Carceri, la forza di guardare di Conchita Sannino La Repubblica, 13 marzo 2022 Il caso di Torino e la visita della ministra Cartabia. “Inguardabile”. Anzi, “disumano”. Le parole accomodanti finiscono, se si hanno occhi per vedere. C’è bisogno di uno scatto di trasparenza per misurare le condizioni di abbandono e degrado che ancora connotano, in alcuni clamorosi casi, la situazione delle carceri in Italia. Così la ministra della Giustizia Marta Cartabia non usa perifrasi per denunciare, dopo la visita nella Casa circondariale di Torino, la situazione in cui detenuti e operatori della polizia penitenziaria sono costretti a dividere alcuni spazi, che pure convivono con la cura e l’accoglienza di altre sezioni, ravvivate da murales e riempite di attività, che la Guardasigilli non manca di registrare come il modello cui tendere. Ma Cartabia usa toni duri e diversi riferendosi, in particolare, al reparto del cosiddetto “Filtro”. È lo spazio in cui passano quei reclusi, in larga parte stranieri, sospettati di essere l’ultima manovalanza del traffico di droga, niente altro che corpi usati come merce usa e getta, “tubi” imbottiti di ovuli porta-stupefacenti. Parliamo di un carcere in cui il sovraffollamento è il primo male: 1.326 detenuti contro i 1.096 del tetto non superabile. Ed è lo stesso carcere in cui, due anni fa, esplose lo scandalo sulle violenze reiterate, sulle morti sospette e sull’omertà: indagini che portarono, nell’estate del 2020, a sostituire di colpo i vertici in carica alle Vallette. Degrado strutturale, sovrappopolazione (composta soprattutto di situazioni di marginalità e reati minori), violenze. Tre elementi che ricorrono nel micidiale mix di un’emergenza antica e a lungo silenziata che unisce nord e sud. Quell’Ariaferma dei diversamente reclusi - chi in tuta, chi in divisa - che un notevole film, di Leonardo Di Costanzo, ha avuto il merito di consegnare per sottrazione e silenzi al Paese. La scorsa estate, a Santa Maria Capua Vetere, la più allarmante inchiesta su un pestaggio di massa messo a segno sulla pelle di centinaia di detenuti ha scagliato di nuovo l’Italia sul banco degli imputati in Europa e ha portato all’azzeramento di tutta la catena di comando: dal Provveditore campano a funzionari e comandanti, tutti indagati per gravi violenze e depistaggi. Con la paradossale conseguenza che oggi, in udienza preliminare, il Ministero della Giustizia figura sia come parte lesa, che come responsabile civile. “Siamo qui per affrontare le conseguenze delle nostre sconfitte”, fu l’inevitabile incipit del premier Mario Draghi dopo la visita a Santa Maria, in cui volle accompagnare la ministra, entrambi accolti tra (i non scontati) applausi della popolazione penitenziaria, era esattamente otto mesi fa. Anche lì, sovraffollamento, carenze, e abusi. Il carcere sammaritano offre, tra le altre, un’assurda criticità strutturale: non è allacciato alla rete idrica, l’acqua non è potabile o manca, un particolare citato spesso dal Garante nazionale, Mauro Palma. Anche a testimonianza, probabilmente, di quel tragicomico scollamento italico (ancor più inaccettabile, se accostato al tempo dei carcerati), tra le parole e la vita: visto che la Casa Circondariale di Santa Maria ha poeticamente battezzato ogni reparto col nome dei fiumi: Tamigi, Tevere, Senna, o il famigerato Danubio, lì dove si consumarono torture e lesioni (“Li abbattiamo come vitelli”, dicevano gli indagati nelle chat). I lavori per le forniture idriche, anche dopo il clamore del blitz, sono stati annunciati, preparati e confermati: ma ancora sulla carta. Per ora. Persino inutile, poi, ricordare il record storico della Casa circondariale di Poggioreale, a Napoli : celle in cui si affollano mai meno di 2mila o 2100 detenuti, a fronte dell’accoglienza massima fissata a 1.570. Dove, almeno, sembrano superati i tempi delle sevizie nella cosiddetta “Cella zero”. Tra pochi giorni dovrebbe essere ratificata in Consiglio dei Ministri la nomina del nuovo vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi, molto impegnato sul tema della umanizzazione dell’ordinamento penitenziario (impegno che non può essere in contraddizione con l’efficacia delle misure speciali). E infatti, al netto di qualche polemica su alcune sue pregresse e improvvide dichiarazioni (sul “giustizialismo ottuso” di settori dell’antimafia: parole poi chiarite e superate), la scelta indica una linea precisa, che la ministra non manca di argomentare. E cioè che un sistema che coltivi fino in fondo la dignità dei detenuti non rappresenta solo un dovere (in obbedienza al dettato costituzionale) ma un investimento sulla comunità. Un carcere umano è un carcere più sicuro. Andarci e vedere, come esortava Piero Calamandrei e come la ministra continua a fare, è il presupposto: per testimoniare una “disumanità” che ferisce chi paga il suo prezzo e chi lavora, nelle carceri italiane. Poi, bisogna agire. Detenuti ammassati a terra senza brande e materassi: il reparto che ha indignato la ministra di Federica Cravero La Repubblica, 13 marzo 2022 Nella “sezione filtro” del carcere delle Vallette i reclusi che hanno ingerito ovuli di droga. Condizioni igieniche inaccettabili. La prima volta che la sezione filtro del carcere Lorusso e Cutugno finisce in una relazione del Garante dei detenuti viene raffigurato “un ambiente gelido, sporco e maleodorante, le persone sedute a terra con una coperta addosso, costrette a dormire senza brande e senza materassi e a passare le giornate in cinque o sei assieme in una stanza di otto metri quadrati, guardando attraverso le sbarre la televisione sulla scrivania degli agenti”. La ministra: “Un reparto inguardabile” - È il 2017. Cinque anni e poche migliorie dopo, è la ministra della Giustizia Marta Cartabia a descrivere la sezione in cui vengono detenuti i presunti “ovulatori” come “un reparto inguardabile per la disumanità, tanto per le condizioni in cui deve operare la polizia penitenziaria quanto per quelle in cui si trovano i detenuti”. La visita della Guardasigilli alla casa circondariale di Torino è passata sia dalle aule didattiche in cui ha respirato la speranza nel “volto di un ragazzo che il 30 marzo si laurea dopo aver svolto un percorso di studio proprio all’interno del carcere”, ma è passata anche dalle celle lisce al piano terra del padiglione A. Caso unico in Italia - Non c’è altro carcere in Italia dove sia stato creato un reparto con la finalità di recludere i detenuti sospettati di aver ingerito ovuli pieni di stupefacenti, in attesa che li evacuino attraverso le feci. Ragion per cui nelle celle della sezione filtro non ci sono i servizi igienici né le docce, ma tutti fanno riferimento a un “wc nautico” in cui si devono raccogliere tra le defecazioni anche gli involucri per sottoporli al narcotest. Un’operazione che inizialmente doveva essere svolta da personale sanitario opportunamente protetto, ma nel tempo è diventato prassi che sia la polizia penitenziaria a occuparsene. E non ci sono nemmeno mobili in cui poter occultare degli ovuli e inizialmente non c’erano neanche i materassi, visto che alcuni provavano a nascondere la droga in mezzo alla gomma piuma. La raccolta degli ovuli - È stata la Garante dei detenuti di Torino Monica Gallo la prima nel 2017 ad aver fatto emergere la necessità di provvedimenti urgenti: “Ho visto ragazzi disorientati, che non parlano italiano e che non sanno per quanto tempo dovranno stare in quelle condizioni”, ha raccontato. Poco dopo erano arrivati i letti con materassi antitaglio e un macchinario per evitare che il personale svolgesse a mano la raccolta degli ovuli. Ma per il resto non è cambiato molto, nonostante i ripetuti appelli anche del garante nazionale che ora auspica “che l’intervento della ministra dia un chiaro impulso per la chiusura del reparto”. La sezione filtro è nata come una sperimentazione nel 2009, dopo che si era riscontrato un giro di spaccio all’interno delle celle, di detenuti che uscivano in permesso premio e poi rientravano con lo stomaco imbottito di stupefacente o che si facevano arrestare apposta per poi vendere droga ai compagni di cella. E si erano verificate anche diverse morti per overdosi causate dalla rottura di ovuli. Ospedale, la soluzione - La sezione filtro era sembrata una soluzione valida anche per la sanità regionale e la procura di Torino, che avevano siglato un protocollo in vigore ancora oggi. “Abbiamo già avviato un dialogo con le diverse istituzioni per superare questa situazione”, ha annunciato Cosima Buccoliero, da pochi mesi direttrice del Lorusso e Cutugno. Nel resto del Paese sono gli ospedali il luogo in cui trattenere i sospetti “ingoiatori” che nel tempo si sono specializzati realizzando involucri con pellicole che sfuggono alle radiografie. E anche a Torino ci sono locali all’ospedale Cto riservati ai pusher minorenni, quasi inutilizzati. Tra le mura del carcere, dove la sfida è perdonare se stessi di don marco pozza La Stampa, 13 marzo 2022 Diciassette sedie vuote attorno ad una bara (occupata). Sopra ogni sedia un nome, quelli delle sue diciassette vittime: con un fiore di gerbera appoggiato accanto. A Donato Bilancia (1951 - 2020) il funerale l’abbiamo celebrato così: con la sua bara circondata, accerchiata, da diciassette sedie vuote. Non solo sedie ma storie, memorie, disgrazie, buio fitto: i fermi-immagini della storia di un uomo che, per il peso delle sue gesta, verrà tramandato ai posteri come il serial killer più efferato del Novecento d’Italia. La storia è memoria. Anche ripetizione. Il purgatorio del carcere - Forte del privilegio di averlo accompagnato, per oltre dieci anni, nella sua traversata (quasi in solitaria) del purgatorio del carcere, ciò che mi stupiva dei suoi racconti, del suo inferno individuale, non era che i parenti delle vittime non l’avessero mai perdonato, quanto che lui non riuscisse, nonostante gli sforzi, a perdonare se stesso per quelle volte che s’era fatto carnefice di storie che, nella maggior parte dei casi, non avevano nulla in sospeso con la sua storia. Prima di addentrarmi nel mistero Bilancia - di oltrepassare la soglia delle patrie galere - il perdono mi appariva come la cosa più logica, probabile: il fatto è che, quando non sei chiamato in causa in prima persona, è tutto così semplice e scontato che nell’attimo in cui vieni tirato in ballo direttamente, invece, quel tutto inizia a farsi di difficile interpretazione. Nessuna parola, come il perdono, corre il rischio di venire abusata o, tutt’al più, citata a seconda dell’aria che tira. La sedia vuota - C’è sempre una sedia vuota da mettere in conto quando ci si addentra in quest’arena dove il bene e il male sono in perpetua battaglia tra di loro: “La linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ognuno” scrisse Solzenicyn. E in quella sedia vuota pare sia necessario intavolare un dialogo con l’offensore, anche se fisicamente assente: prima del perdono c’è lo sfogo di tutta la rabbia per tentare, poi, di trasformarla in qualche domanda, in conoscenza dell’altro. E su quella sedia vuota, magari, ogni tanto star seduti noi, anche solo per qualche attimo, quasi fossimo nella condizione di rispondere al posto dell’offensore. Lo stare “dall’altra parte”, in certe occasioni, aiuta a considerare meglio il percorso fatto dal male prima di diventare un gesto. E lo stesso gesto, riletto dall’una o dall’altra parte, assume tonalità differenti. Pur conservando accenti di belva. Un offeso e un offensore. Per un cristiano ce n’è un terzo: Dio. Ecco le tre facce possibili del perdono: quella di chi ha subìto un’angheria, quella del Dio a cui si bussa per cercare di strappare la misericordia, quella di sè. Il perdono da parte di chi ha subìto rimane il gesto con la più alta percentuale di grandezza: concentrarsi sull’amore, mettendo da parte per un po’ l’odio, riesce a fare di una storia qualsiasi quasi un anticipo d’eternità. Qualcuno ci riesce, e il suo riuscirci diventa un monito: “Perdonare è possibile!”. Per uno che ci riesce, nessuno potrà più dire che è impossibile riuscirci. Ci sono nomi e volti a disposizione: Agnese Moro, Benedetta Tobagi, Giovanni Bachelet, Gemma Calabresi. Non sempre il perdono dell’offeso segue il pentimento dell’offensore: certe volte addirittura lo precede! E, precedendolo, lo causa: un raddoppio di grandezza. Anche storie di segno opposto: di chi arranca, non ce la fa. Tra gli spalti e la pista c’è la realtà. La restituzione - Dio è la variabile x dei cristiani. La sua misericordia non cancella il passato ma allarga il futuro di chi ha sbagliato: “Ciò che hai fatto è ignobile: riparalo, se puoi! Nel frattempo, però, guarda me e non più il tuo peccato!”. Per un cristiano, dunque, il perdono è una restituzione: “Essere un cristiano significa perdonare l’imperdonabile: Dio ha perdonato l’imperdonabile in te” (CS Lewis). Quando un cristiano dice di non avere affatto bisogno del perdono di Dio, avrebbe bisogno del suo perdono proprio per vedersi assolto da questa sua bugia. Perdonarsi l’imperdonabile - Il perdono più difficile, comunque, resta quello che un uomo deve riuscir a trovare per sé: perdonarsi l’imperdonabile, dopo essersene resi conto, pare sia la sfida titanica in corso di svolgimento non soltanto dentro le patrie galere ma anche in pieno centro-pedonale della propria storia. Cambiano le dimensioni, le coordinate spazio-temporali: il principio no. Neanche la fatica di far pace con sè stessi per poi, magari, riuscire a fare pace con l’altro. Soprattutto in materia di perdono un conto sono i protocolli di sicurezza e, un altro è ritrovarsi in mezzo ad un’emergenza: è l’emergenza a metterti “spalle al muro”. Ma mentre ci si chiede se perdonare sia giusto oppure no, è indubbio che soltanto il perdono, e non la vendetta, faccia entrare un po’ d’aria fresca nel mondo. Anm: “Le toghe non sono in guerra con nessuno: la risposta non è confinarle nel loro recinto” di Davide Varì Il Dubbio, 13 marzo 2022 Riforme, il presidente Santalucia dice no alla “deriva” di “restaurazione da antico regime” per comprimere il ruolo dei magistrati. “Le pagelle? L’apporto utilissimo dell’Avvocatura non si realizza se si chiamano gli avvocati a votare”. “Il tema del recupero di credibilità della giurisdizione, della cui importanza nessuno dubita, deve essere affrontato guardando al nucleo delle questioni, costituito dalla resa del servizio, dalla risposta di giustizia, che deve eliminare o accorciare i ritardi e non deve essere condizionata dall’ossessione dei numeri e del carico di arretrato. Non va invece assecondato il proposito di ridurre l’azione riformatrice al disegno, più o meno espresso, di contenimento, di compressione del ruolo del magistrato sì come la Costituzione lo ha voluto”. A ribadirlo è il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, in apertura del lavori del comitato direttivo centrale. “Sotto l’egida di alcune parole d’ordine, quali valutazione della professionalità, regole meritocratiche e principio di responsabilità, si vorrebbe, almeno da qualcuno, introdurre una strutturazione gerarchizzata dell’assetto della magistratura, con l’intento di mettere in riga i magistrati - denuncia Santalucia - concentrare tutta la loro attenzione e tutte le loro energie sulle preoccupazioni di carriera, sui voti ottenuti e sperati in occasione delle valutazioni di professionalità, addirittura, ultime notizie giornalistiche, sui meccanismi di progressione economica della carriera”. “Se prevalesse questo disegno, che tradisce culture istituzionali sorpassate dalla Storia, le istanze di giustizia sarebbero messe da canto, il magistrato impiegatizzato penserebbe a se stesso, tratterebbe con egoistica sapienza i casi posti al suo esame, farebbe prevalere una logica produttivistica volta a definire le pratiche e non a cogliere, anche a costo di rallentare i ritmi dell’impiegato modello, la complessità che conforma la vicende di vita, il dolore e la sofferenza che spesso le attraversa quando il conflitto si struttura e interpella un giudice. I magistrati - chiosa il presidente Anm - sarebbero finalmente ricondotti nel loro recinto”. Santalucia: “La magistratura non è in guerra con nessuno” - “È da rifiutare l’idea che ci sia e ci sia stato un conflitto, una contrapposizione che evochi la guerra, realtà tragica che non andrebbe evocata a sproposito. La magistratura non è in guerra con nessuno, non lo è mai stata, non si impegna in conflitti e scontri, meno che mai con le altre Istituzioni”, sottolinea ancora Santalucia. Che quindi dice no alla “deriva” di “restaurazione da antico regime” alla quale “ci opponiamo con la forza delle idee, con la critica argomentata, con l’ostinata convinzione che l’assetto democratico della nostra comunità non possa pagare un prezzo così alto e irragionevole ai propositi di quanti coltivano l’idea di un annoso conflitto tra magistratura e politica, iniziato proprio trent’anni fa, da chiudersi con la sconfitta dei magistrati”, spiega Santalucia. “La sconfitta non sarebbe infatti dei magistrati ma della giurisdizione, della sua effettività nel quotidiano impegno per la tutela dei diritti e per l’efficacia del controllo di legalità”, sottolinea, evidenziando che “le rappresentazioni alterate, funzionali a narrazioni che non rendono giustizia alla realtà, ben più complessa e comunque refrattaria alle letture semplificate, giovano soltanto a rendere assai più disagevole un percorso riformatore che deve soddisfare attese di rafforzamento della giurisdizione, opposte a quel futuro di sicuro indebolimento che avvertiamo, ove alcune proposte diventassero legge, come un pericolo per la qualità della nostra democrazia”, ammonisce il presidente Anm. Riforma Csm, “preoccupazione per i tempi di approvazione” - “Ad oggi non è ancora disponibile il fascicolo dei subemendamenti agli emendamenti del Governo ma sappiamo che sono molti e molti si muovono nella direzione che abbiamo criticato. Il tempo scorre, alla preoccupazione per alcuni contenuti delle proposte si accompagna quella per i tempi di approvazione”, sottolinea Santalucia con riferimento ai 456 subemendamenti presentati dai gruppi in Commissione Giustizia alla Camera alla proposta del governo sulla riforma del Csm. “Non siamo contrari a che i magistrati siano valutati e che non ci vogliamo sottrarre alle giuste verifiche del nostro operato; non siamo pregiudizialmente ostili all’Avvocatura e all’accrescimento del suo ruolo all’interno dei Consigli giudiziari, e non vogliamo certo che le attuali situazioni di inefficienza siano mantenute. Gli obiettivi dichiarati della riforma sono condivisibili. E non è la magistratura associata ad opporsi alle riforme”, prosegue il leader dell’Anm sottolineando che “le nostre critiche si sono appuntate su alcuni aspetti della riforma, su alcune soluzioni che dovrebbero assicurare il risultato”. No alle pagelle dei magistrati - Quindi, secondo il leader dell’Anm, “il miglioramento del sistema di valutazioni periodiche non passa per l’introduzione dei voti da pagella, ma per l’arricchimento ed oggettivizzazione delle fonti di conoscenza; l’apporto utilissimo dell’Avvocatura non si realizza se si chiamano gli avvocati a votare, in costanza di esercizio della professione forense e quindi senza essere sospesi come avviene per il Csm, sull’operato del magistrato che il giorno prima hanno incontrato nell’aula giudiziaria o che incontreranno il giorno dopo, con una commistione di ruoli, di naturale contraddittore processuale e di valutatore di colui che ha rigettato una loro domanda, non ha accolto una loro tesi, o che ciò farà domani per dovere d’ufficio”. E ancora: “è controproducente - ha aggiunto - accrescere i vincoli di gerarchia interna agli uffici, aumentare il potere dei dirigenti degli uffici giudiziari, insomma, tracciare una strada che in modo anacronistico vorrebbe affidare a queste revisioni il bisogno di una maggiore professionalità dei magistrati”. Santalucia (Anm): “Intento di mettere in riga i magistrati è restaurazione da antico regime” adnkronos.com, 13 marzo 2022 “No riforme che ne comprimono ruolo per ricondurli nel loro recinto”. “È da rifiutare l’idea che ci sia e ci sia stato un conflitto, una contrapposizione che evochi la guerra, realtà tragica che non andrebbe evocata a sproposito. La magistratura non è in guerra con nessuno, non lo è mai stata, non si impegna in conflitti e scontri, meno che mai con le altre Istituzioni”. Lo sottolinea il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, nella sua relazione di apertura dei lavori del Comitato direttivo centrale, dicendo no a alla “deriva” alla “restaurazione da antico regime” alla quale “ci opponiamo con la forza delle idee, con la critica argomentata, con l’ostinata convinzione che l’assetto democratico della nostra comunità non possa pagare un prezzo così alto e irragionevole ai propositi di quanti coltivano l’idea di un annoso conflitto tra magistratura e politica, iniziato proprio trent’anni fa, da chiudersi con la sconfitta dei magistrati”, spiega. “Il tema del recupero di credibilità della giurisdizione, della cui importanza nessuno dubita, deve essere affrontato guardando al nucleo delle questioni - ammonisce il presidente Anm - costituito dalla resa del servizio, dalla risposta di giustizia, che deve eliminare o accorciare i ritardi e non deve essere condizionata dall’ossessione dei numeri e del carico di arretrato. Non va invece assecondato il proposito di ridurre l’azione riformatrice al disegno, più o meno espresso, di contenimento, di compressione del ruolo del magistrato sì come la Costituzione lo ha voluto”. “Sotto l’egida di alcune parole d’ordine, quali valutazione della professionalità, regole meritocratiche e principio di responsabilità, si vorrebbe, almeno da qualcuno, introdurre una strutturazione gerarchizzata dell’assetto della magistratura, con l’intento di mettere in riga i magistrati, concentrare tutta la loro attenzione e tutte le loro energie sulle preoccupazioni di carriera, sui voti ottenuti e sperati in occasione delle valutazioni di professionalità” denuncia Santalucia. “Se prevalesse questo disegno, che tradisce culture istituzionali sorpassate dalla Storia, le istanze di giustizia sarebbero messe da canto, il magistrato impiegatizzato penserebbe a se stesso, tratterebbe con egoistica sapienza i casi posti al suo esame, farebbe prevalere una logica produttivistica” e “i magistrati - conclude il presidente Anm - sarebbero finalmente ricondotti nel loro recinto”. Settemila giorni di inchieste e vite sospese di Viviana Lanza Il Riformista, 13 marzo 2022 Quanto può durare un’indagine? Non si contano le volte in cui si è sentito parlare di “ragionevole durata del procedimento”, una definizione che racchiude in poche parole il senso di una giustizia, ma anche quello di una giustizia che non c’è. Perché è proprio sui tempi della giustizia che il nostro Paese, e Napoli in particolare (considerando la mole di processi e di indagini che ci sono ogni anno in questo distretto giudiziario), detengono un triste primato. Si può arrivare ad attendere anni per una sentenza, e mica parliamo necessariamente di un verdetto definitivo, l’attesa è lunga, lunghissima, anche per una semplice sentenza di primo grado. Ci sono processi a Napoli che durano da dieci anni. Ma cosa accade durante la fase delle indagini? Per quanto tempo si resta sospesi all’esito dell’attività investigativa di un pubblico ministero? Anche questo è un settore della giustizia dove per anni lungaggini e faldoni su faldoni hanno reso i tempi dilatati e le attese estenuanti. Essere indagato vuol dire vivere sospeso in una bolla di incertezze, ancor di più se si è totalmente estranei ai fatti per i quali si è indagati. La nuova disciplina legale dell’avocazione ha comportato la necessita? di rafforzare il monitoraggio della durata delle indagini e il controllo del rischio di stasi non giustificate. Già, le stasi non giustificate. Quei faldoni lasciati negli armadietti in attesa di indizi o chissà. A Napoli un’indagine, per i reati più vari, può durare dai 73 ai 7.208 giorni, calcolando il periodo compreso tra la data di iscrizione del procedimento alla conclusione del pubblico ministero. I tempi variano anche a seconda della richiesta con cui il pubblico ministero conclude le indagini preliminari: azione penale o archiviazione. La Procura di Napoli, nel suo bilancio sociale, ha calcolato la durata delle indagini nell’ultimo anno. Certo, a seconda della tipologia di reato cambia anche la durata delle indagini. È facile intuire che ci sono reati per i quali le indagini sono più elaborate per via del numero di persone coinvolte o delle ipotesi di reato che gli inquirenti contestano. Ad ogni modo facciamo un esempio. Prendiamo come riferimento il reato di associazione a delinquere semplice e un’indagine a carico di persone note (nel 2021, per questo particolare reato, ne sono state definite quasi 883): l’inchiesta è durata in media 646 giorni quando la Procura ha concluso con una richiesta di rinvio a giudizio, 1.089,12 giorni nel caso di un’archiviazione nel merito, 2.887,32 giorni nel caso di un’archiviazione per prescrizione. Altro esempio. Prendiamo in considerazione un reato di pubblica amministrazione come l’abuso di ufficio. Nel 2021 i tempi che hanno scandito la durata e l’esito delle indagini, facendo la media dei 557 casi definiti nell’anno, sono stati questi: 470 giorni per concludere l’inchiesta con una richiesta di rinvio a giudizio, 535 per archiviarla nel merito, stabilendo quindi che non vi sono prove a carico dell’iniziale ipotesi accusatoria, e ben 7.208 giorni per archiviare per prescrizione. Significa che per tutto questo tempo un cittadino, destinato ad uscire dall’indagine senza accuse visto che l’esito sarà un’archiviazione, resta in attesa. Un’attesa che spesso genera drammi, traumi, gogne mediatiche e giudiziarie, stronca carriere, spezza famiglie, costringe a scelte che non si sarebbero mai fatte. Tenendo la lente su Napoli e sulla Procura partenopea, parliamo di un numero di indagini molto elevato. Nel 2021, solo a modello 21 e quindi per indagini a carico di persone note (escludendo quindi le indagini a carico di ignoti), si sono registrati 2.875 procedimenti sopraggiunti, 2.427 procedimenti iscritti, 2.979 definiti e, a fronte di una pendenza di 2.473 fascicoli, il 2021 si è chiuso con una pendenza di 1.743 procedimenti. Si tratta di migliaia di vite sospese. Interdittive antimafia, perché il gioco al massacro deve finire di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 13 marzo 2022 Le “interdittive antimafia” vanno annoverate tra quelle esclusività delle quali il nostro Paese ama fregiarsi, così compiendo ogni possibile sforzo per assomigliare sempre meno a un Paese civile. Di cosa si tratta? Sono provvedimenti amministrativi affidati alla discrezionalità dei Prefetti. Dunque, veri e propri strumenti polizieschi, con i quali un Prefetto è in grado letteralmente di espropriare, sterilizzare e quindi uccidere una azienda, sulla base del solo sospetto che essa possa essere “infiltrata dalla Mafia”. Essendo una misura di polizia, essa è dunque di natura “preventiva”, “anticipatoria”, “cautelare”; insomma, essa non presuppone un accertamento di responsabilità penale pronunciata da un giudice, e nemmeno un quadro di gravità indiziaria. La valutazione del Prefetto è legata al criterio cosiddetto della “probabilità cruciale”. Quando leggete queste locuzioni incomprensibili, dovreste aver già capito di quale incivile, assurdità si stia parlando. Basta - dice la giurisprudenza amministrativa- che la infiltrazione mafiosa sia “più probabile che non”, per spalancare al Prefetto le porte di un potere immenso e devastante. Quella azienda, piccola o grande che sia, viene inibita da ogni possibile contratto con la Pubblica Amministrazione. Inoltre, viene esclusa dalla “white list” delle aziende immacolate, e dunque non potrà più partecipare a gare pubbliche, non potrà avere licenze o autorizzazioni amministrative di qualunque genere; eventuali contratti già stipulati sono risolti per recesso, autorizzazioni e concessioni sono revocate; e, dulcis in fundo, verrà automaticamente esclusa da ogni accesso al credito bancario. Insomma, l’azienda è morta. Volete un esempio di cosa significhi quel “più probabile che non”? Eccovelo: se l’azienda è posseduta da persone per bene, amministrata da persone per bene, ha sempre operato correttamente dal punto di vista fiscale, ma tra i suoi dipendenti annovera il nipote di un tizio accusato di essere un boss mafioso, ecco che l’infiltrazione mafiosa è “più probabile che non”. Voi comprendete bene il risultato di questa aberrazione: interi settori della vita economica del Paese, soprattutto (ma ormai non solo) in territori ad alta intensità mafiosa, sono nelle mani dei Prefetti di Polizia, che esercitano un potere di vita o di morte sulle imprese in nome di sospetti di infiltrazione mafiosa “più probabili che non” . Il Consiglio di Stato (n.4483/2017), chiamato a dare un criterio possibilmente oggettivo di questa formuletta infame, ha precisato: “50% +1”; ora sì che siamo tranquilli. Il provvedimento prefettizio è ricorribile davanti alla giustizia amministrativa, con il risultato che le conferme, in tutta Italia e poi in Consiglio di Stato, sono superiori al 90% dei ricorsi. Contro questa vergogna senza fine pochi osano battersi, a livello politico, perché in questo Paese se ti azzardi a sollevare anche solo obiezioni a qualunque cosa sia qualificata come “antimafia”, sei marchiato di infamia. Ci ha provato il senatore Carlo Giovanardi, che si è molto dedicato al problema, raccogliendo le grida di dolore di tanti sventurati operatori economici catturati e strangolati dalla trappola del “più probabile che non”, e mal gliene incolse. Avendo ripetuto in una serie di iniziative pubbliche (conferenze stampa) le denunce già fatte oggetto delle sue iniziative parlamentari, si è trovato indagato e poi imputato di ogni nequizia: minacce volte a turbare le attività di un corpo Amministrativo (cioè il Prefetto di Modena ed il gruppo interforze istituito dal Ministro degli Interni) ed a “costringerli” a modificare la valutazione (“più probabile che non”) riferita a una sventurata azienda gestita da persone per bene; nonché oltraggio a Pubblico Ufficiale (sempre il Prefetto, immagino). Giovanardi ha eccepito l’insindacabilità delle sue iniziative di parlamentare, ma pm e Tribunale non ne hanno voluto sapere. Quindi il Senato ha ribadito la insindacabilità, e il Tribunale di Modena, tetragono, ha sollevato conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale. Vediamo se almeno qualche brandello dell’art. 68 della Costituzione verrà fatto salvo dalla Consulta. Intanto, siete tutti avvisati. Se qualche persona a voi cara si è vista spazzare via dalla mattina alla sera la propria attività economica, la propria azienda, perché secondo il Prefetto il sospetto di infiltrazione mafiosa, essendo la cassiera del ristorante la cugina del figlio di don Ciccio Vattelapesca, è “più probabile che non”, guardatevi bene dal protestare pubblicamente contro una simile infamia. Se rischia di lasciarci le penne un parlamentare di lungo corso, diciamo che, per chiunque di noi, è almeno “più probabile che non”. Torino. Mauro Palma: “Da Cartabia impulso a chiudere il reparto filtro” di Gabriele Guccione Corriere di Torino, 13 marzo 2022 “Fin dal 2017 il Garante nazionale chiede la sua chiusura senza che le autorità penitenziarie e sanitarie abbiano adottato azioni risolutive. Il Garante auspica che l’intervento della Ministra dia un chiaro impulso per la chiusura del reparto”. Così, su Twitter, l’autorità Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, in merito alla visita del ministro Marta Cartabia al carcere di Torino, dove ha vistato anche il cosiddetto reparto “filtro”. “Ho visto un reparto “A” inguardabile per la disumanità, tanto per le condizioni in cui deve operare la polizia penitenziaria quanto per quelle in cui si trovano i detenuti - ha detto ieri il Guardasigilli al termine della visita -. Ma ho anche visto il volto di un ragazzo che il 30 marzo si laurea dopo aver svolto un percorso di studio proprio all’interno del carcere. La speranza è allargare lo sguardo per vedere gli aspetti positivi”, ha detto la Guardasigilli, che al termine della visita si è detta “fiduciosa nonostante tutto che il carcere possa diventare ciò che la Costituzione prevede”. agenti di polizia municipale) e alla cultura (17 in tutto tra responsabili e aiuto bibliotecari). Un capitolo a parte riguarda i rinforzi che Palazzo Civico conta di chiamare per dare braccia e gambe ai progetti del Pnrr: in vista dei finanziamenti in arrivo, è stato ideato un programma speciale (“1000 giovani talenti in Comune”) che nel 2022 permetterà di reclutare 300 funzionari under 32 con contratti di formazione, da mettere a lavoro sui cantieri che verranno aperti grazie ai fondi europei. Rimpiazzati i ranghi impiegatizi, la giunta Lo Russo conta di rafforzare anche i posti di comando. Il piano prevede l’assunzione di 27 dirigenti, dopo che la loro pianta organica è ormai ridotta della metà e quest’anno sono previsti altri 10 pensionamenti. Saranno banditi dei concorsi pubblici a tempo indeterminato, ma nell’attesa l’esecutivo comunale ha scelto di assumere altri 6 cosiddetti “bassanini” (dopo i 3 già presi a dicembre per il Pnrr, gli appalti e il gabinetto del sindaco), e cioè dirigenti a tempo determinato o dedicati a progetti speciali con uno stipendio loro di 64 mila euro. Tre di loro si occuperanno di tributi, protezione civile e lavoro; gli altri tre del nuovo piano regolatore, dell’igiene urbana e dei grandi eventi. Roma. Per i pasti di un detenuto 2,39 euro al giorno, per uno scimpanzé dello zoo il triplo di Luisa Monforte Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2022 Gli affari dei fornitori con gli appalti. La Garante dei detenuti Gabriella Stramaccioni, si è rivolta alla Corte dei conti per chiedere una verifica sulle gare per l’affidamento del servizio mensa delle carceri. Che vengono assegnate al massimo ribasso e, soprattutto, alle stesse ditte che gestiscono il cosiddetto “sopravvitto” negli spacci interni ai penitenziari, dove i detenuti comprano alimentari a proprie spese: così non c’è alcun interesse a fornire un servizio decente. “Con 2,39 euro al giorno non si può dare altro che brodaglie e robaccia”, dice Stramaccioni. E i giudici contabili invitano il Dap a “diversificare le procedure” tra i due bandi. 2,39 euro al giorno per i pasti dei detenuti e 7,50 euro per quelli di uno scimpanzé del giardino zoologico. Una situazione che non riguarda solo la Capitale ma tutto il Lazio, e anche Abruzzo e Molise, territori che appartengono allo stesso Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap). A fare il confronto tra il peso sulle casse pubbliche tra i pasti di un uomo e quelli di uno scimpanzé è stata la Garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni, che ha presentato denuncia alla Corte dei conti per chiedere una verifica sul sistema delle gare d’appalto legate al servizio di vitto nelle carceri. La legge, infatti, stabilisce che il servizio mensa negli istituti penitenziari vada messo a gara. Le ultime tabelle del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, hanno fissato come base di appalto un costo di 5,70 euro al giorno per la fornitura di colazione, pranzo e cena. Nel Lazio l’impresa vincitrice, due anni fa, si è aggiudicata il servizio con un ribasso del 58%, quindi a oggi offre tre pasti al giorno al costo di 2,39 euro a detenuto. Salvo poi vendere a prezzi fuori mercato prodotti alimentari negli istituti ai detenuti che ne fanno richiesta, il cosiddetto sopravvitto: già, perché gli spacci interni alle carceri, da oltre novant’anni, nel Lazio come in Abruzzo e in Molise sono gestiti dalle stesse ditte che forniscono il vitto. Che quindi non hanno alcun interesse a erogare un servizio decente. Più scarsa è la quantità e la qualità dei pasti standard, infatti, tanto più sono d’oro gli affari che le imprese fanno con il sopravvitto, che solo nel carcere di Rebibbia a Roma frutta ben dieci milioni di euro l’anno. “Con 2,39 euro al giorno per sfamare un detenuto sui settanta chili non si può dare altro che brodaglie e robaccia, se per uno scimpanzé dello stesso peso ci vogliono 7,5 euro”, racconta Stramaccioni. “I detenuti lamentano in continuazione la scarsa qualità e la carenza del cibo. Motivo per cui poi si rivolgono alla ditta, che è sempre la stessa, per avere merce a pagamento negli spacci”, aggiunge. E i prodotti vengono venduti a caro prezzo. “La carne va a 21 euro al chilo ma si tratta di rimasugli, salsicce piene di grasso e imbottite di coloranti viola. Una manciata di pomodorini può costare anche 4,5 euro. I detenuti che si mettono di traverso o protestano vengono trasferiti”, racconta la Garante. Con una delibera del settembre del 2021 anche la Corte dei conti - a seguito della denuncia presentata da Stramaccioni - ha preso atto della situazione e sottolineato che “l’istruttoria ha portato all’emersione di profili di illegittimità a monte” delle procedure di gara, ricordando che “già in altra occasione, questa Corte ha rilevato aspetti di criticità negli accordi quadro per tali forniture”. I giudici contabili quindi hanno invitato il Provveditorato “a valutare, nella prospettiva della predisposizione dei futuri bandi, l’opzione di diversificare le procedure tra i due servizi oggetto dell’attuale accordo”: in breve a distinguere l’affidatario del servizio mensa da quello che gestisce lo spaccio alimentare interno all’istituto. Da allora la gara è stata rifatta e gli esiti sono attesi a giorni. Intanto il servizio è andato in proroga e nel frattempo i costi la collettività li ha sostenuti due volte: da un lato ci sono le casse pubbliche che erogano poco più di 70 euro mensili per i pasti di ciascun recluso, dall’altro lato gli stessi detenuti che onorano il prezzo della permanenza in carcere. “In pratica i detenuti si pagano da soli il vitto”, spiega Stramaccioni. Per stare in carcere ciascun detenuto nel Lazio sostiene un costo di 120 euro al mese. Se hanno una busta paga, perché sono inseriti in un programma di lavoro in carcere, la somma viene trattenuta; in alternativa quando escono dall’istituto penitenziario si portano dietro un debito di giustizia da onorare”. Caltagirone (Ct). 60enne ucciso in carcere, analisi di laboratorio su tracce ematiche e campioni di Rosario Cauchi quotidianodigela.it, 13 marzo 2022 Sono in corso diversi accertamenti di laboratorio su tracce ematiche e campioni biologici, prelevati dal corpo del sessantenne Paolo Costarelli. Il sessantenne, lo scorso dicembre, era stato trovato senza vita, all’interno della sua cella, nel carcere di Caltagirone. Il quarantaquattrenne calabrese Salvatore Moio, che con lui condivideva la cella, ha confessato l’omicidio. Costarelli, che era detenuto per scontare una pena definitiva, con l’accusa di maltrattamenti, sarebbe stato strangolato con lacci per scarpe. Moio, davanti al gip, ha parlato di una violenta lite, al culmine della quale avrebbe soffocato il gelese. I pm della procura di Caltagirone, che seguono le indagini, hanno disposto non solo l’autopsia ma anche i successivi accertamenti di laboratorio. Pare che rimangano sotto sequestro anche i lacci, usati da Moio per uccidere Costarellli, che sembra presentasse ulteriori segni di violenza. I familiari vogliono capire come sia stato possibile arrivare ad un epilogo tragico, all’interno di una struttura penitenziaria. Nel carcere calatino si sono verificati precedenti analoghi. Le indagini sono in corso e dagli accertamenti sul corpo e sui campioni biologici potrebbero emergere ulteriori elementi, utili agli inquirenti. Il quarantaquattrenne ha confessato, sostenendo che l’omicidio si sarebbe verificato due giorni prima del ritrovamento del cadavere, da parte degli agenti della penitenziaria. Moio era già detenuto per scontare una condanna definitiva, proprio per omicidio. Uccise il suocero. Il gip ha convalidato l’arresto del reo confesso, in attesa della chiusura delle indagini. I legali che rappresentano i familiari della vittima hanno nominato propri consulenti di parte, per seguire le operazioni di analisi e di laboratorio, oltre agli accertamenti sul corpo di Costarelli. I familiari sono rappresentati dai legali Vittorio Giardino, Giuseppe Cascino e Giuseppe Smecca. Paliano (Fr). Inaugurati i laboratori di cucina nella casa di reclusione frosinonetoday.it, 13 marzo 2022 Questo è uno dei diversi progetti proposti e attuati nella struttura che mirano ad avere una ricaduta positiva sulla formazione professionale dei detenuti e sulle prospettive occupazionali. Venerdì 11 marzo, il Sindaco Domenico Alfieri è intervenuto all’inaugurazione dei nuovi laboratori di cucina presso la Casa di Reclusione di Paliano, uno dei diversi progetti proposti e attuati nella struttura che mirano ad avere una ricaduta positiva sulla formazione professionale dei detenuti e sulle prospettive occupazionali. “Sono stato molto lieto di partecipare all’inaugurazione di questi locali allestiti all’interno della struttura grazie all’impegno dei detenuti stessi. Ringrazio la dottoressa Angeletti per essersi fatta promotrice dell’ennesima iniziativa volta a responsabilizzare la popolazione carceraria e garantire alla stessa un solido percorso di riabilitazione attraverso il lavoro, incoraggiando lo sviluppo di nuove capacità e competenze”. Queste le parole del Sindaco Alfieri. Pisa. “La mia pena è quasi finita, ma ho paura di uscire. Il mio incubo è la solitudine” di Pietro Barghigiani Il Tirreno, 13 marzo 2022 Vito e la lettera dal carcere. La storia di un 69enne condannato per duplice omicidio e in cella da vent’anni. “Sono invalido, ho perso casa e famiglia”. La parola pentimento non appartiene al suo vocabolario. Se si vuole dare un senso alla coerenza, nel rispetto di chi non c’è più, Vito Taddeo resta ancorato alle posizioni di vent’anni fa. “Ho sparato perché mi avevano aggredito”, è un punto fermo mai scalfito neanche durante la detenzione. Ma quello è il passato scandito da una reclusione impeccabile che ora è giunta al termine. Siamo al fine pena per Taddeo, 69 anni, originario della provincia di Potenza, all’epoca dei fatti residente a San Romano. Condannato a 27 anni per duplice omicidio, l’uomo il 12 maggio uscirà dal carcere Don Bosco. Un traguardo raggiunto in anticipo rispetto alla sentenza tra indulto e liberazione anticipata. Uscirà a meno di 20 anni dagli omicidi che hanno portato lui in carcere e distrutto due famiglie, quelle delle vittime, i fratelli albanesi. Taddeo ora diventa uno di quei detenuti che rischiano di trovare una solitudine assoluta fuori dal carcere. In una lettera al Tirreno affida il suo timore che è anche un appello per trovare una sistemazione. “Sono stato condannato a 27 anni di reclusione, ritengo ingiustamente perché aggredito in casa propria da una moltitudine (circa 15) di cittadini albanesi ubriachi. Alla prima aggressione non ho reagito, ma alla seconda, dopo circa 30 minuti dalla prima, trovandomi sulle scale di casa mia con mio figlio quattordicenne dietro di me, vedendo nuovamente correre per aggredirmi un gran numero di persone, impossibilitato a sottrarmi alla loro aggressione, per difendermi, ho sparato verso queste persone uccidendone due”. Era la sera del 14 luglio 2002 a San Romano - “Non mi è rimasto più niente, ho 69 anni sono invalido al 75%, percepisco una pensione di 400 euro al mese - aggiunge - . Sono stato abbandonato dalla mia famiglia, mi è stata tolta la casa di proprietà che è stata venduta all’asta per il risarcimento alle famiglie delle vittime. Il mio fine pena è piuttosto prossimo. Non ho più dove andare. Mi sono rivolto agli educatori del carcere che si dovrebbero occupare di reinserire le persone nella società, ma la parola “reinserimento” è solo una parola vuota e priva di interesse. Si fa veramente poco per aiutare chi esce dal carcere a reinserirsi nella società”. Il futuro uomo libero Vito Taddeo ha scritto al sindaco di Pisa chiedendo un aiuto per un alloggio “ma non mi ha risposto” dice. “Ho chiesto aiuto al direttore del carcere e anche con una e-mail pec del mio legale, del 4 dicembre 2020 al Comune di Montopoli per un alloggio, ma sempre senza alcuna risposta - ripete. Non so più a chi rivolgermi. Non so cosa potrebbe succedere e cosa dovrò fare per sopravvivere. Chiedo il vostro intervento per sensibilizzare qualcuno ad aiutarmi, visto che non ho un alloggio e non voglio restare a dormire in una panchina. Il mio debito con la giustizia e con le vittime l’ho pagato. Sono ormai vecchio, invalido, chiedo solo un aiuto per poter vivere serenamente il resto della mia vita con dignità”. Un messaggio lanciato da una cella del Don Bosco in attesa di riacquistare una libertà ricca di incognite. Milano. Due detenuti del carcere di Bollate scritturati da una casa discografica primamilanoovest.it, 13 marzo 2022 Il produttore Demetrio Sartorio è entrato nel carcere di Bollate in cerca di talenti. E li ha trovati: si fanno chiamare Boomber e Ice, due detenuti del settimo reparto, che hanno firmato un vero contratto discografico per i prossimi cinque anni. La casa discografica “Peached label” - “Peached label”, così si chiama la casa discografica del carcere di Bollate, è un’idea sorta anni fa e che solo nell’ultimo periodo è maturata e finalmente concretizzata: “Ho un amico che per uno sbaglio gravissimo ed è stato condannato alla detenzione - ha raccontato Demetrio - Non mi andava di rimanere a guardare. Volevo fare qualcosa per aiutare le persone come lui”. E’ così che ha deciso di mettere a disposizione dei detenuti le sue conoscenze e il suo talento musicale. Boomer e Ice, i due detenuti-cantanti - “Ho fatto ingresso nel carcere e mi sono reso conto che a tantissimi piace suonare, cantare, scrivere - ha continuato - Praticamente tutti strimpellano nella propria cella”. Tra questi, Boomber e Ice. Di loro non si può rivelare l’identità, ma la cosa certa è che hanno una storia da raccontare: “Boomer appena l’ho incontrato mi ha mostrato una poesia che aveva scritto, Il coraggio di morire, che è il manifesto di tutto questo progetto, dove lui racconta della sua vita da quando ha 11 anni ad oggi - ha spiegato il produttore - Ice, invece, è giovane, e abbraccia il mondo del trap. Credo che non abbia nulla da invidiare ai cantanti che sentiamo in radio ogni giorno”. Una cella trasformata in sala d’incisione - L’entusiasmo ha preso il sopravvento e una cella si è trasformata in sala d’incisione: “Abbiamo creato una zona con attrezzature all’avanguardia, tutto il necessario per incidere dei prodotti musicali molto forti”. Per loro, infatti, Demetrio ha grandi progetti: “Non li sto trattando come categorie protette, ma come artisti che hanno una vera storia da raccontare e, perché no, anche con l’intento di sensibilizzare”. “Non tutti sanno”. Il laboratorio di scrittura di suor Emma a Rebibbia di Alessandro Trentin L’Osservatore Romano, 13 marzo 2022 I detenuti “escono” da Rebibbia con la pubblicazione dei loro scritti. “Finalmente sono riuscito a perdonarmi”: sono le parole rivolte da un detenuto del carcere di Rebibbia a suor Emma Zordan che da otto anni offre assistenza volontaria alle persone accolte nel più grande penitenziario di Roma. La Casa di reclusione di Roma Rebibbia è uno dei quattro istituti penitenziari che costituiscono il Polo penitenziario di Rebibbia. La Casa di reclusione (fino al 1975 denominata Casa Penale) è stata attivata nel 1946. In essa sono accolti detenuti appartenenti a diverse tipologie, quali detenuti comuni a regime ordinario in esecuzione di condanna definitiva, detenuti minorati psichici e detenuti ammessi al lavoro all’esterno. La religiosa delle Adoratrici del sangue di Cristo ricorda spesso con commozione quelle poche parole del detenuto perché sottolineano il profondo dramma vissuto da coloro che hanno violato la legge e spesso anche le vite umane, ma che sono riusciti a intraprendere e a concludere un percorso di maturazione interiore aiutati soprattutto dalla fede. “Quella persona, che ho conosciuto molto tempo fa, ha pronunciato quella frase rivolgendo il dito della sua mano verso l’alto - osserva la suora - indicando la presenza di Dio e la sua riconciliazione con se stesso grazie alla fede e la ricordo sempre, perché in quelle parole vi è tutto il significato della mia missione. Spesso di fronte a questi detenuti e al loro profondo sentimento avverto il bisogno di inginocchiarmi”. La sua missione è proprio quella di aiutare i detenuti a non lasciarsi travolgere dal proprio passato e di trovare stimoli per superare le difficoltà dell’emarginazione sociale. Uno strumento, in particolare, sta riscuotendo un riscontro sempre più positivo, quello della scrittura. Infatti è stato creato un “laboratorio di scrittura” che viene utilizzato per raccogliere e redigere le testimonianze offerte dai detenuti che trovano poi spazio nella pubblicazione. Queste testimonianze vengono in pratica raccolte in libri che vengono diffusi per far conoscere all’esterno non soltanto la dura realtà materiale della vita in carcere ma anche l’aspetto interiore delle persone: sono ricordi, riflessioni, intrisi di dolore ma anche di speranza di riscatto. Sì perché è proprio l’assenza di libertà, la lontananza dalle famiglie e lo stigma della condanna con la diffidenza della società e rendere queste pagine di testimonianza cariche di sentimenti e strumento per far superare “all’esterno delle mura” soprattutto i pregiudizi. Finora il “laboratorio” ha prodotto sei raccolte di testimonianze. L’ultima a essere pubblicata reca il titolo “Non tutti sanno” e colleziona racconti di detenuti elaborati durante il periodo del lockdown legato alla pandemia da covid. “Durante questo periodo racconta suor Emma neppure i famigliari potevano far visita nel carcere ai loro cari. L’unica persona con cui i detenuti hanno potuto conservare rapporti sono stata io. Oltre a contribuire a vari altri bisogni, ho potuto soprattutto dialogare con loro e cogliere l’occasione di mettere su carta queste conversazioni. Mi è stato consentito di colloquiare con i detenuti attraverso dei plexiglas trasparenti. In quei momenti ero anche l’unica far da tramite con le famiglie e, per questo, nel libro vi sono anche contributi di famigliari di reclusi”. La tenacia della religiosa ha consentito nel tempo di sviluppare il “laboratorio” e di promuoverne l’attività all’esterno. Tante sono le novità in corso a iniziare dalla struttura. Nel carcere è stato recentemente ricavato uno spazio adeguato per radunare le persone e sono arrivati anche nuovi supporti, come per esempio stampanti e computer acquistati grazie a offerte. In programma vi sono anche presentazioni pubbliche dell’attività cui partecipano rappresentanti di varie istituzioni. Inoltre è stato creato un “giornalino” che verrà diffuso all’esterno allo scopo di far conoscere la realtà carceraria. “Prima di me - ricorda la religiosa - all’interno sempre di Rebibbia operava un’altra consorella dell’ordine delle Canossiane e anch’essa aveva promosso la scrittura quale strumento di riscatto; io ho pensato di perfezionare l’iniziativa rendendola strutturale e affinandola dal punto di vista stilistico in previsione di una vera e propria opera di pubblicazione affinché queste riflessioni dei detenuti possano essere divulgate il più possibile e mantenere nel tempo il loro valore”. Ogni giorno la religiosa varca il portone d’ingresso dell’istituto penitenziario. Emma è oramai avvertita come un’amica, una presenza che infonde serenità nella cupa atmosfera delle celle. “Molti detenuti sanno che ci sono sempre per qualsiasi necessità - osserva - a me affidano i loro sentimenti più profondi. Molti hanno anche ucciso, hanno sempre il sangue delle vittime davanti i loro occhi e non potranno mai dimenticarlo e sanno che la società non perdona; tuttavia, cercano qualsiasi strada per tentare una riconciliazione, ma la prima è soprattutto quella della riconciliazione con se stessi tramite il rapporto con la fede e il contatto umano”. In una di queste riflessioni pubblicate un detenuto ha scritto: “Dico a coloro che non sanno riconoscere il dolore che esiste in ognun di noi, che forse ce lo meritiamo, forse è necessario per pagare i nostri sbagli. Ma anche se fosse solo per questo, non giudicateci a priori. Siamo persone del vostro mondo e abbiamo l’anima che si illumina quando riceviamo una vostra carezza d’amore”. In una raccolta di scritti vengono sottolineate le parole di Papa Francesco nel discorso rivolto al personale del carcere romano di Regina Coeli, ricevuto in udienza il 21 giugno 2021: “Nessuno può condannare l’altro per gli errori che ha commesso, né tantomeno infliggere sofferenze offendendo la loro dignità umana”. “Non dobbiamo dimenticare - sono sempre le parole del Pontefice - che molti detenuti sono povera gente, non hanno riferimenti, non hanno sicurezze, famiglia, mezzi per difendere i propri diritti, sono emarginati e abbandonati al loro destino. Per la società i detenuti sono individui scomodi, sono uno scarto, un peso”. Suor Emma conclude che in carcere quello che si cerca è soprattutto un contatto umano: “Io dò loro voce attraverso gli scritti e tramite questa missione posso dire che il carcere ha cambiato anche me, ed è diventato una scuola di vita”. Le “Isole-carcere”, in tutto il mondo mare e muri per relegare le persone recensione di Luca Liverani Avvenire, 13 marzo 2022 Ventotene e Santo Stefano, Alcatraz negli Usa, l’Isola Calva degli oppositori di Tito. L’originale studio di Valerio Calzolaio pubblicato dal Gruppo Abele. Oggi Lampedusa e Lesbo, limbo dei profughi. “Isolare”. Per definire l’azione di separare, allontanare, impedire le comunicazioni è stato creato un verbo che deriva da “isola”. Sì, perché da millenni - in tutti i continenti e in tutte le culture - le piccole porzioni di terraferma circondate dal mare sono state scelte per costringere in un luogo le persone sgradite. Come i romani che usavano la relegatio e la deportatio in insulam. E per avere l’assoluta certezza di tenerle recluse, alla recinzione del mare sono stati via via aggiunti muri e sbarre. Oggi sono almeno 270 le isole-carcere nel mondo, un terzo ancora aperte, per detenuti comuni, oppositori politici, prigionieri di guerra. In Italia c’è il penitenziario borbonico di Santo Stefano, che ospito l’antifascista Sandrò Pertini, dependance penale di Ventotene, già di suo un’isola di confino. Ma anche l’Asinara e Favignana. In California poi c’è Alcatraz, che in spagnolo antico signfica pellicano. In Croazia Goli Otok, l’Isola Calva per gli oppositori di Tito. E ancora in Florida l’ex forte di Garden Key. O Hashima in Giappone, per i soldati cinesi e coreani. Un universo particolare, radiografato e raccontato per la prima volta in Italia dalla ricerca pluridecennale di Valerio Calzolaio confluita nel volume “Isole Carcere. Geografia e Storia”, pubblicato dalle edizioni Gruppo Abele. Lo studio si inserisce nel percorso di memoria e di recupero dell’ex carcere di Santo Stefano: un progetto di recente intitolato a David Sassoli, vista la vocazione europeista della prospiciente isola di Ventotene, culla del Manifesto di Altiero Spinelli. Il volume, presentato al Palazzo delle Esposizioni di Roma, offre un’ampia analisi delle isole carcere nel mondo. Tra queste, 22 sono approfondite in apposite schede dedicate, tra i quali appunto l’ex carcere borbonico di Santo Stefano di Ventotene che, come scrive l’autore, “rappresenta un “unicum” tra le oltre 270 isole da me prese in esame in oltre 25 anni di raccolta di dati”. La narrazione si sviluppa su registri che incrociano il terreno socio-culturale, oltre che geografico e storico. Per Silvia Costa, Commissario di governo per il progetto di recupero di Santo Stefano, “è una inedita ricerca che consente una ricostruzione della insularità legata all’esilio e alla detenzione nel mondo e nel Mediterraneo. E Ventotene e Santo Stefano sono luoghi emblematici per ripercorrere una narrazione che va dall’esilio alla relegatio in insulam di epoca romana, iniziata con Giulia, figlia di Augusto, alla detenzione politica, all’ergastolo, al confino, fino alla concezione costituzionale della pena, rieducativa e non come vendetta sociale”. Una rivoluzione penale avviata già negli anni ‘50 dal direttore del carcere di Santo Stefano Antonio Perucatti, cattolico illuminato. Don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele, parte dall’”isolamento forzato del lockdown” per dire che “questo libro può essere letto come una suggestiva metafora: il primo carcere siamo noi stessi, quando diventiamo isole. cediamo all’egoismo e alla competizione, ci arrocchiamo dentro identità fasulle. L’io è un’isola-carcere dalla quale è fondamentale evadere, per tornare alla meraviglia dell’incontro con gli altri”. Per don Ciotti “il carcere oggi dovrebbe essere l’extrema ratio cui preferire le pene alternative, oggi ancora poco applicate. Per i migranti detenuti senza affetti né legami è difficile usufruire di permessi e formule diverse dalla detenzione. Così il carcere è ancora un tappeto sotto cui si nascondono tanti problemi sociali”. Proprio i migranti sono loro malgrado protagonisti di una pagina particolare della storia delle isole carcere. Valerio Calzolaio cita Lampedusa, Lesbo e le isole australiane - come fu Ellis island a New York - che diventano un limbo per concentrare i profughi. Giancarlo De Cataldo, magistrato e scrittore, ce l’ha con quelli che chiama “i “pasdaran della pena”, che invocano la detenzione come una panacea. Da laico devo dire che c’è una sola forza, la Chiesa, che da sempre è stata per la rieducazione e le pene alternative, specie per le condannate con bambini piccoli”. Anthony Santilli, responsabile del Centro documentazione del confino e detenzione del Comune di Ventotene, sottolinea che “il rapporto tra insularità e relegazione nel mondo testimonia un’esigenza che il potere ha sempre mostrato sin dai tempi più antichi: quella di allontanare soggetti giudicati indesiderati e pericolosi non solo dalle società ma anche dalla vista”. Anche le parole sono migranti al seguito di popoli dispersi di Eugenio Giannetta Avvenire, 13 marzo 2022 Ogni esodo lascia cicatrici. Nella narrazione di Tawfik cinque naufraghi arrivano a Lampedusa patendo fame, malattie e carceri; la lontananza invece lega sedici racconti di autori latino-americani. Migrare è una parola che ha origine dal latino e viene così definita da Treccani: “Lasciare il luogo di origine per stanziarsi, anche solo temporaneamente, altrove”. Una descrizione che non lascia molto spazio all’immaginazione, se non nella meta di destinazione: un generico altrove, punto di appiglio nel mondo. In una narrazione, quella sulla migrazione, che è molteplice e sfaccettata - ci sono migranti economici, climatici, sfollati, profughi, ognuno con una precisa declinazione - riportiamo qui qualche numero estrapolato dal XXVII Rapporto sulle migrazioni 2021 (organizzato l’11 febbraio scorso da Fondazione Ismu), per provare a dare, senza interpretazione alcuna, una piccola porzione di quello che è l’ordine numerico del fenomeno, almeno in Italia: “Gli sbarchi sulle coste italiane nel 2020 sono stati oltre 34mila, circa il triplo di quanti registrati nel 2019. Nel 2021 gli sbarchi sono quasi raddoppiati per un totale di 67.040. Nel 2020 le richieste d’asilo sono state 26.963, mentre il dato preliminare relativo al 2021 è di 56.388 domande. Nella seconda metà del 2021 si assiste a una forte crescita delle richieste di protezione di afghani: a fronte delle circa 600 domande annue nel biennio 2019-2020, le domande presentate nel 2021, anche a seguito dei ponti aerei da Kabul di fine agosto, sono 6.445 (+889%)”. C’è chi arriva da terra e chi - come i protagonisti dell’ultimo libro di Younis Tawfik, iracheno di nascita e tra i maggiori esperti di medioriente e cultura araba in Italia - via mare, atto finale di un viaggio verso un altrove che è quasi sempre ricerca di salvezza: “Il mare è un mostro. È malvagio. Un polpo con tentacoli senza fine. Un’affascinante bestia mitologica con la pelle liscia e morbida come seta. Ti avvolge dolcemente, ma ti divora quando è arrabbiata. È un essere senza pietà”. Ne La sponda dell’inferno (pagine 288, euro 18), in libreria per Oligo editore, Tawfik parla di immigrazione e dà voce al variegato mondo dei migranti che ogni giorno rischiano la vita nel Mediterraneo, e lo fa attraverso il racconto di cinque vite di superstiti di un naufragio al largo della Libia che si incontrano a Lampedusa. Quattro uomini e una donna da diversi paesi dell’Africa, che si sono conosciuti in un centro di detenzione e insieme rischiano di morire sotto i colpi di fame, malattie e carcerieri. Il libro di Tawfik è la testimonianza di una verità straziante, un racconto di viaggi disperati e vite perdute: “Lampedusa, la terra della salvezza e della speranza. L’isola dove si aggrappano i sopravvissuti per ritrovare la vita sfuggendo alla morte. Il sogno infranto sotto i colpi delle onde e l’ammasso di corpi martoriati sopra le rocce. La meta per i miserabili, i mansueti, che fuggono da loro stessi per riconciliarsi con il mondo”. Oltre le sponde è perciò punto di partenza, non di arrivo, e “se la morte ha un suono, esso è quello della mia anima”. Poi ci sono altri migranti, in questo caso autori e non personaggi: dal versante ispanoamericano è infatti appena arrivato in libreria per le edizioni gran vía - nella collana dédalos, dedicata alla narrativa breve - Lejos. Sedici racconti dal Perù (pagine 294, euro 16), a cura di Maria Cristina Secci, professore all’Università di Cagliari. Accanto a nomi più noti ai lettori italiani, come Santiago Roncagliolo e Gabriela Wiener, gran vía qui propone una selezione di giovani scrittrici e scrittori (alcuni inediti in Italia) come María José Caro, Juan Manuel Robles e Claudia Ulloa Donoso, selezionati nel 2017 per Bogotá 39, che riunisce i 39 migliori scrittori latinoamericani sotto i 39 anni. Oltre al dato generazionale (tutti nati tra gli anni 70 e 80), ad accomunarli è la loro condizione di lontananza - e dunque lejos - dal Perù: la costante è quella di essere tutti, con rarissime eccezioni, autori migranti o figli di migranti, ma anche protagonisti della diaspora interna del proprio paese o di ritorno dopo esperienze all’estero. Il corpo, in certe narrazioni (specie quelle strumentali) sulle migrazioni, è talvolta raccontato come oggetto, quasi svuotato di significato, che semplicemente si sposta da un punto A a un punto B. Tuttavia, quelle narrazioni spesso tralasciano di raccontare come quel corpo sia invece pieno di emozioni e di una lingua, una voce e una grammatica che contribuiscono a formare un pensiero e tanto altro. Come sostiene Gabriela Wiener, una delle autrici raccolte, la scrittura è una forma di resistenza. “Due grandi temi dell’attualità peruviana - scrive Riccardo Badini, dell’Università di Cagliari, nella postfazione - si leggono in trasparenza in questa raccolta: l’epoca terribile del conflitto interno, negli anni 80 e 90, con il Perù lacerato tra le azioni terroristiche di Sendero Luminoso e la crudele risposta militare del governo peruviano, e la foresta amazzonica, rimasta invisibile per troppo tempo insieme al pensiero dei suoi abitanti”. Il Perù, spiega Secci nell’introduzione, “ha una lunga storia di accoglienza di migranti provenienti da paesi in difficoltà (un esempio piuttosto recente sono i venezuelani colpiti dalla dura crisi economica), anche perché hanno appreso con l’esperienza il significato di parole come esilio, diaspora e migrazione”, e la migrazione si può osservare e raccontare sì come fenomeno, per esempio numerico, ma non deve mai smettere di essere considerata anche come qualcosa di unico e umano. In questo senso la raccolta mette in evidenza come ogni esperienza migratoria equivalga anche a un’esperienza linguistica nella quale “si conquista un nuovo modo di leggere” e perciò di essere, sentire, esistere, avere una voce. La lontananza del titolo, la distanza, la condizione migrante, è perciò in continua evoluzione ed è anche nella lingua, “impaccio e difficoltà da vincere”. Secondo Katya Adaui la distanza “è dentro, non è un paese” e “scrivere e leggere è sempre con l’altro”, perché, infine, migrare non è rinascere, ma rinominare quel che già aveva nome, recita in una sua poesia Gabriela Wiener. “Il male non esiste”. Contro l’ingiustizia l’unica libertà si chiama disubbidienza di Natalia Aspesi La Repubblica, 13 marzo 2022 Il film dell’iraniano Mohammad Rasoulof affronta il tema della pena di morte e ha vinto l’Orso d’oro a Berlino nel 2020. Finito il turno di lavoro un uomo sale in macchina e si immerge nel traffico lento della città. Passa a prendere la moglie e poi la viziata figliolina, insieme al supermercato, poi della di lui suocera inferma, a pulirle la casa, prepararle la cena, provarle la pressione, lasciarla al suo programma tivu preferito. Una pizza a cena perché così impone la bambina e poi la giornata, più o meno uguale in tutto il mondo, finisce. L’uomo a letto guarda nel buio, è cupo, inquieto, la sveglia suona alle 3 del mattino, nel buio risale in macchina, ha un momento di esitazione come se volesse fuggire, poi va dove è suo dovere tornare, nel luogo del lavoro che gli consente una vita tranquilla, una famigliola, anche se gli gela l’anima. Nel minuscolo ufficio i suoi gesti sono meccanici, ordinati, una centralina si accende di verde, lui guarda da uno spioncino e schiaccia un bottone, le luci diventano rosse: l’interminabile secondo successivo è per lo spettatore un pugno nel petto, un colpo al cuore che toglie il fiato. L’uomo si lava le mani, la faccia, come a liberarsi dall’orrore. Il male non esiste ha vinto l’Orso d’oro alla Berlinale del 2020, e arriva da noi dopo le chiusure della pandemia e agli inizi di una devastazione bellica di cui nulla sappiamo, nel buio di un futuro incontrollabile. Il regista e dissidente iraniano Mohammad Rasoulof, 50 anni, perseguitato dal regime come ‘nemico del sistema’, più volte incarcerato, con la proibizione di girare, privato del passaporto, non poté andare a ritirare il premio a Berlino. Il film è molto bello, appassionante, con attori belli e credibili, paesaggi meravigliosi, una serie di improvvise rivelazioni da thriller. Ma ci sarà un momento in cui avremo voglia di vedere un film il cui tema è la pena di morte? Adesso poi che vediamo quotidianamente le immagini di quella imposta agli innocenti ucraini da una guerra, come tutte le guerre, ancor più di tutte le guerre, insensata? La magia di Rasoulof è quella di rendere pacificante, rasserenante il film, assicurandoci che sempre più persone rifiutano leggi criminali imposte da un regime cieco come quello della Repubblica Islamica dell’Iran, dove la pena di morte è ancora largamente applicata. L’associazione Nessuno Tocchi Caino ha contato 284 esecuzioni in Iran nel 2020, compreso quelle di 4 minorenni e 9 donne; per partecipazioni a sommosse popolari, fatti di droga o alcolismo, gestione di social su temi politici, appartenenza ad altre etnie, e naturalmente omicidio. La legge iraniana concede ai familiari dell’assassinato di scegliere tra la punizione in natura, cioè l’esecuzione, oppure il prezzo in natura, cioè il perdono in cambio di denaro. L’abbiamo visto recentemente in un altro film iraniano, Un eroe di Asghar Farhadi, dove un giovane padre di famiglia viene salvato dalla forca col denaro raccolto da una associazione caritatevole. Il male non esiste dura 150 minuti, che scorrono veloci perché è composto da quattro piccoli film, quattro storie diverse, non dalla parte delle vittime della pena capitale, ma di chi è incaricato, obbligato a eseguirla, contro ogni suo principio e capacità, vittima a sua volta di un potere feroce. Nel primo episodio, Il male non c’è, Heshmat è il brav’uomo di famiglia, boia per avere una vita, ma dalle notti insonni di chi non si perdona; nel secondo, Lei dice, lo puoi fare, Pouya è il soldatino di leva, dai 18 ai 24 mesi, che come è d’obbligo per tutti i maschi, dovrà dimostrare il suo patriottismo accompagnando lo sconosciuto condannato di turno sul luogo dell’esecuzione, prepararlo per l’impiccagione, togliere il sostegno dai piedi, seguirne l’agonia. La notte dell’esecuzione Pouya sta male, prega gli altri ragazzi di sostituirlo, lui sa che non può uccidere ma sa anche che se disubbidisce finirà in galera, non avrà mai un passaporto, né un vero lavoro. Ma lui proprio non può e affronta l’attimo felice della disubbidienza, della libertà. Anche Javad in Compleanno, è un coscritto, ed è riuscito ad avere tre giorni di permesso per raggiugere la sua amata fidanzata e festeggiare il suo compleanno. Sono momenti dolcissimi di vicinanza, ma qualcosa è successo, un amico di famiglia, un maestro, un intellettuale, è morto e tutti lo piangono. Javad lo riconosce nella fotografia illuminata dalle candele, e disperato non può che fuggire. In “Baciami” la ragazzina Darya che studia in Germania torna per una vacanza dallo zio, che con la moglie fa l’apicultore nel vuoto di un immenso deserto collinare. Un segreto doloroso di famiglia viene rivelato, una ribellione pagata per sempre. L’Iran è uno dei Paesi, tra i 56 che ancora la applicano, con il più alto numero di pene capitali, come 14 dei 50 Stati Americani, dove attualmente ci sono 3500 detenuti in attesa di esecuzione. La Cina non ha mai comunicato il numero dei suoi giustiziati ritenendolo un segreto di Stato, e nel 2020 ne ha esteso l’applicazione a chi non rispetti le misure di prevenzione del Covid 19, chissà cosa ne pensano i nostri resistenti no vax. Una indagine recente ha rivelato che il 70 % degli iraniani vuole l’abolizione della pena di morte, soprattutto i giovani. Intanto Putin con quella sua faccia senza sguardo si è rivolto alle mamme, alle mogli, a tutte le donne del suo immenso paese per assicurarle che in Ucraina sono impiegati solo militari professionisti, pagati per uccidere; e ha escluso che verranno inviati soldati di leva, quei giovani russi che come i giovani iraniani non vogliono uccidere e potrebbero disubbidire. Se la pace divide le piazze d’Italia di Francesco Merlo La Repubblica, 13 marzo 2022 Da San Giovanni a Firenze la sinistra si lacera. Piazza contro piazza, “cara Nato” contro “cara Mosca”, la Bad Godesberg di Enrico Letta e del suo Pd contro la Cgil e l’Anpi ridotte a campo profughi dell’ideologia. Ieri era partigiana la piazza di Firenze e la settimana scorsa era neutrale quella di Roma. Duecento piazze d’Europa si sono connesse con Zelensky a Santa Croce, in inglese, che è la lingua della democrazia, platealmente all’opposto degli irriducibili che a San Giovanni, sette giorni prima, parlando la lingua morta dell’antiamericanismo, avevano manifestato per disarmare Zelensky. E nei suoni consonantici con cui le lingue slave arrivano a noi italiani che pochissimo le pratichiamo, nell’implosione fonica c’è la Z di Zelensky aggredita dalla Z dei carri armati di Putin, la Z di Zivago contra la Z che gli invasori disegnano sui loro cingolati e che, al di là delle loro intenzioni, è la Z di Zar ed è la Z di Zek che vuol dire “prigioniero” ma prigioniero del Gulag. C’era dunque la resistenza al terrore nella a piazza a Firenze, c’era il Pd di Letta con i suoi sindaci guidati dal padrone di casa, Dario Nardella. Ed è stato molto meglio di un congresso, delle primarie e di qualsivoglia convention o dibattito, si chiami Agorà o si chiami Leopolda. La piazza di Firenze ieri è stata, appunto, il prologo della Bad Godesberg, della scelta definitivamente occidentale che la sinistra italiana insegue da cinquant’anni, dai tempi dell’Eurocomunismo (1976) di Berlinguer, Marchais e Carrillo: 46 anni di mal di testa, dal “neurocomunismo” alla commozione, ieri pomeriggio, di Enrico Letta per Zelensky e con Zelensky, che ha chiesto giustizia e non pietà per i primi 79 bambini ucraini uccisi dai russi, non la carità ma la solidarietà dell’Europa all’Europa, un conforto non tra amici ma tra alleati, un prendersi per mano tra popoli minacciati della stessa guerra. E ieri, forse per la prima volta, l’Europa è diventata davvero una bandiera di piazza, forse perché per la prima volta è la bandiera di una patria a rischio, come il giallo e il blu dell’altra bandiera della piazza di Firenze, quella dell’Ucraina. Eppure, nonostante la chiarezza e il vigore di Enrico Letta non suona ancora definitivo l’addio del Pd alla funesta ideologia del “K”, che non è solo il famoso “fattore K” che fu evocato da Alberto Ronchey e torna come un destino, visto che nella grande Russia di Putin c’è la stessa violenza del Kommunizm russo che finanziava il Pci e c’è di nuovo il terrore del Kgb. E forse questo K sopravvive nella sinistra italiana proprio perché nel nostro alfabeto non c’è. La K insomma esprime bene l’idea, che spiega il filoputinismo più o meno esplicito o più o meno timorato di alcuni intellettuali, che la storia nazionale venga ancora decisa altrove, la K dell’Amerikano, il film di Costa Gavras con Yves Montand nel ruolo dell’agente della Cia in Sudamerica. Certo, le bombe russe contro l’ospedale e quel numero 79, sul quale Zelensky ha tanto insistito, hanno un po’ messo in crisi i Né Né, e non consentono con facilità quella scelta neutrale dalla quale ieri si è dissociato lo stesso Maurizio Landini, che era in piazza anche a Firenze perché “non è vero che siamo equidistanti” , e però insiste sul disarmo dell’Ucraina. Ma non c’è da farsi illusione: la fortezza antioccidentale dei Né Né è fondata sul rimpianto dei vecchi tempi andati, sangue e codici dell’antiamericanismo d’antan, la gloriosa Cgil ridotta a una Stalingrado del “come eravamo di sinistra”. Solo così si spiega che la Brigata Wagner, i mercenari scelti che Putin ha inviato a dare la caccia a Zelensky, piaccia in Italia, oltre che alle solite macchiette sopravvissute al vaffa, anche a quel gruppetto di professori, tra i quali spiccano le illustri eccellenze Luciano Canfora e Carlo Rovelli, nostalgici della Brigata Proust, che danno la caccia al tempo perduto della loro giovinezza rivoluzionaria, rivogliono la Cia, la Nato e yankee go home ma alla fine si accontentano di Putin, che sempre grande Russia è. Ma forse, in questo terribile tempo di guerra, con la piazza contro la piazza è davvero cominciata l’ultima battaglia della sinistra italiana contro i suoi fantasmi. Viviamo tempi duri: fanatismi e isterie ci investono. E domani è lo stesso giorno di Roberto Del Balzo Il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2022 Viviamo tempi duri. Ma li passiamo sul divano morbido da dove guardiamo una guerra fatta di parole ripetute a reti unificate, di immagini uguali a se stesse su qualsiasi canale. Ascoltiamo i deliri di politici impalpabili che riempiono di insensatezze e miserevole propaganda personale ogni spazio a loro concesso. Non hanno dignità, manca quella forma di pudore che dovrebbe fermare un qualsiasi esponente del nostro governo a esprimersi con irritanti banalità, per squallidi opportunismi. Ognuno sgancia le proprie bombe. Un flusso continuo di parole, spesso rabbiose, innervano non solo la nostra anima ma anche tutto un sistema che diventa estenuante. E immersi in questa palude limacciosa fatta di pandemia e ansie nucleari ci stiamo spegnendo. Ci stiamo abituando sempre di più all’orrore che arriva con il suo fetore ammorbidito dalle mascherine che porteremo ancora per poco. Passa la voglia di parlare, di discutere anche solo per osservare senza pregiudizi un diverso punto di vista. Si passa dallo stato catatonico alle polemiche sterili e inutili su tutto. La cantilena quotidiana, sempre a reti unificate va da sé, ha la voce di un coro, un circo mediatico che affoga nelle sue stesse parole che hanno le stesse facce, gli stessi messaggi, l’identica e irritante cadenza che ci accompagna ormai da anni. Il senso critico, sano e consapevole, il dubbio e la voglia di confrontarsi si sono calcificati all’interno di cervelli sempre meno irrorati dalla voglia di scoprire, dal desiderio di vedere sempre l’altra faccia della luna. Tutto è pervaso da una triste intolleranza e una regressione mentale che porta ad annullare lo studio e la lettura del passato in favore di un appiattimento sul quotidiano così come ci viene raccontato. Il morbido divano e il blefarostato sugli occhi davanti alla televisione ci impediscono di vedere il domani e ci incastrano nel quotidiano: la guerra è da condannare, va da sé, un abisso straziante che ci rende spettatori impotenti di tanto dolore gratuito, di morte, distruzione. Non c’è più un residuo di coscienza e neppure la speranza che intervenga un qualche Dio a evitare l’ultimo respiro degli innocenti. E poi c’è la “cancel culture” che mette da parte Dostoevskij, che vuole guarire il mondo, uniformare e purificare. Roba da brividi. Questo fanatismo ossessivo ci investe e lì, sul divano sempre più morbido, non facciamo nulla per spostarci: veniamo investiti da una sorta di isteria collettiva senza reagire. Bastano solo poche gocce di benzodiazepine e poi tutti a nanna. Domani è lo stesso giorno. Arrivano gli ucraini: l’accoglienza resta emergenziale, si mobilitano le famiglie di Giansandro Merli Il Manifesto, 13 marzo 2022 Crisi umanitaria. Due milioni i profughi totali. Finora 35mila sono venuti in Italia. I rifugiati ucraini continuano ad arrivare ma il sistema d’accoglienza italiano deve ancora ingranare la marcia. Dei primi 2 milioni di profughi complessivi, 35 mila hanno varcato le Alpi orientali: 14 mila minori, 18 mila donne e 3 mila uomini. Finora è andata bene perché la gran parte è stata accolta da parenti e amici. Per il futuro il governo ha previsto l’ampliamento dei posti in accoglienza. La circolare del 9 marzo firmata Viminale dispone l’attivazione di 5 mila posti in Centri di accoglienza straordinari (Cas) e l’autorizzazione per altri 3 mila nel Sistema di accoglienza e integrazione (Sai, ex Sprar). In base ai casi ci vorranno giorni o mesi per toccarli con mano e difficilmente basteranno. Del resto nessuno sa quante persone arriveranno, né per quanto tempo. A breve il governo comunicherà all’Ue quante è disposto ad accoglierne. Su questa base riceverà la copertura finanziaria europea. Intanto nel quadro dello stato di emergenza la Protezione civile, con gli enti locali, sta individuando altre possibili strutture: dai Covid hotel dismessi a edifici pubblici, come foresterie o caserme. L’obiettivo è doppio: fornire una risposta immediata mentre si cerca di ampliare l’accoglienza; preparare una riserva per quando anche quei posti saranno pieni. Venerdì a Roma si è riunito il Consiglio nazionale Anci, l’associazione dei comuni, che ha chiesto alle Regioni di definire “un comportamento uniforme di adozione del modello di emergenza”. Il rischio è che si creino situazioni eterogenee “che potrebbero vanificare o indebolire l’efficacia del sistema di accoglienza”. I primi casi stanno già venendo fuori. Uno lo denuncia Filippo Miraglia, responsabile nazionale immigrazione Arci, che fa notare come l’Abruzzo preveda tra 55 e 60 euro giornalieri a persona per offrire solo vitto e alloggio. “Nei Sai sono 41 euro, mentre nei Cas sono passati da 23 a 27 euro. Questa cifra resta comunque troppo bassa perché oltre a tetto e cibo vanno garantiti servizi qualificati”, afferma Miraglia. L’Arci fa parte del Tavolo nazionale asilo che rivolge al governo due richieste. La prima è di non discriminare i cittadini stranieri che vivevano in Ucraina. In sede europea la mediazione con il blocco di Visegrád, contrario ad accoglierli, è stata di garantire la protezione umanitaria a tutti gli ucraini e ai soggiornanti stranieri con permessi di lungo periodo rilasciati da quel paese. Per gli altri devono decidere gli stati membri e l’Italia non ha ancora chiarito come intende muoversi. Il secondo punto riguarda le offerte di accoglienza delle famiglie. Lo spontaneismo iniziale andrà organizzato e sostenuto, anche economicamente. Il Tavolo asilo chiede di non creare una terza linea di finanziamento oltre a Cas e Sai, ma di puntare su quest’ultimo modello che garantisce standard più elevati. Così potrebbe offrire e controllare i servizi per i nuovi arrivati, accolti in case private o progetti istituzionali. Il tema è cruciale anche per i Comuni: quando le cose non funzionano i problemi ricadono sulle loro casse. È uno dei nodi sollevati dal recente studio di Action Aid-Open Polis L’emergenza che non c’è. Il rapporto mostra come nel triennio 2018-2020 i migranti in accoglienza siano diminuiti del 42% e i centri del 25%, ma il modello è rimasto di tipo emergenziale. Sono state chiuse soprattutto le strutture più piccole e 7 persone su 10 sono finite nei Cas, che offrono meno servizi e di qualità più bassa. Un’occasione mancata che peserà anche nella nuova fase. Anche per questo il sindaco di Prato e delegato Anci all’immigrazione Matteo Biffoni (Pd) chiede al governo di “mantenere un collegamento costante con i sindaci”. Le questioni sul tavolo sono diverse e una riguarda proprio la novità dell’accoglienza familiare. “Manca una copertura normativa ed economica”, dice Biffoni. Tale modalità è da tempo promossa dalla onlus Refugees Welcome Italia che fa incontrare migranti e persone disposte ad aggiungere un letto. “Le richieste sono aumentate in tutta Italia. Abbiamo già attivato una collaborazione con il comune di Milano e inserito le prime persone. A Roma e Ravenna partono gli albi delle famiglie accoglienti”, dice la presidente Fabiana Musicco. L’altro grande tema è quello dei minori non accompagnati. Il sistema italiano è settato sugli arrivi di adolescenti. Stavolta i bambini saranno molti più della media e i servizi richiesti di natura differente. Anche in questo caso c’è grande disponibilità delle famiglie. La Garante nazionale dell’infanzia, però, ha ribadito la necessità di rispettare i canali previsti dalla legge “per assicurare un’adeguata accoglienza e allo stesso tempo proteggere dal rischio di sparizione, tratta, traffico e sfruttamento, tutelando i diritti fondamentali”. Se i bambini imparano la parola accoglienza di Marika Surace Il Domani, 13 marzo 2022 Ma come faremo a parlare con loro se non conoscono l’italiano?”. La domanda di Gaia, 9 anni, giunge dopo giorni di attesa, quando nella sua scuola, una primaria di Vanzaghello, plesso dell’Istituto comprensivo Ada Negri di Magnago, in provincia di Milano, si diffonde la notizia che arriveranno presto dei bambini ucraini a sedersi accanto ai coetanei italiani. Quando, dallo scorso novembre, ho iniziato a insegnare educazione civica a Gaia e ai suoi compagni di IV elementare, non pensavo che così presto concetti astratti come libertà di espressione e principi fondamentali della Costituzione, oppure la storia dei conflitti mondiali, sarebbero diventati la realtà di cui discutere ogni giorno, anche tra i banchi di scuola, anche con i più piccoli. Che chiedono, vogliono capire, fanno domande importanti. Come Emma, che mentre in classe parlavamo degli arrivi delle prime famiglie in Italia mi ha chiesto: “Come mai non abbiamo fatto lo stesso con quelli che arrivano via mare, con le barche?”. Difficile avere sempre le risposte, anche se fai l’insegnante, ma la discussione è quotidiana, animata. Soprattutto quando il preside del plesso, Domenico Pirrotta, annuncia che qualche bambino è già arrivato e chiede a tutti di collaborare: “Abbiamo subito attivato un protocollo di accoglienza, partito con la raccolta di zaini e astucci da distribuire ai nuovi alunni”, spiega il dirigente. “E partirà presto un bando per l’assunzione di mediatori linguistici. D’altra parte la scuola può e dev’essere il punto di riferimento per chi è scappato lasciandosi dietro ogni cosa, il primo presidio a difesa di una piccola ma preziosa normalità”. Lo è sicuramente per Viola, 10 anni, arrivata in Italia con la sorella di 15, ospite di una cugina. I genitori sono rimasti in Ucraina. “Quando i miei studenti hanno saputo che si sarebbe unita a loro una ragazzina scappata dalla guerra, non hanno perso tempo”, racconta Giuliana Tonella, maestra di matematica a Magnago. “E mentre loro creavano biglietti e cartelloni di benvenuto per la nuova compagna, lei non nascondeva i suoi timori: si è chiesta da subito a cosa sarebbe servito frequentare una scuola italiana, se non a farle venire maggiore nostalgia del suo Paese”. Poi, però, la paura è passata. La maestra, infatti, ha avuto una splendida idea: insegnare a tutti quanti a fare un origami, una piccola scultura di carta, grazie a un video che mostrava le istruzioni. Senza bisogno di parlare. “È lì che si è sciolto il ghiaccio, Viola ha capito che poteva stare in classe senza sentirsi esclusa”, aggiunge la maestra. “Noi insegnanti, per comunicare con lei, usiamo i traduttori del telefono. Mentre i bambini, semplicemente, giocano tra loro e la coinvolgono. Il gioco è il linguaggio più universale che ci sia, no?”. Ed è proprio come un gioco che, tra i corridoi e le aule scolastiche, i bambini imparano il significato della parola accoglienza. Che nasce anche solo da un disegno. Quando mi chiedono di cercare per loro, su Google, la parola ucraina per scrivere “Benvenuti”, è amore istantaneo per i caratteri dell’alfabeto cirillico. Che ben presto, insieme al giallo e al blu della bandiera, diventano più popolari delle carte Pokémon, con qualcuno che improvvisa anche qualche esercizio di pronuncia. Carlo, Mattia e Ginevra mi chiedono di appendere tutto alle finestre, in modo che anche chi non frequenterà la scuola possa vederli dalla strada. Ma è Chris che si ricorda che, qualche giorno fa, abbiamo parlato dei tanti rimasti lì, nei rifugi o per le strade, a tentare la fuga. E allora si ferma e mi chiede: “Cerchi per noi come si scrive in ucraino la parola ‘Resistete’?”. Ucraina: ora i profughi sono un’arma contro l’Europa di Federico Fubini Corriere della Sera, 13 marzo 2022 l disegno di Vladimir Putin diventa più chiaro: cerca di terrorizzare la popolazione civile e spingere un numero sempre maggiore l’Unione per destabilizzare i nostri Paesi. Nei primi sedici giorni dell’invasione sono fuggite dall’Ucraina 2,6 milioni di persone. Un milione e mezzo è ora in Polonia, mentre Ungheria, Slovacchia, Moldova e in parte minore la Russia si dividono gli altri. L’esodo è un fiume in piena che non rallenta, molto più rapido persino di quello dei profughi siriani negli anni più drammatici. Che in tanti fuggano dà la misura della brutalità dell’aggressione e dell’indifferenza con cui i civili vengono coinvolti. Ma, dietro, si inizia a intravedere un progetto che va oltre il tentativo di soggiogare l’Ucraina. Non sarà sfuggito al Cremlino che ai ritmi attuali i profughi saranno cinque milioni a fine marzo, dieci milioni poco dopo Pasqua e così via. Un conflitto di qualche mese può generare una diaspora di dimensioni pari a una media nazione europea. Gli ucraini stanno fuggendo dove si sentono al sicuro e dove tutti i governi - Italia inclusa - dovranno condividere lo sforzo di accoglierli. Non possono essere lasciati alle sole Polonia e Ungheria, anche se i loro governi avevano sempre rifiutato i richiedenti asilo del resto dell’Unione. Ma ora che la Russia inizia a bombardare anche l’Ovest del Paese - la via di fuga verso l’Unione europea - il disegno di Vladimir Putin diventa più chiaro. Anche dove l’Armata rossa è lontanissima dall’arrivare, cerca di terrorizzare la popolazione civile e metterla in fuga. Lavora per spingere un numero sempre maggiore di rifugiati verso l’Unione e fare di loro un’arma impropria per destabilizzare i nostri Paesi. Niente nuovo, in fondo. Pochi mesi il dittatore bielorusso Aljaksandr Lukaš?nka ha fatto le prove generali di questa forma di guerra ibrida, lanciando migliaia di afghani o iracheni contro la Polonia o la Lituania. Ora tutti coloro che fuggono saranno accolti e protetti. Ma fingere di non capire non è più possibile: l’aggressione all’Ucraina è un attacco - deliberato - all’ordine politico europeo. Italia vs Russia. La battaglia delle estradizioni di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 13 marzo 2022 Il maggiore russo Oleg Mitrofanovich Skorikov non sedette mai al cospetto della dottoressa Federica Pirgoli. Tuttavia, quest’ultima e i suoi colleghi della I sezione penale della Corte d’Appello di Venezia ebbero modo di pesare le sue gesta nel corso delle udienze per l’estradizione di un imprenditore edile di Pedrozavodsk, sulla sponda occidentale del lago di Onega a nordovest di Mosca. Suppergiù ogni procedimento di estradizione in Italia (in Europa, forse) ha il suo Skorikov, braccio violento della legge nella madrepatria. L’originale acquista perciò il valore di un memento. Per capirlo bisogna dare voce al suo accusatore, l’imprenditore edile Igor Tupalskii, imputato per l’omicidio della socia in affari Olga Nedneva. Delitto di hybris protestano i giudici del distretto di Leningrado, accusando Tupalskii di mire espansionistiche nei confronti della sua stessa società. Accuse artificiose per eliminare l’oppositore e finanziatore di Navalny, ribatte la didesa rappresentata dagli avvocati romani Alessandro e Michele Gentiloni Silveri, facendo acquisire il racconto delle torture orchestrate dall’ispettore: “Mi hanno ammanettato e mi hanno portato in una cella senza finestre - ricostruisce Tupalskii -. Mi hanno avvolto uno strato spesso di bende elastiche intorno ai polsi e ai palmi delle mani. Due uomini mi hanno allargato le braccia legandole agli anelli fissati nel muro, all’altezza di 1,5 metri circa, mi hanno tirato indietro per le gambe e si sono messi a ridere, dicendo: “L’esercizio rondine”. Sono rimasto appeso sulle braccia, all’incirca di 45° verso il pavimento. Uno degli uomini era rimasto, altri due sono tornati con bottiglie (di plastica) d’acqua da un litro e mezzo, con le corde attaccate al collo delle bottiglie. Hanno cominciato a picchiarmi con tutta la forza, pancia, torace, zona lombare, altezza dei reni...”. Alla fine del 2018 Pirgoli boccia la richiesta di estradizione. Una decisione dalla quale è difficile distillare ingredienti perché anche quando il dialogo fra i due ordinamenti, russo e italiano, sconfina nella denuncia di abusi e storture nella Russia putiniana, accade di vedere accolta la richiesta di estradizione. Lo spettro dell’ispettore della polizia criminale Skorikov aleggia anche nel Palazzaccio romano quaralo ci si trova a discutere il caso del senatore Dmitry Krivitsky. L’uomo, rappresentante della Duma regionale di Novgorod e dissenziente sull’annessione della Crimea (che precede l’invasione dell’Ucraina), si sarebbe fatto corrompere con 15 milioni di rubli dal vice governatore della regione allo scopo di influire sulle decisioni di Mitin, governatore regionale e plenipotenziario nel settore delle costruzioni e della manutenzione stradale. Pressioni di vario genere sui testimoni che hanno contribuito alla formulazione dei capi di imputazione (incluso l’ex autista del senatore: torchiato) popolano le argomentazioni della difesa che punta a evidenziare le conclamate violazioni dei diritti umani nelle carceri russe allegando, fra l’altro, la sentenza della corte europea sulle Pussy Riot. Nulla. La Cassazione, nel 2020, accoglie la richiesta di estradizione. Oggi Krivitsky è detenuto in un carcere russo dove, assicurano, i suoi diritti fondamentali sono garantiti. Davanti al tribunale che giudica le estradizioni non c’è una regola e ogni storia fa storia a sé. A volte l’elemento “violazione dei diritti” - il “fattore S” del manesco Skorikov - resta appena sullo sfondo, indirettamente evocato da vicende collegate come nel caso Nekrich. Il cinquantanovenne Mikhail Yulevich Nekrich, accusato di appropriazione indebita, sarebbe stato anche l’omicida del proprio avversario economico, l’immobiliarista Alexander Mineev, suo vero accusatore (era sul punto di denunciarlo alla corte arbitrale di Mosca). Un crimine finanziario diventa spy story internazionale appena si scopre che il socio di Nekrich, Georgy Shuppe, avvantaggiato dalle sue Operazioni, è anche l’ex genero di un fiero oppositore del regime putiniano, Boris Berezowsky, amico di Aleksander Litvinienko - prima vittima in Europa del polonio utilizzato dall’intelligence russa - e morto lui stesso a Londra in circostanze oscure. Come i giudici di Londra anche quelli della corte penale di Genova dimostrano di credere a uno dei testimoni del dibattimento sull’eventualità di concedere l’estradizione a Shuppe: “Il governo russo non perdona - dice il teste -. Persegue senza dare tregua”. I giudici dubitano fortemente delle prove addotte dagli investigatori russi contro Nekrich: “Un procedimento istruito su tali basi in Italia rischierebbe di non essere neppure iscritto nel registro delle notizie di reato”. Morale, Berezowsky, trovato impiccato nell’abitazione dell’ex moglie nel marzo 2013, non è in grado di rivelare alcunché. Ma Shuppe e il suo socio-amico Nekrich, oggi, sono uomini liberi e lontani dalla Russia. L’argomento dei “diritti umani” è sempre delicato. Invano il penalista milanese Giuseppe Lucibello s’è battuto per le ragioni costituzionali del suo cliente, Andrey Smyshlyaev, magnate delle infrastrutture, accusato di bancarotta fraudolenta e truffa per la cifra modesta di 40 mila euro. Arrestato a Como poco prima dell’esplosione della pandemia, il magnate poteva vantare alcune iniziative anti regime davanti ai giudici di Milano e cavalcare un argomento interessante: che, per i reati finanziari di cui era accusato, la Russia prescriva i lavori forzati. Riconoscendo tale problema i giudici della sesta sezione penale disposero un nuovo processo d’appello per decidere nel merito ma, un anno dopo, i colleghi della Cassazione respinsero la richiesta della difesa in seguito a un appello bis che li aveva visti sconfitti e oggi Smyshlyaev è detenuto in un carcere della Russia, a riprova che i limiti dell’ordinamento penitenziario di quel Paese non giocano necessariamente a favore dell’imputato. Ultimo illuminante caso, quello dell’imprenditore Aleksey Popov testimonia la difficoltà di centrare l’obiettivo processuale nei casi di estradizione. Nato nella sud-orientale Oremburg, Popov viene accusato di appropriazione indebita. Due milioni di euro, l’acconto per la realizzazione di edifici pubblici nella città di Neryungri, sarebbero scomparsi dalla contabilità della sua Unipur. Lui si rifugia in Italia ma è inseguito da un’ordinanza che gli prospetta la detenzione in una delle province della Yakuzia. Ai suoi difensori, gli avvocati di Bolzano Paolo Corti e Giorgia Oss, Popov porta in dote la testimonianza del proprio legale russo che oggi preferisce non essere nominato ma che, nel 2020, testimoniò così: “Ai detenuti in custodia cautelare è riservato il trattamento peggiore in assoluto. In tale regime, le nonne penitenziarie ordinarie possono essere violate, fino al collocamento di tre persone arrestate su un letto, che dormono a turno, devono rispettare orari fissi per le passeggiate, i pasti e per avere l’opportunità di fare una doccia. Di regola, le persone detenute in questo tipo di carceri protette sono visibilmente deteriorate ed è anche possibile tenere pazienti infetti con persone sane nella stessa stanza”. A dispetto di ciò la richiesta di estradizione venne accolta. Dopotutto, devono aver pensato i giudici della sesta sezione penale della Cassazione, i nostri penitenziari non sono avviati su un analogo piano inclinato? Arabia Saudita. Eseguite in un giorno 81 condanne a morte di Michele Giorgio Il Manifesto, 13 marzo 2022 È stata la più grande esecuzione di massa nella storia del regno. Tra i giustiziati sette yemeniti, un siriano e quaranta sciiti. Intanto venerdì, dopo 10 anni di carcere, è stato liberato il blogger Raif Badawi. A pochi giorni dall’arrivo a Riyadh del premier britannico Boris Johnson - la data della visita non è stata ancora resa nota -, l’erede al trono saudita e presunto “modernizzatore” Mohammed bin Salman (MbS), ieri ha mandato davanti al boia 81 persone - tra cui sette yemeniti e un siriano - condannate a morte per vari reati, dall’omicidio a legami con il terrorismo. Appena una settimana fa, MbS aveva detto ai giornalisti che intende modernizzare il sistema di giustizia penale del paese. I fatti dicono ben altro. Non è noto come gli 81 condannati siano stati messi a morte. In Arabia saudita, uno dei paesi al vertice della classifica annuale delle esecuzioni capitali, è pratica comune la decapitazione. È stata la più grande esecuzione di massa nella storia del regno, superiore persino a quella del gennaio 1980 per i 63 militanti condannati a morte per aver occupato armi in pugno l’area della Grande Moschea della Mecca nel 1979, il peggior attacco di sempre contro il regno e il luogo più sacro dell’Islam. Quaranta dei condannati a morte sono residenti di Qatif e Al-Ihsa, aree a maggioranza sciita da sempre nel mirino delle autorità wahhabite saudite. Le loro famiglie e i centri per i diritti umani denunciano confessioni estorte sotto tortura. Le autorità saudite negano e affermano che i processi sono stati regolari e supervisionati da 13 giudici in tre gradi di giudizio per ogni individuo. Arabia Saudita. Il blogger Raif Badawi rilasciato dopo dieci anni di carcere di Natasha Caragnano La Repubblica, 13 marzo 2022 La moglie: “Mi ha chiamata, è libero”. Badawi era stato arrestato nel 2012 con l’accusa di avere “insultato i valori islamici”. Il blogger saudita Raif Badawi è stato rilasciato dal carcere, in Arabia Saudita, dopo aver scontato una condanna di dieci anni per aver sostenuto la fine dell’influenza religiosa sulla vita pubblica. “Raif mi ha chiamata, è libero”, ha raccontato all’agenzia di stampa Afp sua moglie, Ensaf Haidar, che dopo l’arresto del marito si è trasferita in Canada con i loro tre figli. “Non vedo l’ora di vedere mio padre, sono così felice”, ha detto all’Afp sua figlia, Nawja Badawi, che oggi ha 18 anni. Sorride, abbracciata a suo padre, in una vecchia foto pubblicata su Twitter da suo fratello Terad che gestisce l’account ufficiale di Badawi. “Dopo dieci anni mio padre è libero”, c’è scritto nella didascalia. Raif Badawi, che oggi ha 38 anni, è stato arrestato nel 2012 con l’accusa di “aver insultato i valori islamici” sul proprio blog Free Saudi Liberals. Un forum online pensato per discutere del ruolo della religione in Arabia Saudita, per creare uno spazio aperto dove le persone potessero parlare in modo specifico del liberalismo e di idee diverse. In poco tempo il suo blog è diventato molto conosciuto e apprezzato, ma considerato pericoloso dalle autorità saudite. Il 7 maggio 2014, infatti, Badawi è stato condannato a dieci anni e mille frustate. Un anno dopo, a gennaio, i primi 50 colpi davanti alla moschea di al-Jafali a Gedda, città portuale sul Mar Rosso. Una punizione “crudele e disumana”, secondo le Nazioni Unite, che ha scatenato una grande mobilitazione internazionale. Grazie alle proteste e all’appello di 18 premi Nobel, le pene corporali sono state sospese nel gennaio del 2015. Ma a giugno la Corte Suprema dell’Arabia Saudita ha confermato la sua sentenza e ha giustificato la pena citando la sua attività su internet e “gli insulti all’islam usando i media elettronici”. Da allora, ogni venerdì, sua moglie ha organizzato una veglia pubblica in Canada, Paese che l’ha accolta nel 2013 insieme ai suoi figli inserendola in una lista prioritaria di rifugiati per motivi umanitari. A febbraio, alla 374esima, veglia aveva detto all’Afp che era in contatto con suo marito e che riusciva a sentirlo almeno tre volte alla settimana. Secondo Amnesty International, organizzazione internazionale impegnata nella difesa dei diritti umani, Badawi era un detenuto di coscienza “arrestato solo per aver esercitato in modo pacifico il suo diritto alla libertà d’espressione”. Motivi che hanno spinto il Parlamento europeo ad assegnarli il premio Sakharov nel 2015 per la libertà di pensiero, il massimo riconoscimento assegnato dall’Unione europea agli sforzi compiuti in favore dei diritti umani. Mentre nel 2014 al blogger saudita era stato assegnato il premio nella categoria “netizen” da Reporter senza frontiere, organizzazione che promuove e difende la libertà di informazione, per aver pagato con la propria libertà la sua lotta per la verità. Le Ong internazionali e le Nazioni Unite continuano a denunciare la brutale repressione delle voci dissidenti e l’arresto di attivisti in Arabia Saudita. Paese al quinto posto per numero di giornalisti in carcere, 31, nell’ultimo report di Reporter senza frontiere. Non è ancora stato fornito alcun dettaglio sul suo rilascio, ma per il blogger è stato imposto un divieto di viaggio per 10 anni. L’Ong ha sottolineato che lavorerà attivamente per eliminare qualsiasi condizione e permettere a Badawi di riabbracciare la sua famiglia.