stato. Poesia, cioè la parola che trascende il sapere razionale e ci connette con la più profonda dimensione spirituale, la sola in grado di far scoccare scintille esistenziali. Non c’è rivoluzione senza poesia: bisogna avere canzoni da cantare insieme quando in gioco c’è la vita. Per questo mi ha commosso un giovane poeta, Fabio Strinati, classe ‘83, che ha dedicato anni di lavoro a comporre 93 ritratti poetici, riuniti nella raccolta “Nel bosco e di preghiere”, dedicati ad altrettante vittime di mafia. Ne pesco una a me particolarmente cara, quella dedicata ad Antonino Agostino e a sua moglie Ida Castellucci: Una raffica di colpi, sporchi, balordi, ti colpirono dovunque, e d’improvviso, un alito di vento… Sul lungomare Colombo, disse: “vi conosco”, da terra, una giovane Donna, a cui hanno trafitto il cuore con un bruciante colpo; il suono ondulante della brezza marina, morire in agosto, col mare calmo, mese, dalla frutta zuccherina. La legge 20 del 2017 venne promulgata dal Presidente Mattarella l’8 marzo: mi piace pensare che anche questa sia stata una scelta ispirata e non una casualità. Buon 21 marzo, allora, di parresia e di poesia! *Attivista antimafia ed ex deputato “Intercettazioni fuori legge”, il Copasir contro gli abusi dei pm di Viviana Lanza Il Riformista, 16 marzo 2022 Nella relazione annuale discussa dal presidente Urso al Senato il monito alle Procure: “I magistrati infrangono la direttiva europea per la quale siamo sotto infrazione. Deve intervenire li ministro della Giustizia”. “Nella relazione del Copasir sul sistema di intercettazioni abbiamo denunciato come perduri una situazione di assoluta discrezionalità su modalità e criteri con cui vengono affidati i mandati ad eseguire le intercettazioni giudiziarie, anche in merito alla conservazione o alla distruzione delle stesse”. È uno dei passaggi dell’intervento del presidente del Copasir, Adolfo Urso, in occasione della discussione al Senato sulla relazione annuale sull’attività svolta dal Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica dal 1° gennaio 2021 al 9 febbraio 2022. Il Riformista, la scorsa settimana, ha raccontato le criticità che ruotano attorno allo strumento investigativo delle intercettazioni, le opacità segnalate anche nella relazione del Copasir, i dubbi relativi alle garanzie sull’integrità del dato raccolto durante le attività di intercettazione e sulla trasparenza dell’intera filiera. “Ricordo a tutti che siamo sotto infrazione europea - ha aggiunto Urso - perché le Procure non intendono attuare quanto previsto in una precisa direttiva europea e quanto stabilito dalla legge italiana. Aspettiamo che il ministro della Giustizia mantenga quel che si era impegnata a fare nel corso dell’audizione”. Si attende, quindi, che la ministra Marta Cartabia affronti il problema regolando meglio questo complesso e cruciale aspetto delle attività di indagine. Sappiamo, infatti, che ormai quasi non c’è indagine che non nasca da una conversazione spiata. Sappiamo anche che, da strumento straordinario di raccolta della prova, l’intercettazione è diventata non solo lo strumento di prova più amato dai pubblici ministeri ma addirittura il mezzo per cercare la notizia di reato. Al di là di questo, poi, si pongono questioni in relazione alle modalità con cui le intercettazioni vengono custodite e archiviate, ai margini di discrezionalità dei pm nella scelta di una o di un’altra azienda a cui rivolgersi per avere il supporto tecnico alle attività di captazione, al rispetto delle norme a partire da quella che obbliga all’utilizzo di server ubicati nei locali delle Procure e non altrove. “Oggi finalmente discutiamo in modo compiuto di Sicurezza nazionale sulla base della relazione annuale del Copasir. È una novità importante - ha sottolineato Urso. In passato non è mai avvenuto. La legge 124 del 2007 prevede, infatti, la relazione annuale del Copasir e analoga relazione annuale della Presidenza del Consiglio. Non sono state mai esaminate né in Aula né in una Commissione del Parlamento”. “Per questo - ha aggiunto - a nome del Comitato, ringrazio la Presidenza e i gruppi parlamentari di averne condiviso la necessità e spero che ciò accada ogni anno con una specifica sessione parlamentare”. E ha concluso: “In questi quindici anni c’è stato solo un dibattito tematico su un problema, quello delle intercettazioni, su cui peraltro siamo stati costretti a fare noi stessi una relazione al Parlamento il 21 ottobre dello scorso anno”. Relazione in cui si mette in risalto, in particolare, “un duplice contrasto”. Il primo riguarda il costo dell’attività di intercettazione inteso come spesa di giustizia, “con la conseguenza - si spiega nella relazione - che l’affidamento di tale attività non soggiace all’obbligo di controllo da parte della Corte dei Conti mentre il Consiglio di Stato è orientato nel qualificare gli affidamenti dei servizi di intercettazioni telefoniche e ambientali, da parte delle Procure, come contratti secretati”. Il secondo elemento di opacità sta nel contrasto tra l’indirizzo dato dalle norme europee e la giurisprudenza interna, contrasto “che deve essere necessariamente superato, anche per evitare l’infrazione europea cui l’Italia è stata sottoposta”. Inoltre, “malgrado le rassicurazioni fornite, il Governo non è ancora intervenuto per affrontare le problematiche di questo settore, anche nella direzione di individuare dei requisiti di base unici a cui gli operatori si debbano attenere, come accade in altri settori per i quali è previsto un processo di qualificazione degli operatori economici”. Agenti istruiti al dialogo? No, il ministro Lamorgese li arma della pistola Taser di Vincenzo Scalia Il Dubbio, 16 marzo 2022 Il vero errore del ministero dell’Interno è quello di assecondare le pulsioni repressive. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha annunciato l’introduzione della pistola Taser fra le dotazioni della Polizia di Stato, a partire dal 14 marzo. L’utilizzo, all’inizio, riguarderà 14 città metropolitane e 4 capoluoghi, per estendersi poi a tutto il territorio nazionale. La Taser si caratterizza per l’emissione di scariche elettriche ad alta tensione e bassa intensità, che immobilizzano la persona, provocandone la paralisi temporanea. Negli Usa e nel Regno Unito il suo utilizzo è largamente diffuso, oltre che discusso. La Taser, malgrado le apparenti connotazioni di arma non letale, in realtà ha provocato diverse centinaia di morti su entrambe le sponde dell’oceano, e causato danni psicofisici permanenti a molte altre persone. Non a caso l’Onu l’ha inserita tra gli strumenti di tortura, dopo le denunce di svariate organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani. Le numerose controindicazioni sulla Taser non hanno impedito al nostro governo di avviarne l’utilizzo. È possibile scorgere, dietro questa scelta, un filo di provincialismo italico, che si nutre storicamente della convinzione che all’estero approntino sempre le soluzioni migliori. Ma è anche probabile che l’esecutivo “dei migliori”, dotando la polizia di questo dispositivo, intenda cogliere due piccioni con una fava. Da un lato, la Taser viene utilizzata quasi esclusivamente contro autori di crimini di strada, senzatetto e occupanti abusivi. Il governo pensa quindi di potersi coprire a destra, rassicurando quella parte di opinione pubblica che reclama legge e ordine. Dall’altro lato, il governo pensa di coprirsi a sinistra: i casi di Riccardo Magherini, Federico Aldrovandi, e di molte altre vittime degli abusi di polizia, hanno suscitato proteste in ampi settori della società civile, preoccupati dell’uso abusivo, e spesso tragico, della forza da parte degli agenti. L’introduzione della Taser potrebbe servire da palliativo verso questi settori dell’opinione pubblica, in quanto veicola il messaggio che d’ora in poi gli agenti non ricorreranno più ai manganelli o ad altri metodi che rischiano di sfociare in esiti tragici. Si tratta in realtà di un rimedio peggiore del male, e non solo per le violazioni dell’incolumità personale. A preoccupare sono anche le scelte compiute dal governo rispetto alle forze dell’ordine. Invece di investire risorse in una formazione improntata alla mediazione, al dialogo, al riconoscimento della diversità e del pluralismo, si sceglie di puntare su mezzi di coercizione fisica che riaffermano l’imprinting repressivo delle forze dell’ordine, e allontanano ogni prospettiva di collaborazione. Ci vediamo al prossimo abuso. Puglia. Appalti per il sopravvitto in carcere. Nelle carte i “soliti nomi” di Mara Chiarelli ledicoladelsud.it, 16 marzo 2022 Aperte le buste, compaiono le stesse aziende che gestivano il precedente servizio. Favorite quelle con ribasso più contenuto. Il Garante per i diritti dei detenuti: “Spero non si crei un conflitto d’interessi. La Corte dei conti è stata chiara”. Appalti a sei zeri, dove si offre un ribasso contenuto, e altri meno vantaggiosi dove il ribasso è invece maggiore. A leggere i documenti relativi all’ultima maxi gara d’appalto, suddivisa in cinque lotti, per il servizio di sopravvitto nelle carceri di Puglia e Basilicata, si hanno sorprese e conferme. Sorprende, in effetti, che al lotto di Lecce, da un milione 95 mila euro, una delle aziende proponenti abbia offerto un ribasso del 2 per cento, mentre in quello per approvvigionare gli istituti di Altamura, Matera, Melfi e Potenza, del valore dimezzato di 558 mila euro, la stessa azienda si sia candidata con un ribasso del 19,50 per cento. Una sorta di contraddizione che non troverebbe spiegazione, se non nel diverso criterio di aggiudicazione. Se nei primi quattro lotti (Lecce, Bari-Trani-Turi, Foggia-San Severo-Lucera, e Taranto-Brindisi) si è applicato una norma del codice degli appalti che utilizza quello della media aritmetica, nel quinto si è invece applicato quello del massimo ribasso. Ma a pagarne le conseguenze saranno i detenuti che, ad esempio, nelle case circondariali lucane e in quella di Altamura pagheranno i prodotti del sopravvitto (dentifricio, detersivi, profumi, pile, deodoranti, ma anche merendine e altri generi alimentari) molto meno di quelli pugliesi. Come anticipato da L’Edicola del sud sulla base di documenti, all’apertura delle buste avvenuta nei giorni scorsi si è confermata in maniera evidente una considerevole differenza di costi, a seconda dell’azienda che ha vinto uno dei cinque lotti. Ma come ha funzionato il sistema? Tutto ciò è avvenuto sulla base di quella norma del codice degli appalti, che utilizza il criterio di aggiudicazione del prezzo più basso. La legge dice che quando il criterio è quello e le aziende sono 5 o più, si individua una soglia di anomalia (calcolata sulla base di una media dei ribassi offerti), una sorta di media, al di sopra della quale le offerte sono automaticamente escluse. Il che significa che chi offre una percentuale di ribasso molto consistente, a tutto vantaggio dei detenuti che così risparmiano sugli acquisti, viene fatto fuori, come è accaduto nei primi quattro lotti. Coloro che invece hanno ribassi più contenuti ma vicini a quelli di concorrenti, ottengono l’appalto. Ad aggiudicarsi quattro dei cinque lotti (Lecce, Trani, Turi, Foggia, San Severo, Lucera, Taranto, Brindisi, Potenza, Matera, Altamura, Melfi) sono state le stesse ditte pugliesi che avevano gestito il servizio finora. Che, concorrenti in tre dei quattro, al quarto si sono presentate in raggruppamento. Al quinto, invece, non hanno proprio partecipato. In tutti e quattro i casi, la percentuale di ribasso della loro offerta si è collocata proprio nella media tra tutte le offerte (intorno al 4 per cento), sbaragliando anche chi avrebbe applicato prezzi più bassi, l’azienda che aveva offerto il 37,90 per cento al primo lotto (carcere di Lecce), 33,81 nel secondo (Trani e Turi), 31,80 nel terzo (Foggia, San Severo, Lucera), 28,74 nel quarto (Taranto e Brindisi). La stessa azienda che invece si è aggiudicata l’appalto per il sopravvitto lì dove ne erano in corsa solo tre, e cioè nelle case circondariali di Altamura, Matera, Melfi e Potenza, con il 29,02 per cento di ribasso. Ma sulla questione del sopravvitto da tempo si registrano polemiche e segnalazioni. È dei giorni scorsi l’intervento della Garante per i diritti dei detenuti per il Lazio, Gabriella Stramaccioni, che ha scritto alla Corte dei conti per chiedere accertamenti sull’appalto mensa nelle carceri di Lazio, Abruzzo e Molise. A gestirlo sarebbero state le stesse ditte che hanno vinto l’appalto del sopravvitto, in una sorta di sbilanciamento, denuncia la Stramaccioni, tra cattiva qualità del primo e prezzi alti del secondo. L’esigenza di chiarezza della Garante regionale è stata poi fatta propria da quello nazionale, ottenendo una pronuncia della Corte dei conti sull’opportunità di separare la gestione dei due servizi. “Spero che la censura della Corte dei conti sia stata applicata anche in Puglia e Basilicata - commenta il Garante regionale pugliese, Piero Rossi - perché si creerebbe, altrimenti, un vero e proprio conflitto d’interessi. A Bari nei mesi scorsi, la direttrice del carcere aveva chiesto una verifica, confutando la congruità di alcuni prezzi del sopravvitto. La nuova gara merita analoga attenzione”. Modena. Chiesta l’archiviazione per la morte di Piscitelli: ininfluente il ritardo nei soccorsi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 marzo 2022 Era uno dei nove della rivolta di Modena, trasferito ad Ascoli Piceno, sebbene avesse assunto massicce dosi di metadone. Si sentì male in cella e il compagno chiese aiuto alle 8,30, ma il 118 fu chiamato alle 12,45. È accertato che c’è stato un oggettivo ritardo nel soccorrere il detenuto Salvatore Piscitelli, ma non è possibile effettuare un giudizio prognostico in termini di concrete probabilità di sopravvivenza se i soccorsi si fossero attivati con maggiore tempestività. Questo, in sostanza, è una delle principali motivazioni della richiesta di archiviazione da parte dei pm della procura di Ascoli Piceno. A due anni dalle rivolte carcerarie nelle quali hanno perso la vita tredici detenuti in tutt’Italia, oltre alla morte di otto detenuti avvenute nella casa circondariale di Sant’Anna, ora giunge la richiesta di archiviazione anche per il decesso di Salvatore Piscitelli. Il 40enne trasferito nel carcere di Ascoli Piceno dove morì e proprio per questo cinque detenuti hanno presentato un esposto, nel quale si denuncia anche l’omissione di soccorso nei suoi confronti. Per Simona Filippi, avvocata di Antigone, andava curato in ospedale - Secondo l’avvocata di Antigone Simona Filippi - che si opporrà anche a questa richiesta di archiviazione - il problema principale consiste nel fatto che una persona in overdose non va trasferita in carcere, ma subito curata in ospedale. Oppure, visto che si era appreso il giorno stesso della rivolta che alcuni detenuti avevano ingerito elevate dosi di metadone, ci sarebbe dovuta essere una segnalazione che raccomandasse un accurato monitoraggio di quelli trasferiti. Nel caso di Piscitelli si aggiungerebbe un aggravante: nonostante la richiesta di aiuto da parte del suo compagno di cella, avvenuto intorno alle 8,30 del 9 marzo 2020, la chiamata al 118 è stata effettuata intorno solo alle 12,47. Per la procura di Ascoli Piceno non vi sono elementi per le ipotesi di reato - Ma per la procura di Ascoli Piceno, non vi sono elementi per sostenere l’accusa per entrambe le ipotesi di reato: il ritardo nella richiesta di soccorsi e l’ipotesi di cessione al detenuto durante le fasi della rivolta nel carcere modenese di quantitativi di metadone che poi ne causavano la morte. Partiamo dalla prima ipotesi, per la quale secondo i procuratori non si rivelerebbero elementi di reato. Nella richiesta di archiviazione, la procura ritiene che i profili di colpa a carico dell’appartenente alla polizia penitenziaria in relazione alla mancata tempestiva attivazione della assistenza sanitaria di fronte alla richiesta del detenuto Truzzi, compagno di cella di Piscitelli, avvenuta intorno alle 8,30/8,40 (orario ritenuto attendibile dai pm stessi), vanno inseriti nell’ambito di “una situazione emergenziale creatasi presso la casa Circondariale di Ascoli con l’improvviso e imprevisto arrivo in piena notte di 43 detenuti provenienti dal carcere di Modena, ove vi era stata una rivolta, e con i margini di incertezza circa la gravità della situazione del detenuto come percepita dall’Ispettore”. La procura ci tiene a sottolineare che Piscitelli, all’atto della visita in ingresso al carcere di Ascoli di Piceno dove è stato trasferito nella notte, non avrebbe dichiarato al sanitario di aver assunto metadone durante le fasi della rivolta nel carcere di Modena. Nella notte, però, cominciava a sentirsi male. Il suo compagno di cella ha testimoniato che Piscitelli non si muoveva dal letto, non dava alcun segno alle sue sollecitazioni. Com’è detto, intorno alle 8,30, ha chiesto aiuto. Dopodiché, si legge nella ricostruzione della procura ascolana, alla successiva sollecitazione di soccorsi effettuata circa un’ora dopo da un altro detenuto che aveva sostituito Truzzi nella cella 52, dove si trovava il Piscitelli, “il personale della Polizia penitenziaria chiamava i sanitari del carcere che intervenivano”. Il 118 non è stato chiamato subito, prima gli è stato somministrato un medicinale - Come è stato effettuato l’intervento? Non chiamando subito il 118, ma somministrando il Narcan (medicinale contro l’intossicazione da metadone) e con una attesa di circa 20 minuti per verificare l’effetto. “Riscontrato il mancato effetto del Narcan - si legge nella richiesta di archiviazione - il medico tornava nel suo studio per chiamare il 118, fermandosi prima dal detenuto Seme anch’egli in situazione critica per probabile assunzione di sostanze durante la rivolta a Modena (e che poi veniva trasferito in ospedale e salvato); la chiamata al 118 avveniva alle 12,47 per entrambi i detenuti: Piscitelli e Seme”. L’orario della somministrazione del medicinale, secondo la stessa procura, è intorno alle 10,30 - 11. Gli effetti per capirne l’efficacia o meno, com’è detto, si sarebbero visti dopo 20 minuti. Quindi, si legge nella richiesta di archiviazione, dopo la somministrazione del Narcan e la constatazione della sua inefficacia, “si era concretizzata una situazione clinica che richiedeva l’intervento urgente del 118 e il ricovero”. Da quel momento alla effettiva chiamata al 118 invece trascorrono circa due ore (nelle quali - come accennato - il medico si è allontanato dalla cella n, 52 per recarsi presso il proprio studio per chiamare il 118 e nel tragitto si è anche occupato del detenuto Seme, chiedendo poi l’intervento due ambulanze). Ed è tale ritardo che aveva concretizzato l’ipotesi di colpa nella condotta del medico. Per i pm c’è il dubbio sul nesso causale tra soccorsi in ritardo e la morte di Salvatore Piscitelli - Ma la procura, scrive nero su bianco che su questi dati “si innesca il dubbio non risolvibile sul nesso causale tenuto conto delle cause della morte e del documentato andamento clinico: l’anticipazione dei soccorsi anche di due ore avrebbe garantito soltanto delle possibilità di sopravvivenza (e ciò non basta per riconoscere la sussistenza del nesso causale ipoteticamente ricostruito tra decesso e condotte doverose omesse) ma non concrete ed effettive probabilità di sopravvivenza, essendo la situazione del detenuto compromessa”. In realtà, la procura prende spunto dalla consulenza medico legale collegiale. I medici scrivono che la situazione clinica di Piscitelli era grave, come dimostrato purtroppo, dalla persistenza dello stato di ipovigilanza/coma e dal decesso intervenuto poco dopo il trasporto al Pronto Soccorso dell’ospedale di Ascoli Piceno, dove il paziente è giunto “in condizioni drammatiche che non hanno lasciato spazio ad interventi assistenziali, quantunque sia stato prontamente intubato, sia stato sottoposto a terapia intensiva per contrastare l’acidosi e sostenere il circolo con amine e ad una prolungata rianimazione cardiopolmonare”. Dopo la descrizione clinica di Piscitelli, i consulenti della procura concludono così: “Si individua, sulla base della ricostruzione testimoniale degli eventi relativi alla mattina del 9.03.2020, e sul dato controfattuale della registrazione della telefonata alla Centrale 118 per due detenuti delle ore 12,49, un ritardo nella richiesta dì intervento stimabile in circa 2 ore. Ritardo che, come sopra argomentato, non consente di indicare, in un quadro emergenziale e complesso quale quello di specie, che un più tempestivo intervento avrebbe evitato la morte”. Parere che la procura di Ascoli Piceno recepisce e lo cristallizza nella richiesta di archiviazione. In sintesi, sembrerebbe che la morte di Piscitelli fosse inevitabile. Diversi detenuti di Modena salvati perché portati subito in ospedale - Eppure, ricordiamo, che diversi detenuti di Modena furono salvati perché portati tempestivamente in ospedale. Altri no, e sono morti durante il trasferimento in altre carceri o dopo. Resta sullo sfondo un dato oggettivo e riconosciuto dalla procura stessa: la richiesta di aiuto da parte di un detenuto è avvenuto alle 8,30, mentre la richiesta del 118 intorno alle 12 e 45. Sono passate quattro ore. Possibile che, Piscitelli compreso, fosse inevitabile la morte dei nove detenuti? Nessuna responsabilità nella catena di comando, a partire dai trasferimenti nonostante si sapesse che diversi reclusi di Modena - durante la rivolta - avevano preso d’assalto la farmacia e ingerito elevate dosi di metadone? Nel frattempo l’avvocata Simona Filippi di Antigone ha cominciato a lavorare al ricorso alla Cedu, affinché Strasburgo faccia chiarezza sulla dinamica di questi nove morti. Bologna. Rivolta in carcere per l’emergenza Covid, 40 detenuti a processo di Luca Muleo Corriere di Bologna, 16 marzo 2022 Fra le accuse anche le lesioni ad alcuni agenti penitenziari. Compariranno davanti al giudice il 18 dicembre 2023 i quaranta detenuti rinviati a giudizio dopo l’udienza preliminare nell’aula bunker del carcere, per aver partecipato il 9 marzo 2020 alla rivolta all’interno della stessa casa circondariale della Dozza. Una sommossa che aveva ricalcato le proteste in diversi istituti carcerari del paese, quando la pandemia stava per esplodere definitivamente anche in Italia e come misura anti contagio erano state sospese le visite dei parenti. La rabbia dei detenuti era montata fino a esplodere nelle rivolte scoppiate quasi ovunque. Alla “Rocco D’Amato” tutto era nato al piano giudiziario, due giorni di caos e violenza. Due agenti e una ventina di reclusi feriti, durante i disordini uno era morto per overdose di farmaci sottratti nell’infermeria durante la rivolta, il fascicolo era stato archiviato dopo l’autopsia. E poi tentativi di evasione, proteste sul tetto, fuochi accesi e danni milionari alla struttura. In nove hanno scelto riti alternativi, abbreviati e patteggiamenti e andranno davanti al giudice per l’udienza preliminare il 14 luglio. La Procura contesta a vario titolo i reati di resistenza e lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento, ricostruendo all’interno del carcere in quelle ore di caos il lancio di diversi oggetti, da sgabelli a sedie e gambe di tavoli contro la polizia penitenziaria. Sono otto le persone indicate come istigatori, quelli che secondo l’accusa incitavano altri portandoli a distruggere le plafoniere al neon in un corridoio al grido di “libertà, ora distruggiamo tutto”. A due carcerati si addebita la tentata evasione, perché secondo la ricostruzione degli inquirenti avevano cercato di calarsi dal tetto, fermati dagli agenti della polizia penitenziaria nonostante il lancio di oggetti di altri che volevano impedire o comunque rendere più difficoltoso l’intervento dei poliziotti per fermarli. I rivoltosi avrebbero usato anche materassi, brande, spranghe di ferro e bombolette di gas per impedire ai poliziotti di entrare nelle sezioni detentive, dove cercavano di riportare le persone all’interno delle celle e ristabilire l’ordine nel carcere. Gli imputati sono difesi, tra gli altri, dai legali Giovanni Voltarella, Roberto D’Errico, Donata Malmusi e Lamberto Carraro. Napoli. Giornata memoria vittime mafie, Ciambriello si appella ai detenuti di Secondigliano di Ettore Mautone Il Mattino, 16 marzo 2022 “Togliere respiro e spazio alla camorra”. In vista della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti che si terrà il 21 marzo a Napoli, il Garante campano delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello, d’intesa con l’associazione Libera e il coordinamento campano dei familiari delle vittime innocenti di camorra, ha organizzato una serie di incontri-testimonianze nelle carceri. Oggi si è tenuto il secondo incontro presso il reparto Mediterraneo della casa circondariale di Secondigliano, con la testimonianza di Emanuela Sannino e del presidente di “Libera” per Napoli Antonio D’Amore, presente anche la vicedirettrice Gabriella Niccoli. Ai 46 detenuti presenti Ciambriello ha ricordato: “La parola legalità deve essere sostituita con il termine e valore responsabilità, dove ognuno può ritrovare in sé quella forza ricostruttrice. Il vero aiuto è la capacità di progettare un carcere che dia valore ai rapporti tra autori, vittime e comunità intesi in termini di reciprocità e circolarità. Il dolore delle vittime deve essere un dolore collettivo presente nella vita di ognuno, affinché l’indifferenza non diventi un proiettile letale per chi vive il carcere e per la comunità”. Il presidente dell’associazione “Libera” ha invitato i detenuti a leggere nel giorno della memoria la lista dei nomi delle 1200 vittime innocenti, per continuare a mantenere il ricordo e generare un futuro che si batta per la giustizia sociale. È toccato poi ad Emanuela Sannino, figlia di Palma Scamardella uccisa il 12 dicembre del 1994 all’età di 35 anni a Pianura, vittima di un proiettile destinato a un camorrista: “Mi sono sempre chiesta che senso ha la mia testimonianza, mi piace pensare che la morte di mia madre possa servire per cambiare uno status. Nessuno sceglie dove nascere e l’ho vissuto personalmente. Dopo la morte di mia madre, mio padre non è riuscito a sostenermi, così sono stata affidata a mia zia materna che mi ha permesso di essere la persona che sono oggi. Sono qui perché voglio dare un senso alla morte di mia madre, e mi auguro che voi possiate aiutarmi a credere in questo percorso costruendo ponti di memoria e luoghi di impegno”. Emanuela si è confrontata con un detenuto ristretto nel reparto Mediterraneo a pochi esami dalla laurea in giurisprudenza: “È importante - ha detto quest’ultimo - che noi accettiamo ciò che siamo affinché anche la comunità ci accetti come persone, siamo i primi a discriminare soggetti che compiono determinati reati, dimenticando che gli stessi possono avere ad oggetto vittime se pur non dirette.” I successivi incontri si terranno giovedì mattina nel carcere di Bellizzi Irpino, con le testimonianze di Annamaria Torre, Anna Garofalo e Marco Cillo e poi nel pomeriggio nella casa circondariale di Fuorni, con la chiusura di venerdì a Santa Maria Capua Vetere con 12 studenti delle classi quinte dell’istituto Tecnico Economico Statale Leonardo Da Vinci e le testimonianze di Marzia Caccioppoli, Marilù D’Angelo, e Bruno Vallefuoco. “Ringrazio questi coraggiosi testimoni di giustizia e verità che entreranno nelle carceri, storie pulsanti di vita e di impegno civile, la mafia e la camorra come spesso ci ha ricordato Paolo Borsellino vivono sul controllo sul territorio o si fanno la guerra tra loro con morti e vittime innocenti, o si mettono d’accordo. Le mafie sono più invasive oggi, danno risposte che lo stato spesso non dà. Ai promotori di morte dobbiamo, in tutti i modi, togliere respiro e manodopera”, ha concluso Ciambriello. Sassari. Dalla sanità alla sicurezza, tutti i problemi di Bancali secondo il Garante dei detenuti di Emanuele Floris sassarioggi.it, 16 marzo 2022 Gianfranco Favini interviene in V Commissione sulle criticità del carcere sassarese. Prima audizione per il neo garante dei detenuti di Sassari a distanza di un mese dalla sua nomina. A tenere banco nell’intervento di Gianfranco Favini a Palazzo Ducale, stamattina in V Commissione su invito della sua presidente Virginia Orunesu, sono le criticità riscontrate in ambito sanitario nel carcere di Bancali. “Il personale - accusa il garante - è insufficiente e sono assenti gli specialisti a qualsiasi livello”. Solo sei medici, ventuno infermieri e tre oss per gestire oltre 400 detenuti nella casa circondariale e le loro emergenze di salute. “In più la struttura dispone di un reparto per le esigenze mediche a cui manca l’accreditamento e per questo rimane chiuso”. Dovrebbe essere il Direttore generale della Asl n°1 Flavio Sensi a fare il passo necessario ma, consultato su questa e altre carenze, ha in qualche modo “eluso l’istanza”: “Mi ha risposto che solo il sindaco avrebbe potuto conferire con lui. Lo trovo assurdo e certamente non mi adeguerò. Sensi mi deve ricevere, che gli piaccia o meno. In caso contrario posso rivolgermi all’autorità giudiziaria”. Un ulteriore segnale di un ingranaggio azzoppato è, come riferisce Favini, che sia una dottoressa a dover prendere e portare personalmente i vaccini nella struttura. Ma quel che è peggio è la sofferenza di alcuni detenuti definita “ai limiti della sopportabilità umana”, tanto che lo stesso garante si sta attivando di persona per far operare un uomo malato di tumore. I problemi si estendono poi, oltre agli organici insufficienti della polizia penitenziaria che rendono “difficile la gestione dell’ordine”, anche ad altri aspetti: “Ho visto scarsa pulizia per le scale e i corridoi. E una massa di gatti -oltre 150- che non aiutano a mantenere pulito”. Mancano investimenti e fondi per sopperire a questa e altre difficoltà interne, spiega il professore, che ha poi fatto una fotografia della popolazione carceraria. “La maggioranza sono poveri, con un’età media per gli uomini di 18-50 anni, e per le donne di 25-40”. Persone che avrebbero in particolare bisogno di essere impiegate in qualche attività, strada che Favini sta già percorrendo anche con l’ausilio della storica associazione di Don Gaetano Galia, e dei consiglieri comunali a cui ha chiesto fattiva collaborazione al di là di qualsiasi colore politico. In questo senso esiste già un percorso laboratoriale ideato da Sassari Progetto Comune e alcune iniziative proposte, ad esempio, dalla pentastellata Patrizia Zallu su corsi di computer. Gianfranco Favini promette di perseguire tutte queste direttrici con “determinazione, collaborazione e umiltà” puntualizzando infine: “Il mio compito non è portare sigarette ai detenuti. Io devo far rispettare i loro diritti e doveri”. Pallanza (Vb). Con la pizzeria “galeotta” c’è un lavoro per i detenuti di Beatrice Archesso La Stampa, 16 marzo 2022 La “pizzeria galeotta” è il tassello che si è aggiunto al ristorante sociale Gattabuia attivo al piano terra di Villa Olimpia a Pallanza. Un forno (già in funzione da mesi) e otto soggetti “fragili” da formare professionalmente e inserire nel mondo del lavoro sono le caratteristiche del progetto. “Pizzeria galeotta” è a sua volta frutto di una difficoltà: durante i lockdown dovuti al Covid, anche per Gattabuia occorreva reinventare l’attività e il pizzaiolo Tony, beneficiario di un progetto di inserimento lavorativo, “aveva insistito affinché si riutilizzasse il forno lasciato in eredità dalla precedente gestione - spiega Erika Bardi, referente per la cooperativa Il Sogno che opera nel ristorante sociale del Comune di Verbania -. È stata la scintilla: le sue pizze sono state apprezzate in città e si è pensato a un progetto più strutturato in aggiunta alla riqualificazione della sala”. Corso di cento ore - Si tratta dell’avvio di corsi di formazione di 100 ore per pizzaioli “gourmet”: una proposta “altamente professionalizzante” da poco iniziata e che terminerà a fine maggio coinvolgendo 8 soggetti di cui 4 detenuti beneficiari del regime di lavoro esterno e altrettanti in carico ai servizi sociali. Lo scopo è inserirli a fine corso nel mondo del lavoro (due in Gattabuia e i restanti in altri locali del territorio). La pizzeria sociale è sostenuta con 61.800 euro da Fondazione San Zeno di Verona “per la volontà di mettere in campo opportunità di cambiamento rivolte alla realtà del carcere - dice la direttrice Rita Ruffoli. Perché da Verona sosteniamo Verbania? Se sono bravi a fare i dolci (con la Banda biscotti che pure è un frutto dell’economia carceraria, ndr) sarà così anche per la pizzeria. Battute a parte, crediamo nel lavoro come mezzo di riabilitazione: il 70% di chi lo sperimenta non incappa in recidive. È altresì motivante scoprire di avere talenti”. Conclude Stefania Mussio, direttrice del carcere verbanese: “L’esperienza trentennale mi ha fatto capire che se c’è possibilità di redenzione è con esperienze lavorative e creative offrendo ai detenuti spazi di fiducia che spesso non hanno avuto nella loro vita. Ciò che una persona sarà quando finirà la pena, è questione che riguarda tutti e deve interessare la società: il carcere è un problema sociale da cui non siamo scollegati. Il pregiudizio a volte è pesante, ma la redenzione passa necessariamente da una “riparazione sociale”. Soddisfazione per il vice sindaco di Verbania Marinella Franzetti: “Ci avevamo visto giusto nel 2016 a riaprire la mensa sociale di Villa Olimpia, che con il tempo è cresciuta molto”. Luce sulla “mattanza” nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, due anni dopo di Alessandro Pirovano altreconomia.it, 16 marzo 2022 Luigi Romano, avvocato del foro di Benevento e presidente di Antigone Campania, ricostruisce in un libro quel che accadde nel penitenziario il 6 aprile 2020. Nell’aula bunker del Tribunale casertano, a metà dicembre 2021, è iniziato il processo che vede 108 imputati con accuse gravissime. “La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane” (Monitor edizioni, 2021) è il titolo del recentissimo libro di Luigi Romano, avvocato del foro di Benevento e presidente di Antigone Campania, che ripercorre i tragici fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (CE) il 6 aprile 2020. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare nei dettagli che cosa è successo quel giorno, quando reparti della polizia penitenziaria hanno fatto uscire dalle celle i detenuti e li hanno picchiati con una violenza inaudita. Al punto da far intervenire, dopo la diffusione delle immagini della videosorveglianza interna, avvenuta un anno dopo, anche il presidente del Consiglio Mario Draghi e la ministra della Giustizia, Marta Cartabia che nel luglio 2021 definì la vicenda alla Camera come “una violenza a freddo con un uso smisurato e insensato della forza”. Perché le “violenze e le umiliazioni inflitte ai detenuti a Santa Maria Capua Vetere recano una ferita gravissima alla dignità della persona, pietra angolare della nostra convivenza civile”. Avvocato Romano, quale era stata prima la reazione della politica? Come nel caso delle torture avvenute a Bolzaneto durante il G8 di Genova del 2001, non appariva possibile che le divise dello Stato si fossero comportate in un modo così brutale e avessero adottato condotte fuori dalle regole. Per questo la compagine governativa, almeno fino all’uscita delle immagini, non ha mai espresso una parola di critica, anzi si è schierata in difesa dell’apparato. Il suo libro fa luce proprio su quanto avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Che cosa accadde? Durante la prima settimana di aprile si era diffusa la notizia di un contagio di Covid-19 all’interno delle sezioni del carcere. Oggi come allora è davvero difficile mantenere le norme di profilassi sanitarie all’interno di celle piccole e sovraffollate. In aggiunta mancavano completamente dispositivi di protezione individuali e i detenuti erano entrati così in uno stato di fibrillazione, rifiutandosi di entrare nelle celle e chiedendo un’interlocuzione con la magistratura. Alla protesta dei carcerati è corrisposto uno stato di tensione anche tra le forze di polizia penitenziaria, stressate dall’ulteriore carico di lavoro imposto dalla diffusione del virus. Tutti erano in uno stato di ansia visibile, prodotto da una frustrazione diffusa. Per le forze di polizia, però, era prioritario pacificare le sezioni dei “comuni”, quelle che avevano dato più problemi di gestione sin dall’inizio della pandemia. Sebbene il 5 aprile la situazione nel reparto fosse rientrata pacificamente, la perquisizione straordinaria prevista per il giorno successivo è stata mantenuta. Si è deciso quindi di governare le proteste con la forza e la violenza: la perquisizione è diventata così la “mattanza”. I fatti di Santa Maria Capua Vetere sono avvenuti un mese dopo le rivolte carcerarie più violente in Italia degli ultimi anni. Nel libro suggerisce un legame tra quanto avvenuto a marzo 2020 e la violenza di aprile a Santa Maria Capua Vetere dello stesso anno: può spiegare meglio? A Salerno e Poggioreale le rivolte di marzo sono rientrate senza ricorrere alla violenza. Si è riusciti a governare quanto successo, mentre a Santa Maria Capua Vetere lo stato di tensione costante non è stato risolto e il ripristino dell’ordine interno è stato violento. Era come una pentola a pressione: le tensioni si sono accumulate e sono esplose nella perquisizione che serviva, nell’ottica dei reparti che l’hanno condotta, a tornare a lavorare in tranquillità. Tra gli autori della “perquisizione” del 6 aprile c’è stato il reparto speciale “Gruppo di supporto agli interventi”, istituito in Campania dopo le rivolte del mese precedente. Di che cosa si tratta? È un reparto di supporto senza una particolare formazione. Probabilmente è stato creato per sopperire alle difficoltà che gli istituti penitenziari campani stavano affrontando in quella fase: quando ci sono state le rivolte in alcuni istituti, chi era in servizio chiamava i colleghi per farsi aiutare. Il provveditorato di Napoli ha scelto di istituire quel gruppo di servizio per dare una risposta straordinaria ma permanente agli istituti che ne avessero avuto bisogno. A rendere diverso il caso di Santa Maria Capua Vetere da altri episodi di rivolta all’interno delle carceri italiane è stata l’inusuale dedizione del magistrato di sorveglianza, tornato nell’istituto appena tre giorni dopo le violenze. Che ruolo ha avuto? Un ruolo decisivo. Adoperando i poteri che l’ordinamento penitenziario gli attribuisce, infatti, il magistrato ha ispezionato il carcere, scoprendo quello che era successo nelle ore precedenti. È stato fondamentale perché ha mostrato l’importanza di quei poteri ispettivi previsti dal legislatore nella riforma del 1975: in quell’occasione, eccezionalmente purtroppo, il magistrato ha adempiuto al compito di sorveglianza che le leggi gli riconoscono. Ha fatto il suo dovere, anche in piena emergenza Covid-19, a cui è seguita una altrettanto doverosa informativa da parte sua alla Procura in merito alle condizioni in cui ha trovato i detenuti dopo la “perquisizione”. Non so dire se solamente con le loro denunce saremmo arrivati dove siamo ora. L’informativa del magistrato di sorveglianza ha appunto spinto la Procura a procedere con il sequestro delle immagini del sistema di videosorveglianza dell’istituto, rimasto acceso durante la “perquisizione”. Senza quei video quanto sarebbe stato concreto il rischio che tutto finisse nell’oblio? È una domanda amara che interroga la nostra società. Se da un lato, infatti, le immagini hanno alimentato una sorta di “pornografia mediatica”, dall’altro lato hanno avuto una forza immaginifica tale da rompere il principio di autoconservazione delle istituzioni, che fino ad allora non aveva permesso una messa in discussione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e delle scelte operative fatte nel corso del primo lockdown. Il 16 dicembre 2021 nell’aula bunker del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha preso avvio il processo che vede 108 imputati con accuse gravissime. Qual è la posta in gioco? Attraverso questo processo, attualmente alle fasi preliminari, si potranno accertare le condotte dei singoli durante la perquisizione del 6 aprile 2020 e la veridicità di quanto denunciato in relazione alle responsabilità personali. Il processo di Santa Maria Capua Vetere ha un grande valore simbolico perché sancisce il fallimento di un modello penitenziario in cui è la violenza a far da padrona. Sia come metodo di contenzione sia come strumento di conservazione dei rapporti di forza all’interno di un carcere. Anche lei è coinvolto in prima linea come avvocato difensore del padre di Lamine, ragazzo algerino di 28 anni che si è tolto la vita il 4 maggio 2020 nell’istituto di pena casertano, dopo un mese di isolamento. Nel libro gli dedica un capitolo. La vicenda di Lamine è la storia della marginalità sociale che viene reclusa nei nostri penitenziari. La sua morte costringe a confrontarsi con l’essenza del sistema carcerario: era una persona migrante, soffriva di scompensi psichiatrici, viveva di piccoli reati, proveniva da una terra povera. La sua storia e il suo corpo raccontano il vuoto e l’assenza di garanzie che si possono generare anche all’interno di uno Stato di diritto occidentale. Osservare la guerra con il senso di colpa di Gabriele Romagnoli La Stampa, 16 marzo 2022 Al bar si muore veramente, questa volta? O mentre a qualcuno particolarmente sensibile va di traverso il caffè perché “stanno morendo” prevale il coro che precisa: “Ma non per te”. Come nella canzone di Gianni Morandi del 1970, durante la guerra del Vietnam, esiste in noi che beviamo un aperitivo, andiamo al cinema, facciamo i bagagli per una vacanza un senso di colpa? È lo scrupolo di pochi surclassato dal cinismo di molti o è un sentimento che si sta diffondendo? Come sempre bisogna posizionare l’argomento utilizzando le coordinate temporali e spaziali. Veniamo da un tempo malato. Abbiamo appena messo fuori la testa, seppur parzialmente coperta, ci siamo riaffacciati alla vita che era, riappropriandoci delle serate senza coprifuoco e dei luoghi in cui trascorrerle. Sediamo infine a teatro, allo stadio e dovremmo, proprio adesso, sentirci in colpa perché lo stiamo facendo? Ci sono casi in cui il problema “intanto in Ucraina” viene scavalcato, ma uno striscione ultrà è un caso estremo. Nella media l’inquietudine si profila, come un’ombra sulle luci appena riaccese. È un’empatia reale o di facciata? Lo stolido ascolta il richiamo come il bambino inappetente che non riusciva a capire perché dovesse sforzarsi per rispetto dei coetanei del Biafra. L’avvertito si rende conto, ma sospetta che il cordoglio si risolva in una clausola di stile. Se a fine mese la nazionale italiana di calcio dovesse perdere gli spareggi e non qualificarsi per i mondiali ci si guarderebbe dal parlare di “disastro”. Un’accortezza lessicale, volatile come il mantra del “dobbiamo sentirci privilegiati” che si scarica subito dopo aver solennemente annuito. Ma il tempo, il tempo scorre su tutte le pietre e su tutti i cuori. La partecipazione alla sofferenza altrui ha una curva simile a quella dell’utilità marginale decrescente. Consumandone in grande quantità poi comincia ad esaurirsi. Se davvero, come ha sostenuto un consigliere di Zelensky, ci sono possibilità di accordo, ma non prima di maggio, ci saranno scorte sufficienti per Pasqua? Entra in gioco il fattore spazio. Il senso di colpa di questa parte di mondo per quel che accade in Yemen è praticamente zero. Eppure proprio ieri l’Onu segnalava che il conflitto ha prodotto una catastrofe alimentare portando alla fame acuta già 17 milioni di persone. Lontano, invisibile, già assente dalle rotte turistiche, sfondo di un film di Pasolini, ma nessuna immagine memorabile di bambini in guerra. L’Ucraina è più vicina, basta scavalcare la Polonia e ci siamo. Ci abbiamo giocato contro ai mondiali, Shevcenko, la fatale Anastasiya del caso Sacchi, le gaffe nei programmi televisivi del pomeriggio: è riconoscibile, ci tocca. Non era ancor più vicina la ex Jugoslavia? Certo, ma quello era un conflitto localizzato, non generalizzabile. Una frantumazione, non un tentativo di espansione. Non implicava una potenza in grado di arrivare ovunque, una minaccia della storia che ci concerne, la Russia. L’indifferente ai valori universali, quello per cui l’annientamento della libertà di uno non vale per tutti, può pensare che quanto accade a Kiev non lo riguardi, tuttavia sa di poter essere coinvolto. Non è la sua guerra, non nel suo nome, ma lo può diventare senza che si alzi da tavola e il suo nome può essere cancellato. Ecco allora che, sospinta dalla paura, quella presenza si insinua: un retrogusto nel caffè, il timore di partire e non godersela, la risata che non scoppia in sala perché non è il momento di programmare film comici. “Stanno sparando” “Ma non a te”. Non adesso. Pensarlo è anche un modo per tentare di scongiurarlo. Il senso di colpa più profondo, quello inestirpabile, appartiene ai sopravvissuti a una tragedia. Agli spettatori, agli sfiorati s’addice il rispetto. Ma pace e pacifismo sono cose diverse di Michela Marzano La Stampa, 16 marzo 2022 “Una cosa che ho capito in guerra è che nell’uomo non c’è granché di umano, se non ha niente da mangiare diventa crudele, se le cose gli vanno male diventa crudele. Ma allora cosa gli resta di umano?”. A scriverlo è Svetlana Aleksievic, giornalista e scrittrice bielorussa, premio Nobel per la letteratura nel 2015. Nata in Ucraina, Aleksievic, la guerra, la conosce: l’ha vissuta, l’ha osservata, l’ha raccontata. E a chi le chiede cosa pensi della violenza, non smette di ripetere che l’odio non salva, e che l’unica speranza per il mondo risiede nell’amore. La scrittrice, però, non si fa illusioni né sulla natura umana né, tantomeno, sulla realtà dei conflitti. Invoca la pace, ma non si perde nei meandri delle speculazioni astratte e utopiche di coloro che, partendo dall’errato presupposto che gli esseri umani siano in fondo buoni, restano poi paradossalmente sordi di fronte al grido di dolore delle vittime della guerra. La pace non coincide con il pacifismo. La pace non è sempre e solo assenza di conflitti. La pace è anche e soprattutto “l’opera della giustizia”, come scriveva il profeta Isaia. E quando si è di fronte all’ingiustizia dell’oppressione violenta, l’uso della forza diventa una difesa legittima. È giusto che il popolo ucraino resista all’invasione. Esattamente come è giusto (oltre alle sanzioni contro Mosca) inviare armi affinché gli ucraini possano difendersi. Anch’io odio la guerra. Anch’io odio la violenza. Anch’io odio l’oppressione. Odio persino l’aggressività che precede oppressione, violenza e guerra e che, però, facendo intrinsecamente parte della natura umana, non potrà mai essere del tutto cancellata. Ma odio anche l’estrema ipocrisia di chi, in nome della pace, rifiuta di immergersi nella realtà di questi giorni. Eppure, Hannah Arendt ci aveva messo in guardia contro ogni forma di riflessione disincarnata, e ci aveva spiegato che è sempre e solo partendo dagli eventi che il pensiero si incarna e diventa fecondo. “Io credo che il pensiero stesso nasca dai fatti dell’esperienza viva e debba rimanervi legato come agli unici segni indicatori validi per la propria ispirazione”, aveva scritto la filosofa nel 1961, spiegando come, per lei, tutto era cambiato il 27 febbraio del 1933 (il giorno dell’incendio del Reichstag), e come fosse vano filosofare dall’alto di una torre d’avorio. E allora perché ci si continua ad allontanare dalla realtà e a pretendere, ad esempio, che non è vero che la pace o la libertà, talvolta, le si conquistano combattendo? Com’è che c’è ancora chi sostiene che sia possibile mettere un termine alla guerra dialogando con chi il dialogo non lo vuole, oppure lo vuole ma solo a patto che si accettino i presupposti della propria propaganda spingendo magari l’Ucraina ad accettare la resa? Questa guerra, così come tutte le altre guerre - anche quelle più lontane cui non si è voluto (o potuto) prestare attenzione - è fatta di carne e sangue e morte. È fatta di milioni di profughi e di bambini orfani e terrorizzati. Milioni di persone che, anche senza aver preso direttamente parte ai combattimenti, sono traumatizzate, e che l’Europa tutta intera dovrà non solo accogliere, ma anche accompagnare. Che cosa pensate che possa provare un bambino che ha perso i genitori, o ha assistito al bombardamento della propria casa o della propria scuola, o ha dovuto correre a rifugiarsi sottoterra per scappare dalle bombe? Pensate davvero che, una volta diventato adulto, possa amare la pace (o anche solo amare) oppure intuite (ma per il momento preferite ignorare) che rischia di non poter fare altro che odiare chi lo ha costretto all’esilio o lo ha reso orfano, alimentando a sua volta altre guerre? Cosa siamo concretamente disposti a fare per queste donne e questi bambini oppure per chi, in Ucraina, resiste e combatte? Possiamo accontentarci di aver paura (o di farci paura) immaginando che l’alternativa secca di fronte alla quale ci troviamo sia quella tra il sacrificio dell’Ucraina e lo scoppio di una guerra atomica? Oppure siamo pronti a rinunciare al gas russo, anche se questo dovesse comportare da parte nostra ulteriori sforzi (riscaldarci meno, produrre meno, illuminare meno, ecc.)? Non comprare più il gas russo significherebbe smettere di finanziare questa guerra insopportabile e aiutare concretamente l’Ucraina. Molto di più di quanto non si faccia sventolando il fantasma di una terza guerra mondiale. Molto più che le parole belle di chi, rifiutando di schierarsi, lascia di fatto ad altri l’onere di sporcarsi le mani. La follia della guerra negli sguardi delle “doppie” vittime di Massimiliano Signifredi Il Domani, 16 marzo 2022 “Trovandomi qui, in questo luogo, vicino a questo cimitero, trovo da dire soltanto: la guerra è una follia. La guerra stravolge tutto, anche il legame tra i fratelli. La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione”. Queste le parole di Papa Francesco al Sacrario militare di Redipuglia, visitato nel 2014 per ricordare il centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale e per ricevere il foglio matricolare del nonno Giovanni, soldato nelle trincee tra il Piave e l’Isonzo. Lo ha ripetuto all’Angelus di una settimana fa, di fronte al dramma della guerra in Ucraina: “La guerra è una pazzia”. Del resto, cos’altro hanno potuto pensare quei 50 ucraini, che il 20 febbraio sono partiti per una crociera sul Nilo e che, dopo una settimana di vacanza extra, sono stati sbarcati da un aereo in Polonia? Destinazione Chojna, estremo lembo di Polonia sull’Oder, quasi 1.000 km dalla frontiera con l’Ucraina. In questa cittadina i “turisti”, provenienti da Kiev e Kharkiv, sono stati accolti dalla Comunità di sant’Egidio, che all’inizio dell’emergenza rifugiati ha allestito, in collaborazione con la sindaca, un centro di accoglienza in una scuola dismessa: 57 posti letto, ma anche un’area giochi per bambini e due aule per i corsi di polacco, tenuti in collaborazione con altri ucraini, oramai integrati grazie alla scuola di lingua e cultura polacca di sant’Egidio, che hanno frequentato gli anni scorsi. La “nostra” vita - “Sono atterrati a Stettino e sono stati trasportati qui in pullman - racconta la responsabile Beata Junosz - molti avevano indosso ancora bermuda e t-shirt, le valigie piene di panni sporchi e souvenir. Quando gli abbiamo spiegato dove sta Chojna, ad alcuni veniva da piangere, ad altri da ridere. E anche a noi”. Perché siamo tutti uguali e ci siamo immedesimati nei profughi ucraini, che - ha scritto Marco Impagliazzo - sono “persone che fino a due settimane fa facevano una vita normale - la “nostra” vita”“. Stando in Polonia da più di una settimana, ricevo ogni giorno decine di messaggi o email che mi segnalano le emergenze più complicate: orfanotrofi da evacuare, pazienti in dialisi in fila alla frontiera, anziane sole desiderose di ricongiungersi alle figlie, badanti in Italia. Tra le tante segnalazioni - nessuna differibile - una merita di essere raccontata. “Ciao Max, scusami se ti disturbo per un’urgenza. Alla Sapienza c’è una ragazza di Kiev, in Erasmus, che ha il conto in una banca russa e ora le è impedito qualsiasi prelievo o pagamento, compreso quello per l’affitto. La mamma e la zia sono arrivate in Italia, da Kiev, perché la casa è stata bombardata. Cosa si fa in questi casi? A chi rivolgersi?”. Come aiutare chi è colpito contemporaneamente dai bombardamenti e dalle sanzioni di questa folle guerra? In questi giorni ho scoperto altre vittime doppie. Al ristorante Skamiejka, presentato sui social come “un angolo di anima russa a Varsavia”, da giorni arrivano telefonate con insulti e cattive recensioni sui siti specializzati. E quasi nessun cliente. “Se va avanti così, dovrò licenziare i dipendenti, che sono quasi tutti ucraini”, ha detto la proprietaria del ristorante, russa, che tuttavia è oramai rassegnata alla crescita di sentimenti ostili nel paese dove ha scelto di vivere e lavorare. D’altronde, non sono solo sentimenti diffusi a livello popolare, ma anche fra tanti professori, giornalisti, imprenditori, che - davanti alla marea umana di oltre un milione e mezzo di rifugiati, 250mila solo nella capitale - non credono più nella possibilità di una soluzione negoziale e contano solamente sulle armi della Nato. La solidarietà polacca - Ma c’è anche e soprattutto la Polonia, semplice e generosa. “La più grande ong del mondo” recitava un meme di questi giorni, quasi una riedizione del celebre verso di Potocki, “la Polonia si regge sul non governo”. Non si tratta di discettare sull’anarchismo polacco, ma constatare che i polacchi reggono grazie una mobilitazione sorprendente, nonostante l’ardua collaborazione tra ministri, prefetti e sindaci, non solo per motivi politici contingenti, ma anche perché, come recita un altro adagio locale, “dove ci sono due polacchi, ci sono tre opinioni”. Qui sta avvenendo una cosa mai vista in Europa, per lo meno dalla fine della Seconda guerra mondiale. Cittadini, che per far posto a una famigliola ucraina dormono in corridoio. Parroci che hanno aperto le porte delle loro canoniche, fino a poco fa sigillate come fortezze. Volontari di ogni età e condizione sociale che, dopo la scuola o il lavoro, si riversano nei centri di accoglienza con ogni sorta di cibaria o mercanzia da offrire gratuitamente. E il clima, nonostante tutto, è sereno e quasi festoso: un’ordinata confusione, perché i polacchi quando si auto organizzano dal basso danno il meglio di sé e sono insuperabili, un po’ come al tempo di Solidarno??. Reggeranno? C’è bisogno di sostegno, prima che questa euforia deperisca o devii pericolosamente. Alla scuola della pace di sant’Egidio a Varsavia, Talwasa, di 12 anni, ha disegnato la bandiera ucraina accanto a quella russa, spiegando agli amici polacchi (piccoli e grandi) che “per fare pace bisogna essere in due”. In Polonia Talwasa è arrivata coi genitori e i fratellini lo scorso agosto da Kabul. Bisogna fidarsi di questi maestri, che la guerra l’hanno vista e la conoscono, e ripetere con papa Francesco: “La guerra è una pazzia! Fermatevi, per favore! Guardate questa crudeltà!” Buon anniversario di pontificato, papa Francesco! Era proprio ieri. Ti e ci auguriamo che il mondo ti ascolti. Russia. Kamikaze della parola di Massimo Gramellini Corriere della Sera, 16 marzo 2022 Dal mio comodo sgabello italico non riesco nemmeno a immaginare che cosa significhi essere Marina Ovsyannikova, la giornalista russa con due figli adolescenti, quindi con moltissimo da perdere, che nel pieno di una guerra decide di compiere il gesto meraviglioso e scriteriato di irrompere nel Tg della sera con un cartello che inneggia alla pace e smaschera le bugie del regime. Criticare Putin a casa sua sembrerà provocatorio a chi non ha il coraggio di criticarlo nemmeno a casa nostra. Ma Marina ha fatto di più. Questa “kamikaze” della parola ha registrato un video in cui, anziché vantarsi del suo ardire, ha chiesto scusa ai connazionali per avere propinato loro per anni un sacco di panzane. E invece di esortare la resistenza ucraina ad arrendersi in nome della pace, come propugnano certi neutralisti nostrani, proprio in nome della pace ha esortato i russi a protestare contro il despota, “perché non possono rinchiuderci tutti”. Intanto è possibile che, dopo il processo, rinchiudano lei, a lungo. E il giorno benedetto in cui Putin cadrà nella polvere non è certo alle inaffidabili come Marina che daranno la direzione del Tg: le preferiranno qualche voltagabbana dell’ultimissima ora. Però che donna, che giornalista, e che fegato. Gridare “pace” da qui, mettendo il Cremlino e l’Ucraina sullo stesso piano, è da sofisti. Ma gridare “pace” da lì, rivelando il nome dell’assassino, è da teppisti, come ha detto il portavoce di Putin. In altre parole, da eroi. Russia. Marina incendia la rivolta, i reporter scaricano Putin di Anna Zafesova La Stampa, 16 marzo 2022 Dopo la protesta della redattrice di Canale Uno intere redazioni si dimettono. Multata dopo 14 ore di interrogatorio: “Non possono arrestarci tutti”. Quando è apparsa, nello studio del telegiornale serale principale della Russia, sembrava talmente impossibile che molti hanno pensato a un fotomontaggio, a un hackeraggio di Anonymous, a uno scherzo surreale, e sui social ieri girava l’ipotesi complottista che fosse un fake, un’operazione di depistaggio per mostrare che in Russia c’è la libertà di parola. Ma Marina Ovsiannikova è vera, è viva, e riemerge dopo quasi 24 ore in cui nessuno sapeva dove si trova come la donna più amata e cliccata della Russia. È stata ringraziata da Volodymyr Zelensky, che ha lodato in russo i cittadini del Paese nemico che protestano contro la guerra, è già stata portata ad esempio da Alexey Navalny, che nel suo ultimo discorso al processo che dovrebbe condannarlo ad altri 13 anni di carcere la chiama “splendida” e dice che le sue parole sono “le più importanti”. Emmanuel Macron le ha offerto il suo aiuto e ha detto che parlerà di lei a Vladimir Putin, in una delle loro prossime interminabili telefonate negoziali. È l’eroina, la destinataria dei cuoricini, la ragazza che ha ridato dignità a tutti i russi che hanno paura ad alzare la voce, e creato il più grande imbarazzo per il Cremlino dove - dicono i canali Telegram che pubblicano i pettegolezzi del potere russo - lunedì sera le luci erano rimaste accese fino a tardi, in lunghe riunioni per decidere il suo destino. Il gesto di Marina è stato di quelli con i quali si entra nella storia in 10 secondi: si è alzata dalla sua scrivania nello studio del telegiornale del Primo canale, mentre la ieratica conduttrice del regime Ekaterina Andreeva raccontava delle misure del governo per reagire alle sanzioni internazionali, e si è messa alle sue spalle con un cartello che recitava: “No war. Fermate la guerra. Non credete alla propaganda. Qui vi dicono bugie. Russians against the war”. Sembrava un film, e Marina è stata arrestata soltanto all’uscita dallo studio, dopo che i suoi colleghi si sono ripresi dallo choc. Subito dopo si è scoperto che la redattrice del Primo canale tv, la roccaforte della propaganda di regime, aveva registrato prima di compiere il suo gesto un video in cui spiegava le ragioni della sua protesta. Figlia di padre ucraino e madre russa, ha dichiarato che “la guerra in Ucraina è un crimine”, ha chiesto scusa per aver collaborato alla propaganda che “ha trasformato i russi in zombie” e ha lanciato l’appello a scendere in piazza per protestare: “Siamo rimasti troppo silenti, anche quando hanno avvelenato Navalny, ma non possono metterci dentro tutti”. Parole impensabili nella Russia di oggi, anche se diverse voci di corridoio dicono che le star della propaganda televisiva si stanno licenziando già da due settimane. Zhanna Agalakova, per anni conduttrice del tg e corrispondente della tv di Stato da Parigi, ha confermato di aver rassegnato le dimissioni: “Il motivo mi sembra evidente, ora divento libera”, ha detto al giornale online d’opposizione Meduza. Intere redazioni stanno seguendo il suo esempio, mentre altri giornalisti e redattori si danno malati o assenti. Ivan Urgant, il popolarissimo conduttore di un varietà serale, è scappato con la famiglia in Israele dopo aver protestato contro la guerra ed essersi visto sospendere la trasmissione. Un’altra defezione clamorosa dal palinsesto è quella della trasmissione del sabato di Sergey Brilyov, per anni intervistatore di Putin, che secondo alcune voci si sarebbe licenziato. Brilyov era stato scoperto da Navalny in possesso di un passaporto britannico, e la sua defezione confermerebbe il desiderio di molti fedelissimi del regime di abbandonare un Cremlino in crisi e una Russia che in pochi giorni è diventata povera e isolata dal resto del mondo, per godersi le case e i conti all’estero, prima di venire colpiti da eventuali sanzioni. “Non è una buona notizia, questi propagandisti verranno sostituiti da altri più assetati di sangue”, scrive Aleksandr Gorbunov, il blogger oppositore conosciuto con lo pseudonimo di StalinGulag. Ma è comunque il segno di un regime che si sta sgretolando. Proprio per questo la decisione di una punizione esemplare per Marina Ovsiannikova sembra non essere ancora stata presa. La redattrice del Primo canale è stata rilasciata dopo un interrogatorio di 14 ore, e una multa di 30 mila rubli (circa 200 euro al cambio attuale) per aver pronunciato un “appello a manifestazioni non autorizzate” nel suo video. La sua apparizione nello studio del telegiornale sembrava venisse qualificata come un “atto di teppismo”, anche perché in una riunione notturna dei capi dei servizi di sicurezza si sarebbe deciso di sminuire il suo gesto e farla passare come una ragazza in cerca di celebrità. Ma il presidente della Duma Vyacheslav Volodin ha chiesto una “punizione esemplare”, invocando “la severità del momento”, e Marina potrebbe sperimentare i rigori della nuova legge sul “discredito delle forze armate”, che promette fino a 15 anni di carcere in caso di “conseguenze gravi”. All’uscita dal commissariato di polizia Marina era attesa dai migliori avvocati moscoviti pronti a difenderla, e a esigere clemenza per una madre di due figli. Ma lasciare correre significherebbe incoraggiare altre proteste tra le migliaia di persone che oggi si mandano il filmato di Marina che agita il suo manifestino in diretta nazionale. Uno schiaffo che il Cremlino difficilmente può permettersi di perdonare. Russia. La procura chiede di condannare Navalnyj ad altri 13 anni di carcere di Rosalba Castelletti La Repubblica, 16 marzo 2022 La requisitoria al termine del processo per “frode” e “oltraggio alla corte” iniziato a metà gennaio. L’oppositore sopravvissuto miracolosamente all’avvelenamento, arrestato un anno fa, sta già scontando due anni e mezzo di detenzione per un vecchio caso giudicato “politico” dalla Corte Ue. Nell’ambito del processo per “frode” e “oltraggio al tribunale”, la procura russa ha chiesto altri 13 anni di carcere per l’oppositore Aleksej Navalnyj che sta già scontando una pena di due anni e mezzo di reclusione. “Chiedo che venga inflitta una pena detentiva di 13 anni”, ha detto la pm Nadezhda Tikhonova, chiedendo anche una sanzione di “due anni di limitazione della libertà” e una multa da 1,2 milioni di rubli (9.500 euro al tasso di cambio attuale) e di trasferire l’ex avvocato in un carcere di massima sicurezza. Dopo essere stato avvelenato con l’agente nervino Novichok nell’agosto 2020, Navalnyj era stato trasferito in coma in Germania, dove è stato curato. Pur sapendo di rischiare l’arresto, nel gennaio 2021 è rientrato a Mosca dove è stato fermato non appena atterrato e poi condannato a due anni e mezzo di carcere per un vecchio caso di “frode” risaltente al 2014 e giudicato politico anche dalla Corte europea. Dal 16 febbraio Navalnyj è sotto processo all’interno delle mura della sua colonia penale a 100 chilometri a Est di Mosca con l’accusa di aver sottratto milioni di rubli dalle donazioni alle sue organizzazioni anticorruzione e di “oltraggio alla corte” in una delle precedenti udienze. Nel giugno 2021 tutte le organizzazioni a lui legate sono state qualificate come “estremiste” (etichetta affibbiata ad esempio alle organizzazioni terroristiche), decisione che ha portato alla loro messa al bando e all’incriminazione dei suoi più stretti collaboratori oggi in esilio. Siria. Dopo undici anni di conflitto resta la più grande emergenza profughi al mondo di Paolo Pezzati* Il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2022 Il 15 marzo di 11 anni fa è cominciato in Siria uno dei più drammatici conflitti dal dopoguerra che, scomparso dal dibattito pubblico, continua a fare vittime. Pure la condizione dei rifugiati ospitati nei paesi confinanti, salvo alcune eccezioni, è forse peggiore ora rispetto a dieci anni fa. Con quasi 400 mila vittime la Siria - come ci ricordano le Nazioni Unite nell’ultimo Humanitarian Needs Overview, appena pubblicato - resta un’emergenza umanitaria complessa e dalle conseguenze a lungo termine, tra cui la distruzione diffusa delle infrastrutture civili, la contaminazione da ordigni esplosivi e il maggior numero di sfollati interni al mondo (6,9 milioni). Con il crollo dell’economia siriana il 60% della popolazione, tra cui mezzo milione di bambini, è alla fame. Più di dieci anni di crisi hanno inflitto immense sofferenze alla popolazione civile che è stata vittima di massicce e sistematiche violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani. Più recentemente l’accelerazione del deterioramento economico e gli impatti dei cambiamenti climatici sono diventati sempre più fattori chiave aggiuntivi dei bisogni, aggravando ulteriormente le vulnerabilità. Nel 2022 14,6 milioni di persone avranno bisogno di assistenza umanitaria, con un aumento di 1,2 milioni rispetto al 2021. In particolare quello che preoccupa è l’aumento della malnutrizione, specialmente quella infantile: sono circa 553 mila i bambini cronicamente malnutriti, la metà in modo grave. In tutto il paese il 60% della popolazione, 12,4 milioni di persone, è alla fame. Anche in termini di sicurezza la situazione sta peggiorando: mentre l’accordo di cessate il fuoco di Idlib del marzo 2020 ha portato a una riduzione generale delle ostilità e degli sfollamenti su larga scala, le ostilità si sono intensificate nel corso del 2021 lungo le linee del fronte nel nord-ovest, nord-est e sud del paese aggiungendo ulteriori 1.874 vittime civili, 636 dei quali bambini (nei soli primi nove mesi). Giordania e Libano ospitano più del 10% dei rifugiati dell’intero pianeta. “Anche nei paesi confinanti la situazione rimane difficile” - mi racconta Nickie Monga, la nostra direttrice in Giordania, in questi giorni in Italia per una serie di incontri istituzionali. “Come in Giordania e in Libano che, pur rappresentando solo l’1% dell’economia mondiale, ospitano più del 10% dei rifugiati dell’intero pianeta. Queste percentuali se riportate alla popolazione delle due nazioni danno l’idea dell’impatto che possono avere nella gestione della vita pubblica: i soli siriani in Giordania rappresentano il 10% della popolazione mentre in Libano il 22%”. Il tema dell’accoglienza è sempre stato molto delicato sia per motivi storici che congiunturali, quali le condizioni economiche che stanno vivendo i due paesi: il Libano praticamente in default, la Giordania che con una popolazione under 30 del 70% registra una disoccupazione giovanile del 54%. Garantire un reddito ai rifugiati in uno dei più grandi campi profughi al mondo. La Giordania, pur all’interno di un approccio che non prevede la permanenza dei siriani sul proprio territorio, ha provato a gestire l’impatto che tali flussi avrebbero avuto nell’economia e sul mercato del lavoro. Ha così trovato un accordo con la comunità internazionale, volto a sostenere i cittadini giordani e l’economia nel suo insieme, oltre che l’ospitalità di un così grande numero di rifugiati. Ciò riguarda anche tutti quei rifugiati che vivono nei campi, come ad esempio a Zaatari, il più grande del paese e il più grande al mondo per numero di siriani. “Oxfam ha distribuito acqua pulita e costruito servizi igienico-sanitari in modo culturalmente appropriato anche ai bisogni dei più vulnerabili e rispettando esigenze di genere” - continua Nickie Monga - “ma il progetto più interessante riguarda la gestione dei rifiuti solidi urbani: raccogliamo la spazzatura, manteniamo le strade pulite e ricicliamo. Ogni giorno diamo lavoro a 600-800 rifugiati, abbiamo due strutture di riciclo che ci permettono di rivendere i materiali al mercato, ma soprattutto portiamo le persone fuori dal proprio rifugio, vincendo in alcuni casi pregiudizi o stereotipi”. La comunità internazionale non può dimenticare milioni di profughi. Ora più che mai occorrerebbe un sostegno della comunità internazionale ai paesi confinanti che ospitano i rifugiati siriani. Ma prima di tutto serve la pace, che non è la semplice assenza di violenza ma anche protezione e un futuro dignitoso per chi torna in Siria. Purtroppo il contesto internazionale precipitato nella guerra in Ucraina non fa ben sperare. In questo momento le sanzioni sulla Russia stanno avendo un effetto dirompente sulla popolazione e hanno provocato l’interruzione delle importazioni di cibo e carburante, con la sterlina siriana che si sta svalutando a una velocità vertiginosa. Il Governo ha già iniziato il razionamento di grano, zucchero, riso e carburante, annunciando così tempi ancora durissimi per questa porzione di Medio Oriente. *Policy Advisor Oxfam Gran Bretagna. Julian Assange a un passo dall’estradizione negli Usa di Leonardo Clausi Il Manifesto, 16 marzo 2022 WikiLeaks. La Corte suprema inglese nega il ricorso. Ora manca solo la ratifica della ministra Patel. Amnesty: “Un duro colpo per la giustizia, un pericoloso precedente”. “È un duro colpo per Julian Assange e per la giustizia. La Corte Suprema ha perso un’occasione per chiarire l’accettazione da parte del Regno Unito di assicurazioni diplomatiche profondamente errate contro la tortura. Tali assicurazioni sono intrinsecamente inaffidabili e lasciano le persone a rischio di gravi abusi in caso di estradizione o altro trasferimento”. È l’incipit del comunicato stampa rilasciato ieri da Amnesty International sulla sentenza della più alta corte del Regno Unito emessa lunedì che ha negato la possibilità di appello al fondatore di WikiLeaks contro una decisione che ne consentisse l’estradizione negli Stati uniti perché non c’erano argomenti sostanziali in materia di diritto. Gli avvocati di Assange avranno quattro settimane per presentare osservazioni e obiezioni alla ministra dell’Interno Patel prima della sua decisione. Vi sarebbero altre vie superstiti per combattere la sua estradizione/deportazione. Si concentreranno su altre questioni di diritto sollevate dalla sentenza in primo grado che ha perso e che non sono ancora state oggetto di appello. Il team legale di Assange ha anche indicato che potranno presentare ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Resta il fatto che l’attivista e giornalista australiano fondatore di Wikileaks è ormai a un passo dall’essere estradato, la sua sorte è ora nelle mani della leggendaria ministra dell’Interno Priti Patel, che non desidera altro che ratificare la sentenza per chiuderlo in una galera a stelle e strisce (e perché non la stessa Guantanamo che lo stesso Obama doveva chiudere nel 2009 come prima azione del suo doppio mandato?). Continua il comunicato di Amnesty: “La richiesta che stati come il Regno Unito estradino degli individui per la pubblicazione di informazioni riservate che sono nell’interesse pubblico costituisce un pericoloso precedente e deve essere respinto. Gli Stati uniti dovrebbero ritirare immediatamente le accuse contro Julian Assange”. L’Alta Corte aveva stabilito nel dicembre 2021 che Assange poteva essere estradato, sulla base delle presunte promesse degli Stati uniti di salvaguardarlo in prigione. Avevano assicurato per iscritto che, se estradato, Assange non sarebbe stato rinchiuso in un carcere di massima sicurezza o sottoposto a misure amministrative speciali; e avrebbe ricevuto un’assistenza sanitaria adeguata. L’isolamento prolungato è una caratteristica fondamentale di molti prigionieri nelle carceri di massima sicurezza statunitensi e ai sensi del diritto internazionale costituisce tortura bella e buona. Gli Usa hanno promesso di non infliggere ad Assange tortura alcuna ma è perfettamente ipotizzabile che, approfittando dell’attenzione internazionale rivolta altrove, tale promessa sia bellamente disattesa. Com’è ben noto, le autorità nordamericane volevano da tempo mettere le mani addosso ad Assange per aver fondato di Wikileaks, un sito web che nel 2011 aveva pubblicato notoriamente una serie di file riservati del governo degli Stati uniti che rivelavano documenti delle guerre liberaldemocratiche in Afghanistan e Iraq (quelle che nemmeno vagamente suscitarono lo sdegno vibrante degli editorialisti nostrani pur avendo ammazzato dieci volte tanto) insieme a filmati militari di vittime civili dalle operazioni statunitensi. In seguito al coinvolgimento di Wikileaks, Assange aveva trovato rifugio in diversi paesi, inclusa la Svezia, dove aveva dovuto affrontare accuse di stupro (poi quasi del tutto smontate) da parte dell’autorità giudiziaria svedese prima di trovare rifugio in Inghilterra, nella famigerata sede diplomatica dell’Ecuador. E lunedì, nel bel mezzo del macello ucraino, quella che sarebbe stata una notizia a dir poco eclatante è stata infilata sotto al tappeto dello sdegno universale per il mortifero imperialismo russo scatenato nelle ultime settimane. Assange deve, materialmente, la sua sventura all’invasione putiniana. Essenzialmente, al vendicativo umanitarismo a orologeria yankee. Difendere Assange, fino all’ultimo respiro di Vincenzo Vita Il Manifesto, 16 marzo 2022 Purtroppo, la Suprema Corte britannica ha confermato la sentenza di appello favorevole all’estradizione negli Stati Uniti del cofondatore di WikiLeaks Julian Assange. La difesa del giornalista australiano aveva ottenuto di poter fare ricorso contro le decisioni prese dal tribunale. Ma, con tale orientamento, ormai la procedura è agli sgoccioli. La parola fine sarà messa dalla magistrata, che pure aveva dichiarato inizialmente impraticabile la misura chiesta dagli Usa per motivi di salute. La giudice Vanessa Baraister rimetterà il dossier alla dura ministra degli Interni conservatrice Priti Patel. Poco più di una formalità. Il temuto viaggio di Assange oltreoceano potrebbe essere senza biglietto di ritorno. L’accusa, in base ad una legge sullo spionaggio del 1917, ha chiesto 175 anni di reclusione. Una condanna a morte di fatto attende l’imputato, che ha trascorso sette anni da rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra e altri tre nel penitenziario londinese di Belmarsh, la Guantanamo inglese. Come hanno denunciato Amnesty International, Reporters Sans Frontiers insieme a tanti attivisti civili, si tratta di una vera e propria persecuzione o persino, secondo l’inviato speciale delle Nazioni Unite Nils Melzer, di una tortura. Tanto che gli psichiatri hanno parlato di rischio suicidario. Forse si proverà a portare la vicenda alla Corte internazionale dei diritti umani, ma il quadro sembra proprio compromesso. Non è possibile, però, eludere l’incredibile contraddizione con ciò che osserviamo in questo orribile periodo di guerra. L’informazione è monca, soggetta ad attacchi e repressioni. Dall’inizio della aggressione russa all’Ucraina quattro cronisti e fotoreporter sono stati uccisi e trentacinque feriti: cifre verosimilmente in difetto. I corrispondenti sono stati in gran parte ritirati, a partire da quelli della Rai. A Mosca chi dissente o scrive qualcosa di poco gradito va in carcere con pene che raggiungono i quindici anni. Internet è limitato e i social sono bloccati. Un preoccupante conformismo pervade le testate, con le debite eccezioni. Che Putin sia l’artefice del conflitto è indubbio, ma il ventre molle dei media sembra riprendere l’antica navigazione con la bussola della Nato. L’effetto collaterale è il velo steso sulla realtà, che ci arriva con l’esibizione delle immagini (persino bambine e bambini, contro ogni regola deontologica) spesso poco sorrette dal racconto. Insomma, l’informazione è prevalentemente embedded, al di là del tempo fluviale - il 75% dei titoli dei telegiornali, oltre alla strisciata permanente dei talk- dedicato alle manovre belliche. Ecco perché la sorte di Assange stride con la normalità delle censure e delle autocensure. WikiLeaks è sul banco dell’accusa proprio per la scelta coraggiosa di rompere ogni omertà, mostrando i crimini perpetrati nelle occupazioni dell’Iraq e dell’Afghanistan dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Sotto la superficie non si deve andare, tuonano i potenti responsabili dei misfatti. Il segreto è una componente cruciale del dominio e la comunicazione è a sovranità limitata nel capitalismo della sorveglianza. Assange è il capro espiatorio di una vendetta contro chi ha osato varcare la linea d’ombra. La cinica cerimonia è un ammonimento. Stiano attenti, questo è il messaggio, coloro che esigono di essere rispettati nel lavoro difficile di cronisti della verità. E se si muore o si è oltraggiati nel corpo non conta. La guerra è intangibile e guai a chi si oppone. Non per caso l’accusa a WikiLeaks, malgrado le notizie esplosive siano state utilizzate da importanti quotidiani fino a quando ha fatto comodo, è di spionaggio. Questo è stato l’artificio adoperato per non incorrere nel primo emendamento della Costituzione di Washington, che considera sacrale la libertà di espressione. Il prossimo 23 di marzo Julian Assange si sposerà con la compagna - avvocata - Stella Morris. Signor Presidente Mattarella, con la sensibilità che la contraddistingue, interpelli con la sua moral suasion l’omologo Joe Biden affinché conceda la grazia per riparare ad un’ingiustizia. Un bel regalo di nozze.