Onida: “Dap, sì a un capo come Renoldi che rispetta la Carta” di Errico Novi Il Dubbio, 14 marzo 2022 Tra gli studiosi e gli scienziati del diritto non sono così numerosi i nomi pronti a sfidare il conformismo minaccioso dell’antimafia. Ma chi ha il coraggio di farlo, ne ha anche l’autorevolezza. È il caso di Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale, che nei mesi scorsi, in più di un articolo firmato sul Corriere della Sera, ha spiegato i motivi per cui i suoi successori alla Consulta non potevano che travolgere le ostatività dell’ordinamento penitenziario. Gli abbiamo chiesto cosa pensi delle polemiche sulla scelta ipotizzata dalla ministra Marta Cartabia per il nuovo vertice del Dap. Davvero il dottor Carlo Renoldi merita l’ostracismo che gli è stato riservato da colleghi come Di Matteo e partiti come Lega e 5 Stelle? Sulla scelta del nuovo capo del Dap condivido pienamente il giudizio positivo e non condivido le critiche. È essenziale che alla testa del dipartimento sia una persona che crede fino in fondo in un carcere conforme ai principi costituzionali, secondo cui le pene detentive vanno scontate in ambienti che escludano radicalmente “trattamenti contrari al senso di umanità” e le pene, tutte le pene, “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Da questo punto di vista ritengo che la scelta della ministra sia atta ad evitare fatti e fenomeni come quelli di Santa Maria Capua Vetere. Renoldi ha osato avanzare critiche sul 41 bis... Il 41 bis ha una lunga storia, e bisognerebbe ricostruirla. Rispetto alla originaria formulazione, che faceva riferimento soprattutto a ipotesi eccezionali di emergenza, posso per ora ricordare solo come vi sia stata una successiva e tormentata evoluzione, la quale ha finito per disegnare un regime carcerario speciale per i mafiosi, che rischia di andare a collidere con le regole e gli intenti generali del regime carcerario normale ispirato ai principi costituzionali. Ma su questo bisognerebbe ricostruire la storia ed esaminare partitamente i singoli capitoli. Referendum. “Un sì contro l’abuso della custodia cautelare che lede la presunzione d’innocenza” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 marzo 2022 Il professor Giovanni Guzzetta, Ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l’Università di Roma Tor Vergata, insieme agli avvocati Bertolissi, Sau e Isola il 15 febbraio scorso ha difeso dinanzi alla Corte Costituzionale i quesiti referendari sulla “giustizia giusta” promossi da Lega e Partito Radicale. Con lui oggi approfondiamo quello relativo agli abusi della custodia cautelare. Professore, spieghiamo bene cosa accadrebbe se passasse il quesito? Per usare le parole della Corte costituzionale che, con l’approfondita sentenza 57/2022 ha dichiarato l’ammissibilità del quesito, il referendum “investe unicamente l’esigenza cautelare consistente nel pericolo di commissione di delitti della stessa specie”. L’oggetto è dunque relativo al rischio di recidiva specifica dell’indagato o imputato. In buona sostanza il quesito lascia inalterate le altre esigenze cautelari e in particolare quella relativa al rischio di inquinamento delle prove o di pericolo di fuga, nonché quelle legate al rischio che l’indagato o l’imputato commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata. Esso si concentra solo sul principio secondo il quale chi è indagato o imputato per un certo reato possa essere sottoposto a misure cautelari se vi è il rischio che commetta un nuovo reato della stessa specie. Ciò che viene colpita non è dunque l’idea che si possano imporre misure cautelari per prevenire il rischio di commissione di altri reati, ma che il fatto stesso che questo rischio riguardi reati della stessa specie può essere presupposto per l’applicazione della misura. Infatti qualora vi sia il rischio di commissione di “gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata”, siano o meno essi “della stessa specie” di quello per cui si procede, la possibilità di misura cautelare rimane intatta. Aggiungerei, a titolo informativo, che questa ipotesi della recidiva non esisteva originariamente nel nostro ordinamento, ma è stata introdotta nel 1995. Anzi, la funzione di prevenzione delle misure cautelari costituisce uno sviluppo ulteriore dell’istinto che, come ha ricordato la Corte costituzionale nella sent. 64/1970, e come ricorda la sentenza di oggi (la scorsa settimana, ndr), aveva come ambito proprio di operatività la garanzia di esigenze meramente processuali (pericolo di inquinamento, pericolo di fuga). Perché dovremmo votare sì? Non spetta a me pronunciarmi in questa sede a favore o contro la scelta politica, che il referendum rimette al corpo elettorale. Mi limito, visto che mi pare questo il senso della sua domanda, a descrivere le ragioni che i promotori hanno avanzato. Sicuramente essi partono dal presupposto che la disposizione colpita abbia consentito un uso eccessivo delle misure cautelari e della custodia cautelare in particolare. Ma la motivazione addotta non è solo di fatto. È anche di principio. Si contesta cioè l’idea che qualcuno la cui responsabilità non è ancora stata accertata, che sia dunque sospetto ma goda della presunzione di non colpevolezza, possa subire l’eventualità di una misura cautelare che non sarebbe applicabile agli altri cittadini. Con una battuta si potrebbe dire che la misura in questione si fonderebbe su “un sospetto basato su un sospetto”: sospetto di reiterazione del reato nei confronti di chi è solo sospettato di aver commesso quel reato, ma non è ancora stato dichiarato colpevole. Il titolo di un articolo a firma di Piercamillo Davigo sul Fatto recita così: “se passa il referendum di Salvini si dovranno lasciare liberi ladri, bancarottieri e corruttori. Ma si rende conto che nelle carceri italiane circa un terzo dei detenuti sono stranieri irregolari che verrebbero quasi tutti scarcerati?”. Si verificherebbe davvero questo scenario che l’ex magistrato ci presenta come apocalittico? Non ho letto l’articolo. Limitandomi alla sua citazione, non condivido le parole del dottor Davigo, per due ragioni, di metodo e di merito. Di metodo, perché chi stato magistrato della Repubblica non dovrebbe esprimersi in termini così generici e allusivi, che appartengono più alla logica della propaganda che a quella del dibattito. Nel merito non le condivido perché, da un lato è falso che i sospetti autori dei delitti citati non possano essere sottoposti a misure cautelari in assoluto. In secondo luogo perché Davigo omette di ricordare che, a prescindere dal resto, le misure cautelari sono applicabili sempre allorché vi sia il rischio che siano commessi “gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata”. In questo contesto agitare lo spettro degli stranieri irregolari che scorrazzano per il Paese minacciando la sicurezza dei cittadini, oltre a essere generico, e quindi in termini assoluti, falso, mi pare solleticare le peggiori pulsioni qualunquiste, razziste e xenofobe. Molti criticano il quesito perché riguarderebbe anche il reato di stalking. È così? A me sembra che la questione sia di interpretazione giuridica che saranno gli organi giurisdizionali a valutare. Mi limito a segnalare che la previsione delle esigenze cautelari per delitti con uso di “mezzi di violenza personale”, che non sarebbero colpite dal referendum, offrono un legittimo spazio interpretativo, atteso che la Cassazione ha già riconosciuto che la violenza personale non si limita a quella fisica, ma può estendersi in determinate circostanze (per esempio in caso di abuso di mezzi di correzione dei minori) anche a forme di violenza psichica, vessatorie, di umiliazione della dignità personale. Aggiungo che il referendum colpisce il principio che attribuisce una specifica rilevanza al rischio di recidiva, ma non impedisce al legislatore di individuare ulteriori casi, particolarmente gravi, in cui possono essere previste esigenze cautelari, anche eventualmente non custodiali. Si pensi all’allontanamento dalla casa familiare (282-bis c.p.p.) o al divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (282-ter c.p.p.). Referendum. “Io dico no perché il quesito mortifica l’esigenza di sicurezza sociale” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 marzo 2022 Andrea Bigiarini, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rovigo e giovane nuovo magistrato nel direttivo Unicost, ci spiega le ragioni per non sostenere il quesito sui limiti all’abuso della custodia cautelare, promosso da Lega e Partito Radicale. Perché dovremmo votare “no” al quesito? Il quesito è mal posto, una sorta di “truffa delle etichette”. La norma di cui si propone la parziale abrogazione concerne tutte le misure cautelari, non solo la custodia in carcere: ne consegue che il pericolo di reiterazione del medesimo reato non potrebbe essere scongiurato neppure con misure meno afflittive del carcere. L’intervento proposto, inoltre, mortifica l’esigenza incontestabile di sicurezza sociale (oltre che, in alcuni casi, di tutela della vittima del reato). Infatti, l’approvazione del quesito impedirebbe di porre un rimedio in via cautelare a condotte criminose che trovano nella reiterazione del reato il proprio precipuo disvalore: si pensi al reato di atti persecutori o a quello di cessione di sostanze stupefacenti, laddove le condotte siano plurime e reiterate nel tempo. Considerazioni simili valgono anche per alcuni reati di particolare allarme sociale, come il furto in abitazione. Infine, da un punto di vista logico-sistematico, si giungerebbe all’assurdo che, a seguito dell’arresto in flagranza anche per gravi delitti, qualora l’unica esigenza cautelare ravvisabile fosse quella di impedire la reiterazione del reato, l’indagato dovrebbe essere subito rimesso in libertà. Secondo lei esiste un abuso della custodia cautelare nel nostro Paese? Da giovane magistrato del pubblico ministero, alla luce della mia pur breve esperienza in un piccolo circondario di provincia, non mi sento di parlare di un reale abuso della custodia cautelare. Il nostro codice prevede una nutrita schiera di misure cautelari personali non custodiali che vengono applicate in misura assolutamente prevalente rispetto a quelle di carattere strettamente restrittivo della libertà personale. Rispetto alle richieste del Pm c’è il vaglio del Gip e del Tribunale del Riesame e le assicuro che i rigetti così come gli annullamenti e le riforme non sono infrequenti. I promotori del referendum sostengono che la motivazione di “reiterazione del medesimo reato” viene utilizzata più di frequente per disporre la custodia cautelare, molto spesso senza che questo rischio esista veramente. Dal suo osservatorio cosa può dirci in merito? Effettivamente il pericolo di reiterazione del medesimo reato è l’esigenza cautelare percentualmente più significativa nelle ordinanze applicative di misure cautelari emesse dai giudici. La ragione di ciò sta nello stesso concetto di misura cautelare, che è un provvedimento provvisorio ed urgente. Eliminare il pericolo di reiterazione del reato dal novero delle esigenze cautelari (consentendo di agire con misure restrittive solo nei residuali casi di pericolo di fuga o di inquinamento delle prove) comporterebbe un sostanziale svuotamento del significato dello strumento cautelare. Non bisogna poi dimenticare che l’esistenza del pericolo “concreto ed attuale” di reiterazione del medesimo reato deve essere adeguatamente motivata dal giudice, con possibilità di immediata impugnazione di fronte al Tribunale del Riesame o alla Corte di Cassazione. I promotori legano altresì la necessità del quesito anche al fatto che “circa mille persone all’anno vengono incarcerate e poi risulteranno innocenti. Dal 1992 al 31 dicembre 2020 si sono registrati 29.452 casi”. Che ne pensa di questa motivazione? Non bisogna sottovalutare questo numero, che deve orientare la magistratura a utilizzare lo strumento della custodia cautelare in carcere effettivamente come extrema ratio. Non può sottacersi però un ulteriore profilo, per così dire fisiologico: gli elementi di prova di cui dispone il giudice al momento dell’applicazione di una misura cautelare non sempre corrispondono al materiale probatorio risultante all’esito dell’istruttoria dibattimentale. Si pensi ai casi, purtroppo non infrequenti, di ritrattazione della vittima di reati commessi in ambito familiare. In queste ipotesi, la sentenza di assoluzione non può essere letta come una flagrante sconfessione della decisione cautelare. Sui referendum farete campagna per l’astensione o per il no? Sui referendum faremo una campagna informativa, lasciando liberi i cittadini di orientarsi sulla scelta di presentarsi o meno alle urne. Ma non ci sottrarremo al dovere di esprimere la nostra opinione sui quesiti che attengono a questioni prettamente giuridiche. Lei è il più giovane componente della Direzione nazionale di Unicost. Cosa pensa delle correnti? Mi sono avvicinato al gruppo in concomitanza con il grande fermento della Costituente, che ha portato all’adozione di un nuovo Statuto. Ho vissuto questa esperienza con grande entusiasmo e ho capito fino in fondo il valore del confronto e della partecipazione. Penso che, soprattutto in questo periodo di forte crisi della magistratura, non si possa restare in disparte: occorre impegnarsi attivamente per cambiare le cose e per recuperare credibilità agli occhi dei cittadini. Ingiusta detenzione, tutti gli alibi dello Stato per ridurre o non riconoscere un indennizzo di Viviana Lanza Il Riformista, 14 marzo 2022 Avvalersi della facoltà di non rispondere è un diritto riconosciuto dalla legge ma può diventare un boomerang se poi, a processo finito e ad errore giudiziario accertato o ingiusta detenzione subita, si prova a chiedere un risarcimento allo Stato. Perché? Perché lo Stato può dirti che appellandoti a quel tuo diritto hai contributo a far cadere nell’errore gli inquirenti. Sembra assurdo, eppure è una delle motivazioni a cui si ricorre per ridurre o negare il risarcimento a chi, ingiustamente detenuto, chiede un indennizzo per il danno patito. L’associazione Errorigiudiziari.com, fondata dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone che da oltre vent’anni raccolgono dati su casi di ingiusta detenzione ed errori giudiziari, ha messo insieme storie, testimonianze, provvedimenti svolgendo un’analisi delle decisioni più frequentemente adottate dalle Corti d’appello e dalla Cassazione. E si scopre che una “colpa lieve” che non dà diritto a un pieno risarcimento può essere l’essersi avvalso della facoltà di non rispondere al momento dell’interrogatorio, l’avere frequentazioni poco raccomandabili oppure il fatto di non possedere una memoria di ferro per ricordare, con minuziosa precisione, date e orari che interessano alla tesi accusatoria. Della serie, non basta dire che si è innocenti. Perché si potrebbe essere accusati di “non essere pienamente collaborativi” e quindi avere diritto a un risarcimento decurtato. Ma come si può collaborare se non si conosce quel dato fatto, se non si è commesso quel tale reato? Ah, saperlo! Anche essere già stato in carcere in passato o avere precedenti penali, oppure avere una personalità ritenuta “negativa” può essere una colpa lieve che contribuisce a far ridurre la percentuale dell’indennizzo o a non averlo proprio. Addirittura, bisogna stare attenti all’avvocato che si sceglie come difensore appena si viene arrestati, perché al momento di richiedere un indennizzo per ingiusta detenzione si potrebbe vedere l’importo del proprio indennizzo tagliato del 25% perché secondo lo Stato, che comunque non avrebbe dovuto arrestarti, ti sei fatto difendere da un avvocato poco preparato. Sembra assurdo ma è la realtà. Ed è una realtà che si confronta con grandi numeri. Basti pensare che, facendo una media dei casi dal 1992 al 2020, nel nostro Paese si stimano 1.015 vittime di malagiustizia all’anno (più di cento solo a Napoli) e si spendono in media due milioni e mezzo di euro in risarcimenti ogni anno. E dire che circa il 70% delle richieste di risarcimento non viene accolto, il che vuol idre che le dimensioni del fenomeno sono ben più ampie. Ci sarebbero circa 20mila casi di ingiusta detenzione non dichiarati negli ultimi anni, perché spesso chi subisce un arresto o un processo ingiusto poi non ha la forza economica o psicologica per ingaggiare una nuova battaglia giudiziaria per il risarcimento. Dunque, a fronte dei dati ufficiali sottoposti all’attenzione ministeriale secondo cui ammonterebbero a circa 30 mila le vittime di ingiusta detenzione negli ultimi trent’anni, ci sono dei dati reali che danno al fenomeno una proporzione ben più ampia. Inoltre, secondo i dati diffusi da Errorigiudiziari.com, su 544 cause contro lo Stato per responsabilità civile dei magistrati presentate tra il 2020 e il 2021, solo 129 sono andate a sentenza finora e di queste solo 8 si sono concluse con una condanna. I magistrati non sono i custodi della virtù, non diamogli un ruolo salvifico di Giovanni Fiandaca* Giornale di Sicilia, 14 marzo 2022 Come studioso non più giovanissimo di temi penalistici e dintorni, ancora animato da una certa passione intellettuale a dispetto del decadimento politico-culturale di cui soffre il nostro paese, continuo a seguire con interesse quanto accade nel campo della giustizia penale, o intorno ad essa si pensa e scrive nelle sedi più diverse. Ho perciò letto con attenzione anche le interviste pubblicate su questo giornale nel contesto del viaggio attraverso la giustizia italiana condotto da Costantino Visconti, nella sua doppia veste di studioso ed editorialista: interviste variegate e ad ampio spettro, che ho apprezzato - non ultimo - per la opportuna sollecitazione a rivedere o mettere in discussione presunte verità ormai quasi assurte a dogmi di fede. I teoremismi sono virus pericolosissimi per la giurisdizione penale, tanto più se acriticamente diffusi dai media. Ed è forse superfluo richiamare i moniti di Leonardo Sciascia contro il grave rischio non solo di errori giudiziari, ma anche di fanatico giustizialismo connesso alla tentazione di elevare i tribunali ad altari sacri, con conseguente fiducia fideistica nell’operato dei magistrati inquirenti e giudicanti. Essendo la giurisdizione penale una istituzione di garanzia, ma ancor prima una macchina di potere che - specie se azionata con sovraesposizione combattentistica o spericolata imprudenza - può stritolare i malcapitati che cadono nei suoi ingranaggi, ritengo che abbia senz’altro ragione il mio amico giusfilosofo Luigi Ferrajoli a non stancarsi di additare una fondamentale massima deontologica: la regola cioè del “dubbio metodico” - anche quando le indagini riguardano boss mafiosi o membri di altre forme di criminalità sistemica - quale abito mentale che meglio si addice sia ai giudici, sia ai pm di una democrazia costituzionale degna di questo nome. Tutto ciò premesso, confesso che mi hanno convinto poco le “precisazioni” (sic!) che Giancarlo Caselli ha pubblicato su questo giornale (Giornale di Sicilia del 9 marzo) a proposito della precedente intervista rilasciata a Visconti da Giuseppe Di Lello (Giornale di Sicilia del 6 marzo). Invero Di Lello, sollecitato a riflettere a distanza di circa un trentennio sulla sua esperienza di magistrato antimafia a Palermo (interrotta dalla successiva attività politico-parlamentare), ha detto diverse cose nel porre a confronto i magistrati di ieri e di oggi. Ma riassumo qui quelle più rilevanti, anche rispetto alla replica caselliana. Primo: sostiene Di Lello che, a partire da un certo punto in poi, una parte dei magistrati - forse anche ispirata dall’”ondata giustizialista” - ha sposato “l’idea che toccasse alla magistratura salvare l’Italia”; e che, nel perseguire questo obiettivo di moralizzazione pubblica, sarebbe passata in secondo piano l’accuratezza delle indagini sino al punto che si sarebbero anche celebrati processi basati su ipotesi accusatorie “risibili”. Secondo: sostiene sempre Di Lello che la magistratura penale dovrebbe avviare una rinnovata riflessione sull’autonomia della pubblica amministrazione e della politica, non avendo essa ancora interiorizzato a sufficienza il principio della separazione dei poteri. Orbene, cosa c’è di veramente nuovo, trasgressivo o addirittura scandaloso in affermazioni come queste, che dal canto mio condivido? Chi è a conoscenza del dibattito sulla giustizia penale che da tempo si svolge nel nostro paese - e alludo soprattutto a serie analisi saggistiche, lontane dalla superficiale contrapposizione politico-mediatica tra le opposte tifoserie dei “giustizialisti” e dei “garantisti” - sa bene che opinioni molto simili a quelle di Di Lello sono state manifestate, e continuano a essere espresse con dovizia di argomenti da studiosi molto accreditati di vario orientamento politico-ideologico, per nulla assimilabili a filo-mafiosi o a filo-corrotti affetti da garantismo peloso: basta dare uno sguardo alla pubblicistica più meditata in tema di giustizia per averne riscontri anche recentissimi (cfr. ad esempio S. Cassese, Il governo dei giudici, Laterza 2022). Cosa obietta Caselli a Di Lello? L’ex procuratore di Palermo (al quale anch’io da siciliano, in ogni caso, mai cesserò di attestare gratitudine per il valoroso impegno antimafia) contesta, innanzitutto, che la magistratura si sia fatta trascinare dall’ondata giustizialista al punto da avviare indagini sulla base di ipotesi accusatorie assai labili. Ora, è possibile che Di Lello abbia un po’ ecceduto nell’etichettare come “risibili” i presupposti di alcune indagini sfociate poi in esiti assolutori; ma non mi parrebbe davvero decisivo chiarire se questa forse poco felice etichettatura - come Caselli ha risentitamente creduto di dovere intendere - includesse (nelle intenzioni dell’intervistato) i casi richiamati a titolo esemplificativo di processi su politici come Mannino, Musotto o Giudice, instaurati appunto durante la gestione caselliana della procura palermitana. La questione di fondo su cui occorre oggi tornare a riflettere è di ordine generale, e non riguarda quindi questo o quel processo singolo celebrato a Palermo o altrove. Il dato indiscutibile, e preoccupante, è piuttosto questo: si aprono specie a carico di politici molte indagini che poi si risolvono, appunto, in un nulla di fatto. Tra le possibili cause, ravviserei la perdurante convinzione di alcuni magistrati di dovere fungere da “custodi della virtù” (A. Pizzorno) degli esponenti del ceto politico e di quello economico-imprenditoriale; per cui si fanno non di rado investigazioni che, anziché muovere da una preesistente ipotesi concreta di reato, vanno alla ricerca di reati “possibili”. È lecito sollecitare una revisione critica di una simile convinzione da parte degli stessi esponenti della magistratura che la hanno finora interiorizzata? La seconda cosa importante che Caselli rimprovera a Di Lello è - se ho ben compreso - di sottovalutare il fatto che la parte più coraggiosamente combattiva della magistratura ha evitato “il rischio concreto che la nostra democrazia crollasse”. Con tutto il rispetto per Caselli, userei una certa cautela prima di fare affermazioni così perentoriamente impegnative in chiave macro-sistemica. Senza nulla togliere al grande (e talora eroico) contributo fornito dalle istituzioni giudiziarie nel contrasto di Mafiopoli e Tangentopoli, giungere a sostenere senza esitazione che la magistratura (o una sua parte) abbia svolto un ruolo addirittura salvifico della nostra democrazia in grave crisi nei primi anni Novanta è, infatti, una tesi su cui non risulta che concordino i più autorevoli storici e politologi di professione. E, anzi, non sono pochi oggi gli studiosi che, con buon fondamento, pensano che le cosiddette “rivoluzioni giudiziarie” abbiano finito col produrre - come anch’io ritengo - esiti politici complessivamente più negativi che positivi. È giustificato, allora, che questo ruolo salvifico se lo auto-attribuisca la stessa magistratura per bocca di una delle sue più rappresentative figure storiche? Forse, vale la pena discuterne più approfonditamente sotto plurime angolazioni disciplinari e professionali. Anche perché non si tratta di fare solo storiografia; ne va dell’autopercezione di ruolo che i magistrati in servizio possono avere di sé stessi nella realtà contemporanea. *Professore emerito di diritto penale all’università di Palermo e Garante dei diritti dei detenuti per la Sicilia Dal codice al dogma. Prigionieri di un’antimafia superata dalla storia di Errico Novi Il Dubbio, 14 marzo 2022 È stato un anno nuovo per la giustizia. Produttivo. Ricco di aperture su diversi fronti. E in particolare sullo snodo più delicato, il rapporto fra indagini e informazione. Con le nuove norme a tutela della presunzione d’innocenza (decreto legislativo 8 novembre 2021 n. 188) si è aperto un varco nella palude degli ultimi trent’anni, nel pregiudizio giustizialista stratificatosi a partire da Mani pulite. Eppure resta un’ultima fortezza inaccessibile a qualsiasi tentativo di confronto: la legislazione e la teoria dell’antimafia. Un sistema di certezze che non si riesce a scalfire, e che anzi ostacola anche riforme non immediatamente connesse alla repressione del crimine organizzato. Basti pensare all’improcedibilità, il complicato antidoto al blocca-prescrizione di Bonafede. Così il dogma dell’antimafia ha cambiato pure l’improcedibilità - Quando a fine luglio l’attuale maggioranza sembrava aver trovato un’intesa sul nuovo istituto, che sostituisce la cosiddetta “prescrizione del processo” all’estinzione del reato, ecco il colpo a sorpresa. Il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho e il capo dei pm di Catanzaro Nicola Gratteri paventano il naufragio di gran parte dei giudizi per mafia. Basta la parola: la norma cambia. Viene condita di eccezioni e si trasforma in un groviglio ancora più tortuoso di quanto non fosse già in partenza. Basta consultare l’articolo 2 secondo comma della riforma penale (al secolo, la legge 134 del 2021): oltre tre pagine fitte di Gazzetta ufficiale. Non solo. A riprova che dal timore di urtare i dogmi dell’antimafia siano scaturite le più pesanti contraddizioni di un anno di politiche sulla giustizia, va citata la legge sull’ergastolo ostativo. Con il testo che nelle prossime ore la Camera dovrebbe licenziare in prima lettura, si lancia di fatto una sfida alla Corte costituzionale: quasi si arriva a irridere l’ordinanza 97 del 2021, con cui la Consulta aveva accertato l’illegittimità, pur senza renderla immediatamente efficace, delle norme per cui i condannati all’ergastolo ostativo, essenzialmente i mafiosi, possono accedere alla liberazione condizionale solo attraverso la collaborazione. Con il consueto esemplare spirito di responsabilità e rispetto istituzionale, il giudice delle leggi aveva evitato l’impatto fatale di una pronuncia così dirompente per l’ordinamento, e aveva lasciato al Parlamento un anno di tempo per allestire la piattaforma d’atterraggio del nuovo regime normativo, in modo da consentire ai giudici di Sorveglianza la valutazione del singolo caso senza rischi per la sicurezza. Alla fine i deputati si sono esercitati nel predisporre una selva di norme spesso irragionevoli, che ostacola a tal punto il percorso dell’ergastolano verso il più importante dei benefici, da vanificare quasi la pronuncia. È doveroso riportarsi al magistrale intervento pubblicato sul Foglio di giovedì scorso dal professor Giovanni Fiandaca, che ha disarticolato con impietosa efficacia le contraddizioni del testo. Quel ricatto implacabile che atterrisce i garantisti - E il fatto più rilevante è che, di fronte a una così sfrontata indifferenza alla Costituzione, non si è levata in Parlamento praticamente nessuna di quelle voci garantiste che, nell’intero anno precedente, si erano battute con successo per cambiare il corso della politica giudiziaria. Quando c’è di mezzo la mafia, ci si autoconsegna al silenzio. Si preferisce riparare nell’astensione dal dibattito, nonostante in tutte le altre occasioni si intervenga puntualmente per armonizzare la legislazione penale con lo Stato di diritto. Fa troppa paura il ricatto permanente del fronte giustizialista, politico e togato. Chi osa mostrarsi garantista anche sulla legislazione antimafia viene immediatamente bollato come amico o fiancheggiatore dei boss. Vale la pena ricordare come, sull’ergastolo ostativo, le sole e uniche voci che alla Camera si siano levate fino all’ultimo per denunciare l’incoerenza delle nuove norme siano di due donne e deputate coraggiose: Enza Bruno Bossio del Pd e Lucia Annibali di Italia viva. La prima, in particolare, è rimasta isolata all’interno del proprio partito, che ha invece condiviso con il Movimento 5 Stelle, e portato a casa, diverse modifiche restrittive. L’antimafia, nella sua pretesa intangibilità, è un ricatto. È una roccaforte inespugnabile. Un sistema impossibile o quasi da riformare. È un’arma sempre pronta per respingere avanzamenti del diritto anche su altri versanti, come si è ricordato a proposito della riforma penale. È un pregiudizio, innanzitutto, rispetto a ogni tentativo di riforma penitenziaria. E qui è facile richiamare il caso delle ultime ore: la nomina di Carlo Renoldi, un giudice dopo tanti pm, a capo del Dap. Una scelta sulla quale la guardasigilli Marta Cartabia dovrà sfidare in Consiglio dei ministri l’assoluto dissenso di Lega e Movimento 5 Stelle, dissenso anticipato, nel plenum del Csm, da Nino Di Matteo. Renoldi, ora alla Cassazione ma con una lunga esperienza da giudice di Sorveglianza, ha osato schierarsi troppo nettamente su un’idea di carcere orientata alla rieducazione e al reinserimento sociale, più che alla vendetta. Apriti cielo. Anche e soprattutto perché il magistrato ha esteso ile proprie analisi critiche al 41 bis, il cosiddetto carcere duro concepito per isolare i capimafia. Ecco: ogni “eresia” che incroci il contrasto della criminalità organizzata è la scintilla di un nuovo conflitto, e soprattutto di una nuova scomunica. L’antimafia è un moloch che impedisce di disegnare nuovi modelli di giustizia e di esecuzione penale. E proprio per il suo granitico dogmatismo è ormai un paradigma inadatto rispetto al proprio obiettivo, la repressione delle organizzazioni criminali. Davvero a trent’anni dalla dichiarazione di guerra della mafia stragista possiamo continuare a rispondere con le stesse armi di allora? È possibile tenere in piedi una legislazione di emergenza che pretende di battere la mafia con la rincorsa a remote connessioni familiari, anziché con strumenti tecnologici e normativi commisurati all’evoluzione dei traffici, alle nuove e sofisticate forme di arricchimento illecito? È un interrogativo necessario innanzitutto per il futuro del Mezzogiorno. La cieca e inquisitoria logica delle misure di prevenzione - In Sicilia, Calabria, Campania il codice antimafia (tecnicamente il decreto legislativo 6 settembre 2011 n. 159, modificato più volte e anche dal decreto Pnrr, il 152/2021) consente sì di rispondere a fenomeni criminali ancora ben radicati, connessi essenzialmente al narcotraffico, ma si ostina pure nel colpire con inflessibile cecità migliaia di imprese, pienamente inserite nel circuito legale, in virtù di parentele, relazioni presunte, sospetti. È il “campo largo” delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, che continuano a mietere vittime innocenti, e che in alcuni contesti - esemplare il caso della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo - hanno finito, negli anni passati, per ridurre in cenere il tessuto produttivo locale. A Caltanissetta è in corso il processo al cosiddetto sistema Saguto, di cui continua ad emergere il ricorso discutibile al cosiddetto “processo di prevenzione”, e di cui vi parla anche la prefazione al libro “Quando prevenire è peggio che punire”, firmata da Sergio D’Elia e riproposta in questo numero del giornale. Adesso il quesito da porsi è se una legislazione antimafia basata sul sospetto, sul doppio binario, su modelli estranei allo Stato di diritto e al giusto processo, non rischi di distrarre le energie di magistratura e forze dell’ordine dall’attuale dimensione dei fenomeni criminali. È un timore, quello di insistere su un bersaglio sbagliato, che in realtà sembra insinuarsi anche nelle analisi dei più alti responsabili delle strategie antimafia. Persino il procuratore nazionale Cafiero de Raho o il pg di Cassazione Giovanni Salvi non mancano di segnalare, nelle proprie relazioni annuali, l’esistenza e l’evoluzione di circuiti illeciti e di traffici assai più sofisticati, alternativi al consueto modello delle cosche. Solo che a tali analisi non segue la richiesta di ristrutturare davvero il codice antimafia. Ci si limita a sostenere che le organizzazioni criminali, assimilabili o meno alla mafia, sono ancora forti, e anzi più ricche e internazionali, e che quindi non si può dismettere nulla del vecchio armamentario repressivo. Ma pur nel pieno rispetto di valutazioni proposte da fonti così autorevoli, permane l’impressione che si esiti a rivedere il codice e le strategie antimafia non perché davvero utili a perseguire gli attuali circuiti internazionali dell’illecito, ma per la soggezione a quel ricatto morale evocato all’inizio. Non si può neppure discutere di 41 bis, di regime penitenziario ostativo, di misure di prevenzione applicate senza contraddittorio, avulse dalla prova formata nel processo. Non si osa mettere in discussione principi investigativi ancora basati sulla ricerca di una lontana sospetta parentela. Non si osa perché in fondo nessuno ha il coraggio di un atto di blasfemia. Nessuno ha voglia di trattare la vecchia antimafia per quello in cui rischia di essersi trasformata: una religione dogmatica, un misto di nostalgia e ricatto, un’eredità della guerra dichiarata a Capaci e via D’Amelio, un plotone pronto a fulminare i presunti disertori. Eppure il nemico di allora è già da decenni rinchiuso al 41 bis o scomparso dalla faccia della terra. In uno Stato che vuol modernizzare, grazie al Recovery, il proprio sistema giustizia, e che potrebbe efficacemente dedicarsi al contrasto dei nuovi sistemi di arricchimento illecito, possiamo davvero permetterci di sprecare tante risorse umane ed economiche nella rincorsa nostalgica alla mafia di trent’anni addietro? Quasi nessuno ha il coraggio di avanzare quell’interrogativo, se non fosse per il presidio garantista del Partito radicale, di Nessuno tocchi Caino, dell’avvocatura e di poche voci dell’accademia, da Giovanni Fiandaca a Salvatore Lupo. Ma un paese che vuole coltivare la speranza di lasciarsi alle spalle la pandemia, e la guerra, non può pensare di restare imprigionato nell’eterno ritorno di un’antimafia sganciata dal tempo. La mafia stragista non c’è più, ma lo schema degli inquirenti è fermo ancora lì di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 14 marzo 2022 Negli ultimi decenni la criminalità organizzata, soprattutto quella di stampo mafioso, ha subito profondi e radicali cambiamenti. Sono ormai molto lontani, infatti, gli anni del pool antimafia di Palermo e del maxi processo a Cosa nostra voluto da Giovanni Falcone e dove la quasi totalità degli imputati si esprimeva in dialetto. Oggi, come ricordato anche dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi durante la cerimonia di inaugurazione dell’Anno giudiziario, “non è la più o meno vasta misura territoriale dell’ambiente in cui il sodalizio opera, né la specifica natura del concordato programma criminale (e meno ancora il panel dei reati fine), ma il concreto ed autonomo esercizio del metodo mafioso e la sua riconoscibilità esterna che distingue l’associazione criminale semplice da quella mafiosa”. Un cambio di scenario significativo che costringe a riflettere, sempre per usare le parole di Salvi, sull’applicazione dell’articolo 416bis codice penale “a nuovi modelli criminali”. In particolare, per “le filiali extraterritoriali delle associazioni tradizionali” e per “le formazioni di nuovo conio, come le mafie etniche o le neo formazioni di autonoma e nuova matrice mafiosa nelle grandi realtà urbane come, ad esempio, quelle operanti nel territorio romano”. Attualmente è diventato impossibile isolare le attività criminali mafiose solo in uno specifico territorio: quando si discute di mafia siciliana, calabrese o campana il riferimento è solo alla sua origine ma non più alla sua estensione territoriale. A tal proposito, il pg della Cassazione ha ricordato una recente sentenza relativa all’articolazione svizzera della ‘ndrangheta nella città di Frauenfeld nel cantone Turgovia. I giudici di piazza Cavour hanno negato lo scorso anno la natura mafiosa del sodalizio proprio in conseguenza di “un deficit di prova in punto di riconoscibilità esterna del collegamento funzionale con la casa-madre”. L’indagine, denominata “Helvetia”, era stata condotta dalla Dda calabrese. Le immagini della riunione nel ristorante di una bocciofila nei pressi di Frauenfeld vennero diffuse nel 2014 dai carabinieri di Reggio Calabria e fecero il giro del mondo: 15 persone sedute intorno a un tavolo discutevano di droga, armi ed estorsioni e recitavano i rituali di affiliazione alla ‘ndrangheta. Condannati dal tribunale di Locri per associazione a delinquere di stampo mafioso erano stati poi assolti dalla Cassazione. I giudici della prima sezione penale avevano stabilito che quella di Frauenfeld non poteva essere definita mafia, dal momento che le riunioni non presupponevano metodi intimidatori o estorsivi tipici della criminalità organizzata. “Si è infatti sottolineato che collegamento organico-funzionale e riconoscibilità esterna sono le coordinate concettuali che evitano, se correttamente intese, di dar rilievo a mere potenzialità di estrinsecazione di forza intimidatrice, ossia a forme mute di mafiosità che si pongono, in quanto tali, al di fuori dell’ambito di applicazione della norma incriminatrice”, ha precisato Salvi. Ma la decisione più nota sul tema è certamente quella del procedimento “mondo di mezzo”, per tutti “mafia capitale”. Anche in quel caso la Cassazione, rispetto a un diverso orientamento della Procura generale, aveva fatto venir meno l’aggravante mafiosa per tutti gli imputati. La domanda spontanea, allora, è se gli strumenti normativi classici della legislazione antimafia siano idonei per contrastare efficacemente queste organizzazioni criminali dedite ai grandi traffici finanziari e al condizionamento delle decisioni delle amministrazioni pubbliche per ricavarne vantaggi in termini d’impresa. A maggior ragione con i fondi del Pnnr in arrivo dall’Europa. Un modello criminale che si espande soprattutto nelle regioni del Nord e, come detto, su scala internazionale. “Archiviato” il metodo mafioso dell’intimidazione, i nuovi sodalizi criminali creano di fatto delle lobby dedite alla commissione di una pluralità di reati: dallo spaccio di stupefacenti che ha raggiunto livelli mai visti, al traffico organizzato di migranti, alla insidiosa e pervasiva criminalità online. L’europarlamentare del Movimento 5stelle Sabrina Pignedoli, giornalista d’inchiesta e grande esperta di fenomeni criminali di stampo associativo parte da una constazione: “La mafia è diffusa in diversi parti del territorio europeo, penso ad esempio all’Olanda o a Malta dove è forte il riciclaggio. Il suo agire, poi, non è più caratterizzato da azioni violente che rischiano di attirare l’attenzione delle forze ordine”. La Commissione europea ha diramato delle linee guida per la repressione di tali fenomeni criminali, citato le buone pratiche italiane. La trasformazione in comitati d’affari con legami con logge massoniche obbligano però ad una rivisitazione di tali strumenti. “Penso alla legge Anselmi - prosegue Pignedoli - che dovrebbe essere aggiornata per un efficace contrasto di queste logge coperte dedite ad attività criminali eversive, prevedendo aumenti di pena”. La criminalità organizzata, in conclusione, va considerata come una seria minaccia per la sicurezza mondiale. Ed è necessario affrontare i gruppi criminali organizzati di alto livello sviluppando iniziative più efficaci a livello di cooperazione europea e internazionale. L’Anm: “La riforma elettorale del Csm favorirà i gruppi più forti” di Davide Varì Il Dubbio, 14 marzo 2022 Nel documento si evidenzia che “il sistema concretamente proposto nel suo complesso presta il fianco a molte critiche ed è caratterizzato da una contraddizione di fondo”. Il sistema elettorale per la scelta dei togati del Consiglio superiore della magistratura proposto nella riforma del governo “oltre a non risolvere il problema del condizionamento delle correnti nell’individuazione dei consiglieri eletti, rischia di aggravare la situazione emersa con l’applicazione di quello attualmente in vigore, marginalizzando, fino quasi ad eliminare, la possibilità di essere eletti in Consiglio per candidati indipendenti o rappresentativi dei gruppi minori”. A rilevarlo è l’Associazione nazionale magistrati in un documento approvato a maggioranza dal comitato direttivo centrale. Il sistema “produrrà una polarizzazione del consenso verso i due schieramenti maggioritari”, sottolinea l’Anm e “l’obiettivo politico dichiarato dal riformatore sarà dunque necessariamente e chiaramente tradito, consegnando il Consiglio, quanto meno per la parte togata, in prevalenza ai due gruppi principali”. Nell’insieme “il sistema concretamente proposto, pur presentando alcuni elementi di novità apprezzabili e in linea con quanto auspicato sia dalla stragrande maggioranza dei magistrati nella recente consultazione per via telematica che dallo stesso comitato direttivo centrale a maggioranza, ovvero la predilezione di un sistema proporzionale, nel suo complesso presta il fianco a molte critiche ed è caratterizzato da una contraddizione di fondo”, si legge nel documento, che fa riferimento al risultato del referendum indetto dall’Anm tra i suoi iscritti sul sorteggio e sulla preferenza per il sistema elettorale, maggioritario o proporzionale. “Si tratta - ricorda l’Anm - di un sistema spiccatamente maggioritario (per i ¾), con un correttivo proporzionale minimo che finisce per assegnare, ai possibili eletti membri di gruppi minoritari, quasi esclusivamente una sorta di diritto di tribuna”. Poi, nella proposta del governo “il sorteggio è previsto per integrare il numero di candidati ove esso non raggiunga il numero minimo previsto. In relazione alla previsione del diritto per i soli candidati sorteggiati ad astenersi dal lavoro giudiziario e a ricevere il trattamento di missione per recarsi in uffici diversi da quello proprio: se è vero che il candidato sorteggiato non ha scelto, appunto, di candidarsi (anche se potrebbe comunque dichiarare la propria indisponibilità, preventiva o successiva), la norma finisce per configurare una disparità di trattamento a danno dei candidati spontanei, per i quali non valgono le previsioni appena menzionate”. Il “parlamentino” dell’Anm ribadisce infine “come sia illusorio pensare che l’intervento sul sistema elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura possa, di per sé solo, offrire una soluzione alle criticità emerse con quella che è stata definita “degenerazione correntizia”, come dimostrato dal fatto che numerose volte (ben 7) è stato modificato il sistema elettorale, senza che nessun meccanismo sia stato in grado di risolvere il problema”. Verini (Pd): “Diciamo no agli stravolgimenti del centrodestra alla riforma” di Pierpaolo La Rosa Il Tempo, 14 marzo 2022 “Se si vuole stravolgere il testo uscito dal Consiglio dei ministri, un testo pur ovviamente miglioratile dal Parlamento, prevedo una vita dura per questo progetto di riforma. Al di là della quantità degli emendamenti presentati, diversi di questi, specialmente quelli del centrodestra, invece di migliorare la riforma, la stravolgono. Questo, per noi, è ovviamente inaccettabile”. Non ha dubbi il deputato del Pd e componente della commissione Giustizia della Camera, Walter Verini, sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura. Provvedimento di cui è relatore. Onorevole Verini, cosa non va negli emendamenti del centrodestra? “Sono emendamenti che contengono profili di incostituzionalità. Penso al sorteggio del Csm, a quelli che surrettiziamente vorrebbero introdurre la responsabilità diretta dei giudici: un argomento questo su cui non ci sarà il referendum, perché la Consulta non l’ha ammesso, e che sarebbe un duro colpo all’autonomia della magistratura ed all’obbligatorietà dell’azione penale. Ci sono altri emendamenti che hanno qualche rischio di incostituzionalità e che secondo noi sono sbagliati nel merito: un conto è eliminare le porte girevoli per chi sceglie di candidarsi e militare in un partito, un conto è volere punire coloro che per un periodo della propria vita svolgono un servizio per lo Stato. Sono tre esempi sufficienti per dire che stravolgono l’impianto del lavoro fatto dalla Guardasigilli, Marta Cartabia”. Si va allo scontro? “Ricordo che questo Parlamento e questa maggioranza sono riusciti ad approvare una riforma del processo civile ed una riforma del processo penale. Non vedo perché non dovremmo riuscirci anche con la riforma dell’ordinamento giudiziario che, se approvata così come delineata dal Cdm, può aiutare la magistratura in quel processo di necessaria ed urgente autorigenerazione richiamata più volte da Sergio Mattarella”. Mario Draghi ha assicurato che il governo non porrà la fiducia sulle misure… “Draghi disse che il governo non intende mettere la fiducia perché si dà al Parlamento la possibilità di discutere, ma Draghi aggiunse che bisogna lavorare con la condivisione della maggioranza. Questa seconda parte del discorso del premier non viene ricordata da tutti, ma da noi sì. Come Pd abbiamo presentato una trentina di emendamenti: su alcuni di questi probabilmente non ci sarà il consenso della maggioranza. Ed allora noi, rispettando quell’impegno della condivisione, non faremo barricate. Se non ci fosse condivisione, li ritireremmo. Basta con la guerra dei 30 anni tra politica e magistratura”. Zanettin (Fi): “Serve il sorteggio temperato per eleggere i membri togati” di Pierpaolo La Rosa Il Tempo, 14 marzo 2022 “Noi diamo il nostro contributo sul merito, cercando di evitare polemiche inutili. Questo è sempre stato lo spirito di Forza Italia”. Lo afferma il deputato e capogruppo di FI in commissione Giustizia a Montecitorio, Pierantonio Zanettin, in merito alla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. Onorevole Zanettin, è fiducioso che la riforma venga approvata in tempi rapidi, considerata la valanga di circa 700 emendamenti presentati dalle forze politiche in commissione Giustizia? “Io lo spero, anche se per mesi sono stato una “vox clamantis in deserto” per fare in fretta e poi, invece, siamo arrivati all’ultimo secondo. Siamo troppo in ritardo”. Per il Partito democratico, il centrodestra ha presentato delle proposte di modifica che stravolgono l’impianto della riforma… “Io parlo per Forza Italia. Quando il testo è arrivato in Consiglio dei ministri, abbiamo depositato ed allegato attraverso i nostri ministri al verbale del Cdm quelli che sostanzialmente sono gli emendamenti presentati l’altro giorno in commissione Giustizia. Siamo stati corretti. Non si può dire che la riforma venga snaturata perché la riforma è nata con tre punti di riflessione su porte girevoli, riforma delle funzioni tra magistrato requirente e giudicante e legge elettorale del Consiglio superiore della magistratura, con l’introduzione del sorteggio temperato. Fin dall’inizio, abbiamo detto che volevamo discutere serenamente di questi tre argomenti in commissione. Sia la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che il premier, Mario Draghi, hanno affermato che erano disposti ad accettare un contraddittorio. E se anche questi punti di riflessione venissero accolti, non ci sarebbe alcuno stravolgimento del testo: ne erano e ne sono tutti consapevoli, Cartabia in testa”. Ma se i vostri emendamenti dovessero essere bocciati, cosa accadrebbe? “Sono abbastanza fiducioso che ci possa essere una discussione che porti all’approvazione dei nostri emendamenti, ma se dovessero essere bocciati noi accetteremmo il verdetto della maggioranza della commissione. Nessun problema. Non vogliamo fare saltare il provvedimento”. Sempre il Pd ritiene che alcuni dei vostri emendamenti siano incostituzionali... “Il Pd ha una sua opinione, noi ne abbiamo un’altra esattamente opposta. Basta considerare che l’Associazione nazionale magistrati, poche settimane fa, ha sottoposto ai propri iscritti una sorta di referendum sulla nostra proposta di sorteggio temperato per l’elezione del Csm. Se fosse incostituzionale, mi spiega perché i magistrati hanno ritenuto di doverla sottoporre nel merito ad una consultazione interna?”. Femminicidi: basta con la gelosia come attenuante di Giusi Fasano Corriere della Sera, 14 marzo 2022 Promemoria per avvocati, giudici e inquirenti: la gelosia - come dice la Cassazione - è tra i motivi futili o abietti del movente. Quindi è un’aggravante. Promemoria per avvocati, giudici e inquirenti: la gelosia non è un’attenuante. Il suo posto - come dice la Cassazione - è tra i motivi futili o abietti del movente di un femminicidio. Quindi è un’aggravante. Non è un concetto difficile, eppure c’è sempre qualcuno che prova a riproporre il binomio gelosia-attenuante in un’arringa, in una sentenza, in un’informativa. Basta! L’ansia patologica di controllo del partner (non importa se uomo o donna) non può generare tolleranza sociale, di sicuro non può farlo passando dal codice penale. La convinzione (peraltro spesso sbagliata) che l’altra abbia una relazione diversa non può legittimare argomenti che tendono alla giustificazione: non si può più sentire, nel 2022, che l’assassino di turno non ha agito ma ha “reagito” a qualcosa che ha fatto lei che lo ha fatto sentire abbandonato, tradito. Basta! E invece no, c’è ancora chi insiste. Per esempio la difesa di Marcello Tilloca, che ha 46 anni e che il 23 dicembre del 2018, ad Alghero, uccise la madre dei suoi figli, Michela Fiori. Lei aveva 40 anni e dopo dieci di matrimonio si stava separando da lui. La solita storia di prepotenze, aggressioni verbali e fisiche, incomprensioni trascinate nel tempo. I due si divisero ma a lui quella separazione non stava bene, così quella mattina di dicembre si presentò a casa di lei e la strangolò. Poi andò a prendere i suoi due bambini, li portò a casa e li lasciò in cameretta. “Aspettatemi solo pochi minuti”, annunciò. Si chiuse nella stanza accanto a guardare un’ultima volta Michela, poi portò i piccoli da una zia e andò a costituirsi. “Sentivo papà di là che piangeva”, dirà poi il più grande che all’epoca aveva 12 anni. Sentenza di primo grado: 30 anni di reclusione. Appello: 30 anni confermati. Ma la difesa l’altro giorno si è giocata anche la carta della Cassazione e fra i motivi del ricorso c’era proprio quello: considerare la gelosia un’attenuante. Tutto legittimo, sia chiaro. Provarci non è reato, anche perché - ce lo segnala la Commissione d’inchiesta parlamentare sui femminicidi - l’argomento “è ancora presente, urgente e irrisolto fra gli operatori del diritto”. Purtroppo, aggiungiamo noi. E comunque: la Suprema Corte ha respinto il ricorso e ha confermato la condanna, che adesso è definitiva. La gelosia, ribadiscono i giudici di Cassazione, non è un’attenuante. Ecco. Roma. Suicida in carcere a Regina Coeli detenuto georgiano agi.it, 14 marzo 2022 “Si è tolto la vita nel carcere Regina Coeli di Roma, dove era ristretto nel Centro Clinico in isolamento perché percosso da altri ristretti, un detenuto originario della Georgia”. A dare la notizia è Maurizio Somma, segretario nazionale per il Lazio del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. “Il pur tempestivo intervento dei poliziotti e degli infermieri non ha purtroppo permesso di salvare la vita all’uomo, che era in carcere per il reato di furto. Una brutta e triste notizia”. Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri, ricorda che nello scorso anno 2021 i suicidi in carcere furono 57 e richiama un pronunciamento del Comitato nazionale per la Bioetica che sui suicidi in carcere aveva sottolineato come “il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze. Il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere. Proprio il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici”. “Fondamentale”, sottolinea, “è eliminare l’ozio nelle celle. Altro che vigilanza dinamica. L’Amministrazione Penitenziaria non ha affatto migliorato le condizioni di vivibilità nelle celle, perché ad esempio il numero dei detenuti che lavorano è irrisorio rispetto ai presenti, quasi tutti alle dipendenze del Dap in lavori di pulizia o comunque interni al carcere, poche ore a settimana”. Da qui il rinnovo dell’invito al Guardasigilli Marta Cartabia di trovare una soluzione urgente ai problemi penitenziari dell’intero Paese: “E’ anche per questo che il Sappe chiede alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia un Capo del Dap che sia orgoglioso delle donne e dei suoi uomini e sia loro vicino per quel che fanno ogni giorno, favorendo politiche penitenziarie che sappiano bilanciare bene trattamento e sicurezza, visto che ultimamente di sicurezza nelle carceri italiane ce n’è sempre meno”, conclude Capece. Torino. Torture e maltrattamenti nel carcere, in 25 rischiano il processo di Giuseppe Legato La Stampa, 14 marzo 2022 A pochi giorni dalla visita della ministra della Giustizia Marta Cartabia, l’udienza che deciderà sul rinvio a giudizio degli agenti penitenziari. Osservato speciale del Dap insieme al carcere di Sollicciano (parole di Benardo Petralia, direttore del Dap fino a poche settimane fa), tre delicate inchieste giudiziarie in corso, un dirigente definitivo che non si trova per la rinuncia dei primi tre vincitori del bando (hanno scelto altre sedi pur avendo superato le prove), un reparto “della vergogna” chiuso da poco che ospitava detenuti, parole del garante, “in condizioni inumane e degradanti”. La sfida più difficile per il Lorusso e Cutugno è scrollarsi di dosso l’etichetta di carcere più complicato d’Italia. Cose del passato, dicono ora in molti. Forse. Ma di certo sono ancora attuali nelle aule di giustizia. Domani entrerà nel vivo l’udienza preliminare dell’inchiesta sulle presunte torture consumate all’interno del penitenziario per due anni, dal 2017 al 2019 e ricostruite dalla procura (pm Francesco Pelosi) con una lunga e articolata indagine adesso approdata al vaglio dei giudici. È molto probabile che già domani il magistrato formulerà le richieste di rinvio a giudizio degli imputati che in complesso sono 25. Bisognerà capire chi sceglierà il rito ordinario e chi opterà per quelli speciali, ma l’accusa tira dritto per la sua strada che è quella tracciata nell’avviso di chiusura indagini. Più di dieci detenuti (costituiti parte civile) sarebbero stati oggetto di violenze e - in ipotesi d’accusa - torture scandite da vessazioni, insulti, atteggiamenti umilianti che si sarebbero verificati all’interno del carcere a partire del 2017 per mano di alcuni agenti di polizia penitenziaria. Questi avrebbero obbligato alcuni carcerati a leggere i passaggi più compromettenti degli atti giudiziari relativi ai reati per cui erano ristretti in cella. E poi ci sono le botte, presunte certo, ma ancora vive nei racconti dei carcerati che erano ospitati nel Padiglione C, destinato ai cosiddetti “sex offenders”. Tra gli imputati figurano anche l’ex direttore della struttura Domenico Minervini e l’ex comandante della polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza. Il primo dei due avrebbe ignorato le segnalazioni ricevute consentendo di fatto che le violenze non si interrompessero. Insieme a loro sono accusati anche alcuni sindacalisti dell’Osapp. L’inchiesta sul reparto per gli “psichiatrici” - Da una presunta vergogna a un’altra (sempre presunta). È in pieno fermento l’inchiesta relativa al cosiddetto Sestante, reparto (chiuso da alcuni mesi su ordine del Dap) in cui i cosiddetti detenuti “psichiatrici” sarebbero stati detenuti a lungo in condizioni indescrivibili. L’ipotesi di reato formulata dai pm Chiara Canepa e Gianfranco Colace è di maltrattamenti al momento contro ignoti. Ma è davvero ampia la delega firmata dai magistrati ai carabinieri del Nas che tre giorni fa sono andati anche in Comune ad acquisire ulteriori atti utili a sbrogliare la matassa dei fatti avvenuti. Le condizioni disumane della sezione filtro - C’è infine la questione della sezione filtro su cui il ministro della giustizia Marta Cartabia (in visita l’altroieri all’istituto di pena) è stata netta definendolo “inguardabile per la disumanità, tanto per le condizioni in cui deve operare la polizia penitenziaria quanto per quelle in cui si trovano i detenuti”. Il cammino per tornare alla normalità appare ancora molto lungo. Torino. “Non chiamatelo carcere degli orrori, il problema è la povertà dei detenuti” di Irene Famà La Stampa, 14 marzo 2022 Cosima Buccoliero, direttrice della Casa circondariale di Torino, interviene dopo la visita del ministro della Giustizia Marta Cartabia che aveva parlato di “situazioni disumane”. “Quello di Torino il “carcere della vergogna”? Non è così, sennò di certo non ci starei. Ci sono delle difficoltà, che abbiamo voluto che la ministra vedesse, ma sono fiduciosa”. Cosima Buccoliero diventa direttrice della casa circondariale Lorusso e Cutugno a gennaio. Un momento complesso tra indagini su presunte torture e botte ai detenuti. Chi c’era prima di lei, il direttore Domenico Minervini, è stato indagato. La reggente Rosalia Marino, ha lasciato il posto. Al momento del bando, in tre si sono tirati indietro. Lei ha accettato e l’altro ieri ha mostrato alla ministra Marta Cartabia, in visita al carcere, i problemi da affrontare. La Guardasigilli ha definito alcune sezioni disumane, in particolare quella filtro per gli spacciatori che hanno ingerito ovuli... “La sezione filtro esiste solo a Torino. È nata anni fa per evitare che gli ovuli si aprissero nello stomaco degli arrestati o che lo stupefacente entrasse in carcere. Bisogna interrogarsi, oggi, sull’utilità di questa sezione. Abbiamo voluto mostrarla alla ministra per aprire una riflessione. Vorrei però che si evitassero equivoci”. Del tipo? “Considerare il carcere solo come la sezione filtro. Purtroppo è una sezione, ma non lo rappresenta”. Alla ministra avete rappresentato diverse questioni. Quali? “Il sovraffollamento, le difficoltà strutturali, la povertà dei detenuti che cercano lavoro e fuori non hanno nulla”. Iniziamo dai numeri. Quanti sono oggi reclusi al Lorusso e Cutugno? “Circa 1.430, su una capienza di 1.100. Inoltre mancano gli spazi, l’edilizia della struttura è irrazionale. Diversi progetti sono già stati avviati dall’amministrazione e in alcuni padiglioni sono state ristrutturate le docce. Con il sovraffollamento, però, non è semplice. Servono investimenti”. Il Sestante, reparto di osservazione psichiatrica, è finito al centro di un’inchiesta. Come si riparte? “A breve verrà firmato un nuovo protocollo sul rischio suicidario e sono in corso interlocuzioni per la gestione del reparto. Le linee guida devono essere condivise con gli operatori, il personale penitenziario, sanitario ed educativo devono fare rete”. Anche qui torna la questione degli spazi. Il Sestante è chiuso, i lavori in corso. Quali le tempistiche? “Si dovrebbe riaprire già in estate. Abbiamo ripensato anche gli arredi, non dimentichiamoci che è un luogo di cura”. Come mai ad un certo punto è diventato il “carcere degli orrori”? “Ci sono stati momenti complessi prima del mio arrivo. Ora servono modifiche dei locali e un nuovo modello operativo. Non dimentichiamoci che per anni Torino è stato modello da seguire per tutte le carceri d’Italia. Ci sono esperienze importanti, che vanno intensificate”. Rosalia Marino, che l’ha preceduta, ha detto di essere stata lasciata sola. E lei? Si sente abbandonata? “No, ma ci sono giorni in cui mi sento impotente. Prima ho incontrato una cinquantina di detenuti di una sezione e tutti mi hanno chiesto un lavoro. La popolazione del carcere è povera, fuori non ha opportunità. Concordo con la ministra sull’importanza del reinserimento sociale ed è per questo che bisogna costruire una rete con l’esterno, insieme alla Regione e al Comune, alle realtà di volontariato e agli imprenditori”. I rapporti con i sindacati di Polizia penitenziaria? “Ci sono stati primi incontri costruttivi. Non ci può essere contrapposizione tra noi, l’obiettivo dev’essere comune. C’è carenza di personale, questo è vero. Ma attendiamo fiduciosi gli allievi che stanno finendo il corso”. Lei ha accettato un posto che nessun altro voleva. Come mai ha scelto di dirigere un carcere? “Non è un sogno che si ha da bambina. Mi sono interessata nel corso degli studi di legge e ho partecipato a un concorso. È un lavoro molto esperienziale e delicato: si ha a che fare con la vita delle persone, si influisce su questa. Si può anche fare la differenza”. Così lo strapotere della giustizia ha corroso la democrazia di Stefano Folli e Luciano Violante linkiesta.it, 14 marzo 2022 Dopo Mani Pulite e le stragi di Palermo la magistratura ha conquistato uno spazio inusitato che ha rotto l’equilibrio con gli altri poteri, portando alla crisi dei partiti e a un sistema giudiziario che barcolla. La nave va rimessa sulla giusta rotta, come ricordano Luciano Violante e Stefano Folli in “Senza vendette” (Il Mulino), di cui pubblichiamo la postfazione. Questa conversazione nasce dall’esigenza di una riflessione, a trent’anni dal drammatico 1992, sulle relazioni tra giustizia, politica e cittadini. Sono uno snodo essenziale della democrazia perché la politica assicura diritti, doveri e benessere alla comunità, mentre la giustizia assicura gli stessi benefici ai singoli quando appaiano messi in pericolo. Per questa ragione lo stato di salute di una democrazia dipende in buona misura dalla politica, dalla giustizia e dalle relazioni tra l’una e l’altra. Nel 1992 la magistratura si avviava ad una stagione di potere assoluto, sciolto da regole, sostenuta dal consenso dei cittadini e confortata dall’aureola di martirio che nasceva dalle stragi di Palermo. La politica, travolta dalle inchieste, incapace di ricostruire un ordine, preparava inconsapevolmente il proprio suicidio, alla spasmodica ricerca della impunità dei singoli, incurante del vuoto che si stava creando sotto i suoi piedi. In quel vuoto avrebbero prevalso la “disgregazione e l’avventura”, secondo l’amara previsione di Craxi nel discorso a Montecitorio del 3 luglio 1992. Nei trent’anni che sono seguiti, magistratura e politica hanno progressivamente perso la consapevolezza del proprio ruolo. Il degrado è stato progressivo. Tanto per la magistratura quanto per la politica è diventata preponderante la dimensione del potere rispetto a quella del servizio. Il prezzo è stato pagato dai cittadini. La magistratura attraversa la più grave crisi di credibilità della sua storia. La politica non appare capace di riprendere nelle proprie mani la storia del paese. Anche oggi c’è un vuoto; ma oggi, a differenza di ieri, su quel vuoto c’è un ponte che vede da un lato Sergio Mattarella e dall’altro Mario Draghi. È una fortuna, ma la prudenza consiglia di non affacciarsi dal ponte per evitare che l’abisso ci chiami. L’intreccio tra regole confuse, prassi arbitrarie, apatie professionali e insipienze politiche ha generato grovigli velenosi e mai sazi. Ne sono testimoni due eventi del gennaio 2022, il cui significato va ben oltre quel termine. La rielezione, non richiesta e non voluta, del presidente Mattarella è stata determinata dalla incapacità di trovare l’intesa su un’altra personalità politica adeguata a quell’impegno. Si è penosamente reiterata la confessione d’impotenza del 2013, quando i partiti pregarono Giorgio Napolitano di accettare la rielezione. Nell’altro campo, la sentenza con la quale il Consiglio di Stato, alla vigilia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha azzerato i vertici della Cassazione costituisce il capitolo più grave di una competizione per il primato tra le diverse magistrature, che si protrae da tempo. La decisione del Csm di riconfermare immediatamente quei vertici, alla presenza del Capo dello Stato, ha risolto una pericolosa impasse, ma non ha curato la malattia. Se si aggiungono le accuse reciproche, le dichiarazioni avventate e i comportamenti disdicevoli di magistrati in servizio, i libelli scandalistici scritti da chi ha ricoperto delicate funzioni giurisdizionali, risulta evidente che l’intero sistema di giustizia è privo di guida. L’arbitrio di molte decisioni e la scomparsa dei doveri come parametro delle relazioni professionali provocano sfiducia. L’imprevedibilità e la casualità delle decisioni mettono in crisi il principio di legalità. Parallelamente, e paradossalmente, crescono le domande di giustizia, quelle rancorose, in materia di reati veri o presunti delle classi dirigenti e di quelle civili, in materia di diritti individuali, fine vita e diritti Lgbt. Queste domande, non trovando una risposta soddisfacente da parte del mondo politico, si rivolgono al giudice, che, per rispondere positivamente, a volte in assenza dei fatti e a volte in assenza della legge, ricorre ad interpretazioni creative. Ne deriva che la sua legittimazione non si fonda più sulla legge, ma, con un pericoloso stravolgimento, sulla capacità di rispondere alle istanze dei cittadini, che è invece la legittimazione propria della politica. Tutte le magistrature hanno bisogno, ciascuna in misura propria, di un nuovo sistema di governo che ne garantisca l’efficienza, assicuri il rispetto dei confini costituzionali, salvaguardi l’indipendenza di tutti, fissi le responsabilità di ciascuno. Le preoccupazioni per l’economia sono ragionevolmente al centro dell’attenzione del Parlamento e del governo, ma non sarebbe saggio sottovalutare le interdipendenze tra un’affidabile macchina giudiziaria, il progresso economico e il benessere sociale. La ridotta affidabilità della giustizia è un freno per lo sviluppo economico. Gli investitori stranieri e gli imprenditori italiani sono preoccupati dal “rischio penale”, dipendente dalla incertezza delle leggi, dalla casualità delle inchieste, dal mancato rispetto della riservatezza delle indagini. Ieri potevano essere sufficienti rammendi di una trama ferita. Oggi, rischia di scomparire la trama. Non è più tempo di maquillage; occorrono interventi profondi anche di carattere costituzionale. La politica non può rifugiarsi nei referendum o nella contestazione dei referendum. Le inesorabili leggi che la governano ci dicono che, se si rinviasse ancora, diventerebbe inevitabile un ordine totalmente autoritario, fondato sull’esercizio del nudo potere. In gioco a quel punto non sarebbe la giustizia, ma la stessa democrazia. Le prudenze, sempre necessarie quando si toccano gli equilibri costituzionali, non possono giustificare nuovi rinvii. La politica deve considerare quello della giustizia come uno dei terreni sul quale cominciare a ricostruire la propria sovranità, il proprio senso della storia. Le magistrature nelle scelte e nei comportamenti, dentro e fuori gli uffici, devono rispettare i principi costituzionali dell’onore e della disciplina, che hanno fondamento non in nuove leggi, ma nella tradizionale educazione civile. Nella conversazione con Stefano Folli sono avanzate alcune proposte specifiche. Autorevoli studiosi ne hanno avanzate altre, egualmente valide. Agire presto è una responsabilità della politica, senza vendette, ma con determinazione. Altrimenti l’abisso ci chiamerà. Dal protagonismo dei magistrati al sensazionalismo di uno scoop di Paolo Colonnello La Stampa, 14 marzo 2022 “È la stampa bellezza, e tu non ci puoi fare niente!”. La mitica telefonata di Humphrey Bogart al cattivo di turno che vorrebbe impedire la pubblicazione di uno scandalo, finale del film “L’ultima minaccia” di Richard Brooks, è il paradigma di come l’informazione vorrebbe essere: una bandiera di libertà e giustizia. Ma nei fatti, giustizia e comunicazione, pur obbligati spesso alla più forzata delle convivenze, appaiono talvolta estremi inconciliabili, in antitesi persino sulla Carta costituzionale, dove la tutela la dignità della persona (art. 3) configge facilmente con il diritto di cronaca e la libertà di parola (art. 21). Nel labirintico tentativo che da sempre giuristi e specialisti percorrono per tenere insieme i due diritti fondamentali di ogni democrazia, s’inserisce il nuovo libro dell’ex procuratore Edmondo Bruti Liberati che analizza il rapporto tra informazione e giustizia cercando il difficile equilibrio tra i due principi costituzionali e ripercorrendo le regole che andrebbero seguite da entrambe le parti. “Delitti in prima pagina” (Raffaello Cortina Editore), cerca di individuare - andando a ritroso nel tempo nelle vicende che hanno appassionato l’opinione pubblica fino alla descrizione del primo delitto della storia, quello di Caino che uccide Abele - un possibile punto di equilibrio che restituisca, da una parte, quella “fiducia nella giustizia”, che è cosa ben diversa dalla ricerca del consenso nell’opinione pubblica; dall’altra, una piena libertà d’informazione che non si esaurisca nella semplice diffusione di atti giudiziari (per altro non sempre ostensibili) ma eserciti una funzione di controllo e di critica sull’operato della giustizia, avvocatura compresa. Perché, come nota Liberati, “nella società dell’informazione la giustizia non può sfuggire al dovere di comunicare e i giudici devono confrontarsi con le critiche che vengono mosse alle loro decisioni”. Il libro ha il merito di non nascondere nulla delle storture che caratterizzano il connubio spesso insano tra informazione e giustizia: dal protagonismo dei magistrati, che finisce per alimentare, persino nel campo dell’antimafia, il populismo giudiziario; all’inseguimento dell’audience e dello share, o dello scoop a tutti i costi dei giornalisti che trasforma in sensazionalismo qualsiasi notizia arrivi dai palazzi di giustizia. Per lasciare spazio a una comunicazione spesso “urlata” che impedisce ogni serio approfondimento sui casi di cronaca giudiziaria, e stritolai diritti degli individui, colpevoli o innocenti che siano. Giustamente, fa notare Liberati, la pubblicità dei processi è garanzia contro gli abusi e consente il controllo sull’esercizio di un potere. Peccato però che dei processi ci si occupi pochissimo. Anche perché, proprio grazie alla riforma del codice nel 1989 con l’introduzione dei riti abbreviati, sono ormai rari i dibattimenti che valga la pena seguire e che raccontino in pubblico ciò che ancora non era emerso dalle inchieste. Per altro l’ultima riforma Cartabia, che in tema di comunicazione recepisce una direttiva europea attribuendo ai soli procuratori la gestione delle comunicazioni alla stampa, apre la strada, nonostante le buone intenzioni (sulla moderazione del linguaggio, ad esempio), a una chiusura completa delle Procure e dunque a un ritorno, assai poco auspicabile, di una gestione opaca delle notizie: che per quanti sforzi si facciano, finiranno sempre per circolare ma con minore trasparenza. Anziché gestire questo flusso, per esempio con un deposito degli atti che contempli anche un diritto dei giornalisti al loro controllo (venendo meno un’esigenza di segreto istruttorio), si è preferito attribuire ai procuratori l’arbitrio di poter decidere cosa sia o non sia “di pubblico interesse”, delegando a degli sterili comunicati stampa notizie che per la loro complessità meriterebbero ben altra attenzione. Anche Liberati nota come “la pretesa di intervenire sul terreno della comunicazione con normative apparentemente stringenti si rivela insieme vana e potenzialmente lesiva degli altrettanto rilevanti valori dell’informazione, della cronaca e della critica”. Fermo restando che per giornalisti l’unico obbligo imposto dovrebbe essere quello deontologico e la loro stella polare il rispetto della dignità della persona. Se nell’ordine delle cose, per una sana società democratica, è il “quarto potere” a dover controllare l’attività del “terzo potere”, nell’ordine degli equilibri tra i diritti, di cronaca e di dignità della persona, sono le circostanze a dettare i tempi e l’umanità a tutelare le persone cercando di non confondere “l’errante” con “l’errore”. Non è un caso che il libro si concluda con le parole del Cardinal Martini: “Il mio giudizio non potrà mai toccare o svelare l’intimo dell’altro e devo sempre esprimergli una riserva d’innocenza, di buona coscienza”. Un altro Stato, forte del Diritto e non degli abusi, è possibile e va costruito di Sergio D’Elia Il Dubbio, 14 marzo 2022 Riportiamo di seguito un estratto dalla prefazione di Sergio D’Elia al libro “Quando prevenire è peggio che punire. Torti e tormenti dell’inquisizione antimafia”, a cura di Pietro Cavallotti, Lorenzo Ceva Valla e Miriam Romeo. Il volume raccoglie le storie degli abusi e degli errori giudiziari commessi nel campo delle misure di prevenzione antimafia ed è pubblicato da Nessuno tocchi Caino, l’associazione di cui Sergio D’Elia è tesoriere, con Reality book e il Riformista. Quando uno stato di guerra e di emergenza - l’armamentario di leggi, misure, procedure e apparati speciali - dura da oltre un quarto di secolo, se è vero come è vero che la durata è la forma delle cose, quello Stato diventa, tecnicamente, un Regime. Illiberale, antidemocratico, violento. Il regime fascista di emergenza, in fondo, è durato “solo” un Ventennio. Il regime democratico di emergenza antimafia dura ormai da un Trentennio. In questi tre decenni, nel nome della guerra santa alla mafia, abbiamo assistito a un rovesciamento dei principi sacri, delle norme universali, delle regole fondamentali dello Stato di Diritto. Gli stessi processi e castighi penali, troppo garantisti e dagli esiti incerti, sono stati soppiantati da processi e castighi sommari, immediati e più distruttivi, quelli delle misure di prevenzione, dei sequestri e delle confische personali e patrimoniali. Le informazioni interdittive antimafia, le black e le white list stilate dai Prefetti, hanno stravolto il sistema di trasparenza e libera concorrenza e imposto il controllo di fatto sull’economia degli organi di governo sul territorio. Con lo scioglimento per mafia i Comuni sono stati commissariati dalle Prefetture, le istituzioni rappresentative di base sono state sospese e umiliate dal potere centrale. Un capitolo, anzi, un libro a parte, meriterebbe il tema del sistema penale e penitenziario. Nella “guerra alla mafia” si è perso totalmente il lume della ragione nel giudicare i delitti e ogni senso di umanità nel trattare le pene. La morte di Totò Riina, avvenuta in regime di 41-bis dopo una lunga malattia, è solo un esempio di uno Stato che ha abolito la pena di morte, ma non la morte per pena e la pena fino alla morte. Non sono pochi i detenuti al 41-bis che sono sottoposti al regime speciale di isolamento, ininterrottamente, da quando è stato istituito nel 1992 e che, come Provenzano, Riina, Cutolo, rischiano di morire nelle mani dello Stato. Nella fossa comune dei sepolti vivi scavata sotto il monumento simbolo della lotta alla mafia, il “carcere duro”, che è la quintessenza mortifera del carcere, dell’isolamento, della privazione della libertà (...). Questo libro non tratta di questo, si “limita” a trattare del “sistema di prevenzione” che nella lotta alla mafia si è progressivamente sostituito al sistema di repressione penale. Perché, nella logica contorta, autoreferenziale, dell’Antimafia, si è sperimentato che prevenire è meglio… perché è più difficile reprimere. La repressione presuppone che vi siano un rito, un processo, un gioco delle parti, regole da rispettare: accusa, difesa, giudice, prove, controprove, sentenze e appelli fino all’ultimo grado di giudizio. Un lusso, un rito, quello del “giusto processo”, che la lotta alla mafia non si può permettere, soprattutto in uno stato di emergenza. Perciò, è meglio “prevenire”. Questo libro racconta, quindi, storie di imprenditori estranei alla mafia e “condannati” da informazioni interdittive e misure di prevenzione “antimafia”. Volto a contrastare i tentativi di infiltrazione criminale nel tessuto economico e sociale, nel corso del tempo questo sistema ha sempre più mostrato modalità e finalità inquisitorie. Al di fuori e contro un serio ed effettivo controllo giurisdizionale e di trasparenza pubblica, sulla base di un semplice sospetto e in assenza di fatti concreti o comportamenti specifici di tipo criminale, tali misure hanno provocato effetti devastanti sulla vita di persone e imprese sospettate di essere contigue al crimine organizzato. (...). Le storie che qui raccontiamo di imprenditori proposti o interdetti e di Sindaci sciolti per mafia svelano un dominio arbitrario, pieno e incontrollato degli organi decisionali, degli apparati giudiziari, di controllo e di sicurezza. Si dice che tutto questo strapotere è necessario perché di fronte c’è il male assoluto e il fine di combatterlo giustifica ogni mezzo. Anche se i mezzi che lo Stato usa a fin di bene assomigliano molto ai mezzi usati dall’anti- stato a fin di male. Anche se è la fine dello Stato di Diritto e vige lo Stato di sospetto, trionfa lo Stato di polizia e ritorna lo Stato dei Prefetti d’epoca fascista. Luigi Einaudi è stato il primo, dopo di lui anche Marco Pannella, a chiedere l’abolizione dei Prefetti, protesi in ogni territorio del potere accentratore e di occupazione manu militari dello Stato, soprattutto nelle regioni del Sud. Sarebbe un provvedimento sempre più necessario e urgente che, però, i democratici fasulli dello Stato di Diritto e i finti federalisti si guardano bene dal proporre. Gli “stati di emergenza” sono innanzitutto stati mentali, stati - letteralmente - “reazionari”. In essi, a ben vedere, quel che emerge è lo Stato, e le sue strutture materiali, pesanti, militari, repressive, violente. Ma c’è un altro modo di intendere e concepire la risposta dello Stato alla mafia e alle varie emergenze: è anch’esso uno stato mentale, ma più ordinato ed elevato. Questo stato mentale armonico e orientato ai valori umani è quello che noi definiamo “Stato di Diritto”, uno Stato in cui a emergere è la Coscienza, non il Potere, un Ordine in cui ad emergere non è la violenza, ma la legge, il diritto, i diritti umani universali. Come diceva Leonardo Sciascia, la mafia si combatte non con la terribilità ma con il Diritto. Invece, per trent’anni, alla terribilità della mafia si è risposto con una terribilità uguale e contraria. (...) Negli ultimi anni, con le Carovane per la Giustizia del Partito Radicale e il Viaggio della Speranza di Nessuno tocchi Caino, abbiamo attraversato la Calabria, la Puglia e la Sicilia. (...) Alla fine di questo nostro viaggio senza fine, perché il fine è il viaggio stesso, l’invenire, lo scoprire nella ricerca, quel che abbiamo ritrovato è la speranza e il coraggio: non la speranza che “si ha” che le cose cambino, ma la speranza che “si è” del cambiamento; non il coraggio di chi non ha paura, ma di chi ha il cuore di agire (questo significa, poi, la parola “coraggio”). Siamo consapevoli che il potere con cui abbiamo a che fare non ha fondamenta solide, perché non si basa su diritto, coscienza e verità, si fonda solo su pezzi di carta e pregiudizi, informative e sospetti. Che questo potere non è poi così potente, è solo prepotente e, a ben vedere, impotente. Che un tale “disordine costituito in legge” può durare solo finché durano paura, sfiducia e rassegnazione. Se, invece, noi diamo corpo alla speranza al di là di ogni speranza, se siamo innanzitutto noi il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo, allora, una nuova realtà, una nuova legge, un nuovo ordine li abbiamo già creati. Se nel dibattito spariscono le vittime di Luigi Manconi La Repubblica, 14 marzo 2022 Luciano Canfora, erudito filologo classico, intervistato dalla nuova Gazzetta del Mezzogiorno diretta da Oscar Iarussi, ha parlato dell’invasione russa dell’Ucraina come di “una guerra tra potenze”, nella quale “il torto sta dalla parte della potenza che vuole prevaricare”: cioè l’Ucraina. E ha definito “passanti” i profughi, aggiungendo che “la storia di una Irina che perde il bambino è un caso particolare e basta”. Ho la sensazione, osservando le reazioni all’intervista, che le opinioni di Canfora siano ampiamente condivise all’interno di quel mondo che chiamiamo “sinistra”, fino a costituire il sentimento di una parte di esso. Mi auguro, tuttavia, che non ne rappresenti la maggioranza, perché, se questa fosse la sinistra, io mi troverei altrove. E, infatti, finora ho ritenuto che il punto di vista - direi l’ermeneutica - di ciò che da due secoli intendiamo per sinistra passasse attraverso il nodo dei rapporti di produzione e, di conseguenza, l’analisi di chi comanda nell’organizzazione dell’economia e della vita sociale. E, più in generale, che quel punto di vista si ritrovasse nell’adesione alla condizione materiale della vittima nel suo immanente inverarsi: come schiavitù, servaggio, oppressione di classe, segregazione razziale, discriminazione di genere. Invece, in modo mirabile nelle affermazioni di Canfora, e più sciattamente in quelle di altri, le vittime scompaiono. In un duplice senso: perché vengono rimosse dalla vista e dal discorso in quanto sopraffatte dalla genealogia delle cause storiche, antropologiche, etniche, geografiche e diplomatiche, che espungono la “nuda vita” e la cruda sofferenza (“Irina che perde il bambino”). E perché le stesse vittime sono sollecitate a scomparire in quanto la loro sopravvivenza resistente incrementa il numero dei morti, prolunga il conflitto e, se aiutata dai mezzi militari dei paesi europei, mette in pericolo “la sicurezza nazionale” di quegli stessi paesi. Da qui, pressoché inevitabilmente, un pressante invito alla resa. Quasi che, la capitolazione e la sottomissione, non finissero col rappresentare il più potente incentivo alle mire imperiali della Russia nei confronti di altri paesi della regione e ancora oltre. In ogni caso, il risultato sarebbe la cancellazione delle vittime e il loro confinamento nelle zone oscure delle dinamiche storiche e degli eventi sociali, secondo una logica di potenza e secondo una interpretazione autoritaria e statolatrica dei processi geo-politici e delle relazioni internazionali. E il termine “autoritario” è forse il più appropriato: se ne ha una dimostrazione a contrariis esaminando alcune opzioni proprio delle differenti culture della sinistra. Personalmente ho sempre creduto che diritti sociali e diritti individuali dovessero tenersi insieme e che le garanzie collettive a tutela dei bisogni prioritari (lavoro, istruzione, abitazione) non fossero in alternativa a quelle poste a protezione delle istanze soggettive della persona (autonomia individuale, opzioni sessuali, autodeterminazione sulla propria vita e sulla propria morte). Per questo sono sempre stato dalla parte del sindacato e dei conflitti per il lavoro, restando tuttavia convinto che un disoccupato, un cassintegrato, un operaio avessero diritto, anch’essi, al loro pezzo di felicità: e, dunque, al riconoscimento delle proprie scelte sessuali, del proprio desiderio di genitorialità, della possibilità di incontrarsi e di lasciarsi, della facoltà di procreare e di decidere del proprio fine vita. Ma la sinistra autoritaria, quella che “anche Putin ha le sue ragioni”, non sembra pensarla così. E, nel corso di questi decenni, mai l’ho trovata accanto a chi si batteva contro l’uso del letto di contenzione a danno di persone fragili: e contro gli abusi di polizia che hanno portato alla morte di Giuseppe Uva e di Stefano Cucchi e di tanti altri; non l’ho trovata nel sostegno alle Ong del soccorso in mare e dell’accoglienza di migranti e richiedenti asilo e nella solidarietà a Mimmo Lucano; nella critica alla pena dell’ergastolo e a un carcere ridotto a macchina patogena e criminogena; e nemmeno al capezzale di Eluana Englaro, Piergiorgio Welby, Fabiano Antoniani e, in ultimo, “Mario”, tetraplegico marchigiano. Non l’ho trovata in quei luoghi del dolore, la sinistra autoritaria, perché - immagino - ritiene tali questioni, secondo una lettura triviale del marxismo, “sovrastrutturali”; e perché considera pazienti psichici, detenuti, migranti e profughi (compresi quelli ucraini) una sorta di moderno lumpenproletariat. Ecco, potrà sembrare pretestuoso, ma io credo che questa assenza abbia uno stretto rapporto con la concezione dello Stato coltivata dalla sinistra autoritaria. Una concezione che, all’interno degli stati nazionali, si manifesta come tendenza alla centralizzazione e al controllo degli istituti della rappresentanza democratica e come sospetto verso le forme di partecipazione popolare, quali i referendum. Nello scenario internazionale quella stessa tendenza si esprime come celebrazione di una presunta realpolitik, dei rapporti di forza vigenti e dello status quo, della “volontà di potenza” a danno delle costruzioni condivise e multipolari. Ma se, come temo, questa sinistra fosse destinata a diventare maggioritaria, dovremmo riconoscere che ha vinto e che, con essa, ha vinto la ragion di Stato. In tal caso, disponiamoci - appunto - “dalla parte del torto”. Ovvero degli ucraini. Globalizzazione, relazioni e idee sbagliate di Dario Di Vico Corriere della Sera, 14 marzo 2022 Già la pandemia si era rivelata un interessante stress test. Con l’invasione russa in Ucraina è iniziato un esame molto più difficile e persino arduo da superare. Mentre sosteniamo con commozione e rispetto l’eroica difesa del popolo ucraino, a noi occidentali tocca anche il compito di interrogarci sulle idee per “riparare il mondo”. E come ci mostrano le cronache sulle sanzioni e sui rischi di default russo l’intreccio tra economia e geopolitica è decisivo. Se vogliamo già la pandemia si è rivelata un interessante stress test per la globalizzazione. La fenomenologia la conosciamo tutti: si è cominciato con le mascherine che non trovavamo perché venivano prodotte tutte in Asia e proseguito con la carenza di semiconduttori che ha causato e sta causando il fermo produttivo di diverse fabbriche di automobili. Gli effetti delle restrizioni sanitarie hanno compresso la domanda che, quando è ripartita, si è surriscaldata generando l’aumento dei prezzi delle materie prime di cui abbiamo parlato abbondantemente nei mesi scorsi. C’è stato anche il blocco del canale di Suez provocato da un’errata manovra di una nave-cargo a rendere plastico l’esame al quale il commercio internazionale è stato sottoposto. Eppure nonostante tutti questi difetti di funzionamento, i cui effetti possiamo situare nel breve-medio periodo, la conclusione degli esperti era che la globalizzazione avesse, seppure con affanno, superato la prova. E che soprattutto non ne fosse stata intaccata la filosofia di fondo ovvero che lo sviluppo del commercio favorisse comunque la distensione internazionale e la collaborazione tra i popoli e che caso mai la si sarebbe potuta correggere introducendo qualche scelta di regionalizzazione per macro-aree. Riorganizzando le catene del valore su distanze più corte almeno per alcuni prodotti o anche solo per i componenti di valore assoluto i cui flussi regolari devono essere preservati ad ogni costo. Con l’invasione russa in Ucraina per la globalizzazione è iniziato un esame molto più difficile e persino arduo da superare. L’arroganza di Vladimir Putin ha generato un effetto a cascata che sta bloccando le regolari forniture in diversi settori. Nell’alimentare, ad esempio, dove cominciano a scarseggiare le materie prime che arrivavano dal granaio d’Europa o nell’energia in cui lo stretto legame della dipendenza commerciale da quella politica ha portato ad azzoppare il gasdotto NordStream2 e sta spingendo alcuni importanti Paesi europei come il nostro a riconsiderare totalmente le policy di approvvigionamento adottate finora. Ma anche in questo caso stiamo parlando solo dei meccanismi di funzionamento, dei flussi interrotti, delle strategie commerciali alternative. Molto più grave è invece il colpo che la guerra ha inferto alla filosofia stessa della globalizzazione, alla considerazione - che oggi leggiamo come ottimistica - di un miglioramento delle relazioni internazionali attraverso il commercio. Un’idea che ha uniformato, ad esempio, scelte di lungo periodo dell’establishment tedesco ma che comunque è stata egemone almeno negli ultimi 20 anni. Proprio pochi mesi fa è stato celebrato l’anniversario dell’ingresso della Cina nel Wto che trovava proprio in quella filosofia lineare della globalizzazione la sua fonte di ispirazione più genuina. Che fare adesso che abbiamo capito che le relazioni internazionali si dispiegano lungo direttrici differenti, oggi che abbiamo scoperto che la forza militare è comunque un fattore che “pretende” di essere autonomo dai flussi economici e anzi tende a ribaltarne il segno? Il dibattito è appena partito e ha, almeno da noi, come focus proprio i futuri approvvigionamenti energetici. Si parla di diversificare i fornitori (anche tornando a bussare ai Paesi arabi), di produrre in casa, di rivedere l’elenco delle fonti alternative. Insomma si parte dal principio che non ci si possa illudere più sulla forza persuasiva e “secolarizzante” degli scambi internazionali. E dove si arriverà? È presto per dirlo anche perché se è già difficile disegnare un mondo di commerci senza il gas russo e il frumento ucraino figuriamoci se dovessimo fare quest’esercizio sottraendo tutto ciò che è prodotto, spesso quasi in chiave di monopolio, in Cina e a Taiwan. Per ora sappiamo che non bastano tanti McDonald’s e tante Ikea, si è rivelata sbagliata l’idea che la progressiva unificazione degli stili di vita e dei simboli culturali, unita alla travolgente forza dei commerci, avrebbe reso piatto e pacifico il mondo. La cura delle relazioni internazionali sia che si persegua la realpolitik sia che si considerino prioritari la pace e la tutela dei diritti universali passa dalla capacità di generare politica, di far funzionare gli organismi della governance mondiale e di non esorcizzare il tema della forza militare. Scorciatoie non ne esistono. Poi ci vorrà anche una rinnovata capacità di parlare agli inquieti cittadini delle società aperte ma è un altro capitolo. Vittime e valori di una guerra di Walter Veltroni Corriere della Sera, 14 marzo 2022 La grande, drammatica questione che l’aggressione di Putin all’Ucraina contiene: la guerra non è solo alla Nato o all’Ue, è proprio ai valori dell’Occidente. “Stiamo parlando di qualcosa che va oltre le convinzioni politiche. Parliamo della salvezza umana. Ci troviamo in una guerra che ha assunto un significato metafisico. Le parate dei gay dimostrano che il peccato è una variabile del comportamento umano. Questa guerra è contro chi sostiene i gay, come il mondo occidentale, e ha cercato di distruggere il Donbass solo perché questa terra oppone un fondamentale rifiuto dei cosiddetti valori offerti da chi rivendica il potere mondiale”. Così ha parlato, recentemente, il Patriarca di Mosca di fronte alla catastrofe umanitaria della guerra di aggressione di Putin. Ha raccontato Marco Imarisio: “Quello stesso giorno, nella lontana regione di Kostromà, il sacerdote della chiesa nel villaggio di Karabanovo, ha concluso il suo sermone dicendo No alla guerra e leggendo un passo del Vecchio Testamento: “Non Uccidere”. Due ore dopo, la polizia ha bussato alla sua porta”. Ecco, è qui, proprio qui, la grande, drammatica questione che l’aggressione di Putin all’Ucraina contiene. La guerra non è solo alla Nato o all’Ue, è proprio ai valori dell’Occidente. E a quello fondamentale, costato tanto sangue, maturato tra le sofferenze di Auschwitz e dei gulag, capace di resistere ai muri e alle cortine di ferro: la libertà. La libertà di pensiero, di parola, di impresa, di stampa, di organizzazione politica e sindacale. La libertà culturale e quella religiosa. La libertà, sì anche quella, dei propri comportamenti sessuali, delle scelte di vita. “Il valore metafisico” di una guerra che significa sangue e dolore, diaspora e distruzione, sta, per chi la sostiene, proprio nell’obiettivo reale: contestare all’Occidente non i suoi difetti, ma la sua principale virtù, la pratica della democrazia e della libertà. Per questo si deve temere, come ha detto Macron, “che il peggio debba ancora arrivare”. Una delle fonti di ispirazione principale di Putin è il filosofo Ilyin che ha teorizzato: “Per Stato si intende una comunità organica guidata da un monarca paterno”. Ci sarebbe da discutere sul “paterno” alla luce delle sofferenze atroci che si stanno infliggendo ai bambini, ma i due concetti di “comunità organica”, cioè priva di differenze, e di “monarca” sono assolutamente chiari, tragicamente nitidi e attuati. D’altra parte Putin, nella famosa intervista al Financial Times, quella nella quale diceva che Pietro il Grande era il suo modello, fu sincero e inequivoco: “L’idea liberale è diventata obsoleta”. E aggiunse: “Cosa ne è degli interessi della popolazione locale quando il numero di migranti diretti verso l’Europa occidentale non è solo quello di un piccolo gruppo di persone, ma è nell’ordine di migliaia o centinaia di migliaia?”. Affermazione che si deve tenere a memoria, come chiave di interpretazione della scelta, con la guerra, di spingere verso l’Europa milioni di rifugiati. È la democrazia il nuovo “Impero del male” per i fautori di questa guerra spietata. Che ha come obiettivo, dice il Patriarca, la “salvezza umana” dal rischio della libertà. In nome di questa nuova crociata si possono avvelenare oppositori, imprigionare bambini, scatenare piogge di bombe, minacciare l’uso delle armi atomiche. All’Ucraina si rimprovera proprio questo, voler aderire a quei valori di libertà. Un bellissimo documentario sui fatti di Maidan del 2014 intitolato “Winter on fire” si apre con le immagini degli studenti ucraini che sfilano, sfidando la polizia del governo filorusso dell’epoca, con in mano la bandiera europea e prosegue con una semplice testimonianza, ripresa in uno di quei novanta giorni di proteste, in cui morirono centinaia di persone. È quella di un uomo che grida, mentre intorno fischiano i proiettili: “Dobbiamo vincere, così l’Ucraina sarà parte dell’Europa e del mondo libero. Non saremo più schiavi”. La prima vittima di quegli scontri fu un ragazzo, si chiamava Serhiy. Esattamente come il padre di quei bambini uccisi con la madre, in questi giorni, mentre cercavano di fuggire dalle bombe. La Russia non è, non deve a sua volta essere, per l’Occidente, l’impero del male. È un grande Paese, con tradizioni culturali che bisogna valorizzare, non rimuovere. E anche per questo bisogna cercare, fino alla fine, una soluzione negoziale. Il mondo che sembrava poter nascere, quando il muro di Berlino è crollato, aveva dentro di sé il sogno di un pianeta in cui le differenze storiche, religiose, economiche potessero essere rispettate e contenute dentro l’unica conquista certa del secolo breve: la democrazia. Ma non è stato così. Si è fatta strada progressivamente l’idea che esistessero altre forme di governo, delle “monarchie repubblicane” che concentrassero nelle mani di un solo uomo il potere e rimuovessero, anche con la violenza tipica delle dittature, ogni differenza, considerata un’anomalia o un intralcio. È troppo facile riassumere una tragedia come quella che viviamo, la più drammatica dalla fine della Seconda guerra mondiale, nell’ipotetica follia di un uomo solo. Riempiendo di bombe le città al confine con la Polonia, minacciando di calpestare il suolo di Kiev, ignorando le richieste di corridoi umanitari non si sta solo compiendo una guerra di conquista, ma si vuole affermare una nuova egemonia su scala mondiale e indicare come modello per il millennio le nuove forme di potere autocratico. La fame e la disperazione degli ucraini che i nostri occhi ingurgitano ogni giorno con crescente strazio, così come i disagi nei quali Putin ha precipitato il popolo di Russia e la difficoltà economica delle persone in Italia o in Europa, nascono da lì. Dall’ambizione di una “guerra metafisica” contro la libertà. Riconoscerla per quello che è può aiutare a non commettere di nuovo errori che, nel Novecento, ci sono costati un prezzo altissimo. Il male della guerra è contagioso, l’antidoto è fidarsi dell’uomo di Colum McCann* La Stampa, 14 marzo 2022 Dobbiamo credere al potere delle parole e delle cose minuscole che sembrano irrilevanti, così contrasteremo i guerrafondai che non hanno il coraggio di amare la bellezza. La pandemia ci ha insegnato - e continua a insegnarci - che siamo significanti e nello stesso tempo insignificanti. La guerra in Ucraina offre a tutti noi l’opportunità di mettere alla prova la nostra rilevanza di fronte alla schiacciante disperazione. Nel corso degli ultimi anni, ci è stato ricordato di continuo quanto si sia incredibilmente piccoli di fronte alla realtà del mondo. Siamo stati colpiti da un virus che ci ha puntato il dito contro. Ci fissava come un poster di guerra. Noi tutti abbiamo ceduto in una forma o nell’altra. Era come se potessimo vederci dall’alto e osservare quelle piccole molecole di insignificanza rimbalzare. Non eravamo niente a confronto. Eppure, nello stesso tempo, siamo diventati enormi nelle nostre minuscole stanze. Abbiamo iniziato a capire che le nostre vite contavano sul serio, non solo per noi stessi ma anche per gli altri. Il nostro respiro, contava. Le nostre mascherine, contavano. I nostri due metri di distanziamento, contavano. Siamo stati costretti entro le mura di casa per salvare il mondo, mentre altri (medici, infermieri e operatori in prima linea) dovevano uscire allo scoperto per stabilire gli impedimenti e i confini delle iniziative umane. La guerra in Ucraina è epica nella portata della sua malvagità. È un affronto al pensiero umano dignitoso. La sua propensione al male è esponenziale e può contagiare ognuno di noi. Viviamo nell’epoca dell’esponenziale, in cui tutto - compreso il male stesso, insieme alla sua descrizione, o meglio, alla sua rappresentazione - ha la facoltà di viaggiare quasi letteralmente alla velocità della luce. Dopotutto, è la luce a portare ogni notizia in giro per il mondo, per lo più attraverso cavi sottomarini e comunicazioni satellitari. Nessuno può dubitare che si sia sull’orlo di una possibile catastrofe mondiale: c’è un preallarme stimato di sette minuti tra il lancio del missile nucleare e l’istante in cui sventra il suo bersaglio. Nel gennaio di quest’anno - prima ancora che Putin iniziasse a spostare le sue truppe - l’orologio dell’Apocalisse di Chicago era impostato a soli 100 secondi alla mezzanotte, più vicino di quanto sia mai stato. Eppure, anche se è il treno a venirti incontro, c’è pur sempre la luce in una parte del tunnel. In seno all’epico c’è la grazia del minuscolo, e il minuscolo può salvarci. Bellezza e resistenza, arte e solidarietà sono capaci di sfidare la fine del mondo. È facile da deridere, ma impossibile da negare. La scorsa settimana un gruppo di musicisti dell’Accademia Nazionale di Musica dell’Ucraina P. Ciajkovskij si è riunito per suonare la sua musica all’aperto, a Maidan, la piazza centrale di Kiev. Si sono imbacuccati in sciarpe e cappelli pienamente consapevoli che un sibilo sinistro avrebbe potuto benissimo interrompere il violino, il flauto, il violoncello. Per venticinque minuti le note hanno continuato a crepitare nell’aria gelida. Ed è successo in tutto il paese: come riportato dal Washington Post, una donna ha eseguito una versione da brivido di What a Wonderful World alla stazione ferroviaria di Leopoli, dove carrozzine per bambini vuote fiancheggiavano i binari. Non solo l’arte, la musica o la letteratura, hanno un modo per vedere oltre la fine: lo abbiamo tutti noi, in ogni maniera possibile. Se il mondo ha dimostrato qualcosa in questo ultimo mese, è stata la sua capacità di parlare. Magari parlare non basta - del resto, il sentimento privo di azione può essere disastroso - ma c’è perlomeno questo, e costituisce la base per una pacificazione ancora di là da venire. Le sanzioni sono una forma di pacificazione. Gli editoriali indignati sono una forma di pacificazione. Così come le canzoni intonate fuori dalle stazioni ferroviarie. Anche le pentole che sbattono sui balconi del mondo sono una forma di pacificazione. Questa volta, la maggior parte del mondo parla all’unisono contro un male ingiustificabile. È sufficiente? No, certo che non è sufficiente. Niente è mai sufficiente. In nessun caso. “Dov’è l’origine della nostra prima sofferenza?” chiese Gaston Bachelard, un filosofo francese. “Sta nel fatto che abbiamo esitato a parlare... è nata nel momento in cui abbiamo cominciato ad accumulare silenzi dentro di noi”. Che ci piaccia o no, facciamo parte della musica più ampia e dobbiamo assumerci la responsabilità delle linee melodiche che ci circondano. Tutto ciò che può essere detto deve essere detto. Tutto ciò che può essere cantato deve essere cantato. Tutto ciò che può essere inviato - denaro, vestiti, preghiere, presenza, coperte, cibo - deve essere inviato. Qualsiasi sanzione possa essere imposta deve essere immediatamente imposta. Fanculo il costo della benzina. Fanculo l’inflazione. Fanculo il calcio. E fanculo se la nostra voce in Russia o in Cina o a Cuba o altrove non la sentono nemmeno. La sentiranno. Alla fine. La nozione di Gramsci di “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà” qui è cruciale. Il mondo dei cinici è costituito da fabbricanti di bombe, industriali e guerrafondai. Sono convinti di aver diritto al pessimismo che riempie le loro tasche, ma non hanno alcuna portata morale per accedere all’ottimismo della volontà. Non sono abbastanza coraggiosi per questo. Un adeguato ottimismo - venato com’è da un sano cinismo - è ciò che ci salverà. Questa è ovviamente una contraddizione. Ma va bene. Viviamo in un’epoca malata di certezza. Va benissimo che si sia confusi. Dovremmo abbracciare il disordine in molti modi. Dobbiamo far sentire la nostra voce e allo stesso tempo accettare di soffrire. *Traduzione di Marinella Magrì Mediterraneo, il naufragio delle civiltà dialogo tra Valeria Parrella e Caterina Bonvicini La Stampa, 14 marzo 2022 Non dimentichiamo i profughi che arrivano dal mare, anche loro vittime delle guerre. Ciao Caterina, che triste scriverci in questi giorni di guerra così vicina e così virulenta. Eppure, tanta parte attorno a noi dice: “Ma dov’eravate quando bombardavano la Siria e dove siete ogni giorno in cui uccidono un palestinese?”. Io lo so dov’eri tu, lo racconti in questo libro, ma te lo chiedo lo stesso, raccontamelo tu, e dimmi perché, secondo te, i morti si vivono per sottrazione e mai per addizione (sì- ma e non sì - anche), dimmi se è vero che esistono migranti di serie A e di serie B. Bonvicini. Può stupire, ma la distinzione fra profughi di serie A e di serie B esiste persino sui barconi, che noi a bordo con più eleganza chiamiamo Target. Quelli di serie B, quelli che hanno i posti peggiori, magari in stiva, dove poi muoiono asfissiati dal fumo dei motori, sono sempre i subsahariani, che hanno meno soldi da consegnare ai trafficanti. Penso al razzismo dei libici che gestiscono i lager e torturano solo chi ha la pelle nera. Questo discrimine si vede addirittura a bordo, anche se pochi lo raccontano. Mi ha colpita molto la storia di alcuni bambini siriani che masticavano del pane e lo sputavano in faccia a una bambina sordomuta nigeriana. Così, per divertirsi. Anche se venivano tutti dalla stessa barca di legno. Poi quella bambina sordomuta ha salvato la vita alla sua aguzzina siriana avvertendo l’equipaggio che si era arrampicata su una scaletta e stava per cadere in mare, con un gesto. La propaganda sovranista è banale, la realtà è molto più complessa. Giorgia Meloni, indignata come tutti dalla guerra di Putin, subito indica i profughi reali, li chiama così, e secondo lei sono diversi da quelli che attraversano il Mediterraneo. Ma la Libia e la Siria dove le mettiamo? Non sono guerre di Putin anche quelle? Chi ha appoggiato Haftar e Assad? Vogliamo parlare delle influenze russe nella destabilizzazione del Sahel? Poi c’è tutta la retorica sulle donne e i bambini. Io non ho mai incrociato gommoni o barche di legno senza donne e bambini. Alcuni erano pieni, il portellone della nave sembrava il cancello di un asilo. Dovrebbero affogare solo perché ci sono degli uomini a bordo? Uomini, poi. La burocrazia non ha capito niente del Mediterraneo: sono adolescenti o ragazzi di appena vent’anni, che in Italia noi terremmo ancora in casa, trattandoli come bambini. Un trentenne si trova raramente, e viene guardato male, gli altri lo considerano un vecchio. Hanno la stessa età dei soldati russi di leva, che sono stati chiamati per un’esercitazione e poi sono stati mandati a morire in Ucraina. Io mi strazio anche per loro, quando Anna Zafesova racconta che le madri scoprono che sono stati uccisi dai canali Telegram degli avversari. Perché in Russia la parola guerra non si deve pronunciare. Le madri dei ventenni che muoiono nel Mediterraneo non le avverte nessuno. Mi ha colpita la storia raccontata da Viola Ardone, sempre su questo giornale. Un bambino ucraino che a undici anni ha percorso da solo cento chilometri fino alla frontiera. Mi veniva da piangere, ma nel Mediterraneo si piange sempre così: migliaia di ragazzini di quell’età partono da soli. Affrontano il deserto, la violenza della Libia e il mare, per anni. Il dolore è uguale. Il resto è solo politica, o propaganda, non tanto diversa da quella russa, alla fine. Parrella. Il tuo nuovo libro è così colorato da fare male, le fotografie di Valerio Nicolosi sono brucianti. Come è possibile trarre tanta bellezza dal dolore? E altrimenti cosa ci resterebbe? Ce n’è una che non smetto di guardare: è dell’agosto 2018: un giovane sudanese, all’alba, vede la costa europea per la prima volta… B. Quella foto di Valerio, come tutte le sue, dice la verità. Ho guardato a lungo la costa con loro, anche perché ci tenevano per giorni e giorni senza un porto, a ballare sulle onde, anche con il tempo brutto. A bordo usiamo la parola Standoff, punto cieco. Ma cieco non è, perché la terra si vede eccome, anche se è tutta sfumata. Da lontano, la costa sembra tremare. E tremano loro, che non sanno cosa aspettarsi. Alcuni ti chiedono addirittura di restare sulla nave, perché hanno paura a scendere. Intuiscono che una volta sbarcati non riceveranno la stessa gentilezza. Altri sono pronti a tuffarsi e i soccorritori devono buttarsi in acqua per recuperarli, prima che affoghino per un sogno. Un sogno destinato a finire presto, perché l’accoglienza è orribile. Ma loro ragionano in un altro modo: sempre meglio che stare in Libia, pensano. La costa italiana significa: almeno non verrò torturato tutti i giorni alle sei di mattino. Sono disposti a morire in mare pur di non tornare in Libia, in fondo è un dolore che dura meno. Questa, forse, è la vera differenza fra i profughi ucraini e quelli del Mediterraneo. Gli ucraini desiderano tornare a casa, quando la guerra sarà finita, anche se non sanno cosa troveranno fra le macerie. Per i ragazzi del Mediterraneo è diverso. Tornare indietro significa tornare in Libia, da cui si esce solo affrontando il mare. P. Quando sei partita, avevo paura, lo dissi alle altre amiche scrittrici della nostra amata chat, forse lo dissi anche a te: che avevo paura che non sarebbe tornata indietro la nostra Cate ma una donna nuova. È successo e, se sì, in cosa sei cambiata? E dopo mi dici anche se c’è un confine tra la cittadina e la scrittrice, se c’è un posto privilegiato in cui si incontrano e come. B. Sì, sono profondamente cambiata. Ma la scrittura non c’entra, è solo un mezzo come un altro, è quello che ho. Il mio cambiamento va molto oltre. È quello che sperimentano tutti quelli che attraversano il Mediterraneo. Non si torna indietro da lì. Me ne rendo conto dal bisogno che ho di stare con le persone che hanno vissuto quello che ho vissuto io. Qualche sera fa, io e Fulvia Conte, un’amica soccorritrice che ha vent’anni meno di me, siamo rimaste a parlare in cucina fino alle tre di mattina. Sentivamo l’urgenza di dirci tutto quello che potevamo, perché lei è stata per un anno in mare e ripartirà presto con la Geo Barents di Medici Senza Frontiere, quindi non volevamo perdere un minuto insieme, a costo di non dormire. Fulvia a ventotto anni ha già salvato 2.500 persone. In guerra si contano i morti, nel Mediterraneo si contano i vivi. E dieci cadaveri, precisa lei, se parliamo di numeri. Perché il Mediterraneo è questo: un’alternativa secca fra vita e morte. A vent’anni Fulvia ha già tirato su dieci cerniere sul viso dei suoi coetanei. P. In questi terribili giorni più di una volta hai richiamato la nostra attenzione sul lavoro che sta svolgendo Valerio Nicolosi, raccontaci dove sta e cosa vede. B. Valerio non è solo un fotografo e un giornalista: è uno che parte. Prima di ragionare sul mondo, lui vuole starci. Infatti, fino a qualche giorno fa era a Kiev. Che sia il Mediterraneo o l’Ucraina non gli importa. Era in prima linea anche con i terremotati dell’Aquila e a Gaza, fra le bombe. È fatto così. Lui va. Poi coglie, capisce, racconta. Le sue fotografie sono il corrispettivo della mia narrazione a parole, in termini di empatia. P. Quale è il punto cruciale? B. Il tema della Guardia Costiera libica è cruciale. Parliamo di gente che cosparge i naufraghi di benzina e tiene l’accendino in mano. Di navi, finanziate dall’Italia, che partono a tutta velocità con un ragazzo ancora aggrappato alla scaletta, dopo aver fatto affogare sessanta persone. Nessuno si comporta così in mare. Del resto, a terra fanno di peggio. I migranti sono merce per il business dei lager e della tortura. Dalle inchieste di Nello Scavo, Nancy Porsia e Francesca Mannocchi sappiamo tutto di gente come Bija, e come funziona quel traffico te lo racconta anche qualsiasi ragazzo sul ponte di coperta. In questi giorni guardo ammirata l’Europa, che si batte per i suoi valori, e non posso fare a meno di pensare che in tutta questa civiltà c’è una terribile contraddizione. Nel Mediterraneo, appunto. P. Cosa significa Mediterraneo? B. Paradossalmente, lo collego a una piscina. Mi torna sempre in mente il giorno in cui ho insegnato a nuotare a due bambini ivoriani di sei anni che avevano fatto la traversata in gommone senza saper nuotare. Era bellissimo vederli con dei bracciali arancioni invece che dentro un salvagente arancione. E così ho pianto convulsamente davanti a un film di Checco Zalone: in Tolo Tolo c’è la stessa scena. Pochi giorni fa ho ricevuto una fotografia della loro prima pagella, mi ha emozionata. Ho tanta voglia di ripartire, per altre pagelle. P. Tantissimi cittadine e cittadini europei seguono le avventure e le storture del sistema di salvataggio in mare, si trovano a difendere le ONG e a deprecare gli accordi con la Libia. Cosa può fare chi a bordo non salirà mai? B. Possiamo parlarne tanto, innanzitutto. Perché l’attenzione sul Mediterraneo sta troppo calando. E possiamo donare qualcosa alle Ong, che ne hanno bisogno: stare in mare costa. Il nostro governo spende miliardi per rimandare le persone dai loro torturatori, noi possiamo solo fare una colletta contro questo “naufragio di civiltà”, come lo chiama Papa Francesco (lo cito da atea e da scrittrice, perché mi piacciono le parole esatte). In questi tempi cupi, il faro delle navi mi mette allegria. Contiamo i vivi, dove si può. Grandi (Onu): “In Ucraina senza casa in 5 milioni. Crisi politica peggiore del post 1945” di Paolo Valentino Corriere della Sera, 14 marzo 2022 L’Alto commissario Onu per i rifugiati: “Alle frontiere arrivano persone nella disperazione, traumatizzate. Lì si separano e gli uomini tornano indietro: terribile”. “Noi ci proiettiamo nello scenario peggiore. Ci sono oltre cinque milioni di persone in Ucraina, il 10%-15% della popolazione, che sono state costrette fuori di casa. Di queste, più della metà sono già fuori dal Paese ma a questo ritmo saranno 3 milioni entro un paio di giorni. Noi continuiamo a esser presenti sul territorio ucraino e possiamo dire che ci sono al momento almeno 2 milioni di persone in movimento verso Ovest, dove i bombardamenti fra l’altro sono in crescendo minacciando tra l’altro anche quelle già sfollate. Un terzo dei 40 milioni di abitanti dell’Ucraina è in una situazione disperata dal punto di vista dei bisogni in conseguenza della guerra. La cosa più stupefacente è che questo quadro si è materializzato in solo due settimane, non in cinque anni”. Filippo Grandi è l’Alto Commissario dell’Onu per i Rifugiati. È la crisi di rifugiati più grande dalla Seconda Guerra Mondiale... “Sicuramente. Nei Balcani, anche sommando tutto dalla Bosnia al Kosovo, non si è arrivati a queste cifre e in più successe tutto nell’arco di otto anni”. Lei ha visitato diverse frontiere: Polonia, Moldavia, Romania. Cos’ha visto? “Difficile anche descriverlo. È un fiume in piena di persone, una valanga di cui non vedi l’inizio e la fine. È una massa cupa, fatta di esseri umani traumatizzati, soprattutto dalla velocità in cui sono precipitati nella disperazione. Ti raccontano che una settimana fa la loro era una vita normale. Vengono in maggioranza dalle città, è classe media che fino all’altro giorno mandava i bambini a scuola, lavorava. Sono sotto shock. Al confine moldavo mi ha colpito molto il fatto che gli uomini ucraini accompagnano le famiglie fino alla frontiera, poi tornano indietro a combattere. Queste separazioni sono state una delle cose più drammatiche e terribili che abbia mai visto: si lasciano e non sanno se si rivedranno mai più. Quelli che passano sono donne, bambini e anziani, qualche disabile”. Ha parlato di “distribuzione naturale”, nel senso che i profughi vanno verso posti dove hanno agganci, parenti o amici? “Sì. Ed è una fortuna che gli ucraini abbiano tantissime connessioni in Europa, dove ci sono comunità numerose e ben radicate. In questo senso il loro inserimento temporaneo è più facile, non c’è bisogno almeno per ora di grandi centri di accoglienza. Dobbiamo vedere come si sviluppa il movimento. Se i russi continueranno a bombardare, specie le città, spostandosi verso Ovest come avviene in queste ore, vedremo altre ondate di persone in fuga, per esempio dalla zona di Leopoli verso Polonia e altri Paesi. Ma tutto sommato c’è una rete in Europa che rende relativamente meno difficile per gli Stati assorbire i profughi”. Qual è la parte più importante del lavoro vostro e degli altri umanitari in questa fase? “Dobbiamo restare in Ucraina finché possiamo. Da qualche giorno siamo stati costretti a spostare il nostro quartier generale a Leopoli, a Kiev non era più possibile rimanere. Riusciamo ad aiutare le persone nell’Ucraina occidentale e siamo pronti a intervenire se si apriranno finalmente i corridoi umanitari. Abbiamo potenziato un canale logistico di trasporto dalla Polonia all’Ucraina. Ma possiamo andare solo dove c’è sicurezza. Poi abbiamo già pronti i convogli per entrare a Mariupol o nelle città assediate nel momento in cui si materializzeranno i corridoi, su cui negoziano Mosca e Kiev. Ne hanno parlato ad Antalya i ministri degli Esteri, ma al momento da parte russa la logica di guerra prevale su quella umanitaria”. L’Europa sta reagendo in modo unito, aprendosi all’accoglienza. Dopo anni, abbiamo scoperto che siamo in grado di prendere qualche milione di rifugiati senza problemi. “Sono molto contento che alla fine l’Europa abbia capito due cose. La prima è che un’emergenza rifugiati colossale, molto più grande di quella del 2015, è gestibile, cosa che l’UNHCR dice da anni. La seconda è che si può fare se gli Stati cooperano come sta accadendo ora. Spero solo che quando questo immane disastro sarà terminato, e non so dire quando, la lezione che l’Europa sta imparando sotto la pressione dell’Ucraina verrà applicata in futuro anche in altre crisi, grandi e piccole. Questo è il modello da seguire: lavoro comune, condivisione, solidarietà. Insieme possiamo far fronte all’impossibile”. È giusta la scelta della “protezione temporanea” offerta dall’Ue? “Sì, perché consente agli ucraini di muoversi legalmente attraverso l’Unione e favorisce quella distribuzione naturale di cui parlavo prima. Il problema è che se i numeri crescessero ancora e arrivassero persone con meno legami e meno risorse, allora dovrebbe essere l’Europa a stabilire le ripartizioni fra Stati membri. Non è un discorso attuale, ma dobbiamo prepararci. Altrimenti rischieremmo che Polonia e altri Paesi limitrofi diventino quello che Italia e Grecia sono stati per anni: Stati di frontiera che sostengono l’essenziale dell’accoglienza, ma con numeri ancora più drammatici”. Ci sono stati però brutti episodi di discriminazione e respingimenti di rifugiati che venivano dall’Ucraina, ma avevano la pelle scura. L’Economist ha parlato di razzismo. Può confermarli? “Nei primi giorni ci sono stati episodi di questo genere ad alcune frontiere. Noi non abbiamo potuto esser presenti in tutte sin dall’inizio perché la crisi è precipitata in modo repentino. Ho posto molte domande soprattutto in Polonia, dove questi fatti sono stati riportati. Credo però sia importante che il governo polacco sin dall’inizio abbia detto che non era quella la sua linea e che la decisione era di far passare tutti. Quei casi vanno condannati. È possibile anche che ci siano stati episodi in Ucraina stessa: persone di diversa etnia cui è stato impedito di salire su treni o autobus. Nessuna giustificazione ovviamente. Il razzismo va sempre condannato, anche in contesti così drammatici. Spero però che questa fase sia superata”. Edith Bruck: “Io deportata a 13 anni. Dico ai giovani che nel buio c’è sempre una luce” di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 14 marzo 2022 La scrittrice prigioniera ad Auschwitz: “Con la Shoah non ci sono analogie, e l’idea di Putin di “denazificare” l’Ucraina è una follia Da 60 anni parlo nelle scuole: non ci sono guerre giuste” Edith Bruck, che sentimenti prova di fronte a questa guerra? “Mi è toccata ogni sorte. Mio padre ha vissuto la Grande guerra, io da bambina ho vissuto la Seconda. Da quando sono al mondo non vedo che guerre. Non solo l’Ucraina, anche le altre, che sono lontane ma ci riguardano sempre da vicino, perché tutto ciò che accade nel mondo ci riguarda. Ancora questi carri armati, questi morti e questo nonsenso. Detesto ogni tipo di guerra, dovunque sia. Da sessant’anni parlo nelle scuole, parlo per far capire che è tutto sbagliato, che non ci sono guerre giuste. Il cielo - per non dire Dio - ci ha dato la parola, dunque si può parlare, riconciliarsi, ma il mondo è pieno di odio”. L’Europa mostra solidarietà verso il popolo ucraino... “È vero che la guerra ha risvegliato la sensibilità, e tutti giustamente stanno a fianco dell’Ucraina, non c’è mai stata una solidarietà del genere, è molto bella, ma con altri popoli non è successo, nessuno ha mosso un dito, da tempo in Europa avanza il razzismo, un’ostilità verso altri profughi. Speriamo che adesso qualcosa abbiamo imparato”. Vede analogie con quel che ha vissuto lei? “Non voglio sentire la parola Shoah, non c’entra niente. A noi è toccata la cosa peggiore, gli ebrei sono stati perseguitati in quanto ebrei, ed è una cosa che non assomiglia a null’altro, come diceva il mio amico Primo Levi. Milioni di morti, ho visto bambini congelati per terra a centinaia… La cosa in comune è che nessuno vuol morire, ognuno si attacca a un filo d’erba pur di non morire”. Come ha reagito all’idea di Putin sull’urgenza di “denazificare” l’Ucraina? “È un’altra follia. Ci possono essere fascisti o filonazisti in Ucraina, come dappertutto purtroppo, anche in Italia o in Francia, ma sono una minoranza. È come se qualcuno dicesse che per far fuori Forza Nuova bisogna bombardare l’Italia: una follia che nasce da una menzogna totale”. Come spiegherebbe tutto questo ai ragazzi? “Non bisogna mentire dicendo che domani finisce tutto, ma cercare di far capire che nel buio c’è sempre un’ombra di luce. Forse non può consolare una ragazzina di oggi, ma io sono stata deportata a 13 anni, eppure vedevo sempre un gesto di comprensione, qualcuno che mi chiedeva come ti chiami, un altro che mi regalava un guanto o un po’ di marmellata. Quando è venuto qui in casa mia, Papa Francesco mi ha elencato tutte le luci che ci sono nel mio libro…”. Ci sono valori che in queste circostanze valgono più di altri? “Cose semplici. L’umanità, la vita, il pane. I giovani faticano a capire che la cosa più preziosa è la vita: la vita e il pane ce l’abbiamo, stiamo vivendo. Ma devono anche capire da che parte stare, capire che le guerre giuste non esistono, che siamo dotati di parole, e allora parliamo, parliamo”. E invece l’odio tra le parti sembra crescere... “Io non so cosa sia l’odio, la vendetta chiama nuova vendetta, la rivalsa una nuova rivalsa, l’odio un nuovo odio, e non si finisce più… È questo il veleno del mondo. Dobbiamo solo aiutare la pace, non c’è altro. Questo devono fare i ragazzini, andare fuori, farsi sentire, urlare che le guerre sono il fallimento umano”. La storia non è maestra di niente, come diceva Montale? “L’uomo più uccide e più muore dentro umanamente, i massacri alimentano i massacri. Più si uccide, più si continua a uccidere e più ci si suicida. Sa cosa succedeva il 27 gennaio 1945?” Cosa succedeva? “Il giorno in cui Auschwitz è stata liberata, i crematori hanno preso a lavorare più di prima, e da Bergen Belsen ci hanno costretti a fare più di mille chilometri a piedi verso la Sassonia. Andavano avanti a uccidere, ammazzare ammazzare, per una spinta malefica, anche se avevano già perso. Lo stesso accade ora: non credo che Putin vinca la guerra, tutti e due perderanno, ma i suoi soldati russi sono ragazzini immotivati, non sanno cosa fare, sono affamati, si impantanano, ma lui va avanti, va avanti, non si ferma, insiste, insiste, anche se per me ha già perso”. Qualcuno parla di follia… “C’è una schizofrenia, sono uomini che si credono onnipotenti e sono malati di morte. Putin provoca e minaccia, ma ha organizzato molto male la sua guerra, pensava che bastasse un blitz perché gli ucraini alzassero le braccia. Hitler sì che era organizzato molto bene, con scienziati, medici, ingegneri, architetti”. Lei crede nelle mediazioni? “Non si può parlare di pace mentre si bombarda, non è trattativa, è follia. Chi urla di più ha ragione, e dietro l’urlo c’è la menzogna. E la verità?” Che soluzione vede? “So che Olga, che è ucraina e vive con me da anni, non sarà d’accordo, ma bisogna cedere qualcosa, lasciargli prendere le due repubbliche autoproclamate, purché finisca il massacro. Bisogna fargli credere di aver vinto perché altrimenti non lascia. Tanto, fingono tutti… quindi fingiamo… Non c’è altro”. Olga ha il marito, la figlia e due nipoti di 8 e 6 anni a Leopoli. Cosa le dice? “Piange piange piange, stravolta, disperata. Sta tremando da mattina a sera. Tutti al suo paese soffrono, le donne cucinano per i profughi, raccolgono le bottiglie per preparare le molotov, ma io penso ai due bambini: il trauma che vivono non lo dimenticheranno”. Suo marito, il poeta Nelo Risi, cosa direbbe se fosse ancora in vita? “Nelo era un santo agnostico. Una volta ha trovato un topolino in bagno ed è rimasto mezz’ora lì dentro per convincerlo: esci, non capisci?, devi andare di là… Discussione surreale col topino per liberarlo. Con le mosche uguale”. Russia. La paura di chi vuole emigrare: “Oggi all’estero ci odiano tutti” di Francesca Sforza La Stampa, 14 marzo 2022 Crescono le preoccupazioni delle famiglie per il futuro del Paese. “Andrà tutto male, torneranno la povertà e forse una guerra civile”. Chi può se ne va. E in tanti se ne sono già andati: Istanbul, Dubai, Atene. Poi però ci sono quelli come Cyril, che non si chiama così perché nessuno a Mosca racconta più niente con il suo vero nome, anche se vuole che la sua storia si sappia, e infatti la scrive in una delle tante chat su Telegram che si sono accese in Russia come fiammelle alle finestre (era così che in Belarus dimostravano il dissenso, non potendo più scendere in strada senza finire in carcere). “Io e la mia famiglia abbiamo pensato a emigrare - scrive Cyril - ma non c’è nessun posto dove andare. Dove si può andare se poi non ci puoi stare? Tutti odiano i russi adesso, sarà solo più difficile tornare”. Anche Olga, che fa il notaio a Mosca (non è la stessa cosa che fare il notaio in Occidente, in Russia i notai sono qualcosa a metà tra i ragionieri e gli amministratori di condominio) non se ne può andare: “Dovevo partire prima, mentre stavo ancora portando a termine gli studi, ma allora non ne ho avuto la forza. Adesso ho mia mamma che ha avuto un ictus e un bimbo piccolo di cui occuparmi. E anche un lavoro di cui nessuno all’estero ha bisogno: che possibilità avrei?”. Chi è istruito e ha un buon lavoro (ma non buonissimo) oscilla di continuo nel dubbio se partire o restare. Ivan, che lavora all’università di Yelets, scrive che stava pensando di andarsene, ma non si è sentito a posto con la sua coscienza: “Ho una figlia che vive qui, e la tomba di mia mamma…”. In alcune famiglie si litiga, c’è chi vorrebbe fuggire e chi no. Come a casa di Marina, che lavora in una galleria d’arte a Mosca: “Vorrei andarmene, ma mio marito è contrario, dice che all’estero senza sapere le lingue e avere delle competenze particolari non troveremmo mai un lavoro. I nostri genitori sono qui e a casa abbiamo una nonna di 92 anni che ha bisogno di essere curata. Come faccio ad andarmene senza la mia famiglia? Sento che andrà tutto molto male, che tornerà la povertà, i banditi, forse una guerra civile. Abbiamo una piccola dacia fuori città - aggiunge - forse andremo lì, ho rinunciato a realizzarmi nel mio lavoro. Quando c’è la guerra nessuno ha più bisogno dell’arte”. Altre famiglie invece si spezzano: “Sono il figlio maggiore - racconta Sergey - mio fratello lavora all’estero, i nostri genitori sono anziani, hanno bisogno di cure, ed è giusto che il più giovane viva in un Paese libero e quello più anziano in uno totalitario”. Tra le paure più grandi dei russi c’è quella di non riuscire a trovare più le medicine per i loro malati: circa il 55% dei farmaci venduti in Russia sono importati, e quelli che sono prodotti in patria hanno bisogno di sostanze di importazione per almeno l’80%. Ci si aspetta interruzioni di forniture, scaffali vuoti, malattie che non si possono curare. E se gli anziani sembrano più rassegnati - ma anche forse più capaci di immaginare il futuro, perché è il loro passato, sanno già come sarà - per i più giovani sembra solo un brutto film: “Ho 30 anni - scrive Liza - vengo da una piccola città della Siberia. E solo di recente ho iniziato a vivere, e non a sopravvivere: mangiare cibi deliziosi, comprare cose buone, fare qualche viaggetto con mio marito… E ora il mio Paese mi sta gettando di nuovo nella povertà”. Ruslan vorrebbe andarsene in Georgia, o in un altro Paese della Cis, “ma ho 22 anni, sono in quell’età stupida in cui ho già dei risparmi ma non bastano per mollare tutto e andare a vivere in un Paese in cui non so quando potrò lavorare. Poi ho paura di lasciare mio padre e mia nonna che vivono a Samara. Se la pensione di nonna non sarà più sufficiente ci dovrò pensare io, forse arriverà la fame”. Ruslan scrive anche un’altra cosa: “In fondo, non voglio andarmene, questo è il mio Paese, credo che possiamo cambiare qualcosa, soprattutto ora che il regime sembra più vulnerabile”. È la stessa cosa che pensa Oleg: “Sì, è vero, adesso un nonno impazzito (sono in molti a chiamare così il presidente Putin) rende la vita in questa casa molto peggiore. Ma so perfettamente che la Russia non è lui. La Russia siamo noi. Quando tutto sarà finito ci sarà molto da fare per ricostruire. Voglio essere tra quelli che lo faranno, voglio aspettare l’alba in Russia. Credo che dopo una notte così dura, l’alba che stiamo aspettando sarà incredibilmente bella”.