Piano eventi critici: nonostante il Covid il carcere rimane inadeguato come prima di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 marzo 2022 La pandemia ci ha insegnato che non dobbiamo ritrovarci impreparati a ogni evenienza. Se da una parte abbiamo compreso che vanno sempre aggiornati i vari protocolli per proteggere il più possibile la popolazione, sappiamo anche che esistono alcuni luoghi dove diventa impossibile applicarli per via delle irrisolte criticità. Il primo dispositivo penalizzato è il carcere. Il nuovo piano nazionale di difesa dalle armi o agenti di tipo chimico, biologico o radiologico, diramato anche presso le carceri, risulta quasi del tutto impraticabile quando prevale ancora il sovraffollamento penitenziario e le strutture penitenziarie sono del tutto carenti. Andiamo direttamente alla questione pratica. Parliamo dell’evento di tipo biologico. Il piano sottolinea che questa tipologia riguarda la diffusione nell’ambiente di agenti biologici quali virus, batteri, funghi, tossine, bioregolatori, sia essa intenzionale, accidentale o naturale (con capacità pandemiche) che sono in grado di causare malattie mortali per gli esseri viventi. Il contagio può avvenire per via inalatoria, per assorbimento cutaneo, per ingestione di acqua o viveri contaminati, e può: colpire un elevato numero di soggetti; provocare malattie gravi e protratte, con necessità di assistenza e trattamenti prolungati e intensi; diffondersi mediante contagio interindividuale, anche in virtù di un periodo di incubazione che ne permetta la diffusione silente da parte dei colpiti asintomatici; sfuggire ai sistemi di rilevamento; ingenerare un senso di inesorabilità, a causa delle difficoltà di autosoccorso e di primo soccorso; produrre sintomi aspecifici, simulanti comuni malattie infettive endemiche, complicando così l’esatta individuazione diagnostica. Le nuove regole di comportamento impraticabili per i detenuti - Già solo leggendo questo scenario, di gran lunga minore rispetto all’emergenza pandemica, si può immaginare quanto possa essere devastante in un ambiente chiuso, sovraffollato e senza locali idonei per porre procedure di difesa e intervento. Sono le regole comportamentali dettate dal nuovo piano che per i detenuti risultano quasi del tutto impraticabili. Vediamole. Il primo riguarda il fattore di esposizione che contemplano tre regole. La prima è quella di rimanere all’interno dell’edificio indenne fino a quando le autorità competenti non diano indicazioni diverse. A tale proposito, si legge nelle linee guida, è consigliabile avere sempre a disposizione un apparato radio portatile ricevente in grado di ricevere eventuali messaggi e disposizioni veicolati da stazioni radio nazionali o locali. Quasi tutti i telefonini e smartphone hanno detta funzione che è operativa anche in assenza di collegamento internet. Lasciare l’edificio colpito in maniera ordinata e cercare riparo in una struttura vicina non danneggiata. Ridurre l’esposizione togliendo i vestiti potenzialmente contaminati, mettendoli subito a lavare in lavatrice o abbandonandoli all’esterno della propria abitazione e lavare tutte le parti del corpo esposte. Esiste un piano di evacuazione immediata per i reclusi? - Come si può evincere, questo non è praticabile per chi è recluso in carcere. Veniamo al secondo fattore, che è quello della distanza di sicurezza. La regola dettata dalle linee guida è quella di allontanarsi dal luogo dell’attacco e mettere una distanza di sicurezza idonea, secondo le indicazioni delle autorità, rispetto al punto di attacco. In alcuni tipi di attacco (radiologico o nucleare), pur non essendoci contatto diretto si risulta ugualmente esposti alle radiazioni: maggiore è la distanza, minore è la dose assorbita. In questo caso, sulla carta, è possibile visto che parliamo di una evacuazione. Ma deve essere immediata. Esiste un piano specifico in tal senso? Visti gli spazi all’interno degli istituti le regole di protezione sono impossibili - Veniamo però al fattore di protezione. La parte quasi del tutto impraticabile per via del poco spazio disponibile in carcere. Le linee guida considerano almeno quattro regole. Per ripararsi da una radiazione o da un attacco in genere all’interno di un edificio, bisogna cercare riparo al centro di una stanza priva di finestre. Il luogo ideale che può essere considerato sicuro dal pericolo di radiazioni Gamma è quello in cui non è possibile la ricezione di trasmissioni radio in Modulazione di Frequenza (FM) in quanto le radiazioni Gamma hanno le stesse caratteristiche delle onde radio. Se possibile, riscaldare la stanza o gli ambienti in quanto l’aria calda determina pressioni positive e ostacola la penetrazione dei contaminati; usare le risorse disponibili per proteggere i polmoni (mediante un fazzoletto) e difendere il corpo dalle radiazioni muovendosi dietro un muro. Anche l’utilizzo di una mascherina chirurgica può contribuire ad abbattere le sostanze contaminanti presenti nell’aria. Infine il piano nazionale consiglia di chiudere gli accessi d’aria, ivi comprese le fessure degli infissi, anche con metodi speditivi (carta, nastro adesivo ecc.). In un carcere, attualmente, è impraticabile. Manca un piano di prevenzione specifico sul carcere, oltre la preparazione del personale penitenziario agli eventi. Ma prima ancora, manca la risoluzione delle criticità carcerarie. Nel 2020, durante la presentazione della relaziona annuale in parlamento, il Garante Nazionale delle persone private della libertà è ricorso a un’immagine, quasi una metafora, per comprendere il momento che si era creato a causa dell’emergenza pandemica che ha colto tutti di sorpresa. Ha evocato un film di uno dei maestri del cinema che proprio quell’anno avrebbe compiuto 100 anni: Federico Fellini. Il film è Prova d’orchestra e l’immagine evocata dal Garante Mauro Palma è nella parte finale, quando improvvisamente irrompe nella piuttosto tumultuosa orchestra una enorme palla d’acciaio che sfonda le pareti: un evento imprevisto che disaggrega del tutto il dinamismo, già alquanto confusionario, che caratterizzava il ‘ prima’. Quello che ha voluto osservare il Garante, è che se si vuole continuare a suonare come prima, oppure trovare una nuova forma armonica diversa dalla precedente che non si esponga all’irruzione di una nuova sfera d’acciaio. Pare che, nonostante la pandemia, per quanto riguarda il sistema penitenziario si continui a suonare esattamente come prima. In attesa di un altro evento improvviso. Non è stata adottata alcuna misura deflattiva seria - Nel frattempo nessuna misura deflattiva seria, nessun ammodernamento delle strutture penitenziare e della qualità di vita interna come indicata anche dalla commissione Ruotolo. Eppure, l’auspicio è stato quello che l’emergenza sanitaria potesse rappresentare un turning point all’interno delle riflessioni sulla pena e sul sistema della giustizia penale. Come magistralmente affermato da Giovanni Fiandaca, è necessario “un nuovo orientamento culturale per ripensare un ruolo meno invasivo del penale nella sfera pubblica” e al contempo “prendere una buona volta coscienza che il processo penale, la pena e la punizione non sono gli strumenti più adatti a contrastare i mali sociali di turno”. Il cronico stato di emergenza in cui versa il sistema delle carceri, che ha visto un acuirsi delle problematicità con la crisi pandemica, impone ai giuristi - e ai penalisti in primis - di riflettere sul concetto di umanità del trattamento sanzionatorio. Si è, infatti, prospettata la necessità di una svolta riparativa del paradigma sanzionatorio che eviti di concepire automaticamente la detenzione quale unica possibile risposta. Invece, ritornando alla metafora espressa dal Garante nazionale, si continua a suonare come prima. Con le stesse discussioni, polemiche, indignazioni veicolate da taluni giornali. Csm, pioggia di emendamenti Il Pd: “Così si affossa la riforma” di Valentina Stella Il Dubbio, 12 marzo 2022 Sono 456 i subemendamenti presentati dai gruppi in Commissione Giustizia alla Camera. Il presidente Perantoni: “Serve la massima collaborazione di tutti”. Sono 456 i subemendamenti presentati dai gruppi in Commissione Giustizia alla Camera alla proposta del governo sulla riforma del Csm: insieme agli emendamenti già depositati al testo base, dovranno essere esaminate circa 700 proposte di modifica. “Un numero importante che richiede la massima collaborazione di tutti - ha detto il presidente della commissione Mario Perantoni -. Lunedì sera faremo un ufficio di presidenza per stabilire i prossimi passaggi”. Ma la tensione subito si alza a colpi di dichiarazione alla stampa. Si prefigurano due campi di lotta: quello tra partiti e quello tra partiti e Governo. Una battaglia difficilissima per la quale è davvero complesso fare pronostici. Quello che sappiamo è che bisogna correre perché sia la ministra che il Presidente Mattarella hanno ricordato più volte che il Csm deve essere eletto tra luglio e settembre con una nuova legge elettorale. Il tempo stringe, eppure tale riforma, che si annunciava epocale per sanare i mali della magistratura, avrebbe meritato più meditazione. Volendo pensare allo scenario più buio, potrebbe succedere che, se i partiti non si mettono d’accordo, si arrivi in Aula con il testo base originario di Bonafede, una vera sconfitta per tutti, tranne che per il Movimento Cinque Stelle, a cui converrebbe far saltare il banco. E Draghi, che aveva detto in conferenza stampa che non avrebbe posto la fiducia, si troverebbe a sconfessare se stesso. Tale scenario apocalittico può essere scongiurato solo se tutti saranno disponibili a cedere su qualche punto, ma è davvero difficile pensare che si possa trovare in due settimane un compromesso, considerato che la riforma dovrebbe approdare in Aula il 28 marzo. Ma vediamo cosa hanno detto ieri i deputati. Il primo a parlare è il capogruppo azzurro in Commissione, Pierantonio Zanettin: “I magistrati non eletti, ma nominati per ruoli politici come quelli di ministro, sottosegretario o assessore, non devono poter rientrare in magistratura. Per noi le “porte girevoli” devono essere rigide. Fra le altre nostre proposte più significative, ci sono quella del sorteggio temperato per l’elezione della componente togata del Csm e quella per la separazione delle funzioni”. Sugli ultimi due punti c’è piena convergenza con la Lega, come spiega l’onorevole Roberto Turri: “Abbiamo presentato una sessantina di subemendamenti. Sono sui temi che non abbiamo mai nascosto di prediligere, come la separazione delle funzioni e l’introduzione del sorteggio temperato nel sistema elettorale. Come avevamo detto nell’incontro con il ministro Cartabia, insistiamo per una scelta forte, più coraggiosa, dopo i problemi emersi nell’ultimo periodo”. Posizione dura anche quella del M5S in merito al tema dei magistrati in politica: “Per noi - ha detto l’onorevole Eugenio Saitta - fra le priorità ci sono le porte girevoli rigide anche per membri del governo e delle giunte regionali”. Sulla stessa questione si è espressa la deputata di Italia Viva, Lucia Annibali: “I subemendamenti sono diretti a garantire l’indipendenza della magistratura realizzando la separazione tra la carriera politica e quella giudiziaria. Per questo prevediamo che i magistrati che hanno ricoperto una carica politica siano collocati, al termine del mandato, fuori ruolo e per quelli che hanno ricoperto una carica elettiva che non possano più essere ricollocati in ruolo, neppure con incarichi diversi da quelli giurisdizionali, giudicanti o requirenti”. Preoccupazione arriva dal Pd, attraverso il deputato Walter Verini, relatore della riforma: “Dal punto di vista politico, non è tanto la quantità di subemendamenti a preoccupare ma un altro aspetto: la riforma può e deve essere migliorata. Ma non può essere stravolta. Nel Cdm che licenziò il maxiemendamento Cartabia, Draghi lo definì un punto di sintesi importante, dicendo che non sarebbe stata posta la fiducia. Ma aggiunse che sui miglioramenti sarebbe servita condivisione. Senza condivisione la riforma avrà una vita parlamentare molto, molto difficile”. Gli replica il responsabile giustizia di Azione, Enrico Costa: “La riforma del Csm è basata sul disegno di legge Bonafede, testo approvato dal Governo giallorosso Conte bis, rispetto al quale eravamo all’opposizione. Comprendiamo che il Pd chieda di non stravolgere la riforma: stavano nel Governo Conte bis che approvò il ddl. Impensabile che le forze che erano all’opposizione di quell’esecutivo possano approvarlo senza radicali interventi. Gli emendamenti presentati dal nuovo esecutivo non sono sufficienti a ribaltarne l’impianto”. Pertanto, spiega Costa, “abbiamo presentato una serie di proposte su temi fondamentali quali, tra le altre, responsabilità civile e disciplinare, serie valutazioni di professionalità, stop ai fuori ruolo, no ai passaggi di funzioni da Pm a giudice e viceversa, stop effettivo alle porte girevoli. Auspichiamo che il Governo non blindi un testo basato su un ddl del Governo Conte e che sia consentito al Parlamento di esprimersi”. Giustizia, riforma travolta dalla maggioranza di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 12 marzo 2022 Csm e Ordinamento giudiziario. Una valanga di sub emendamenti al testo Cartabia che pure era stato approvato all’unanimità in Consiglio dei ministri. Centrodestra e Italia viva convergono sulla separazione delle carriere di fatto e il sorteggio per i togati. L’allarme del Pd: così può saltare tutto- Sono ben 456 i sub emendamenti, cioè le proposte di correzione alla riforma del Csm alla quale la ministra Cartabia ha lavorato per mesi riuscendo, di mediazione in mediazione, a farsi approvare il suo testo all’unanimità in Consiglio dei ministri. Ma questo accadeva un mese fa, ieri mattina quando in commissione giustizia alla camera si sono chiusi i termini per i sub emendamenti (il testo del governo ha la forma di un maxi emendamento al vecchio disegno di legge Bonafede) si è avuta la conferma che la strada della riforma sarà parecchio accidentata. Più dell’80% dei sub emendamenti, infatti, sono firmati dai partiti di maggioranza. Soprattutto da Azione + Europa (68), Lega (60) e Forza Italia (52), che marciano divisi per colpire unite soprattutto su tre punti. Il primo è la separazione di fatto delle carriere di pm e giudici, ci si può arrivare senza cambiare la costituzione prevedendo formalmente una divisione solo delle funzioni ma senza possibilità di cambiarle neanche una volta durante tutta la vita lavorativa del magistrato. È la stessa via tentata da uno dei cinque referendum sulla giustizia e sul punto si può dare per acquisito l’appoggio di Italia viva (che ha firmato un emendamento simile). La stessa maggioranza in commissione, centrodestra più renziani e Azione, ce l’ha sulla carta la proposta di “sorteggio temperato” per l’elezione dei togati del Csm. Cioè l’arma che nelle intenzioni dei sostenitori dovrebbe stroncare per sempre le correnti e che per i contrari - ed era questa la tesi infine accolta dalla ministra Cartabia - non è costituzionale, visto che l’articolo 104 della Carta parla di magistrati “eletti” senza limiti all’elettorato passivo (non sorteggiati). Il terzo punto sul quale la maggioranza potrebbe diventare addirittura travolgendo, perché c’è la convergenza anche dei 5 Stelle, riguarda il ritorno dei magistrati dalla politica alla magistratura. Ritorno escluso definitivamente, secondo le proposte della ministra, solo per le toghe che hanno svolto un mandato elettivo o di governo, mentre per il centrodestra, centristi e grillini l’addio alla toga (e il parcheggio in un ruolo speciale a disposizione dei ministeri) deve riguardare anche le toghe candidate e non elette e quelle impegnati nei gabinetti ministeriali. I 5 Stelle, adesso contrari al sorteggio per l’elezione al Csm, vorrebbero recuperare l’estrazione per la composizione delle commissioni del Consiglio e ripropongono anche l’ineleggibilità al Csm nella quota dei laici di ministri ed ex ministri (entro i due anni). Da qui la preoccupazione del Pd, che ha presentato pochi sub emendamenti (27), in qualche caso in direzione opposta. “La riforma può e deve essere migliorata, ma non può essere stravolta”, dice il relatore Walter Verini. Mentre la responsabile giustizia del partito Anna Rossomando avverte che se si vuole tornare indietro dall’unanimità del Consiglio dei ministri “c’è il rischio concreto dell’affossamento della riforma”. Draghi aveva promesso che non avrebbe messo la fiducia su questo disegno di legge, almeno alla camera, ma di fronte a questo rischio non è escluso che il governo sia indotto a ripensarci. Enrico Costa di Azione è già preoccupato: “Draghi non blindi il testo”. La legge Severino ha resistito alla Consulta ma ora potrebbe cambiare di Giulia Merlo Il Domani, 12 marzo 2022 La legge prevede i casi di incandidabilità di politici condannati per reati gravi contro la pa. E’ più restrittiva per gli amministratori locali, che protestano contro il diverso trattamento. La legge è stata sottoposta per due volte al vaglio della Consulta, che però li ha sempre respinti. In particolare, si contestava il differente trattamento tra politici nazionali e amministratori locali e la retroattività della norma. Ora sono depositati almeno 4 disegni di legge: Lega e radicali vogliono abrogare la norma, Pd e Fratelli d’Italia modificarla nella parte legata agli amministratori locali. In ogni caso, è probabile che la legge subisca un aggiornamento. La cosiddetta “legge Severino” torna sotto attacco: i disegni di legge per riscriverla o abrogarla completamente sono quattro e si sommano al quesito referendario che verrà sottoposto agli elettori in primavera. A dieci anni dalla sua approvazione, il testo è forse il più odiato dai politici e dagli amministratori locali. Fino ad oggi, però, ha retto ad ogni urto: nessuna maggioranza successiva al governo Monti l’ha modificata ed è passata indenne anche al vaglio della Corte costituzionale, che si è espressa in due occasioni confermandone la costituzionalità. Come è nata - La “legge Severino”, che prende il nome dall’allora Guardasigilli Paola Severino, è in realtà un decreto legislativo - il 235 del 2012 - dei quattro approvati in seguito a una legge complessiva che doveva riorganizzare i meccanismi di trasparenza amministrativa e le norme penali in materia di corruzione. La legge a monte è un articolato molto complesso, redatto su stimolo europeo e internazionale: secondo un rapporto Ocse, l’Italia risultava come il terzo paese più corrotto, dopo il Messico e la Grecia. Per questo, e in attuazione di una convenzione dell’Onu contro la corruzione, il governo Berlusconi aveva iniziato l’iter di un disegno di legge per prevenire la corruzione nella pubblica amministrazione. In questo ddl - con modifiche sostanziali volute dal governo tecnico “dei professori” - si è innestata la legge di delega al governo promossa da Severino. Una parte della legge era immediatamente modificativa di leggi esistenti (in particolare con la modifica del codice penale nei reati di corruzione e concussione e con l’introduzione del traffico di influenze illecite), un’altra prevedeva deleghe al governo. Cosa prevede - Prendendo in considerazione solo quella che è definita “legge Severino” - che tecnicamente è un testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità - il contenuto disciplina i casi di eleggibilità e candidabilità di parlamentari e amministratori locali che siano sottoposti a procedimenti penali per alcuni specifici reati. Il testo stabilisce una serie di limiti. Per quanto riguarda i parlamentari, gli europarlamentari e i membri del governo: non possono essere candidati oppure decadono dalla carica coloro che, anche in corso di mandato, sono stati condannati in via definitiva a una pena superiore a due anni per delitti gravi di mafia e terrorismo; per delitti commessi da pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione; per reati per cui è prevista la reclusione non inferiore ai quattro anni. Per quanto riguarda gli amministratori locali (regionali, provinciali e comunali), non possono essere candidati coloro che hanno riportato condanne definitive per delitti di mafia e terrorismo; per reati di corruzione e concussione in tutte le nuove declinazioni introdotte dalla legge Severino; coloro che hanno riportato condanna definitiva superiore ai due anni per delitti non colposi; coloro che hanno subito una misura di prevenzione con provvedimento definitivo. I due articoli più problematici, però, sono l’8 e l’11, che prevedono la decadenza o la sospensione degli amministratori locali anche nel caso in cui abbiano riportato condanna non definitiva - dunque in primo o secondo grado - per tutti i casi di incandidabilità. Sospensione che cessa solo nel caso in cui poi vengano assolti nel successivo grado di giudizio. Infine, i parlamentari e amministratori locali incandidabili dopo una sentenza di condanna definitiva rimangono sospesi per una durata temporale variabile, sulla base della sentenza di condanna ma in ogni caso non inferiore a sei anni, dalla data di passaggio in giudicato della sentenza. I problemi - La legge così approvata ha subito sollevato critiche politiche e negli anni anche una pioggia di ricorsi contro la decadenza o la sospensione di eletti, due dei quali sono arrivati davanti alla Corte costituzionale. La prima è la sentenza De Magistris del 2015, in seguito al ricorso dell’allora sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. Il sindaco era stato condannato in primo grado nel 2014 a un anno e tre mesi per abuso d’ufficio e, per evitare la sospensione da sindaco, ha impugnato la sospensione e ne ha sollevato l’incostituzionalità, contestando la retroattività della legge Severino. Secondo De Magistris, infatti, il decreto era incostituzionale perché prevedeva l’applicazione della sospensione anche per vicende giudiziarie avviate prima dell’entrata in vigore della legge stessa. I giudici costituzionali, però, hanno rigettato il ricorso sostenendo che la sospensione prevista legge Severino non sia una sanzione penale, dunque soggetta al principio dell’irretroattività, ma una regola di diritto civile a tutela dell’ordine pubblico, dunque può essere retroattiva. In ogni caso, il giorno dopo la sentenza di rigetto la corte d’Appello di Roma ha assolto De Magistris, che quindi ha concluso normalmente il mandato. La seconda è la sentenza De Luca del 2016, pronunciata dopo il ricorso del presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca e di un consigliere della regione Puglia. De Luca era stato condannato in primo grado per abuso d’ufficio per una questione legata all’inceneritore di Salerno e, davanti alla sospensione per effetto della Severino, aveva sollevato questione di costituzionalità. La ragione riguardava la differenza di trattamento tra eletti a livello nazionale - per cui la decadenza e l’ineleggibilità scattano solo in caso di sentenza passata in giudicato - ed eletti a livello locale, per cui è prevista la sospensione in caso di sentenza non definitiva. Anche in questo caso la Consulta ha rigettato il ricorso, ritenendo che esista una oggettiva diversità di status e di funzioni tra i due incarichi, quindi non sia possibile configurare una disparità di trattamento. Anche in questo caso, un paio di mesi prima della pronuncia De Luca era stato comunque assolto in appello e quindi aveva continuato a governare la regione. E’ difficile quantificare i casi di sospensione o decadenza in seguito alla legge Severino. Secondo notizie di stampa, nel primo anno di entrata in vigore i casi sono stati 37 per consiglieri locali. Si ricordano però i casi più eclatanti, primo tra tutti la decadenza da senatore del leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi nel 2013, dopo la condanna nel processo Mediaset per frode fiscale, falso in bilancio e appropriazione indebita. Il referendum - Il referendum promosso dalla Lega e dal partito radicale e dichiarato ammissibile dalla Consulta prevede l’abrogazione totale del decreto legislativo. Tuttavia, i promotori sono consapevoli che il raggiungimento del quorum sia molto complicato, vista la settorialità dei cinque quesiti sulla giustizia che verranno sottoposti agli elettori. Per questo sia la Lega che i radicali hanno depositato due disegni di legge che ricalcano in pieno il quesito referendario, prevedendo l’abrogazione della legge Severino. La speranza è che l’abrogazione passi in via parlamentare, facendo leva anche sulle perplessità in merito alla norma che sono presenti anche nel Partito democratico e in particolare nel cosiddetto partito dei sindaci. Gli amministratori locali del Pd, infatti, hanno accolto favorevolmente il quesito referendario e premono per riformare la legge, togliendo almeno la parte che prevede la decadenza degli amministratori anche per condanna solo in primo grado. Per questo i parlamentari del Pd hanno depositato a fine 2021 una proposta di riforma che modifica la previsione della decadenza dopo condanne solo in primo grado, ma lascia inalterato il resto. Con l’abrogazione complessiva della norma come chiedono Lega e radicali, infatti, vengono spazzate via anche le norme che prevedono l’incandidabilità dei condannati in via definitiva per reati contro la pa e altri reati gravi. Secondo il ddl leghista, la legge supera “il principio basilare della presunzione di innocenza, applicando la sanzione della sospensione anche ai soggetti condannati per sentenze non passate in giudicato”. Secondo la Lega, è necessario “eliminare questo automatismo e restituire ai giudici la discrezionalità” di decidere “in caso di condanna, se applicare o meno l’interdizione dai pubblici uffici”. In quella che rischia di diventare l’ennesima frattura nell’attuale maggioranza di governo si è inserita anche Fratelli d’Italia, depositando un ddl autonomo. La soluzione di FdI è più vicina a quella del Pd e incide solo sull’ineleggibilità degli amministratori locali, eliminandola nel caso di condanna a pena di più di due anni; nei casi di condanna non passata in giudicato, aggiungono la previsione di condanna in primo grado ma confermata in appello. Quale che sia la soluzione di compromesso, è probabile che - dopo dieci anni e molte polemiche - la legge Severino venga aggiornata almeno nel punto su cui tutti i partiti sono d’accordo: ammorbidire le previsioni molto rigide contro gli amministratori locali. Procuratori europei, in “Gazzetta” la pianta organica: in 20 presso le principali Procure di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 12 marzo 2022 Pubblicato il Dm con le assegnazioni presso le procure della Repubblica di: Bari, Bologna, Catanzaro, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino e Venezia. È stato pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale n. 58 del 10 marzo 2022 il Decreto 25 gennaio 2022 del Ministero della Giustizia (e l’Allegato) in materia di “Istituzione della pianta organica dei procuratori europei delegati presso le procure della Repubblica di Bari, Bologna, Catanzaro, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino e Venezia”. Il Dm 15 aprile 2021, in attuazione del Dlgs 2 febbraio 2021, n. 9, ha determinato il contingente complessivo dei Procuratori europei delegati e la relativa distribuzione territoriale, individuando le sedi di servizio, il rispettivo ambito di operatività territoriale ed il numero di Procuratori europei delegati addetti a ciascuna sede. L’articolo 24, comma 1, Dl 24 agosto 2021, n. 118 ha poi aumentato il ruolo organico del personale della magistratura ordinaria di complessive 20 unità al fine di assicurare che “l’adeguamento della normativa nazionale al regolamento (UE) 2017/1939 del Consiglio del 12 ottobre 2017, avvenga conservando le risorse di personale di magistratura presso gli uffici di procura della Repubblica individuati come sedi di servizio dei procuratori europei delegati”. Le venti unità necessarie, dunque, possono essere attinte dalle ulteriori risorse disponibili nell’ambito del ruolo organico del personale di magistratura per effetto dell’incremento citato. La ripartizione territoriale dei 20 Procuratori europei sarà la seguente a Bari: 2; Bologna: 2; Catanzaro:2; Milano 3; Napoli 2; Palermo: 2; Roma: 3; Torino: 2; Venezia: 2. La fonte eurounitaria che ha istituito e regolato la Procura europea è costituita dal Regolamento UE n. 1939 del 2017, adottato il 12 ottobre 2017 ed entrato in vigore il 20 novembre successivo. Il decreto legislativo 2 febbraio 2021, n. 9 ha poi provveduto ad adeguare la normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento UE. I procuratori delegati agiscono per conto dell’EPPO nei rispettivi Stati membri e dispongono degli stessi poteri dei procuratori nazionali in materia di indagine, azione penale e atti volti a rinviare casi a giudizio, in aggiunta e fatti salvi i poteri specifici e lo status conferiti loro e alle condizioni stabilite dal presente regolamento. Per quanto concerne invece il trattamento economico dei PED, l’articolo 7 del decreto legislativo n. 9/2021 prevede che, dalla decorrenza degli effetti del contratto sottoscritto con EPPO, cessi nei loro confronti il trattamento economico erogato dal ministero della Giustizia. Ma il servizio prestato viene computato ai fini della progressione economica per anzianità di servizio e agli effetti del trattamento di quiescenza e di previdenza. Il Collegio di EPPO individua una retribuzione mensile base per livelli e progressioni, con correttivi e supplementi in ragione della necessaria equiparazione al livello retributivo corrispondente alla funzione quale procuratore nazionale. Sardegna. Mauro Palma: “La Regione priva di Garante dei detenuti, elementi di arretratezza” ansa.it, 12 marzo 2022 Garante nazionale in visita nell’Isola, focus su 41 bis. “La Sardegna non ha un Garante regionale per i detenuti, nonostante abbia una legge. Questo è un elemento di arretratezza. Sarebbe invece importante avere questa figura che si occupa della situazione di chi è recluso non in regime di carcere duro, mentre per i 41 bis lo può fare solo il Garante nazionale”. Così all’Ansa Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà in questi giorni nell’Isola con i suoi collaboratori per visitare alcune carceri, centri per migranti e altre strutture temporanea di reclusione e confrontarsi con i carabinieri delle varie compagnie, stazioni e comandi provinciali. La trasferta, spiega, “rientra nel protocollo siglato con il comando generale dell’Arma. Ho già incontrato a Cagliari il comandante della Legione Sardegna e una cinquantina di comandanti tra stazioni, compagnie e comandi provinciali, a Sassari ne incontrerò altrettanti”. In programma le visite nelle carceri di Bancali (Sassari) e Nuoro, le uniche nell’Isola con sezioni per i 41 bis, mentre una parte della delegazione farà un sopralluogo nel centro migranti di Macomer. Il viaggio in Sardegna si concluderà la sera di martedì 15 marzo. “Il punto base degli incontri con i carabinieri, ma anche con le altre forze di polizia - chiarisce Palma - è quello di far conoscere il Garante, che non deve essere visto come una controparte, ma incluso in un sistema complessivo”. Tre i nodi al centro della visita nell’Isola: “Le camere di sicurezza, che devono essere considerate anche dal punto di vista della logistica e dell’adeguatezza per ospitare una persona anche temporaneamente; la registrazione delle persone private della libertà, cioè annotare tutto ciò che avviene nel periodo di reclusione; infine gli interrogatori, analizzando - precisa il Garante - quella che può essere la doverosa pressione di un interrogatorio e quella che invece può diventare una forma di pressione psicologica”. Per quanto riguarda gli istituti che ospitano i detenuti in 41 bis, “dal punto di vista della sicurezza, Bancali - sottolinea Palma - è un carcere tra i più garantiti, con quattro persone per cella ben separate. La mia visita servirà a capire se quanto deciso dalla Corte costituzionale sul fronte dell’interruzione di comunicazione viene applicato, cioè che questa interruzione non diventi un aggravio di penalità ma che sia nel limite giusto e doveroso”. Modena. Un carcere, nove morti e mille dubbi di Giuseppe Rizzo L’Essenziale, 12 marzo 2022 Quando nel marzo 2020 la pandemia di Covid-19 aggredisce il paese, il governo impone le prime chiusure. Ma in carcere il distanziamento sociale è poco più di un’aspirazione. Al Sant’Anna di Modena i detenuti sono 546. Devono dividersi 369 posti. Quando arriva la notizia del primo detenuto positivo al virus, scoppia una rivolta. Muoiono nove detenuti. Con un provvedimento di due pagine e mezza il giudice per le indagini preliminari ha archiviato il caso, su richiesta degli stessi pubblici ministeri. Per quei nove morti non ci sarà nessun processo. A ucciderli, secondo il tribunale, è stata un’overdose di metadone e psicofarmaci rubati nell’infermeria del carcere. Tuttavia, in quello che è accaduto non mancano le contraddizioni. E restano in piedi molte domande. Due anni di pandemia ci hanno insegnato che tutto può essere messo in discussione, e che è possibile farlo con toni e argomenti che vanno dalla ragionevolezza alla paranoia. I fatti - dai lockdown ai vaccini, al virus stesso - sono stati smontati e perfino negati. Tutti, tranne uno: la rivolta nel carcere Sant’Anna di Modena dell’8 marzo 2020. In quei giorni, tra i17 e il 10 marzo, decine di galere sono state messe a ferro e fuoco, tre detenuti sono morti a Rieti e uno a Bologna. A Modena, durante e dopo l’assalto, hanno perso la vita in nove. Quella nell’istituto emiliano è stata la più grave sommossa nella storia recente dell’Italia e dell’Europa, eppure sono bastati pochi mesi per archiviarla, giudiziariamente ma anche collettivamente. La procura della città ha chiesto di farlo in settanta pagine, al giudice ne sono bastate due e mezzo. La tesi è che a stroncare i detenuti siano state le overdosi di metadone e psicofarmaci rubati nella farmacia del carcere: nessun ritardo nei soccorsi, pestaggio degli agenti o responsabilità, se non quella dei detenuti, irresponsabili per regolamento. L’allora ministro della giustizia Alfonso Bonafede non ha parlato per tre giorni, poi l’unica cosa che ha detto è stata che le morti “sembrano per lo più riconducibili ad abuso di sostanze”: per lo più, un avverbio a cui sono state impiccate tredici vite e la ricostruzione degli eventi. Oggi sui fatti di Modena rimangono in piedi le indagini su chi ha devastato l’istituto; su Salvatore Piscitelli, morto dopo il trasferimento ad Ascoli Piceno; e sulle violenze denunciate da alcuni detenuti. Ma sono inchieste di cui non si sa molto, e su cui molto non ci si aspetta. Tuttavia, quello che è successo è pieno di contraddizioni e buchi. E dice molto dell’Italia di oggi, di cui la galera è l’ombra. Per questo è importante ritornare a quella domenica di marzo che annunciava la primavera ed è finita in una strage. Prologo: il fiammifero - Nella notte tra i17 e 1’8 marzo 2020 il presidente del consiglio Giuseppe Conte firma un decreto che chiude tutto in Lombardia e in quattordici province del centronord, compresa Modena. Conte spiega che il provvedimento prevede il “vincolo di evitare ogni spostamento” e invita tutti a restare a casa, mantenendo distanze di almeno un metro quando si esce. Le sue parole arrivano nei salotti di milioni di italiani, e in ogni cella: dove non si può restare a casa e la parola “distanziamento” esiste solo come aspirazione, non trovando nella realtà sinonimi ma solo contrari come “assembramento” e “ressa”. Nel carcere di Modena il distanziamento si dovrebbe applicare in una situazione in cui i posti sono 369 ma i detenuti sono 546. Tra loro quasi la metà fa i conti con problemi di tossicodipendenza o disturbi psichiatrici, molti non hanno un euro e le educatrici sono solo tre: non c’è fotografia migliore, cioè peggiore, del carcere come margine dove spingere chi non rientra nei ranghi, dai poveri ai tossicodipendenti. Intanto ogni tramite con il mondo è interrotto: in tutti gli istituti le attività e i colloqui con i familiari sono sospesi per limitare il contagio. È in questa selva di alberi secchi e soli che arriva una notizia: il 7 marzo un detenuto del Sant’Anna è positivo al covid-19. È il fiammifero che appicca. Atto primo: la malora Stefano Petrella, il medico del carcere, la mattina dell’8 marzo si alza presto e alle 8 è già lì. “Ho cercato di parlare con i detenuti per spiegare la situazione e tentare di rassicurarli”, dice nella sua testimonianza. Alla Gazzetta di Modena, due giorni dopo, racconta: “Stavo dunque visitando quando è successa la malora”. La “malora” è questa cosa qui: “Verso le 13 iniziavo a sentire dei forti rumori e delle urla. Ho avuto l’impressione che cadessero dei calcinacci, dei vetri, rumori violentissimi di ferro”. Alcuni detenuti si arrampicano sui muri di cinta “come dei ragni”, dirà un’infermiera; altri recuperano martelli e picconi dal deposito degli attrezzi, spaccano tutto, bruciano materassi; certi provano a evadere. Una delle situazioni peggiori è nella farmacia, assaltata in cerca di psicofarmaci e metadone. Le due infermiere che stanno preparando le terapie - mille in un solo giorno - si barricano in una stanza accanto e dopo una trattativa sono accompagnate fuori dagli stessi detenuti. Una dirà alla polizia: “Il metadone ed altri farmaci erano contenuti all’interno di una cassaforte (...) All’atto di uscire era perfettamente integra e nessun farmaco era stato dalla stessa prelevato”. Il dettaglio della chiusura della cassaforte è centrale. La procura lo prende per buono e nella richiesta d’archiviazione dice che la chiave è custodita “in separata cassetta di sicurezza”, che “i rivoltosi, nella loro furia, sono riusciti a scovare ed a forzare”. Ma la ricostruzione non convince Luca Sebastiani, avvocato dei familiari di due delle vittime di Modena. Nella sua opposizione all’archiviazione fa notare che le infermiere non hanno mai detto di aver chiuso la cassaforte né di aver messo le chiavi in una cassetta di sicurezza. Del resto, la cassetta si sarebbe trovata “in altra stanza, alla quale peraltro non avevano accesso perché c’erano i rivoltosi”. Secondo Sebastiani la cassaforte “ragionevolmente non era chiusa a chiave”, fatto grave perché anche durante una rivolta “è richiesta la messa in sicurezza di tutto quanto, ipoteticamente, risulti pericoloso per la salute o per la vita stessa”. Il giudice per le indagini preliminari ha però rigettato l’opposizione “per insussistenza di alcuna ipotesi di responsabilità”. L’assalto alla farmacia non è l’unico punto poco chiaro. Quello che succede dopo è ancora più contraddittorio. Atto secondo: tre versioni Hafedh Chouchane è un tunisino di 36 anni a cui manca poco per uscire. A raccontare la sua storia è il fratello Ahmed da Mahdia, in Tunisia, la città dove sono nati. “Hafedh è arrivato nel 2005 a Desenzano, in provincia di Brescia, per lavorare come cameriere”, dice, “poi nel 2008 è scoppiata la crisi e l’hanno licenziato”. Finisce a raccogliere pomodori nelle serre di Pozzallo e infine a vendere pesce a San Benedetto del Tronto. “Ma non ce la faceva e si è messo a spacciare”, dice il fratello. Dal 2017 gira diverse galere e vede la sua salute mentale e fisica implodere, come migliaia di altri: in Italia un terzo dei detenuti è in carcere per reati legati alla droga; quasi uno su dieci ha problemi psichiatrici gravi e circa uno su tre prende antipsicotici o antidepressivi, dice l’associazione Antigone. Chouchane è dipendente da eroina e cocaina; in cella ingerisce pile e una lametta; i medici certificano “disturbi psichici”; nel 2019 si cuce le labbra per protesta; nel 2020 si fa diversi tagli sulle braccia. “L’ultima volta che l’ho sentito mi ha detto che la galera lo soffocava”, dice Ahmed. Piange quando cerca di ricostruire le ultime ore del fratello. Quello che è sicuro è che Chouchane beve del metadone poco dopo l’inizio della rivolta. Ma sui momenti successivi le versioni citate nella richiesta d’archiviazione sono addirittura tre. In una, il comandante della penitenziaria dice che “alle ore 19.30 circa” alcuni detenuti lo portano “fino al passo carraio interno della portineria centrale dell’istituto poiché non stava bene”. Fuori i medici del 118 “ne constatavano il decesso” alle 20.20: noli è chiaro cosa sia successo in quei cinquanta minuti. In un’altra, lo stesso comandante dice che il corpo è lasciato “al piano terra delle scale riservate al personale di polizia”. Un detenuto che ha aiutato Chouchane racconta invece che si è sentito male poco dopo l’inizio della rivolta e di averlo portato subito, non alle 19.30, “giù al piano terra, alla rotonda”. “Com’è possibile che ci sono tutte queste versioni, qual è la verità?”, si chiede Ahmed Chouchane. Intermezzo - “Le carceri sono concepite per far sì che la sorveglianza sui detenuti possa essere esercitata al massimo livello. Ciò non toglie che l’incontrollabile sia costantemente presente. Quando raggiungono il limite estremo della disperazione, gli esseri umani trovano la saggezza, oppure sfuggono a ogni controllo. L’incontrollabile e la saggezza sono rinchiusi in una stessa cella, dietro la stessa porta della disperazione assoluta”. John Berger, “Modi di vedere” (Bollati Boringhieri 2004). Atto terzo: il rischio eccentrico - La morte di Chouchane “avrebbe dovuto mettere in allerta medici e autorità sulle overdosi che da lì a poco si sarebbero potute verificare”, sostiene Simona Filippi, avvocata dell’associazione Antigone. Filippi e Antigone, che ha chiesto di essere riconosciuta come parte civile al processo sulle morti, ricordano che “l’overdose da metadone è ‘raramente istantanea’“. Possono passare ore, ma anche più di un giorno, e possono esserci delle ricadute. Eppure, dopo i primi soccorsi molti detenuti sono rimandati in cella, dove probabilmente hanno nascosto metadone e farmaci. Ma le perquisizioni, si legge nella richiesta d’archiviazione, non hanno l’obiettivo di “tutelare colui che fa ingresso in carcere”. Ù Devono piuttosto evitare “dimettere a repentaglio la sicurezza dell’istituto”. Servono insomma a proteggere il carcere, non le persone. È una logica simile a quella dietro al cosiddetto rischio eccentrico citato dal giudice che ha archiviato tutto, e che prevede che in una situazione eccezionale come quella di Modena, l’amministrazione non sia più obbligata a garantire la sicurezza dei detenuti. Tra quelli rispediti in cella c’è anche Ali Bakili. Cinquantatré anni, tunisino, Bakili è cardiopatico e ha bisogno di “ossigeno liquido per 24 ore al giorno”, si legge nel suo fascicolo. “Mio fratello era malato fin da bambino”, dice Zina Bakili, sessant’anni, da trentacinque in Italia. La donna racconta che Bakili la raggiunge a metà degli anni novanta a Varese. Per un po’ lo ospita e l’equilibrio regge, il fratello l’aiuta quando non lavora come imbianchino. “Poi ha cominciato a bere e a frequentare persone con cui si drogava”. Arrestato per spaccio, sconta i domiciliari dalla sorella, che ogni giorno lo accompagna al centro per disintossicarsi. Sembra rimettersi in piedi, ma una sera sparisce. “Poteva essere i11998-1999, da allora non l’ho più visto, avevo sue notizie da mio fratello Yusuf”, dice la donna. In tutti quegli anni Ali Bakili entra ed esce di galera. L’ultima volta lo arrestano per rissa ad Ariano Irpino, dove fa il posteggiatore irregolare. Yusuf Bakili racconta di aver provato a tirarlo fuori: “Vivo a Napoli e gli avevo affittato una stanza qui peri domiciliari, ma alla fine ci hanno detto di no”. Ad Ariano Irpino Bakili si taglia braccia e gambe contro la detenzione, poi lo trasferiscono a Modena. Al Sant’Anna ingerisce due pile. Il 4 febbraio 2020, si legge negli atti d’indagine, i medici scrivono: “Le attuali condizioni di salute del detenuto sono incompatibili con il regime detentivo”. Ali Bakili però resta dentro e, nonostante abbia sospeso il metadone nel 2015 “senza apparenti ricadute”, come è riportato nel suo fascicolo, l’8 marzo vi si attacca fino a stare male. Lo visitano ma sulla sua scheda sanitaria la firma è di una dottoressa che nella sua testimonianza dice che il suo nome è scritto male e che nega addirittura di averla compilata. Un medico del 118 lo vede di nuovo il 9 marzo, sempre per overdose. Sostiene di avergli dato dei farmaci per farlo riprendere, ma le consulenti della procura dicono ai pubblici ministeri: “Non risulterebbe essere stata effettuata la somministrazione degli antidoti”. Le indagini ipotizzano che in cella Bakili beva dell’altro metadone. Lo trovano morto l’indomani intorno alle 11. “Su quello che è successo nessuno è stato chiaro”, dice Zina Bakili. Yusuf Bakili racconta che il consolato di Napoli “non mi ha fatto entrare per il covid, mi hanno detto al citofono che Bakili era morto”. Le notizie che i fratelli riescono ad avere sono tutte così: al telefono, al citofono, a mezza bocca. Zina Bakili dice che è una delle cose che le fa più male. Atto quarto: le violenze - Nella notte in cui Bakili muore le autostrade sono deserte per via delle restrizioni stabilite dal governo. A interrompere il buio sono in gran parte le luci dei mezzi della polizia che trasportano centinaia di detenuti da un carcere all’altro. Da Modena sono trasferite 417 persone. Partono nonostante non ci siano i documenti che attestino le visite mediche, come previsto dalla legge. “Il dato formale della mancata compilazione”, scrive la procura nella richiesta d’archiviazione, “non poteva certamente impedire le operazioni di trasferimento”. Quarantuno finiscono ad Ascoli Piceno, a 367 chilometri di distanza. Tra loro c’è anche Salvatore Piscitelli. Quarant’anni, cresciuto a Saronno ma originario di Acerra, Piscitelli è in carcere per aver rubato e usato una carta di credito. È l’ultimo di una serie di furti compiuti fin da ragazzo, cioè da quando ha cominciato ad avere problemi di dipendenza. Un ex detenuto che preferisce restare anonimo dice: “Non era un violento, ha fatto tante piccole cazzate, sempre per pagarsi la roba. I suoi li aveva persi da piccolo ed era cresciuto con la nonna in una situazione non proprio fortunata”. Piscitelli trova un equilibrio grazie a un corso di teatro nel carcere di Bollate, a Milano, e a due comunità di recupero. Si tiene lontano dai guai fino al furto della carta di credito, fino a Modena, fino alla rivolta. Ad Ascoli Piceno arriva alle 12.25 del 9 marzo, lo visitano alle 2.30 e poi negli atti che lo riguardano ricompare alle 13.20, quando gli agenti si accorgono che non risponde. Portato in ospedale, “il sanitario di turno alle 17.25 constatava il decesso” per “stato di corna avanzato da verosimile intossicazione da farmaci”. Le diciassette pagine del sotto-fascicolo su di lui aggiungono poco o nulla. Il medico che lo visita ad Ascoli alle 2.30 scrive che non c’è “niente da rilevare” e che è in “apparente buona salute”. Ma alcuni detenuti trasferiti con Piscitelli dicono che non è così. Mattia Palloni è stato suo compagno a Modena e nella sua testimonianza racconta che non hanno partecipato alla rivolta, ma che una volta nel piazzale del carcere ha visto “Piscitelli ricevere una bottiglia di metadone” e bere. Già nel viaggio per Ascoli “assumeva uno stato di torpore”. Nell’istituto marchigiano i due sono separati e Palloni perde di vista il compagno. Dopo aver chiesto di essere messi di nuovo insieme, lo ritrova in cella privo di coscienza. Non sono le uniche cose che Palloni racconta. Insieme ad altri quattro ha firmato un esposto in cui dice di aver visto gli agenti prendere “a colpi di manganellate al volto e al corpo” detenuti “in palese stato di alterazione psicofisica”. Aggiungono di essere stati “picchiati selvaggiamente e ripetutamente”. Lo sarebbe stato anche Piscitelli. La mattina dopo l’arrivo ad Ascoli “emetteva dei versi lancinanti (...) qualcuno senti un agente dire ‘fatelo morire’“. Tra i firmatari dell’esposto c’è Claudio Cipriani, anche lui in carcere per reati legati alla droga. Al telefono la madre Annamaria dice che “si è esposto perché vuole giustizia”. In una chiamata “mi ha detto che Piscitelli lo avevano trascinato loro perché non si reggeva in piedi. E che li hanno picchiati”. Su queste presunte violenze la magistratura sta indagando e nonostante siano passati due anni non c’è un rinvio a giudizio né un’archiviazione: il tempo sospeso della galera ha allungato la sua ombra sulle inchieste. Epilogo - Nel 2019 nel carcere Sant’Anna quattro detenuti rubano dodici uova durante un corso di cucina. Le uova sono crude, vietate dal regolamento: la galera ha di questi regolamenti, metodici nella follia. La procura chiede l’assoluzione, ma il tribunale dopo due anni condanna ciascuno a due mesi e venti giorni. È la stessa giustizia che archivia nove morti in due pagine e mezza, e imbastisce un processo per dodici uova. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Per fortuna c’era un giudice di Conchita Sannino La Repubblica, 12 marzo 2022 Nelle immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere, la spedizione punitiva contro i detenuti. Oggi sono sotto processo 108 tra agenti e dirigenti. Per 12 di loro è stato chiesto il rinvio a giudizio per omicidio colposo. Il racconto un blitz notturno. La scoperta dei detenuti pestati. I video. È anche grazie a Marco Puglia se la mattanza nel carcere campano oggi è un processo. E non solo. “Bisogna vedere, onorevoli colleghi. Viverci, in quelle celle. In certe carceri italiane. Bisogna starci, per rendersene conto”, esortava Piero Calamandrei. Difficile immaginare che quel discorso, ancora un secolo dopo, avrebbe fornito la chiave per svelare una vergogna occultata dietro impenetrabili muri di cinta. Un giudice di Sorveglianza, Marco Puglia, invece bussa a sorpresa in una casa circondariale. È quasi notte. Ma i vertici non possono vietargli l’ingresso, lo impone la legge: poteri di vigilanza, articolo 69 dell’Ordinamento penitenziario. Lui scopre che le timide denunce fatte a voce via Zoom sono fondate, i feriti numerosi, quasi tutti i carcerati di quel padiglione presi a botte, i più malconci isolati in Medicheria senza assistenza, su materassi senza lenzuola né cuscini. A quel punto chiede carta e penna: due, tre, fino a dieci volte. Ma agenti e ispettori resistono, dicono di non trovare né fogli né penna. Lui usa allora il bloc notes del cellulare. Nasce così l’indagine su quella che sarà definita l’“ignobile mattanza” messa a segno, durante il primo duro lockdown, nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. E che ora vede avviata al processo un’intera catena di comando dell’amministrazione penitenziaria. È un’onta su cui anche l’Europa chiede risposte. Perché la rappresaglia di Stato colpisce decine di inermi detenuti: tutti colpevoli di aver inscenato, il giorno prima, il caos e la protesta per chiedere più assistenza e presidi di protezione anti-Covid. Ciò che doveva restare “blindato”, con una catena di falsi e posticci ritrovamenti di armi e oggetti offensivi, diventa invece incredibilmente documentato. Le telecamere che qualcuno dei “soci” ha dimenticato di disattivare registrano le violenze sui reclusi. Scene che gli imputati di oggi cercheranno vanamente di cancellare. E invece, sequestrate dalla Procura e poi allegate agli atti, quelle immagini mute e potenti faranno il giro del mondo. Detenuti schierati con la faccia al muto, costretti a inginocchiarsi, presi a manganellate, a sputi. Addio impunità. “Nonostante lo sforzo, il film va in onda in forma completa”, scrive preoccupato in chat, il 14 aprile 2020, Angelo, uno dei poliziotti intercettati. Impossibile dimenticare - Era l’ottobre del 1948, quando Calamandrei citava la lezione di Pasquale Saraceno: “Ho conosciuto a Firenze un magistrato di eccezionale valore, che i fascisti assassinarono nei giorni della Liberazione, il quale aveva chiesto, una volta, ai suoi superiori, il permesso di andare sotto falso nome per qualche mese in un reclusorio, confuso coi carcerati. Vedere, questo è il punto. Per poter capire”. Oggi, se lo scandalo dei pestaggi consumati il 6 aprile 2020 nella fatiscente struttura Francesco Uccella incardina il processo più grave messo in piedi sulla gestione di un carcere nell’Italia repubblicana - 108 indagati tra agenti, comandanti e funzionari, accuse di tortura, lesioni, falso, depistaggio, per 12 anche di omicidio colposo - è perché un’altra toga, della Sorveglianza, cenerentola della magistratura italiana, ha deciso andare a vedere. È il giudice Puglia a violare il primo, duro coprifuoco per arrivare a sorpresa in quel bunker. Senza preannunciare visite, quasi le dieci di sera del 9 aprile, bussa al carcere di Santa Maria Capua Vetere. “Mi procurai da solo la tuta isolante, i guanti, i sistemi di protezione. Le strade erano deserte e c’era il terrore di contagiarsi, specie in carcere, anch’io ne avevo un po’ paura”, si limita a dire oggi, alzando le mani. “Sarò testimone al processo, toccherà ai giudici del Tribunale accertare i fatti. Quindi io mi fermo qui. Ma è stata un’esperienza umana oltre che professionale che non dimenticherò”, spiega al Venerdì. Respinge altre domande, saluta, si allontana, una sacca da palestra sulle spalle. Quella sera, Puglia entra nella casa circondariale, scende nel girone infernale del Reparto Danubio, ascolta i lamenti di chi è ferito, di chi è stato “punito”, sente i detenuti in isolamento e medicheria. E vede. Lividi, ecchimosi, volti tumefatti, ginocchia ferite, capelli o barbe tagliate con la forza. “Tutti si sorpresero della mia visita. Rimasero basiti”, scriverà nella sua relazione consegnata al procuratore aggiunto Alessandro Milita e alle pm Daniela Pannone e Alessandra Pinto. In un angolo, sofferente, c’è un ragazzo algerino di 28 anni, Hakimi Lamine, già affetto da epilessia, morirà pochi giorni dopo. È il motivo per cui la Procura ha ottenuto dal Riesame l’imputazione di omicidio colposo per dodici imputati. Su un altro letto, “il detenuto Gennaro Cocozza indossa ancora una maglietta lacerata, che mi disse esser stata strappata durante le operazioni del 6 aprile. Mi affacciai in bagno, vidi che non aveva alcuna dotazione, niente con cui pulirsi, il che in tempo di emergenza Covid risulta ancora più indegno e insalubre”. E ancora: “In ogni mio spostamento fui seguito come un’ombra da tre unità della polizia penitenziaria. Chiesi loro più volte, non disponendo di carta, che mi portassero un foglio e una penna. Anzi, lo domandai una decina di volte”. Ma niente. “Percepii un leggero sgomento per la mia presenza lì”. Pagheremo tutti - Il Guardasigilli è Alfonso Bonafede, al suo fianco il direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Francesco Basentini. Nel giugno 2021, il blitz è uno tsunami che decapita la linea di comando e manda agli arresti oltre un centinaio di persone tra agenti e vertici della sicurezza interna. “Pagheremo tutti, trecento agenti, funzionari, tutti. Chiuderanno Santa Maria Capua Vetere”, prevede il comandante Pasquale Colucci. Ignora di essere già intercettato, mentre parla con il provveditore Antonio Fullone, numero uno dell’amministrazione penitenziaria in Campania. Che frena: “Noi teniamoci fuori, per quanto possibile”. Negherà ogni addebito. Non sapeva nulla, giura: lui dispose solo un “ripristino di ordine”. Nove mesi dopo, l’udienza preliminare non si è ancora conclusa e il Ministero assume due ruoli inconciliabili eppure possibili. Da un lato, la Giustizia ha le sembianze della vittima, presenta il conto, si costituisce parte civile, con Antigone e altre associazioni, per aver subìto un grave contraccolpo dalla “spedizione punitiva” delle divise infedeli. Dall’altro, la stessa istituzione incarna l’arbitrio e il ghigno di chi ha bastonato. Il ministero è infatti citato come responsabile civile dai familiari dei detenuti pestati: l’accusa è che gli ordini calassero dai vertici. Cambio della guardia - Intanto, quelle quattro ore di video degli abusi sono un live devastante. Che allerta la Corte di Strasburgo, spinge il presidente del Consiglio Mario Draghi e la ministra della Giustizia Marta Cartabia a metterci la faccia. A Santa Maria, in un caldo torrido, li accolgono gli applausi dei carcerati. “Siamo qui ad affrontare le conseguenze delle nostre sconfitte”, è l’incipit del premier. Sa che l’Europa ascolta. La Guardasigilli ha già tracciato, con il comitato di esperti, la riforma penitenziaria. E dopo il traghettamento di Dino Petralia, come successore al Dap è stato scelto un giudice supergarantista, Carlo Renoldi, nonostante i mal di pancia di M5S e destra. “È l’uomo giusto nel posto sbagliato”, protesta la polizia penitenziaria. Ma quel che è accaduto in quel carcere, e quel che è stato visto, ormai è difficilmente cancellabile. Sondrio. Giovane suicida in carcere, si indaga sulla sorveglianza di Michele Pusterla Il Giorno, 12 marzo 2022 Le indagini per fare piena luce sul suicidio, avvenuto l’altro pomeriggio nel carcere sondriese, sono alle battute iniziali. Una notizia che ha scosso non solo il mondo giudiziario, ma anche la società civile, quella della tragica fine del detenuto in isolamento (non perché ritenuto pericoloso, ma per il protocollo anti Covid previsto per i nuovi arrivati nella struttura penitenziaria), David Selvaggio, 34 anni, arrestato pochi giorni fa dai carabinieri su ordinanza di custodia cautelare in carcere firmata dal gip Antonio De Rosa, in accoglimento della richiesta del sostituto procuratore Stefano Latorre che ha coordinato le indagini sul rapinatore seriale di donne in Bassa Valle. La svolta all’inchiesta è arrivata quando Selvaggio ha fatto un colpo a Morbegno, aiutato dalla compagna, con l’auto di quest’ultima, ai danni dell’unica vittima di sesso maschile, individuati entrambi dai carabinieri della locale caserma che al caso-rapine hanno lavorato con i colleghi del Nucleo operativo della Compagnia di Chiavenna unitamente ai militari della Stazione di Delebio. Ieri avrebbe dovuto tenersi l’interrogatorio di garanzia anche di Selvaggio, problemi di tossicodipendenza, come l’amica, e un curriculum di precedenti non proprio trascurabile. Il procuratore Piero Basilone conferirà l’incarico per l’autopsia, mentre l’altro pomeriggio, subito dopo il suicidio per impiccamento, è accorso sul posto per i primi accertamenti con gli investigatori della Squadra Mobile e della Scientifica; nel frattempo le pattuglie provvedevano a chiudere l’accesso a via Caimi, la strada dove si trova la Casa circondariale. David, dimora nella zona di Dubino, si è tolto la vita impiccandosi con alcune lenzuola annodate alle sbarre della sua cella? O con i lacci delle scarpe? Doveva essere sorvegliato a vista? Era stato sottoposto a una visita psicologica dal momento del suo ingresso? tutte risposte cui dovrà dare risposta l’inchiesta. L’indagine è blindata. Torino. Cartabia al Sermig. “Nel carcere ho visto un reparto disumano” di Luca Cereda Vita, 12 marzo 2022 “Pace e giustizia”, soprattutto una giustizia ancora lontana dal compiersi nel carcere di Torino, sono stati i temi al centro dell’incontro al Sermig di Ernesto Olivero della Ministra della Giustizia Cartabia. “Cos’è la giustizia?”, si è chiesta come prima cosa, a se stessa e al pubblico, la Ministra Cartabia al Sermig dopo la visita al carcere di Torino al centro di un’inchiesta per presunte violenze e torture sui detenuti. “Nessuno sa la risposta. Ma l’unico modo di capirlo è partire dall’esperienza di ingiustizia”. È la riflessione con cui la Ministra Cartabia ha iniziato l’incontro all’Università del dialogo del Sermig. Ospite di Ernesto Olivero, fondatore del centro che è un simbolo di integrazione, accoglienza e solidarietà. Maltrattamenti e abusi, tutto quello che il carcere non deve (più) essere - La giornata torinese della ministra è iniziata proprio il carcere di Torino, oggetto di inchieste e processi che raccontano presunte violenze, torture e maltrattamenti avvenuti all’interno di alcune sezioni del penitenziario. “Non è tempo di distinzioni né contrapposizioni inutili - ha detto Cartabia -, le difficoltà in questo carcere sono tangibili, ma se ci sono forza, sinergia, cooperazione e uno spirito di unità come mi è stato segnalato, facciamo in modo che diventino il paradigma per il cammino che ci attende”. La Ministra è stata accompagnata dentro l’istituto di pena dalla neo-direttrice della casa circondariale Cosima Buccoliero, dal vicecomandante della polizia penitenziaria Maurizio Contu e dalla garante dei detenuti Monica Gallo. Ha attraversato i padiglioni di alta sicurezza, ma anche gli spazi di camminamento e le aule universitarie dove si tengono le lezioni. Cartabia ha preso la parola anche subito dopo la sua visita in carcere, parlando incontro con il sindaco Stefano Lo Russo, che l’ha accolta a Palazzo Civico: “C’è la consapevolezza delle difficoltà logistiche e ambientali in questo carcere, e lo spirito di collaborazione che ho trovato dalla nuova direttrice dev’essere solo il punto di partenza, ho trovato un reparto al limite del disumano”, ha spiegato la guardasigilli. La situazione del carcere di Torino e da dove ripartire - A Torino, nel suo carcere, è infatti aperto un procedimento per decine di episodi di violenza consumati tra il 2017 e e il 2019 - e aggravatisi con le rivolte della primavera 2020 con l’inizio della pandemia - e portati all’attenzione della magistratura dalla garante dei detenuti Monica Gallo. L’inchiesta coinvolge l’allora direttore del carcere, Domenico Minervini (rimosso dall’incarico), l’ex comandante della polizia penitenziaria Giovanni Alberotanza (idem), i sindacalisti Leo Beneduce e Gerarado Romano. Avrebbero coperto o informato delle indagini gli autori delle vessazioni, poliziotti penitenziari violenti e maneschi. Ad essere presi di mira, stando ai racconti e agli accertamenti, furono in particolare i detenuti più fragili, quelli che dimostravano qualche scompenso psichico. “Picchiavano e ridevano”, scrive la procura nel capo d’imputazione di alcuni agenti. Calci, pugni, sputi. Un detenuto venne insultato e costretto a ripetere: “Sono un pezzo di merda”. A un altro urlavano “figlio di puttana, ti devi impiccare” e gli ruppero il naso e un dente. Ieri però a lungo si sono confrontati sul futuro del Lorusso e Cutugno, anche a fronte dell’impegno del Ministero per stanziamenti di ulteriori fondi per il penitenziario dopo quelli già elargiti. L’obiettivo è riaprire la sezione chiusa entro l’estate, con un ulteriore finanziamento di un milione di euro per gli impianti di videosorveglianza. “Abbiamo condiviso l’esigenza di una nuova fase di gestione della casa circondariale. Da parte nostra c’è il massimo impegno e da parte sua massima disponibilità a farsi parte attiva”, ha concluso Lo Russo. In carcere bisogna ripartire dalla “laurea di un detenuto” - La guardasigilli ha scelto di continuare la sua riflessione all’Arsenale della Pace del Sermig con un’immagine evocativa: l’affresco del “Buono e del Cattivo Governo” di Ambrogio Lorenzetti: ovvero un’allegoria in cui la giustizia genera concordia e buon governo, che consente alla pace, rappresentata da una donna, di sedersi su un cumulo di armi: “C’è un nesso tra giustizia e pace sociale. Ma non è automatico. È una scelta. Perché l’ingiustizia genera rabbia e vendetta. Ma la risposta può essere diversa”. E in questo contesto assume un ruolo il concetto di rieducazione all’interno del carcere. A sollevarlo una ragazza, rivolgendo una domanda. “Siamo fiduciosi che il carcere possa diventare ciò che la costituzione chiede: un luogo di rieducazione - aggiunge Marta Cartabia -. Ho visitato un reparto inguardabile per la disumanità, le condizioni di lavoro della polizia e quelle di vita dei detenuti. Ma ho visto anche il volto di un ragazzo che si è laureato a seguito di percorso in cella. Sono fiduciosa che il carcere possa diventare ciò che la Costituzione preveda che sia”. Brescia. Detenuti, ecco le loro proposte: “Chiediamo di poter lavorare” di Mara Rodella Corriere della Sera, 12 marzo 2022 La garante: bene i controlli su misure alternative se le migliorano. Ne hanno parlato, di nuovo, dopo le tensioni del 14 febbraio scorso, quando le proteste degenerarono. E dopo una commissione coordinata con la direzione, in cui si è affrontato anche il nodo misure alternative - di recente Tribunale di Sorveglianza, procura generale e forze dell’ordine hanno siglato un protocollo per intensificare i controlli e standardizzare i flussi informativi - i detenuti di Canton Mombello (sono 360, oltre la metà definitivi) hanno messo nero su bianco le loro proposte volte a migliorare la gestione della vita interna al carcere e una quotidianità complicata, faticosa, ma “nella piena consapevolezza molte difficoltà non dipendano da una cattiva volontà da parte dell’amministrazione penitenziaria, quanto piuttosto da limiti strutturali oggettivi” spiega la garante dei loro diritti, Luisa Ravagnani. Cinque cartelle, consegnate ai ministeri di competenza e alla Sorveglianza, per spiegare che difficoltà apparentemente banali, in cella, non sono più tali. Per chiedere per esempio all’ingresso “un kit con lenzuola, coperte, biancheria intima e prodotti per l’igiene personale”, uno sportello di consulenza e regole chiare, la creazione di “gruppi di ascolto e auto-aiuto”. Ma anche “la riorganizzazione dei colloqui, spesso in ritardo di ore” anche in presenza di minori, o che siano “implementati i corsi di formazione, in prospettiva di un ritorno in libertà” e “il numero di lavori accessibili a detenuti senza qualifiche speciali o quantomeno velocizzando la rotazione interna”. Potessero, le celle (“in condizioni pessime”) le ritinteggerebbero e ripulirebbero: “Ma anche su base volontaria, andrebbero tutti assicurati così come il materiale pagato. E mancano i fondi”, spiega la garante. Che sottolinea: “Quello del lavoro è davvero il tema più sentito dentro il carcere, ma non ci sono aziende esterne con cui collaborare nonostante l’amministrazione si spenda da tempo per trovare disponibilità” affinché, anche a Caton Mombello come a Verziano, “si possa portare parte dei processi produttivi. Ma le barriere strutturali pesano tantissimo”. Tre anni fa fu firmato un protocollo - apripista - tra Sorveglianza e all’epoca Aib proprio per favorire il lavoro dei detenuti, organizzando anche tirocini formativi, in questo caso quelli in misura alternativa: “Dopo la pandemia l’interlocuzione è ripresa a fine 2021, un percorso meraviglioso che ha portato anche a un’assunzione a tempo determinato”. Ma è difficile. Perché “qui fuori, un lavoro, lo devono trovare sulla base di colloqui portati avanti da avvocati, famigliari e amici di buona volontà: di persona, non ci possono andare. Nella maggior parte dei casi un imprenditore sceglierà chi può guardare in faccia”. Queste misure alternative servono eccome, “ma non può pesare tutto sulle cooperative sociali: ben vengano controlli più mirati su merito e rispetto dei benefici, purché siano tesi a migliorarne l’efficienza, le attese e l’organizzazione. Perché i numeri sono alti, ma non danno conto della fatica enorme, oltre che dei tempi lunghissimi, che ci sta dietro per metterle in pratica”. Non solo. “La componente di rischio è intrinseca alla concessione del beneficio e sono i primi i detenuti a sapere che la posta in gioco è altissima: se si bruciano la possibilità non ne avranno un’altra”. In Italia, Brescia in linea, numeri del ministero alla mano, del 5.9% delle revoche dei percorsi alternativi “solo lo 0.7% è riferibile alla commissione di nuovi reati”. Milano. Bande violente, storie di emarginazione e disperazione di Massimo Pisa La Repubblica, 12 marzo 2022 “Campo di rapine, quando esco dal carcere ricomincio”. La mappa della criminalità giovanile dei carabinieri: appartenenza al territorio, famiglie assenti. Molti vivono tra i nomadi, dove l’affitto si paga con la refurtiva. “Ha da poco compiuto quattordici anni, e solo per questo abbiamo finalmente potuto contestarle dei reati, perché prima era piena di segnalazioni ma non era imputabile. Entriamo in casa sua per notificarle l’ordinanza, e che fa? S’impaurisce? Si mette a piangere? Chiede scusa? No: ci guarda, bestemmia e si fa portare via”. La scena raccontata da un investigatore riguarda l’ultima operazione dei carabinieri della compagnia Monforte, quella che ha messo fine alle imprese criminali della banda Z4 e dei suoi due sottogruppi, i 20139 che gravitano su Calvairate e la Z4 Gang/Crvt che chatta su Telegram e si dà appuntamento in piazzale Gabriele Rosa o nei giardinetti di via Nervesa. Il capo di questo gruppo ha 17 anni. Era stato arrestato qualche settimana prima dai poliziotti del commissariato Lambrate, per una rapina in piazzale Leonardo. L’ennesima. “Abbiamo provato a farlo parlare - racconta un altro investigatore - e dopo un po’ ci fa: “Io campo di rapine. E quando uscirò tornerò a fare rapine”. Ci dice anche che è stato lui il primo a minacciare le vittime per farsi dare il pin e sbloccare gli smartphone, per non accontentarsi più dei soliti cinquanta euro nei negozietti che vendono pezzi di ricambio, dove li piazzava”. Lo studio dei carabinieri di Monforte, guidati dal maggiore Silvio Ponzio, è la prima analisi organica sulle bande giovanili in città. Repubblica ne ha dato conto sul giornale di ieri, ma dietro quella mappatura c’è un lavoro investigativo di mesi e un collage di storie di disperazione ed emarginazione. Moltissimi, infatti, sono i minori non accompagnati a farne parte, ragazzi abbandonati dalle famiglie che trovano appoggio e rifugio in case abbandonate o campi nomadi dove l’affitto, spesso, si paga in refurtiva. E i modelli di riferimento, a volte, amplificano la logica del noi contro loro. Prendiamo il video di La strada, canzone del rapper El Kobtan, che parte da un servizio al tg sugli arresti degli appartenenti alla “K.O.gang” di via Adriano. O al rimpallo tra rime, rivolte, esibizioni di pistole e aggressioni che fa da sfondo alla musica del Collettivo Seven 7oo e la banda Z7 (o 20148, e anche qui ritorna il cap postale a sottolineare l’identità di quartiere). Altro motivo che emerge dall’analisi dei carabinieri è proprio questo legame col territorio d’appartenenza. “Perché lo conoscono meglio, lo vivono - spiegano gli investigatori - e questo dà loro un vantaggio nelle aggressioni e nelle fughe”. Ecco quindi gli Z2 (0 20127), che crescono all’ombra dello spaccio e degli abusivi che abitano i palazzi di via Arquà, via Clitumno, via Chavez. Gli stessi ragazzini che mesi fa erano stati protagonisti di diverse risse sui vagoni del metrò verde. “Tanto è vero che quando li abbiamo perquisiti - aggiungono i carabinieri - molti avevano ancora i martelletti rubati dai convogli e portati a casa così, per gioco”. Ecco i Rimaponti M5, che spadroneggiano tra i coetanei tra via Pampuri e i margini del parco Sud, e la Z5 Gang (o Group 5) di nuovo legati alla scena rap emergente del Gratosoglio. Ecco i B. B., che sta per Barrio Banlieue, che dal Barrio’s di via Mazzolari puntano la Darsena e piazza dei Mercanti nei weekend, e gli Z6 che presidiano i vialoni tra via Depretis e Famagosta. O, ancora, gli Z9 (o Z9na), come il titolo della loro chat su Whatsapp, entrati nelle cronache per qualche rissa di troppo tra i campetti della Bicocca e apparentemente chetati dalle perquisizioni del commissariato Greco Turro. Emergono infine, in questa mappatura preziosa, i dieci ragazzini della Gang Duomo, tutti abitanti in centro, e già pizzicati a derubare coetanei di telefoni, scarpe, catenine e cappellini tra le Colonne, piazza Vetra, la Darsena e il Duomo. E gli Z8, o piazza Prealpi, gruppo di una trentina di ragazzi tra i 17 e i 26 anni, qualcuno con qualche parentela con le storiche famiglie di ‘ndrangheta Serraino e Di Giovine. Cognomi che pesano ancora, anche a quella età. Palermo. Viaggio nel carcere, il sacerdote “orecchio” per i detenuti di Maria Stefania Causa ilmediterraneo24.it, 12 marzo 2022 L’importanza del ruolo del cappellano nelle parole di un prete che da un anno esercita questo servizio nel carcere minorile Malaspina, don Carlo Cianciabella, della dirigente di quest’ultimo, Clara Pangaro, e dell’arcivescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice. All’interno del carcere, accompagna moralmente e spiritualmente le persone. Le aiuta a vivere la loro esperienza di detenzione in maniera costruttiva, attraverso l’ascolto ed il conforto. Ecco il ruolo del cappellano. Abbiamo ascoltato a tal proposito tre voci importanti: un cappellano che da un anno esercita questo servizio nel carcere minorile Malaspina, la dirigente di quest’ultimo e l’arcivescovo di Palermo. “La tipologia dell’istituto penitenziario per minori, il cosiddetto IPM, ha una funzione rieducativa del giovane che ha commesso il reato, vi sono un programma e una struttura interna totalmente differenti rispetto a quelli del carcere dei maggiorenni” afferma don Carlo Cianciabella, cappellano del carcere minorile Malaspina. “Nel carcere minorile, grazie a Dio, vi sono pochi detenuti; questo è un buon segno perché è indice di una malavita giovanile che forse sta mutando - aggiunge -. Stare a contatto con il carcerato credo sia il massimo per un sacerdote; le persone che si incontrano in questo luogo sono particolari, perché sono segnate dalla vita”. Secondo il sacerdote, le persone che incontra in carcere “mi danno l’opportunità di sperimentare la mia fede. Non è scontato ritenersi uomini di fede; questa non si professa con le parole ma con l’esperienza della vita e nell’ordinarietà di questa”. Don Cianciabella indica una caratteristica delle persone che quotidianamente incontra: “Chiunque si avvicina a te in quanto cappellano, è sincero e non si nasconde dietro un dito. Anzi, il carcerato ti cerca e, nel momento in cui si accorge che tu non giudichi, la relazione è instaurata e il messaggio evangelico è passato. La nostra non è una missione da eroi, sappiamo guardare negli occhi, sappiamo dialogare e sappiamo abbracciare. Questa è la mia esperienza di carcere”. Clara Pangaro, dirigente del carcere minorile Malaspina, indica anche la sua prospettiva: “Il cappellano rappresenta una figura significativa per i ragazzi, non solo per quelli di religione cattolica, ma anche per quelli di altre religioni - dice -. Proprio perché è considerata un’attività di servizio, ciò che caratterizza il cappellano è l’accoglienza e l’ascolto dell’altro e quindi tutti i ragazzi trovano in lui una figura importante a cui rivolgersi. Il tempo del carcere è un tempo di introspezione; il carcere è comunque un luogo di sofferenza e quindi è molto importante che i ragazzi abbiano una figura a cui potersi rivolgere, per confrontarsi con le questioni che li addolorano e che attengono a quella che è la loro sfera più intima, più personale, e anche alla loro spiritualità”. “La pastorale carceraria è prima di tutto la consapevolezza di chi abita il carcere, quindi di volti, di umanità e di esperienze che ci appartengono, perché sono nostri fratelli e nostre sorelle”, afferma mons. Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, che ricorda il “grande lavoro” che fanno i cappellani di Palermo e di Termini, al Malaspina, dove ci sono i ragazzi più giovani, e all’Ucciardone come anche al carcere Pagliarelli. “Li vorrei ricordare perché sono luoghi che fin dal mio arrivo a Palermo ho visitato e continuo a visitare. I detenuti sanno che sentiamo nei loro confronti questa appartenenza e pensiamo a una società che non li vuole relegare ma che vuole avere la gioia di riaverli avendo dato loro una opportunità di ripensamento della vita”. Il vescovo conclude dicendo che “tutti ci appartengono perché sono esseri umani, e la maggior parte perché sono battezzati come lo siamo noi; sono quindi membri della Chiesa”. Eboli (Sa). I detenuti diventano agricoltori sociali ilsoleelenuvole.it, 12 marzo 2022 Un terreno dell’Istituto penitenziario di Eboli diventerà un “Orto Condiviso”, curato direttamente dai detenuti del carcere salernitano. Il progetto di agricoltura sociale, nato dalla collaborazione tra il penitenziario, la Coldiretti Salerno e l’associazione di volontariato Gramigna di Pago Veiano (Benevento), è uno strumento che offre opportunità di riabilitazione e integrazione. Con l’orto condiviso, infatti, i detenuti cureranno lo spazio incolto all’interno della cinta muraria del Castello Colonna, guidati dagli esperti di Coldiretti Salerno che metteranno a disposizione anche semi, piantine e tutte le attrezzature necessarie. In occasione dell’avvio del progetto, Coldiretti Salerno ha anche donato alla struttura penitenziaria di Eboli pacchi solidali con prodotti a Km0: presenti all’iniziativa il presidente Vito Busillo e il segretario di zona Paolo Farace, il direttore della Casa di Reclusione Concetta Felaco, il Comandante della Polizia Penitenziaria Gianluigi Lancellotta, l’educatore Enrico Farina e Rosario Meoli dell’associazione Gramigna. Luca Zingaretti: “In carcere sono il Re, nel bene e nel male” di Angelo Carotenuto La Repubblica, 12 marzo 2022 In una nuova serie tv Luca Zingaretti è l’inquietante direttore di un carcere: “Non ne posso più del politicamente corretto, sono i personaggi storti quelli più interessanti”. E il buon Montalbano? “Non credo lo rivedremo”. Roma. Un giorno bisognerebbe poterli aprire tutti, quei taccuini, aprirli e sfogliarli uno per uno. Luca Zingaretti li tiene allineati sull’ultimo scaffale della libreria, nel suo studio, in cima a mensole che portano etichette in nastro adesivo per l’ordine dei volumi. Qui c’è la storia contemporanea, di fianco la filosofia, in alto le pagine private della sua personale frantumaglia, i pensieri raccolti durante la preparazione dei tanti personaggi interpretati. “Ne porto sempre uno con me. Me lo ha insegnato durante l’accademia Sergio Graziani, un attore doppiatore. Scrivo in continuazione. Impressioni, pensieri, epifanie che arrivano. Se non appunti, perdi tutto. Quando fissi qualcosa su carta, la porti alla coscienza e non se ne va più. Aggiungi soluzioni a una specie di computer interiore e quando meno te lo aspetti, sbuca una risposta a una domanda”. Dentro quelle pagine, sono raccolte le molte maschere diverse portate al cinema e a teatro da un attore che ha molto sperimentato lontano dalle attenzioni della folla, passato da Cechov e Shakespeare, ma nella nostra testa scolpito con la faccia del commissario italiano più famoso. Quando tra una settimana arriverà su Sky con la prima stagione della serie Il Re, sarà fatale misurare la distanza che esiste tra l’eroe Montalbano e questo nuovo ruolo, Bruno Testori, direttore di un carcere di sicurezza con una sua inquietudine morale, un taglio obliquo negli occhi, un accento che non è quello di Vigata. Un malvagio, si direbbe nel linguaggio schematico del drama, con una interpretazione sua della giustizia. Un cambiamento di segno per Zingaretti, una sfida. “A me premeva raccontare un uomo che è facile definire cattivo e che in realtà si è perso. Una specie di colonnello Kurtz, andato in missione e disorientato. Non sa più distinguere una linea di demarcazione. È partito pensando di essere nel giusto e in questo suo delirio di onnipotenza ha perso ogni misura, si sente un quarto grado di giudizio. È un tema che mi sta a cuore. Avevo comprato i diritti del libro di Elvio Fassone, Fine pena: ora. Una riflessione sulle carceri in Italia e sulla detenzione. Non sono riuscito a farne un film. Spero siamo riusciti a far passare l’idea che il Bene e il Male non sono sempre così nettamente separati”. Bruno è un personaggio di sfumature e distinguo. Non teme il politicamente corretto? “Sono curioso di vedere come sarà accolto. Non se ne può più del politicamente corretto. Ci stiamo incartando. C’è sempre qualcuno che si offende o che trova da ridire per qualcosa. È giusto porre più attenzione su tutto, non è possibile che non ci si possa esprimere più su nulla. Non raccontiamo un cattivo con cui identificarsi. Bruno non è un malvagio affascinante. È un uomo in crisi insieme al quale il pubblico si domanda: che avrei fatto io nei suoi panni?”. Possiamo accostarlo al sindaco del Rione Sanità di Eduardo? “Letteratura, cinema, drammaturgia hanno raccontato ogni tanto personaggi che hanno voglia di contemplare le eccezioni. Nessun codice riesce a esaurire ogni possibile gradazione della vita. Il problema è che c’è gente per la quale la sfumatura non deve essere contemplata, altri hanno la presunzione di ritenere che se non viene contemplata, allora è sbagliata la regola. Anche Montalbano aveva in fondo una sua esigenza di non assuefarsi. Sa come si regola la scienza? Con la teoria della relatività, Einstein spiega il mondo nell’infinitamente grande, mentre la teoria quantistica nell’infinitamente piccolo. Sono incompatibili, eppure tutt’e due funzionano. Una regola scientifica è perciò valida quando riesce a racchiudere dentro di sé il più alto numero di fenomeni, ma non è la perfezione. Qualcosa sfugge sempre”. E alla giustizia cosa sfugge? “Dopo vent’anni un uomo non è più la stessa persona che aveva commesso il crimine. Bruno Testori dice alla pm “Alla sua legge non credo più”, perché non è stata in grado di considerare tutte le tonalità dell’agire umano. Ho parlato con giuristi, ho visitato prigioni, ho parlato con chi il carcere l’ha vissuto, compresi un paio di colleghi attori che hanno fatto l’esperienza di vedersi togliere un pezzo di vita per una colpa. Quello che ho capito è che chi non l’ha abitato ha un’idea monca di un luogo che è di grande sofferenza, di dolore, ma anche di esperienze di comunanza irripetibili all’esterno”. Pose, espressioni, voce: dove le ha trovate? Aveva un modello? “Quando ho cominciato a girare, non mi era tutto chiaro. Al secondo giorno delle riprese, sono risultato positivo al Covid. Ho trascorso una settimana a casa e una in ospedale, molto dura, non dico fisicamente. Ero provato dal pensiero del set fermo, mi sentivo in colpa, ma in ospedale ho capito il personaggio: era un uomo trasportato da un’altra parte. Ho usato allora il tono di voce di chi l’ha persa per un conflitto interiore, di gola, sofferta, piena di fatica, come la postura racchiusa”. Un anti-Montalbano. Quanto è stato difficile liberarsi di quella maschera? “Sarò stato incosciente, ma non è una questione che mi sono mai posto. Non credo che Montalbano si ripeterà più, ma lo sono stato per due mesi all’anno, al massimo tre, e non tutti gli anni. Ho sempre fatto anche altro, sebbene da un punto di vista mediatico fosse più potente la carriera tv. Dissi basta nel 2008 perché anche Camilleri sosteneva la necessità di uscire tra gli applausi, andarsene prima di aver stufato. Tornai perché mi mancava il personaggio e volevo vederlo evolvere. Non penso di aver ripetuto per vent’anni lo stesso Montalbano. Ora c’è altro. Sto coronando il sogno di scrivere il mio primo film da regista. Una storia di rinascita, di quelle che al cinema mi commuovono. Mi piacciono le uscite dal tunnel, le storie di chi ha preso botte, vede una luce e si domanda se riuscirà a raggiungerla. Penso a Le ali della libertà, La vita è meravigliosa, American Beauty. Non credo che avrò un ruolo. Magari posso essere come il salame nelle strisce di Jacovitti”. Sono più affascinanti i puri o i mascalzoni? “Mi viene da dire: ha più gusto una minestrina al brodo vegetale o le salsicce? I personaggi storti, con molti chiaroscuri, sono più interessanti. Se il cattivo deve fare la faccia feroce e dire grrr, è molto poco attraente. Sono affascinanti i personaggi scritti bene. Io ho iniziato facendo un Riina ante litteram nella Piovra 8, un uomo terribile nel Branco di Risi per mostrare l’inconsapevolezza del Male, un altro mefistofelico in Vite strozzate di Ricky Tognazzi. E dopo, molti personaggi positivi. Ma è stato un caso”. Una volta si parlò di lei per interpretare Mussolini. Un attore pensa mai di rifiutare un ruolo perché è negativo? “Un attore può ragionare così, certo, ma io Mussolini lo farei domani. Perché è un personaggio storico, con un tema rimosso per anni. Due ruoli li ho rifiutati perché non me la sentivo di immergermi in quel clima. Non sto parlando di metodo Stanislavskij, non è che se interpreti San Giuseppe devi vedere la Madonna. Ma devi entrare dentro un mondo e quando mi proposero di fare un pedofilo, non me la sentii. Dopo una settimana, mi tirai indietro. C’era una scena in cui saliva una ragazzina in macchina, e ancora adesso non riesco a parlarne. Una seconda volta ho detto no a un essere assai spregevole in un film molto importante. Ma Mussolini sarebbe un personaggio pazzesco dal quale far emergere debolezze, risvolti psicologici, bassezze, intuizioni. Una figura da destoricizzare e trattare come un essere umano. Un attore non è un giudice, ma un analista che cerca di comprendere”. È l’eredità dei suoi studi di Psicologia? “Quando sono uscito dall’Accademia di Arte drammatica, la vita in teatro era faticosa. Le tournée più brevi duravano sei mesi, quelle lunghe anche nove, spesso in alberghi non di prima scelta, la paga era quella di un giovane attore e i ruoli pure. Adesso li benedico. Stare fermo quattro ore sul palco per fare un alabardiere, senza dire una parola, è stata una palestra. O ti spari in camerino, o ti metti a guardare come il protagonista risolve le sue battute, e allora rubi rubi rubi. Quando arriva il giorno della prima battuta, te la godi. All’epoca mi soddisfaceva poco. Mi chiesi cosa mi sarebbe piaciuto, mi sono iscritto a Psicologia e ho iniziato un percorso di psicoterapia. Molto istruttivo, divertente. Oggi mi è utilissimo”. Anche per convivere con la popolarità? “Dal droghiere non mi riconoscevano prima dei 37 anni, in tarda età, quando tanti la carriera l’hanno già fatta. Se sei stato l’alabardiere e nel frattempo hai fatto un buon uso della tua vita, la popolarità la gestisci meglio. Casomai il problema è l’invadenza. Due volte mi sono arrabbiato davvero, quando a Milano spaventarono mia figlia e quando sono uscito dall’ospedale. Passeggiavo con mia moglie, ero dimagrito di dieci chili, barcollavo: mi sono trovato nove paparazzi sotto casa. Dopo ho capito. Se vengono è perché il pubblico vuole sapere come stai e lo devi accettare”. E come si proteggono due bambine da un cognome come il suo? “Hanno un padre attore e una madre attrice, ma siamo persone con una vita normale e con gli amici di sempre. Ogni tanto magari le senti dire: perché non diciamo a zio Nicola che in quella strada ci sta l’immondizia? Sono figlie serene perché lo siamo noi. Credo che non abbiamo mai dato loro l’impressione di essere dei privilegiati. Piedi per terra. Sempre. Luisa dice che ho la sindrome di pane e mortadella. Penso che esista una buona dose di fortuna a nascere in un certo posto. Io sono cresciuto nella Magliana anni 70, i miei ci hanno dato valori profondi. Se fossi nato in Africa, avrei avuto una vita più difficile”. Facile dire bulli e baby gang, ma come adulti dove siamo? di Sara De Carli Vita, 12 marzo 2022 Negli ultimi mesi le cronache ci hanno raccontato svariati episodi di ragazzini violenti, velocemente dimenticati. A unire i puntini delle cronache, però, emerge un quadro allarmante. Intervista con Cristina Maggia, presidente del Tribunale per i Minorenni di Brescia. Che sugli arrivi di minori profughi dall’Ucraina dice che “bisognerà essere molto attenti, tracciarne la presenza perché non spariscano, curarne la accoglienza evitando possibili tentazioni predatorie. Non basta mettersi a disposizione, occorre saper trattare un ragazzo ferito” A Milano come alla Garbatella, ad Alessandria come a Cagliari: negli ultimi mesi le cronache ci hanno raccontato svariati episodi di ragazzini violenti, rapidamente sintetizzati con titoli che parlavano di bulle e di baby gang, altrettanto velocemente dimenticati. A unire i puntini delle cronache, però, emerge un quadro allarmante di ragazzi aggressivi e violenti, di una violenza diretta sia verso gli altri sia verso se stessi. Cristina Maggia è la presidente del tribunale dei minori di Brescia e presidente dell’Associazione italiana dei Magistrati per i minorenni e per la famiglia, la cui rivista trimestrale - Minori e giustizia - è appena uscita con un numero monografico dal significativo titolo “Ti odio! Interazioni malevole nella famiglia e nella collettività sociale”. Presidente, che cosa sta succedendo? Assistiamo a qualcosa che aveva già messo radici prima del Covid, poi la pandemia ha bloccato tutto e adesso i ragazzi sono esplosi, con un disagio psichico esponenziale, gravissimo, che si manifesta sia verso gli altri sia con atti di autolesionismo. Ci arrivano continuamente segnalazioni di tentato suicidio, di lesioni auto-provocate, una ragazzina ha cercato di uccidersi continuando a bere soltanto acqua… Questo disagio perché? Non dobbiamo banalizzare né criminalizzare, che sono le due cose che come adulti tendiamo a fare. Personalmente sono molto spaventata dall’abitudine di semplificare, etichettare, stimolare la pancia della gente e non la testa. Noi - tutti noi, cominciando da voi giornalisti - dovremmo portare le persone a riflettere sulle ragioni di questo disagio, non dire “è successa questa cosa, mettiamo i ragazzini all’indice e buttiamo la chiave”. Per certi versi è come se il mondo adulto non sapesse più tollerare la giovinezza, che è per sua stessa natura trasgressiva: chi non sta nella cornice è immediatamente vissuto con grande fastidio. Quali ragioni vede lei? Un tema riguarda la presenza di molti ragazzi di “seconda generazione”, nati qui o arrivati da piccoli, che si sentono interamente italiani, che parlano con accento bresciano o veneto, ma che non sono considerati italiani, che continuano ad aver bisogno del permesso di soggiorno. Questa non appartenenza è estremamente pericolosa e alla lunga provoca un rifugiarsi tra simili, enfatizzando grandi rabbie. Dobbiamo ovviamente distinguere tra le periferie di grandi città, dove esistono quartieri che non sono nemmeno più periferie, ma che sono abitati solo da una popolazione molto povera e in prevalenza immigrata, vicinissimi a quartieri abitati da persone che stanno economicamente bene. In una società dove conta soprattutto l’avere per esibire quello che si ha, non poter arrivare ad avere l’oggetto-simbolo di uno status può portare ad accumulare una rabbia terribile. Spesso sono ragazzi che appartengono a nuclei familiari fragili, che fanno fatica a interagire con le istituzioni, che le temono, che non sanno chiedere aiuto: questo significa essere soli. Capita che i figli di questi nuclei si confrontino con altri ragazzi dotati di tutto, oggetti, ma soprattutto opportunità - il tennis, il calcio, la palestra, la piscina… una famiglia adeguata. È nei confronti di costoro che si scatenano rabbie che vanno ben oltre la volontà di impossessarsi del telefonino del coetaneo: la logica è “ti voglio sfregiare perché tu sei tutto quello che io non riesco ad essere”. Qui dobbiamo interrogarci come adulti: che cosa è stato fatto per questi giovani? Prima c’era la scuola, il campetto, l’oratorio… con la pandemia si sono ritrovati a condividere con la famiglia, spesso assai numerosa, spazi vitali del tutto insufficienti, da qui una forte insofferenza. Hanno scarse prospettive di futuro, perché vedono i loro genitori che lavorano, lavorano, lavorano ma l’ascensore sociale non fa per loro. La possibilità di una ascesa sociale è un miraggio. L’unico simbolo di successo è il rapper che ce l’ha fatta contro tutti e tutto. Che fare? Non possiamo certo pensare di risolvere le cose con il solo processo penale. Occorre arrivare prima. E con “prima” intendo alle elementari. Con interventi in quei territori, dedicati a quei ragazzi. Quello che esiste è troppo poco. Dobbiamo giocarci questo momento di uscita dall’emergenza pandemica per cercare di offrire una dimensione positiva alla loro esuberanza. Le rabbie che si scatenano vanno ben oltre la volontà di impossessarsi del telefonino del coetaneo: la logica è “ti voglio sfregiare perché tu sei tutto quello che io non riesco ad essere”. Qui dobbiamo interrogarci come adulti: che cosa è stato fatto per questi giovani? La possibilità di una ascesa sociale è un miraggio. L’unico simbolo di successo è il rapper che ce l’ha fatta contro tutti e tutto. Non sono però certo solo i ragazzi con cittadinanza non italiana o di famiglie fragili. Abbiamo letto nelle cronache di tanti ragazzini bene... Il disagio psichico è trasversale e riguarda il fatto che i ragazzi sono i figli dei loro genitori. Sono i nostri figli. Se noi abbiamo dato loro modelli esistenziali in cui conta solo l’apparenza, l’efficienza, la performance, modelli in cui la fragilità è bandita… i ragazzi avranno ovviamente assorbono tutto ciò. Se in famiglia manca dialogo, ascolto empatico, scambio, comprensione, tempo da dedicare ai figli, se le aspettative sono eccessive e il figlio, lasciato spesso solo, è una appendice che serve al narcisismo del genitore… non ci possiamo lamentare. Mettiamoci in discussione noi invece di continuare a dire “ah, le baby gang”. I genitori che si trovano alle prese con questa aggressività e violenza dei figli però sono soli: le comunità sembra siano piene, nei servizi non si trova aiuto… L’adolescenza dei figli non è una passeggiata: sta a noi adulti reggere le bordate. Quando il genitore non sa più dove sbattere la testa, pensa che la soluzione sia la comunità. Ma la comunità non fa i miracoli. Capita che il genitore chieda al servizio di “liberarlo” dal figlio e spesso il servizio ne chiede l’allontanamento al Tribunale per i Minorenni. Ma prima di allontanare occorre approfondire e valutare se questa sia la migliore soluzione, molto spesso approfondendo emerge che alla base del disagio ci sono gravi carenze genitoriali. Allora prima della comunità serve cercare di far diventare questi genitori adulti maturi, che è poi quello che i figli chiedono… Loro chiedono adulti autorevoli e non spaventati. Ma quando poi bisogna allontanare? In questo periodo allontanare un adolescente è molto difficile, le comunità sono poche e molti operatori sembrano non essere in grado di interagire con adolescenti così arrabbiati e difficili. La ricerca vana di una comunità può durare mesi. Serve molta formazione sul campo, più che i titoli di studio, occorre insegnare agli operatori come affrontare le crisi a volte pantoclastiche di alcuni ragazzi anche assuntori di sostanze stupefacenti. Sono ragazzi che stanno molto male, ma non basta il farmaco per colmare vuoti antichi di affetto e antiche trascuratezze. Possiamo contare o su comunità educative che non sono però sufficientemente attrezzate per affrontare aspetti anche sanitari come è richiesto sempre più di frequente o su comunità squisitamente terapeutiche, in cui il profilo educativo è secondario. Molti di questi ragazzi non hanno una diagnosi medica conclamata, hanno però una grande sofferenza. È importantissimo allora garantire alle comunità educative una assistenza sanitaria da parte dei servizi territoriali del luogo in cui opera la comunità. E qui si apre il tema dei servizi di neuropsichiatria infantile e del loro carico eccessivo di lavoro. Uno dei punti critici, messi in rilievo da tanti a cominciare anche dal Gruppo CRC è la mancanza di una possibilità di presa in carico per ragazzini con situazioni così complesse, che richiedono un intervento ad ho psicologico o psichiatrico. Mentre le comunità terapeutiche per minori quasi non esistono... Devo dire che possiamo contare o su comunità educative che non sono però sufficientemente attrezzate per affrontare aspetti anche sanitari come è richiesto sempre più di frequente o su comunità squisitamente terapeutiche, in cui il profilo educativo è secondario e che costano moltissimo. Molti di questi ragazzi spesso non hanno una diagnosi medica conclamata, hanno però una grande sofferenza. È importantissimo allora poter garantire alle comunità educative una assistenza sanitaria da parte dei servizi territoriali del luogo in cui opera la comunità, che curino, aiutino, sostengano. E qui si apre il tema dei servizi di neuropsichiatria infantile e del loro carico eccessivo di lavoro. C’è un trend crescente di adozioni e affidi falliti? Ve ne sono indubitabilmente, ma affidi e adozioni fallite sono anche responsabilità nostra, di noi adulti: significa che abbiamo sbagliato abbinamento, realizzandolo sull’urgenza, senza adeguata riflessione o che abbiamo dato un’idoneità all’adozione ad una coppia in modo frettoloso e superficiale. Va detto però che i periodi di crisi sono presenti in ogni vita, stimolano cambiamenti, si possono superare e non devono sempre essere definiti fallimenti. Siamo dinanzi a un’altra emergenza, quella dei profughi ucraini. Ci sono già 21mila persone arrivate in Italia, che aumentano al ritmo ormai di 3/4mila al giorno: 8.500 di queste sono minori. Come ci siamo organizzati? È una emergenza rispetto alla quale ci stiamo organizzando. Finora la maggior parte arriva con un familiare, la mamma, uno zio, un cugino, si tratta di trovare loro sistemazione. Arriveranno però anche minori soli e bisognerà essere molto attenti, tracciarne la presenza perché non spariscano, curarne la accoglienza evitando possibili tentazioni predatorie. Vedo grandi disponibilità da parte di associazioni e famiglie, ma non dimentichiamo che si tratta di bimbi traumatizzati dalla guerra, dalla fuga, dei quali sappiamo molto poco. Non basta mettersi a disposizione, occorre saper trattare con un ragazzo ferito. Anche i bambini soli tra l’altro non sono in stato di abbandono e, speriamo presto, dovranno tornare nella loro terra. Aspettiamo indicazioni anche governative che dovrebbero arrivare a momenti. Baby gang, colpa del Covid di Massimo Ammaniti La Stampa, 12 marzo 2022 Criminalità e disagio - Negli ultimi due-tre mesi in coincidenza della terza ondata della pandemia giornali e televisioni hanno riportato con grande allarme ripetuti episodi di violenza soprattutto nelle città del nord da parte di baby gang di giovanissimi fra i 12 e i 17 anni, che aggrediscono e rapinano per strada passanti totalmente impotenti a fronteggiarli. A Milano come ha riportato su questo giornale si fronteggiano addirittura 13 baby gang, identificabili per una propria sigla identificativa, che agiscono e imperversano in un territorio della città. Si aggirano alla ricerca di prede da colpire, coperti da cappucci e passamontagna, armati di coltelli e pistole. E quando adocchiano qualcuno da rapinare o un coetaneo a cui strappare il cellulare oppure il giubbotto lo circondano e lo minacciano facendosi consegnare i soldi, spesso lasciandolo a terra dopo una scarica di pugni e calci. Proprio qualche settimana fa sono stati arrestati 8 adolescenti che avevano terrorizzato passanti e coetanei in alcune zone di Milano creando negli abitanti un clima di allarme. Ma non solo a Milano, l’elenco delle città in cui le baby gang imperversano è lungo, a Genova ad esempio in un mese questi assalti si sono ripetuti anche più volte alla settimana. Le loro gesta non si limitano alle rapine e all’aggressioni per strada, a Gorizia e a Napoli si sono scatenate appiccando il fuoco nelle chiese e poi di nascosto assistendo compiaciuti al trambusto e all’allarme creato nel quartiere. Sono bande organizzate di ragazzi italiani, nordafricani o dei Paesi dell’Est che si muovono in modo coordinato nei loro assalti all’interno dei quartieri, reclutando anche ragazzini di 11-12 anni. Non è solo il bisogno di soldi e di gadget che spinge questi ragazzi, vogliono anche dominare la vita dei quartieri terrorizzando gli abitanti e sfuggendo poi alla polizia per dimostrare la loro invincibilità rispetto alle autorità pubbliche e al mondo degli adulti. È diventato per molti quartieri un serio problema di sicurezza pubblica, anche perché quando arriva la polizia la banda si è dileguata. L’unica possibilità di identificarli è legata alle videocamere che registrano i ragazzi di queste bande come è successo per l’ultimo dell’anno a Milano in Piazza Duomo. Ci si può interrogare se le restrizioni della pandemia, che si sono ripetute durante la terza ondata dei contagi, non abbiano ulteriormente pesato sulla vita di questi adolescenti, che abitano in quartieri di periferia con famiglie che non si curano dei figli, anche perché si trovano alle prese con gravi problemi economici. Le ragazze ad esempio hanno espresso le loro difficoltà e il loro malessere con i disturbi alimentari e tentativi di suicidio che sono fortemente aumentati, come è stato documentato da ricerche effettuate in Italia e negli Stati Uniti. Nel caso degli adolescenti di sesso maschile le frustrazioni e le rinunce quotidiane li hanno spinti a costruirsi una corazza caratteriale con cui difendersi non solo dalle proprie deprivazioni e da un profondo senso di impotenza, ma anche dal mondo esterno da cui si sentono rifiutati, come è successo durante la scuola a distanza a cui spesso non hanno partecipato. Nel periodo dai 12 ai 17 anni quando si comincia ad organizzare la personalità le trascuratezze e le esperienze traumatiche possono intervenire provocando distorsioni di carattere, come quelle callose e prive di emozioni che servono a corazzarsi nei confronti delle sofferenze, delle sensazioni di vuoto e delle minacce del mondo esterno. In modo quasi profetico il regista Stanley Kubrick cinquanta anni fa diresse il film Arancia meccanica, nel quale raccontò il mondo terrorizzante di una banda di giovani criminali spietati che imperversavano in una città americana aggredendo a calci e bastonate un senzatetto ubriaco. Suicidio assistito, la Camera dice il sì definitivo alla legge con ampia maggioranza di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 12 marzo 2022 Il provvedimento è stato votato con 253 favorevoli e 117 contrari. Il testo dovrà adesso passare al vaglio del Senato. I relatori: “Una legge necessaria, un’occasione che l’Italia attendeva da troppo tempo”. La Camera ha detto sì al suicidio assistito, ad ampia maggioranza. Ci sono stati 253 voti favorevoli e 117 contrari. Per ottenere il suicidio assistito fino ad ora i cittadini sono dovuti andare all’estero: il caso più eclatante è quello di dj Fabo che è morto in Svizzera nel 2017. Adesso - se pure il Senato darà il suo via libera - sarà possibile anche in Italia accedere alla “morte volontaria medicalmente assistita con un atto autonomo con il quale si pone fine alla propria vita in modo volontario, dignitoso e consapevole con il supporto e sotto il controllo del Servizio sanitario nazionale”. Favorevoli e contrari - Un dibattito acceso quello che si è svolto nell’aula di Montecitorio per arrivare all’approvazione: hanno votato contro Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, ad eccezione di un piccolo gruppo di deputati azzurri, tra questi gli ex ministri Stefania Prestigiacomo e Elio Vito, nonché Renata Polverini, Roberto Novelli, Matteo Perego. A favore il Pd, M5s, Leu e parte del Misto. I due relatori Alfredo Bazoli e Nicola Provenza sono rispettivamente del Pd e di M5s. Bazoli: “Consegniamo al Senato un lavoro accurato, che ha tenuto conto di tante sensibilità, figlio di una lunga e costruttiva discussione. Credo e spero davvero ci siano tutte le premesse per tagliare il traguardo e dare al Paese una legge necessaria”. Provenza: “Finalmente il Parlamento si occupa dei più fragili. Auspico che l’importante lavoro svolto alla Camera trovi continuità al Senato, poiché siamo di fronte ad una occasione unica per il pieno recupero del ruolo centrale del Parlamento, ad una legge che il nostro Paese attendeva da troppo tempo”. Pierantonio Zanettin, Forza Italia: “Abbiamo votato contro perché lo Stato deve spendere le proprie energie per sostenere chi soffre, non quello di propinare la morte”. Maurizio Lupi, Noi con l’Italia: “Abbiamo votato contro il provvedimento per rispetto alla dignità della persona. La vita è un diritto, non la morte”. Il testo originale, costituito da 10 articoli, è stato modificato da importanti emendamenti. Sugli emendamenti il Governo si è sempre rimesso al parere dell’aula. Patologie irreversibili, prognosi infausta - Nel testo originale si prevedeva che per arrivare al suicidio assistito si dovevano avere patologie irreversibili o prognosi infausta, una formula più restrittiva rispetto a quella approvata che prevede che le patologie irreversibili debbano coesistere con la prognosi infausta. Lo stesso vale per le sofferenze fisiche e psicologiche. Basta il certificato di un solo medico - Un altro importante cambiamento è stato introdotto da un emendamento molto discusso (presentato da Riccardo Magi di +Europa) che prevede che per accedere al suicidio assistito basterà il certificato del medico curante oppure di uno specialista. In precedenza si prevedeva che ci dovessero essere i certificati di tutti e due. Altro emendamento ampiamente dibattuto (sempre di Magi) ha ristretto i presupposti che il medico deve seguire per accedere al farmaco letale: sono state tolte le condizioni sociali e familiari. Sono rimaste le condizioni cliniche e psicologiche. L’emendamento è stato votato a scrutinio segreto, unico tra tutti gli emendamenti. Cure palliative - Le cure palliative sono un punto nodale del provvedimento. Con un emendamento di Italia viva adesso potrà accedere alla morte medicalmente assistita anche chi abbia “volontariamente interrotto” il percorso di cure palliative. Prima era previsto che si dovesse essere necessariamente coinvolti in un percorso di cure palliative. Morte assistita equivale a morte naturale - Nessuna sorpresa nell’esame degli emendamenti, tutti votati a scrutinio palese ad eccezione di uno. Importante l’introduzione di uno “scudo penale” per i medici, escludendone la punibilità in caso di assistenza al suicidio. Decisiva anche l’equiparazione del decesso a seguito di morte volontaria medicalmente assistita al decesso per cause naturali a tutti gli effetti di legge. L’obiezione di coscienza - Altro snodo della legge l’obiezione di coscienza. Il testo prevede che possa essere “sempre essere revocata” ma nel caso venga pratica anche in questo caso “esonera il personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente dirette al suicidio e non dall’assistenza antecedente l’intervento”. È inoltre previsto che “gli enti ospedalieri pubblici autorizzati sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dalla presente legge”. Il voto sull’obiezione di coscienza è stato bipartisan. “Portiamo a casa la legge sul suicidio assistito, basta incertezza per i cittadini” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 12 marzo 2022 Alfredo Bazoli, relatore dem della legge sulla morte medicalmente assistita, approvata alla Camera, spiega che “se non concludiamo l’iter in quest’ultimo scorcio di legislatura rischiamo di lasciare molte persone nell’incertezza”, definisce l’obiezione di coscienza “ragionevole” e chiosa: “Oggi la liceità dell’aiuto al suicidio è lasciata al singolo giudice che decide caso per caso: questo è inaccettabile per chiunque”. Onorevole Bazoli, quali sono le sue impressioni dopo l’approvazione alla Camera della legge sulla “morte medicalmente assistita” di cui lei è co- relatore? Siamo soddisfatti di essere riusciti ad arrivare in fondo. È stato un lunghissimo percorso, sia nella fase istruttoria che in quella di confronto in commissione. Certo il tema è estremamente delicato e divisivo, ci sono approcci e sensibilità molto diverse, anche all’interno dei singoli partiti, e per questo era molto complicato trovare una sintesi. Ma abbiamo fatto un grande lavoro di ascolto e mediazione e siamo riusciti a trovare il punto d’equilibrio più avanzato possibile, consegnando al Senato un lavoro accurato ed equilibrato. Crede che palazzo Madama riuscirà a terminare il lavoro senza intoppi? La speranza è che si riesca a concludere, perché se non ce la facciamo in quest’ultimo scorcio di legislatura rischiamo di lasciare ancora per qualche anno nell’incertezza persone che in base alla sentenza della Corte costituzionale già oggi potrebbero accedere al suicidio assistito. Tutto questo va a garanzia delle persone più fragili e deboli, che devono essere assistite con una procedura rigorosa che accerti le condizioni per l’aiuto al suicidio. Non c’è il rischio che finisca come nel caso del ddl Zan, cioè con l’affossamento in Senato di una legge già approvata alla Camera? Sono leggermente più ottimista rispetto al ddl Zan, perché nessuno ha davvero interesse ad affossare questa legge. Sia i più favorevoli che i più critici si rendono conto che questo testo è necessari, perché come detto l’aiuto al suicidio è già lecito a certe condizioni. Quindi ci vuole una legge che attesti una procedura rigorosa e che garantisca i diritti di tutti. Partendo da queste premesse, penso che anche il Senato possa affrontare il passaggio della legge con i tempi idonei a consentire l’approvazione. Poi se ci sarà bisogno di ritoccare qualche cosa si vedrà. A proposito di ritocchi, Marco Cappato ha spiegato che il Senato dovrà migliorarla soprattutto perché così come è ora il testo non garantisce, ad esempio, i malati di cancro. Cosa risponde? Il tema dei malati di cancro riguarda la presenza di un requisito inserito nella legge, che è quello dei mezzi di sostegno vitale. Mi spiego: una delle condizioni per ricorrere al suicidio assistito è che la persona deve essere tenuta in vita da strumenti di sostegno vitale. Il punto è che questo requisito è uno di quelli indicati dalla Corte. Siccome la nostra idea è sempre stata quella di seguire il percorso tracciato dalla Corte, siamo rimasti dentro quel perimetro. Se lo mettiamo in discussione, allora rischiamo di fare un passo indietro, anziché uno avanti. Quindi non c’è possibilità di miglioramenti che vadano oltre le indicazioni della Consulta? Dobbiamo partire dalle condizioni che ha stabilito la Corte, e su quelle fare le verifiche puntuali. Se vogliamo avere una chance di tagliare il traguardo dobbiamo stare in quei confini, altrimenti potrebbe essere rimesso in discussione l’intero impianto e questa eventualità va evitata. Nel testo è stata inserita l’obiezione di coscienza. C’è il rischio che questo sminuisca i futuri effetti della legge? Quello sull’obiezione di coscienza era un emendamento proveniente da quasi tutti i gruppi parlamentari, tranne forse il Pd. Certamente arrivava dai Cinque Stelle e dai gruppi di centrodestra. C’era dunque una richiesta quasi unanime di inserirlo e ovviamente l’abbiamo fatto. E penso sia stata una scelta ragionevole. Poi so che qualcuno pensa che con l’obiezione si rischia di vanificare la portata della legge, ma io sono convinto che non sia così. A differenza dell’aborto, sono sicuro che i casi di aiuto al suicidio saranno molto meno rilevanti quindi non credo ci saranno problemi di mancata erogazione del servizio. Un altro degli emendamenti approvati è quello di Riccardo Magi, il quale stabilisce che per appurare la presenza dei requisiti di accesso al suicidio assistito non saranno necessari due certificati - del medico di base e dello specialista, come stabiliva la formulazione originaria - ma ne basterà uno solo. Cosa cambierà? Gli emendamenti che abbiamo colto in Aula hanno puntualizzato alcuni aspetti della legge in maniera corretta. Non hanno stravolto l’impianto della stessa e di questo siamo soddisfatti. Questo vale anche per l’emendamento Magi. Prima serviva sia il parere del medico curante che dello specialista. Con questo emendamento basterà un solo parere. È una semplificazione del tutto ragionevole che non comporta alcuna perdita di garanzia nel rigore della procedura di verifica. Non pensa che questa legge arrivi comunque troppo tardi, visto che ormai da tempo la Corte chiede al Parlamento di legiferare? La Corte ci ha invitato a intervenire da tre anni, cioè da molto tempo. Di conseguenza ora il Parlamento non può sottrarsi a questa responsabilità e alla Camera abbiamo fatto la nostra parte. È stato un bel segnale, perché il Parlamento dimostra di essere in grado di esercitare il proprio ruolo. I temi della bioetica sono i più difficili con i quali può cimentarsi la politica e le difficoltà non sono solo nostre ma di tutti i Parlamenti. Ora dobbiamo concludere questo percorso, se possibile in tempi stretti. A fine legislatura avremo una legge sul suicidio assistito? Non può essere altrimenti. Oggi la liceità dell’aiuto al suicidio è lasciata al singolo giudice che decide caso per caso. Questo è inaccettabile per chiunque, perché l’incertezza non tutela nessuno. È il momento di fare un passo avanti. Idee per la pace: un grande progetto Erasmus con la Russia di Luigi Manconi La Stampa, 12 marzo 2022 Dopo la guerra i rettori delle università di tutto il continente pensino a organizzare un programma che porti i giovani a studiare in Russia e i russi nel resto d’Europa. Ogni guerra reclama una pace. Pensarlo non è fatalismo straccione, bensì il suo esatto contrario: dopo ogni lacerazione si deve tentare - sempre, e con ogni mezzo - non solo di suturare la ferita, ma anche di sanarla e impedire che si incancrenisca e si cronicizzi. Dopo ogni guerra, dunque, si deve operare per la pace e, se e quando possibile, anche mentre le bombe cadono. Operare per la pace significa mettere in atto tutte quelle forme di azione, le più minute e in apparenza le più esili, che possano creare concordia, rafforzare le intese, determinare cooperazione, realizzare conciliazione, attivare comunicazioni e scambi, relazioni comuni e obiettivi condivisi. Incontri in luogo di scontro. Relazioni, appunto, dove ci sono state emorragie e fratture. Va esattamente in questa direzione una proposta formulata da Eugenio Mazzarella, filosofo e poeta, che ha il passo lento ma tenace, prudente ma sicuro, dei cristiani di una volta. Quelli che interpretano la fede non come una soluzione, bensì come un’impresa faticosa e un mistero gratuito e, dunque, senza merito e senza consolazione. Mazzarella su Avvenire del 4 marzo ha scritto un appello che sottoscrivo interamente: “La conferenza dei rettori delle università italiane si rivolga alle università europee tutte - occidentali e russe - per pensare insieme un grande progetto Erasmus per tutti i nostri giovani”. Un progetto che “nei prossimi decenni porti i giovani dei Paesi europei a studiare in Russia e i giovani russi a studiare nel resto d’Europa. Perché siamo Europa. Prepariamo il futuro. I nostri giovani, i nostri figli devono essere amici. La nostra generazione, e quelle che ci hanno preceduto, in Europa, nella grande Europa, di cui la Russia fa parte per la sua storia, la sua cultura, la sua religione, si è fatta reciprocamente i suoi torti. Loro non devono più farsene. L’Europa delle macerie del ‘900 non deve più poter tornare”. Di conseguenza, l’invito è indirizzato alla “rete del sapere della cultura della ricerca, quanti possono, e ogni voce che possa levarsi a motivare l’Unione Europea perché finanzi questo programma di scambi per vent’anni. Vent’anni: gli anni dei giovani che guardano attoniti a quel che sta succedendo ai loro sogni, e al loro bisogno di pace”. Verrebbe da concludere così: far conoscere, far circolare, diffondere. Abbiamo imboccato la strada per una nuova guerra fredda di Ian Bremmer* Corriere della Sera, 12 marzo 2022 Il mondo intero è a un punto di svolta e siamo già entrati in conflitto, anche se si cercherà di evitare uno scontro diretto tra Nato e forze armate russe. L’invasione russa dell’Ucraina ha precipitato decine di milioni di persone in un clima spaventoso di tensioni e incertezze, e se c’è una cosa di cui oggi si può essere sicuri è questa: la Russia e l’Occidente sono entrati in guerra. La diplomazia e la politica, sia in America che in Europa, si affanneranno a ribadire la volontà di evitare uno scontro militare diretto tra la Nato e le forze armate russe, ma le pesantissime sanzioni economiche varate contro la Russia, che fino a oggi non hanno precedenti, le forniture di armamenti bellici convogliate dall’Occidente verso i combattenti ucraini, e gli sforzi compiuti dagli Stati Uniti e dai Paesi europei per isolare il regime di Putin nel lungo periodo sono tutte misure che equivalgono a una dichiarazione di guerra vera e propria. Il mondo intero è a un punto di svolta. Nell’ipotesi che la Nato e la Russia riescano a evitare un conflitto militare diretto, e a meno che Putin non sia disposto a fare un passo indietro, cosa difficile da immaginare, si può affermare che la Russia e l’Occidente abbiano imboccato la strada verso una nuova guerra fredda. Sotto molti aspetti, si tratterà di un braccio di ferro assai meno pericoloso rispetto alla versione che abbiamo conosciuto nel ventesimo secolo, ma per altri versi i rischi sono maggiori, per il crescente numero di Paesi coinvolti e per le ripercussioni sull’economia globale. Il nuovo antagonismo Russia-Occidente appare meno pericoloso soprattutto perché la Russia non è più l’Unione Sovietica. Il Pil dell’intero Paese è inferiore a quello del solo Stato americano di New York, e nel corso del prossimo anno le sanzioni contribuiranno a far contrarre del 10 per cento, se non di più, un’economia già stagnante. Il sistema bancario della Russia è sull’orlo del baratro. In un mondo globalizzato, questo rappresenta un fatto cruciale. L’Unione Sovietica e i suoi Paesi satelliti in Europa vivevano all’interno di una bolla, isolati dalle pressioni economiche dell’Occidente proprio grazie allo scollamento che esisteva allora tra i vari sistemi economici. Oggi, invece, l’Europa si presenta unita e saldamente (anche se non completamente) allineata sulle posizioni americane, mentre le ex repubbliche sovietiche si dibattono in vario modo per sottrarsi alle forze di accentramento esercitate da Putin. Inoltre, l’Unione Sovietica rappresentava un vero modello ideologico per molti popoli e leader politici in ogni angolo del mondo. La Russia odierna, che non poggia su nessuna base ideologica in particolare, non può vantare alleati che ne condividano i valori politici, ma solo Stati clientelari e Stati dipendenti. Quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato il 2 marzo per condannare l’invasione russa dell’Ucraina, solo la Bielorussia, la Corea del Nord, la Siria e l’Eritrea si sono espressi a favore della Russia (al Venezuela, in mora con i pagamenti, è stato negato il diritto di voto). Persino Cuba ha preferito astenersi, pur di non avallare la prova di forza di Putin. E la Cina? I leader e i media occidentali sono in agitazione davanti al rafforzamento dei rapporti tra la Russia e il gigante emergente. Ma anche in questo caso, le opzioni della Russia si rivelano tutt’altro che ideali. Se, da una parte, i due Paesi sono d’accordo nel voler porre un argine all’influenza globale degli Stati Uniti, dall’altra puntano a scongiurare il rischio di suscitare nuove frizioni tra i loro due regimi e l’Europa. Ma in questo sodalizio di convenienza la Russia è senz’altro il socio minoritario. L’economia cinese difatti è dieci volte quella russa, e benché la Cina sia pronta a sostenere la Russia, acquistando petrolio, gas, metalli e minerali che quest’ultima non può più vendere all’Occidente, Pechino sa benissimo di essere l’unico amico importante di Mosca e di conseguenza chiederà sconti generosi sui prezzi di tutte le merci. Per di più, il futuro della Cina sta nella sua crescente forza economica, e di conseguenza Pechino punta a instaurare rapporti concreti e duraturi con Stati Uniti e Unione europea allo scopo di proteggere i suoi interessi commerciali nel lungo raggio. La Cina non condannerà l’invasione russa, ma con ogni probabilità avallerà almeno in parte le sanzioni occidentali, tanto per dare a vedere di voler appoggiare la sovranità dell’Ucraina quanto per tutelare i suoi guadagni. Eppure, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, i leader sovietici, americani ed europei furono in grado di adottare misure preventive che impedirono a numerosi conflitti, scoppiati in Asia, Africa e America Latina, di propagarsi in Europa, provocando una catastrofe. In particolare, ricordiamo il trattato Inf sui missili nucleari a medio raggio siglato nel 1987. Nella situazione attuale, ci vorranno anni per gettare nuove basi diplomatiche e varare misure volte a instaurare un clima di fiducia tra la Russia di Putin e l’Occidente. Nel frattempo, le armi della guerra fredda sono diventate sempre più pericolose. È impossibile verificare la reale portata ed estensione delle capacità cibernetiche di ciascuna parte, ma sappiamo con certezza che entrambe dispongono di armamenti digitali sempre più raffinati di cui non hanno ancora fatto uso, compresi quelli che potrebbero causare pesanti scossoni nei sistemi finanziari e interruzioni e disagi nelle reti elettriche e in altre infrastrutture essenziali. Con esiti devastanti. Le armi informatiche non annienteranno altrettanti esseri umani delle testate nucleari, ma potrebbero essere usate come strumenti di guerra aperta. Sono meno costose, più semplici da congegnare, più disponibili e più facili da nascondere rispetto all’artiglieria pesante che ha tenuto sotto scacco la seconda metà del ventesimo secolo. Queste nuove armi consentono inoltre alla Russia di ricorrere a forme di guerra informatica che non erano nell’arsenale delle spie dell’era sovietica. Le elezioni francesi, il mese prossimo, ci daranno l’occasione di saggiare la discesa in campo di queste nuove strategie. Le elezioni americane di medio termine, a novembre, e le presidenziali del 2024, rappresentano obiettivi assai ghiotti in una prospettiva futura. Per il momento, tutti gli occhi sono puntati sull’Ucraina. Le truppe e l’artiglieria russe proseguono nell’intento di riportare il Paese sotto il controllo di Putin, che non dà segno di voler retrocedere di un passo. Ma milioni di ucraini sono pronti a tutto e continueranno a battersi, anche se il nemico dovesse occupare l’intero Paese. E l’Occidente continuerà ad approvvigionarli di armi e munizioni. Le sanzioni più ferree della storia resteranno al loro posto, e potrebbero essere addirittura inasprite. Siamo sulla strada di una nuova guerra fredda. Ed è una strada senza ritorno. *Traduzione di Rita Baldassarre La galera per un fiore. Lotta delle femministe russe di Kamila Renzi Il Manifesto, 12 marzo 2022 Crisi ucraina. La protesta più organizzata contro l’invasione è della Resistenza Femminista Contro la Guerra (Far). Parlano due attiviste perseguitate San Pietroburgo, l’arresto di una manifestante. Il terrore repressivo si abbatte ora in Russia indistintamente sugli intellettuali, sui militanti di sinistra, e sulle femministe. Ma è un fatto che le nuove leggi colpiscono in primo luogo le donne. La prima persona ad essere stata dichiarata “agente straniero” è un’insegnante di San Pietroburgo di nome Daria Apakhonchich. Tra le prime vittime della legge “anti-fake” che proibisce la diffusione di notizie non conformi alla versione ufficiale c’è Vera Kotova, attivista contro la guerra di Krasnoyarsk, condannata per “vilipendio dell’esercito russo” per aver scritto “No alla guerra” sulla neve. Molti giornalisti famosi, artisti, professori universitari stanno lasciando il paese. Ma, per le militanti femministe ordinarie, questa non è un’opzione praticabile. Loro rimangono in Russia, esposte alla violenza di chi abusa di loro, fisicamente minacciate dalla polizia da un lato e dai militanti di estrema destra dall’altro. L’ottanta per cento degli arrestati nelle manifestazioni dell’8 marzo sono donne, ha riportato Maria Kuvshinova, redattrice della rivista femminista Kimkibabaduk. Maria Kuvshinova è stata a sua volta vittima di bullismo per le sue posizioni critiche del maschilismo dell’industria del cinema. L’Ong Ovd-info conferma il suo calcolo: 25 delle 29 persone portate alla stazione di polizia di Brateevo l’8 marzo scorso sono donne. La resistenza più organizzata contro la guerra in Russia è quella proposta dalla Far (Resistenza Femminista Contro la Guerra) un gruppo che riunisce decine di attiviste operative in 30 città russe. In un manifesto pubblicato il primo giorno del conflitto, la Far invita a protestare, a distribuire informazioni e chiama le donne del mondo intero a unirsi a loro. La Far è diversa da altre organizzazioni pacifiste come il Comitato contro la guerra, che riunisce maschi liberal bianchi con base a Londra, a Riga o a Parigi. Assai meno facoltose, con poca risonanza nei media occidentali, le militanti femministe restano per lo più anonime per evitare ritorsioni e, se alcune hanno lasciato la Russia, la gran parte rimane, affrontando la repressione. Nella giornata internazionale della donna, quando le donne in Russia come altrove ricevono fiori, la Far ha organizzato un’azione che è consistita nel deporre dei fiori e dei simboli ucraini davanti a luoghi simbolici della memoria della Grande guerra patriottica, trasformandoli in memoriali delle vittime dell’invasione. I luoghi sono stati scelti accuratamente: tra gli altri il mosaico stalinista della stazione moscovita Kyivskaya, la Stella delle vittime dell’invasione di Archangelsk. L’azione sembra modesta ma, con le nuove norme contro il vilipendio delle forze armate, per un fiore si rischia la prigione. Molte militanti erano state arrestate preventivamente. Una di loro racconta al manifesto: “Non ho la forza di descrivere nei dettagli come ho vissuto i cinque giorni di detenzione. Le forze speciali sono venute a prendermi, hanno buttato giù la porta, hanno confiscato tutto il mio materiale informatico, mi hanno portata via in manette. Ho dormito una notte in un camion. Poi in questura, fino a che i miei amici non sono riusciti a tirarmi fuori”. Nonostante questo, l’8 marzo sono state organizzate azioni in tutto il paese. E i commissariati si sono riempiti di donne arrestate. La militante Anastasia Kaluzhskaya è riuscita a registrare il suo violento interrogatorio. Anastasia è stata picchiata e umiliata, le è stato detto di essere una prostituta e una traditrice. Altre due ragazze hanno testimoniato al Mediazona journal di aver ricevuto lo stesso trattamento. La repressione non avviene solo per tramite legale. Già negli anni 1980, il Kgb si serviva di piccoli criminali per brutalizzare i dissidenti. La Russia di Putin ha inventato una versione aggiornata di questa pratica. “Un bel giorno ho trovato insulti, minacce accompagnati dal mio indirizzo di casa sul canale di estrema destra Bloodseeker” ci ha raccontato Ksenia Bezdenezhnykh, femminista di Aternativa Socialista, “poco dopo, ero dappertutto su internet”. Ksenia è una delle prime vittime della terrificante pratica della Z dipinta sulla porta di casa (vedi Il manifesto 08/03/22). “I nostri indirizzi sono noti agli uffici del Centro E (il dipartimento per il contro-terrorismo del ministero degli Interni, ndr)” dice Ksenia, e da lì vengono trasmessi agli attivisti di estrema destra che li fanno circolare nei loro ambienti politici e criminali. Da mesi, lei e i suoi compagni di Alternativa socialista vivono con la terribile pressione di essere sotto permanente minaccia.