Il volontariato e le parole per dirlo di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 15 marzo 2022 Le parole sono importanti. Sempre e comunque, in tutte le relazioni umane. Servono a capirsi o a confliggere, a rispettarsi o a offendersi. Credo che troppo spesso il volontariato nell’ambito della giustizia - già di per sé complicato e delicato - sia svalorizzato dalle stesse istituzioni che ne hanno bisogno almeno quanto le persone sottoposte a esecuzione penale. Quante e quante volte mi sono trovata a tavoli di lavoro a cui erano seduti dottori e dottoresse ma, quando era il mio turno, ero sempre la signora Tal dei Tali volontaria. Quindi, in un contesto in cui la precisione dei termini è quasi maniacale, tu ti ritrovi a essere identificata soltanto nel tuo ruolo di volontaria/o. Perché? È un modo per rimarcare la forza dei ruoli istituzionali e relegare in una posizione giusto un po’ subalterna la persona che si impegna gratuitamente a favore della comunità detenuta o condannata a una pena extra - muraria? È tanto tempo che cerco di capire il senso, o meglio faccio finta di non capire il senso. Ma quando leggo un’impugnazione della Procura di Reggio Emilia che mi definisce “una mera volontaria” mi dico che forse sarebbe utile cercare parole nuove, un pochino più rispettose. Rido con l’amica di sempre ma sono amareggiata, molto amareggiata e parecchio seccata. Controllo sul vocabolario il significato del termine “mero” e trovo che viene preposto al sostantivo per ridurne il significato ai suoi limiti più propri e oggettivi. Bé, insomma, non esageriamo! Certo che sono una volontaria - quando e dove ritengo che ne valga la pena - ma fortunatamente sono abbastanza certa di essere anche tante cose, di avere tante competenze che mi sono costate impegno e fatica, che non desidero ostentare (quanta volgarità trovo in certe ostentazioni) ma che fanno profondamente parte della mia persona e che di volta in volta decido di spendere gratuitamente per qualcosa o meglio qualcuno per cui ritengo valga la pena. E mai e poi mai mi sentirei di riferirmi a qualsiasi persona come un “mero magistrato”, un “mero legale” o un “mero detenuto”. È una questione di rispetto, credo. *Giornalista, responsabile della redazione di Ristretti Parma Cartabia: “Le pene che dobbiamo infliggere non danno mai soddisfazione” di Andrea Siravo La Stampa, 15 marzo 2022 La ministra è intervenuta all’incontro “La giustizia riparativa e la formazione della magistratura” promosso dall’Università Cattolica di Milano. “Per quanto severe le pene non danno mai soddisfazione. E questo ce lo ha ricordato Gemma Calabresi quando nel suo libro a fronte dell’estradizione dalla Francia dei protagonisti degli Anni di Piombo dice di aver avvertito un senso di giustizia ma che allo stesso tempo il pensiero che queste persone vecchie e malate finiscano in carcere non le ha dato soddisfazione”. È l’esempio portato dalla ministra Marta Cartabia nel suo intervento al convegno “La giustizia riparativa e la formazione della magistratura” promosso dall’Università Cattolica di Milano. Un incontro durante il quale sono stati presentati risultati finali del progetto di ricerca “Re-Justice. Sustainable training in a challenging field” avviato nel 2019 in quattro Paesi - Belgio, Italia, Grecia, Spagna - e finanziato dal Programma Giustizia dell’Unione Europea. “La domanda di giustizia lascia sempre inquieti” ed è caratterizzata da “una perpetua volontà di dare a ciascuno il suo. Ma alla fine “i conti non tornano mai” perché “di fronte al mistero del male e del dolore, la sentenza e la giustizia ordinaria lasciano sempre un senso di insoddisfazione”. E quindi la risposta più adeguata “all’esigenza inestinguibile” di giustizia può arrivare da quella riparativa. Una strada da percorrere, che va introdotta nella giustizia ordinaria seguendo “un piano di complementarietà e trasversale, con modalità da esplorare”. Un cambio di paradigma al cui centro c’è l’incontro di tutti i soggetti, dall’aggressore alla vittima, insieme a un mediatore. Un aspetto che vale per tutti i tipi di conflitto. Da quello micro a quello macro come la Guerra in Ucraina. “Siamo alla ricerca disperata anche nel conflitto a cui stiamo assistendo di un mediatore perché abbiamo sempre bisogno di un soggetto terzo che ci permetta di avvicinarsi. In questo momento la ricerca di un mediatore è il punto più difficile e decisivo”. Per un buon esito però serve una “terzietà” non equidistante ma che “invita all’avvicinamento. Questa credo che sia la sfida culturale più impressionante”, cioè “chiamare a raccolta, a disponibilità, a sedersi a un tavolo comune. È la rottura della reattività”. Di fronte all’ingiustizia “la reazione è sempre un po’ vendicativa nel suo primo esprimersi, perché a una provocazione viene di reagire e rispondere a legnate con legnate”. Il miglior modo di insegnare il significato della giustizia riparativa è quello di ascoltare le storie di chi l’ha sperimentata. “La prima cosa che può aprire davvero una reale curiosità e una voglia di comprendere è venire a conoscenza delle storie delle testimonianze”. E in questo scenario che la ministra sollecita tutti gli operatori della giustizia di far conoscere i dati e le statistiche dei risultati della giustizia riparativa. “Dati spesso controintuitivi, che vanno raccolti e fatti conoscere, come vanno fatte conoscere le storie e le esperienze, dalle quali emerge che ciò che nella nostra logica è diviso e contrapposto, nella esperienza è unito”, ha precisato. Infine, facendo riferimento anche alla riforma della giustizia, da alcuni mesi in discussione dentro e fuori dal Parlamento, la ministra ha detto che “tutte le proposte che sono state fatte sul terreno della riforma della giustizia, sono state oggetto di divisioni, polemiche e critiche. La giustizia riparativa non ha incontrato resistenze fino a oggi e possiamo leggere questo dato in vari modi. Io non sono particolarmente ottimista su eventuali momenti di tensione che potrebbero verificarsi quando andremo a chiedere le risorse per l’attuazione, ma siamo in una fase in cui non si è già incancrenito il dibattito, come avvenuto per altro. È il momento giusto per intervenire perché il dibattito è scevro da pregiudizi”. Cartabia: “Giustizia riparativa cruciale, dai conflitti fino alle scuole” di Angelo Picariello Avvenire, 15 marzo 2022 Da strumento residuale quella riparativa può diventare un “pilastro fondamentale” della nostra giustizia. La Guardasigilli Marta Cartabia alla Cattolica tira le conclusioni all’incontro organizzato dall’ateneo milanese per fare il punto sul progetto Re-Justice finanziato dal Programma Giustizia (2014-2020) dell’Unione Europea. Un progetto formativo dei magistrati (che ha messo in rete tutti gli attori della giustizia penale, “mediatori” compresi) cui l’Italia partecipa, proprio attraverso l’Università Cattolica in collaborazione con la Scuola Superiore della Magistratura, insieme a Belgio, Spagna e Grecia. Cartabia lo definisce di “fondamentale importanza per il nostro oggi e per il domani della nostra giustizia”. L’obiettivo della restorative justice è quello di “ricucire i rapporti sociali”, dice il rettore dell’Università Cattolica del sacro Cuore, Franco Anelli, citando le parole del cardinale Martini, che tanto aveva seminato nelle carceri per favorire la riconciliazione. “Non è un atto di clemenza generalizzato” spiega il rettore, e nemmeno un atto di buonismo, non foss’ altro perché quando la pena si conclude non cessa l’esigenza di percorrere la strada della riconciliazione. Due gli esempi che fanno scuola. Quello della Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica, presieduta dall’arcivescovo Desmond Tutu, che pose fine alla stagione dell’apartheid, e quello in Italia portato avanti dal gruppo dell’Incontro (promosso dal gesuita padre Guido Bertagna e dai giuristi Claudia Mazzucato e Adolfo Ceretti) fra vittime ed ex della lotta armata. La Guardasigilli non fa mistero che sia stato proprio l’impatto con quest’ultimo progetto ad averla appassionata al tema, fino a mutare del tutto la sua visione di giustizia. “È stato uno spartiacque per me. Siamo abituati a vedere nella giustizia una terzietà che implica lontananza, mentre questa è una giustizia che avvicina, mette le persone una di fronte all’altra anche attraverso la figura del mediatore. E lo vediamo anche nei grandi conflitti come siamo alla ricerca disperata di un mediatore”. La giustizia riparativa è stata al centro lo scorso dicembre a Venezia della Conferenza dei Ministri della Giustizia del Consiglio d’Europa (riunitasi con la presidenza italiana) ed è parte integrante della legge delega al Governo per l’efficienza del processo penale. “Deve essere complementare rispetto alla giustizia penale, ha un orizzonte potenzialmente sconfinato che parte dalla scuola materna e arriva ai conflitti tra gli Stati. Non è un mistero - spiega ancora Cartabia - che ogni settore della riforma della giustizia sia caratterizzato da aspre contrapposizioni, mentre la giustizia riparativa non ha incontrato resistenze finora”. Non esclude “eventuali momenti di tensione che potrebbero verificarsi quando andremo a chiedere le risorse per l’attuazione, ma voglio essere ottimista”. Tanta strada è stata fatta dal 2016, quando un corso che prevedeva anche l’intervento di ex della lotta armata rappacificati con le famiglie delle vittime provocò tante polemiche. “Dovemmo rinunciare a farlo - ricorda Gaetano Silvestri, allora, Presidente della Scuola Superiore della Magistratura - ma sapevamo di essere nel giusto”. Concorda l’attuale presidente della scuola e Presidente emerito della Consulta Giorgio Lattanzi, che condanna il “populismo penale, che considera la certezza della pena come una sorta di certezza del carcere”. Siamo dentro “una fase di passaggio” sintetizza un altro presidente emerito della Consulta, Valerio Onida. Si tratta di “andare “oltre la concezione retributiva della pena. Passare dal semplice pareggiamento dei conti, attraverso un incontro che resta libero e volontario, alla piena attuazione dei valori della Costituzione”. “Con la giustizia riparativa risposte costruttive ai reati, ma lo strumento è inutilizzato” di Angelo Picariello Avvenire, 15 marzo 2022 Claudia Mazzucato è docente di diritto penale alla facoltà di Scienze Politiche della Cattolica ed è uno dei punti di riferimenti della giustizia riparativa in Italia. Come nasce il progetto Re-Justice? La giustizia riparativa insistentemente raccomandata e incoraggiata dall’Onu, dal Consiglio d’Europa e dalla Ue, ma fa i conti con la scarsa conoscenza, la mancanza di consapevolezza e l’insufficiente formazione degli operatori (magistrati, avvocati, polizia giudiziaria, servizi sociali dell’amministrazione della giustizia...). Il progetto, finanziato dalla Commissione europea, ha puntato alla rimozione di tale ostacolo, grazie alla collaborazione tra Scuole di formazione della magistratura e università dei diversi Stati coinvolti. Non è certo un momento felice per l’immagine della magistratura. Che impressione ha tratto dall’impegno? Un’immagine bellissima. Il progetto si è svolto in modo conforme ai principi dialogici della giustizia riparativa, cioè consultando e coinvolgendo i diretti interessati, che in questo caso sono pubblici ministeri e giudici. La magistratura ha preso parte attiva alle attività di ricerca e cha rivelato il desiderio di giudici e pubblici ministeri di essere costruttori di giustizia, nel senso più nobile e alto del termine: offrire un servizio capace di corrispondere alle esigenze di vita e di futuro di accusati, persone offese, autori di reato, società. All’idea di certezza della pena voi preferite l’idea di efficienza della giustizia. In che senso? Alla pena, la giustizia riparativa preferisce una risposta al reato più “sensata” e costruttiva, quale appunto è il dialogo volontario tra i protagonisti di una vicenda di rilevanza penale per assumersi insieme impegni per il futuro. Efficienza intesa come ragionevolezza, utilità, in senso pieno e profondo. Le domande “giuste” sono più complesse, ma più feconde: chi ha sofferto? Chi sta soffrendo? Che necessità hanno le persone coinvolte? Cosa di può fare insieme per alleviare le conseguenze negative e impedirne la ripetizione? Si è detto finora solo il 2% dei processi si avvale della giustizia riparativa. Ci sarà bisogno anche di più risorse o è solo un problema di cultura giuridica? La percentuale riportata riguarda i Paesi d’Europa: in Italia il dato è inferiore e privo, per ora, di rilevanza statistica. Ma abbiamo una giustizia riparativa di ottima qualità, del tutto sottoutilizzata e non omogeneamente offerta sul territorio nazionale. Le cose cambieranno, speriamo, con l’auspicata disciplina organica della giustizia riparativa voluta dalla legge delega di riforma della giustizia penale. Dap, la scelta di Renoldi piace a Cascini: “Grave criticarlo per le sue idee sul 41bis” di Davide Varì Il Dubbio, 15 marzo 2022 Il consigliere del Csm: “La vera responsabilità di chi va ad assumere l’incarico di direzione delle carceri, oggi, è fare in modo che la pena assolva alla funzione che la Costituzione le assegna”. “Sono contento del fatto che il ministro della Giustizia abbia scelto come capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria un magistrato che viene dalla Sorveglianza”. Lo ha detto il togato del Csm Giuseppe Cascini, di Area, che in plenum ha espresso le ragioni del proprio voto a favore del collocamento fuori ruolo di Carlo Renoldi per assumere l’incarico di capo del Dap, su proposta della ministra della Giustizia, Marta Cartabia. “Ritengo che sia un errore molto grave, nell’approccio al tema del carcere, preoccuparsi di temi molto simbolici, quali quelli dell’art. 41 bis o dell’art. 4 bis. - ha proseguito Cascini - Una discussione seria e serena sul carcere impone la ricerca di un equilibrio giusto e ragionevole tra le inderogabili esigenze di sicurezza e le altrettanto inderogabili esigenze di garanzia della legalità e umanità della pena. La sicurezza, fuori e dentro il carcere, non si garantisce tenendo i detenuti chiusi nelle celle, separati dal mondo, ma si deve costruire attraverso il difficile percorso di risocializzazione, attraverso la scuola, l’educazione, la socialità dentro e fuori dal carcere, il lavoro. La vera responsabilità di chi va ad assumere l’incarico di direzione delle carceri, oggi, è fare in modo che la pena assolva alla funzione che la Costituzione le assegna”. “Una missione quasi impossibile nella drammatica situazione del sistema carcerario italiano - ha sottolineato Cascini - È su questo che si misura davvero la sfida dell’organizzazione e del funzionamento del carcere e su questo, secondo me, si dovrebbe, con minore contrapposizione, provare a fare una discussione più seria e meno ideologica. E invece, ho l’impressione che ogni volta che si parla di queste cose si riduca il dibattito a chi è pro o contro il 41 bis o pro o contro l’ergastolo ostativo. Come se poi questi strumenti fossero nella responsabilità del capo del Dap e non in quella del ministro, del governo e del Parlamento”. “La riforma del carcere non si fa senza affrontare la questione delle sostanze stupefacenti” garantedetenutilazio.it, 15 marzo 2022 Il Garante dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, è intervenuto nella sala stampa del Senato alla presentazione del disegno di legge in materia di regolamentazione del consumo, della produzione e del commercio della cannabis, d’iniziativa del senatore del Pd Gianni Pittella e altri (atto del senato 2529 del 15/2/2022). Anastasìa ha parlato dell’impatto che ha sul nostro sistema di giustizia la questione della regolamentazione della diffusione delle sostanze stupefacenti, in questo caso della cannabis. Anastasìa ha esordito, ricordando che “nell’ultimo libro bianco sulla legge sulle droghe reso pubblico lo scorso anno - abbiamo rilevato come dentro il nostro sistema di giustizia ogni anno siano aperti più di 200 mila fascicoli per la materia legata alle sostanze stupefacenti, nella stragrande maggioranza per la detenzione e la cessione, e non per il traffico di sostanze stupefacenti”. “Tutto questo - ha proseguito Anastasìa - si riflette sul nostro sistema penitenziario. Infatti, il 35 per cento delle persone che sono in carcere hanno una imputazione legata alla legge sulla droga. Si tratta di imputazioni in gran parte legate alla cessione e alla detenzione di piccoli quantitativi di sostanze stupefacenti e solo in minima parte sono legate all’attività delle organizzazioni criminali. Tutto questo si riflette infine nella presenza di circa un quarto delle persone detenute che hanno una condizione di dipendenza da sostanze stupefacenti. Questo significa che è necessario affrontare la questione della regolamentazione delle sostanze stupefacenti, a partire dalla cannabis che è la sostanza più diffusa e il cui consumo è reputato socialmente inoffensivo da milioni di persone nel nostro paese. Questo è un primo essenziale passo per qualsiasi politica di riforma del nostro sistema di giustizia penale, in modo particolare del sistema penitenziario. Sappiamo che è in atto uno sforzo molto rilevante da parte della ministra Marta Cartabia, che ha messo in opera una commissione ministeriale che ha prodotto dei risultati, ma deve essere chiaro a tutti che una riforma del carcere non si fa, se non si affronta la questione delle sostanze stupefacenti”. Anastasìa individua tra le cause del sovraffollamento endemico delle carceri italiane “nella legge proibizionista sulla droga del 1990, che ha riempito le nostre carceri e che oggi ci consegna carceri ospitate in gran parte da persone che hanno bisogni sociali di assistenza e di sostegno. Se non si mette nel campo della riforma della giustizia e del sistema carcerario la questione delle droghe - ha concluso Anastasìa - il rischio è che qualsiasi tentativo resti un tentativo vano”. In carcere per 500 giorni da innocente. Ma ora lo Stato gli nega il risarcimento di Valentina Stella Il Dubbio, 15 marzo 2022 Giancarlo Benedetti era finito in cella per alcune intercettazioni “depurate” dagli elementi che avrebbero potuto scagionarlo. Ma per i giudici la colpa è comunque sua. Ha trascorso circa 500 giorni in carcere da innocente, tutti in Alta Sicurezza; ha perso il lavoro di responsabile di una concessionaria di auto perché il proprietario, per il danno all’immagine causato dall’arresto di un suo dipendente, non gli ha rinnovato l’incarico; in carcere è stato colpito da depressione di forma bipolare, caratterizzata da dimagrimento, cefalee, insonnia (per questo l’ex deputata radicale Rita Bernardini presentò interrogazione parlamentare); è stato lasciato dalla sua compagna per colpa di tutta la situazione, la sua reputazione personale e professionale è stata lesa anche a causa di una feroce campagna mediatica. Nonostante questo, a Giancarlo Benedetti è stata rigettata dalla Corte di Appello di Roma l’istanza per riparare l’ingiusta detenzione. Facciamo un passo indietro per ricostruire la vicenda. Tutto parte da una indagine della Procura di Roma, Dda, su un gruppo di persone, ritenute vicine al clan dei Casalesi, accusate di una tentata operazione di riciclaggio per acquisire, mediante condotte estorsive, alcune quote societarie del presidente della Lazio Claudio Lotito. Secondo gli inquirenti Benedetti, in concorso con altri, avrebbe tentato prima di ostacolare l’identificazione di denaro riferibile ai casalesi e poi di usare tale denaro per scalare la squadra di calcio biancoceleste. Nell’interrogatorio di garanzia Benedetti non si è avvalso della facoltà di non rispondere e ha chiarito la sua posizione. Tale specificazione è doverosa, perché diverse istanze di ingiusta detenzione vengono rigettate perché l’indagato, tra l’altro, non ha voluto rispondere al gip. Il Riesame annulla la custodia cautelare poiché - hanno scritto i suoi legali Renato Borzone e Alessandro Artuso - “la contestazione mossa nei confronti del ricorrente era affetta da nullità per violazione del diritto di difesa”, in quanto “le attività criminali da cui sarebbe derivato il provento illecito non vennero in alcun modo specificate, così impedendo agli indagati di esercitare compiutamente il proprio diritto di difesa”. Tuttavia la Procura fa appello e un nuovo Riesame rimanda Benedetti in carcere. All’esito di un giudizio abbreviato l’uomo viene assolto per contraddittorietà delle prove a carico, sentenza poi passata in giudicato. Assolti come lui altri quattro imputati. Nel ricorso presentato dai legali si spiega che sono state le intercettazioni telefoniche a portare l’uomo in carcere per quasi un anno e mezzo. Tuttavia, “la fase cautelare - scrivono i difensori - fu caratterizzata dalla carenza in atti persino dei brogliacci informali della polizia giudiziaria. Tutti gli atti investigativi vennero strutturati sulla base di mere sintesi delle conversazioni che all’esito della vicenda si sono rivelate del tutto inattendibili. La polizia giudiziaria si è spericolatamente dedicata alla personale interpretazione di singoli spezzoni di telefonate”. Solo grazie alla difesa, il Gup dispose la perizia trascrittiva delle conversazioni captate che alla fine dimostrarono l’innocenza di Benedetti. Il giudicante è severo sul punto perché parla in sentenza di “non condivisibile chiave di lettura delle conversazioni telefoniche intercettate seguita dalla Pg nelle proprie informative, e fatta propria dal pm. Attraverso l’ascolto diretto delle telefonate emerge come siano stati trascurati alcuni fondamentali aspetti considerati forse come poco significativi nella logica di una successiva elaborazione volta a suffragare una certa linea interpretativa”. In pratica, sta dicendo il gup, sarebbero state omesse perché a favore dell’indagato. E non sarebbe la prima volta, come abbiamo visto anche nel caso Cerciello Rega. Tuttavia, secondo la Corte di Appello che ha rigettato l’istanza per ingiusta detenzione, alcuni comportamenti del Benedetti, desunti da quelle stesse intercettazioni, poi rivelatesi fallaci, hanno influenzato il giudice cautelare. “È allucinante - ci dice Benedetti - che si possa essere arrestato e detenuto per 17 mesi in carcere in attesa di giudizio per una farneticante ipotesi accusatoria basata su indizi basati su stralci di intercettazioni telefoniche. Poi, dopo dieci anni, arriva l’assoluzione, ma vengo nuovamente incolpato per aver indotto i pm nella loro farneticante ipotesi accusatoria. Eppure la mia vita è stata completamente stravolta immotivatamente”. Gli avvocati Artuso e Borzone concludono: “Suscita grave amarezza il fatto che i provvedimenti in materia di ingiusta detenzione siano guidati da una giurisprudenza che si aggrappa ad ogni pretesto per negare, a chi è stato detenuto illegittimamente ed investigato con modalità inquietanti, il pur giusto ristoro economico, anche se mai minimamente proporzionato ai danni e alle sofferenze prodotte dall’ingiusta detenzione e da vicende giudiziarie prive di fondamento probatorio”. Come ha ricordato il deputato di Azione Enrico Costa, “il 77 per cento di chi - arrestato ingiustamente - chiede l’indennizzo e non lo ottiene, secondo le Corti d’Appello, avrebbe “concorso con dolo o colpa grave all’errore del magistrato”. Questa è una distorsione giurisprudenziale a cui porre rimedio”. Ora fa “bella figura” con gli elettori chi si mostra severo con i magistrati di Errico Novi Il Dubbio, 15 marzo 2022 Ddl sul Csm sospeso a un prossimo vertice con Cartabia: ma le nuove tensioni fra Pd e Forza Italia si spiegano con la gara a chi appare più deciso nel cambiare la giustizia. Non deve sorprendere che la politica, in materia di giustizia, incontri le maggiori difficoltà sulla riforma del Csm. Si tratta in fondo del provvedimento che tocca il nodo più delicato, la tensione storicamente irrisolta dall’epopea di Mani pulite: il rapporto fra potere legislativo ed esecutivo da una parte (la politica appunto) e il potere giudiziario dall’altra. I partiti sanno che un nuovo equilibrio serve. Lo cercano nella riforma in vari modi, forse sopravvalutano le potenzialità effettive del testo in discussione, e sottovalutano la necessità di una nuova autorevolezza per la rappresentanza democratica. D’altra parte alcuni punti del ddl sul Csm possono essere migliorati davvero. E di sicuro cresce l’ansia di far meglio nonostante i tempi siano stretti. Non a caso ieri è filtrata la notizia di un imminente, ulteriore briefing fra la guardasigilli Marta Cartabia e i partiti, con un obiettivo non agevole: trovare una sintesi sui 620 subemendamenti al testo della ministra presentati dalle forze politiche. Entro le 15 di oggi i gruppi dovrebbero ridurne il numero, come ieri ha esortato a fare il presidente della commissione Giiustizia Mario Perantoni, che intanto ha dichiarato inammissibili 60 proposte. Come finirà? La soluzione drastica della fiducia è prospettabile in Aula, certo non durante l’iter in commissione. Qui i numeri sono sul filo, ma si giocherà in campo aperto. Alcune modifiche importanti al testo integrato Bonafede- Cartabia (il maxi- emendamento della seconda modifica in parte il testo base del primo) potrebbero a sorpresa passare. È il caso del sorteggio temperato per l’individuazione dei magistrati eleggibili al Csm, norma che secondo via Arenula presenterebbe ombre di incostituzionalità. Potrebbe esserci qualche chance anche per un’altra misura condivisa da tutto il centrodestra: la riduzione o addirittura l’abolizione dei passaggi fra pm e giudice. Sorprese sono desinate ad arrivare riguardo al divieto di rientro nella giurisdizione per i magistrati, innanzitutto amministrativi, che assumono ruoli tecnici nei governi, a cominciare dai Capi di gabinetto. Non si tratta di modifiche irrilevanti. E sarebbe imprudente, ora come ora, pronosticare un nulla di fatto per tutte quante le ipotesi sul tavolo. Ma il punto non è neppure questo. Al centro della contesa che sembra veder schierati i “conservativi” del Pd contro i “rivoluzionari” di centrodestra (FI e Azione in prima linea) c’è soprattutto la possibilità di guadagnare, al cospetto dell’opinione pubblica, il primato di veri innovatori della giustizia. Una possibilità legata però non solo alla riforma del Csm ma anche al referendum. È vero che oggi le speranze di raggiungere il quorum sui 5 quesiti in materia di giustizia, per i quali si voterà fra maggio e giugno, sono al lumicino. Ma comunque partiti come Lega e FI, che con i radicali sono schierati per il Sì, potrebbero trovare vari espedienti per attribuire ad altri la “colpa” del mancato quorum. Potrebbero chiamare in causa la Corte costituzionale che non ha ammesso i referendum più seduttivi, il semiboicottaggio delle altre forze politiche, la data sfavorevole che rischia di essere individuata dal Viminale. Eppure del referendum sopravvivrà in ogni caso l’impressione di una spinta verso il cambiamento nella giustizia. E oggi nell’opinione pubblica tale propensione, per la prima volta dopo trent’anni, non è più connotata come la scelta conflittuale del vecchio centrodestra berlusconiano, puntualmente tacciato di brandire le riforme del processo per contrastare un asserito uso politico dei processi. Una strumentalizzazione lamentata all’epoca nei confronti di Berlusconi ma poi denunciata quale minaccia incombente anche sul capo di altri leader. Un simile schema è ormai lontanissimo. Adesso la politica che pretende di cambiare la magistratura con riforme “brutali” dà agli italiani l’idea di volerlo fare perché intende ristabilire un equilibrio, e inquadrare entro un perimetro meno incerto le competenze e il potere dei magistrati. È una grande novità. Anzi, la vera grande novità è che nella percezione diffusa, ma anche nelle indicazioni di qualche sondaggio, tale riequilibrio è percepito come necessario da una fetta non più pregiudizialmente schierata dell’opinione pubblica. Non si tratta più dei fan di Berlusconi o degli elettori del vecchio centrodestra che vogliono veder ridimensionata la magistratura ostile. Si tratta invece di una “corrente di pensiero” trasversale fra gli elettori, almeno tra i più informati, che considerano ormai insostenibile un condizionamento esagerato delle toghe nei confronti della politica. È questo il dato più importante, più prezioso, che può essere colto, per ora, solo in termini di analisi generale, e che certamente è favorito da vicende come quella di Palamara, da un complessivo discredito dell’ordine giudiziario prima ancora che da un recupero di legittimazione della politica. Ma in prospettiva la consapevolezza diffusa che, a trent’anni da Mani pulite, si debba un po’ rimettere le cose a posto fra partiti e toghe, è uno spiraglio di luce nel futuro della nostra democrazia. Ci si arriverà lentamente, per tappe, per vie tortuose. Ma in fondo le preoccupazioni del Pd, che teme di essere “scavalcato” dagli avversari nella gara a chi è più affidabile nella politica giudiziaria, ecco, quel timore dei dem che ancora ieri si è espresso in un’intervista di Walter Verini al Tempo, nella distanza dal centrodestra che vuol “stravolgere” la riforma, rappresenta la vera novità. Oggi la politica avverte che a fare bella figura con gli elettori non è più chi appare amico dei giudici, e condivide con questi ultimi una crociata contro la politica corrotta. Oggi rischia finalmente di passare per affidabile chi, ai magistrati, vuol togliere un po’ di arbitrio. In realtà la moderazione dem, su questo versante, non può essere considerata una colpa. Ma in ogni caso nelle nuove attese degli elettori va colta un’occasione straordinaria di riscatto per tutta la politica. Il Csm critica la riforma Cartabia, bocciata la legge elettorale: “Non garantisce le minoranze” di Liana Milella La Repubblica, 15 marzo 2022 Alla Camera il governo impone una drastica potatura degli emendamenti, alla fine ne restano 250. Il Csm voterà il parere tra domani e giovedì: no al diritto di voto degli avvocati. Sulle “porte girevoli” no alla norma che penalizza i capi di gabinetto. C’è maretta alla Camera per la drastica potatura degli emendamenti alla riforma del Csm. Che da oltre mille diventano 250. “Draghi aveva promesso di non mettere la fiducia, ma così si soffoca il dibattito” dice una voce dissidente della maggioranza. Ma tutti obbediscono al diktat del presidente della commissione Giustizia Perantoni di M5S. Che giunge proprio nelle stesse ore in cui il parere del Csm sulla riforma Cartabia, che ha rivisto la Bonafede, dalla sesta commissione approda ufficialmente nell’ordine del giorno che sarà discusso tra domani e giovedì in plenum. E il Csm boccia la legge elettorale - un maggioritario con uno spruzzo di proporzionale - perché penalizza le minoranze, nonché le “pagelle” per la carriera dei giudici, e ancora la stretta per i capi di gabinetto che, dice il Csm, non possono essere trattati come le toghe che si candidano e non sono elette. Ma il Csm è critico anche sul diritto di voto degli avvocati nei consigli giudiziari. E Area, la corrente di sinistra dei giudici, si batterà nel corso del plenum per chiedere di eliminare l’illecito disciplinare previsto da Cartabia che punisce il procuratore che non rispetta il decreto sulla presunzione d’innocenza. Cioè indice conferenze stampa per diffondere notizie che vanno oltre la pubblica utilità. Con un testo di ben 142 pagine, il Csm fa le pulci alla riforma. E arriva una pioggia di no, per esempio alle “pagelle” sulla professionalità con tanto di voto da “buono a ottimo”. Ma anche un no all’illecito per punire un eventuale ritardo nel compiere degli atti. E ancora, un no all’idea di inserire anche avvocati e professori nella struttura del Csm. Nonché ancora no all’idea di ridimensionare l’ufficio studi del Csm, a tutt’oggi una colonna portante per la vita stessa del Consiglio. Ma vediamo di incrociare quello che succede in Parlamento con il parere del Csm. Che arriva proprio mentre si fa caldo lo scontro in commissione sulla riforma che il 28 marzo è prevista dal calendario dell’aula. Draghi ha garantito che non ci sarà la fiducia. Ma Lega, Forza Italia e Azione presentano un pacchetto pesante di emendamenti. Che fa leva soprattutto sulla legge elettorale - Lega e Fi chiedono a gran voce il sorteggio - ma anche su regole intransigenti sulle “porte girevoli”. Ma a che punto siamo in commissione? Anche se “obtorto collo” i gruppi hanno accettato la potatura chiesta dal presidente Mario Perantoni di M5S, per cui da un migliaio si è passati a 250 emendamenti. Che restano comunque minacciosi, come quelli sul sorteggio per eleggere il futuro Csm, perché, almeno in commissione, centrodestra di governo e centrodestra d’opposizione fanno maggioranza. Anche se in aula la situazione si ribalta. Le proteste più dure vengono da Enrico Costa di Azione, che lamenta “i nove mesi di attesa” per arrivare comunque alla proposta Bonafede, e frustrati adesso dal taglio della discussione. Ma la riforma deve andare in aula il 28 marzo. Eugenio Saitta di M5S, e relatore della riforma, chiede un contro di maggioranza. Le critiche alla legge elettorale - Certo è che ora chi contesta la riforma potrà fare sponda anche con le critiche in arrivo dallo stesso Csm. Di cui ne anticipiamo la sintesi. Partendo dal “sistema elettorale”: “L’articolazione del Csm - si legge nel parere approvato dalla sesta commissione - non deve in linea di principio rispondere a una logica di governabilità, ma deve essere espressione delle diverse visioni dell’organizzazione giudiziaria e della giurisdizione proprie della magistratura. Il sistema elettorale introdotto, pur essendo prevalentemente maggioritario, prevede un correttivo proporzionale che mira ad offrire ai gruppi minori una rappresentanza in Consiglio. Correttivo tuttavia insufficiente poiché anche con tali modifiche le minoranze potrebbero essere sottorappresentate, mentre i gruppi di maggiori dimensioni potrebbero essere sovra rappresentati”. E quella sugli illeciti disciplinari per il ritardo - Nella stretta sugli illeciti disciplinari, al Csm non va giù quello “sul reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento di atti, in caso di rispetto da parte del magistrato del piano di rientro adottato dal capo dell’ufficio, perché presenta incompletezze e necessita di integrazioni volte a chiarire: se la causa estintiva operi solo nel corso del procedimento disciplinare o anche dopo la sua conclusione; nel primo caso occorrerebbe prevedere che il procedimento disciplinare rimanga sospeso nel caso in cui le verifiche periodiche siano positive; nel secondo caso deve essere revocata la sentenza di condanna, disciplinando il relativo procedimento”. Penalizzato chi fa parte della disciplinare - Secondo il Csm il sistema di incompatibilità introdotto per i componenti effettivi della Sezione disciplinare “finisce con l’escludere irragionevolmente questi ultimi dalla quasi totalità delle attività svolte in sede referente” e quindi “non appare utile al conseguimento dell’obiettivo di rendere più spedita l’attività della sezione disciplinare e delle altre articolazioni consiliari, né, infine, è giustificato nell’ottica di rafforzare l’immagine di imparzialità e della terzietà del giudice disciplinare”. No alle pagelle con i voti - La riforma Cartabia vuole eliminare il carrierismo, ma il meccanismo delle “pagelle” con i voti da ottimo, a buono a discreto, rischia solo di peggiorare la situazione. “Le valutazioni di professionalità sono funzionali alla verifica periodica della permanenza in capo al magistrato dei valori di capacità, laboriosità, diligenza e impegno, cosicché la previsione di un giudizio ad hoc - graduato in discreto, buono, ottimo - sulla capacità di organizzare il proprio lavoro, che è già compresa nel parametro della diligenza, è del tutto ultronea e, portando a un’inammissibile classifica tra magistrati dell’ufficio, potrebbe finire per stimolare quel carrierismo che la riforma vorrebbe invece eliminare”. No agli avvocati che giudicano i giudici - Netta chiusura, perché “presenta criticità”, sul ruolo riconosciuto agli avvocati nei consigli giudiziari per votare anche sulla carriera dei magistrati: “Rischia di introdurre inopportune ricerche di consenso presso il Foro locale da parte dei candidati”. E inoltre questo voto “desta forti perplessità, tenuto conto che i membri laici continuano a svolgere, nel corso del mandato consiliare, l’attività forense nello stesso distretto del magistrato in valutazione. La norma inoltre presenta aspetti di irragionevolezza nella discriminazione che introduce rispetto alla componente laica del Consiglio giudiziario rappresentata dai professori universitari, ai quali non è riconosciuta analoga facoltà”. Via Arenula viola la Costituzione sui piani delle procure - “Dubbi di legittimità costituzionale” sull’intervento di via Arenula sui progetti organizzativi delle procure. Il testo della Guardasigilli prevede che i piani vengano mandati a Roma per essere esaminati con l’obiettivo di formulare “eventuali osservazioni”. Ma proprio questo passaggio solleva, per il Csm, “dubbi di legittimità costituzionale, in quanto prevede la formulazione, da parte del ministro della Giustizia, delle proprie osservazioni in relazione ad una materia, quella del progetto organizzativo dell’Ufficio del Pubblico ministero, attinente al cuore dell’esercizio della funzione giurisdizionale requirente, incidendo dunque, in maniera profonda, prima ancora che sulle prerogative consiliari, sulle modalità mediante le quali il Procuratore organizza e svolge la funzione giurisdizionale requirente allo stesso assegnata in esclusiva titolarità”. Le porte girevoli - Il giudizio del Csm sulla legge Cartabia è positivo, con un solo neo, quello dei capi di gabinetto. È la stessa critica che fa il Pd. Dice il parere: “Introdurre un temporaneo divieto di esercizio delle funzioni giudiziarie per i magistrati che abbiano svolto incarichi di diretta collaborazione non tiene in adeguata considerazione la natura tecnica di tali incarichi ed appare irragionevole rispetto alla disciplina del ricollocamento in ruolo dei magistrati candidati alle elezioni politiche e non eletti, ai quali è consentito l’esercizio delle funzioni giudiziarie”. Secondo il Csm, questa disposizione, come quella che riguarda i magistrati che abbiano assunto incarichi di governo, “finisce per avere un effetto premiale consentendo la permanenza di tali magistrati al di fuori della giurisdizione anche in deroga ai limiti previsti dalla normativa ordinamentale e favorendo la prosecuzione di possibili carriere privilegiate”. Quell’innocenza umiliata da una giustizia che crea soprusi e si delegittima di Mimmo Gangemi Il Dubbio, 15 marzo 2022 In un talk show, alla domanda di un giornalista su quale sia il bilancio nel contrasto della Giustizia alla ‘ ndrangheta, un noto procuratore antimafia ha risposto: “pareggio”. Beh, il pareggio crea perplessità, a fronte delle numerose operazioni di polizia che hanno comportato il carcere e il giudizio del tribunale per migliaia di malavitosi, veri e presunti. Il pareggio, parafrasando il calcio, potrebbe significare che si tira in porta senza centrarla, che gli attaccanti fanno cilecca, non sono all’altezza. O che la ‘ ndrangheta dispone di un’ottima difesa, da riuscire a respingere gli assalti. Quest’ultima ipotesi stride però con le migliaia di arresti, con le file quindi indebolite. Perciò, o la prima o la variante che la ‘ ndrangheta possa contare su un numero impressionante di affiliati, con panchinari, intesi riserve, che vanno a sostituire i titolari finiti al gabbio. Certo è che esiste un contrasto evidente tra le dichiarazioni degli addetti ai lavori secondo cui da decenni si starebbero infliggendo colpi mortali alla ‘ ndrangheta e la loro stessa ammissione che essa è sempre più forte, più organizzata e più potente, e che aumenta il peso sul territorio, allarga i tentacoli in tutta Europa. Per capire occorre analizzare i numeri. Il procuratore, in un’altra intervista, ha stimato in 40 mila gli adepti. E la cifra è in contrasto con i dati della relazione semestrale del Ministero dell’Interno, Direzione Investigativa Antimafia, stilata nel giugno 1997, un periodo nel quale, a rigor di logica, il fenomeno era più sviluppato - nei 25 anni trascorsi la civiltà sarà pure avanzata. Vi si legge: “La provincia di Reggio Calabria, dal punto di vista numerico, presenta la situazione potenzialmente più grave in quanto registra la percentuale di 1 affiliato ogni 165 residenti”. Essendo la popolazione del reggino pari a 548 mila, deriverebbero 3.321 affiliati, corrispondenti allo 0,606%. Se si allarga all’intera regione, su 1.947.000 abitanti gli affiliati diventerebbero 11.799. Mentre per il reggino, per il vibonese e in parte per il crotonese la percentuale a naso appare in difetto, per il resto della regione, no, più facile sia in eccesso. E il dato complessivo diventa attendibile. In tutti i casi, anche ad aggiungere i fiancheggiatori e i collusi non organici, ugualmente si resterebbe molto al di sotto dei 40 mila prospettati. Verrebbe da credere ai malevoli che vogliono ci sia chi ha interesse a ingigantire il mostro ‘ndrangheta, che mostro è, perché, in questo modo, si ingigantiscono le carriere, i meriti, le decorazioni, le stellette, si soddisfa l’ego e la vanità, di più se si colpisce in alto, su nomi altosonanti - troppo capita su personaggi poi risultati innocenti ma ormai rovinati e con ombre addosso che rimarranno appiccicate per sempre; e non è un caso che tante brillanti carriere siano decollate proprio da quaggiù. Se così, si massacra la Calabria, e i calabresi, penalizzando molto oltre i reali demeriti. Detto questo, resta in piedi solo l’ipotesi che non sono adeguati l’attacco e il contrasto. Li si vende bene alla nazione e però non funzionano. Non c’è l’efficienza spacciata. Le grandi operazioni di polizia, esaltate con conferenze stampa, per fortuna ora impedite e che in buona misura anticipavano un giudizio di colpevolezza non di competenza, hanno sì inferto batoste pesanti alle cosche e tuttavia hanno trascinato nel baratro una pletora di innocenti, stimabili nel 50% degli incriminati - e per lo più sbattuti in carcere - con punte del 90%. Errori giudiziari di tale portata avvengono soltanto in Calabria. Per averne contezza, basta analizzare l’operazione Infinito- Crimine sviluppata tra la Lombardia e la Calabria, con lo stesso numero di arresti - 163 in ciascuna delle due regioni. In Infinito (Lombardia) l’incidenza di innocenti emersa nei processi è dell’8,7%. In Crimine (Calabria) essa è del 47,6%. Da indurre il pensiero che in fase istruttoria si utilizzino criteri diversi, che in Calabria la libertà, lo Stato di diritto e i principi della Costituzione non abbiano la stessa valenza che in Lombardia, che, pur di abbattere la ‘ ndrangheta, qui si lancino le reti a strascico, a chi piglia piglia, senza badare ai danni collaterali. I numeri non mentono: se l’8,7% di innocenza maltrattata, pur riprovevole, può infatti essere un fatto umano, fisiologico, non così il 47,6%. A ulteriore riprova, l’operazione Aemilia, avvenuta in Emilia Romagna, con 239 imputati e una percentuale di innocenti del 19,8%, non brillante quanto in Infinito ma nemmeno disastrosa quanto in Crimine. L’Italia, per essere giudice severo, si fa bastare le grancasse e i tamburi suonati allo spreco dopo le manette. Perché non conosce i risultati finali, non riceve notizie sulle inchieste che, in fase cautelare e giudicante, si sgonfiano più delle caramelle aspromontane alla chiusura del suono. È infatti facile reperire i dati degli arresti - ci pensano i media, con strombazzamenti impressionanti. È invece complicato trovare i numeri degli esiti processuali, con i giornalisti nazionali che abbassano la saracinesca e li tacciono e certuni locali, di carta e non, prostituiti da adoperare nell’attacco dell’articolo il cliché servile “Regge il quadro accusatorio della procura”, salvo poi scoprire che i tre gradi di giudizio hanno lasciato nella polvere le carcasse di un esercito di poveri cristi immolati all’ignoranza, alla superficialità, a disegni diversi dalla Giustizia. E proliferano i professionisti dell’antimafia, con organizzazioni leste a infilare in tasca i contributi da destinare alla trincea, con pubblici ministeri troppo smaniosi di manette - sono pochi ma incidenti, i più lavorano con merito al riparo di un’ombra che però li penalizza - con giornalisti asserviti e imboccati. Il risultato è che la popolazione aggiunge alla paura della ‘ ndrangheta quella per la giustizia - una paura certamente diversa, e tuttavia paura - e che l’innocenza maltrattata finisce con l’indebolire la Giustizia, con il farle perdere credibilità in una terra dove la credibilità è un elemento essenziale per guadagnarsi la fiducia e indurre a ricorrere alla Legge di fronte a un sopruso. “Lo Stato mi obbliga a cercare un lavoro, ma poi me lo toglie…” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 marzo 2022 Disposta la sorveglianza speciale con obbligo di dimora per l’ex capo delle cooperative condannato nel processo “Mondo di mezzo”. Così Buzzi rischia di perdere il suo lavoro al pub. “Come temevo è giunta la notifica per le misure di prevenzione personali. Due anni e mezzo di sorveglianza speciale che hanno i seguenti obblighi: dimora in casa dalle 21 alle 7 del mattino, obbligo di soggiorno nel Comune di residenza, presentazione una volta a settimana alla stazione dei Carabinieri, ritiro della patente e obbligo di cercarsi un lavoro”: è amareggiato Salvatore Buzzi quando ci racconta di questo nuovo provvedimento a suo carico emesso dal Tribunale per le misure di prevenzione di Roma. “Quanto mi è stato notificato fa emergere l’ottusità della legge”, in quanto “siamo dinanzi ad un incomprensibile paradosso: vengo obbligato a ricercare immediatamente un’attività lavorativa lecita, ma la prescrizione di questa misura incredibilmente mi fa perdere il lavoro che già ho. Come è noto anche i magistrati - perché l’ho fatto mettere a verbale -, io lavoro, assunto regolarmente, in un pub di cui sono il frontman, per usare una terminologia rock, e la mia attività lavorativa si svolge di sera e notte con chiusura del pub che va fino alle 2 del mattino nei giorni di venerdì e sabato e all’una negli altri giorni”. Buzzi ci spiega che è riuscito “a conservare comunque la patente perché una sentenza della Corte Costituzionale del 2021 ne vieta il ritiro se può inficiare l’attività lavorativa e io ho facilmente dimostrato che ne avevo bisogno per recarmi al lavoro”. L’uomo ci tiene a precisare: “Non voglio passare per vittima, ma evidenziare la limitatezza del nostro sistema giudiziario eccessivamente burocratico e punitivo”. Un’altra prescrizione del provvedimento che gli provoca sconcerto è quella per cui non può partecipare - leggiamo nell’atto - “a pubbliche riunioni senza autorizzazione dell’Autorità giudiziaria”. Per questo Buzzi si dice “molto dispiaciuto perché non potrò prendere parte alle assemblee del Partito Radicale, a cui sono iscritto, se non mi danno il permesso”. Per lui, prosegue, “la ratio di questa misura risale all’epoca fascista, quando si era soliti dire che di notte girano ladri e puttane. Da quando sono uscito ho intrapreso un percorso, ho sempre rispettato quanto impostomi dall’autorità. Fino ad ora non potevo allontanarmi dal comune di Roma. Adesso neanche posso uscire la sera: sono tutte misure afflittive accessorie, imposte ad una persona che sta ricominciando a vivere”. Buzzi poi precisa: “Le misure di sicurezza personali non sono altro che un addentellato delle misure di sicurezza patrimoniali, quelle necessarie per espropriarti il tuo patrimonio. Nel mio caso: le cooperative che avevano un patrimonio di oltre 30 milioni di euro e davano lavoro a 1300 persone, miseramente fallite, come noto, e due appartamenti e altre proprietà con la motivazione che i redditi derivanti dagli stipendi percepiti dalle cooperative fossero tutti illegittimi. Misura questa, ovviamente, applicata soltanto a me”. Come ci spiega l’avvocato Pier Gerardo Santoro, che assiste Buzzi insieme all’avvocato Alessandro Diddi, “pur essendo caduta l’accusa di mafia, le condanne per alcuni reati sono passate in giudicato. Quindi, venute meno le misure cautelari, è stata applicata quella di sorveglianza speciale. A parere nostro si tratta di una misura che ad oggi non ha più senso: Buzzi ha già scontato cinque anni di carcere, i collegamenti con possibili attività criminali sono recisi, ha rispettato tutte le prescrizioni e limitazioni fino ad ora disposti da parte dell’Autorità giudiziaria. Noi chiederemo al Tribunale di poterlo autorizzare a lavorare, come fatto fino a questo momento. L’attività lavorativa è sintomo di un reinserimento sociale e della ricostruzione della propria vita”. Parallelamente, “ci sarà la richiesta di un nuovo incidente di esecuzione per valutare oggi la posizione di Salvatore Buzzi che non può essere ritenuto un soggetto socialmente pericoloso a cui applicare misure di sorveglianza speciale”. Il loro assistito “è stato arrestato nel lontano 2014. Ha scontato 5 anni, ha ammesso le sue responsabilità, si sta reinserendo e ricollocando in questa società. Che senso ha sottoporlo a tutta una serie di limitazioni che confliggono con la finalità rieducativa della pena? Si tratta di prescrizioni prettamente punitive”. Tuttavia sul presente pende anche una prossima decisione della Cassazione che potrebbe addirittura riportare nuovamente l’uomo in carcere. Infatti il 9 marzo 2021 la sentenza d’Appello bis sul “Mondo di Mezzo” rideterminò le pene per alcuni imputati: Buzzi fu condannato a dodici anni e dieci mesi, mentre per Massimo Carminati la pena è stata di dieci anni. “Se venisse accolto il nostro ricorso dalla Suprema Corte - ci racconta ancora Santoro - si annullerebbe la precedente sentenza di appello bis di determinazione della pena. E si potrebbe chiedere per Buzzi l’istanza di affidamento in prova per fargli svolgere lavori socialmente utili, anche alla luce dei nuovi orientamenti della ministra della Giustizia Marta Cartabia, volta a favorire istituti alternativi alla pena del carcere”. Lazio. “Seconda chance” invita le aziende ad assumere detenuti. I risultati? Sorprendenti garantedetenutilazio.it, 15 marzo 2022 Ideatrice del progetto “Seconda chance”, Flavia Filippi illustra i vantaggi aziendali derivanti dalla legge Smuraglia. Invita le aziende ad assumere detenuti, prospettando il vantaggio aziendale rappresentato dall’abbattimento del costo del lavoro dei propri dipendenti: Flavia Filippi, giornalista del Tg La7, ha dato vita al progetto trasversale “Seconda chance”, collaborando da volontaria col Provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise, Carmelo Cantone, per far conoscere agli imprenditori i notevoli sgravi fiscali e contributivi previsti dalla legge Smuraglia (193/2000). Con il suo impegno da volontaria Flavia Filippi sta raccogliendo moltissime adesioni tra gli imprenditori che dopo aver incontrato ed esaminato i candidati appositamente selezionati negli istituti penitenziari, soprattutto al Nuovo complesso di Rebibbia, chiedono di assumere i detenuti più adatti alle loro attività commerciali. Un aiuto cuoco è in arrivo a Le Serre by ViVi di via della Camilluccia, un altro all’Osteria degli avvocati, a San Pietro, due braccianti sono stati scelti dall’azienda agricola Tre colli di Montelibretti, uno dall’agriturismo Le roghede di Acquapendente, tre operai cominceranno a lavorare negli stabilimenti di stampa e grafica di Pioda Imaging, due camerieri sono stati richiesti da Uniq, bar ristorante di via Settembrini, un banchista e un cameriere dalla ditta di ristorazione Purosud, un magazziniere aiuterà nel magazzino dell’azienda di abbigliamento Subdued, a Pomezia, un manovale sta entrando nell’azienda edile Mirmat service srl di Daniel Pisani, Ethicatering sta cercando personale nel carcere di Velletri, Milleniumtech ha affidato alla sartoria del carcere di Viterbo una commessa da 300 tra sacchi per vele e borse tecniche, Anbi Lazio ha assunto un operaio per il consorzio di bonifica del Litorale nord. È arrivata disponibilità anche da Napoli, dove la Stazione Zoologica Anton Dohrn ha proposto tre tirocini, e altri tre tirocini li ha offerti la società Nausicaa di Carrara ai detenuti di Massa. Ci hanno teso una mano pure da Perugia: lo staff di Brunello Cucinelli cerca un detenuto che parli un buon inglese per inserirlo nell’ufficio del customer service. In questi mesi sono stati firmati accordi con diverse realtà, tra queste l’Associazione italiana costruttori edili e l’Unione artigiani italiani. Stanno sposando il progetto l’Empire sport resort, che ha bisogno di uomini per la manutenzione, il circolo sportivo magistrati della Corte dei conti, che necessita di un operaio per i campi e per il verde, la Federazione nazionale imprese di pulizia, la Confederazione europea delle piccole imprese, il presidente della SS Lazio Lotito, l’agenzia per il lavoro Orienta Spa - Società benefit. Ma Seconda chance trova alleati anche nel pubblico. L’Istituto superiore di sanità a novembre ha assunto tre detenuti per la manutenzione. Sono in corso interlocuzioni, e in alcuni casi si è già alla firma del protocollo d’intesa, con la Rai, col Cnel, col Cnr, con la Croce rossa, col Mipaaf, con l’Agenzia delle dogane e dei monopoli, col Parco nazionale del Circeo etc etc per arrivare ad assunzioni e/o a corsi di formazione professionale negli istituti amministrati dal provveditore Cantone. Castrovillari (Cs). Detenuto suicida in carcere Gazzetta del Sud, 15 marzo 2022 Un detenuto si è tolto la vita oggi impiccandosi all’interno della cella nel carcere di Castrovillari (Cs). L’uomo ha atteso che il suo compagno di stanza uscisse e poi si è suicidato. A rendere noto l’episodio sono Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del sindacato di Polizia penitenziaria Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale. L’uomo è stato trovato dagli agenti della Polizia penitenziaria “che - spiegano i sindacalisti - sono intervenuti immediatamente, ma purtroppo non è stato possibile salvargli la vita, come avviene il più delle volte nelle carceri italiane. Ricordiamo - aggiungono - che ogni anno la Polizia penitenziaria salva la vita a che a 1.500 detenuti che tentano il suicidio nelle nostre carceri. Gesti eroici messi in atto da uomini normali che tutti i giorni svolgono un lavoro diffide, con pochi uomini e pochi mezzi”. Torino. Sezione “Filtro”: quelle terribili condizioni già denunciate dal Garante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 marzo 2022 Non solo il “Sestante”, ma anche per il reparto “Filtro” del carcere di Torino, il Garante nazionale delle persone private della libertà ha chiesto fin dal 2017 la sua chiusura per le condizioni da “terzo mondo”. Ora si auspica che la ministra Marta Cartabia - dopo che durante l’ultima visita l’ha potuta vedere con i suoi occhi - dia un chiaro impulso per la chiusura del reparto. “Ho visto un reparto “A” inguardabile per la disumanità, tanto per le condizioni in cui deve operare la polizia penitenziaria quanto per quelle in cui si trovano i detenuti”, ha detto sabato la Guardasigilli al termine della visita. Ma per capire di che cosa si tratta, viene in aiuto il rapporto relativo alla visita effettuata il 2 marzo 2018 presso il carcere di Torino ‘ Lorusso e Cutugno”, finalizzata alla verifica delle condizioni materiali degli ambienti, della vita detentiva delle persone detenute, del rispetto dei diritti umani fondamentali alla dignità e alla salute, nelle Sezioni dell’Articolazione di tutela della salute mentale ‘il Sestante’ e nella sezione ‘Filtro’. Ricordiamo che la delegazione era composta da Mauro Palma - presidente del Garante nazionale, Emilia Rossi - componente del Collegio del Garante nazionale, Elena Adamoli - componente dell’Unità organizzativa Privazione della libertà e Migranti, Alessandro Albano - responsabile dell’Unità organizzativa Relazioni nazionali e internazionali, Studi Gianni Massaro - componente dell’Unità organizzativa Privazione della libertà in ambito penale. Una visita che era stata preceduta già a maggio 2017, e volta a verificare se abbiano nel frattempo provveduto per risolvere le criticità già segnalate. Nulla da fare. Creata nel 2012 per affrontare il fenomeno dei body stuffer - Ma che cos’è la sezione “Filtro” del carcere di Torino? Come evidenza il rapporto del Garante, collocata al piano terra, padiglione A, dell’Istituto penitenziario, la Sezione è stata creata nel 2012 per affrontare il fenomeno crescente dei cosiddetti body stuffer. Quest’ultimo è un termine della letteratura medica dove vengono indicati i piccoli trafficanti di droga che temendo di essere scoperti dalle forze dell’ordine nella fase di arresto ingoiano impulsivamente ovuli contenenti sostanze stupefacenti per finalità di occultamento. Vengono distinti dai body packer, i corrieri, dediti al trasporto di grosse quantità di droga. Tale sezione nasce con la dotazione di attrezzatura specifiche (Drug buggy compact o water nautico) per il recupero degli ovuli di sostanza stupefacente di cui si sospetta l’ingestione da parte di persone arrestate per attività di spaccio. L’idea di fondo era chiaramente quella di realizzare nell’Istituto l’intervento - sostanzialmente di Polizia - che altrimenti avrebbe richiesto un ricovero ospedaliero, avvalendosi dell’assistenza sanitaria garantita dal Presidio per la tutela della salute interno al carcere, gestito dalla Asl T02. L’innovazione è stata accolta con plauso e rilievo mediatico, anche in ragione del fatto che si trattava della prima iniziativa del genere nel panorama penitenziario italiano. Ma è stato un chiaro fallimento. A distanza di anni, infatti, il Garante ha ritenuto che sia necessario il ripensamento dell’esperimento e della soluzione individuata. Sette stanze di pernottamento con un letto singolo o a castello - La sezione è composta di sette stanze di pernottamento censite come singole ma effettivamente dotate di un letto o in alcuni casi di un letto a castello di due piani e di una ulteriore stanza attrezzata con il ‘ water nautico’ e la strumentazione per l’espulsione e reperimento degli ovuli. Al momento della visita era occupata solo la stanza numero 4, nella quale giacevano per terra appoggiati su alcune coperte due persone, ivi ristrette da due giorni. Dal rapporto del Garante si apprende che le condizioni materiali della stanza occupata sono risultate del tutto analoghe a quelle delle altre camere, quanto a elementi strutturali e stato di manutenzione: 8 metri quadri di ampiezza, sporcizia diffusa, un letto a castello fissato al pavimento, privo di materassi e di ogni genere di corredo (lenzuola, cuscino, federe), assenza di qualsiasi elemento ordinario di arredo (tavolo, armadietto, sgabello), senza televisore e ogni presidio igienico e, infine, dotata di scarsa luce naturale. Secondo quanto riferito alla delegazione, alle persone ristrette vengono forniti solo per la notte dei ‘ materassi ginnici’ che sono poi ritirati al mattino. Come riportato alla delegazione dal direttore dell’istituto di allora (da poco si è insediata la direttrice Cosima Buccoliero), la tipologia di materasso individuata risponde all’esigenza di prevenire l’occultamento degli ovuli eventualmente espulsi fuori controllo che, invece, è possibile effettuare nei materassi di materiale spugnoso utilizzati nell’ordinario corredo delle stanze di pernottamento. Tuttavia, lo stesso direttore ha informato che, nella prospettiva di migliorare le condizioni di vita delle persone assegnate alla Sezione, è stato predisposto l’acquisto di un nuovo genere di materassi, forniti di copertura rigida e che quindi non possono essere scavati per occultare gli ovuli. Una volta acquisiti in dotazione, questi potranno essere lasciati sulle brande dei letti a castello per l’intera giornata. Nella “filtro”, la detenzione è solo restrizione personale e isolamento - Gli ambienti comuni della Sezione sono costituiti esclusivamente da una sala doccia, fredda in quanto provvista di un solo termosifone palesemente troppo piccolo per l’ampiezza della stanza, e di un’area passeggio scoperta e quindi non utilizzabile in caso di intemperie, vuota, angusta, con mura alte che accentuano le già ridotte dimensioni perimetrali. Nella sezione “Filtro”, la detenzione è esclusivamente restrizione personale e isolamento. Non si svolge alcuna attività, non è prevista la socialità tra le persone ristrette. Desta grande perplessità - si legge nel rapporto del Garante - l’utilizzo del personale di Polizia penitenziaria per svolgere l’attività di estrazione degli ovuli dal materiale organico, mansione totalmente estranea alle sue competenze e rischiosa sotto il profilo della salute e della sicurezza dell’operatore, che non ha una formazione specifica in campo sanitario: il macchinario alimentato elettricamente usato per filtrare gli ovuli viene azionato da personale di Polizia, cui peraltro è dato in dotazione un anti- igienico guanto di pelle in luogo di guanti ‘usa e getta’. Dopo le 20 quando non c’è personale addetto o quando il macchinario non funziona o quando il sospetto body stuffer non ha le ‘feci molli’, la persona viene fatta defecare su un water di plastica e il prodotto viene lasciato lì sino al mattino, quando viene preso e inserito in un differente, più rudimentale ulteriore macchinario, azionabile a mano, usato sempre per filtrare gli ovuli. Già in quel rapporto del 2018, il Garante denunciava che le condizioni materiali della Sezione “Filtro” e la qualità della vita detentiva risultano “complessivamente inaccettabili e rischiano di esporre l’Amministrazione a censure anche degli organi di controllo sovranazionali”. Ora, a distanza di anni, c’è una ministra che lo ha potuto vedere di persona. Ed è stata la direttrice stessa a mostrarle la sezione “Filtro” per aprire una seria riflessione. Torino. Picchiato e senza visite mediche rispedito in cella di Simona Lorenzetti Corriere di Torino, 15 marzo 2022 Nuova denuncia al Lorusso e Cutugno. Ministero chiamato in causa al processo sulle violenze. Picchiato e poi chiuso in cella per 48 ore, con il divieto di presentarsi dal medico per le terapie di routine. Una nuova presunta storia di abusi arriva dal carcere Lorusso e Cutugno. È contenuta in un fascicolo d’inchiesta della Procura di Torino, al quale sono allegate le foto che ritraggono i lividi sul corpo del detenuto. La vittima è Vittorio Jerinò, personaggio di spicco della ‘ndrina di Gioiosa Jonica. È in carcere dall’ottobre del 2014, quando i carabinieri lo scovarono in un alloggio bunker di Torino dopo 85 giorni di latitanza. L’uomo è accusato di essere l’esecutore dell’omicidio dell’ex ‘ndranghetista Salvatore Germanò, freddato a colpi di pistola nelle campagne di Borgo San Dalmazzo e seppellito le sponde del torrente Gesso. La sentenza è passata in giudicato e sta scontando la condanna. A dispetto del suo curriculum criminale, racchiuso in cinque pagine di casellario giudiziario, Jerinò oggi è un uomo malato. Soffre di diverse patologie, tanto che durante la pandemia il Tribunale di Sorveglianza gli aveva concesso - seppure per un periodo limitato - i domiciliari per scongiurare il contagio. L’episodio di cui sarebbe stato protagonista e vittima risale al 15 gennaio, qualche mese dopo essere rientrato in cella. Era un sabato. Stando alla denuncia, depositata nelle settimane scorse dall’avvocato Cristian Scaramozzino, quella mattina Jerinò aveva prenotato una videochiamata con la figlia, costretta a casa dal Covid. Quando si è presentato in sala colloqui, sarebbe stato accolto da una guardia. Un uomo dalla stazza imponente che gli avrebbe vietato quell’unico contatto con il mondo esterno. “Qui decido io chi può chiamare o no”, avrebbe chiosato l’addetto alla sorveglianza. Poi, di fronte alle rimostranze del detenuto, l’agente lo avrebbe colpito con una raffica di pugni alla spalla, al braccio e al ginocchio. Infine, lo avrebbe rinchiuso nella cella fino al lunedì successivo. “Il fine settimana, però, non trascorreva tranquillo - si legge nella denuncia. Domenica mattina, l’agente apriva lo spioncino della cella e puntava agli occhi del detenuto un’accecante luce per dieci minuti. Peraltro, il medico della struttura lo aveva chiamato per le visite, ma non gli era stato consentito di lasciare la cella”. Solo il lunedì Jerinò è riuscito a contattare la famiglia e raccontare quanto accaduto. In quei giorni, il detenuto avrebbe anche cercato di mettersi in contatto con la polizia giudiziaria del carcere, ma la sua richiesta scritta è stata respinta. Ora sarà la Procura a fare luce sulla vicenda. Intanto ieri è iniziata l’udienza preliminare dell’inchiesta sulle presunte torture avvenute all’interno del penitenziario tra il 2017 e il 2019. Gli imputati sono 25: tra loro anche l’ex direttore Domenico Minervini, che avrebbe espresso la volontà di farsi interrogare e di essere giudicato con rito abbreviato. Il ministero della Giustizia è stato chiamato in causa come responsabile civile, mentre i garanti comunale, regionale e nazionale dei detenuti si sono costituiti parte civile, insieme con l’associazione Antigone. Roma. “Wissem Abdel Latif è rimasto legato e sedato per 100 ore prima di morire” di Giansandro Merli Il Manifesto, 15 marzo 2022 Il 26enne tunisino deceduto il 28 novembre scorso all’ospedale romano San Camillo. Dopo la quarantena sulla nave Atlas era stato portato nel Cpr di Ponte Galeria. L’avvocato: va contestato anche il reato di sequestro di persona. Wissem Ben Abdel Latif ha trascorso i suoi ultimi cinque giorni di vita legato a un letto di ospedale e sedato, senza possibilità di comunicare. È rimasto in contenzione per 40 ore consecutive all’ospedale Grassi di Ostia, dove era stato trasferito il 23 novembre 2021 dal Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, e poi per altre 63 ore in un corridoio del reparto psichiatrico dell’ospedale romano San Camillo, dove è arrivato il 25 del mese. Ha avuto braccia e gambe libere solo nel trasferimento da una struttura all’altra. Si è spento il 28 per arresto cardiocircolatorio. “Lo hanno lasciato scivolare verso la morte. La contenzione è permessa solo per brevi periodi dopo episodi di violenza. Se è permanente non ha giustificazioni”, dichiara l’avvocato della famiglia Francesco Romeo. Ieri l’Associazione stampa romana ha ospitato la presentazione del comitato “Verità e giustizia per Wissem Ben Abdel Latif”. È promosso da Lasciatecientrare, che segue la vicenda dall’inizio, Fondazione Franca e Franco Basaglia, Psichiatria democratica e Associazione Sergio Piro. Decine le adesioni. Il 26enne tunisino era sbarcato a Lampedusa il 2 ottobre scorso. Nei 56 giorni trascorsi in Italia ha conosciuto solo segregazione, etnica e non. Dopo l’hotspot finisce sulla nave quarantena Atlas. Da lì al Cpr, il 13 ottobre. Per i tunisini l’isolamento sanitario galleggiante diventa spesso l’anticamera di detenzione amministrativa ed eventualmente rimpatrio. L’8 novembre uno psichiatra del Centro di salute mentale lo incontra dietro le sbarre e diagnostica con una sola visita il disturbo schizoaffettivo, una grave patologia. Il ragazzo non aveva mai mostrato sintomi. Due settimane dopo viene disposto il trasferimento al Grassi. Da quel momento Abdel Latif non può più comunicare. Un mediatore culturale arriva solo il giorno prima del decesso al San Camillo, ma lui dorme profondamente a causa dei sedativi. Per avere i dettagli del calvario sanitario l’avvocato Romeo ha dovuto chiedere l’intervento della procura di Roma: la “Direzione regionale salute e integrazione sociosanitaria” del Lazio si è rifiutata di trasmettergli i documenti richiesti. Le carte dicono che tra il 23 e il 28 novembre Abdel Latif è stato alimentato un’unica volta, il 24, e poi sottoposto solo a idratazione. La creatina fosfochinasi, enzima presente in cellule e tessuti, era arrivata a 7.051 unità per litro. Il livello normale è 200. La contenzione causa simili aumenti. Il ragazzo non è stato sottoposto a elettrocardiogramma. Nella cartella clinica, inoltre, mancano le schede di contenzione, mentre le annotazioni mediche sono firmate solo con le iniziali del personale medico. La procura ha aperto un’indagine contro ignoti per omicidio colposo, ma la difesa chiederà ai pm di formulare anche l’ipotesi di sequestro di persona. “È questa la strada per perseguire i maltrattamenti in forma di contenzione, come mostra la sentenza Mastrogiovanni”, afferma Maria Grazia Giannichedda, presidente della Fondazione Basaglia. Francesco Mastrogiovanni, maestro e anarchico, morì il 4 agosto 2009 all’ospedale San Luca di Vallo della Lucania dopo essere rimasto legato 83 ore. Medici e infermieri sono stati condannati in Cassazione per sequestro di persona. “Abdel Latif ha subito un doppio abominio: i Cpr e la contenzione”, ha detto ieri il senatore Gregorio De Falco (gruppo misto). Yasmine Accardo, di Lasciatecientrare, ha promesso: “Continueremo a cercare verità e giustizia per Wissem e tutti gli altri che combattono per superare le frontiere” Roma. Università Sapienza, Garante e Dap insieme per diritto allo studio dei detenuti garantedetenutilazio.it, 15 marzo 2022 Sottoscritto il protocollo d’intesa tra Garante dei detenuti, Prap e Università Sapienza, per consentire alle persone detenute di studiare e conseguire titoli di studio a livello universitario. “Con questo protocollo d’intesa, stipulato con la più grande università italiana, si completa la rete delle università pubbliche del nostro territorio con le quali da tempo abbiamo stipulato analoghi accordi, per garantire l’istruzione universitaria all’interno degli istituti penitenziari”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, dopo aver sottoscritto con il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria per il Lazio, Abruzzo Molise, Carmelo Cantone, e la Rettrice dell’Università di Roma Sapienza, Antonella Polimeni, un protocollo d’intesa, volto a garantire il funzionamento del “Polo universitario penitenziario” dell’Università Roma Sapienza (Pup-Sapienza). “Lo studio universitario in carcere - prosegue Anastasìa - è supportato da una pluralità di interventi, come le esenzioni dalle tasse scolastiche regionali, la fornitura dei libri di testo e dei materiali necessari allo studio e il sostegno all’attività di tutorato. L’istruzione universitaria è un passaggio molto importante per le persone detenute che riescono ad arrivarvi e che spesso ci arrivano al termine di cicli scolastici partendo dal totale analfabetismo. Per chi ha lunghe pene da scontare è un’occasione straordinaria di rielaborazione della propria esperienza e per tanti che hanno dovuto interrompere il proprio percorso di studi è un’importante possibilità per riprenderli. E’ un pezzo fondamentale di quella che in gergo penitenziario viene chiamata l’offerta trattamentale, derivante dall’articolo 27 della Costituzione che consiste innanzitutto nella capacità di offrire alle persone in carcere l’opportunità di costruirsi una vita diversa: con il protocollo che abbiamo firmiamo oggi - conclude Anastasìa - diamo sostegno a questa opportunità”. L’accordo sottoscritto oggi con l’Università Roma Sapienza completa il quadro dei protocolli d’intesa stipulati dal Garante con gli atenei pubblici del Lazio con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap). Complessivamente, nello scorso anno accademico risultavano iscritte 121 persone detenute alle università del Lazio. All’offerta universitaria contribuiscono da tempo, in forza di analoghi protocolli d’intesa, l’Università degli studi di Roma Tor Vergata, l’Università degli studi di Roma Tre, l’Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale, l’Università della Tuscia. L’accordo sottoscritto oggi prevede che Sapienza si impegni ad agevolare il compimento degli studi universitari delle persone detenute. L’immatricolazione e l’iscrizione a corsi di studio attivati da Sapienza avverranno secondo le norme contenute nello Statuto, nei Regolamenti dell’Università e nei rispettivi bandi di ammissione, ma è prevista la possibilità di richiedere l’esonero dalla prova d’ingresso, laddove prevista. Gli studenti e le studentesse afferenti al Pup-Sapienza sono esenti dal pagamento delle tasse universitarie e pagano un contributo di importo fisso fissato annualmente. Al Garante dei detenuti il protocollo d’intesa attribuisce la funzione di raccordo tra le parti e i detenuti iscritti, assicurando l’esenzione dal pagamento della tassa regionale, nonché l’acquisto di libri e di altri strumenti indispensabili allo studio e il proprio supporto agli studenti detenuti nelle procedure di immatricolazione, iscrizione, nonché nelle altre pratiche riguardanti la carriera scolastica. Al Garante spetta altresì il la funzione di coordinamento con la Regione Lazio e con DiSCo - Ente regionale per il diritto allo studio e alla conoscenza - affinché assicurino, nell’ambito delle rispettive competenze, il proprio sostegno per fornire agli studenti detenuti gli strumenti indispensabili allo studio e con la Regione Lazio al fine di individuare possibili fondi regionali per il finanziamento delle iniziative. Nel protocollo d’intesa si prevede, tra l’altro, che i docenti delle singole materie incontrino, anche in modalità telematica, gli studenti e le studentesse detenuti non meno di tre volte prima dell’esame, l’individuazione di tutor, tra gli studenti e le studentesse universitari non detenuti, con il compito di fornire supporto nelle varie fasi del percorso di studio. Dal canto suo, l’amministrazione penitenziaria s’impegna: a fornire gli spazi didattici necessari all’interno degli istituti penitenziari; a favorire, ove possibile, l’utilizzo dell’insegnamento a distanza e l’assegnazione dei detenuti studenti in camere e reparti adeguati allo svolgimento dello studio, rendendo inoltre disponibili appositi locali comuni; ad agevolare l’ingresso negli istituti penitenziari dei docenti incaricati di svolgere attività di tutorato o impegnati nelle prove d’esame; favorire l’accesso ai canali di informazione bibliografica, di elaborazione e calcolo utili ai fini della tesi di laurea. Roma. “Semi di libertà”, la onlus che contrasta la recidiva di Antonella Barone gnewsonline.it, 15 marzo 2022 “Attenzione: può creare indipendenza!” recitava nel 2014 la pubblicità della birra “Vale la pena” realizzata da Semi di libertà onlus assieme a detenuti del carcere romano di Rebibbia. Uno slogan per promuovere uno degli obiettivi dell’organizzazione: favorire l’autostostenibilità economica delle realtà produttive che nascono in carcere. “Autonomia non facile da raggiungere, soprattutto se ci si avventura in questo mondo animati dalle migliori intenzioni ma senza sapere che la mancata commercializzazione dei prodotti e una comunicazione approssimativa possono far morire precocemente il migliore dei progetti - spiega Paolo Strano, presidente di dell’Associazione - I valori che riguardano il carcere non sono facili da comunicare, bisogna far capire che opportunità di lavoro e formazione abbassano il tasso di recidiva e ne guadagna tutta la società civile”. Romano, un passato da fisioterapista, Paolo Strano prima di fondare la onlus si è “formato” per due anni ai temi e problemi del mondo penitenziario lavorando come operatore sanitario nel centro clinico di Regina Coeli. “Sono entrato in carcere carico di tutti gli stereotipi possibili nei confronti dei detenuti. Ma quando ti trovi davanti la persona e conosci la sua storia, le cose cambiano. Quello che mi ha colpito di più sono state le cosiddette porte girevoli, detenuti alla quinta carcerazione, spesso persone con risorse, capacità e voglia di trovare alternative a un’esistenza fatta di andirivieni tra dentro e fuori. È nato così il mio impegno e, nel 2013, ho fondato ‘Semi di libertà’ con la mission di creare percorsi inclusivi di persone in esecuzione penale, per evitarne la recidiva”. Oggi la onlus ha all’attivo nove progetti, alcuni conclusi e divenuti spin off, come il micro birrificio “Vale la pena”. “E’ stata la nostra prima produzione, cofinanziata nella fase di start-up da Miur e Cassa delle Ammende - continua Strano -. Ci ha portato molta visibilità, anche se era un piccolo progetto di formazione professionale nella filiera della birra artigianale, collegato a un istituto alberghiero. La produzione si è conclusa nel 2019, abbiamo venduto il brand e “Vale la pena” è divenuta una realtà che potrà trovare una sua autonomia all’interno di ‘Economia carceraria’, un altro dei nostri progetti”. Fondata nel 2018 insieme a Oscar La Rosa come società di vendita di prodotti realizzati con il lavoro di persone in esecuzione penale in tutta Italia, ‘Economia carceraria’ si avvale di una piattaforma, economiacarceraria.com, dove è possibile ordinare un po’ di tutto o sapere dove acquistare e magari assaggiare i prodotti dalle carceri. “Abbiamo creato questa realtà proprio per aiutare le grandi e piccole economie carcerarie sparse sul territorio nazionale, a commercializzare i prodotti attraverso vendita ed eventi dedicati, evitando così quell’instabilità di cui parlavo all’inizio”. Il sito espone, accanto ad articoli già affermati, altri provenienti da realtà meno conosciute e dalle lavorazioni dell’Amministrazione penitenziaria. Nell’iniziativa rientra anche, ‘Il pub and shop - Vale la pena’, il locale di Via Eurialo a Roma dove si possono acquistare o degustare birre artigianali e molti altri prodotti di economia carceraria, partecipare a eventi o a performance di karaoke. ‘Semi di libertà’ realizza oggi accessori artigianali in pelle con il brand ‘Fila Dritto’, i pregiati sandali capresi ‘A piede libero’, lavori ‘serigrafici ‘Jail free’ e, con il progetto ‘Semiliberi’ produce germogli freschi per consumo umano in partnership con la cooperativa ORTO nel carcere di Viterbo. In tutto sono circa 20 le persone occupate in attività dentro e fuori il carcere. “Ci siamo orientati - sottolinea Paolo Strano - prevalentemente verso l’offerta di opportunità esterne e quindi dirette a persone lavoranti ai sensi dell’art. 21 o in misura alternativa perché la fase di avvicinamento al fine pena è la più critica, quella in cui è necessario davvero costruire un ponte di passaggio verso la libertà”. A nove anni di distanza dalla nascita di ‘Semi di libertà’ la mission iniziale, evitare la recidiva, è per i suoi fondatori ancora valida e concreta, al punto che hanno deciso di approfondire il tema con uno studio specifico. “In convenzione con l’Università di Torino abbiamo promosso uno studio sull’impatto economico e sociale della recidiva su un campione finalmente significativo di detenuti. Sappiamo che questo tipo di ricerche è molto complesso per la grande presenza di variabili. Non a caso le ricerche di cui disponiamo sono risalenti nel tempo e frammentarie. Questo studio potrebbe essere un importante contributo nel tradurre in termini economici il costo del mancato reinserimento socio-lavorativo delle persone detenute e far capire quanto è importante investire, per evitare che tornino in carcere.” Roma. Prodotti e lavoro dei detenuti per un catering sociale e sostenibile redattoresociale.it, 15 marzo 2022 È “EthiCatering”, che dopo il difficile periodo del Covid torna a presentare la propria attività basata sui prodotti eno-gastronomici di eccellenza realizzati nelle carceri e da realtà che operavano su terreni confiscati alle mafie. E grazie ai colloqui con giovani detenuti formati in scuola alberghiera, spazio all’assunzione sia in sala che in cucina. Si chiama EthiCatering, la linea etica di Magnolia eventi, ed è il primo catering italiano dalla mission focalizzata sull’inclusione sociale e sulla sostenibilità nei suoi diversi aspetti: alimentare, ambientale e sociale. “L’avventura di Ethicatering nasce nel 2014, quando conoscemmo i prodotti eno-gastronomici di eccellenza realizzati nelle carceri e da realtà che operavano su terreni confiscati alle mafie -affermano i responsabili -. Ce ne siamo innamorati per la loro bontà e per il messaggio di riscatto che trasmettevano. Cosi, dopo un lungo studio, abbiamo iniziato a concepire l’idea di un catering diverso, che trasmettesse con il cibo, bontà e impegno sociale”. Il debutto fu caratterizzato da un servizio catering per 180 persone alla Camera dei Deputati, per il Convegno “La trasparenza e la legalità nella sanità”. Fu il primo di una lunga serie di grandi eventi, anche grazie a Libera contro le mafie, che scelse come fornitore EthiCatering per i numerosi eventi organizzati in quell’anno, legati alla confisca dei beni alle mafie. Con il tempo, tante aziende e istituzioni hanno scelto EthiCatering per i loro eventi: ministero dell’Istruzione, Enel, Acea, Poste italiane, Corte di Cassazione, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ikea, Ambasciate e molti altri. “La pandemia ci ha fermati - affermano ancora i responsabili -, ma come spesso accade nei momenti di difficoltà, è stato un tempo proficuo, per creare nuove e stimolanti sinergie. Ad ottobre 2021 a Roma si è tenuto il Festival di Economia carceraria, voluto ed organizzato da Oscar La Rosa e Paolo Strano, fondatori del sito E-commerce Economia Carceraria e della birreria Vale la Pena. Vi abbiamo trovato tante cooperative e laboratori delle carceri che conoscevamo e molte nuove realtà. Grazie all’e-commerce si è ulteriormente rafforzata la partnership perché ora possiamo reperire i prodotti con maggior snellezza e facilità mentre prima era molto più complicato, perché dovevamo fare singole ordinazioni ad ogni laboratorio”. Inoltre, “si stanno attivando colloqui con giovani detenuti formati in scuola alberghiera che è nostra volontà assumere sia in sala che in cucina. Grazie alla collaborazione con Gabriella D’Amico, consigliera di Assobotteghe, saremo presenti in maggio alla fiera “Osterie e Botteghe” organizzata dalle Botteghe equosolidali nel mondo e Slow Food”. EthiCatering ha selezionato prodotti principalmente del territorio laziale realizzati da cooperative sociali presenti su territori confiscati alle mafie e nei laboratori delle carceri. “Diffondiamo la cultura e la necessità di una cucina orientata sul consumo di verdure biologiche e siamo specializzati in menù vegetariani e vegani, attenti alle intolleranze ed allergie, non per moda ma per tutelare la nostra salute e quella dell’ambiente - continua -. Utilizziamo stoviglie monouso in Mater B, materiale compostabile ecologico. Molti dei supporti di allestimento - come tavoli, sedie e complementi di arredo - vengono realizzati nel nostro laboratorio anche con materiali di recupero. Evitiamo lo spreco di cibo, collaborando con diverse associazioni certificate che si occupano della distribuzione dei pasti gratuita. Poniamo estrema attenzione alla raccolta differenziata”. Grazie alla collaborazione con Borgo ragazzi Don Bosco e Associazione Italiana Persone Down, EthiCatering inserisce inoltre nel proprio staff di camerieri, ragazzi in difficoltà e con sindrome di down in un percorso formativo, dando loro la possibilità di inserirsi nel mondo del lavoro e arricchendo la loro dignità di persone. Napoli. Carceri: al via gli incontri con i familiari vittime di camorra di Antonio Carlino cronachedellacampania.it, 15 marzo 2022 Il primo incontro si è tenuto oggi nel carcere di Poggioreale con le testimonianze di Claudio Salvia e Lucia Di Mauro, e del presidente di “Libera” per Napoli Antonio D’Amore. In vista della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti, che si terrà lunedì 21 marzo a Napoli, il Garante campano delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello, d’intesa con l’associazione Libera e il Coordinamento campano dei familiari delle vittime innocenti di camorra, ha organizzato una serie di incontri-testimonianze nelle carceri. Il primo incontro si e’ tenuto oggi nel carcere di Poggioreale con le testimonianze di Claudio Salvia e Lucia Di Mauro, e del presidente di “Libera” per Napoli Antonio D’Amore. Presenti all’incontro, il direttore di Poggioreale Carlo Berdini e Assunta Borzacchiello del Provveditorato Campano dell’amministrazione penitenziaria. “Persone che hanno subito una grande lacerazione - ha sottolineato il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello introducendo i lavori - per mano della camorra e della violenza, che noi tutti possiamo contribuire a ricucire, costruendo insieme una memoria comune a partire dalle storie di queste persone. Una testimonianza profetica di giustizia riparativa rivolta ai responsabili dei reati. Questi incontri portano alla responsabilizzazione degli autori di piccoli e grandi reati e, se sono terreno fertile, a programmi di riparazione e di integrazione sociale, così come previsto dalla Costituzione”. Claudio Salvia, funzionario del Ministero dell’Interno è il figlio di Giuseppe Salvia, ex vicedirettore del carcere di Poggioreale assassinato dalla criminalità organizzata (all’epoca capeggiata da Raffaele Cutolo, a capo della Nuova Camorra Organizzata). E’ un cammino pieno di ostacoli anche quello che ha scelto di percorrere Lucia Di Mauro, vedova Montanino. Gaetano, il marito, lavorava come guardia giurata e fu ucciso mentre era al lavoro la sera del 4 agosto 2009 in piazza Mercato da quattro giovanissimi che volevano sottrargli la pistola. Aveva 45 anni e una bambina ancora piccola. Antonio, il più giovane degli autori dell’omicidio, non aveva ancora compiuto diciassette anni, aveva anche lui un bimbo, concepito appena una settimana prima”. “Questo carcere - ha ricordato Claudio Salvia - è intestato a mio padre Giuseppe Salvia, per noi familiari delle vittime innocenti il fine pena mai! Pur comprendendo che spesso chi si trova in questi luoghi come ospite perché’ non ha famiglie forti alle spalle io dico che dovete utilizzare questo tempo per ripartire e vivere la resilienza”. Toccante la testimonianza di Lucia Di Mauro. “Siamo tutti frutto del male di questa città! La metà delle vittime innocenti dell’Italia è della nostra Regione, perché’ tanto male? Tanta violenza? Tanto odio? La memoria dei nostri cari passa anche attraverso la consapevolezza degli errori di chi ha commesso reati anche gravi ma vogliamo essere per voi un ponte”. Domani nel carcere di Secondigliano oltre ai rappresentanti di “Libera” ci saranno le testimonianze di due familiari delle vittime innocenti: Bruno Vallefuoco ed Emanuela Sannino, figlia di Palma Scamardella uccisa a Pianura a 35 anni nel 1994. Gli incontri, promossi dal Garante e dall’Associazione Libera continueranno nei prossimi giorni nelle carceri di Avellino e Salerno e si concluderanno venerdì in quello di Santa Maria Capua Vetere. Lecco. Giovani e rieducazione nelle parole di don Burgio, cappellano dell’Ipm Beccaria casateonline.it, 15 marzo 2022 “Nella vita si può solo migliorare, ma è impossibile cambiare la propria storia e da dove si viene”. Ha esordito con queste parole domenica sera don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano e fondatore della comunità d’accoglienza Kayros, invitato a parlare - presso l’oratorio San Giorgio alla comunità pastorale di Casatenovo - della sua esperienza con i giovani. L’idea di organizzare questo incontro speciale è nata dalla collaborazione tra Piazza l’idea, per cui erano presenti Gianni Di Vito (della cooperativa La Grande Casa) e altri collaboratori, e la pastorale giovanile casatese; insieme hanno dato vita alla serata dal titolo “Non esistono cattivi ragazzi”, motto che da anni accompagna l’attività di don Burgio tra i ragazzi delle comunità e delle carceri. Ad aprire l’evento è stato don Andrea Perego, vicario della comunità pastorale e referente per la pastorale giovanile e gli oratori delle cinque parrocchie casatesi, che ha ringraziato don Claudio per la sua presenza dando ufficialmente la parola all’ospite. Il cappellano ha subito spiegato la sua frase introduttiva, ricordando come essa le sia stata offerta da un ragazzo della comunità e sia stata per lui fonte di riflessione rispetto all’esperienza educativa e al rapporto che si crea con i giovani che delinquono. “Quando un ragazzo commette un reato non è sempre cosciente e consapevole delle proprie azioni, spesso agisce in branco attraverso aggregazioni createsi spontaneamente che delinquono all’improvviso. Il nostro obbiettivo primario come educatori, quindi, è quello di far nascere in loro una coscienza maggiore di quelle che sono le loro azioni e ciò lo si può fare solo con l’ascolto della loro storia, che è il punto di partenza fondamentale di ogni relazione tra adulto e giovane. Questa operazione di dialogo implica chiaramente il ruolo della fiducia, che espone di conseguenza alla possibilità del tradimento e per questo non facile da cedere soprattutto da parte di ragazzi che in primis non hanno magari mai ottenuto la fiducia da parte di qualcun altro” ha spiegato don Burgio, sottolineando nel suo intervento quanto sia importante poi da parte dell’adulto e dell’educatore il fatto di mettere da parte pregiudizi e preconcetti legati al ragazzo perché l’idea è quella di una relazione all’insegna della reciprocità e non dell’unilateralità. L’educatore, ha spiegato don Burgio, deve mettersi in gioco con i ragazzi che segue e non porsi su un piedistallo in una posizione privilegiata dettando regole che molto spesso sono sconnesse dal contesto. La fiducia può davvero creare rapporti costruttivi in grado di cambiare una vita, come nel caso del famoso rapper in arte “Baby Gang” (al secolo Zaccaria Mouhib), un giovane originario di Lecco dal passato difficile che dopo essere passato da dieci diverse comunità, è rimasto con don Burgio per tre anni grazie al rapporto di reciproca stima instaurata nel tempo con il sacerdote. Il ragazzo non si è solo sentito ascoltato ma anche accettato per quello che era al di là della performance o della prestazione e questo clima lo ha probabilmente spinto a inseguire la sua passione per la musica. L’adulto, secondo il cappellano del Beccaria, deve quindi saper raccogliere e accettare gli sbagli dei ragazzi senza pregiudizi, cercando invece di focalizzarsi sulla valorizzazione delle sue qualità e capacità. Non è un caso, infatti, che l’impianto della giustizia minorile si basi propri sul conetto di rieducazione mentre il carcere viene visto come forma di punizione residuale. Basti pensare che nelle 17 carceri minorili in Italia ci sono solo poco più di 300 ragazzi, un numero molto basso considerando le migliaia di denunce al giorno legate a reati realizzati da minori. Lo scopo della rieducazione dovrebbe quindi essere ben consolidato anche nella mentalità di chi vive con questi ragazzi cercando di accompagnarli verso la prospettiva di una vita migliore che non punti alla perfezione, inesistente tra gli umani, ma all’autenticità e alla passione. “Nei miei 20 anni di esperienza ho visto anche molti episodi di riconciliazione tra madri di giovani uccisi da coetanei e questi ultimi perché loro stesse non volevano consegnare la propria vita all’odio e al risentimento” ha proseguito don Burgio, “se non ci si ostina ad odiare per forza nella società, è possibile migliorare e ridare speranza a molti giovani in difficoltà che per lo più agiscono senza esserne consapevoli. Spesso infatti sono proprio i giovani delinquenti che si atteggiano da bulli ad essere stati loro stessi oggetto di bullismo e ricercano ora visibilità per mascherare delle fragilità interne. Questo viene poi amplificato dalla cultura adulta che si basa sulla ricerca sfrenata del successo e sulla prestazione, creando un senso di frustrazione e inadeguatezza in quei ragazzi che, come tutti, non si avvicinano a questo ideale di perfezione. In comunità, infatti, vengono sia ragazzi che non avevano niente e che hanno iniziato a delinquere per sopravvivere ma anche ragazzi di famiglie benestanti che proprio perché avevano tutto avevano bisogno di creare un’area di conquista personale attraverso i reati, indipendente da quella fornita dai genitori”. “Si può quindi cambiare?”, ha chiesto al pubblico don Burgio entrando nella fase conclusiva del suo intervento. La risposta che il cappellano ha dato è stata affermativa, a patto che l’adulto sia disposto ad accettare i tempi e i modi di questo cambiamento nei giovani e che il ragazzo inizi a circondarsi di rapporti autentici e che li viva all’insegna del rispetto e della stima reciproca. Molte volte è proprio con queste premesse che si creano le condizioni indispensabili per far sì che il giovane senta di avere un’alternativa rispetto alla delinquenza, la quale è spesso da ricercare all’interno del giovane stesso, tra le sue passioni e i suoi sogni. La musica rap per molti di questi ragazzi ha significato proprio questo, ha spiegato don Burgio, perché è la concretizzazione di un impegno faticoso e costante che li aiuta in qualche modo a sentirsi valorizzati e responsabilizzati potendo far arrivare le proprie strofe a molti altri giovani. “Io penso che, aldilà della presentazione di valori e morali, la passione sia ciò che possa far cambiare davvero un ragazzo” ha concluso don Claudio, “spesso anche nella proposta educativa cristiana proponiamo un bene che non affascina, la cosiddetta banalità del bene, fatta di valori estemporanei, ideali e astratti in cui è difficile per questi ragazzi rispecchiarsi. Come educatori, invece, dovremmo essere delle figure che offrono una testimonianza di vita credibile e coerente, mettendoci sullo stesso piano dei ragazzi ed entrando in un rapporto sincero e schietto con loro. Io, per esempio, ho deciso di vivere tutto il tempo con i ragazzi della comunità, per affrontare con loro ogni situazione e difficoltà del giorno e della notte e per far conoscere loro un adulto il più possibile “reale”. Bisogna superare la banalità del bene secondo cui l’adulto va sempre e incondizionatamente ubbidito perché la verità del bene sta invece nel cammino fianco a fianco per crescere insieme, ragazzo e adulto”. Al termine del suo intervento, don Claudio ha risposto ad alcune domande postegli dal pubblico mentre è stato don Andrea a ringraziare nuovamente gli ospiti e gli organizzatori congedando così le numerose persone che hanno gremito il salone dell’oratorio. Trieste. Il teatro sociale in carcere: recita e riscatto, senza pietismo di Veronica Rossi altreconomia.it, 15 marzo 2022 Dal percorso “Rinascere dalle ceneri”, realizzato dalla compagnia Fierascena all’interno della casa circondariale triestina, è nato uno spettacolo importante. Il Teatro stabile Rossetti ha deciso di acquistarne due repliche che si terranno tra aprile e maggio all’interno della struttura. “Quanto può durare un’ora? E un minuto? Quanto può durare un minuto? Quando è il momento giusto di parlare? E quali sono le parole giuste per dire la verità? Non tutto si può dire, ma c’è un linguaggio segreto con cui i nostri cuori parlano tra di loro, costantemente”. Le battute dello spettacolo teatrale “Questo, immenso. Dialoghi con il tempo e con il cuore umano” colpiscono in profondità. A pronunciarle, il 17 febbraio scorso, cinque detenuti della casa circondariale di Trieste, insieme alla regista, Elisa Menon, e alla sua collaboratrice, Giulia Possamai, della compagnia teatrale Fierascena. La rappresentazione, arrivata alla conclusione di un laboratorio durato alcuni mesi, si è tenuta proprio all’interno del carcere, con un pubblico selezionato. Tra gli spettatori anche il direttore e il presidente del Teatro stabile Rossetti, che, poi, a sipario chiuso, hanno preso un’importante decisione. “Vista la grande professionalità degli attori e la qualità del loro lavoro, tra aprile e maggio organizzeremo due repliche -spiega Roberta Torcello, la direttrice di produzione del Rossetti- sempre all’interno della casa circondariale. Agli spettacoli potranno accedere 20 persone paganti, per cui noi gestiremo le pratiche per l’ingresso nella struttura”. Elisa Menon, regista goriziana con 12 anni di esperienza nel teatro sociale, non è nuova al lavoro nelle carceri. In passato, quando abitava a Roma, è entrata anche a Regina Coeli e a Rebibbia. All’interno della casa circondariale di Trieste è andata per la prima volta due anni fa, con un primo percorso teatrale. Poi, nel 2021, è arrivata la possibilità di svolgere un laboratorio finanziato dalla Regione tramite l’ente di formazione Enaip e la struttura ha deciso di ricontattare Fierascena. “Questo corso -spiega Chiara Miccoli, funzionaria giuridico pedagogica della casa circondariale- è dedicato all’acquisizione di competenze trasversali; il teatro può veramente incidere sulla possibilità di revisione critica del proprio passato e sulla prevenzione delle recidive future. È un aiuto fondamentale per la crescita personale dei detenuti, così come i percorsi di lettura e scrittura creativa e il lavoro”. Per la loro partecipazione al percorso teatrale, gli studenti hanno ricevuto un piccolo indennizzo economico di due euro all’ora. “Non si tratta di una grande cifra -commenta Elisa Menon-, ma è un simbolo importantissimo: significa che lo Stato riconosce, anche economicamente, il tuo impegno su te stesso per acquisire competenze emotive e crescere come persona”. E questo corso ha davvero aiutato alcune persone a ragionare sulla propria vita, a scoprire parti di sé che non conoscevano. “Queste lezioni e poi lo spettacolo -racconta Leonard Romee, uno dei detenuti coinvolti- hanno fatto uscire una nuova parte di me: non pensavo di poter essere romantico, mi piaceva fare il ‘duro’ e ritenevo che tutto si riducesse a questo. A breve compio 34 anni: sono arrivato a quest’età senza conoscermi veramente, è incredibile”. L’uomo, che in Spagna ha moglie e figli, tra 10 mesi sarà libero e porterà con sé le emozioni che ha vissuto durante il percorso teatrale. “Quando abbiamo visto le persone che erano venute a vederci alzarsi in piedi -continua- per applaudire dei delinquenti, perché è questo che fuori pensano di noi, ho provato delle sensazioni impossibili da spiegare a parole”. Il bisogno di comunicare, per chi passa le sue giornate chiuso tra quattro mura, è forte. “Sono contento -dice Aimen Fetati, che ha vent’anni e potrà uscire di prigione a primavera del 2023- di aver trasmesso qualcosa, una testimonianza della nostra vita qua. Stare in carcere è difficile, abbiamo solo tre colloqui al mese e ora le nostre famiglie le possiamo vedere solo attraverso una lastra di plexiglass. Ero caduto in depressione, ma ora, grazie a questa attività e al tutoraggio che faccio verso i nuovi arrivati stranieri, sto meglio, mi sento più utile”. Fetati ha una storia difficile, ha vissuto parte della sua adolescenza in strada. “Quando sarò fuori - racconta - non voglio più ricadere negli errori del passato: mi piacerebbe fare l’attore, quello della recitazione è un mondo che mi ha affascinato fin da piccolo”. Fare teatro è anche restituire una leadership su se stessi che in una casa circondariale, dove l’esistenza è scandita da ritmi prestabiliti, spesso manca. “Io posso insegnare a recitare -dice Menon - ma al momento dello spettacolo sono loro che decidono cosa fare e come farlo; sono loro che si assumono una responsabilità, stando in relazione con gli altri”. Non si può però pensare che il teatro sociale sia qualcosa che si costruisce da sé, senza una guida. “Perché l’attività sia efficace - continua l’attrice - serve un gesto registico importante. Bisogna scegliere le parole giuste per ciascuno, quelle che hanno un senso per quello specifico essere umano”. E lavorare in questo modo paga. “Lo spettacolo a detta di tutti è stato molto emozionante -commenta Menon - ma lo è stato perché si è trattato di un riscatto: l’applauso finale non è stato pietosamente concesso, in modo un po’ buonista, dai cittadini onesti ai detenuti. Se lo sono guadagnato loro, con il loro impegno e la loro fatica”. Un percorso di questo tipo, però, non può essere lasciato cadere nel vuoto dopo la rappresentazione finale: Fierascena, a titolo volontario, continuerà a entrare in carcere per alcuni incontri di restituzione dell’esperienza. Ma, per le persone recluse nella casa circondariale di Trieste, la possibilità di fare teatro non si concluderà questa primavera. “Il teatro stabile Rossetti -fa sapere Chiara Miccoli, la funzionaria giuridico pedagogica- ha già manifestato l’intenzione di contribuire economicamente per realizzare dei percorsi da settembre a giugno del 2023”. Universo ristretto di Francesco Giordano Il Manifesto, 15 marzo 2022 “Educazione in carcere. Sguardi sulla complessità”, curato e scritto da Roberto Bezzi e Francesca Oggionni, e pubblicato l’anno scorso da Franco Angeli. Il territorio è quello del Carcere - Seconda Casa di Reclusione di Bollate, situato alla periferia di Milano, in Via Belgioioso 120, a un paio di chilometri dall’Ospedale Sacco, al confine della città che poi si allunga verso isolati e desolati paesini. Luoghi cresciuti a vista d’occhio, con abitazioni sorte senza autorizzazioni, senza alcuna programmazione. Il carcere viene inaugurato nel dicembre del 2000 come Istituto a custodia attenuata per detenuti comuni (secondo il disposto dell’art. 115 del dpr 231 2000). L’idea iniziale della Direzione era, ed in parte è, quella di un luogo fortemente educativo e rieducativo. A mio avviso, in parte lo è ancora, nonostante in più di 10 anni la popolazione detenuta sia aumentata notevolmente e di conseguenza sia impossibile fare un lavoro sulla persona; impossibile anche perché, mentre la popolazione detenuta è aumentata notevolmente, non è stato così anche per educatori, psicologi e assistenti sociali. Vi è una nutrita e forte presenza di volontari, che però non può sopperire ad altre figure professionali necessarie a raggiungere quell’obbiettivo che anche la Costituzione prevede. Questo il luogo dove è stato pensato e scritto il libro “Educazione in carcere. Sguardi sulla complessità”, curato e scritto da Roberto Bezzi e Francesca Oggionni, e pubblicato l’anno scorso da Franco Angeli. In oltre 200 pagine, ben 15 autori e autrici disegnano un panorama completo di questa istituzione sempre più presente nella nostra società, nelle nostre città. Suddiviso in 12 capitoli, sviluppa ed evidenzia tutti gli aspetti entro cui è immerso il complesso universo carcerario, cercando di portare alla luce molti aspetti che spesso, se non sempre, vengono accomunati facendo perdere ogni loro specificità. Una visione diversa sul carcere, per esempio nell’evidenziare come non sia composto da uomini e donne, ma da giovani, adulti e anziani, sia nel maschile che nel femminile e non solo. Nel libro si parla dei detenuti anche come risorsa educativa e non unicamente come persone da rieducare. Infine, un libro che mette in evidenza quanto il carcere sia-presente non solo nei luoghi dov’è situato, ma dentro le coscienze di ognuno di noi, di tutti. Sarebbe stato utile affrontare anche il ruolo degli agenti di custodia, anche in questo caso uomini e donne, giovani ed anziani, ma forse sarebbero stati necessari altri dodici capitoli. Un libro che, mi auguro, possano leggere educatori, assistenti sociali, medici psicologi, psichiatri, ma anche cittadini “normali” dal nord al sud, isole comprese. Nordio: “La magistratura devastata dalle correnti” Corriere del Veneto, 15 marzo 2022 Una guerra lunga 30 anni fra giudici e politica, finita con il crollo, soprattutto di credibilità nell’opinione pubblica, della magistratura. È il filo conduttore di “Giustizia. Ultimo atto. Da Tangentopoli al crollo della magistratura”, l’ultimo libro di Carlo Nordio presentato ieri, in anteprima nazionale, nel salone di Palazzo dei Trecento a Treviso e presentato dalla deputata di Italia Viva Maria Elena Boschi. Gli eccessi della stagione degli scandali negli anni ‘90, questa la tesi cara all’ex magistrato (che proprio negli anni delle “manette facili” ai politici si occupò dell’inchiesta sulle “cooperative rosse” e che da procuratore aggiunto a Venezia ha indagato sulle mazzette relative al Mose), ha fatto sì che “l’ordine giudiziario si sia fatto cedere dalla politica. Il principio di questi mali è correntizzazione del Csm, da cui gli scandali a cui abbiamo assistito, primo fra tutti, ma non il solo, il cosiddetto caso Palamara”. Ma la giustizia ha anche altri mali, primo fra tutti l’endemica mancanza di pubblici ministeri, giudici e personale amministrativo di cui soffre, ad esempio, proprio la Procura di Treviso. “Ancora una volta - spiega l’ex magistrato - la responsabilità è del Csm. Un comandante dei carabinieri non se ne va senza che ne sia stato nominato un altro; succede invece che qui a Treviso Michele Dalla Costa lasci il suo incarico a capo della procura e si aspetti un anno e mezzo per nominare il successore. Questo perché il Csm deve coprire più posti, sempre con le stesse logiche correntizie”. Una piccola Procura Treviso, sguarnita di personale, corre insomma il rischio di vedere in maniera distorta la riforma del ministro Marta Cartabia a riguardo della improcedibilità dei reati come “un torto fatto ai cittadini che invece si aspetterebbero una sentenza. Deve passare l’idea che tutti gli uffici sono importanti e devono avere i posti di pianta organica coperti in modo da poter funzionare”. L’emersione infine di fenomeni collusivi con la criminalità organizzata è per Nordio motivo di preoccupazione “nella misura in cui - dice - prende piede il reato di usura, che è collegato anche alle condizioni economico-sociali di un territorio ricco come la Marca, in cui molti imprenditori sono esposti e gli istituti di credito hanno il piede piantato sul freno del credito”. La forza civile contro il dolore della guerra di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 15 marzo 2022 Le code per donare generi alimentari e abiti, la risposta alle tante raccolte fondi, le persone che scendono in piazza per implorare la pace, le porte delle case che si aprono per dare un tetto e un po’ di calore a chi fugge dalla guerra. Nel disastro di questi giorni, nell’escalation di violenza sanguinaria, nelle immagini che ci stordiscono e spaventano, nelle lacrime e nelle morti è difficile trovare una buona notizia. Eppure c’è, ce ne sono tantissime a dire il vero: le code per donare generi alimentari e abiti, la risposta alle tante raccolte fondi, le persone che scendono in piazza per implorare la pace (o come domenica si affollano senza distinzioni di origine e credo lungo il cammino bolognese verso il santuario di San Luca), le porte delle case che si aprono per dare un tetto e un po’ di calore a chi fugge dalla guerra, gli ospedali che si mettono a disposizione per offrire cure e ricovero, le scuole pronte a inserir e bambini e ragazzi, i camioncini partiti per gli aiuti e ancora e ancora. Donne e uomini che in Italia e in Europa, nei piccoli paesi e nelle grandi città non si presentano come eroi ma che con semplicità e in modo autentico rispondono a una domanda di aiuto. Persone vere, non finzioni. Ecco: la buona notizia è il risveglio di umanità che potrà diventare la nostra forza. Questa capacità di mettersi ciascuno in gioco è la prova del fatto che di fronte alle tragedie viene sollecitata la dimensione più profonda dell’Io, capace così di diventare Noi. Non si tratta di una reazione emotiva, anche se indubbiamente è difficile non provare un sentimento di compassione, non soffrire con chi soffre. ma non è solo questo. Anni fa, commentando l’Enciclica “Pacem in terris”, il professor Stefano Zamagni aveva parafrasato la locuzione latina proponendola così: “Si vis pacem, para civitatem”. Il senso di cittadinanza attiva e solidale può dunque andare oltre l’emozione e creare presupposti di pace che siano alla base di una cultura diversa. Una cultura capace di ragionare in termini di Noi e di tornare a parlare di umanità come antidoto all’egoismo, alla distrazione, ad una esistenza che sopisce valori e ricerca di senso. Quel fallimento dei valori europei di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 15 marzo 2022 Non sappiamo quando e come l’aggressione della Russia all’Ucraina si consumerà. Per l’Ucraina e per la Russia. E per l’Europa. Ma già sappiamo che gravi conseguenze dureranno a lungo. Tra queste vi saranno quelle che riguardano la fiducia (o la scommessa) di una evoluzione comune a tutta la grande Europa, che avevamo costruito per qualche decennio, dopo il crollo del sistema sovietico e il suo scioglimento. Nel 1949, subito dopo la fine della guerra mondiale, il Belgio, la Danimarca, la Francia, l’Irlanda, l’Italia, il Lussemburgo, la Norvegia, i Paesi Bassi, la Svezia, il Regno Unito e poi la Turchia e la Germania, si unirono nel Consiglio d’Europa, dichiarando di condividere “i valori spirituali e morali che sono la comune eredità dei loro popoli e la vera origine della libertà individuale, della libertà politica e dello stato di diritto, principi che formano la base di ogni vera democrazia”. Quegli Stati si impegnarono al raggiungimento di una maggiore unità, attraverso il mantenimento e lo sviluppo dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Ogni Stato membro del Consiglio accettava “il principio dello stato di diritto e il principio in virtù del quale tutte le persone nell’ambito della sua giurisdizione devono godere dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. Nella Convenzione europea dei diritti fondamentali, di lì a poco approvata dagli Stati membri del Consiglio, era posto in evidenza lo stretto nesso esistente tra la pace e i principi di democrazia e di rispetto dei diritti e libertà delle persone. Ad indicarlo era l’esperienza vissuta, in particolare, in Europa. Progressivamente il numero dei Paesi europei membri del Consiglio d’Europa è cresciuto, man mano che certe dittature venivano abbattute (come in Spagna e Portogallo). L’opera del Consiglio si svolgeva, non senza occasionali difficoltà, soprattutto attraverso il lavoro della Corte europea, istituita per giudicare l’osservanza da parte degli Stati membri del loro dovere di rispettare e proteggere i diritti e le libertà delle persone. Un momento di crisi si ebbe alla fine degli anni ‘60, quando la Grecia si ritirò dal Consiglio per evitare di esserne espulsa. Con un colpo di stato i colonnelli avevano preso il potere, annullando con le istituzioni democratiche tutti i diritti fondamentali degli individui. Solo alla caduta di quel regime la Grecia rientrò nel Consiglio. Ma il più importante rivolgimento, nella composizione e nella vita del Consiglio si verificò negli anni ‘90, quando, in cerca di legittimazione democratica, la Russia e gli altri Paesi assoggettati nel blocco sovietico chiesero di esserne ammessi. La decisione di accettare la richiesta non fu ovvia, né priva di discussione. Il programma democratico e di rispetto dei diritti fondamentali - ragion d’essere del Consiglio d’Europa - pareva difficilmente compatibile con la storia e la realtà politica, non solo recente, di Paesi come la Russia ed altri. C’era il rischio di snaturare il Consiglio rendendone impossibile il funzionamento in vista dei suoi scopi. E però, consapevolmente, si accettò quel rischio, facendo la scommessa del coinvolgimento dei nuovi membri in una istituzione europea democratica, che riconosceva a tutte le persone che si trovavano nei suoi Stati membri la protezione della Corte europea dei diritti umani. Sotto quest’ultimo aspetto la scommessa si è rivelata un successo, perché migliaia e migliaia di cittadini russi si sono rivolti alla Corte, superando il condizionamento e il timore derivanti da secoli di asservimento allo Stato. Un successo parziale, però, per le continue violazioni dei diritti fondamentali da parte dello Stato russo (e, per la verità, non solo di esso) e il ripetuto rifiuto di dare esecuzione alle sentenze di condanna della Corte. I diritti di libertà, di manifestazione del pensiero sono stati i primi a soffrirne. La violenza della guerra in Cecenia, il conflitto militare con la Georgia per le provincie di Ossezia del Sud e Abkhazia (2008), l’appropriazione della Crimea (2014) hanno progressivamente reso difficile la convivenza tra la Russia e un’istituzione come il Consiglio d’Europa, nata per i diritti democratici e la pace. E le istituzioni del Consiglio hanno sospeso la Russia dal diritto di partecipazione ai suoi lavori. La sospensione è poi stata revocata, poiché la logica del Consiglio è sempre stata quella di salvaguardare un luogo di dialogo, anche quando il dialogo si rivelava difficile e le violazioni del proprio Statuto evidenti. Ora però la drammatica gravità dell’aggressione russa alla Ucraina viene ad aggiungersi e rende impossibile la continuazione di un rapporto che ha sopportato aspetti di ambiguità, al limite dell’ipocrisia, pur di non spezzare la possibilità di dialogo e di non eliminare la protezione (a tratti però teorica) degli individui nei confronti del governo russo. E così il Consiglio ha ingiunto alla Russia di cessare l’aggressione e ha avviato la procedura di espulsione. La Russia ora la previene e annuncia l’uscita dal Consiglio d’Europa. Vi sono altri Paesi che creano rilevanti problemi, e vi sono state guerre tra Stati membri del Consiglio, di cui non è stata sola protagonista la Russia. L’incompatibilità assoluta creatasi con la Russia è però causa di una gravissima sofferenza per l’Europa tutta. La scommessa di creare e tenere in vita un luogo europeo di dialogo e confronto è per ora perduta. Manca ora il necessario minimo di fiducia reciproca. Le armi o prima o poi taceranno. Ma l’impossibilità di dialogare, riconoscendo di parlarsi tra europei, chissà quando potrà essere superata. L’Unione europea ritrovi la capacità di una mediazione di pace di Guido Viale Il Manifesto, 15 marzo 2022 La proposta di inviare armi all’Ucraina nasce dal lungo vuoto diplomatico. E inviarle è alternativo a ogni tentativo di fermare la guerra con un negoziato. O si fa una cosa o si fa l’altra. Non c’è dubbio che in questa guerra l’aggressore sia l’esercito russo e che la resistenza armata è una più che giustificata risposta. Ma allora se le cose stanno così, perché non mandare armi al governo e ai combattenti ucraini che le chiedono? Perché mandare armi è alternativo a qualsiasi tentativo di far cessare la guerra con un negoziato. O si fa una cosa o si fa l’altra. È falso che una resistenza più forte migliorerebbe la posizione dell’Ucraina in un negoziato. È vero il contrario. Come e quando può cessare questo conflitto? Con la resa del governo ucraino e l’instaurazione di un governo fantoccio? Altamente improbabile. Con un’occupazione del paese destinata a protrarsi in presenza di una resistenza armata che continuerà a dar del filo da torcere? Putin non può accettare una prospettiva del genere senza adottare i metodi con cui ha a suo tempo raso al suolo in Cecenia Grozny. Ma è difficile che ciò possa avvenire nel cuore dell’Europa senza coinvolgere in modo molto più intenso i suoi veri avversari, cioè la Nato: aprendo le porte a una guerra mondiale. O si punta al logoramento di Putin, nella speranza che si faccia strada una alternativa disponibile a trattare (non solo con l’Ucraina, ma con chi ne ha fatto da tempo la posta di un confronto molto più ampio)? O, ancora, si spera che la guerra logori talmente la coesione della Federazione Russa da trasformare il suo immenso territorio in centinaia di Libie, Iraq, Sirie? Ma come nasce la proposta dell’invio di armi? Dalla mancanza di un serio tentativo di mediazione che infatti spinge a ripiegare sull’invio di armi senza interrogarsi sulle conseguenze. Manca la mediazione - la proposta di una soluzione che accontenti, anche senza soddisfare, entrambe le parti, ma evitando “umiliazioni” - perché manca il mediatore. Che non può che essere l’Unione europea; che però non può assumere quel ruolo perché la sua politica estera è completamente sdraiata sui dictat e gli interessi degli Stati Uniti. Così, per colmare il vuoto, quel ruolo è stato trasferito su Stati come la Turchia (che ha poco da mediare, dato che da anni infligge al Rojava lo stesso trattamento di Putin all’Ucraina), o Israele (dove il bombardamento dei Palestinesi è permanente) o la Cina, che su indipendenza e neutralità delle sue minoranze interne è anche peggio. Né può assumere quel ruolo un singolo Governo dell’Ue, perché la prima mossa diplomatica da compiere non è verso Putin o Zelensky, ma verso l’Unione europea: per esigere una posizione coerente con gli interessi dei suoi popoli; che sono la pace e non il confronto armato con la Russia. Mediatore può essere solo chi fin dall’inizio ha una posizione di terzietà. Inoltre, solo una parte veramente terza potrebbe rilanciare dei corpi di pace e interposizione da mandare a sedare il conflitto. Per farsi ammazzare dagli uni e dagli altri? No. Abbiamo visto in TV cittadini e cittadine a cui va la nostra ammirazione, mettersi, disarmati, di fronte ai carrarmati. E senza aspettarsi risultati risolutivi, quanto più efficace sarebbe un’iniziativa di interposizione organizzata, con la copertura di una parte effettivamente terza? Ma dobbiamo chiederci di più: fino a che punto il crescente potenziale bellico “convenzionale” non sconfina in quello nucleare, sempre più smisurato il primo e sempre più miniaturizzato, in vista di un suo uso “tattico”, il secondo? Non si riduce così ogni soluzione di continuità tra un kalashnikov e la bomba H? E se Putin fa paura, perché, a detta dei media, è pazzo, quanto pazzi sono anche i generali della Nato? Peraltro, il rischio di passare quel confine rende inefficaci anche gran parte degli arsenali convenzionali. Così gli Usa non possono utilizzare l’arsenale convenzionale della Nato, di cui hanno fatto sfoggio con continue esercitazioni ai confini con la Russia negli anni scorsi, perché metterlo in campo aprirebbe un confronto tra potenze nucleari. Si devono limitare a contrabbandare un po’ di armi tradizionali, o, meglio a farlo fare ai loro alleati europei, che possono così vantarsene: in attesa di sostituire (ma ci vogliono anni!) il gas russo con cui stanno finanziando la guerra contro l’Ucraina… Nel frattempo, a venir cancellate non sono solo città e vite ucraine, ma soprattutto il tentativo di far pace con la Terra. C’è la guerra! Largo a carbone, gas, trivellazioni; e nucleare. Fingendo di ignorare che il nucleare civile senza quello militare non si regge. Ma che anche il nucleare militare non funziona senza quello civile (Macron). E questo mentre le centrali nucleari ucraine, investite dalla guerra, stanno mettendo in forse la sopravvivenza stessa di mezza Europa. È ora che, almeno qui da noi, i duellanti rimettano le spade nel fodero. La popolazione europea si è divisa, con toni sempre più accesi, prima sui profughi; poi tra sì-vax e no-vax; e oggi, gli stessi toni ritornano tra favorevoli e contrari all’invio di armi, quando il vero problema è restituire all’Unione europea una capacità di iniziativa per la pace. L’Italia apre le porte. “Ora lo Stato aiuti chi ospita profughi” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 15 marzo 2022 Gli ucraini sono già 40mila, i posti disponibili nei centri appena 13mila. Le Regioni: “Un assegno alle famiglie, come si è fatto dopo i terremoti”. Il rischio è che la grande ondata di solidarietà che sta spingendo tanti italiani ad aprire le porte delle loro case agli ucraini in fuga possa presto infrangersi sui bilanci familiari già provati dagli aumenti delle bollette e dei generi di prima necessità. Il che farebbe collassare un sistema di accoglienza che, seppur collaudato con i flussi migratori dall’Africa, non ha mai fatto fronte a numeri superiori a 200.000 profughi in un anno, meno della metà di quelli che rischiano di arrivare nel giro di poche settimane. “Chi accoglie in casa profughi ucraini va sostenuto. Se le tante famiglie che hanno dato disponibilità dovessero tirarsi indietro, un flusso di migliaia di persone si riverserebbe su strutture pubbliche che in questo momento non abbiamo”, il grido d’allarme del prefetto di Bologna Attilio Visconti. E il governatore dell’Emilia Romagna Bonaccini rilancia: “Serve che il governo metta mano agli incentivi, vorremmo evitare le tendopoli”. A Bologna, i 300 posti nei Cas (i centri di accoglienza straordinari) sono già esauriti. L’Emilia, con Campania, Lombardia e Lazio, è la Regione in cui si sta riversando la maggior parte dei profughi. I numeri d’altronde parlano da soli: a fronte di quasi 40.000 ucraini arrivati in Italia, i posti messi a disposizione dallo Stato nelle strutture di accoglienza al momento sono solo 8.000, più una parte dei 5.000 già destinati agli afghani. Sarebbero già finiti, se non fosse che i due terzi dei profughi stanno trovando ospitalità presso amici, parenti e migliaia di famiglie solidali. Ma, per ora, a spese loro. Perché i meccanismi di distribuzione delle risorse per l’accoglienza prevedono che i costi siano rimborsati agli enti gestori dei centri, o a chi risponderà ai bandi che giorni prefetture e Protezione civile stanno pubblicando a caccia di nuove strutture, ma non alle famiglie. Che di certo non potranno sostenere a lungo gli oneri di un’ospitalità che non sarà breve. Anche se la Protezione civile sa bene che si tratta di un’accoglienza temporanea e che occorrerà prepararsi a trovare sistemazioni più durature per la stragrande maggioranza dei profughi. Un assegno di mantenimento - È una delle proposte avanzate dalle Regioni, che ieri hanno incontrato il capo della Protezione civile Fabrizio Curcio. “Servono strumenti come quelli utilizzati nelle calamità naturali - dice il governatore della Liguria, Giovanni Toti - Un contributo per l’autonoma sistemazione dei profughi che non alloggiano presso le strutture dello Stato”. Mentre Fedriga torna a chiedere l’esercito a sostegno dell’assistenza sanitaria ai profughi, dai tamponi ai vaccini. L’assistenza esterna - È la soluzione sottoposta da Arci e Caritas alla Protezione civile. “Non è un problema di soldi - spiega Filippo Miraglia dell’Arci - la direttiva Ue stabilisce che tutti gli oneri saranno coperti dall’Europa. L’Italia riceverà i fondi in base al numero di profughi che accoglierà. È una questione di tempi e di sistema. È ovvio che le famiglie che accolgono vanno sostenute. Però i profughi non hanno bisogno solo di vitto e alloggio ma anche di assistenza, legale, sanitaria, psicologica, burocratica: compiti che non possono essere delegati alle famiglie ma vanno svolti da chi ne ha esperienza. Lo Stato potrebbe affidare agli enti e alle associazioni che già gestiscono i Cas e i Sai tutti i servizi di accoglienza esterna per gruppi di famiglie ospitate in casa”. Costi alti, rimborsi bassi - Venticinque euro a persona: a tanto (dall’era di Salvini al Viminale) è sceso il contributo giornaliero che lo Stato riconosce ai gestori dei centri di accoglienza, ma adesso sono gli stessi prefetti a ritenere che questa cifra sia inadeguata, alla luce degli aumenti dei costi e dei servizi da offrire. Gli enti (che in molte Regioni sono costretti ad anticipare le somme) chiedono un aumento di almeno dieci euro, anche perché c’è una discrasia con i bandi della Protezione civile per gli hotel che arrivano fino a 50-60 euro al giorno. I trasporti impossibili - Da risolvere c’è anche il nodo dei trasporti. Per chi è riuscito ad arrivare in Polonia, raggiungere l’Italia può diventare proibitivo. Se non si trova un passaggio dai volontari, i biglietti dei bus di linea costano anche 500 euro, come si vede consultando la piattaforma “Busradar”. Il capo della Protezione civile Curcio ha firmato un’ordinanza che prevede, per i profughi, l’utilizzo gratuito dei mezzi nei primi cinque giorni. Ma prima al confine italiano si deve riuscire ad arrivare. Abolire il reato d’immigrazione clandestina è una questione di giustizia e dignità di Gregorio De Falco* fanpage.it, 15 marzo 2022 Milioni di profughi sono in fuga dall’Ucraina, dopo l’invasione da parte della Russia. Molti di loro sono diretti in Italia, dove però rischiano d’incappare nel reato d’immigrazione clandestina. Anche per questo, è ora di abolirlo. L’invasione russa dell’Ucraina sta avendo, tra le altre conseguenze, anche quella di causare la fuga di milioni di persone da quel Paese. Molti profughi stanno arrivando anche in Italia, laddove, però, esiste un reato, quello d’immigrazione clandestina, che rischia di condurre alla situazione assurda di un involontario reato di massa commesso da ogni ucraino giunto in Italia, ovviamente al di fuori della sua volontà. È questo che fa notare il procuratore della Repubblica di Trieste De Nicolò, il quale osserva anche che gli ucraini che fuggono dalla guerra non appartengono alla Ue e quindi: “sono tutti potenzialmente autori del reato dell’articolo 10 bis”, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n.286, in materia di immigrazione, il cosiddetto reato d’immigrazione clandestina (reato “d’ingresso illegale”). Il procuratore afferma, inoltre, di aver chiesto l’abrogazione della norma in oggetto, considerandola inutile per quel che riguarda la sicurezza dei cittadini, mentre mette in crisi la già affaticata macchina giudiziaria. chiamata ad esaminare, per poi archiviare, tutti i singoli casi. Quanto afferma il procuratore è uno dei motivi per i quali, già molti mesi fa, nel settembre 2021, ho presentato come primo firmatario un disegno di legge in Senato, volto ad abolire il reato d’immigrazione clandestina (AS 2398). Purtroppo, nonostante sia stato assegnato alle Commissioni Affari Costituzionali e Giustizia dal 15 novembre, il ddl non è stato ancora esaminato, nonostante il fatto che il tema fosse urgente già prima della nuova, ennesima, crisi umanitaria di questi giorni. Si tratta di un reato che la destra volle introdurre per fini meramente demagogici, ma che è di fatto completamente inutile per quel che riguarda la sicurezza dei cittadini, oltre che totalmente improcedibile dato l’altissimo numero di persone che, involontariamente, si trovano a commetterlo. Inoltre, ed è ancora più grave, il reato di immigrazione clandestina spersonalizza lo straniero che per motivi gravissimi è costretto ad entrare in Italia. Con il termine “clandestino”, usato con disprezzo, si cancella la persona, e si trasforma l’individuo in un criminale. Tutti ricordiamo bene la giusta indignazione che l’intero Paese provò nel settembre del 2020 quando il giovane Willy Monteiro Duarte venne brutalmente ucciso da due criminali. Tutti ricordiamo lo sguardo di Willy e pensiamo a quel ragazzo come fosse nostro figlio. Negli stessi giorni, però, Abdu, un ragazzo di 15 anni che era stato salvato da un naufragio, ma era stato poi abbandonato per quindici giorni su una “nave quarantena”, nonostante i gravi segni di torture e denutrizione moriva nel silenzio e nell’indifferenza, “clandestino” “non persona”, senza volto e senza identità. Ecco, il termine “clandestino” e quel reato di “immigrazione clandestina” vanno cancellati anche e soprattutto per ritrovare l’umanità da molti perduta. La tragedia ucraina può servire almeno per questo, per riconoscere a tutti coloro che fuggono da guerra, fame, violenze, il diritto a cercare un presente migliore, ad essere considerati umani, a vedersi riconoscere quei diritti che riteniamo troppo spesso scontati. Tutti, senza le squallide differenze che certi personaggi politici, non contenti di umiliare il nome dell’Italia, continuano a portare avanti. È davvero ora che il reato d’immigrazione clandestina venga abrogato. Le Camere sono ancora in tempo per fare un atto di giustizia e di umanità, sempre che i Parlamentari abbiano consapevolezza della dignità del proprio ruolo. *Senatore Gruppo Misto Ucraina. Cercando un’altra vita: storie di profughi al confine di Lavinia Nocelli Il Manifesto, 15 marzo 2022 Alla frontiera tra Romania e Ucraina il racconto di chi fugge e di chi lo aiuta. C’è un vociare isterico che riempie l’aria, e una viscida pioggia che si attacca ai vestiti. Ci sono le camere che avvinghiano i primi piani sfigurati dal dolore, i giornalisti che si spartiscono i reduci dal fronte, le parole di circostanza distillate in sequenza. Dietro chi porta fogli, documenti, pane, acqua, e delle coperte per proteggersi dal freddo. Al confine di una guerra raccogli i pezzi di ciò che arriva: una fuga racchiusa in una busta di plastica, uno smarrimento a cui non sai dare risposta, la rabbia nascosta. Quello che resta delle persone, e gli incubi che incontri nei loro sguardi. Non senti il suono delle sirene, quello del fuoco che squarcia un palazzo, né dei passi che corrono sotto un bunker per ripararsi da un attacco e le grida susseguirsi. La sensazione è quella di assistere ad una rincorsa alla tragedia provvisoria, di scorrere immagini conosciute e parole inconsistenti. Ma non c’è niente che puoi raccontare qui, perché non c’è nulla che non sia già stato scritto. Pioviggina ad Oradea, spira un vento gelido che oscura i profumi primaverili stagionali. Kateryna si avvicina mentre compilo i dati alla reception, avvolta da un corpo gracile e accompagnata da un passo tremolante. Viene dall’Ucraina, mi dicono dal bancone, “la ospitiamo qui da ieri”. È arrivata a notte fonda insieme a Margarita, la figlia, e un danese dalle orecchie grandi. Kiev è un ricordo lontano, sussurra a voce bassa, forse la prossima destinazione è il Portogallo, forse la Francia. Margarita non è contenta, non vuole partire, ma con le bombe sopra casa non è possibile tornare indietro, e si deve andare avanti, anche con un figlio di diciannove anni bloccato dall’altra parte del confine. A cena i piatti vengono lasciati raffreddare mentre si parla della partenza del giorno dopo: Mircea guiderà fino Târgu Mure?, e poi da lì si deciderà il da farsi. Adriana mastica un po’ di inglese mentre si assicura che i documenti siano in regola, Florin sta al telefono e organizza i nuovi ingressi in hotel: entrambi lavorano come dipendenti nella struttura, ma in questi giorni stanno facendo molto di più per accogliere tutte le persone che arrivano, arrangiare i loro spostamenti, e garantirgli un pasto caldo ed una camera pulita. Mentre parliamo arriva un’altra famiglia: sono in cinque, tre bambini, il padre e la madre. Mykola è riuscito a passare perché ha tre figli, ma da Odessa non è stato facile spostarsi. “Eravamo in Crimea l’ultima volta che sono arrivati, siamo fuggiti ancora”. Cosa ci propongono questi russi, mi chiede Mykola mentre stropiccia i bordi della tovaglia. “La Russia esiste da trecento anni, cosa rappresenta?”. Tre giorni dalla Moldavia per arrivare in Romania, per il Portogallo ne serviranno altrettanti. “Abbiamo chi ci ospita, poi si vedrà”. All’alba incontro Kateryna. Prima di partire vuole darmi il numero di alcuni cugini vicino Parigi: mi chiede delle persone, se la lingua è difficile, dei monumenti da visitare. Si stringe nei suoi occhi affossati, scuri, mentre mi abbraccia. “Non so se è la scelta giusta da fare”, ma è l’unica possibile per ora. Per arrivare a Sighet, il confine romeno che costeggia l’Ucraina, prendo un microbuz da Oradea verso Baia Mare, dove mi aspetta Oana Gonczi, dei Vigili del Fuoco, che coordina insieme alla polizia, l’ufficio immigrazione, le autorità locali e di frontiera, tutte le attività al confine. “Abbiamo allestito il campo mobile vicino la nostra stazione. Ci sono sedici tende e otto letti, possiamo ospitare fino a venti persone”. E poi ci sono i mezzi a disposizione per trasportare chi arriva nei punti indicati, o nel campo stesso quando tutte le strutture nelle vicinanze sono piene. Le persone passano la linea di confine un po’ alla volta, alternandosi con le macchine, in un misto tra confusione, stanchezza ed apatia: vengono accompagnate sotto il tendone allestito qualche giorno prima dall’Unhcr per registrarsi, segnalare dove vogliono andare, da chi, o se vogliono fermarsi nel Paese. Ma la Romania è un luogo di passaggio, e allora si cercano autobus verso la Germania, l’Italia, la Polonia, treni per la Spagna, e qualcosa per la Slovacchia. Alla frontiera Iulia Stan, capo della polizia, mi spiega che molti di quelli che la attraversano non chiedono lo status di rifugiato sociale, anche se hanno predisposto i documenti per farlo. Nella folla incroci di tutto: occhi chiari, scuri, cani e gatti, anziani, bambini, soprattutto donne. Verrebbe da chiedere loro qualcosa, ma a primo impatto si ha la sensazione che ogni domanda risulti più stupida che fastidiosa. Si avvicina Max per chiedermi delle informazioni, e iniziamo a chiacchierare riparati al caldo. “Vivo a Kiev. Non dirò che abitavo Kiev, non ancora”. Via da lì a piedi sotto la neve, poi con la macchina, poi di nuovo a piedi. Parla un inglese perfetto, e mi rivela d’essere un interprete, ma di non aver mai visitato Londra. “Potrebbe essere il momento”, ma la sua famiglia è ancora bloccata tra le macerie della capitale. Ogni mezz’ora circa si affaccia qualcuno urlando il nome di una città, parte qualcosa, e gli interessati si precipitano fuori. La maggior parte dei presenti sono volontari, molti mettono di tasca propria i soldi per la benzina ed i trasporti, ma tanti altri se ne raccolgono dalla beneficienza delle persone. Quando la sera precipita sull’orizzonte ci si dà il cambio, qualcuno va verso casa, altri rimangono, i rifugiati non smettono di arrivare. Inizia a nevicare. Ogni struttura in città ha messo a disposizione le proprie camere per i profughi, così come i cittadini, ed è difficile trovare un posto dove fermarsi. Fuori dalla stanza si sente abbaiare, e qualcuno accennare un rimprovero: una nuova famiglia è arrivata da Kharson, sono in tre più il cane. Provo ad avvicinarmi a questa a colazione, ad un’altra nel giardino, ma nessuno vuole parlare, né accennare ad un dialogo. “Hanno tutti paura qui, non si fidano. Difficilmente troverai qualcuno disposto ad aiutarti”. Florentina lavora nella casa famiglia Alexandru Ivasiuc, dove si occupa di pazienti con grave disturbo mentale, che ora accoglie anche le famiglie ucraine. Mentre divide la terapia per ciascuno degli ospiti mi spiega che il suo compito è quello di mettere in contatto chi arriva con quelli che offrono la disponibilità ad ospitare, “di assicurarmi che queste persone stiano bene, capire se hanno bisogno di aiuto e vedere di quale necessitano”, quindi organizzare trasporti e partenze nei vari paesi. “Praticamente sono tutto il giorno al telefono”, sussurra mentre chiude l’ennesima chiamata. Poi c’è il giro dei vaccini, il turno di notte, le varie visite in ospedale - “non si trova più una bambina, non so se stanotte dovrò andare a recuperarla dall’altra parte del confine” -, e partiamo in macchina per andare nel reparto di chirurgia, dove un ragazzo del Turkmenistan è ricoverato da circa una settimana. Viene da Kiev, anche lui: mentre scappa viene ferito da un colpo alla gamba ed uno al braccio, ma “i miei genitori non sanno che sono qui, non scrivere il mio nome”, mi dice. Parliamo a fatica con un traduttore simultaneo mentre fuori il cielo ricomincia a buttare altra neve: ha 24 anni, i suoi amici sono in una casa qui vicino, il suo lavoro da tassista ormai lontano. Ricorda di aver avuto paura quando ha sentito il dolore penetrargli il corpo, schiacciarlo mentre fuggiva e invaderlo nel mentire ai genitori. “Penso che rimarrò per un po’ qui in Romania, non posso tornare indietro”. Florentina mi passa qualche numero da chiamare prima di scomparire nuovamente dentro il reparto, mi dice di fare attenzione, e che non ha importanza far sapere come lei si chiami, perché sta solo facendo il suo lavoro. Da una settimana dorme due, tre ore a notte, vede a malapena la famiglia, mangia quando il telefono non squilla: non può permettersi altro. Vasile Vlashin fa lo stesso. Lo vedi correre da una parte all’altra della frontiera con il telefono in mano, passando dall’inglese al romeno, fino ad arrampicarsi su qualche parola italiana. La sua attività è coordinare i trasporti che partono dalla dogana verso tutte le destinazioni richieste: allora è necessario trovare gli autobus, i furgoni, gli autisti, le persone sparse in città negli alloggi, e far arrivare tutti nello stesso punto e alla stessa ora. Mentre sorpassiamo le montagne che segnano il confine con l’Ucraina, Vasile mi racconta dei problemi che stanno riscontrando con le autorità ungheresi alla frontiera. “Fanno di tutto per ostacolare il passaggio dei rifugiati”. Due giorni prima uno dei loro autobus viene bloccato alla dogana, la polizia se ne va, e non rimane nessuno ai controlli: “Sono tornati la mattina chiedendo i test covid, ma in pochi avevano il certificato verde”. Non gli chiedono il passaporto, né i documenti. “Hanno aspettato due ore, e con una seconda macchina della polizia si sono spostati di 30 km, a Kisvárda, dove una signora di sessantadue anni è morta”. La strategia pubblica annunciata è quella dell’accoglienza, ma alla frontiera ungherese non funziona così. Vasile mi chiede quale sia il senso della burocrazia, del tempo, di tutto questo. “Te ne dico un’altra: non abbiamo abbastanza soldi per pagare il carburante. Le autorità romene hanno assicurato fondi per i rifugiati, ma ci servono ora, e ne avevamo bisogno già ieri. Non possiamo aspettare, dobbiamo trovare una soluzione per tutti. Dove sono questi soldi?”. Non lo so. Anche le comunità e le associazioni religiose della zona si attivano subito. Arriviamo al Monastero di Petrova che sono le otto e mezza del mattino, su una strada ancora semi gelata con qualche randagio addormentato ai lati. “Putinpeace” è un progetto nato da un gruppo di artisti di Milano, cui scopo è raccogliere fondi per l’Ucraina vendendo opere di vario genere. Ci incontriamo alla frontiera, una storia tra Lambrate e Centrale tira l’altra, e partiamo insieme. Il Monastero è un punto in mezzo al bianco, nel silenzio: ci sono una decina di camere disponibili all’interno, con circa sei, sette persone dentro per ognuna, perché si cerca di accogliere tutti e in ogni modo. “Possono dormire una, due, tre, quante notti vogliono. Restano quanto credono”, mi dice padre Agaton Opri?an, avvolto in un grosso vestito nero sollecitato dal vento. Saranno una quarantina gli ospiti presenti ora, molti dei quali senza una destinazione, poiché non tutti hanno appoggi in altri paesi. Padre Agaton lo vedi al confine che sbraccia da sinistra a destra: ogni giorno da Petrova scendono in quattro, attraversano la neve, e vengono ad organizzare i nuovi ingressi in struttura, così come le uscite. Arriva la colazione e vediamo le famiglie sedersi a tavola un po’ alla volta, qualcuno ha gli occhi ancora assonnati, altri ci osservano curiosi. La voce di Agaton rimbomba per tutta la sala quando ci presenta, ed ancora una volta le storie di mischiano, nonostante la diffidenza. Umberto Cofini, del collettivo, riconosce Miroslav, un ragazzo di sedici anni che il giorno prima ha passato la frontiera insieme alla madre Lilia e la sorella Maria. Sono seduti su delle panche al sole e sussurrano, guardano l’orizzonte, perché è l’unico punto sicuro che hanno di fronte: la casa è forse distrutta, non hanno una meta, un padre al fianco e dei soldi su cui contare. Umberto si muove, gesticola, chiama, e Francesco Perruzzo, che lo accompagna insieme a Fabrizio Spucches, lo nota. “Emergency dice che possono prendersi carico di loro, partiamo domani con la macchina. Li porto con me”. Incappiamo nei documenti, in chiamate discordanti, nella Farnesina che non ci assicura che col confine ungherese ci facciano storie - “Signorina, io penso che non ci siano problemi. Ma se ce ne fossero?”. Emergency richiama Umberto, “non assicuriamo di poter prendere a carico i tre”, e senza la certezza di un tetto sopra la testa non si può partire. Blateriamo in italiano, in inglese, di benzina, di cosa fare, e ci prendiamo del tempo per riflettere. Poi arriva il via libera da Milano. Umberto torna a prendere i tre nel primo pomeriggio, paga l’hotel, li rassicura con un soffio di nervosismo: “Alle sei di domani partiamo”. Chiudo le ultime chiamate del giorno, Seriozha Ruscovan passa da me alle ventitré scusandosi, è rimasto bloccato alla dogana per due ore. Si occupa di trasportare medicinali e cibo in Ucraina con circa tre viaggi alla settimana, avanti e indietro da Cluj-Napoca: mi racconta che il giorno dopo organizzerà una nuova spedizione con dei materiali oncologici per la clinica di Chernivtsy, l’unica ancora attiva nel paese. Ma manca l’energia, e deve trovare dei generatori al più presto, perché ci sono anche altre emergenze. “Non ti devo portar cose di cui non hai bisogno, ma quello che ti serve. Quindi mi devi dire quello che ti devo cercare”, conclude deciso, ricordando la prima conversazione avuta appena due settimane prima con il il direttore generale dell’Ivano-Frankivsk National Medical University. Lavora a livello locale: con la sua associazione ed il supporto dei Vigili del Fuoco elaborano un nuovo progetto, un call center dedicato solo all’emergenza Ucraina, in modo da velocizzare tutte le procedure, dal trovare una casa o un passaggio per spostarsi. Seriozha è arrivato con Artem e Olga, due rifugiati che ha trovato sulla strada di ritorno e che per la notte ospiterà a casa sua. Gli occhi del bambino si chiudono mentre la nonna mi racconta, in un inglese stridente, che i genitori sono rimasti al fronte, e l’unica scelta era allontanarsi dal rumore delle bombe. Un suono così forte che quando Olga lo dice si tappa ancora le orecchie con le mani. Prima di salutarmi mi chiedono dove sarò i prossimi giorni, cosa farò, se ho già un posto dove stare. Me lo chiede ogni persona che incontro se ho un letto per dormire, come se il problema della casa fosse il mio. Realizzo concretamente quanto sia rassicurante avere un tetto che ti ripara dalla voce delle sirene, dal vento che ti strappa la pelle, dal rumore della guerra che si posa sulla neve. Così quando vedo avvicinarsi Miroslav, Lilia e Maria, penso a quanto possa essere assurdo trovarsi un ragazzo di ventotto anni che ti carica sulla sua macchina, ti stringe le spalle e ti dice che farà di tutto per portarti a casa. Non la tua, ma quella che può darti con i suoi mezzi. È ancora notte fonda, l’aria sembra quella di dicembre: c’è un giorno di viaggio, meglio non perdere tempo. La macchina si allontana, del fumo lascia una scia provvisoria. Sparisce. La repressione a Mosca. Il buio dopo l’arresto: insulti e torture nei commissariati russi di Rosalba Castelletti La Repubblica, 15 marzo 2022 Il primo colpo sordo arriva dopo 52 secondi. Gli agenti le chiedono nome e indirizzo, ma la ventiseienne Aleksandra Kaluzhskikh si rifiuta di rispondere. Oppone il “cinquantunesimo”, l’articolo della Costituzione russa che vieta l’autoincriminazione. “Cagna, vuoi rispondere?”. “Cinquantunesimo”. (Tonfo) “Hai intenzione di rispondere adesso? Posso farti di peggio”. Arrestata il 6 marzo durante le proteste contro “l’operazione militare” russa in Ucraina, Kaluzhskikh è riuscita a registrare l’interrogatorio nella stazione di polizia del distretto moscovita di Brateevo. Per circa 11 minuti, si sentono colpi alternarsi alle minacce e agli insulti verbali. Il poliziotto la picchia, la sottopone alla tortura dell’annegamento simulato (il “waterboarding”) versandole acqua sulla faccia, la trascina per i capelli. “Idiota”. “Ti minaccio con la violenza fisica”. “Credi che ci accadrà qualcosa per questo?. Putin è dalla nostra parte. Siete i nemici della Russia. Siete i nemici del popolo”. Vraghi naroda, come il marchio d’infamia affibbiato alle vittime di Stalin. L’audio, diffuso da Ovd-info, l’ong che assiste i detenuti politici russi, è una finestra su quello che accade dopo gli arresti in piazza. Lontano dalle telecamere. Secondo il conteggio di Ovd-info, almeno 15mila persone sono state fermate in tutta la Federazione da quando è iniziata l’offensiva russa in Ucraina. Non solo attivisti, ma anche semplici passanti. Spesso sollevati per braccia e gambe o caricati a colpi di manganello su cellulari sovraffollati. Sul blindato che ha portato Kaluzhskikh a Brateevo erano in 29, di cui 25 ragazze. “Faceva davvero caldo. All’inizio cantavamo, poi abbiamo smesso persino di parlare: risparmiavamo l’aria”, ha raccontato la studentessa di 18 anni Anastasia a Mediazona, il sito d’informazione sulle carceri russe che ha ricostruito le umiliazioni e le violenze subite dalle detenute nell’oramai famigerato dipartimento nel Sud di Mosca. A Brateevo è stato sin da subito introdotto il protocollo “Fortezza” che vieta l’accesso ai visitatori esterni - inclusi gli avvocati - in caso di “potenziale minaccia”. Sequestrati i passaporti, poliziotti in uniforme e in borghese hanno iniziato a chiedere ai ragazzi coi capelli lunghi se fossero ragazze e alle ragazze coi capelli corti se fossero ragazzi. Poi li hanno convocati ad uno ad uno nella stanza degli interrogatori dove c’era quello che i detenuti hanno soprannominato “uomo in nero” o “interrogatore”, un trentenne con un dolcevita nero e una pistola nella fondina che presentandosi agli altri agenti aveva invocato Allah. “Uno psicopatico”, lo ha definito Anastasia. La 19enne Anna è stata la prima a subire la tortura dell’annegamento simulato. “Poi mi ha colpito duro. La vista mi si è offuscata. E mi ha detto: ‘Ora sarete tutte private della verginità’“. L’uomo in nero si è comportato allo stesso modo con Ekaterina, 23 anni: calci alle gambe, schiaffi in faccia, testa tirata all’indietro, acqua versata, capelli strappati. Anche la coreografa 25enne Kristina è stata sottoposta a waterboarding benché soffrisse d’asma. “Mi ha chiamato ‘puttana’ e ha detto che mi avrebbe mandato in cella con i senzatetto. Che sarebbero stati putinisti e non avrei avuto altra scelta che allargare le gambe”. Con la webdesigner 19enne Tatjana, “l’interrogatore” è andato oltre: la ha soffocata più volte con una busta. “Ho quasi perso conoscenza”. “Devi solo spararti in faccia. Sei feccia”, ha urlato alla 22enne Marina Morozova che, come Aleksandra, è riuscita a registrare l’interrogatorio e ha passato l’audio alla Novaja Gazeta che ha documentato scene simili anche nel dipartimento del complesso olimpico Luzhniki. “Arresti di massa e violenza contro i manifestanti - osserva un rapporto diffuso ieri da Ovd-info che ha documentato l’uso della forza in almeno 30 commissariati in 9 città - non sono una novità. Ma negli anni la scala delle detenzioni è aumentata e le misure di pressione esercitate sono diventate più dure”. Motivo in più, ha commentato Hrw, “per solidarizzare con le migliaia di manifestanti pacifici che continuano a esercitare coraggiosamente i loro diritti in Russia”. Stati Uniti. Melissa Elizabeth Lucio, lo spettro dell’omicidio di stato di Marco Cinque Il Manifesto, 15 marzo 2022 Dopo il rifiuto della Corte suprema Usa di rivedere il caso della donna nel braccio della morte in Texas, l’esecuzione si terrà il 27 aprile. Il 18 ottobre 2021 la Corte suprema statunitense si era rifiutata di rivedere il caso della 53enne Melissa Elizabeth Lucio, una detenuta ispanica rinchiusa nel braccio della morte in Texas. Questo rifiuto ha permesso allo stato più forcaiolo d’America di fissare per la condannata la data di esecuzione per il prossimo 27 aprile. La storia di Melissa e la sua vicenda giudiziaria sono emblematici, perché raccontano l’emarginazione, la discriminazione e gli abusi istituzionali che inquinano le radici del diritto e della stessa democrazia negli Stati uniti. Nata nella Rio Grande Valley, nel cuore più povero della comunità latina del Texas meridionale, Melissa è cresciuta in un ambiente estremo e degradato, che l’ha deprivata di ogni autostima, condannandola a una vita di sottomissione, umiliazioni e sacrifici. Dopo un’infanzia piena di abusi, Melissa ha avuto una relazione con due diversi uomini, che l’hanno costretta a sfornare un figlio dopo l’altro e a diventare, suo malgrado, madre di 14 bambini. Possiamo solo immaginare come possa essere stato difficile per questa donna dover coniugare educazione, amore e affetto in un contesto dove queste parole sono quasi totalmente aliene. Da vittima predestinata dell’ingiustizia sociale, Melissa ha visto materializzarsi puntualmente anche l’ingiustizia di un sistema penale che l’ha precipitata nel braccio della morte. La vicenda giudiziaria risale al 2007, durante un trasloco della famiglia di Melissa, quando Mariah, la figlioletta di due anni, morì e le furono trovati lividi sul corpo. La donna affermò che la bambina era caduta dalle scale, mentre l’accusa sosteneva che era stata picchiata ed era morta a seguito delle percosse. Come sempre accade in queste vicende, l’imputata non aveva risorse per permettersi un ufficio legale adeguato, mentre la polizia texana e il procuratore distrettuale, Armando Villalobos, fecero di tutto per farla condannare. Gli interrogatori furono un calvario per Melissa, con ore di allusioni e domande minacciose fatte dal Texas Ranger Victor Escalon. Alla fine la donna fu costretta a dichiarare: “Non so cosa volete che dica. Ne sono responsabile. Credo di essere stata io”. I suoi difensori chiesero timidamente di mettere agli atti la testimonianza di uno psicologo, il dottor John Pinkerman, per spiegare l’effetto coercitivo dell’interrogatorio condotto dalla polizia. Nel documento il medico descrisse Melissa come una “donna maltrattata che si prende la colpa di tutto ciò che accade in famiglia”, ma il giudice respinse questa prova, affermando che era irrilevante. Tutti i figli più grandi di Melissa sono stati ascoltati dalla Corte e hanno sempre dichiarato che la madre non li aveva mai malmenati, né loro né la piccola Mariah, ma il destino della donna ormai era già scritto. Nel 2014 lo stesso Villalobos, il procuratore distrettuale che si accanì contro Melissa, venne incriminato per corruzione ed estorsione e da allora sta scontando, assieme ad altri suoi complici, una condanna a 13 anni di reclusione. La vicenda di Villalobos rende ancor più evidente il marciume che c’è dentro il sistema giudiziario penale statunitense e quanto questo possa essere credibile e affidabile, soprattutto quando si abbatte su minoranze e poveri che non possono permettersi una difesa decente. Nel luglio 2019 la condanna a Melissa era stata annullata dalla Corte d’Appello degli Stati uniti per il Quinto circuito, ma lo Stato del Texas aveva impugnato immediatamente la sentenza di assoluzione e nel processo che seguì, nel febbraio del 2021, venne di nuovo ribaltata la decisione con un voto di 10 contro 7, ripristinando così la condanna a morte e concludendo che all’imputata era stato sì negato completamente il diritto di difendersi, ma che comunque le regole procedurali impedivano di ribaltare la sua condanna. Sulla vicenda di Melissa è stato realizzato il film documentario The State of Texas vs. Melissa, di Sabrina Van Tassel, poi selezionato per Tribeca nel 2020 e vincitore di una serie di riconoscimenti, tra cui il premio per il miglior documentario di Raindance. In una intervista, Jason Flom, fondatore di Lava Records e membro del consiglio di Innocence Project, aveva affermato: “Il terribile caso di Melissa Lucio è un esempio di quanto sia veramente corrotto il nostro sistema legale penale. Melissa è stata vittima di un pubblico ministero corrotto che sta scontando una pena in una prigione federale, oltre a un difensore incompetente e molto probabilmente compromesso”. Lo scorso 18 febbraio, amici e famigliari di Lucio, assieme anche a John, il figlio terzogenito della donna, hanno manifestato fuori dal tribunale della contea di Cameron, scongiurato i funzionari che hanno firmato la data di esecuzione di guardare almeno il documentario in cui si evidenzia l’innocenza della condannata, ma le loro richieste sono state ignorate. Tra i funzionari c’era anche Peter Gilman, l’ex avvocato di Melissa Lucio, ora pubblico ministero nell’ufficio del procuratore distrettuale. John Lucio sostiene che Gilman ha nascosto le prove che potrebbero salvare sua madre: “Gilman non vuole rispondere perché sa quello che ha fatto. Sa esattamente quello che ha fatto. Ha tralasciato molte prove”. Pensare che quello che prima avrebbe dovuto difenderti ora contribuisce alla tua condanna dev’essere qualcosa di abominevole. Dal braccio della morte di McAlester, il prigioniero cherokee Scotty Moore denunciava: “Nel braccio della morte non troverai mai uno con la grana, ma solo minoranze, malati mentali, poveracci e analfabeti”. Questo, in realtà, è il vero motivo che ha condannato Melissa Lucio sin dal giorno della sua nascita ma, al di là della sua innocenza o colpevolezza, resta comunque una vittima da strappare dalle mani dei boia di stato texani. I veri colpevoli, che dovrebbero essere portati sul banco degli imputati, sono lo Stato del Texas, il sistema giudiziario penale degli Stati uniti e una democrazia malata che permette contesti degradati e degradanti, che fa poco o nulla per ridurre quella forbice delle diseguaglianze che contribuisce a far finire in prigione un cittadino americano ogni 130, in un paese che è al primo posto nell’oscena classifica delle incarcerazioni, con quasi un quarto dei detenuti dell’intero pianeta. Impedire che il 27 aprile si celebri l’omicidio legalizzato di Melissa Lucio, una donna che andrebbe liberata e sostenuta, diventa un dovere per tutte le persone che ancora si reputano civili. Stati Uniti. No alle espulsioni dei minori con il pretesto della pandemia di Marina Catucci Il Manifesto, 15 marzo 2022 La direttrice del Cdc chiede di interrompere l’applicazione dell’ordine 42 di era Trump: il covid non rappresenta più un motivo per respingere i migranti. L’amministrazione Biden ha parzialmente chiuso con una legge sull’immigrazione dell’era Trump che permetteva di respingere i migranti, inclusi i minori non accompagnati. La famigerata legge è l’ordine 42 emesso nel marzo 2020 dal Centers for Disease Control and Prevention, Cdc, che autorizzava gli Usa ad espellere le famiglie di migranti che attraversavano la frontier con il Messico, sulla base della situazione sanitaria compromessa dalla pandemia. Da quando è stato emanato, l’ordine ha permesso 1,6 milioni di espulsioni. La legge era stata criticata dalle associazioni per i diritti dei migranti e dalla American Civil Liberties Union, in quanto portava al respingimento dei migranti verso situazioni e zone pericolose e, nonostante le critiche da parte anche dei suoi compagni di partito, Biden aveva difeso l’ordine 42 come strumento chiave per fermare la diffusione del coronavirus all’interno delle strutture di frontiera, almeno fino all’inizio dello scorso anno, quando i minori non accompagnati erano stati esentati dalla politica di espulsione. Il 4 marzo il giudice federale del Texas Mark Pittman aveva deliberato che i minori non potevano comunque essere esclusi da un provvedimento che non ammetteva eccezioni, sostenendo che il Texas, che aveva contestato l’esenzione, fosse stato danneggiato economicamente dal collocamento dei bambini migranti nello Stato, a causa delle spese mediche e scolastiche che aveva dovuto sostenere. Ad intervenire andando contro il giudice Pittman è stata la direttrice del Cdc, Rochelle Walensky, che ha chiesto di interrompere l’applicazione dell’ordine in quanto il tasso di vaccinazione continua a crescere mentre i casi di Covid-19 stanno scendendo. In una nazione che sta eliminando l’uso delle mascherine e le prove di vaccinazione in tutti i luoghi chiusi, e dove l’approccio alla pandemia è ormai quello di un problema risolto, diventa difficile giustificare il respingimento dei minori non accompagnati con quella stessa pandemia presentata come scomparsa. Nel suo ordine Walensky ha affermato che il Cdc completerà una nuova revisione entro il 30 marzo per decidere se le famiglie di migranti e gli adulti dovranno o meno continuare ad essere espulsi. Gran Bretagna. Caso Assange, la Corte suprema boccia il ricorso contro l’estradizione negli Usa di Antonello Guerrera La Repubblica, 15 marzo 2022 Ora la strada verso la libertà per il fondatore di Wikileaks si fa strettissima, e le speranze di evitare l’estradizione negli Stati Uniti sono oramai minime: lì potrebbe essere condannato fino a 175 anni di carcere. È un colpo durissimo per Julian Assange. Perché oggi la Corte suprema britannica non ha ammesso il ricorso del fondatore di Wikileaks contro la sua estradizione negli Stati Uniti. Motivazione: “Non ci sono le basi legali”. A questo punto, la strada verso la libertà per Assange si fa strettissima, e le speranze di evitare l’estradizione negli Usa sono oramai minime. Questo perché ora la faccenda è tutta nelle mani della ministra dell’Interno britannica, la falca Priti Patel, che ha già fatto capire che non si opporrà affatto alla richiesta di estradizione degli Stati Uniti nelle prossime settimane. Dunque, a meno di clamorose sorprese, bollinerà la decisione. A quel punto, Assange potrebbe chiedere una revisione giudiziaria per appurare che il procedimento abbia rispettato la legge in ogni sua singola parte e, se così non fosse, contestare la decisione finale di estradizione. Ma è molto complicato e le probabilità di fermarla sono ora risicatissime. Un’altra possibilità sarebbe appellarsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ma anche qui con poca speranza. C’è un’altra strada per i legali di Assange: ovvero fare ricorso contro la decisione dell’Alta Corte (secondo grado di giudizio) che lo scorso dicembre ha ribaltato la prima sentenza favorevole all’australiano, quella della Westminster Magistrate’s Court, che aveva respinto la richiesta di estradizione Usa per le condizioni disumane cui Assange, che soffrirebbe “di problemi mentali in cella”, sarebbe stato sottoposto in un carcere di massima sicurezza americano. Obiezione poi fatta decadere dall’Alta Corte in quanto ora sussisterebbero “solenni rassicurazioni di uno Stato sovrano come gli Stati Uniti” sul trattamento di Assange. Il caso ha ovviamente riscatenato due fronti ideologici e opposti. Per la moglie sposata in carcere Stella Moris, seguaci e sostenitori di Assange, ma anche diversi giornalisti o associazioni come Amnesty International e Reporter senza frontiere, siamo di fronte a una “terribile ingiustizia”, “un momento buio” e le “rassicurazioni americani sono insussistenti”. Dall’altro lato della trincea invece, c’è chi, come gli Stati Uniti, intesta al 50enne australiano di 18 capi di accusa, tra cui cospirazione per ottenere illegalmente e pubblicare informazioni classificate. E cioè le esplosive rivelazioni dei cablogrammi di diplomazia e difesa Usa rubati dall’ex soldato americano Bradley - oggi Chelsea - Manning, e pubblicati su Wikileaks dal 2010, per cui Assange potrebbe essere condannato fino a 175 anni di carcere negli Usa. Anche nella prima sentenza poi ribaltata dall’Alta Corte, la giudice Baraitser, pur negando l’estradizione, aveva tuttavia definito l’ex leader di Wikileaks non un giornalista, ma un personaggio che, nella pubblicazione dei file, “era andato oltre perché ha cercato di ottenere informazioni attraverso l’hackeraggio” di Manning: “La libertà di espressione non è pubblicazione senza regole”, aveva detto Baraitser ricordando anche la libertà su cauzione infranta da Assange in Inghilterra nel 2012 e il rifugio per sette anni nella sede dell’Ambasciata ecuadoriana a Londra per sfuggire al carcere. Prima della controversa pubblicazione delle email del Partito democratico Usa che nel 2016 inguaiarono Hilary Clinton contro Donald Trump. In quegli Stati Uniti dove Assange, ora nel carcere londinese di Belmarsh, potrebbe presto essere rinchiuso per sempre. “Le sanzioni non fermano noi talebani ma rendono l’Afghanistan più povero” di Davide Lerner Il Domani, 15 marzo 2022 “La situazione umanitaria in Afghanistan non era buona anche quando c’erano ancora gli americani. C’era povertà, anzi parecchia povertà”, dice Khairullah Khairkhwa, uno dei più influenti rappresentanti del governo talebano a Kabul, in Afghanistan. Khairkhwa è stato per 12 anni a Cuba nella prigione di Guantanamo, all’indomani della caduta del primo regime talebano con l’invasione americana provocata dagli attentati dell’11 settembre 2001. È considerato un sodale di Osama Bin Laden, vicino all’ex comandante di Al Qaeda in Iraq Abu Musab al-Zarqawi, e uno dei più grandi signori della droga dell’Afghanistan occidentale. Oggi è ministro della Cultura e dell’informazione. “Grazie all’assistenza umanitaria di organizzazioni internazionali e paesi stranieri, in una qualche misura abbiamo tenuto la situazione sotto controllo”, dice nella moschea di un centro congressi durante la sua visita ad Antalya, una delle prime volte all’estero come rappresentante governativo del nuovo regime. In realtà la situazione sta degenerando in una delle peggiori crisi umanitarie di sempre, mentre la guerra in Ucraina distoglie l’attenzione del mondo dall’Afghanistan. Su Kiev i talebani si dichiarano “neutrali”, loro che in un certo senso possono vantarsi di avere vinto sia contro Mosca che contro la Nato. Secondo il programma alimentare mondiale, entro pochi mesi il paese verserà in condizioni di povertà “universale”, cioè circa il 97 per cento degli afghani vivranno sotto la soglia di povertà (1,90 dollari al giorno secondo la Banca mondiale). La sanità è al collasso e secondo l’Onu 22,8 milioni di persone, cioè più di metà della popolazione, rischiano di perdere la vita a causa della malnutrizione. Incalzato sul tema dell’emergenza Khairkhwa, che all’epoca delle atrocità del primo regime talebano era stato ministro dell’interno, governatore di Herat e comandante militare, torna a criticare gli Stati Uniti. “Quando i dominatori (cioè gli americani, ndr) se ne sono andati, le misure adottate contro il nostro governo hanno esacerbato una situazione già complicata”, spiega. “Hanno imposto sanzioni e sequestrato i fondi detenuti all’estero dall’Afghanistan, è la loro strategia per fare pressione sul nostro esecutivo”. C’è del vero in quello che dice. All’indomani della presa del potere da parte dei talebani l’amministrazione di Joe Biden ha congelato un totale di sette miliardi di dollari fra liquidi, asset e riserve d’oro che appartengono alla “Da Afghanistan Bank”, la banca centrale dell’Afghanistan, ma che erano depositati negli Stati Uniti. È anche vero però che il nuovo regime in sei mesi ha già imposto misure repressive sulla popolazione che non aiutano Washington ad ammorbidire la propria linea. Le autorità hanno compiuto oltre cento omicidi mirati e rapimenti di ufficiali del precedente governo. Hanno limitato l’accesso delle donne a istruzione e lavoro e frustato quelle che scendevano in strada. La decisione sui fondi - presa allo scopo di indebolire il gruppo considerato ancora terrorista in seguito a pressioni di diverse associazioni di parenti delle vittime dell’11 settembre che rivendicano i fondi per le riparazioni - sta avendo anche l’effetto di ridurre tantissimi afghani alla fame. Al punto che il presidente americano Joe Biden, con un ordine esecutivo diramato lo scorso febbraio, si è riproposto di dirottare metà della cifra congelata in un fondo della Federal Reserve dedicato a rispondere all’emergenza, senza però passare dai talebani. Ma tanto non basta al ministro afghano. “La situazione economica dell’Afghanistan non può essere risolta con l’assistenza umanitaria, bisogna che le riserve finanziarie vengano restituite al paese e che le sanzioni vengano revocate. Solo così i tantissimi afghani che stanno lasciando il paese a causa della situazione economica potrebbero ritornare”, dice. Khairkhwa sostiene che per altri aspetti la situazione nel paese stia evolvendo nel migliore dei modi. “È la prima volta da 40 anni che le persone possono spostarsi da nord a sud, da sud a est, da est a ovest, in tutto l’Afghanistan, senza che ci siano problemi di sicurezza. Quando c’era l’occupazione americana morivano fra le 200 e le 300 persone al giorno, oggi è ritornata la normalità”. Ma quali sono le prospettive sul piano del riconoscimento internazionale? “Sia l’ambasciata italiana che quella turca sono aperte e hanno personale diplomatico, ma non un ambasciatore”, spiega Khairkhwa. Malgrado dimostri di capire l’inglese preferisce passare per un traduttore. “Per quanto riguarda altri paesi europei, come la Germania, purtroppo quando vengono in Afghanistan in fondo al cuore hanno sempre il timore di fare cose che diano fastidio agli Stati Uniti”, sostiene. Che ne sarà delle minoranze? E poi, da ministro dell’informazione, non dovrebbe tutelare libertà di stampa e espressione? “Non abbiamo problemi con le minoranze, ce ne sono parecchie in Afghanistan e possono professare la loro religione in pace”, spiega. “L’ultimo ebreo se ne è andato? Potrà ritornare quando gli pare”. Quanto ai media mette in guardia sul fatto che debbano avere a cuore un non meglio identificato “interesse nazionale”. “Esistono delle leggi in Afghanistan”, dice, “dobbiamo assicurarci che i mezzi d’informazione non seguano solo i desiderata dei loro finanziatori, ma anche quelli del nostro paese”. L’occasione del viaggio della delegazione in Turchia è quella dell’Antalya Diplomacy Forum, la kermesse internazionale che nelle intenzioni del ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu dovrebbe diventare un importante palcoscenico di confronto annuale fra i leader di tutto il mondo. Ad Antalya i talebani sembrano volersi aprire il più possibile a nuovi potenziali partner internazionali, accettando di buon grado incontri con rappresentanti di altri paesi e perfino prestandosi a dibattiti pubblici sulla crisi umanitaria in Afghanistan. “Cerchiamo di rompere il ghiaccio”, dice il ministro Khairkhwa, alludendo probabilmente alle inevitabili stimmate dovute alle note efferatezze commesse nella sua storia dal movimento. All’ordine del giorno nei rapporti bilaterali con Ankara ci sono però gli ultimi dettagli per affidare alla Turchia il controllo dell’aeroporto di Kabul, lo snodo più strategico del paese. “Abbiamo avuto molte discussioni e molti incontri con la delegazione turco-qatarina riguardo l’aeroporto, quasi tutte le questioni sono state concordate, rimangono problemi tecnici molto piccoli, e speriamo vengano risolti presto”, dice il rappresentante considerato un maxi terrorista dagli americani. Quando dice di doversene andare ricordo a Khairkhwa il detto talebano “gli americani hanno gli orologi, noi abbiamo il tempo”. Ma lui ormai si comporta da uomo governativo.